17 ottobre 2013 — 26 gennaio 2014 Milano, Palazzo Reale — Sala delle Cariatidi “Verissima manus” di Aline Magnien Nel 1908 il professor John Marshall vanta in questi termini a Edward Robinson, vicedirettore del Metropolitan Museum di New York, i marmi dell’atelier di Meudon di cui gli propone l’acquisto: “Buoni esempi di lavoro su marmo di sua mano1 — penso al modellato evanescente applicato ai soggetti ‘poetici’”2, spiega, sottolineando che la “mano”, come lui la concepisce, non indica che il maestro abbia realizzato di persona le opere, ma che queste appartengono pienamente al suo stile. Cita Paolo e Francesca, la Grande bagnante, gli Anemoni, Musset e la sua musa, Adamo ed Eva (cat. 3.1) e il Sogno di Saffo. Il Metropolitan, infatti, in quegli anni costituisce la sua magnifica collezione di marmi di Rodin3; i doni generosi di T. Fortune Ryan, tra cui il bellissimo gruppo di Orfeo ed Euridice, permettono di creare la galleria Rodin4. Marshall pensa anche ad altre opere: a proposito di Tritone e Nereide, allora in corso di realizzazione e che non sarà mai veramente finita, Rodin gli scrive: “Tritone e Nereide è ancora da iniziare; sono certo che, se ben realizzata, sarà bellissima e confido in una buona esecuzione; tutto sarà studiato tra voi e da me, e così sarà ragionato”5. Se la mano dello scultore è fondamentale per i suoi interlocutori, è evidente come Rodin tenga separate le cose: da una parte l’ideazione e il modello, di cui si assume la piena responsabilità, dall’altra l’esecuzione, apertamente delegata e alla quale non esita a far partecipare il committente, a cui lascia talvolta scegliere il titolo che preferisce6. La mano qui è un punto cruciale perché il ruolo — reale o fantasticato — che Rodin svolge o meno nel realizzare i suoi marmi è al centro della valorizzazione o, al contrario, della critica alle sue opere nel corso del XX secolo. L’osservazione di Marshall dimostra tuttavia la complessità della questione ed è proprio questa la storia che vogliamo tratteggiare brevemente. La fine del XIX secolo Il primo marmo che Rodin presenta al Salon nel 1875 è L’uomo dal naso rotto (cat. 1.1). Fin da quest’epoca Rodin ricorre alla competenza di Léon Fourquet, antico compagno di gioventù7. Una certa imprecisione, l’accentuata rigidità e frontalità dell’opera ricordano che Rodin non era molto soddisfatto del risultato ed è possibile che sul marmo sia stata effettuata una correzione a posteriori. Resta il fatto che forse l’aspetto antichizzante del busto — se confrontato con la posizione leggermente piegata del bronzo — e il suo aspetto convenzionale sono da imputare allo sbozzatore. Tuttavia, né da parte dei visitatori né dei corrispondenti dell’epoca, viene espressa alcuna riserva per il fatto che l’opera presentata al Salon, luogo e contesto in cui si presume che gli artisti dimostrino le proprie competenze concettuali ma anche la propria abilità tecnica, sia stata di fatto creata da un’altra mano. Saggio da catalogo Nei decenni successivi Rodin presenta una serie di marmi realizzati dagli sbozzatori, come Andromeda (cat. 1.11), alla galleria Georges Petit8, o la Danaide (cat. 1.12), realizzata da Jean Escoula, esposta nello stesso luogo nel 1889. La questione della loro paternità non viene sollevata in nessun momento. Albert Sintelusse, nel resoconto dell’esposizione “Monet-Rodin”, evoca il passato di sbozzatore di Rodin per spiegare il suo modo di lavorare: l’artista deve “a questa lunga abitudine di sgrossare il marmo e di lasciarlo incompiuto” uno stile ampio, lontano dalle “minuzie e particolari delle statuette soprammobili”, e aggiunge: “È tale la sua paura di dare alle opere un aspetto troppo finito da avere addirittura la civetteria di lasciare informe la base stessa del blocco dal quale ha fatto nascere un ritratto vivente”9. Niente nel percorso di Rodin fa pensare che lui sia stato sbozzatore, nel significato che Sintelusse attribuisce a questo termine, e che è lo stesso del Grand Dictionnaire universel du dix-neuvième siècle di Pierre Larousse (voce “Praticien”): “Lo sbozzatore è l’artigiano o l’artista — perché è al tempo stesso l’uno e l’altro — incaricato della definizione e dell’abbozzo delle opere di scultura. È l’uomo che conosce le risorse della pratica, che esegue la parte materiale, quasi esclusivamente manuale dell’arte, mentre lo scultore propriamente detto, l’artista, si limita nella maggior parte dei casi a eseguire modelli in creta e a terminare l’abbozzo fatto dallo sbozzatore e che, a volte, è molto avanzato e richiede solo qualche ritocco, cioè, come si dice nel gergo dell’atelier, ‘l’ultima mano’”. Sembra infatti che, fin dall’atelier di Albert-Ernest Carrier-Belleuse, sia il talento di modellatore a essere apprezzato in Rodin10. Per quanto riguarda invece quello che diventerà quasi il suo marchio di fabbrica, cioè il fatto di lasciare volutamente appena abbozzata una parte dell’opera, giocando così sull’evocazione, le prime manifestazioni si osservano nel 1888, nel ritratto di Madame Morla-Vicuña. Risale a quegli anni il giudizio di Alfred Lichtwark riportato da Frederic V. Grunfeld: “È diventato di moda e vende dozzine di questi soggetti isolati presi dalla Porta ed eseguiti in marmo … se andate da un giovane scultore conosciuto per essere un intagliatore capace e sensibile lo troverete di sicuro al lavoro su queste figure”11. A cavallo del secolo Negli ultimi anni del secolo e intorno al 1900, nel momento in cui Rodin inizia a riscuotere molto successo, l’elevato numero di marmi prodotti attira l’attenzione dei critici. Soprattutto però è cambiato il contesto estetico12. Gli attacchi provengono in gran parte da Léon Gauchez: benché molto legato a Rodin, Gauchez, fondatore della rivista “L’Art”, a partire dalla fine del XIX secolo intensifica con lo pseudonimo di Paul Leroi le critiche nei confronti dello scultore13. Nel suo articolo Salons de 1901, ce qu’il faut y voir: la “Décadence”, tesse un elogio vibrante del marmo Verso l’amore di Jean Escoula14 ed evoca Rodin come il “Dio squilibrato del luogo”, il cui “crollo è totale”15. Lo scultore è probabilmente preso di mira in queste parole: “Molti scultori, più celebri che dotati di talento, si affrettarono a diventare suoi clienti assidui; alcuni tra loro, completamente incapaci di affrontare il marmo, spinsero la sfacciataggine fino a consegnare a M. Escoula schizzi informi; costui, prendendoli a modello, realizzò in realtà vere opere che quegli incapaci firmarono senza vergogna solo con il loro nome”16. Nel 1903 Paul Leroi rinnova i suoi attacchi stigmatizzando “la crassa ignoranza di M. Auguste Rodin che chiama Danaide una donna accovacciata, con le natiche all’aria e la faccia invisibile, tanto sembra sprofondata nella base di questo pseudo-capolavoro marmoreo abbondantemente sfruttato dal suo autore, il che non ha impedito al musée du Luxembourg e al musée de l’État di Bruxelles di acquista- Saggio da catalogo re ingenuamente l’uno e l’altro dei troppi esemplari di questo pezzo, semplice prodotto indifferente di uno degli sbozzatori irreggimentati da M. Rodin, che non ha mai saputo lavorare il marmo, come testimoniano due dei nostri principali scultori, Jean Escoula e Victor Peter, da lui troppo a lungo sfruttati a causa della loro totale mancanza di denaro”17. L’accusa di non saper scolpire il marmo e di far realizzare le opere dagli sbozzatori invade poco a poco il campo della critica, man mano che la separazione tradizionale tra creazione e pratica non è più ammessa e che vengono formulate nuove esigenze di “verità” e “autenticità” nell’arte, opposte a quella che è vista sempre più come una menzogna o addirittura una truffa. Hildebrand, i processi del 1919 Gli ultimi anni dello scultore vedono infatti il proliferare dei marmi. Rodin, diventato molto famoso dopo il 1900 e consacrato come uno dei più grandi scultori del suo tempo, addirittura di tutti i tempi, Michelangelo a parte, deve far fronte a una notevole quantità di ordini. Si diffondono ritratti e opere mitologiche. Se Daniel Rosenfeld valutava la produzione di Rodin in 300 marmi circa18, la schedatura eseguita dal museo in occasione dell’esposizione dimostra invece che la cifra esatta si avvicina a 40019. Oltre agli ordini che vengono da fuori, Rodin ha infatti deciso di trasporre in marmo alcune opere da destinare al futuro museo, il cui progetto si delinea molto presto nel XX secolo. È da notare che l’unicità dell’opera, in un materiale cui spesso l’idea di unicità è associata, qui non è la norma. L’incremento del numero di marmi provoca critiche e domande, come testimonia la lettera a Judith Cladel che riporta l’indirizzo “Usine Rodin”20. Tuttavia — e l’argomento è stato usato in maniera certamente speciosa ma rivelatrice da parte dei falsari interrogati durante i processi del 1919 — la riproducibilità è rivendicata in nome della diffusione e dell’accesso all’opera per il maggior numero di persone, contro, nella fattispecie, il maltusianismo attribuito a Léonce Bénédite: “Credete che sia più colpevole per aver realizzato una riproduzione dell’Eva di Rodin piuttosto che per averla a lungo — se la volontà di M. Bénédite fosse stata integralmente eseguita — nascosta, sottratta al pubblico, che ha il diritto di vedere, di inebriarsi di questo capolavoro che fino ad allora quasi nessuno conosceva?”21. Il XIX è il secolo della riproducibilità nell’arte, quello in cui il contenuto e l’idea sono valorizzati a discapito del materiale: poco importa che la Venere di Milo sia riprodotta in metallo, in biscuit o in cromolitografia, purché si possa accedere facilmente alla sua immagine e ai valori di cui è portatrice. In parallelo, come quasi sempre, i marmi sono considerati a modo loro unici: “Un marmo non è, e non può essere, la riproduzione esatta dell’originale stesso, qualunque sia il mezzo meccanico utilizzato”, dichiara il sostituto Chartron nella sua requisitoria ai processo per i falsi Rodin nel 1919 e aggiunge: “La riproduzione in marmo è, almeno in una certa misura, un’interpretazione”22. Rodin stesso, a questo proposito, parlava di “traduzione”. Ma all’epoca non è tanto l’abbondanza a nuocere alla valutazione dei marmi, quanto l’accusa di inganno, a causa degli effetti che produce. È soprattutto l’argomento dello scultore tedesco Adolf von Hildebrand: a suo avviso Rodin impiega mezzi che costituiscono altrettanti procedimenti destinati a indurre in errore lo spettatore; le tracce che lascia sulle sue opere non corrispondono ad alcun processo di intaglio “naturale”, e provano Saggio da catalogo quindi che Rodin non ha mai scolpito personalmente il marmo; sono artificiali e prive di significato23, cosa che Hildebrand condanna, collegando questo procedimento all’Arte per l’Arte. Secondo lui, Rodin dà sempre un’impressione di libertà, ma falsa: “I suoi marmi sono fumisterie che si fondano su un linguaggio ingannatore”24. Il processo del 1919 non cancellerà l’immagine di una produzione sfrenata, realizzata dagli atelier senza un vero e proprio controllo da parte del maestro. Si assiste infatti alla sfilata di ex sbozzatori di Rodin o di veri falsari che, più o meno in buona fede, sembrano non capire perché venga loro rimproverato di aver continuato a fare ciò che facevano già quando l’artista era vivo25. Il periodo tra le due guerre Dopo la Prima guerra mondiale i collezionisti, in particolare quelli oltreoceano, sono sempre interessati ai marmi dell’artista. Tuttavia il dubbio si insinua, perché ciò che viene perseguito è una “autenticità” più o meno illusoria, vale a dire un intervento diretto di Rodin. Il 3 dicembre 1918, nel corso della vendita di una versione di Il sonno alla galleria Georges Petit, il catalogo annuncia “un’opera fra le più notevoli del maestro e della quale è qui l’unica esecuzione in marmo”. Firmata sul retro “A ma muse. A. Rodin”26. Paul Gsell cerca di giustificare il metodo di lavoro: “Rodin, l’abbiamo detto, metteva raramente mano ai suoi marmi, ma attraverso il controllo incessante li eseguiva realmente in prima persona”27. Come dimostra nel 1919 l’articolo di Gustave Kahn Les Tailleurs de pierre: André Abbal et Paul Dardé, questo è il momento dell’esaltazione dell’intaglio diretto. “Non è forse bello il fatto che l’artista realizzi tutta la sua opera, che il blocco di pietra o di marmo portato nel suo studio, questo blocco informe, riceva la vita estetica dal suo mazzuolo e dalla sua punta?”28. L’argomento è ripreso negli anni trenta e Frank H. Gearing nel 1931 scrive queste parole alla vedova di Jules Mastbaum, per venderle un busto di Rochefort e un grande Bacio: “L’autenticità delle opere può essere provata attraverso documenti e lettere, alcuni dei quali di pugno di Rodin. Il busto di Rochefort era uno dei preferiti di Rodin, che ne completò personalmente un lato. Il professor Marshall dichiara in una lettera a Mr Warren: ‘Il lavoro è certamente di Rodin perché me lo ha detto’”29. Ci troviamo di fronte allo stesso tentativo di stabilire una filiazione diretta nella corrispondenza di Martin Birnbaum — che acquistava in Europa per conto del collezionista Grenville L. Winthrop — a proposito del marmo dell’Idolo eterno, come testimonia la lettera inviata il 4 agosto 1939 da Londra, dove Birnbaum tratta i diversi acquisti: “Il grande marmo di Rodin, considerato l’unico interamente scolpito dal maestro in persona, è stato fotografato, vi porto le foto per farvelo vedere. Sir Edmund ha lasciato disposizioni di non venderlo a un mercante”30. Saggio da catalogo Gli anni 1950-1970 Gli anni cinquanta del Novecento vedono una riscoperta dell’opera di Rodin, ma non si tratta più dello stesso artista: si scopre, o riscopre, il modellatore, “colui che impasta la terra”31. L’importanza del materiale nell’arte implica un rapporto diretto con il creatore e per il marmo, come sappiamo, non è il caso di Rodin32. Negli anni sessanta del Novecento è particolarmente apprezzata anche la figura parziale, o addirittura frammentaria. Come affermava Henry Moore, Rodin ha aperto gli occhi agli artisti sul frammento, lo schizzo, l’accidente33. Si studiano i gessi, le membra, e il Rodin troppo sentimentale delle figure completate viene allora lasciato al grande pubblico. Rodin, che in certe opere utilizza la tecnica dell’assemblaggio o della combinazione, raramente trascrive nel marmo una figura frammentaria o parziale — tranne che in Il pensiero, La cattedrale o Il segreto — dato che il lavoro dello sbozzatore è proprio quello di dare unità alla composizione. Eppure sono severe le critiche dell’epoca relative a questa parte del suo lavoro su un materiale troppo legato alla tradizione classica, che in quegli anni gli artisti utilizzano poco. Alla domanda della giornalista Rosamond Bernier: “Pensa che le sculture in marmo di Rodin siano molto distanti dalla sensibilità odierna?”, Moore risponde: “Non posso davvero guardarle con piacere. In un modo o nell’altro, nelle sue sculture in marmo Rodin è svantaggiato dai riflessi vittoriani … dalla sentimentalità vittoriana”34. Nello stesso articolo ribadisce la critica ai marmi, sottolineando il ruolo eccessivo dell’atelier, l’“imbroglio”: “Credo che forse in certi casi Rodin abbia realizzato un modello completo e poi l’abbia inviato agli scultori, dicendo loro di fermarsi quando fossero arrivati a un certo punto e di lasciare il soggetto ancora sprofondato nel marmo”. Seguendo Hildebrand, Moore denuncia qui la falsità del procedimento e il suo carattere artificiale35. Per lo scultore inglese William Tucker36, “Benché Rodin dichiarasse di ‘produrre lentamente’ … dal suo atelier usciva un gran numero di opere, tra cui pezzi consistenti e fisicamente ambiziosi, volgari, facili, non finiti e che blandivano proprio quello stile da salotti mondani che lui aveva esplicitamente sfidato con L’Età del Bronzo. Questa critica può applicarsi a quasi tutti i marmi, compresi alcuni mostri sacri come L’eterna primavera (1884), L’idolo eterno (1889), Il bacio (1882). Non sorprende che in questa categoria si possano trovare le sculture più famose di Rodin”37. Da parte sua Leo Steinberg, volendo restituire il giusto valore al lavoro di Rodin, sostiene: “Per cominciare, salviamo i famosi marmi e pietre. Apponendovi la sua firma, il maestro se ne assume la responsabilità legale e naturalmente morale, perché è lui che li ordina, ne sorveglia l’esecuzione e ne autorizza la vendita. Ciò non toglie che non li ha fatti con le sue mani. Marmi come La cattedrale, La mano di Dio, L’idolo eterno … sono solo riproduzioni edulcorate dovute ai suoi assistenti”38. Tuttavia va sottolineata un’intuizione che evidenzia il significato del materiale in sé nelle opere tardive dell’artista. Ricordando l’importanza dei ritratti in cui si manifesta il gusto della carne in Rodin, Steinberg precisa: “In queste sculture le definizioni sono leggermente sfumate, velate, come a suggerire qualcosa che si vede attraverso la nebbia. Dato che questi busti hanno la pretesa di essere ritratti, la lavorazione conferisce ai modelli un carattere lontano e pensoso. Resta la sensazione che qui il vero obiettivo sia rivelare l’affinità del marmo bianco con la luce, in modo che anche nei piani obliqui le ombre sembrino scivolare dalle superfici, troppo lisce per trattenerle. Il marmo sembra il vero oggetto di queste sculture, come la cera lo era per le precedenti”39. È proprio questa prospettiva che permette di rivalutare i marmi di Rodin. Saggio da catalogo Verso la riabilitazione Il lavoro di Daniel Rosenfeld, a partire dalla metà degli anni settanta del Novecento, e l’esposizione organizzata da Nicole Barbier al musée Rodin nel 1987 hanno iniziato a rivedere il lavoro di Rodin sul marmo40. Nel 1984 l’ex direttrice del museo Monique Laurent segnalava: “L’ingresso in ambito pubblico dell’opera di Rodin suscita una certa riserva da parte dei collezionisti nei confronti dei bronzi delle opere conosciute … e provoca un ritorno di interesse per i marmi”41. Questa visione si coglie già nel 1976 in una lettera di Rosenfeld, a proposito dei Geni cattivi42: “Tuttavia Rodin sorvegliava scrupolosamente l’esecuzione di queste opere, proponendo modifiche in corso d’opera e spesso terminando il lavoro in prima persona. A questo proposito, in qualità di maestro, sorvegliava più l’intaglio delle statue in marmo, effettuato nell’atelier, che la fusione e la cesellatura dei bronzi, che erano inviati a fonditori specifici e non ritornavano finché non erano completati”43. Rosenfeld riprende alcuni argomenti giù utilizzati: non ci sono due marmi esattamente uguali, e questa differenza viene dal maestro, e non dalle mani che li hanno realizzati. Nello stesso tempo la storiografia è cambiata. Come dimostra Michael Cole nel suo saggio bibliografico The Cult of Materials44, mentre alla fine degli anni settanta del Novecento Rudolph Wittkower parlava ancora dei procedimenti e dei principi della scultura45, nel 1993 Nicholas Penny pubblicava The Materials of Sculpture46. Durante gli ultimi vent’anni la ricerca in storia dell’arte si è infatti decisamente orientata verso i materiali, e gli storici dell’arte sono più sensibili alla mitologia che ispira le teorie sul loro utilizzo47. È evidente la rinuncia alla metafisica occidentale che separa forma e materia: “In nessun momento la forma — che si muove e si trasforma — si separa dalla materia che si muove e trasforma con essa. In ogni momento la forma si crea, come un organismo, o si addensa come il sangue che si coagula”48. Questa immagine organica, il cui vitalismo latente si esprime qui, non è nuova. Il movimento che fa emergere la forma, evocato da La conchiglia e la perla (cat. 2.9) e La convalescente (cat. 2.3), ma anche in un certo senso dal ritratto di Marie Fenaille (cat. 3.20) o di Pierre Puvis de Chavannes (cat. 3.19), permette di stabilire un legame con l’Art nouveau; il biologico, nella sua forma vegetale, non è solo un motivo ornamentale ma una modalità di realizzazione, caratterizzata dalla spinta dall’interno verso l’esterno. Pensiamo alle parole dello scultore Simon Constant49, con cui Rodin ha lavorato, o di Rodin stesso50: creare come la natura è creare come le piante, per sviluppo interno, o come le conchiglie, per secrezione. In questa fine di secolo, il tema della crescita metamorfica invade la Francia e Roger Marx, che divulga il lavoro di Rodin in tema di arte decorativa è anche il promotore di un’“arte decorativa organica”51. Debora Silverman, come prima Mario Praz, sottolinea il legame tra Art nouveau e rococò52, ma si possono evocare le teste scolpite che emergono dalla pietra, come se emanassero da essa: Rose Beuret (cat. 2.5), L’Aurora (cat. 2.2), l’intreccio delle Oceanidi (cat. 2.16), detto anche La morte di Adone. La donna-pesce (cat. 3.22), o la Centauressa testimoniano la stessa ibridazione di regni e di specie. Paul Valéry teorizza un po’ più tardi questa concezione della produzione artistica scrivendo: “Un cristallo, un fiore, una conchiglia emergono dal consueto disordine dell’insieme delle cose sensibili” e ci offrono “stranamente unite, le idee di ordine e di fantasia, di invenzione e di necessità, Saggio da catalogo di legge e di eccezione; nella loro forma troviamo, da una parte, la parvenza di un’intenzione e di un’azione che le avrebbe plasmate al modo in cui sanno farlo gli umani e, dall’altra, l’evidenza di processi a noi vietati e impenetrabili”53. “Possiamo imitare queste forme singolari” prosegue Valéry, “ma non comprendiamo la loro formazione”. La questione del “fare” suscita l’interrogativo: l’uomo può decidere di imitare la conchiglia e di modellarla, ma le sue azioni successive si organizzano in un’azione “composita e sostenuta”, volontaria; la modalità con cui nasce la conchiglia, nella misura in cui è fondamentalmente distinta da ogni produzione umana, è che “emana da un mollusco” e che questo la fa trasudare dai suoi pori sotto l’impulso di una necessità assoluta54. La mente umana fatica a raffigurarsi davvero questo sistema di elaborazione: “I nostri artisti non traggono certo dalla loro sostanza la materia delle loro opere e ottengono la forma che perseguono solo attraverso una particolare applicazione del loro spirito, completamente separabile dal loro essere. Forse, quel che chiamiamo la perfezione nell’arte (che non è ricercata da tutti e che più d’uno disdegna) non è che il desiderio di trovare, in un’opera dell’uomo, questa certezza di esecuzione, quella necessità d’origine interna e quel legame indissolubile e reciproco della figura con la materia che la più piccola conchiglia mi mostra?”55. Possiamo pensare che Rodin abbia fatto sua questa ricerca; la sua emozione davanti ai fiori, le conchiglie, la Natura, che ritrova nell’antico e che lo porta a fondere le due cose, come negli assemblaggi o, in una forma più comune, nella Morte di Adone (cat. 2.16) o Giochi di ninfe (cat. 2.12), lo avvicina alla fantasticheria creatrice evocata da Valéry. Molti artisti del XX secolo si inscrivono in questo movimento, Jean Arp, Henry Moore, Jean Dubuffet o anche Paul Klee, in un procedimento filosofico ed estetico insieme che conduce a privilegiare il materiale. Nell’immediato dopoguerra, anche un movimento importante come il Bauhaus parte dal materiale come guida. Come scriveva Josef Albers: “Ogni forma di arte nasce da un materiale, quindi per prima cosa vediamo cosa il nostro materiale può fare”56. Georges Didi-Huberman evoca così i disegni di Victor Hugo: “È lo stesso inchiostro a essere utilizzato da un lato con la punta della penna per liberare ciò che vediamo — nel nostro esempio un battello — e dall’altro con le sbavature della stessa penna (o con un pennello) per far scomparire tutto in questa specie di turbolenza fluida o di tempesta generalizzata. Insomma l’inchiostro è qui uno spazio di immanenza che riunisce la forma con ciò che è informe, con la materia, con il contenuto, con il simbolo e con tutto ciò che troveremo ancora in questi disegni”57. Molti disegni di Rodin58 appartenenti a diversi periodi si basano su questo principio: l’inchiostro e l’acquerello costituiscono il contesto dell’immanenza, ma, in certi casi e soprattutto verso la fine della carriera dello scultore, la stessa cosa avviene per il marmo59. Il tema di Rodin e del marmo fa nascere quasi automaticamente quello della “autenticità” e della “originalità”. Dalle analisi di Rosalind Krauss sappiamo che questo problema non si pone più negli stessi termini60. Fondandosi infatti sul celebre testo di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica61, Krauss sottolinea che non c’è un bronzo più autentico di un altro dal momento che esiste una grandissima distanza tra l’artista e i suoi bronzi; non interviene su di essi per correggerli, e non controlla la fusione né la patina62. In un certo modo, anche se non allo stesso Saggio da catalogo punto, l’“ethos della riproducibilità” riguarda anche i marmi, dal momento che lo scultore ricorre agli sbozzatori, fatto, questo, innegabile. Numerose testimonianze raccontano di Rodin che scolpisce il marmo direttamente63, segue il lavoro con molta cura e precisione, indica gli interventi necessari attraverso la matita nera, effettua visite negli atelier o si serve di indicazioni scritte64; ma rimane il fatto che Rodin ha fatto eseguire da altri tutti o parte dei suoi marmi65. Forse bisogna solo chiedersi se questo sia veramente importante e porre la questione in un altro modo. Come conferma nella sua tesi Daniel Rosenfeld66, i marmi di Rodin sono stati esclusi molto presto da ciò che nella sua opera era considerato fondamentale. La condanna morale per inganno e falsità da parte di Hildebrand aderisce alle critiche di Platone nei confronti delle arti in generale: nei suoi marmi Rodin mente, e questo è un male non solo perché Hildebrand è un sostenitore dell’intaglio diretto, ma per via di nozioni come sincerità, verità, onestà nell’arte, che oggi ci sembrano molto ingenue, e soprattutto di una condanna degli effetti dell’arte in nome di una trasparenza certa. La questione della trasparenza è più legata al materiale di quanto non si possa pensare di primo acchito. Se il marmo è fortemente raccomandato in tema di scultura, spiega il Grand Dictionnaire universel du dix-neuvième siècle di Pierre Larousse, è perché si tratta di un materiale trasparente, limpido e dunque perfettamente adatto a rappresentare la carne: il marmo può confondersi con essa, può darne l’illusione, come Rodin stesso spiega a Paul Gsell67. Nel pensiero classico il compito dell’artista è quello di portare il materiale verso la trasparenza, cancellandolo dietro la forma: minimizzando il ruolo di quest’ultima — come si vede nelle sue opere più tarde —, a vantaggio di una fortissima presenza del materiale, Rodin rinuncia a questa concezione e a questo classicismo, addirittura all’accademismo che a volte è stato osservato nei suoi marmi68. Ed è qui ormai il punto essenziale. Saggio da catalogo 1– “Verissima manus”: “Di sua mano”. 2– “Good instances of marble work from his own hand – I mean of the evanescent modelling applied to “poetical” subjects…” (New York, The Metropolitan Museum of Art Archives, lettera del 6 gennaio 1908, R9582, fol. 1). John Marshall intrattiene una corrispondenza con Rodin a partire dal 1905 (Beausire e Pinet 1988, lettera XII, 26 febbraio 1905, p. 196). Professore, erudito e specialista dell’Antichità, J. Marshall ha spesso svolto il ruolo di intermediario e di esperto. 3– Si vedano le lettere conservate all’Ashmolean Library di Oxford: J.M. a Rodin (11 dicembre 1911) che annunciano la visita in studio di Daniel Chester French, responsabile del comitato di scultura, e di Robinson per scegliere i marmi: “Ci sono sempre Tritone e Nereide che il museo spera di poter avere… ma mi piacerebbe che potessero scegliere la Grande bagnante, la Belle Heaulmière, la Cariatide, Colonello Lynch, la Martire”. Anche Kate Simpson e Thomas Fortune Ryan svolsero un ruolo importante: si vedano i carteggi al Metropolitan Museum, e l’articolo di John Zarobell (2011, p. 78). 4– Realizzata nel 1910 come Pigmalione e Galatea, Amore e Psiche. 5– Ashmolean Museum, s.d. Il 12 giugno 1912, Rodin indicava a proposito di quest’opera: “Ci saranno braccia e gambe mancanti. È un gruppo che vi piace e che io considero il mio migliore modellato”. Il Metropolitan compra anche un busto in marmo di Rochefort (lettera del 30 novembre 1912). 6– Si veda la sua lettera a Walter R. Beardsley (Ekhart, Indiana): “Il titolo sarà quello che sceglierete”, citata da Myrtille Birghoffer (1997-1999, p. 22), e soprattutto Dominique Jarrassé (1993, pp. 188-190). 7– Si veda il carteggio di L. Fourquet (AMR), in particolare le lettere dal 17 novembre 1874 al marzo 1875. 8– L’opera ha fatto molto probabilmente parte della collezione Roger Marx e oggi si trova a Filadelfia, al Rodin Museum. Il marmo S. 811 del musée Rodin è stato acquistato nel 1889, molto probabilmente, da Maurice Fenaille, grande collezionista e mecenate di Rodin, ed è stato comprato dagli eredi Fenaille nel 1981. Un terzo, cronologicamente collocato tra i due, è stato offerto a Madame Morla-Vicuña nel 1887. Ne vanno calcolati almeno altri due, non localizzati, oltre a quello del Museo Nazionale di Buenos Aires, provenienti dalla ex collezione Jacques Zoubaloff. 9– Sintelusse 1889. 10– Catalogo della mostra, Évian 2009 - Parigi 2010, passim, e Hargrove 2010, pp. 77-110. 11– Lichtwark 1924, t. I, p. 160, citato da Grunfeld 1988, pp. 364-365. 12– Si veda il saggio di Paul-Louis Rinuy in questo volume. 13– Leroi 1899. 14– L’opera, depositata dallo Stato nel 1904, si trova a Nîmes, nei Jardins de la Fontaine. 15– Salons de 1901… 1901, p. 1. 16– Ibidem, p. 3. Si veda anche la testimonianza di Louis Mathet in Les Faux Rodin 1919: “A volte Rodin mi mandava i suoi schizzi e i suoi modelli dal vivo che posavano davanti a me, e io completavo il bozzetto”. 17– Leroi 1903, Salons, pp. 327-328. 18– Rosenfeld 1981, pp. 81-104, e nel suo PHD 1993. 19– Un catalogo sommario dei marmi di Rodin è in preparazione al musée Rodin e sarà pubblicato nel 2014. 20– Aux écoutes, 9 febbraio 1919. 21– Arringa di Gautier-Rougeville per lo scultore Fidi, AMR, Processo del 1919, n. 5-044-15, specialmente pp. 11-15, e qui p. 15. 22– AMR, Processo del 1919, n. 5-044-18, p. 20. 23– Hildebrand [1917] in Butler 1980, pp. 139-143. Il testo originale in tedesco di Adolf von Hildebrand è disponibile nell’edizione completa dei suoi scritti, pubblicata nel 1969 a Colonia, presso Westdeutscher Verlag GmbH, con il titolo Gesammelte Schriften zur Kunst. 24– “His marbles were fakes settled in an untrue language” (Hildebrand, Ibidem, p. 142). Si veda il saggio di Christiane Wohlrab in questo volume. 25– Lo stesso Léonce Bénédite, al banco dei testimoni, deve difendersi dall’aver partecipato a questa produzione: “In quella data non stato ordinato da parte mia nessun marmo e, prima, ho fatto fare solo quelli commissionati da Rodin in virtù dell’impegno verso altre persone” (AMR, Processo del 1919, n. 5-044-2, Deposizione di Léonce Bénédite, p. 62. Si veda Ibidem, p. 60: “Dopo la morte di Rodin, non ho più fatto fare alcun marmo”). 26– AMR, dossier Personne, G. Petit. 27– Le Musée Rodin 1919, pp. 45-71 e qui p. 50. 28– Les tailleurs de pierre… 1919, pp. 249-258, qui p. 250. Si veda il saggio di Paul-Louis Rinuy in questo volume. 29– “The authenticity of the pieces can be substantiated by letters and documents, some of the former in M. Rodin’s own hand. The Rochefort head was a favourite with Rodin and he finished one side of it himself. Professor Marshall says in one letter to Mr Warren: This work is certainly Rodin’s own, as he told me so” (Filadelfia, Archivio del Philadelphia Museum of Art. Lettera del 3 ottobre 1931, 3A/5). 30– “The great Rodin marble, said to be the only marble cut entirely by the master’s hand, has been photographied and I am bringing the prints to show you. Sir Edmund left orders that it must not be sold to a dealer” (Harvard, Fogg Museum, 1943.1034). Il marmo dell’Eterna primavera era allora nella collezione di lady Davis, vedova di sir Edmund Davis. 31– Si veda Viéville 2011, pp. 10-25, qui p. 12, e Magnien 2011, pp. 29-43. 32– Si veda Bernard Ceysson, citato da D. Viéville, 2011, p. 19: “Dopo la guerra la scultura, come all’inizio del secolo, è prima di tutto una questione di materiali”, ma con un’esigenza di autenticità, di necessità, che contribuisce a far respingere i marmi di Rodin. 33– Rodin’s Walking Man… 1967. 34– Elsen 1967, pubblicato in catalogo della mostra Parigi 2010-2011, pp. 207-208. 35– Ibidem, p. 191. Moore sottolinea anche: “I like to use Hornton stone, for example, because it doesn’t look new. It doesn’t look like white marble or as if you would leave dirty finger prints if you touched it”. 36– Rodin… 1973, ripreso in Butler 1980, pp. 187-190, qui, p. 188. 37– “Although Rodin claimed to ‘produce slowly’ … a great deal of work also emerged from his studio, including many substantial and physically ambitious pieces, that were vulgar, facile, unthought-out and pandered to just that Salon, taste which he had explicitly challenged with the Age of bronze. Almost all the marbles must come under this criticism, including such monsters as Eternal Spring (1884), The Eternal Idol (1889), The Kiss (1882). It is not surprising that in this category may be found the most popular of Rodin’s sculptures”. 38– Steinberg 1991, p. 14. Il testo infatti risale al 1962, essendo la prefazione del catalogo della mostra New York 1963. 39– Ibidem, pp. 72-73. 40– Barbier 1987, si veda l’introduzione, pp.7-11. 41– AMR, nota di M. Laurent all’attenzione dei membri del consiglio di amministrazione del musée Rodin, 11 luglio 1984. Si trattava dell’acquisto da parte del museo di La Terra e la Luna. 42– L’opera è conservata a Washington. 43– “Rodin, however, would scrupulously supervise the execution of such work, initiating modifications as the work progressed, and frequently finishing the work himself. In this respect he exerted more of the supervisory rôle in his position as maitre for the carving of his marble sculptures, executed in the confines of his own atelier, than he did in the casting and chasing of bronze sculptures which were spent to specific foundries and not returned until they had been entirely completed” Saggio da catalogo (lettera del 16 dicembre 1976 a W. Stanhouse, Washington, National Gallery, documentazione, dossier dell’opera). 44– Cole 2010, pp. 1-16. Si veda la bibliografia proposta sul tema, Ibidem. 45– Wittkower 1995. 46– Penny 1993. 47– M. Baxandall (1980) per primo aveva aperto la strada con la sua tesi, si veda anche Raff 1994. Si vedano i recenti lavori di Dario Gamboni, e in particolare il convegno organizzato nel 2010 in collaborazione con G. Wolf (in corso di stampa). 48– Didi-Huberman e Noudelmann 2002, pp. 86-99, qui p. 87. Didi-Huberman in Taylor 2006, pp. 195-211. 49– Rodin 1911, citazione tratta dall’edizione del 1997, p. 50. 50– “La vostra mente deve concepire ogni superficie come l’estremità di un volume che la spinge da dietro. Immaginatevi le forme come puntate verso di voi. Ogni vita sgorga da un centro, poi germoglia e sboccia dall’interno verso l’esterno. Allo stesso modo, nella bella scultura, si coglie sempre una potente spinta interiore” (Ibidem, p. 203). 51– Marx 1905, t. XVII, pp. 117-128. 52– Silverman 1994, p. 17. Praz 1991, pp. 23-225. 53– Valéry 1957, pp. 886-887. 54– Ibidem, p. 898. 55– Ibidem, pp. 904-905. Sul tema si veda anche il saggio di Roland Recht in catalogo della mostra Parigi 2011, pp. 45-61, in particolare p. 55. 56– Albers 1970, citato da Delorme-Louise 1976, pp. 159-180, qui p. 161. 57– Didi-Huberman e Noudelmann, 2002, pp. 93-94. 58– Ringrazio Nadine Lehni di avermi aiutato a illustrare queste parole, attirando la mia attenzione sul disegno D. 5006. 59– Si veda Varnedoe in catalogo della mostra Washington 1981, pp. 153-189, e più di recente Grammont in catalogo della mostra Parigi 2011, pp. 37-50. 60– Krauss 1993, pp. 129-149. 61– Benjamin 1935 e 1939. 62– Krauss 1993, p. 131. 63– Dujardin-Beaumetz 1913, p. 81. 64– Si veda la testimonianza di Judith Cladel, AMR, Processo del 1919, n. 5-044-5, pp. 17 sgg, che evoca il “dispotismo artistico” di Rodin. Léonce Bénédite sottolineava invece la varietà delle posizioni del maestro a questo proposito, Processo del 1919, n. 5-044-3, p. 95. 65– Si veda il saggio di François Blanchetière in questo volume. 66– Rosenfeld 1993, p. 8. 67– Rodin, op. cit., pp. 50-51. 68– Junod 2004.