LA SFIDA DELLA SUSSIDIARIETÀ ED IL NUOVO ASSETTO
ISTITUZIONALE∗
di
Emmanuele Francesco Maria Emanuele
(Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Roma)
Il periodo storico che si definisce “umanesimo civile”, durante il quale prese forma la
moderna economia di mercato, ha visto la nascita della figura del mecenate. La successiva
fase dell’economia di mercato capitalistica, strettamente connessa all’avvento della società
industriale, ha avuto tra i suoi protagonisti la figura del capitalista-filantropo. La transizione,
già iniziata, verso la società post-industriale sembra contemplare l’avvento di un nuovo attore:
il terzo settore, come espressione della volontà del cittadino “uti singulo” o in modalità
associata di assumersi direttamente crescenti responsabilità nell’offrire un fecondo contributo
nel dare risposta a fondamentali diritti sociali la cui tutela è messa seriamente a rischio dalle
sempre più ridotte possibilità di intervento dello Stato. La progressiva trasformazione di
quest’ultimo da assistenziale verso un sistema a responsabilità plurima ed a sviluppo locale,
nonché la modificazione degli assetti istituzionali conseguenti ai successivi interventi sulla
Carta costituzionale e, tra questi, fondamentale, il formale riconoscimento del principio di
sussidiarietà secondo il doppio profilo verticale ed orizzontale, hanno rappresentato l’alveo
entro il quale il dinamismo della cittadinanza attiva ha potuto consolidarsi, fino a divenire un
fenomeno di innegabile rilevanza.
Le due riforme del 1999 e del 2001 che sono intervenute sul Titolo V della
Costituzione hanno profondamente modificato gli assetti istituzionali a favore di un
progressivo decentramento di funzioni verso gli organi territoriali periferici, delineando un
sistema di governo multilivello in cui sparisce l’idea stessa di un centro del sistema politico
istituzionale, ed in cui le domande sociali, piuttosto che essere scaricate sul binomio
parlamento-governo, determinando il noto sovraccarico che contribuisce non poco
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Relazione tenuta al Convegno “Autonomie, cooperazione e raccordi interistituzionali nell’evoluzione del
sistema italiano”, svoltosi a Roma il 22 febbraio 2006.
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all’ingovernabilità, si affidano ad una molteplicità di livelli di governo per trovare risposte
adeguate. I raccordi tra il centro e la periferia si arricchiscono di nuovi contenuti che ora
hanno ad oggetto non solo le funzioni amministrative, ma anche quelle di indirizzo politico,
quelle legislative e quelle costituzionali. L’esempio più indicativo in proposito è l’aumento
dei poteri conferiti alle conferenze miste e la corrispondente crescita delle attività da esse
svolte. Tra i primi particolarmente significativo è l’uso delle conferenze come sede di
negoziazione e di confronto tra lo Stato ed il sistema delle autonomie circa l’interpretazione
da dare alle nuove norme costituzionali e le azioni da intraprendere, nell’ambito delle
rispettive competenze, per dare ad esse piena attuazione.
Questa tendenza verso un accentuato policentrismo dei sistemi politici appare
irreversibile e abbastanza generalizzata e tutto sommato è da ritenersi positiva. In Italia, però
questa nuova stagione di trasferimenti di funzioni amministrative andrebbe realizzata con
maggiore flessibilità e gradualità nel tempo, magari per moduli, per evitare di dare per
scontata la medesima capacità di tutti gli enti interessati di far fronte alle nuove attribuzioni.
La stessa definizione delle competenze di ciascuna sfera, quella centrale e quella locale,
andrebbe meglio definita, poiché l’attuazione della riforma costituzionale del 2001 ha dato
luogo ad un aumento esponenziale della conflittualità tra Stato e Regioni, con conseguenti
massicci interventi della Corte costituzionale.
L’ultima e più profonda riforma costituzionale del 2005, peraltro sub iudice, in quanto
sarà sottoposta a referendum approvativo, ha cercato di mettere ordine in materia, senza
tradire l’indirizzo della crescente assunzione di responsabilità amministrative e di governo
degli organismi locali, ma prevedendo al contempo una nuova procedura per la tutela
dell’interesse nazionale da parte delle istituzioni centrali, abrogando il cd. regionalismo
differenziato, costituzionalizzando la conferenza Stato-Regioni, ampliando il ricorso a
strumenti di coordinamento.
L’introduzione a livello costituzionale del principio di sussidiarietà, nelle due
accezioni, verticale e orizzontale, si inserisce, dunque, in questa stagione di rinnovamento
delle istituzioni in senso che, credo, possa definirsi federale, la cui attuazione costituisce
l’autentica sfida culturale e giuridica su cui si gioca il futuro della nostra democrazia, ed
interviene all’interno di un assetto costituzionale centrato non sullo Stato come unico
detentore della sovranità, bensì sul binomio popolo-persona, secondo un pluralismo sociale ed
istituzionale consacrato nell’art.2 Cost., che prelude ad una ripartizione di funzioni e
competenze su livelli multipli anche in senso verticale, cioè dal centro alla periferia. La
riforma dell’art.118 Cost. e l’introduzione del principio di sussidiarietà, favorito
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dall’affermarsi all’interno della Unione Europea di processi di allentamento dei vincoli statali
a favore delle realtà locali, dalla globalizzazione economica che genera la competizione, in
cui la dimensione “local” entra in rapporto con quella “global” e si costruisce quel nuovo
modello definito “glocal”, ma soprattutto dall’insostenibilità dei modelli di welfare nelle
società post-industriali, hanno semplicemente rafforzato la scelta dei padri costituenti,
ampliando al massimo la nozione di formazioni sociali, comprendendovi non solo le
organizzazioni richiamate da altre norme costituzionali (famiglia, confessioni religiose,
sindacati, partiti politici, ecc.), ma anche tutte le forme di libera aggregazione che
rappresentano quei corpi intermedi sui quali si regge l’intera vita associata.
Ciò permette di comprendere più facilmente che la sussidiarietà non è un concetto
estraneo all’evoluzione giuridica e culturale del nostro sistema istituzionale, e che essa non
sopravvive da sola, ma si inserisce in un tessuto costituzionale già predisposto ad accoglierla,
in quanto rimanda ad altri principi che ne costituiscono l’indispensabile fondamento: il
principio della pluralità delle autonomie locali; quello di leale collaborazione; soprattutto
quello di solidarietà.
Con riferimento al primo principio, si sottolinea che la sussidiarietà, concetto che ha
radici profonde che si perdono nel pensiero classico (Aristotele e Tacito), ma che è stato
sviluppato in modo moderno grazie alla dottrina sociale della Chiesa (Rerum Novarum e
Quadragesimo Anno), esprime innanzitutto il primato della persona sulla società e lo Stato,
conseguentemente tutela l’autonomia del singolo rispetto all’invadenza degli organismi
sovraordinati, ma al contempo implica l’intervento di questi ultimi nel caso di inadempienza o
incapacità dei singoli rispetto a determinati compiti. Il principio in esame, dunque,
presuppone da un lato, più livelli di organizzazione, dall’altro, una molteplicità di soggetti ed
una quantità di relazioni potenzialmente infinita.
Con il principio di leale collaborazione viene in evidenza la questione della
ripartizione delle competenze tra i diversi livelli di governo, il coinvolgimento nell’azione
amministrativa dei singoli e dei gruppi sociali, e la definizione di un modello decentrato di
amministrazione pubblica, caratterizzato dall’allargamento degli istituiti di democrazia
diretta. Accanto alle tradizionali forme di rappresentanza politica, il legislatore ha inteso
favorire attività di interesse generale poste in essere da cittadini singoli e associati, inserendo
così tra i principi costituzionali anche la loro diretta assunzione di responsabilità, che va ben
oltre la mera partecipazione.
Il principio di solidarietà, infine, nella dottrina sociale cristiana è correttamente
ritenuto complementare a quello di sussidiarietà, tanto che si afferma che la solidarietà senza
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sussidiarietà può degenerare in assistenzialismo, mentre la seconda senza la prima rischia di
alimentare forme di localismo egoistico. Questa impostazione è stata ritenuta compatibile con
il nostro sistema istituzionale, e coerente con l’obiettivo del legislatore che, nell’offrire rango
costituzionale al principio di sussidiarietà, sembra voler favorire una relazione di aperta e
sinergica collaborazione tra i singoli cittadini, le realtà associative intermedie ed i vari livelli
dell’ordinamento istituzionale, riconoscendo implicitamente che le attività di interesse
generale realizzate dalla società civile preesistono alle stesse riforme costituzionali.
Le due accezioni del principio in esame producono conseguenze diverse sotto il
profilo giuridico ed economico. La sussidiarietà verticale conduce all’affermazione di un
sistema istituzionale decentrato ed all’ampliamento degli strumenti di democrazia diretta e
partecipativa, per cui sussidiarietà, regionalismo e democrazia partecipativa convergono verso
una comune direttrice.
La sussidiarietà orizzontale, invece, porta alla liberalizzazione delle attività
economiche, alla riduzione della presenza dello Stato dall’economia, alle privatizzazioni ed
alla deregolamentazione amministrativa. Questa accezione, però, non può essere circoscritta
ad una sorta di delega di competenze dalle istituzioni ai cittadini, ma va arricchita
sottolineando il ruolo di impulso implicito verso questa devoluzione, cosa che a sua volta
postula che la sussidiarietà orizzontale sia una manifestazione peculiare della democrazia
partecipativa.
In sostanza, la dimensione verticale e quella orizzontale si rivelano intimamente
congiunte ed inseparabili, componibili in un unico disegno piramidale di competenze che
parte dai singoli cittadini, e si sviluppa da un lato, agli aggregati sociali di primo livello e
legati al territorio, per arrivare, dall’altro, a quelli più complessi su base nazionale ed europea.
Di più, la sussidiarietà verticale appare come propedeutica rispetto a quella
orizzontale, poiché mentre la prima è affine al principio autonomistico sancito dall’art.5 Cost.,
la seconda comporta un maggiore impatto sull’ordinamento costituzionale, che non può
realizzarsi se prima non si è attuata quella verticale, cioè l’effettivo svolgimento di funzioni
amministrative da parte degli enti locali territoriali.
Un significativo riferimento alla sussidiarietà nella sua accezione orizzontale è
contenuto nelle due note sentenze della Corte costituzionale nn. 300 e 301 del 2003, in tema
di fondazioni ex bancarie. Nella seconda sentenza, in particolare, la Consulta ha ritenuto
irragionevole la presenza di una esclusiva rappresentanza degli enti locali negli organi di
indirizzo delle fondazioni, “senza ricomprendervi quelle diverse realtà locali, pubbliche e
private, radicate sul territorio ed espressive, per tradizione storica, connessa anche all’origine
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delle singole fondazioni, di interessi meritevoli di essere «rappresentati» nell’organo di
indirizzo”. Viene in tal modo superato il rischio – prosegue la Corte – “di trasformare le
fondazioni in enti collaterali e serventi, o strumentali, di quelli territoriali”. Con questa
affermazione risulta tutelato un tipo di autonomia che non coincide con quella territoriale e
che infatti vuole contrapporsi alla “pubblicizzazione” tout court dell’attività delle fondazioni.
Così, nella prospettiva della sussidiarietà orizzontale, l’interesse della pronuncia è dato dal
rilievo riconosciuto all’origine e alla tradizione storica delle fondazioni ex bancarie, al loro
collegamento con realtà locali non necessariamente coincidenti, ed anzi talvolta in conflitto
tra loro, con Comuni, Province e Regioni. In pratica, la Corte riconosce l’esistenza di attività
di interesse generale poste in essere da soggetti non pubblici, secondo la configurazione di cui
all’art. 118, ult. comma, Cost.
Nel caso delle due pronunce del 2003 la Corte costituzionale ha rappresentato il più
autorevole baluardo a difesa dell’autonomia di quelle realtà intermedie, tra le quali rientrano
le fondazioni ex bancarie, definite soggetti organizzatori delle libertà sociali, ove si realizza la
libertà di associazione anch’essa costituzionalmente tutelata. Ritengo che la storia
istituzionale del nostro Paese sarebbe stata assai diversa se fosse andato a buon fine il
tentativo di imporre il sigillo governativo sulla governance e sull’attività delle fondazioni di
origine bancaria.
La valorizzazione delle comunità territoriali locali e delle corrispondenti istituzioni
rappresentative, avvenuta attraverso il processo di riforma costituzionale ancora in atto, offre
il massimo riconoscimento giuridico ad un altro processo che è anche culturale, rappresentato
dall’evidenza del fenomeno consistente nella determinazione di un sempre maggior numero di
persone di volersi far carico direttamente della responsabilità di contribuire a garantire la
copertura dei basilari diritti sociali secondo criteri di economicità e di efficienza laddove
l’iniziativa pubblica o il mercato sono latitanti. In altre parole, si tratta della presa d’atto della
crescente rilevanza assunta dal mondo del terzo settore, cioè da quella galassia di strutture di
diversa forma giuridica, ma ugualmente scaturenti dal fenomeno associativo, che sempre di
più si sta imponendo come una risorsa determinante per trovare il bandolo destinato a
superare la grave crisi del welfare.
Il terzo settore, infatti, costituisce un patrimonio rilevante di potenzialità nella
produzione di beni e servizi di interesse collettivo, spesso realizzati con formule innovative, a
minori costi, con meno burocrazia, con l’effetto di un positivo avanzamento delle frontiere
dell’inclusione sociale, con rilevanti ricadute a livello occupazionale e con maggiore
partecipazione dei cittadini alle scelte delle politiche pubbliche. Potenzialità che sarebbero
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valorizzate al massimo se si costruisse intorno a queste realtà una rete di sinergie operative
con le imprese private e soprattutto con la sfera istituzionale ai diversi livelli, fatta di
innovative modalità di integrazione e collaborazione con la dimensione pubblica, di pari
passo con un più solido e definito ruolo dell’amministrazione centrale sui piani della
programmazione, del monitoraggio delle regole e dell’erogazione delle risorse.
Se si è d’accordo sul fatto che il futuro welfare deve declinarsi con sviluppo locale,
con qualità alta delle relazioni umane, con crescita sostenibile e con la cultura della bellezza
come paradigma per ripensare il territorio, bisogna far sì che il terzo settore possa contribuire
a questo progetto in libertà ed autonomia, e sia opportunamente sostenuto con strumenti
giuridici ed economici. Tra i primi credo debba senza dubbio rientrare la riforma della
disciplina delle persone giuridiche ferma a quella codicistica del 1942. Tra i secondi, una
maggiore attenzione da parte dell’esecutivo a destinare al settore adeguati investimenti,
perché di questi si tratta, e non di spese sociali che non considerano le infrastrutture
immateriali che investono sui legami interpersonali, sull’inclusione e le pari opportunità; ed
inoltre, il superamento di una politica fiscale ancora assai sospettosa verso il mondo della
solidarietà organizzata.
E tuttavia, l’attuazione del principio di sussidiarietà col contributo del non profit
dovrebbe forse arrivare più che sul piano legislativo, su quello economico-culturale. Il terzo
settore dovrebbe superare la logica secondo cui il vincolo di non distribuzione degli utili
attribuisce automaticamente la patente di socialità e di benemerenza, per compattarsi in un
universo più organico e più attento alla sua capacità di durare e svilupparsi. D’altra parte,
occorre evitare il rischio della “professionalizzazione” del terzo settore, per cui esso sarebbe
votato esclusivamente al ruolo di ruota di scorta del pubblico e del mercato, per indirizzare gli
sforzi, invece, verso una più proficua cooperazione ed interazione con il primo ed il secondo
settore, giacché in questo risiede la vera essenza del concetto di sussidiarietà. In questo senso,
la risposta corretta starebbe, dunque, in una nuova concezione dei rapporti tra le istituzioni
centrali e periferiche e l’associazionismo sociale, in cui la sussidiarietà orizzontale trovi
compiuta configurazione e non implichi solo la retrocessione del pubblico da determinati
ambiti, ma coniughi l’auspicata liberalizzazione con regole precise, grazie alle quali l’azione
del privato operatore, “uti singulo” o in gruppo, si svolga in via propulsiva e sostitutiva, fino a
rappresentare una delle più efficaci manifestazioni della democrazia partecipativa, per ora
solo abbozzata dal legislatore costituente.
Perché si realizzi l’ambizioso ma necessario obiettivo, che è sì di carattere politico ed
economico, ma anche e soprattutto culturale, è necessario che la sfera pubblica in tutte le sue
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articolazioni si spogli del retaggio interventista e statalista che per troppo tempo ha
contraddistinto la sua azione, e lasci maggiori spazi di autonomia e libertà ad ogni espressione
di impegno civile che nasce e si realizza dal basso, anche attraverso formule innovative, che
prendono forma proprio per dare slancio a quelle sinergie tra il pubblico ed il privato, in grado
di rappresentare un dinamico volano di iniziative di alto valore sociale e con significative
ricadute sul territorio. Penso, a questo proposito, alle fondazioni aperte, modello giuridico
atipico che rappresenta una sintesi dell’elemento personale proprio delle associazioni, e di
quello patrimoniale caratteristico delle fondazioni, derivato da esperienze quali il trust
anglosassone e le fondazioni museali olandesi, e volto appunto a favorire la collaborazione
stabile tra soggetti pubblici e privati per fini condivisi di utilità collettiva. Si tratta di una
formula positivamente sperimentata nel nostro ordinamento in ambito museale ed
accademico, in grado di favorire le sinergie pubblico-privato e l’acquisizione di risorse
aggiuntive per la realizzazione dell’obiettivo originario dei fondatori o di progetti nuovi
compatibili con esso.
La Fondazione Cassa di Risparmio di Roma durante il mio mandato di Presidente ha
utilizzato per prima proprio questo strumento per dare vita ai propri progetti di intervento che
ormai la identificano nel mondo del non profit operante nella Capitale e nel Lazio, esperienza
che ha permesso di unire il patrimonio di conoscenze e di risorse progettuali ed economiche
della Fondazione con il know how messo a disposizione da realtà che quotidianamente vivono
in quegli ambiti di prima linea, dove si percepisce il bisogno e si elaborano le risposte.
In questa esperienza, tuttavia, non possiamo nascondere le difficoltà incontrate nel
realizzare nuove forme di collaborazione proprio con quelle realtà istituzionali locali
pubbliche che più dovrebbero essere disponibili e collaborative, e che viceversa, manifestano
ancora resistenze ad aprirsi al mondo dell’associazionismo sociale. In particolare, nei
confronti delle fondazioni ex bancarie si registra da parte di una significativa porzione del
mondo politico, a livello centrale ed a livello locale, l’atteggiamento di chi vede in esse
soltanto un bacino di risorse economiche da utilizzare per fini ed iniziative proprie della
amministrazioni centrali e periferiche, onde supplire alla ben nota carenza di mezzi finanziarie
da destinare alla garanzia ed alla tutela dei diritti sociali principali e delle emergenze del
territorio, e non anche un partner con pari dignità, in grado di esprimere un supporto non solo
economico, ma anche progettuale e strategico. Le fondazioni di origine bancaria, infatti, sono
senza ombra di dubbio tra le poche realtà in Italia amministrate in modo trasparente ed
efficiente, come dimostrato dai risultati eccellenti in termini di redditività, con una tradizione
ed una vocazione filantropica invidiabili, fortemente radicate nel tessuto sociale locale, in
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grado di dare vita ad interventi di assoluta rilevanza ed efficacia, e con alle spalle il conforto
dei propri stakeholders, che hanno imparato col tempo ed attraverso i fatti a conoscere la
solidarietà attiva e concreta di questi enti. In poche parole, esattamente quello che una
amministrazione pubblica locale dovrebbe incarnare.
Le recenti riforme costituzionali tese ad affidare crescenti responsabilità alle
articolazioni pubbliche locali ed alle autonomie private non garantiscono, dunque,
automaticamente la realizzazione nei fatti degli indirizzi del legislatore e delle aspettative del
mondo della solidarietà e della sussidiarietà. Non sono, cioè, baluardo sufficiente affinché allo
statalismo del governo centrale non si sostituiscano pretese egemoniche parimenti, se non
maggiormente, nocive delle realtà pubbliche locali. A noi autorevoli rappresentanti di quelle
autonomie funzionali espressione di una moderna democrazia partecipativa il compito di
vigilare, e di educare, trasmettendo con le opere il forte insegnamento che una società più
efficiente e solidale è possibile con il leale e generoso contributo di tutti.
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