Università degli Studi di Trieste
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di laurea in Filosofia
TESI DI LAUREA IN STORIA DELLE RELIGIONI
Usi e abusi dello “Spirito”
Riflessioni ai margini del fenomeno pentecostalecarismatico
Laureando:
Relatore:
Giacomo SANDRON
prof.ssa Ileana CHIRASSI COLOMBO
Correlatore:
prof. Pier Aldo ROVATTI
Anno Accademico 2006/2007
INTRODUZIONE. FRAMMENTO DI UNA MICROBIOGRAFIA PERSONALE ...........................3
UN INCONTRO FORTUITO ..........................................................................................................................3
LE RIUNIONI DEL GRUPPO .........................................................................................................................4
ALCUNI GIOVANI DEL GRUPPO ..................................................................................................................6
UN CAMBIO DI PROSPETTIVA ....................................................................................................................7
IL CANTO ..................................................................................................................................................9
LA “PRESENZA” DELLO SPIRITO .............................................................................................................11
IL GRUPPO OGGI ......................................................................................................................................12
PER UNA PROBLEMATIZZAZIONE: MOVIMENTI CARISMATICI E STORIA DELLE
RELIGIONI ..............................................................................................................................................16
PROBLEMATICHE DEL “SACRO” ....................................................................................................20
TRA DUE INTERPRETAZIONI: “SACRO” PHAINOMENON E “SACRO” GENOMENON.....24
IL “SACRO” COME ESPERIENZA: LA “PRESENZA” DI DE MARTINO...................................33
LA FINE DEL MONDO E IL “CARISMA” DI LANTERNARI ........................................................43
LA PENTECOSTE “STORICA”............................................................................................................51
LA PENTECOSTE CRISTIANA ...................................................................................................................51
LA PROBLEMATICA DELLA SPERIMENTAZIONE DEL “SACRO” .................................................................56
LA SPERIMENTAZIONE DEL “SACRO” NEI MONOTEISMI ...........................................................................66
QUALE PNEUMA ? ...................................................................................................................................74
ONDA SU ONDA: LA “NUOVA” PENTECOSTE ..............................................................................81
UNA PANORAMICA .................................................................................................................................81
IL PENTECOSTALISMO PROTESTANTE ......................................................................................................86
Il pentecostalismo “classico”: Topeka, Azusa street, il revival gallese ...........................................88
Il neo-pentecostalismo ......................................................................................................................92
Il neo-pentecostalismo in Italia: la Chiesa Evangelica Internazionale e gli “uomini d’affari”.......96
La Third Wave ..................................................................................................................................99
Il pentecostalismo nel sud del mondo, un esempio africano: il culto pentecostale in Ghana.........101
LA RISPOSTA CATTOLICA NEGLI U.S.A.................................................................................................107
Come una nuova Pentecoste ...........................................................................................................107
LA RISPOSTA CATTOLICA IN ITALIA ......................................................................................................119
I primi gruppi..................................................................................................................................119
Sviluppo del movimento: organismi, strutture, separazioni............................................................123
I “carismatici” e la Chiesa.............................................................................................................130
OSSERVAZIONI FINALI ....................................................................................................................139
BIBLIOGRAFIA ....................................................................................................................................143
ARTICOLI DA PERIODICI.................................................................................................................151
VOCI ENCICLOPEDICHE..................................................................................................................154
ARTICOLI TRATTI DA SITI INTERNET ........................................................................................155
FILMOGRAFIA.....................................................................................................................................156
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Introduzione. Frammento di una microbiografia
personale
Un incontro fortuito
Avevo sentito parlare del Rinnovamento nello Spirito Santo (RnS)
principalmente da mia madre e da qualche conoscente. Sapevo che con quel nome si
stava ad indicare un gruppo di preghiera “alternativo” che si ritrovava spesso al di fuori
degli spazi e dei tempi della solita celebrazione domenicale e che praticavano un tipo di
preghiera “particolare”. Si diceva che pregassero in varie lingue oppure che si
“lasciassero pregare” modulando spontaneamente la propria voce e nel fare questo
fossero soliti suonare e cantare dei canti molto coinvolgenti. Si diceva anche che
durante i loro incontri pregassero intensamente per delle persone gravemente malate e
che grazie a ciò si fossero verificate delle guarigioni cui i medici stessi non sapevano
dare una spiegazione. Sapevo che una volta all’anno gruppi provenienti da tutta Italia si
riunivano in un convegno nazionale a Rimini per qualche giorno e qui davano luogo a
delle grandi celebrazioni molto rumorose, con migliaia di persone che cantavano e si
muovevano agitando le braccia in alto, pregando ad alta voce, invocando Gesù e lo
Spirito Santo, e ogni tanto poteva succedere che qualcuno perdesse i sensi o che
guarisse da un qualche tipo di infermità. Sapevo anche che da qualche tempo questo
“strano” gruppo di persone si riuniva durante la settimana nella chiesa vicino alla nostra
abitazione, ma non davo molta importanza a tutto ciò.
Successe però che una sera dell’estate 2003 passavo a piedi davanti a quella
chiesa, e dalle porte spalancate sentii che dentro delle persone stavano suonando e
cantando con molto entusiasmo. Incuriosito, mi avvicinai per saperne un po’ di più.
Chiesi chi fossero ad intonare quei canti ad un signore che si trovava presso l’entrata, ed
egli mi spiegò che si trattava di una messa del gruppo del RnS che ogni mercoledì sera
si riuniva in quella chiesa, e che se avessi voluto avere ulteriori delucidazioni avrei
potuto scambiare qualche battuta con suo figlio che sarebbe uscito entro qualche
minuto. Rimasi così ad aspettare il ragazzo. Più tardi, da lui seppi a grandi linee che
cos’era il RnS e in che cosa consistevano le loro riunioni settimanali a cui, peraltro, non
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mancò di invitarmi. Dopo qualche settimana di incertezza, decisi di partecipare ad uno
di questi incontri.
Le riunioni del gruppo
Il primo incontro a cui partecipai si tenne in un’altra chiesa, più piccola e più in
periferia. Quando furono più o meno arrivati tutti - venti-trenta persone circa, larga
maggioranza femminile, età media sui quaranta anni – furono disposte delle sedie in
circolo in fondo alla chiesa, vicino alle porte spalancate a causa della calura. Ad ognuno
venne distribuito un libretto con dei canti, e una donna che aveva tutta l’aria di essere la
responsabile del gruppo si impegnava ad illustrarci quale sarebbe stata la scaletta da
rispettare quella sera. Un ragazzo e una ragazza, rispettivamente alla chitarra e al piano,
cominciarono a suonare. Fecero due o tre canti di fila, senza interruzioni. I canti erano
accompagnati dai presenti con braccia levate al cielo e agitate leggermente, battiti di
mani, ondeggiamenti del corpo, qualcuno durante il canto teneva gli occhi chiusi. Tra un
canto e l’altro, quando la melodia tendeva a scemare, veniva lasciato spazio alla
preghiera personale, ed in questa occasione ho avuto modo di assistere alla cosiddetta
“preghiera in lingue”: con gli occhi chiusi, le braccia levate, i palmi delle mani aperti,
ondeggiando lievemente, i presenti si lasciavano andare producendo con la voce i suoni
più disparati. Chi li emetteva bassi, chi alti e acuti, chi ripeteva alcuni versi del canto
appena terminato, chi si abbandonava a nenie e a melodie improvvisate, chi invocava a
voce alta lo Spirito Santo, chi innalzava parole di gratitudine e di lode a Dio per le sue
opere, e tutto contribuiva a creare un intreccio sonoro molto suggestivo.
Al termine di questa prima fase di canti e preghiera spontanea, il giovane che
occupava il posto accanto al mio, rivolgendosi a me, ultimo arrivato, usò queste parole,
quasi per giustificarsi: “Siamo tutti matti, non è vero?” come se un lembo della sua
consapevolezza fosse rimasto vigile durante il coinvolgimento emotivo dato dalla
musica e dalla danza e non potesse fare a meno di considerare alla stregua di
sciocchezze ciò che essi stavano facendo in nome di Dio.
Successivamente si passò ad un’altra fase in cui i partecipanti, messisi a sedere,
aprirono e sfogliarono le Bibbie che portavano con sé e a turno leggevano ad alta voce
passi delle Scritture, a volte commentandoli brevemente o riportandoli a episodi della
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loro vita personale, altre volte senza aggiungere niente. Anche la lettura di questi passi
era accompagnata e sottolineata da invocazioni a Dio, allo Spirito Santo e a Gesù.
Seguirono altri canti che ricalcavano lo schema precedentemente descritto, al termine
dei quali una donna del gruppo prese la parola. Essa si era incaricata di leggere
l’enciclica papale Pacem in terris e si apprestava ora ad esporne brevemente i contenuti
ai presenti, arricchendoli con alcune riflessioni personali. Infine, alcune donne si
occuparono di organizzare i turni della preghiera personale durante la settimana e di
raccogliere le intenzioni di chi avesse voluto pregare per qualcuno che si trovava in
stato di sofferenza. La riunione infine si sciolse dopo altri canti.
Ho partecipato ad altre quattro-cinque riunioni settimanali di questo gruppo del
RnS, e gli incontri si sviluppavano lungo la serata seguendo bene o male lo schema
appena descritto. All’interno di una sequenza pressoché fissa - che comprende l’apertura
della serata con canti, seguiti da preghiera “in lingue”, lettura spontanea ed eventuale
commento di passi della Bibbia, ancora canti e preghiera “in lingue”, spazio dedicato a
testimonianze, conclusione nuovamente accompagnata da canti – c’è spazio anche per
alcune “improvvisazioni”. Un ragazzo del gruppo mi ha infatti raccontato di come
qualcuno particolarmente “ispirato” nel corso della serata possa proporre, per esempio,
di formare un cerchio tenendosi per mano attorno all’altare, oppure di muoversi
liberamente nello spazio della chiesa durante i canti.
La descrizione della serata precedentemente offerta riguardava l’incontro detto
“di preghiera”. Questo si alterna settimanalmente con altre due tipologie di incontro cui
ho avuto modo di partecipare. Una volta al mese, infatti, i membri del RnS celebrano
una messa “loro”, di solito celebrata dal sacerdote della parrocchia in cui essi svolgono
le loro attività. La messa del RnS si svolge seguendo lo schema della messa tradizionale
cattolica; la differenza sostanziale sta nella grande importanza che viene data ai
momenti del canto, che vengono dilatati e accompagnati come sempre dalla preghiera
“in lingue” e da invocazioni allo Spirito. Un’altra differenza rispetto alla celebrazione
domenicale la possiamo riscontrare nel momento immediatamente successivo alla
comunione, in cui ognuno è libero di esprimere apertamente ciò che ha “sperimentato”
ricevendo l’eucaristia.
Un altro tipo di incontro è l’incontro “di adorazione”, caratterizzato di solito da
un’atmosfera più intima e raccolta. I partecipanti stanno in ginocchio, in silenzio, luci
basse, mentre di fronte a loro viene esposto l’ostensorio dell’eucaristia. Di tanto in tanto
vengono intonati dei canti, di solito in tono più sommesso di quanto si faccia negli altri
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incontri, regolarmente accompagnati dalla preghiera “in lingue”, da lodi e
ringraziamenti al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo, e da esternazioni di quanto
sperimentato “nell’incontro con Cristo”.
Alcuni giovani del gruppo
Ho avuto modo di passare del tempo con i membri più giovani del gruppo di
Portogruaro anche al di fuori degli incontri settimanali del RnS. I giovani nel gruppo
sono in netta minoranza, solo in cinque si recano agli incontri abbastanza regolarmente
mentre altri quattro frequentano in modo molto discontinuo. Tutti rispecchiano un tratto
caratteristico dei “carismatici”, che è quello di essere impegnati in qualche modo
all’interno delle rispettive parrocchie: chi animando con canti e letture le liturgie
domenicali, chi insegnando catechismo ai bambini, chi prestando assistenza agli anziani
o ai malati. Dei cinque più assidui, due sono una coppia di sposi appena sopra i
trent’anni con un figlio (lui meccanico, lei aiuta il padre nella sua attività che non mi è
stata meglio specificata), due fidanzati ventisettenni che hanno in progetto di sposarsi
entro breve (lei operaia in una fabbrica della zona ma sogna di fare la commessa, lui
impiegato al Consorzio di Bonifica), un ragazzo single, ventottenne, elettricista. Tutti
hanno cominciato a lavorare relativamente presto, dopo il diploma, conseguito spesso
con qualche difficoltà. Tutti provengono da piccoli paesi, frazioni del portogruarese, tra
di loro tendono a parlare prevalentemente in dialetto.
Al di fuori delle riunioni non sembrano particolarmente “ispirati”, gli argomenti
di cui parlano tra di loro non differiscono da quelli di qualsiasi giovane della loro età
nelle loro stesse condizioni, con la differenza che ad essi si somma l’attenzione
particolare che dedicano alle sorti del gruppo del RnS di cui sono parte e, più in
generale, alle attività a livello nazionale del RnS, a cui sono peraltro tenuti a
partecipare. Il coinvolgimento psicologico che manifestano nei confronti del loro
gruppo di preghiera è evidente da quanto dettomi da uno dei ragazzi. Egli è un grande
tifoso di uno dei maggiori club calcistici italiani che, oltre alla domenicale partita di
campionato, si trova spesso a giocare partite valide per le coppe europee il mercoledì
sera. Il mercoledì sera era però anche il momento in cui il gruppo di preghiera si riuniva
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per i propri incontri, e quando partita di coppa e riunione si sovrapponevano il giovane
entrava in un certo imbarazzo. Più volte, quando aveva iniziato a frequentare il RnS, era
uscito con gli amici a vedere la partita come faceva di solito; in seguito però,
continuando la frequentazione del gruppo di preghiera, mi confessò che ogni qual volta
sceglieva il calcio provava un sempre più grande senso di colpa nei confronti di Gesù e
dello Spirito, e decise, alfine, di rinunciare al mercoledì di coppa e agli amici.
Un cambio di prospettiva
Dalla mia personale esperienza di incontro con i membri del RnS sono nate una
serie di riflessioni che mi hanno spinto ad approfondire la conoscenza di questo
fenomeno fino a farlo diventare l’oggetto della mia tesi di laurea. Per realizzare ciò è
stato necessario apportare alcune modifiche innanzitutto all’approccio con il fenomeno.
Da un iniziale punto di vista “interno” al gruppo, è maturata mano a mano
l’esigenza di operare un cambio di prospettiva per poter meglio comprendere questo
fenomeno “carismatico”. Occorreva abbandonare le spoglie del cosiddetto “osservatore
partecipante” e assumere una posizione decisamente “esterna”, che mi desse la
possibilità di poter mettere in relazione quanto accadeva nella specificità del gruppo in
questione con dinamiche storiche, culturali, sociali, più ampie. Occorreva operare uno
slittamento da quello che è chiamato un punto di vista emic, ad un punto di vista ethic.
Del significato di questa terminologia in uso nella moderna antropologia, diamo la
seguente definizione:
“I termini emic ed ethic sono presi dalla linguistica che li utilizza per indicare
l’opposizione tra fonema e suono, e sono stati elaborati in primis da Franz Boas
nell’ambito dell’antropologia culturale, portando alla svolta del relativismo culturale. I
due termini sono ripresi dalla New Ethnograpy americana sulla suggestione della
metodologia strutturale e della linguistica dove il metodo “etico” indica un approccio
basato sull’assunzione a priori della esistenza di parametri concettuali universali. Emico
è invece il metodo di indagine che rinuncia ad assunti aprioristici e parte
dall’assunzione programmatica del punto di vista cognitivo interno alla cultura che si va
ad incontrare. Il punto di vista emic che riflette, oltre che la terminologia linguistica,
anche le posizioni estreme della fenomenologia, porta alle difficoltà fatte affiorare dal
relativismo culturale della scuola boasiana, che rivendica la necessaria accettazione dei
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singoli modelli culturali – anche sul piano morale e religioso nel senso della prassi
rituale – come determinati dalle singole scelte operate dalle singole culture.”1
La necessità di approfondire lo studio del fenomeno “carismatico” da un punto di vista
storico-religioso si è affermata in seguito a una precisa constatazione. Le modalità
espressive a cui ricorrevano i membri del gruppo di Portogruaro – insistente
invocazione dello Spirito Santo; il rivolgersi alle figure dello Spirito o del Cristo in
maniera intima, diretta, colloquiale; la richiesta da parte dei fedeli di “doni”
soprannaturali, ma anche di benefici più pratici ed immediati - mi richiamavano alla
mente certi culti di possessione di matrice islamica, in particolare lo stambali tunisino e
lo zar kuwaitiano, che proprio in quel periodo stavamo affrontando all’interno del corso
di Storia delle religioni.
Questi culti di possessione si caratterizzavano per una complessa pratica rituale
che, attraverso un dispositivo coreutico-musicale, mirava all’individuazione dell’entità
“penetrata” nel fedele e, una volta riconosciutala, ad assecondarne le richieste per
placarne l’azione perturbante2. L’interpretazione di tali pratiche veniva ricondotta ad
una funzione prettamente culturale di affermazione di un’identità che nello spazio
“protetto” e codificato del rito trovava la possibilità di esprimersi, di essere socialmente
riconosciuta. Ad una prima valutazione, il ruolo fondamentale ricoperto dalla musica e
dal canto nei culti di possessione, accompagnati dalla recitazione ad alta voce di
invocazioni rivolte all’entità con cui si entra in “contatto”, sono gli aspetti che
maggiormente colpiscono per l’affinità formale con le cerimonie del gruppo del RnS.
Queste rassomiglianze formali tra culti appartenenti a tradizioni differenti ha
portato a interrogarmi a proposito di quali spazi e luoghi occupasse e occupa tuttora in
ambito cattolico, e più in generale nella nostra società, il culto “carismatico” dello
Spirito Santo, su che rapporti legano lo sviluppo di tale culto con le dinamiche di
profonda mutazione sociale e culturale caratteristiche del Novecento.
E poi, perché proprio lo Spirito Santo? Quali funzioni, quali necessità
rappresenta e risolve – se le risolve - il ricorso alla terza figura della trinità cattolica, al
suo modo di agire, ai “doni” che secondo la tradizione cristiana esso elargisce? Che
posto occupa oggi il corpo “carismatico” che danza, si dimena, alza le braccia, canta e
prega a voce alta?
1
Chirassi Colombo 2006/2007
Per una dettagliata descrizione delle pratiche dello zar in Kuwait, confronta Ashkanani 1991, per i culti
legati allo stambali tunisino, Ferchiou 1991
2
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Cominciamo allora da ciò che è più facilmente osservabile: l’uso che, all’interno
di questo piccolo gruppo di preghiera, viene fatto del canto e della musica, e in che
modo essi stabiliscano il proprio rapporto con lo Spirito.
Il canto
Sembra che la “presenza” dello Spirito sia fortemente legata al canto. La
preghiera “in lingue” infatti, “segno” della presenza divina, avviene normalmente
proprio durante i momenti cantati. Per questo ogni membro del gruppo è in possesso di
un libretto intitolato Dio della mia lode, in cui sono raccolti i canti del movimento da
eseguire durante gli incontri. La maggior parte dei canti sono composti traendo spunto
da episodi della Bibbia: particolare fonte di ispirazione sono i salmi e i libri dei profeti;
oppure sono un adattamento di canti “popolari” dell’America Latina e dell’Africa; o
ancora la traduzione di canti originali americani o francesi composti in prevalenza negli
anni Settanta, nel periodo cioè della maggior diffusione del movimento; o canti
composti da alcuni tra i membri più in vista dello stesso RnS ma anche di altri
movimenti cattolici, come ad esempio Salvatore Martinez, attuale responsabile
nazionale del RnS.
Generalmente i canti sono caratterizzati da una grande melodicità; essi sono
ovviamente rivolti a Dio, a Gesù Cristo, allo Spirito Santo: ora lodandoli per le loro
opere, ora invocando la loro venuta o un segno miracoloso, ora invitando i fedeli ad
abbandonarsi completamente al loro volere. Uno dei canti che meglio esprime ciò che
gli appartenenti al RnS cercano e offrono, l’incondizionata fiducia nello Spirito, la
speranza e il desiderio di una vita “rinnovata”, è quello intitolato appunto Lasciati
andare, le cui strofe recitano così:
Lasciati andare nelle mani
di Gesù il Figliol di Dio.
La tua anima e il tuo cuor soddisferà.
Tutte le cose a cui ti appoggi
lascia che le prenda lui
e ripieno del suo Spirito sarai!
Su canta una melodia
con la gioia nel tuo cuor
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dolcemente le tue mani innalza al ciel.
Dai a Gesù la tua tristezza
i tuoi anni di dolor
ed allora nella vita entrerai.
È interessante notare anche la presenza di diversi canti incentrati sulla ripetizione ad
libitum di singole parole quali “Gesù”, “Maria”, oppure “ruah”, che quando vengono
eseguiti finiscono con il creare una atmosfera quasi ipnotica e che richiamano alla
mente analoghi metodi di auto-induzione della trance presenti in altre culture. Tra
questa tipologia di canti spicca Quando lo Spirito, che fa esplicito riferimento
all’episodio biblico della “pazzia” di re David. Il canto ha una struttura molto semplice,
la prima strofa recita:
Quando lo Spirito vive in me io canto come David
Io canto, io canto, io canto come David
Ogni strofa viene ripetuta due volte mentre le strofe successive sono uguali alla prima;
solamente il verbo “cantare” viene sostituito di volta in volta con “lodare”, “pregare”,
“amare”, “danzare” e così via.
L’importanza data al canto è così grande da aver spinto il Comitato Nazionale di
Servizio del RnS a creare negli anni un vero e proprio Servizio Nazionale della Musica
e del Canto (SNMC) che i membri del RnS definiscono addirittura come “ministero”.
L’ SNMC, si legge nel libretto, ha il compito di
“Portare la gente che vive nel Rinnovamento alla presenza di Dio, attraverso la lode e
l’adorazione cantata. Ogni membro che collabora a questo ministero nazionale è scelto
con attento discernimento tramite i responsabili locali e nazionali. Non sono persone
messe insieme a caso, ma si tratta di uomini e donne di diverse età e provenienza
geografica che si qualificano per la loro provata esperienza musicale con una speciale
unzione per la lode profetica. I dirigenti, i cantori, i musicisti e i tecnici sono chiamati a
rendere questo servizio ecclesiale oltre che per le loro capacità specifiche, anche e
soprattutto per la loro sensibilità lasciandosi guidare dallo Spirito Santo.”3
3
Associazione RnS 2002
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La “presenza” dello Spirito
Gli aderenti al gruppo credono sostanzialmente nel potere pressoché illimitato
dello Spirito Santo, a cui demandano le decisioni da prendere nella propria vita. Essi
nutrono un rapporto particolarmente intimo, confidenziale con la figura del Cristo,
molto personale, ponendosi quasi sullo stesso piano. Parlano di Cristo come se fosse
una persona viva, in carne e ossa, dandogli quasi sempre del “tu”. Una donna mi
raccontò come avesse tenuto girato il crocifisso per tre giorni perché era arrabbiata con
Cristo, per poi rigirarlo quando le era passata l’arrabbiatura.
Durante gli incontri i partecipanti avevano nei miei confronti un atteggiamento
molto accogliente, cercando di coinvolgermi nelle loro attività. Subito mi invitavano
alle loro riunioni e mi esortavano a portare amici e conoscenti. Davano molta
importanza alla preghiera, sia personale che comunitaria, e sottolineavano spesso
l’importanza di chiedere aiuto allo Spirito incoraggiandomi a farlo, per esempio per
avere successo nello studio o per smettere di fumare. Una ragazza mi raccontò di come
fosse una fumatrice e di come da un giorno all’altro non sentisse più il desiderio di
fumare. In seguito, mi disse, scoprì che sua madre aveva insistentemente pregato
durante la novena pasquale affinché si liberasse da quel vizio.
Allo Spirito vengono innalzate lodi per la sua potenza, ringraziamenti per le sue
opere; a lui i partecipanti offrono specialmente i propri dolori e le sofferenze esistenziali
sicuri che lo Spirito saprà donare loro la forza necessaria per affrontare le prove della
vita. Si intercede presso lo Spirito pregando per la salute del pontefice o dei politici che
governano il paese, si chiedono allo Spirito segni della sua presenza, si prega spesso
affinché le persone e soprattutto i giovani che non credono possano convertirsi, si
chiede la guarigione di persone care malate o la risoluzione di conflitti, sia relazionali
sia sociali e politici come la guerra in Iraq o la questione israelo-palestinese. Si prega
per i terroristi. Si chiedono anche benefici più immediati come trovare un buon lavoro,
convolare a giuste nozze con l’amato o l’amata, la pioggia per i raccolti (l’estate 2003 è
stata particolarmente secca).
L’impressione generale che se ne ricava è comunque quella di un “rinnovamento
nello Spirito” che ha puntualmente luogo durante le riunioni e le celebrazioni del
gruppo, ma di cui si fa fatica a trovare traccia al di fuori della chiesa. Questa
impressione mi è stata confermata da un piccolo episodio accaduto una sera al termine
di un incontro che ben esemplifica come l’amore e la gioia “divini” spesso possano
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lasciare il posto al pregiudizio e alla diffidenza così profondamente umani. Finito
dunque l’incontro di preghiera si era sul sagrato della chiesa dove come sempre si
trovava un po’ di tempo per fermarsi a chiacchierare. Ad un certo punto un uomo sui
trentacinque anni, membro del gruppo da diverso tempo che soffriva però di un evidente
disagio psichico, ancorché non grave, e di sporadiche crisi epilettiche, comincia a
chiedere la disponibilità di un passaggio in automobile verso casa. Visto che tutti i
presenti si dichiaravano impossibilitati ad aiutarlo in questo suo bisogno, mi offrii di
accompagnarlo. Come questo si fu allontanato, quelli che avevano assistito alla scena si
affrettarono a mettermi in guardia dal dargli troppa confidenza, alcuni addirittura
dissero che posto in macchina ne avevano ma avevano preferito rifiutarsi di
accompagnarlo perché aveva il “vizio” di parlare troppo.
Il gruppo oggi
Mentre sto scrivendo, il gruppo di preghiera in questione non si riunisce più
settimanalmente nei locali della parrocchia in cui li incontrai nel 2003, ma in una chiesa
nella vicina Concordia Sagittaria; ai membri è stato affiancato un nuovo sacerdote
diocesano affinché li segua nelle loro attività. Quella di un posto fisso dove potersi
riunire e di una “guida” diocesana che li soddisfi sembra essere una questione spinosa e
non ancora completamente risolta per i membri del gruppo.
Parlando con alcuni di loro ho saputo che solitamente cambiano la parrocchia in
cui riunirsi ogni due o tre anni. Molti hanno inoltre espresso più volte il proprio
disappunto nei confronti dei sacerdoti nominati dalla diocesi per seguirli, in quanto non
sarebbero, a detta loro, abbastanza in sintonia con le modalità della preghiera
“carismatica”. Di contro, il sacerdote che oggi partecipa alle attività dei “carismatici” un
giorno mi ha confidato che durante le celebrazioni deve fare attenzione affinché
“rimangano con i piedi per terra”. Nonostante ciò i “carismatici” ribadiscono la loro
fede nell’opera dello Spirito e accettano di buon grado le decisioni della diocesi.
Questo rapporto tra membri “carismatici” e rappresentanti della gerarchia
cattolica riproduce in piccolo ciò che avviene a livello istituzionale. Da una parte questi
gruppi che sentono la necessità di un “rinnovamento”, e lo propongono facendo ricorso
alle tematiche dei “doni” derivanti dall’azione spontanea dello Spirito, cioè alla sfera
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più emozionale della dottrina cattolica; dall’altra la Chiesa che, in un’ottica di
preservazione di un’economia di potere, onde evitare ulteriori emorragie di fedeli,
consente che questi gruppi trovino espressione al suo interno ma contemporaneamente li
sottopone a un costante monitoraggio.
In sostanza ho potuto constatare che il gruppo del RnS di Portogruaro non è
molto conosciuto; anche tra chi frequenta regolarmente le funzioni domenicali, in molti
sono a conoscenza soltanto vagamente di cosa sia il movimento RnS e che un suo
gruppo di preghiera sia presente sul loro territorio. I “carismatici” sono solitamente
identificati come persone che pregano in maniera “strana”, ma non si ha un’ idea precisa
di cosa facciano e di cosa essi rappresentino. Il gruppo del RnS di Portogruaro sembra
dunque porsi ai margini del contesto sociale cittadino in cui si è sviluppato; i suoi
membri infatti non lo pubblicizzano se non tramite il passaparola, non propongono
nessun tipo di attività rivolta a persone esterne al gruppo ma allo stesso tempo sono
pronti ad accogliere chiunque desideri entrarvi e sia disposto ad adeguarsi al loro modo
di fare. Per il resto il gruppo di preghiera sembra assolvere alla funzione di punto di
riferimento comunitario per individui desiderosi di condividere l’esperienza particolare
di essere “rinnovati” nello Spirito.
A dispetto della poca visibilità che il gruppo del RnS di Portogruaro ha nella
zona, esso fa parte di un più ampio movimento “carismatico” di matrice cattolica
conosciuto con il nome di Rinnovamento Carismatico Cattolico (RCC), presente in
Italia e nel mondo da più di trent’anni. Il fatto che questo movimento, nonostante sia
presente nel nostro territorio da lungo tempo, risultasse pressoché sconosciuto, mi ha
portato a delle ricerche al termine delle quali ho constatato come il RCC sia stato
oggetto di studi in ambito accademico limitatamente verso la fine degli anni Settanta, ai
tempi cioè della sua prima diffusione in Italia. Non esistono dunque studi che tengano
conto di eventuali sviluppi recenti del movimento.
Come punto di partenza possiamo dire che il RnS, e con lui il RCC in generale,
si inserisce pienamente all’interno di quel più vasto fenomeno di riscoperta di un
“sacro” costruito e vissuto direttamente dal credente che viene generalmente etichettato
come “Nuove Religioni” o “Nuovi Movimenti Religiosi”. Più in particolare esso si
configura come la risposta cattolica, inizialmente spontanea e in seguito
istituzionalizzata, al diffondersi a macchia d’olio, nel corso della seconda metà del
Novecento, di quel fenomeno di matrice protestante che va sotto il nome di
pentecostalismo.
13
Come si evince dal nome, il movimento pentecostale porta l’attenzione
sull’episodio biblico della Pentecoste, in cui si narra della discesa dei carismi dello
Spirito Santo sugli apostoli riuniti nel cenacolo.
Questo episodio, nella tradizione cristiana, è ritenuto essere il momento
fondativo della ekklesia universale, perchè grazie all’intervento dello Spirito gli apostoli
cominciano a parlare in lingue diverse e danno inizio alla predicazione del messaggio
evangelico a tutte le genti. La discesa dello Spirito Santo come momento fondativo
della ekklesia cristiana viene ripreso dai pentecostali e riproposto come evento
rigenerante individuale, momento fondante per una vita nuova, rinnovata, più autentica.
Di fronte alla diffusione del pentecostalismo all’interno della chiese cristiane “storiche”,
si sviluppa in ambito cattolico un movimento analogo – che diverrà in seguito il RCC –
che recupera le tematiche pentecostali, tentando però di integrarle all’interno della
tradizione cattolica ricercando il consenso della Chiesa.
Vedremo meglio in seguito le dinamiche e gli intrecci dei vari movimenti. Ci
basti per ora concludere sottolineando un altro aspetto importante che ci ha stimolato
nel proseguimento di questa ricerca. Tra tutti i cosiddetti “Nuovi Movimenti Religiosi”
il movimento pentecostale e il movimento carismatico sono quelli che più sono usciti da
una delimitazione locale o regionale per affermarsi in maniera perentoria a livello
mondiale.
C’è chi dice che i pentecostali e i carismatici nel mondo sono cento milioni, chi
mezzo miliardo, chi addirittura seicento milioni, mentre le previsioni per il futuro
vedono il numero dei suoi aderenti in continuo aumento. Al di là di una quantificazione
numerica precisa, resta il fatto che i movimenti incentrati sul culto dello Spirito Santo
occupano una posizione di rilievo nel panorama “religioso” odierno per la capacità di
fornire uno strumento di “salvezza” in grado di adattarsi con successo a realtà storiche e
culturali differenti, tanto che l’espressione “boom dei pentecostali” è usata spesso e
volentieri. Per limitarci al caso italiano, nell’enciclopedia Le religioni in Italia, di
prossima pubblicazione a cura di Massimo Introvigne e Pierluigi Zoccatelli, sotto la
dicitura “il protestantesimo pentecostale”, sono raccolte ben novantuno voci che si
riferiscono ad altrettanti gruppi di preghiera o chiese presenti sul nostro territorio.
Ed è proprio questo “boom” che dovrebbe farci riflettere e stimolare una
ricostruzione delle dinamiche storiche e culturali che hanno portato alla formazione di
un orizzonte simbolico dominato dallo Spirito Santo e dai “doni” che egli concede.
Tanto più se questo orizzonte simbolico è stato sicuramente in certi casi strumento di
14
“salvezza” individuale e comunitaria – si pensi a certe chiese africane - , ma molto più
spesso, e soprattutto nella nostra società occidentale, ha dato luogo a situazioni
controverse, caratterizzate prevalentemente da un’accentuata carica alienante e dal
rifiuto di un’azione efficace sul piano sociale.
Tentare una ricostruzione delle dinamiche storiche e culturali che sono alla base
del successo del culto dello Spirito Santo, possono quindi aiutarci a focalizzare certe
tendenze devianti della civiltà in cui operiamo.
15
Per una problematizzazione: movimenti carismatici e
storia delle religioni
“Nelle più varie società ed epoche storiche, specie in corrispondenza con momenti di
intenso travaglio sociale, economico, culturale, psicologico, prodotti da fattori
perturbanti di origine interna o esterna, sorsero e pur oggi sorgono movimenti socialreligiosi nei quali i rispettivi gruppi sociali o etnici esprimono il loro malessere, la loro
insoddisfazione per il presente e l’ansia di miglioramento. In questi movimenti essi
proiettano la speranza e l’attesa di una pronta e radicale trasformazione delle condizioni
generali di esistenza, sia fisiche che sociali e psicologiche.”
Con queste parole inizia la prefazione alla seconda edizione di Movimenti
religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, il testo fondamentale che Vittorio
Lanternari ha dedicato allo studio dei movimenti di impronta profetica e millenarista
sviluppatisi nei territori sottoposti al dominio coloniale europeo.
Pubblicato per la prima volta nel 1960, esso viene riproposto al pubblico italiano
nel 2003 con il titolo significativamente accorciato in Movimenti religiosi di libertà e
salvezza. La soppressione della specificazione di sapore etnografico dell’edizione
originale assume oggi un significato particolare; infatti, mentre poco più di quarant’anni
fa la nascita e lo sviluppo di movimenti religiosi che ponevano particolarmente
l’accento sulle tematiche di “libertà” e “salvezza” sembrava una prerogativa di società
cosiddette di “interesse etnologico”, frutto dell’incontro traumatico con la cultura
occidentale ovviamente oppressiva, negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una
sempre più feconda germinazione di una grande quantità di movimenti all’interno della
nostra stessa cultura occidentale. Movimenti che variamente propongono “libertà” e
“salvezza” come temi centrali nel loro messaggio.
Ecco dunque che la specificazione dei popoli oppressi non ha più ragione
d’essere in quanto cessa di racchiudere in sé un riferimento puramente etnografico a
popolazioni extra-occidentali; essa assume invece una valenza esistenziale più ampia in
cui oppresso diventa sinonimo di creatore di forme culturali volte ad esprimere e
riscattare una situazione presente di disagio percepita, appunto, come oppressiva.
Questa “necessità” di riscatto, intesa come “bisogno di sacro”, definisce una condizione
in cui lo stesso mondo culturale occidentale si trova immerso oggi come mai prima
nella storia.
16
È la recente pubblicazione de Le religioni in Italia, pubblicato a cura di
Massimo Introvigne e Pier Luigi Zoccatelli, che ci offre una panoramica sui cosiddetti
“Nuovi Movimenti Religiosi” (NMR) presenti sul territorio italiano4. I NMR sono
l’espressione tangibile del tentativo di organizzazione di modelli di fruizione di un
“sacro” costruito come alternativo ai modelli tradizionali, nel nostro caso al modello
cattolico che pure è fortemente radicato. Questo atteggiamento sottolinea ulteriormente
e inequivocabilmente come, di fronte a una voragine di senso che pare inarrestabile, si
faccia sentire altrettanto inarrestabile l’urgenza di ricomporre le leggi del cosmo.
Introvigne e Zoccatelli individuano diligentemente circa seicento “religioni”
alternative al cattolicesimo ufficiale che vengono indistintamente raggruppate sotto la
dicitura di “sacralità postmoderna”. Si opera così una riduzione che non tiene conto
delle differenze di ordine storico e situazionale che specificano il ruolo e il significato
svolto dai cosiddetti NMR all’interno della società occidentale.
Inoltre le motivazioni della diffusione dei NMR vengono ricondotte a
espressioni ambigue e generalizzanti come “la rivincita di Dio” o al fatto che “in un
modo o nell’altro la stragrande maggioranza degli italiani prega”5; motivazioni, queste,
che testimoniano dell’atteggiamento che sta alla base della ricerca di Introvigne e che
noi respingiamo in quanto, partendo da un presupposto cattolico-centrico e quindi
discriminante a priori, inficia i presupposti per una più corretta comprensione di un
fenomeno assai più complesso e sfumato com’è quello della cosiddetta “riscoperta del
sacro”.
Tuttavia l’unificazione arbitrariamente operata di fenomeni “religiosi” di diversa
derivazione è sintomo di un fatto strutturalmente omogeneo che caratterizza non solo
l’Italia, ma anche e in misura sicuramente più evidente e maggiormente particolaristica
la società statunitense e soprattutto i paesi dell’Africa e dell’America Latina. Questo
fatto, visto in precedenza, è noto come la ricerca di un “rifugio nel sacro” che
caratterizza lo sviluppo recente delle suddette società, e che trova la sua espressione nel
proliferare di movimenti religiosi che si basano sulla richiesta sempre più pressante di
esperienze e risposte rivolte alla sfera del soprannaturale. Questa richiesta rilevante
4
Si tratta della riedizione aggiornata della Enciclopedia delle religioni in Italia del 2001, pubblicata
sempre a cura di Massimo Introvigne e Pier Luigi Zoccatelli, rispettivamente direttore e vicedirettore del
CESNUR di Torino (Centro Studi sulle Nuove Religioni), che da quasi venti anni si occupa di fornire una
mappatura sulle origini e gli sviluppi di eventuali nuove proposte di “sacro”, con una particolare
attenzione rivolta alla realtà italiana.
5
Non essendo riuscito a reperire il testo in questione, mi sono basato su alcune recensioni pubblicate nei
mesi scorsi su diversi quotidiani sia locali che nazionali; in particolare l’articolo di Maria Novella De
Luca, L’11 settembre e la riscoperta della fede, apparso sul quotidiano Repubblica del 9 maggio 2006.
Ulteriori informazioni sono reperibili sul sito web del CESNUR
17
appare conseguenza degli effetti travolgenti del processo di cambiamento dei modelli
culturali, dei sistemi di valori, che ha segnato indelebilmente il XX secolo, e della
conseguente diffusione di malessere e straniamento che i sistemi religiosi “tradizionali”
hanno fatto fatica a contenere.
Rispetto alla presentazione che di questi fenomeni da Introvigne, il pregio
indiscutibile del lavoro di ricerca di Lanternari a proposito dei movimenti di “libertà” e
“salvezza” sta nell’offrirci una visione “dinamica” di tali movimenti. Egli infatti valuta
attentamente il ruolo non solo “religioso” ma anche storico, sociale, politico, che essi
hanno avuto, nonché gli sviluppi che hanno subito nel corso del tempo nelle società in
cui hanno trovato modo di germogliare. Infatti, sia che si tratti di movimenti sviluppatisi
in seno a una società come reazione all’incontro-scontro con una civiltà diversa dagli
atteggiamenti repressivi, sia che si tratti di movimenti endogeni, sorti cioè all’interno di
una stessa società con lo scopo di esprimere e risolvere situazioni critiche proprie di
quella data società, il “momento religioso” è solo una parte del più ampio e complesso
processo che determina una realtà culturale. Occorre specificare a questo proposito che
la classificazione operata da Lanternari in movimenti “endogeni” ed “esogeni”, così
come la contrapposizione tra religione “ufficiale” e religione “popolare”, o tra mondo
“etnologico” e mondo “colto” o “moderno”, non vogliono corrispondere nelle intenzioni
dell’autore ad un rigido schematismo tipologico, tipico di un approccio fenomenologico
allo studio del fenomeno religioso. Lanternari stesso precisa che le distinzioni proposte
sono da intendersi come “momenti” diversi ma non separati, che anzi spesso sono
strettamente collegati tra loro e che si risolvono nel concreto processo storico,
determinando lo sviluppo di un dato movimento.
Per una più corretta capacità di giudizio occorre dunque affrontare l’analisi dei
NMR tenendo presente il loro stretto intreccio con gli altri “momenti” che costituiscono
una data struttura sociale – appunto quello storico, politico, economico ecc.
Mantenendo dunque vivo un approccio comparativistico che non si limiti alla
considerazione del “sacro” in sé, ma alle logiche che ne sottendono la costruzione in
stretto rapporto con la sfera del “profano”, Lanternari ci rimanda tutta la complessa
vitalità creativa che caratterizza quell’operazione culturale che è la nascita e lo sviluppo
di un movimento “religioso”. Tale complessità ci fa dunque dubitare di troppo facili
generalizzazioni, di etichette sotto cui ancora troppo spesso si raggruppano i più vari
fenomeni nel tentativo di conferire loro una radice storica e culturale comune che in
realtà non posseggono, aprendo così la via, invece che ad una più completa
18
comprensione della realtà, a possibili strumentalizzazioni, utili per operazioni
revisionistiche che sembrano essere tornate tanto attuali.
Se l’approccio comparativistico ci permette di considerare i vari movimenti nella
loro irriducibile particolarità storica e culturale, allo stesso tempo ci consente di
osservarli nel loro insieme e di tentare in qualche modo una definizione della logica che
sta alla base della creazione di un fatto “religioso”. Con ciò vogliamo intendere il
tentativo di rintracciare le dinamiche particolari che sottendono l’accettazione da parte
di una comunità di un determinato insieme di norme comportamentali, di culti e
pratiche rituali, di un immaginario condiviso, nella prospettiva di inserire all’interno di
una struttura significante i dubbi, gli imprevisti, le avversità che l’esistenza umana
inevitabilmente comporta.
19
Problematiche del “sacro”
I differenti atteggiamenti interpretativi nei confronti dei NMR proposti da
Introvigne da una parte e da Lanternari dall’altra, fanno riferimento a concezioni
opposte per quanto riguarda il concetto di “sacro”. Tali concezioni fanno capo alle
correnti di pensiero che propongono un approccio allo studio del fenomeno “religione”
che ha preso il nome rispettivamente di “fenomenologico” e di “storico-religioso”.
È a partire dal 1917, con la pubblicazione del volume Das Heilige da parte del
teologo Rudolf Otto, che si delinea all’interno della cultura occidentale il concetto di un
“sacro” inteso come qualcosa caratterizzato da una propria specificità irriducibile ad
altro. Un “sacro” avulso dal contesto della/delle religioni.
L’esempio di Otto, per quanto significativo, non è tuttavia isolato, ma si colloca
in un momento storico animato da una particolare insistenza innovativa culturale. Tra le
varie ricostruzioni dell’evoluzione del pensiero storico-religioso, vogliamo fare
riferimento in particolare alla prima parte del saggio di Ernesto De Martino Mito,
scienze religiose e civiltà moderna, datato 1959 e posto in apertura del volume Furore
Simbolo Valore. Riferendosi alla situazione delle scienze religiose negli anni precedenti
la fine del primo conflitto mondiale, l’autore scrive:
“In generale, consapevoli o no che ne fossero i singoli autori, la religione e il mito
venivano ricondotti ad altro, erano “maschera” di qualche cosa d’altro: di esigenze
filosofiche, scientifiche, estetiche, morali, di mondani bisogni proiettati nel sopramondo
illusoriamente soddisfatti, di strutture economico-sociali o addirittura della sessualità.
[…] Negli ultimi quarant’anni, invece, si è venuto affermando in Occidente un vario
movimento di pensiero che tende a rivendicare la autonomia della religione e del mito
nel quadro di una tematica esistenzialistica alimentata da un continuo riferimento alla
concreta varietà dei fenomeni religiosi della storia umana. Etnologi come Frobenius,
Jensen, Malinowski, Leenhardt, storici e fenomenologi della religione come R. Otto,
Hauer, van der Leeuw, Eliade, W. Otto, Kereny, sociologi come Levy-Bruhl, LeviStrauss e Caillois, filosofi come Cassirer, Bergson, Bachelard, Gusdorf, psicologi come
Jung e Neumann, hanno inaugurato una valutazione della vita religiosa e del mito che,
in netto contrasto con l’età precedente, è orientata verso il riconoscimento di profonde
motivazioni esistenziali del “sacro”, del “mitico”, del “simbolico”.”6
6
De Martino 2002 (1962): 35-36
20
Il “sacro” proposto da Otto è essenzialmente Ganz Anderes, letteralmente il Tutto Altro,
l’alterità radicale, ab soluta rispetto all’uomo e alla sua condizione. L’alterità del
“sacro” è ontologicamente pensata come esistente in sé, al di fuori dei sistemi
relazionali culturalmente determinati, una vera e propria categoria al di fuori anche delle
stesse “religioni”, in cui esso appare organizzato culturalmente.
Grazie ad Otto si afferma un modello più elastico cui fare riferimento che, in
alternativa al concetto di “religione”, si configura come un comune denominatore che si
può rintracciare attraverso tutte le esperienze di rapporto con ciò che è percepito come
extraumano. In questo senso il “sacro” ottiano funge da convergenza per tutti i sistemi
“religiosi”, invalidandone ogni pretesa di assolutezza e accomunandoli nell’
accettazione di un unico Assoluto. L’Assoluto di Otto non si confonde però con l’idea
di dio o con i vari modelli di dei, ma esprime un a priori irriducibile che diviene
identificabile e interpretabile all’interno della storia in cui agisce come “elemento
altamente dinamico e indipendente”.
La pretesa assolutezza del “sacro” di Otto dimora in quella che egli chiama
religiöses Erlebnis, una “esperienza emozionale religiosa” non classificabile né
definibile secondo gli schematismi delle varianti culturali, ma riconoscibile anzitutto
come “emozione” esistente in sé che agisce sull’uomo coinvolgendolo secondo le
polarità antitetiche del tremendum e del fascinans, atterrendo cioè profondamente
l’uomo e contemporaneamente attirandolo irresistibilmente a sé, invitandolo ad un
inevitabile rapporto.
All’inizio del terzo capitolo della sua opera, Otto invita infatti il lettore a
“rievocare un momento di commozione religiosa, possibilmente specifica”, ammonendo
chi “non può farlo o chi non ha mai avuto di tali momenti” di non proseguire oltre con
la lettura. La sostanza ultima che trascende tutti i modelli religiosi e permette
l’esperienza del “sacro” è chiamata da Otto il numinoso, dal latino numen, termine
indicante la divinità intesa nella sua essenza, fondamentalmente inconoscibile:
“Si tratta dunque di trovare un nome per designare questo momento (del sentimento del
“sacro”) isolatamente, nome che, prima ne determini tutta la peculiarità e che,
secondariamente renda possibile di comprendere e rilevarne le eventuali sottospecie o i
gradi di sviluppo. Io formo pertanto la parola: il numinoso intendendo parlare di una
speciale categoria numinosa che interpreti e valuti, e di uno stato d’animo numinoso che
subentra ogni qualvolta quella sia applicata, vale a dire, quando un oggetto è pensato
come numinoso. Simile categoria è assolutamente sui generis e non è definibile nel
21
senso stretto, come non lo è alcun dato fondamentale e originale, ma è soltanto atta a
essere accennata.”7
Quanto detto fino a qui basta ad evidenziare il cambiamento di prospettiva inaugurato
dal pensiero del teologo tedesco, con cui si afferma definitivamente quella visione di un
“sacro” essenzialmente “psicologico” e insieme ontologico.
Questa interpretazione apriva alla possibilità di fondare su basi filosofiche una
“storia comparata” che evitasse di ricondurre il fenomeno “religione” a qualcosa di
diverso dalla propria specificità. Infatti, riducendo l’ “essenza” di ciò che è considerato
“religione” al sentimento del “sacro”, la visione di Otto permette di proporre una ricerca
in cui sia possibile includere sullo stesso piano di giudizio anche manifestazioni
definibili comunque “religiose” che possono però essere profondamente diverse e
lontane dal cristianesimo eurocentrico e più in generale dai sistemi che fanno capo
all’idea del Dio monoteista.
Esperienze che coinvolgono più direttamente il corpo attraverso l’uso dei
cosiddetti “stati modificati di coscienza” ricevono così dignità non solo “scientifica” e
permettono di mettere in evidenza tradizioni sotterranee, da sempre comunque ben
presenti nei filoni della mistica, delle pratiche esoteriche e dell’occulto, e di metterle in
relazione con il quadro occidentale.
Le riflessioni di Otto crearono delle condizioni di pensiero favorevoli per lo
sviluppo della cosiddetta “fenomenologia della religione”, che si impegnò a codificare
un “sacro” essenzialmente metastorico, posto oltre i confini della ragione umana, quindi
esplicitamente a-razionale, che ebbe, come si sa, larga fortuna nel corso del Novecento.
L’idea di un “sacro” metastorico e ambiguo, esistente in sé e per sé, trova una larga
diffusione non solo in ambito accademico grazie soprattutto al successo dell’opera di
Mircea Eliade. Se si eccettua il “caso” italiano, le tesi dello studioso rumeno sono
recepite entusiasticamente ed acriticamente, e godono di un consenso pressoché
unanime fino alla fine degli anni Sessanta8. Il fatto che le impostazioni di Otto
andassero a colmare un vuoto teorico percepito come necessario da riempire, è
testimoniato dalla trasversalità con cui esse vennero accolte. Non bisogna dimenticare
infatti che Eliade proviene da un contesto culturale legato alla destra rumena, e la sua
adesione negli anni Trenta alla politica fascista della Guardia di Ferro creò qualche
riserva nei suoi confronti. Tuttavia l’uso di questo specifico concetto di “sacro” trova
applicazione anche tra gli ambienti della sinistra francese, in particolare all’interno di
7
8
Otto 1994 (1917): 19
confronta Angelini 2001 e De Martino-Pavese 1991
22
quel singolare esperimento culturale che fu il College de Sociologie. Nella Parigi che si
preparava alla guerra, autori come Bataille, ma in particolar modo Caillois nutrivano
l’ambizione di compilare una vera e propria “sintassi del sacro”. Il loro punto di
partenza è esplicitamente quello di Otto, ma a fronte dell’approccio “introspettivo” del
teologo tedesco, essi ricercavano un “sacro” che fosse attivo, che percorresse
letteralmente, rigenerandolo, quell’organismo vivente che loro intendevano fosse la
società9.
Tuttavia il limite del pensiero di Otto sta proprio in questa sorta di isolamento
metafisico in cui viene posto il “sacro”, sottraendolo così a ulteriori indagini critiche
volte a determinarne le dinamiche costitutive. Sarà questa esigenza di “razionalizzare”
ulteriormente il limite metastorico del “sacro” a creare i presupposti per lo sviluppo di
un metodo di studio delle “religioni” su base rigorosamente storicistica.
Si vengono così consolidando, nei primi decenni del XX secolo, due linee
interpretative che fungeranno da punto di riferimento nello studio del fenomeno
“religione”. Una via è quella fenomenologica, che intendeva il “sacro” come entità
categoriale trascendente, esistente in sé ed estranea ai condizionamenti storici; l’altra è
quella storicistica che viceversa immergeva pienamente il “sacro” all’interno del
divenire storico, considerandolo una variante culturale analizzabile attraverso gli
strumenti della ricerca comparativa. Per cercare di meglio chiarire questi due approcci
tanto antitetici quanto reciprocamente connessi, faremo riferimento ai percorsi
intellettuali di due tra i più rappresentativi esponenti di queste correnti di pensiero: il
rumeno Mircea Eliade da una parte, e l’italiano Raffaele Pettazzoni dall’altra, uniti in
vita da un ventennale rapporto di reciproca stima.
9
Caillois 2001 (1939)
23
Tra due interpretazioni: “sacro” phainomenon e
“sacro” genomenon
Le considerazioni di Otto sul “sacro” creeranno le premesse teoriche per
l’affermazione della nozione di ierofania, coniata da Mircea Eliade. Intesa come
“manifestazione del sacro”, essa si attesta come modello più ampio in grado di cogliere
l’onnipresenza del “sacro” nella sua essenza e trascendenza, quali si presentano nelle
manifestazioni simboliche rilevabili storicamente all’interno dei vari sistemi culturali.
Tuttavia i riferimenti teorici più prossimi ad Eliade non sono tanto quelli
teologizzanti del “sacro” di Otto, quanto piuttosto quelli dei cosiddetti “teorici della
tradizione”. Fino alla Seconda Guerra Mondiale infatti, l’interesse del giovane rumeno è
rivolto ad autori come Evola, Guénon, Coomarswamy, che facevano parte di un più
ampio gruppo di studiosi che sostenevano l’esistenza di una tradizione primordiale,
sovrastorica, che unificava sotto un unico principio trascendente le diverse tradizioni
culturali sviluppatesi lungo i secoli. Egli sceglie deliberatamente di innestare il proprio
cammino di riflessione sulla scia delle teorie divulgate dai “tradizionalisti” senza
prendere in considerazione lo storicismo di un Pettazzoni, o la fenomenologia di un van
der Leeuw che pure conosceva. Semplicemente i percorsi ermeneutici proposti dai
“tradizionalisti” meglio si adattavano ai suoi intenti. Ciò a cui mirava Eliade infatti, era
la ricostruzione di una “metafisica arcaica” andata via via degradandosi nel tempo e
costituita attorno al tema della reintegrazione della realtà nel tutto indistinto che precede
la creazione.
Nei suoi primi volumi scientifici dedicati all’alchimia, si afferma una visione del
mondo arcaico in cui la natura era vissuta come un corpo organico animato in cui tutti i
“livelli” della realtà - storico e mitico – potevano essere uniti senza per questo venire
annullati. A svolgere questa funzione unificante è designato il “simbolo religioso”
creato dall’uomo. L’uomo infatti, secondo Eliade, prendendo coscienza della propria
posizione nel cosmo, diviene consapevole di una caduta, di una separazione, intuisce la
divinità come un intero di cui non è più parte. Questa consapevolezza è fonte di dolore,
timore e disperazione, e da qui nasce l’atto religioso come bisogno fondamentale
dell’uomo di restaurare l’unità con il cosmo. Il rifacimento di questa unità, tramite il
24
dispositivo mitico-rituale, implica una sorta di “rottura di livello” in cui si rende
possibile un fondamentale paradosso: la distruzione del cosmo e la sua ricostruzione in
un’unica unità. Si rende possibile una coincidenza di contrari, la coincidenza di un
frammento – l’uomo – con il tutto – il divino10.
Agli inizi del suo lavoro scientifico comunque, Eliade recupera le principali
categorie interpretative dei “tradizionalisti” – il tema della reintegrazione, della
coincidenza dei contrari – ma le riutilizza spogliandole di ogni autonomia ontologica,
con un senso puramente morfologico per cercare di arrivare a una comprensione della
“metafisica arcaica”:
“[Eliade] trasferisce il tema della reintegrazione dal livello metafisico al piano
esperienziale e affettivo del sentimento e dell’angoscia esistenziale. […]L’atto rituale,
secondo Eliade, costituisce un tentativo di reintegrazione dell’Assoluto perché
manifesta la convergenza paradossale dell’essere e del non-essere, del sacro e del
profano, e pertanto realizza su un piano empirico la coincidenza degli opposti”11
È questo spostamento, questa “rottura di livello” rispetto alle teorie “tradizionaliste”,
che traccia il solco per una nuova struttura concettuale che sfocerà nel concetto di
ierofania, attorno al quale verrà impostato il pensiero dell’Eliade maturo, e che viene
esposto nella sua opera forse più conosciuta e ambiziosa che è il Trattato di storia delle
religioni12.
L’attenzione che Eliade riserva alla dimensione esperienziale traspare anche
nelle modalità con cui egli racconta di aver concepito la nozione di ierofania. Tale
concetto gli si rivela – è proprio il caso di dirlo – nella notte del 9 settembre 1940,
nascosto in un rifugio antiaereo durante un pesante bombardamento su Londra, dove si
trovava in qualità di addetto culturale presso la legazione reale rumena. L’episodio è
riportato da Pietro Angelini direttamente dai diari dello stesso Eliade che la descrive
come una vera e propria
folgorazione13. Sotto il frastuono delle esplosioni gli si
10
Per una ricostruzione delle linee di sviluppo del pensiero del giovane rumeno confronta Pisi 1998
Pisi 1998: 59
12
Il Trattato di storia delle religioni venne pubblicato nel gennaio 1949 dopo una lunga gestazione. Il
nome dell’opera venne imposto a Eliade dall’editore francese Payot, mentre l’autore rumeno aveva
proposto, più correttamente, Prolegomeni a una storia comparata delle religioni.
13
Angelini 2001. Il racconto è riportato poi, dallo stesso Angelini anche nell’introduzione da lui curata
all’ultima edizione italiana del Trattato (Eliade 2001), in cui aggiunge, tra l’altro, altre pagine dai diari
eliadiani: “Annoto, per il momento, l’idea fondamentale: le ierofanie, cioè la manifestazione del sacro
nelle realtà cosmiche (oggetti o processi che appartengono al mondo profano), hanno una struttura
paradossale, perché mostrano e camuffano allo stesso tempo la sacralità. Seguendo questa dialettica delle
ierofanie fino alle sue ultime conseguenze (il sacro rivelato e nel contempo occultato nel Cosmo, in un
essere umano – esempio supremo: l’incarnazione - , in una “Storia Santa”), si potrebbe identificare un
nuovo camuffamento nelle pratiche, nelle istituzioni e nelle creazioni “culturali” moderne.
Evidentemente, si sapeva che le funzioni biologiche importanti (l’alimentazione, la sessualità, la fertilità),
11
25
presenta chiaramente alla mente l’idea delle ierofanie come manifestazioni del sacro
nella realtà profana e come paradossale coincidenza di contrari.
Il tema della ripetizione di un archetipo, così come quello della reintegrazione di
un passato mitico, costituiscono l’intreccio teorico su cui verrà imbastito il Trattato di
storia delle religioni. Per Eliade l’archetipo è un modello esemplare, simile all’ideale
platonico, ma indica anche “l’aspetto costante, l’invariabile strutturale e astorica – e
insieme la forma perfetta – del simbolismo religioso e delle ierofanie”14. La forza
creatrice degli archetipi continuerebbe invariabilmente ad agire nell’uomo, e grazie a
questa continuità, la storia riceverebbe il suo senso in quanto storia “sacra”. Così Eliade:
“Tutte queste azioni archetipali furono rivelate allora, in illo tempore, in un tempo che
non potrebbe essere localizzato cronologicamente, nel tempo mitico. Però queste azioni
rivelandosi hanno creato un “principio”, un “avvenimento”, che viene a inserirsi nella
prospettiva grigia e uniforme della durata profana (durata in cui appaiono e scompaiono
gli atti insignificanti) e costruisce così la “storia”, la serie degli “avvenimenti che hanno
un senso”, ben distinta dalla dispersione dei gesti automatici e senza significato.”15
L’unità tra passato e presente, tra mondo arcaico e società moderna, garantita dalla
ripetizione di un medesimo universo mitico-simbolico, è ciò che secondo lo studioso
rumeno rende possibile una storia delle religioni. Ai suoi occhi infatti, la storia si
configura come un susseguirsi di diverse concezioni del mondo, determinate dalle varie
manifestazioni del “sacro”, e il compito dello storico consisterebbe nel ricomporre
questa successione.
La ierofania impostata da Eliade aveva il merito di riaffermare la specificità e
l’irriducibilità ad altro del fenomeno “religione”. Essa apriva inoltre alla comparabilità
tra comportamenti religiosi “altri”, distanti dalla prospettiva etnocentrica occidentale,
con un respiro interculturale ed extraconfessionale più ampio rispetto alle posizioni di
Otto. Il Trattato infatti, si presenta fondamentalmente come una vasta collezione di miti
e di riti classificati sulla base di una presunta “qualità” della paradossale “esperienza del
sacro” resa possibile per mezzo di realtà profane. I vari capitoli in cui è suddivisa
l’opera ci presentano altrettante raccolte di quelle che sono considerate ierofanie,
ordinate secondo uno schema che parte dalla “esperienza del sacro” ritenuta più comune
le arti (la danza, la musica, la poesia, le arti plastiche), i lavori e i mestieri (la caccia, l’agricoltura, le
costruzioni di ogni genere ecc.), le tecniche e le scienze (la metallurgia, la medicina, l’astronomia, la
matematica, la chimica) avevano avuto all’origine una funzione e un valore magico-religioso. Ma io
volevo mostrare che, anche sotto le sue forme radicalmente desacralizzate, la cultura occidentale
camuffava dei significati magico-religiosi che i nostri contemporanei (con l’eccezione di alcuni poeti e
artisti) non sospettavano” (Eliade 2001: XVI)
14
Pisi 1998: 69
15
Eliade 2001 (1948): 359-360
26
e immediata – ierofanie uraniche, solari e lunari – per arrivare a quelle ritenute più
complesse – ierofanie temporali e spaziali.
Tuttavia per Eliade il “sacro” esiste al di fuori dell’uomo e nelle singole
circostanze nelle quali si rivela. Questa qualità “ontica” che caratterizza il “sacro”
eliadiano, esistente in sé, acriticamente accettato, e che in quanto tale rende possibile la
ierofania, penalizzava una più rigorosa prospettiva storica e laica. Lo studioso rumeno,
infatti, non rinunciò mai di fare riferimento al richiamo storicistico, egli però
considerava l’individuazione storica e culturale come un momento preliminare
nell’analisi del fatto “religioso”, cui doveva necessariamente seguire una classificazione
tipologica del materiale in grado di dischiuderne il significato metastorico. In altre
parole le dinamiche storiche acquistano senso per Eliade soltanto nella misura in cui
rendono l’uomo consapevole di nuove modalità del “sacro”16.
L’opposizione tra metodologia tipologica-fenomenologica e metodologia
storicistica coinvolge alla radice la pensabilità del “sacro” come oggetto specifico di
indagine. Tale opposizione si concretizza nel confronto critico che traspare dal lungo
rapporto intercorso tra Eliade e l’italiano Raffaele Pettazzoni. Fondatore in Italia della
disciplina storico-religiosa e della cosiddetta Scuola Romana di Storia delle Religioni,
egli fu il primo a collocare con chiarezza il concetto di “sacro” in una dimensione
totalmente storica. Nel cercare di mettere in luce la via aperta da Pettazzoni, partiamo da
quanto egli stesso scrive in uno dei suoi ultimi articoli, Il metodo comparativo, apparso
sulla rivista Numen nel 1959, pochi mesi prima della sua scomparsa:
“Ciò che manca alla fenomenologia religiosa, ciò che essa esplicitamente ripudia, è
l’idea di svolgimento. Intendendo il fenomeno religioso come “apparizione” o
“rivelazione” del sacro, e come esperienza del sacro, la fenomenologia deliberatamente
ignora quell’altro modo di pensare e di intendere per quale ogni phainomenon è un
genomenon, ogni apparizione presuppone una formazione, ed ogni evento ha dietro di sé
un processo di sviluppo. L’idea di svolgimento è invece al centro del pensiero
storicistico, mentre allo storicismo è estranea quella istanza che per la fenomenologia è
fondamentale, cioè il riconoscimento della religione come valore autonomo. […] In
termini sistematici, si tratta di superare le posizioni unilaterali della fenomenologia e
dello storicismo integrandole reciprocamente, e cioè potenziando la fenomenologia
religiosa col concetto storicistico di svolgimento e la storiografia storicistica con
16
Confronta a questo proposito quanto scrive Paola Pisi in un interessante contributo apparso su SMSR in
occasione di un numero monografico dedicato a Raffaele Pettazzoni a trent’anni dalla sua morte: “Lo
studio storico, pur necessario per istituire quella “scienza integrale delle religioni” auspicata da Eliade, si
riduce così, in definitiva, a fornire i materiali per l’edificazione per una morfologia sistematica, in cui la
parola ultima è demandata all’ermeneutica, che sola può comprendere e interpretare i fatti religiosi. Il
“senso” dei fenomeni religiosi si rivela in tal modo in ciò che risulta irriducibile alla storia (in ultima
analisi nel sacro come modalità di significazione del mondo e nell’ “incoercibile desiderio umano di
trascendere il tempo e la storia”)”(Pisi 1990: 254)
27
l’istanza fenomenologica del valore autonomo della religione, restando con ciò risolta la
fenomenologia nella storia, e insieme riconosciuto alla storia religiosa il carattere di
scienza storica qualificata”17
Volendo ridurre la questione ai minimi termini, potremmo dire che l’apporto
fondamentale di Pettazzoni sta tutto in questo cambio di prospettiva, ricco di
conseguenze e di possibilità. Il “sacro” non è il phainomenon eliadiano e
fenomenologico, non una “manifestazione” di qualche cosa che esiste in sé, non il “tutto
altro”, bensì un genomenon, produzione integralmente umana, qualcosa che l’umanità si
costruisce di volta in volta nel corso della sua esistenza storica. Secondo questa ottica il
“sacro” può cambiare, anzi, deve modellarsi a seconda dei bisogni, degli adattamenti,
degli scopi che di volta in volta si presentano come necessari.
Prima ancora che nella sottile e velata critica a Eliade e alla fenomenologia, che
si rivelerà esplicitamente solo nei suoi Ultimi appunti pubblicati postumi, Pettazzoni
organizza l’interpretazione storica del “sacro” nel confronto-conflitto con Benedetto
Croce.
Il nodo teorico della discussione verteva attorno al problema del valore
autonomo della religione. Com’è noto lo storicismo crociano negava uno spazio
specifico della religione all’interno delle “categorie dello spirito”, e così facendo
contestava radicalmente le fondamenta teoriche di una disciplina storico-religiosa.
Diversamente Pettazzoni sosteneva la legittimità di riconoscere alla religione una
propria specificità analizzabile rispetto agli altri tratti culturali di una determinata
società, specificità che non stava però a significare indipendenza assoluta, né tantomeno
trascendenza. Tra i vari interventi a questo proposito, riportiamo quanto scritto
nell’introduzione a La religione primitiva in Sardegna, pubblicata da Pettazzoni nel
1912, ben prima dunque della formulazione dell’autonomia categoriale del “sacro” da
parte di Otto:
“La scienza delle religioni ha una individualità sua propria fin da quando si è
emancipata dalle discipline affini. Essa è oggimai un organismo a sé, che per sua
peculiare natura ha molteplici ed intimi rapporti con molte altre scienze, che si giova
delle loro conquiste e progredisce pei loro interessi, e in compenso dà loro una nozione
che spesso mostrano di non possedere, la nozione del fenomeno religioso nel suo essere
e nel suo divenire, nella sua unità complessa e nella sua varietà multiforme.”18
17
Pettazzoni 1959, riportato in Montanari 1990: 21
Pettazzoni 1912, riportato in Pisi 1990: 256. E ancora, sempre riportato da Paola Pisi, un brano tratto da
La religione nella Grecia antica fino ad Alessandro: “La religione è una forma della civiltà, e
storicamente non si intende se non nel quadro di quella particolare civiltà di cui fa parte, e in organica
connessione con le altre forme, quali la poesia, l’arte, il mito, la filosofia, la struttura economica, sociale e
politica.”
18
28
Date questa premesse risulta evidente come lo studioso italiano guardasse con interesse
al percorso fenomenologico. Tale interesse si realizzava non tanto nella condivisione
degli intenti programmatici volti a individuare “strutture” metastoriche del “sacro”,
bensì nella valutazione positiva dell’impostazione metodologica, che poggiava
sull’assunto del valore autonomo del fenomeno “religione”. Grazie a tale assunto, la
fenomenologia arrivava a riconoscere un insieme di fatti e aspetti, culturalmente
determinati e definiti come “religiosi”, che si presentavano realmente analoghi, se non
altro formalmente, e ciò ne rendeva quindi possibile la comparazione. Tuttavia per
Pettazzoni il metodo comparativo era ben lungi dal fungere da mero strumento di
classificazione tipologica di somiglianze e differenze, doveva invece essere orientato a
individuare e a giudicare su base storica gli irripetibili processi di formazione e sviluppo
in cui si risolvono integralmente le varie “religioni”.
La proposta di Pettazzoni non si risolve dunque in una alternativa tra metodo
storico e metodo fenomenologico, bensì in un tentativo di sintesi tra una fenomenologia
religiosa che corre il rischio di assolutizzare il proprio oggetto di indagine ma che ne
riconosce la specificità, e lo storicismo assoluto crociano che nega a priori la possibilità
di un’indagine storiografica sulla religione e disconosce le possibilità conoscitive del
comparativismo. Egli infatti non intende riconoscere alla “religione” lo status
categoriale di ingenerazione e immutabilità, in modo da affiancarla alle categorie
crociane, ma piuttosto individuare un oggetto empirico da sottoporre alla ricerca e alla
comparazione storica.
Le parole di Paola Pisi chiariscono ulteriormente quanto detto:
“La teorizzazione di una complementarità di storicismo e fenomenologia permette
pertanto a Pettazzoni di evitare il rischio di una ontologizzazione metafisica dell’oggetto
(religione come manifestazione di un “sacro” irriducibile alla storia, e pertanto passibile
di una “comprensione” ermeneutica volta a scoprire, al di là delle variabili storiche,
“essenze”, “strutture” e “archetipi” metastorici), sia di una reificazione filosofica del
metodo (come accade con lo storicismo assoluto crociano, che trasforma la storia da
metodo in valore). Così come la religione non assurge a un universale metastorico alla
maniera dei fenomenologi, allo stesso modo lo storicismo pettazzoniano non diviene
mai un sistema filosofico, ma è piuttosto il metodo di una ricerca che, proprio in quanto
storica, impone di risolvere sul piano della storia, e delle ragioni umane e culturali, i
fenomeni analizzati. Se dunque il rapporto storia/fenomenologia non si realizza, negli
scritti pettazzoniani, come antitesi assoluta, è vero però che il momento tipologico e
morfologico non può che avere, al massimo, una funzione preliminare rispetto a quello
della critica storica: la gerarchia stabilita da Eliade, per cui la storia doveva essere
29
ancilla phaenomenologiae, si trova ad essere ribaltata: fenomenologia ancilla
historiae.”19
Il merito dello studioso italiano, non adeguatamente riconosciuto e compreso, sta nel
proporre uno storicismo inteso come metodo d’indagine e non come presupposto
filosofico, teorizzando così quella particolare scienza che è la “storia delle religioni”, la
quale si presenta quindi come disciplina “aperta”, che acquista dignità e si determina
proprio in virtù del suo stesso farsi, dell’applicazione rigorosa del proprio metodo di
analisi. Ciò che è comparabile non sono gli aspetti formali decontestualizzati e
destorificati, ma le particolari dinamiche di genesi e sviluppo di ciò che è comunemente
definito “religione” ben inserite all’interno del contesto sociale, culturale, politico,
economico, in cui tali dinamiche hanno avuto modo di prodursi, cioè tenendo conto dei
salti, delle interruzioni, degli sconvolgimenti, dei ricongiungimenti, che caratterizzano il
continuo divenire della storia.
Il senso del “sacro” per Pettazzoni deve dunque essere ricercato nel sistema di
rapporti che una determinata formazione “religiosa” intrattiene con le altre variabili che
compongono il
sistema culturale da cui essa è stata partorita. In questo senso le
classificazioni da lui proposte, che non mancarono comunque di suscitare perplessità,
intendono effettuare un passaggio “dalla tipologia alla storia”:
“La frequente proposta di differenziare e articolare le formazioni religiose in prenazionali, nazionali e sopranazionali (o pre-arcaiche, arcaiche e moderne) non è
orientata ad elaborare una classificazione naturalistica coestensiva all’intero mondo
delle religioni, ma piuttosto a storicizzare il problema dell’universalismo religioso.
Cristianesimo, Islam e Buddismo (insieme a Zoroastrismo e Manicheismo)
appartengono – scrive Pettazzoni – allo stesso tipo religioso (convenzionalmente detto
“moderno” o “supernazionale”) non tanto e principalmente perché possiedono alcuni
tratti “statici” comuni (presenza di un fondatore alla loro origine, soteriologia
oltremondana, pratica del proselitismo, diffusione, almeno programmaticamente,
universale), quanto perché hanno adempiuto storicamente ad una “funzione” analoga –
quella cioè, ponendo la salvezza extramondana al di sopra e in opposizione ad ogni
valore mondano, di determinare il nascere della religione come valore assoluto,
sovraordinato rispetto a qualsiasi elemento di identificazione “nazionale”. Le religioni
autenticamente e propriamente sopranazionali non sono tali perché genericamente
portatrici di un messaggio rivolto all’intera umanità, ma perché si sono storicamente
realizzate come superamento e/o negazione – in nome di una salvezza “assoluta” extrae oltre-mondana – di precedenti religioni, il cui fine era l’edificazione dello stato, o
comunque del gruppo sociale.”20
19
20
Pisi 1990: 263
Pisi 1990 : 266
30
Metodo e oggetto del comparativismo storicistico sono dunque dialetticamente
interconnessi e non si possono dare l’uno senza l’altro. Volendo radicalizzare le
posizioni di Pettazzoni, potremmo dire che una definizione tout court di cosa sia la
“religione” o il “sacro” non sembra rendersi più necessaria. Necessaria si mostra
piuttosto la possibilità della pensabilità di un “sacro” come prodotto storico e culturale,
quindi essenzialmente mobile e cangiante. È la consapevolezza di questa necessità che
porterà Dario Sabbatucci ad affermare provocatoriamente che un effetto del metodo
inaugurato da Pettazzoni è quello della “vanificazione dell’oggetto religioso”21. Ed è
probabilmente la indiscriminata non accettazione degli assunti teorici su cui si basa la
ricerca storica delle religioni che ha portato questa disciplina a non essere ancora
pienamente riconosciuta in Italia, e a produrre una rimozione pressoché collettiva della
figura di Pettazzoni dal panorama culturale del nostro paese.
Ciò che viene vanificato non è tuttavia la “religione” in quanto fenomeno, la
quale anzi viene riconosciuta come invenzione culturale fondamentale, bensì il concetto
che di essa si è affermato nella cultura occidentale, cioè di essere un oggetto metastorico
e metaculturale che “trasforma i prodotti culturali contingenti in oggetti necessari e
conseguentemente in valori normativi”22.
A proposito della provocazione di Sabbatucci, Nicola Gasbarro osserva:
“Vanificare un oggetto è dissolvere la sua pretesa oggettiva e annullare la reificazione
del termine in sistemi culturali di relazioni storicamente determinati: persino
l’assolutizzazione naturalistica o dogmatica è una costruzione culturale che nasconde
nell’oggettività e sottrae alla storia ciò che vuole immutabilmente e intensivamente al
vertice della piramide dei valori.”23
Alla luce di quanto detto fin qui, risulta evidente come etichette concettuali del tipo “la
rivincita di Dio” o “il ritorno del sacro”, usate con successo per definire la massiccia
diffusione di Nuovi Movimenti Religiosi a partire dalla seconda metà del XX secolo,
non abbiano significato da un punto di vista storicistico. Esse infatti fanno
implicitamente appello alla concezione di un “sacro” che si “manifesta”, quindi
ontologicamente inteso, in cui la componente esperienziale si presenta come fondante e
viene interpretata come un dato in sé. Ciò che manca è dunque un approccio che vada
ad indagare le dinamiche e le motivazioni storiche, i presupposti culturali di una tale
proliferazione.
21
Sabbatucci 1990, ma confronta anche Gasbarro 1990: 102-114
Gasbarro 1990: 109
23
Gasbarro 1990: 109
22
31
Per tornare al nostro oggetto specifico di indagine, occorre quindi interrogarsi
sui fattori che hanno reso possibile in pochi anni la moltiplicazione a livello mondiale
del fenomeno pentecostale-carismatico, individuare le funzioni a cui esso assolve nei
contesti e nelle forme in cui si è espresso. Come mai tale fenomeno, a differenza di altri
movimenti recenti come ad esempio la New Age che negli ultimi anni ha registrato un
calo di popolarità, non accenna ad arrestarsi ma continua il suo movimento di
espansione ?
32
Il “sacro” come esperienza: la “presenza” di De Martino
La concezione di un “sacro” inteso come “esperienza” ha riscosso una larga
popolarità nel corso di tutto il Novecento, ed è alla base della diffusione dei Nuovi
Movimenti Religiosi. La cosiddetta “esperienza dello Spirito Santo” nel fenomeno
pentecostale-carismatico è considerato il momento cruciale per la conversione del
fedele. Va da sé che un discorso sulla dimensione esperienziale del “sacro”, su come
esso venga percepito e pensato, coinvolge la determinazione delle sue “origini”, della
sua “natura”.
All’interno dell’impostazione metodologica teorizzata da Pettazzoni, per cui il
“sacro” è da intendersi come genomenon, prodotto interamente culturale il cui
significato si sviluppa e si risolve interamente all’interno delle dinamiche storiche che
lo compongono, non sembrava trovare spazio una considerazione del fatto “religioso” al
di fuori da queste dinamiche. Tuttavia Paola Pisi, nella parte finale del suo saggio su
Storicismo e fenomenologia nel pensiero di Raffaele Pettazzoni, mette in luce come
nella sua ricerca sugli Esseri supremi onniscienti lo studioso italiano tracci una
corrispondenza tra “religioso” e “angoscia” o “sentimento” intesi come dati ultimi, non
storicizzabili
ulteriormente,
in
cui
individuare
quella
specificità
altrimenti
irraggiungibile. È lecito allora domandarsi:
“Dunque, anche Pettazzoni, alla fine riconoscerebbe, al pari dei fenomenologi
irrazionalisti, una originarietà e specificità del sentimento religioso soggiacente ad ogni
differenziazione storica, aderendo all’errore di credere che idee chiare possano nascere
da emozioni confuse ?”24
In realtà Pisi risolve la questione in poche battute segnando la differenza tra il ricorso al
“sentimento del sacro”, aprioristico e programmatico, da parte di fenomenologi alla
Otto o alla Van der Leeuw, e quello operato da Pettazzoni, comunque secondario
rispetto all’indagine storico-culturale. Questa concessione alla dimensione affettiva
testimonia comunque di una esigenza viva che in effetti rimane marginale nel pensiero
pettazzoniano. Toccherà al napoletano Ernesto De Martino problematizzare a fondo, in
24
Pisi 1990: 276
33
chiave storicistica, la questione del “sentimento del sacro”, che diverrà uno dei nodi
fondamentali della sua attività di studioso.
De Martino, infatti, si è particolarmente dedicato a mettere in luce i limiti del
discorso fenomenologico sulla natura del “sacro”, elaborando, di contro, una nuova e
organica chiave di lettura dell’efficacia del nesso mitico-rituale come fondamentale
modello culturale per la risoluzione, sia a livello sociale che individuale, di momenti
particolarmente critici.
Il contributo specifico di De Martino si dipana lungo tutto l’arco del suo
percorso intellettuale attraverso un continuo confronto, denso, serrato, sempre
attraversato da una forte tensione etica, che egli ha condotto con il pensiero di alcuni dei
maggiori rappresentanti del metodo fenomenologico quali Otto, Van der Leeuw, Eliade,
nell’intento di gettare le basi teoriche per uno studio dell’origine del fatto “religioso”
che si esaurisca completamente all’interno di dinamiche storiche, emancipandosi così da
griglie interpretative teologizzanti o misticheggianti.
È importante sottolineare come pur sottoponendo a costante e dura critica il
metodo fenomenologico, anche De Martino si allinea con Pettazzoni nel riconoscere a
più riprese l’importanza fondamentale che esso ricopre nel campo degli studi religiosi
proponendo la sfera del “sacro” come oggetto di analisi specifico e autonomo25.
Il punto cruciale in De Martino è la definizione in chiave storica del “tutto altro”
fenomenologico, e ciò avviene innanzitutto ribaltandone l’impostazione filosofica,
andando a reinterpretare la radicale alterità del sacro non più come dato metafisico
assoluto ma come “rischio concreto, terrestre, di alienazione dell’umano”.
Tale preciso rischio esistenziale, definito dall’etnologo napoletano come la
“perdita della presenza”, richiede di essere culturalmente rielaborato per “restituire
l’uomo a se stesso”, ed è a questa precisa funzione che assolvono le varie tecniche
mitico-rituali.
La “presenza” demartiniana si pone dunque come concetto fondante, sia della
riflessione speculativa di De Martino, sia della dinamica mitico-rituale. Essa è
dall’autore variamente definita lungo tutta la sua opera in un incessante lavoro di
25
Confronta, a questo proposito, saggi teorici fondamentali come Mito, scienze religiose e civiltà
moderna pubblicato in De Martino 2002 (1962), Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto e
Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, entrambi ripubblicati a cura di Massenzio in De
Martino 1995, assieme a una raccolta di scritti inediti dell’autore napoletano. Confronta anche De
Martino – Pavese 1991, in cui viene ricostruita la vicenda della cosiddetta “collana viola”, coraggioso
progetto editoriale con cui De Martino intendeva svecchiare la cultura italiana del secondo dopoguerra
rendendo reperibili opere che analizzassero l’oggetto “religione” da diversi punti di vista (etnologico,
storico, fenomenologico...)
34
revisione delle proprie tesi, ma si impone come strettamente collegata alla riflessione
sul sacro a seguito della polemica contro l’Erlebnis di van der Leeuw, il rivivere un dato
fenomeno religioso dopo essersene immersi sentimentalmente. Concetto chiave per un
approccio ermeneutico al fenomeno “religioso”, l’Erlebnis è da De Martino considerato
un tentativo di eluderne una autentica comprensione perché pone all’inizio del processo
ierogenetico non l’uomo, ma l’esperienza di Dio e delle sue manifestazioni:
“Ciò che per l’uomo religiosamente impegnato sta come punto di partenza (il divino o il
numinoso che si rende presente, che si manifesta) costituisce per lo storico soltanto una
tappa o un momento del reale processo ierogenetico da ricostruire. […] In realtà il
rapporto in sé col numinoso mantiene la sua apparenza di «nudo contatto con il divino»
preculturale mediante una oscillazione fra il vuoto di una mera definizione verbale e la
falsa pienezza che deriva dalla generalizzazione e dalla assolutizzazione di determinate
esperienze religiose storicamente determinate.”26
È dunque nello sforzo di rigenerazione della derivazione storica di una determinata
esperienza religiosa, che viene erroneamente assolutizzata e percepita come un “dato”,
che si contestualizza la posizione e la funzione della presenza umana. Delle varie
definizioni della presenza che si possono riscontrare negli scritti di De Martino - sia tra
quelle più compiutamente elaborate nelle opere pubblicate in vita dall’autore, sia tra
quelle presenti negli appunti dati alle stampe postumi – ne scegliamo alcune
appartenenti a quest’ultimo gruppo perché ci sembrano maggiormente evidenziare la
ricerca di De Martino di inserirsi in un confronto aperto con la cultura europea sua
contemporanea, ricerca che si inserisce pienamente nell’intento di svecchiamento del
panorama culturale italiano, altro leit motiv dell’opera demartiniana:
“Presenza significa “farsi presente alla situazione”: non è quindi la existentia
dell’ontologia tradizionale. Farsi presente alla situazione significa trascenderla nel
valore, staccarsi da essa valorizzandola, ed emergere come presenza in virtù di tale
valorizzazione, nella misura in cui ha luogo il trascendimento valorizzante. […]
L’esistenza è “presenza” (Dasein, esserci), la presenza è trascendimento della situazione
nel valore, oltrepassare ciò che passa facendolo passare in forme di coerenza culturale.
La presenza esiste nella misura in cui decide valorizzando ed entra in crisi nella misura
in cui resta prigioniera di una situazione critica. […] Il dissolversi dell’ethos del
trascendimento costituisce il rischio di perdersi della presenza, in quanto la presenza
passa con ciò che passa in luogo di far passare la situazione nel valore, emergendo come
presenza in virtù proprio di questo “far passare”. L’esistenza è pertanto
presentificazione valorizzante in lotta col rischio di non esserci. […] La presenza che si
perde è la presenza che si isola, che perde rapporto con i compiti di universalizzazione e
26
De Martino 1995: 77-78
35
di valorizzazione che la fondano come presenza: è il regredire dalla socialità e dalla
comunicabilità verso il privato, il cifrato, l’incomunicabile.”27
E ancora:
“La presenza può formare problema vitale preponderante, nel senso che può correre il
rischio di non esserci, di smarrirsi o di dileguare, e può quindi sentirsi impegnata a
possedersi, ad appropriarsi di sé, a recuperare la possibilità del completo dispiegamento
delle potenze operative che fanno uomo l’uomo; a combattere l’angoscia di perdere se
stessa e il mondo, se stessa e la cultura umana. Questa angoscia non è propriamente di
nulla, ma di quel non essere relativo che è il non esserci della presenza nel divenire
storico, il non esserci come centro di decisione e di scelta secondo distinte potenze
operative: è la esperienza di una catastrofe definitiva, la possibilità di ricadere dal piano
umano a quello sub-umano della mera opposizione naturale, cieca del lume della
distinzione, incapace di andar oltre la mera vitalità organica o corporea o animale che si
dica.”28
In una concezione che opera una netta distinzione qualitativa tra mondo naturale (del
corpo e delle sue funzioni organiche, dei suoi bisogni e dei suoi istinti) e mondo
culturale (la sfera del dominio tecnico della natura oggettiva e, conseguentemente,
dell’elaborazione di tecniche produttive senza le quali non sarebbero possibili l’ethos,
l’arte, il logos), la presenza è per l’uomo un bene fondamentale perché è la condizione
che gli permette di stare al mondo come creatore di cultura; di operare scelte e decisioni
che trascendano il livello meramente naturale; di ricodificare il divenire irrelato e
angoscioso che caratterizza tale livello entro un orizzonte simbolico valorizzante che
consente alla presenza di determinarsi come tale. Tuttavia la presenza non è per l’uomo
un dato acquisito una volta per tutte, è anzi una condizione dell’operatività storica che
in determinate situazioni corre il rischio di venire meno.
De Martino riconosce infatti l’esistenza del cosiddetto “istinto di morte”
freudiano, di una eversione fine a se stessa dalla storicità culturalmente determinata,
eversione condizionata da un irrelato “ritorno” di un passato idealizzato che spesso si
concretizza in comportamenti distruttivi e in esplosioni di aggressività incontrollata. Ed
è questa distruzione dell’ordine che il dispositivo religioso ha sempre contrastato,
inserendola all’interno della sfera protetta della rappresentazione mitico-rituale che
prevede la rifondazione dell’orizzonte di valori messo in discussione29.
27
La raccolta di appunti in questione è stata pubblicata da Massenzio con il titolo I fondamenti di una
teoria del sacro in De Martino 1995: 97-138
28
De Martino 1995: 59
29
A proposito della funzione del simbolo mitico-rituale la cui efficacia è venuta meno nella società
contemporanea occidentale, confronta il saggio Furore in Svezia, pubblicato in De Martino 2002 (1962):
167-173, in cui l’autore espone un fatto di cronaca avvenuto a Stoccolma la notte di capodanno del 1956.
36
Nell’elaborazione del concetto della presenza che abdica dal suo ruolo
valorizzante De Martino cerca il confronto – ravvisabile anche nella scelta di adattarsi
ad un linguaggio specifico per cui la presenza è intesa come esserci-nel-mondo - con
l’analitica esistenziale heideggeriana. Nel tentativo di “passare da un orizzonte
ontologico a un orizzonte storiografico”, l’autore napoletano si sofferma in particolare
sul concetto di Geworfenheit:
“La deiezione, la Geworfenheit, l’essere-gettato-nel-mondo è il rischio che travolge
l’esserci-nel-mondo: ma l’esserci-nel-mondo, la presenza, è sempre un gettare il mondo
davanti a sé attraverso l’opera universalizzante, l’apertura ai valori. L’essere-gettatonel-mondo significa già la presenza che si perde e che, perdendosi, perde il mondo. La
Geworfenheit è il male estremo che minaccia, e da cui – al tempo stesso – si riscatta
l’ethos della presenza.”30
Come suo solito dunque, De Martino interpreta il pensiero altrui secondo le proprie
coordinate: la deiezione dell’Heidegger di Essere e Tempo non viene intesa come
struttura ontologica essenziale, che si manifesta nella quotidianità dell’Esserci
indipendentemente da condizionamenti esterni31. Al contrario viene identificata con
quella condizione di totale alienazione che segue la perdita della presenza e del mondo,
proprio con quel lato oscuro determinato da particolari momenti critici del divenire.
Avendo dunque la deiezione una caratteristica radicalmente negativa, essa non può
assolutamente rientrare nella dimensione del quotidiano, il quale invece è per De
Martino essenzialmente mundus.
È in questo senso che si definisce il “tutto altro” demartiniano, cioè come la
condizione storicamente determinata della presenza che si aliena a se stessa, ed è in
questo senso che il “sacro” si manifesta come sintomo di una patologia da cui è
necessario guarire per poter riguadagnare quell’operatività che distingue l’uomo come
tale.
Tecnica di “guarigione” è quella che De Martino chiama “destorificazione
religiosa” o “destorificazione istituzionale”, che interviene sul “tutto altro” della
Durante i festeggiamenti si erano registrate delle immotivate esplosioni di violenza da parte di centinaia
di giovani: De Martino interpreta l’accaduto come il limite estremo cui giunge chi non trova più adeguati
sistemi di risoluzione culturale per una crisi esistenziale in atto.
30
De Martino 1995: 104
31
Confronta il brano di Heidegger riportato anche da Massenzio nell’introduzione a De Martino 1995: 24:
“Il fenomeno della deiezione non ci fa conoscere una specie di “faccia notturna” dell’Esserci, una qualità
ontica tale da costituire l’integrazione dell’aspetto abituale di questo ente. La deiezione rivela una
struttura ontologica essenziale dell’Essere stesso, struttura che ne costituisce così poco l’aspetto notturno
da riempire, nella quotidianità tutti i suoi giorni.”
37
presenza alienata a sé stessa e sul ritorno irrelato e non controllato di un “passato”
angoscioso.
Tramite il dispositivo mitico-rituale, l’uomo identifica le contingenze della vita
con il paradigma rassicurante del racconto mitico.
Nel mito l’esito di una vicenda è già dato una volta per tutte, quindi è sufficiente
“riviverlo” nella pratica rituale per garantirsi il medesimo esito positivo. Dunque, la
ripetizione rituale dell’evento primordiale mitico, dall’esito assicurato, assicura
all’uomo la fuga dall’angoscia della storia e di vivere in essa “come se” non ci stesse,
dandogli così modo, attraverso il “simbolo”, di plasmare il “furore” della crisi in una
nuova azione valorizzante.
L’alterità del “sacro”, interpretata nei termini angosciosi della crisi della
presenza, è dunque fondamentalmente terapeutica proprio in quanto istituzionalizzata e
regolata. Diventa così veicolo essenziale per riaccedere al mondo “profano” delle
attività quotidiane.
L’analisi del dispositivo salvifico che permette di accedere alla dimensione
metastorica del controllo rituale, dove tutto è già deciso una volta per tutte rimane,
lungo l’intero percorso intellettuale di De Martino, momento fondamentale su cui
basare il giudizio sull’efficacia di un determinato sistema mitico-rituale.
Tale sistema inteso come tentativo di risoluzione di una crisi è strumento di
genesi culturale. In quest’ottica si colloca quello che per De Martino è il compito
fondamentale dello storico delle religioni: ricostruire cioè le dinamiche storiche e
culturali che hanno condotto alla formazione di un determinato sistema religioso. Per
dirla con le parole dello stesso De Martino:
“La storia delle religioni è quindi chiamata per la parte che le spetta a rigenerare nel
pensiero la nascita dell’umano: ma non già di quella nascita che avvenne una volta per
sempre dal grembo della natura e che nel gergo antropologico si chiama ominazione, ma
di quella che continuamente è messa in causa dalla vita culturale, e che mantiene
tuttavia, al di là delle sue forme storiche, un significato complessivo unitario.”32
Il significato unitario è quell’aspetto patologico del sacro cui abbiamo accennato e che
vedremo darà adito a delle divergenze nell’interpretazione dell’ultimo De Martino.
Per ora ci preme specificare come lo storico delle religioni napoletano abbia
preso come oggetto specifico di indagine critica la società in cui si è trovato a vivere.
L’utilizzo della tecnica mitico-rituale rimane una prerogativa necessaria per le culture
32
De Martino 1995: 91
38
cosiddette “primitive” che sarebbero più spesso sottoposte a situazioni critiche; al
contrario tale dispositivo protettivo non è, e non può più essere attivamente operante
nella civiltà occidentale contemporanea.
Infatti il valore della storia è stato mediato nella società occidentale proprio dal
cristianesimo, e più in generale dall’intera tradizione giudaico-cristiana33.
La religione cristiana poggia su una concezione del tempo molto particolare, che
commemora ciclicamente il suo momento fondatore: il sacrificio del Cristo, dell’uomodio. Tale momento, tuttavia, non è posto al di fuori della storia, anzi ne occupa un
“luogo” preciso e fondamentale, e in virtù di ciò esso è inserito nel tempo che tutto può
modificare. La storia cristiana si sviluppa seguendo la prospettiva del “già e non
ancora”, inaugurata dalla venuta di Cristo, dalla sua morte e resurrezione e dalla
successiva discesa dello Spirito Santo durante la Pentecoste.
Questi avvenimenti non hanno però attualizzato fino in fondo la promessa di una
palingenesi radicale, e nel mondo cristiano si afferma la necessità di operare attivamente
nella storia – legittimando così l’azione missionaria, anche violenta -, valorizzandola in
vista della definitiva realizzazione “storica” del Regno di Dio, la cosiddetta “seconda
venuta” che il cristianesimo stesso ha collocato in un tempo futuro tanto inevitabile
quanto inconoscibile da parte dell’uomo.
Con l’affermazione del cristianesimo si ha dunque, parimenti, l’affermazione di
una concezione del tempo e della storia che potremmo definire “lineare” e che si
contrappone a una concezione ciclica, che presuppone una rassicurante “uscita dalla
storia”, tipica di altri sistemi simbolici.
Possiamo dire che ciò ha permesso, all’interno del mondo influenzato dalla
tradizione cristiana, una crescente “laicizzazione” dei costumi e soprattutto il costituirsi
di una coscienza storicistica in grado di analizzare criticamente il percorso della storia, e
all’interno di esso il ricorso al nesso mitico-rituale come dispositivo di salvezza,
evidenziandone via via l’inattualità.
Tuttavia sottolineare l’inadeguatezza del simbolo “religioso” non equivale a
negare efficacia all’azione simbolica in sé, che anzi rimane strumento culturalmente
fondante. La soluzione proposta da De Martino è quella che segue la via del cosiddetto
“umanesimo etnografico”, il cui scopo consiste nel salvare l’uomo non dalla storia, ma
dall’inevitabile angoscia che l’esistenza umana comporta.
33
Per le riflessioni di De Martino sul Cristianesimo come mediatore del valore della storia confronta De
Martino 2002 (1977), in particolare il capitolo riguardante Il dramma dell’apocalisse cristiana
39
Attraverso l’incontro con l’etnograficamente “altro”, sia sincronico che
diacronico, lo storico delle religioni può e deve giungere ad una presa di coscienza
critica del proprio patrimonio culturale e soprattutto mettere in luce i limiti e i guadagni
sottesi all’utilizzo di tecniche mitico-rituali all’interno di una data cultura.
Per quanto riguarda la società occidentale contemporanea, una volta presa
coscienza del ruolo efficace che il simbolo mitico-rituale ha svolto in una lunga epoca
storica, e del progressivo esaurimento della sua funzione, si fa sentire la necessità di un
simbolismo “laico” tramite cui la fase della “origine fondatrice e autenticatrice” non
venga ricondotta ad un piano mitico, destorificato, ma appartenga integralmente alla
dimensione della realtà storica.34
A questo proposito c’è un passaggio de La fine del mondo che esprime in
maniera esemplare gli intenti di De Martino. Pur nella sua lunghezza, vale la pena
citarlo per intero per la sua estrema attualità, e perché, nonostante in alcuni punti ceda il
passo a una certa enfasi retorica, rimanda intatta la tensione etica che pervade tutto
l’operato dell’autore napoletano, fungendo allo stesso tempo da magnifico testamento e
da stimolante invito programmatico per il futuro:
“L’alternativa è chiara: o si accetta o non si accetta la realtà della condizione umana,
che è limite e iniziativa che oltrepassa il limite, situazione e valore che trascende la
situazione, morte e opera che sopravvive alla morte. Se non si accetta questa
condizione, perché l’accettarla comporterebbe l’annientamento dello stesso coraggio
civile creatore di civiltà e di storia, allora non resta che negare realtà a questa
condizione, e occultarla e mascherarla nei grandi temi protettivi della vita religiosa, del
mito e del rito, della teologia e della metafisica, della magia e della mistica. Non resta
cioè che svalutare a mondo di segni e di simboli i ritmi dell’opera quotidiana, e svolgere
all’ombra di un ordine già istituito in illo tempore il compito di istituire, qui ed ora, un
ordine nuovo. Il fare sarà allora mascherato nel ripetere e nell’imitare, lo star desto sarà
ricompresso in un sognare, e nella storia si starà come se non ci si stesse, perché si è già
fuori; ma intanto, per questa pia fraus, si opererà e si creerà, e si innalzerà l’edificio
della civiltà. Se invece si accetta la condizione umana, e si riconosce senza scandalo che
essa ha un limite che l’opera è chiamata senza sosta a valicare, e si scorge nell’al di là
dell’opera dotata di valore l’unico modo di distaccare l’uomo dalla natura e di avviarlo
dal transeunte al permanente; se si ha coraggio e forza di creare opere di poesia e di
scienza, di economia e di vita morale senza bisogno del sistema tecnico-protettivo di
una vera patria in cui è tutto già a suo posto, e nella quale saremo alfine integrati: allora
si batte la via dell’umanesimo storicistico, della civiltà moderna, della coscienza che i
beni culturali hanno integralmente origine e destinazione umana, sono fatti dall’uomo
per l’uomo, e chiamano al giudizio e all’opera secondo questo criterio fondamentale.
L’alternativa è chiara: ma la prima delle due resterà in piedi sempre che la rete di limiti
dentro la quale siamo chiamati ad operare è troppo fitta e tenace perché ci sia dato
34
Confronta a questo proposito l’Introduzione di Massenzio a De Martino 2002 (1962), e il saggio dello
stesso De Martino, Promesse e minacce dell’etnologia, pubblicato sempre in De Martino 2002 (1962):
84-118.
40
districarcene senza fare appello a un mondo metastorico già fatto, a una civiltà divina,
che rassicuri il fanciullino di Cebete; e la seconda alternativa resta un compito da
realizzare, e una dignità da proteggere dall’insidia rinascente della prima opzione, che
sospinge verso la magia e la religione. Se dovessimo definire la nostra epoca, e noi
stessi in essa, dovremmo dire che noi siamo attualmente impegnati proprio
nell’alternativa, e la stiamo decidendo con pena e tormento: alla mente abbiamo già
davanti il quadro di un umanesimo integrale, ma in noi e intorno a noi c’è l’insidia
dell’angoscia e il bisogno del porto sicuro.”35
Come mai dunque, in una società come quella occidentale, il cui sistema religioso
maggiormente rappresentativo – quello cristiano – ha esso stesso favorito una presa di
consapevolezza della condizione umana su di un piano storicistico, slegato come mai in
passato da una dimensione metastorica, si può osservare dalla seconda metà del
Novecento una crescita esponenziale di movimenti e gruppi che propongono variamente
una fruizione diretta, personale, del “sacro”? Tale proposta si articola tra l’altro su
diversi piani. O enfatizzando gli aspetti più emozionali e miracolistici di un sistema
religioso già esistente – è questo il caso dei pentecostali e dei carismatici che rivalutano
la figura dello Spirito Santo e dei carismi ad esso connessi – o innestandosi
acriticamente su modelli culturali non occidentali, o ancora abbandonandosi a derive
variamente definibili in senso lato esoteriche o occultistiche. La risposta che si ricava
dal discorso demartiniano rimanda ancora una volta al concetto di presenza. La
presenza, il Sé, deve essere considerata come una “formazione storica sufficientemente
consolidata ma non ontologicamente garantita”36, una conquista culturale che, come
tale, non è “data” e può persino essere smarrita. Quando non è chiara la coscienza di ciò
– la coscienza della propria determinazione storica – non è chiara nemmeno la
caratteristica essenzialmente patologica del “sacro” e la funzione che esso svolge; a sua
volta non considerare il “sacro”, la tecnica crisi-riscatto della presenza, come prodotto
interamente storico e culturale, ne favorisce la cristallizzazione in una giustificazione
ontologica che ne impedisce il superamento.
Considerare troppo sbrigativamente e faziosamente il fenomeno della
proliferazione dei NMR come un generico ritorno al “sacro”, ai “valori autentici”, o
viceversa come un aberrante e “peccaminoso” allontanamento da essi, nasconde quindi
un duplice fraintendimento: da una parte abbiamo vari fattori di ordine economico,
politico, sociale, che nel corso del Novecento hanno determinato una diffusa condizione
di crisi che, invece di essere compresa nel corso del divenire storico, è stata
demonizzata come “altro-da-sé” tentando di esorcizzarla su di un piano metastorico;
35
36
De Martino 2002 (1977): 356
Cherchi 1991: 872
41
dall’altra abbiamo l’illusione che le dinamiche culturali siano un bene “dato” da sempre
e per sempre.
Affinché tornino ad essere efficacemente operanti basta “riviverle” all’interno
di un orizzonte mitico-rituale, che però a questo punto perde la sua funzione salvifica,
rimanendo una cieca ripetizione di sé.
42
La fine del mondo e il “carisma” di Lanternari
“Si è detto più riprese che la funzione del dispositivo mitico-rituale è di avviare a
soluzione le varie forme di crisi che minacciano l’integrità della presenza. Perché questo
disegno si realizzi, è necessario che il simbolo mitico-rituale assuma la crisi, la accolga
al suo interno per poterla, quindi, riplasmare nella prospettiva del suo superamento.
Accade, però che la relazione tra simbolo e crisi non si presenti mai (o quasi mai) allo
storico delle religioni in modo immediato, in quanto il simbolo tende a decollare dalla
situazione specifica da cui ha tratto origine, caricandosi di ulteriori valenze, via via più
articolate.
Pertanto, per ricostruire la suddetta relazione – che permette di accedere al nucleo della
ierogenesi – diventa necessario per lo storico delle religioni il ricorso criticamente
sorvegliato ai dati della psicopatologia: questi ultimi fanno luce sulle diverse modalità
di crisi in atto «che entrano come rischio nella dinamica della ierogenesi, fornendo la
materia su cui si modellano le tecniche religiose di destorificazione e di
reintegrazione».”37
Con queste parole contenute nell’introduzione a Storia e metastoria, Marcello
Massenzio vuole sottolineare un aspetto importante che riguarda la presenza umana nel
mondo e l’uso del dispositivo mitico-rituale, cui De Martino dedicò particolare
attenzione e che ci è indispensabile per meglio focalizzare la problematica riguardante i
culti pentecostali e carismatici: la percezione della fine.
Nell’ultima fase della sua vita infatti, egli sviluppa una propria riflessione
teorica riguardante la crisi di valori con cui la civiltà borghese occidentale si trova a
dover fare i conti nel corso del XX secolo. In La fine del mondo, la crisi viene
problematizzata come autentica apocalisse, come “minaccia incombente e finale del
nostro vissuto quotidiano e borghese” e si pone la questione di una nuova forma di
riscatto da opporle, che non si basi più solo sul simbolismo religioso.
Nell’opera
postuma
sono
raccolti
una
grande
quantità
di
appunti,
precedentemente rimasti inediti, che affrontano la tematica di questa crisi analizzando
diverse espressioni della cultura occidentale contemporanea.
La redazione degli inediti proposta da Clara Gallini e Marcello Massenzio
traccia un percorso apparentemente eterogeneo che prende in considerazione dapprima
un’ampia documentazione psicopatologica, passando poi per la dimensione escatologica
dell’apocalittica cristiana, i movimenti di stampo apocalittico sorti tra le popolazioni
37
Massenzio, La problematica storico-religiosa di Ernesto De Martino: il rimosso e l’inedito,
introduzione a De Martino 1995: 18
43
coloniali in risposta all’invasione occidentale, i tratti dell’apocalittica marxiana, e infine
la letteratura, le arti figurative, la musica del Novecento.
Ciò che accomuna queste varie formazioni apocalittiche sono proprio le loro
caratteristiche formali, che insistono nel porre l’accento su tematiche simili come la
perdita di senso della realtà mondana e l’annuncio di una sua prossima fine. La
discriminante fondamentale è però rappresentata non tanto dai contenuti, quanto dalle
strutture significanti in cui questi sono inseriti. Per l’ambito psicopatologico possiamo
infatti parlare di una “nuda crisi” che si propone come un presente ineludibile che non
contiene alcuna possibilità di riscatto; nella storia culturale invece, il tema della fine è
inserito all’interno del processo dinamico di crisi e riscatto, in cui diventa parte
essenziale della dialettica che oscilla tra crollo e recupero della dimensione valorizzante
- domestica - della presenza.
Da questo confronto tra apocalissi psicopatologiche e apocalissi culturali, per De
Martino emerge il dato inquietante di una cultura occidentale che al momento della
messa in discussione di certi ambiti della domesticità – momento legittimo e
fondamentale ai fini di un processo evolutivo – non fa seguire una rielaborazione di tale
messa in discussione secondo un nuovo orizzonte di valori storicamente operanti.
Questo cortocircuito verificatosi all’interno del dispositivo simbolico salvifico
occidentale ha fatto sì che venisse a mancare il momento fondante della reintegrazione,
generando così una situazione caratterizzata da una crisi irrisolta, che annulla l’azione
umana valorizzante in un perenne presente angoscioso. Il vuoto culturale che si è venuto
determinando in questo modo ha favorito lo sviluppo, nel recente passato, di ideologie
religiose, politiche, sociali, che a livello comunitario hanno agito e continuano ad agire
come mero “risarcimento psichico”, mirante alla “riscoperta” di “origini” mistificate e
mistificanti, piuttosto che ad una reale presa di coscienza della propria condizione
storica.
In questo panorama i NMR occupano un posto tanto rilevante quanto ambiguo,
specialmente negli ultimi anni, e in particolare i movimenti carismatici e pentecostali,
legati al culto dello Spirito Santo e dei carismi, che godono di una larga diffusione su
scala mondiale.
Il tema della fine di un mondo, di un cosmo ordinato che determina l’operabilità
umana seguendo le dinamiche di un telos che oltrepassa la situazione critica e dischiude
la possibilità di nuovi valori, nuova cultura, nuova storia, è dunque indispensabile per
comprendere la natura e lo sviluppo di determinati movimenti. Il fatto che tale fine
44
venga percepita o come rischio, incombente e minaccioso ma ancora potenzialmente
evitabile, o viceversa come dato di fatto ineludibile, definisce se a tali movimenti si
possa conferire o meno le prerogative della formazione mitico-rituale.
Nei movimenti pentecostali e carismatici, le tematiche legate alla corruzione
morale della società, e all’inevitabile fine verso cui il mondo si starebbe dirigendo,
occupano una parte fondamentale nel messaggio che propongono.
Non a caso, infatti, il momento della conversione – che coincide con la ricezione
dei “doni” dello Spirito - viene presentato come assolutamente necessario e fondante
una vita nuova, e per il fedele funge da vero e proprio spartiacque da cui operare una
radicale reinterpretazione del proprio passato che spesso viene rimosso o considerato
profondamente peccaminoso.
Prendiamo ad esempio due sermoni di Berten A. Waggoner, uno dei leaders
della Vineyard Church, una denominazione pentecostale statunitense tra le meglio
organizzate, appartenente alla cosiddetta “terza ondata” pentecostale, la più recente, in
cui le tematiche apocalittiche si fanno sentire ancora molto forti38. In questi sermoni la
civiltà contemporanea viene dipinta come assolutamente senza speranza:
“Ours is a world without hope. The rosy colored optimism of the enlightenment is
buried beneath the ashes of Auschwitz, Hiroshima, the Gulag, two world wars,
Vietnam, the World Trade Center, Afghanistan and now Iraq. The promises made by
modernity’s prophets – the promises of a wonderful life to be acquired through the
trinity of science, technology and education – has proven to be clouds filled with the
putrid acids of disillusionment. This toxic rain is finding its way into every segment of
our society causing despair and the stench of a death. There is a growing sense that we
really do “live in a yellow submarine” as the Beatles once prophesied.”
Innanzitutto è molto importante sottolineare come il discorso di Waggoner desideri
inserirsi in un contesto di stretta attualità con i riferimenti ai fatti dell’11 settembre e
alla guerra in Iraq. Questi episodi recenti vengono posti in ideale continuità con altri
drammatici eventi che hanno segnato il Novecento, e tutti vengono interpretati come gli
effetti nefasti provocati da un “allontanamento” da Dio.
Questa riduzione arbitraria crea i presupposti affinché la cultura moderna venga
presa d’assalto: la ricerca scientifica, il progresso tecnologico vengono accusati in
quanto tali di fallimento e di essere la causa dei problemi sociali, politici del mondo. Si
38
I due sermoni, che portano i titoli significativi di Building a community of hope in a despairing world e
A community of hope in a despairing world, sono datati luglio 2003 e sono liberamente scaricabili dal sito
web ufficiale della denominazione, all’indirizzo www.vineyard.com
45
punta il dito contro l’educazione, condannata per i suoi sforzi di combattere l’ignoranza
invece del peccato. La situazione critica del mondo contemporaneo viene ricondotta al
fatto che gli uomini, affidandosi alla ragione illuministica, non sentono più il bisogno di
Dio e delle sue rivelazioni. La soluzione che si evince dai testi di Waggoner, il quale fa
largo uso di citazioni sparse, prese dall’Antico Testamento, in particolare dai libri dei
profeti e da quello dei Salmi, è quella di costituire una vera e propria “comunità
escatologica” – eschatological community, nel senso di “ultimi”, “eletti”39 – il cui
compito è quello di prepararsi in vista dell’imminente ritorno di Cristo e del definitivo
compimento del Regno di Dio. In questo sforzo di creare una comunità ideale, i fedeli
sono esortati a “essere rinnovati nei carismi dello Spirito” – to be renewed in the things
of the Spirit – che secondo la teologia cristiana sono il segno che il Cristo ha lasciato
agli apostoli come promessa della sua seconda venuta.
Nell’ottica pentecostale protestante – ma in una certa misura, come vedremo,
anche tra i carismatici cattolici – si dà la necessità e la possibilità al credente di
“rivivere” direttamente e personalmente la dimensione entusiastica e miracolistica dei
carismi, per portare a compimento il disegno divino, e questa struttura interpretativa ha
permesso che all’interno di questa denominazioni si verificassero particolari episodi
avvicinabili a certe forma psicopatologiche di allucinazione collettiva.
Ne è un esempio ciò che è avvenuto durante un convegno della Toronto Airport
Christian Fellowship, denominazione pentecostale sorta dalla Vineyard Church e in
seguito resasi autonoma. Il 3 marzo 1999 diversi fedeli testimoniarono di aver ricevuto
come dono di Dio denti d’oro e d’argento durante un momento di preghiera. Episodi
simili, accompagnati anche da una pioggia di polvere dorata, si erano verificati in
precedenza durante riunioni pentecostali in Argentina e Brasile, a partire dalla metà
degli anni Settanta. Gli stessi fedeli raccontarono, poi, di come una volta tornati a casa
lo stesso “miracolo” si fosse ripetuto tra parenti e amici, e di come alcuni avessero
ricevuto i denti dorati semplicemente assistendo all’evento in diretta televisiva. Ciò che
stupisce infine, è che, mentre alcuni dentisti, visitati i presunti miracolati, negarono
qualsiasi intervento divino, ce ne furono diversi che confermarono l’avvenuto prodigio.
Dal canto suo la denominazione, in un comunicato ufficiale si esprime in questi termini:
39
Confronta Waggoner, Building a community of hope in a despairing world: “When something is
“eschatological” it is the last of a kind. There will not be anything of that kind beyond it. A people who
are “eschatological” are the final people. That is what the church of Jesus Christ is. It is God’s final
temple, final remnant and final Israel.”
46
“TACF is encouraging people to obtain dental confirmations. We will do a follow-up
report in the near future and publish our findings. Meanwhile dental miracles, along
with many other healings, continue to take place at the nightly meetings. Things that we
have seen happening in Argentina and Brazil for fifteen years are starting to happen
here now. Conversions to Christ have also increased! While we are thankful for the
miracles and healings that are taking place, our eyes are on Jesus and it is Him alone we
look to and worship.”40
Questi episodi sono solo un esempio tra i tanti di tematiche e pratiche che agiscono su
uno sfondo apocalittico, inserite all’interno di una struttura mitico-rituale definita e
diffusa come quella pentecostale. L’organizzazione simbolica di queste denominazioni
pentecostali recenti, potrebbe solo apparentemente bastare a rivalutare l’efficacia del
nesso mitico-rituale metastorico come dispositivo salvifico operante, e a considerare i
movimenti pentecostali e carismatici come validi strumenti di resistenza culturale alla
crisi occidentale del XX secolo. In realtà, di fronte a casi di formazioni religiose recenti,
che pur proponendo la riscoperta di valori salvifici sono caratterizzate da forti istanze
reazionarie, quando non decisamente alienanti – basti come esempio-limite il caso della
setta del sedicente “profeta” Jim Jones che nel 1978 diede vita al suicidio collettivo di
tutti i suoi membri in una fattoria della Guyana –, non basta più soltanto considerare un
sistema simbolico religioso come dispositivo mediatore di una crisi. Occorre, ora più
che mai, indagare le ideologie che sottendono tali formazioni religiose recenti, per
valutarne l’eventuale concreta efficacia su di un piano storico e comunitario o,
viceversa, smascherarne il carattere strumentalizzante, sintomo dell’incapacità da parte
della civiltà occidentale di elaborare forme di riscatto culturale alternative alla
destorificazione rituale.
In particolare, facendo riferimento all’oggetto specifico della nostra tesi, occorre
verificare l’efficacia del simbolismo legato alla figura dello Spirito Santo e dei suoi
“poteri” che viene proposto dai pentecostali protestanti e dai carismatici cattolici, e che
pure ottiene un grande successo. Che tipo di salvezza propongono? Il “rinnovamento”
che offrono, la scoperta di una vita “nuova”, “nello Spirito”, sono effettivamente tali
anche su di un piano storico, comunitario, socialmente condiviso oppure si risolvono in
una mera fuga dalla storia?
È noto come il De Martino de La fine del mondo lasci intravedere un
orientamento verso orizzonti speculativi che sembrano entrare in contraddizione con la
40
Sul sito web del CESNUR (www.cesnur.org) è presente una raccolta di brevi articoli riguardanti il
fenomeno e apparsi la maggior parte su riviste pentecostali e carismatiche come Spread the Fire o
Charisma Magazine, ma anche su The Times. Gli articoli sono raccolti alla pagina web dal titolo They go
for the gold. Gold dust and gold teeth filling miracles claimed in charismatic churches.
47
sua concezione dello storicismo assoluto, per cui il senso dell’agire umano si risolve,
senza residui, nella storia. Negli ultimi appunti rimastici infatti, la tesi di fondo di tutto
il suo operato, quella di un rischio preliminare, precategoriale, in virtù del superamento
del quale si ha la costituzione di forme culturali, viene ripresa e portata alle estreme
conseguenze; il rischio di crisi viene connotato come “struttura psichica perenne”,
indipendentemente dalle condizioni storiche che contribuiscono a determinarlo.
Non intendiamo qui entrare nel merito della questione relativa all’interpretazione
dell’ultima produzione demartiniana, che si è sviluppata secondo diverse direttive41. Ci
basti constatare che si è affermata la visione di un De Martino che tende verso un tipo di
ontologismo che, come dice Lanternari:
“È esplicitamente e polemicamente contrapposto ai vari ontologismi d’estrazione
apertamente irrazionalista alla Eliade e alla Frobenius, e tanto più agli ontologismi
teologizzanti d’un Cullmann o Bultmann. Certo però la stessa natura di «ontologismo» ,
come teoria che riguarda l’«essenza universale» dell’uomo e la sua «presenza» nel
mondo, tradisce l’inconscio «irrazionalismo» demartiniano, in contraddizione con la
polemica anti-irrazionalista che egli persiste a condurre.”42
Consideriamo la via percorsa da Vittorio Lanternari come la più stimolante per
proseguire in maniera proficua nel nostro tentativo di maggior comprensione del
fenomeno pentecostale e carismatico. Il suo pregio sta nel non cercare di operare alcuna
“riduzione” definitiva del pensiero di De Martino, ma nel sottolinearne la versatilità,
pronto tuttavia a denunciarne i limiti con determinazione, e con altrettanta
determinazione a imboccarne i sentieri più fecondi.
Si potrebbe dire che il proposito che guida il De Martino de La fine del mondo è
quello di “misurare l’ampiezza e i limiti d’efficacia riscattatoria di ciascuna
formazione”, rimanendo forse impigliato in una considerazione dell’ethos valorizzante
su di un piano eccessivamente teorico, che pure lo ha portato alla fondamentale
intuizione dell’umanesimo etnografico. Ciò che Lanternari mette in evidenza è proprio
41
Le vie più significative sono sicuramente quelle che vedono da una parte impegnati Clara Gallini e
Marcello Massenzio a focalizzare l’attenzione sul De Martino “pensatore”, mettendo in evidenza il filo
teorico che unisce la sua produzione e ponendolo in una relazione di continuità con il patrimonio culturale
europeo (vedi la loro Introduzione a De Martino 2002 (1977) e l’Introduzione di Massenzio a De Martino
1995); sul filo della continuità ma soprattutto dell’innovazione si muove anche Lanternari, che si
focalizza di più sulla metodologia storicistica da applicare allo studio di forme religiose che per ragioni
anagrafiche l’autore napoletano non ha avuto modo di affrontare. C’è anche un tentativo di “storicizzare”
De Martino che si muove lungo due direttive contrapposte: da una parte Cesare Cases che opera una
storicizzazione “in negativo” mettendo l’accento sui limiti della sua impostazione speculativa derivante
da una emancipazione dalla filosofia della storia crociana mai avvenuta completamente (vedi
Introduzione a De Martino 2003 (1948); dall’altra l’opera critica di Placido Cherchi che, “in positivo”,
definisce De Martino “pensatore dell’anno zero”, ponendolo come figura chiave nello sforzo di rifondare
la cultura italiana ed europea nella seconda metà del Novecento (Cherchi 1991).
42
Lanternari 1983: 271
48
la rinuncia di De Martino ad analizzare i fattori di conflittualità che orientano le
dinamiche di creazione culturale, e che sono sostanzialmente di ordine “profano” –
sociale, etnico, politico, economico:
“Direi in generale che, per dare una valutazione appropriata dell’ethos valorizzante nelle
sue forme storiche concrete, e per discernere i limiti di autenticità di un sistema
simbolico e culturale come ethos valorizzante, è indispensabile guardare al di là delle
formazioni religiose e culturali in se stesse, e considerare le matrici strutturali ad esse
preposte, nel gioco conflittuale di interessi primari.”43
Ciò che egli sostanzialmente opera è dunque una “restituzione” della metodologia
storicistica demartiniana al piano dell’indagine etno-antropologica applicata. Come
detto in precedenza, Lanternari si è molto dedicato allo studio di formazioni religiose di
recente sviluppo, operando una “riduzione” in chiave storicistica di alcuni concetti
chiave che stanno alla base dello studio sull’origine di tali movimenti, tra cui quello di
“carisma”, essenziale ai fini della nostra ricerca.
Essendo l’insorgenza di un potere carismatico in stretto rapporto con il processo
di mutamento sociale, in particolare con un’esigenza di cambiamento dello status quo
vigente, esso possiede un intrinseco valore creativo che di conseguenza caratterizza
l’autorità che ne deriva. I vari studi etno-antropologici dedicati ai movimenti di “libertà
e salvezza”, sviluppatisi tra le popolazioni colonizzate attorno al carisma di profeti
indigeni come risposta alla cultura occidentale oppressiva, avevano favorito
l’affermazione di una concezione di “creatività” che coincideva con “innovazione”,
“rivoluzione”, “emancipazione”, “resistenza culturale”.
Portando l’attenzione a formazioni social-religiose promosse da personalità
“carismatiche” all’interno della società occidentale contemporanea, ci si accorge che la
“creatività” del carisma non sempre corrisponde a una reale rivoluzione in senso
emancipatorio, ma può dare luogo a forti spinte evasionistiche fini a se stesse che,
consapevolmente o meno, continuano a perpetrare l’ideologia dominante che si
vorrebbe invece sottoporre a rinnovamento.
Da una prospettiva fenomenologica, psicologica, sociologica, il potere
carismatico risulta comunque salvifico per i seguaci che ne usufruiscono, ma spesso tale
efficacia salvifica rimane ad un livello puramente individuale o elitario.
43
Lanternari 1983: 273
49
Nell’ottica di un “sacro” come prodotto interamente culturale occorre guardare
agli effetti di tale fenomeno non solo sull’elite dei suoi seguaci, ma soprattutto sui
rapporti con il contesto sociale dove è venuto sviluppandosi:
“Fra un tipo e l’altro di carisma v’è la differenza essenziale che dall’uno si creano nuovi
valori, dall’altro soltanto la maschera di un valore, cui presta fede il gruppo ristretto, ma
che la storia è destinata presto a demistificare, come prova il vorticoso moltiplicarsi,
avvicendarsi, crescere e rapido sfiorire delle tante sette carismatiche contemporanee, in
un affannoso processo di efflorescenze consecutive e autodivorantisi.”44
È allora opportuno distinguere tra una creatività operante a livello simbolico e una
creatività operante a livello storico e sociale, onde evitare di porre sul medesimo piano
valutativo le formazioni le cui iniziative di mutamento si arrestano ad un livello
intimistico e individuale, e quelle che invece propongono un reale mutamento
dell’ordinamento vigente.
Potere “carismatico” caratterizzato dunque da un’ambiguità di fondo, che però
non è da confondere con quella “psicologica” del tremendum e del fascinans formulata
da Otto. L’ambiguità che intendiamo è quella che si determina nell’oscillazione tra i due
poli della dialettica che coinvolge piano simbolico e piano storico-culturale.
Si rende dunque necessario un passo ulteriore rispetto a De Martino. Tale passo consiste
nell’analisi dei legami sociali e strutturali che un determinato potere “carismatico”
intrattiene con le forze politiche e sociali dominanti. Tali legami infatti, fin dalle origini
ne determinano gli esiti.
44
Lanternari 1984: 49
50
La Pentecoste “storica”
La Pentecoste cristiana
Il punto focale e fondante del culto pentecostale è lo scopo dichiarato di
richiamare e rivivere i “doni” dello Spirito Santo così come sono narrati nell’episodio
biblico della Pentecoste. La pretesa riattualizzazione degli eventi straordinari occorsi ai
Dodici in seguito alla morte di Gesù è il motivo principale che spinge gli aderenti al
culto pentecostale a presentarsi come i più autentici continuatori della tradizione
cristiana originaria e originale.
Vista la posizione centrale che l’episodio della “discesa” dello Spirito occupa
nella riflessione pentecostale-carismatica, si rende necessario a questo punto individuare
qual è il significato storico-religioso di quell’episodio, e ciò equivale a cercare di
rispondere alla domanda “che cos’è la Pentecoste ?”.
Nel fare ciò occorre innanzitutto fare riferimento al racconto alla Pentecoste così
come viene esposto all’interno del Nuovo Testamento e ai significati che esso ha
assunto in seguito per la tradizione cristiana.
Cominciamo con qualche accenno alla Pentecoste nell’istituto tradizionale
ebraico, che determina le caratteristiche generali di questo tempo festivo, lungo il cui
solco si definirà in seguito la Pentecoste cristiana. Non pretendiamo in alcun modo di
farci carico delle problematiche relative all'inserimento della Pentecoste nel calendario
festivo ebraico la cui ricostruzione pone problemi complessi.
Originariamente, presso gli Ebrei, la festa di Shavuot segnalava il suo carattere
agricolo di ringraziamento, da celebrare alla fine della mietitura. Da sempre, dunque, si
presenta come una festa mobile, strettamente connessa con i tempi di maturazione dei
cereali che possono variare sensibilmente di anno in anno. In seguito alla liberazione
dalla schiavitù in Egitto, viene canonizzata come una delle tre feste annuali ebraiche,
strettamente collegata alla festa di Pesach che sancisce l’inizio della liberazione, e di cui
rappresenta l’ideale compimento. La Shavuot, che viene per questo definita anche
‘atzeret – chiusura – diventa infatti la celebrazione della stipula dell’Alleanza con Dio
sul monte Sinai, per cui il popolo d’Israele riceve la Legge divina e si determina
compiutamente come “scelto”. La Pasqua e la Pentecoste ebraiche stanno dunque a
51
rappresentare un cambio di condizione, il passaggio da una situazione di schiavitù e di
sofferenza a una situazione di libertà e emancipazione che si esprimerà nella
compilazione della rigida ortoprassi ebraica come pratica identitaria. Da schiavo a
sovrano, dunque.
Le interpretazioni simboliche della festa della Pentecoste ebraica rientrano in un
importante modello ermeneutico di tipo allegorico molto presente nel mondo antico non
solo giudaico e dove il segno del cereale , del grano, gioca un ruolo rilevante non tanto
a livello agricolo ma a livello "culturale e politico"45.
Il periodo di sette settimane che intercorreva tra le due feste era detto “periodo
dell’omer” e corrisponde approssimativamente al periodo di tempo trascorso dagli Ebrei
nel deserto prima di giungere al monte Sinai. Tale tempo è “sacro” nel senso di tempo
diviso, separato, secondo l’accezione di sacro, sacer sacrum latino e qdosh ebraico.
Il frammento di tempo viene infatti considerato periodo di lutto in memoria delle
difficoltà occorse al popolo d’Israele, durante il quale non vengono celebrati matrimoni.
Nel racconto biblico esso è inoltre tempo privilegiato per l’azione prodigiosa di Dio: le
dieci piaghe che colpiscono la popolazione egiziana, l’apertura del Mar Rosso, la caduta
della manna dal cielo, l’acqua che sgorga dalle rocce, la vittoria nella guerra contro gli
Amaleciti, sono solo alcuni dei “segni” con cui Dio dimostra la sua vicinanza al popolo
ebraico e lo accompagna nel raggiungimento della Terra Promessa, “scegliendo” Mosè
come unico depositario della volontà divina e unico facitore di miracoli autorizzato,
l’unico uomo ad essere ammesso al suo cospetto e a ricevere le tavole dell’Alleanza.
Il tema dell’azione prodigiosa di Yhwe è molto importante. Al contrario di
quanto accade nel campo divinatorio dei politeismi, i prodigia , i terata kai semeia
attraverso i quali si manifesta il dio monoteista, il dio solo Yhwe, non sono indicazioni
rispetto le quali si deve provare l’abilità del tecnico, l’indovino in grado di
decodificarne il senso, ma mezzi attraverso i quali Yhwe segnala la sua potenza
assoluta46.
L’episodio della Pentecoste cristiana è raccontato nel libro che più di ogni altro
fa riferimento allo Spirito Santo, quello degli Atti degli Apostoli (2, 1-41). Ne
riportiamo il testo:
“Quando giunse il giorno della Pentecoste, stavano tutti assieme nello stesso luogo. A
un tratto, si fece dal cielo un fragore, come di vento impetuoso, e pervase tutta la casa
45
Come mostrano i ruoli della dea Demeter in Grecia e della sua corrispondente Ceres a Roma. (Chirassi
Colombo 1976)
46
Confronta Chirassi Colombo 1998
52
dove essi si trovavano. E videro delle lingue che sembravano come di fuoco, dividersi e
posarsi sopra ciascuno di loro. Tutti furono ripieni di Spirito Santo e cominciarono a
parlare in altre lingue, secondo il modo in cui lo Spirito concedeva loro di esprimersi.
Ora in Gerusalemme dimoravano pii Giudei di ogni nazione che è sotto il cielo. Udito
quel fragore, si radunò una gran folla che rimase sbalordita, perché ciascuno li sentiva
parlare nella propria lingua. Fuori di sé per lo stupore, dicevano meravigliati: “Ma
non sono tutti galilei costoro che parlano? E come mai noi li udiamo, ciascuno nella
nostra lingua nativa? Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea,
della Cappadocia, del Ponto, dell’Asia, della Frigia, della Panfilia, dell’Egitto, dei
paesi della Libia che è intorno a Cirene; inoltre, i pellegrini romani, sia Giudei che
proseliti; Cretesi e Arabi; come mai li udiamo discorrere delle grandezze di Dio nelle
nostre lingue?”
Tutti erano sbalorditi e perplessi scambievolmente si domandavano: “Che è mai tutto
questo?” Altri invece, burlandosene, dicevano : “Sono pieni di dolce mosto!”
Allora Pietro, insieme con gli undici, si fece avanti, alzò la voce, e parlò così: “O
Giudei, o voi tutti che abitate a Gerusalemme, vi sia ben noto e ascoltate attentamente
le mie parole. Realmente costoro non sono ebbri, come voi credete, giacchè sono
appena le nove del mattino; questo è, anzi, l’evento preannunziato per mezzo del
profeta Gioele:
“E avverrà negli ultimi tempi, dice il Signore:
io effonderò del mio Spirito sopra ogni persona,
e i vostri figli e le vostre figlie profeteranno,
visioni contempleranno i vostri giovani
e sogni i vostri vecchi sogneranno.
Sì, sui miei servi e sulle mie serve
In quei dì effonderò del mio Spirito, e profeteranno;
prodigi farò su nel cielo e segni giù sulla terra:
sangue e fuoco e fumose esalazioni.
Il sole si oscurerà e sanguinea sarà la luna
prima che venga il gran dì splendente del Signore.
E chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo.”
O Israeliti, ascoltate queste parole: Gesù Nazareno, quell’uomo che Dio ha accreditato
presso di voi con portenti, miracoli e prodigi, che, come ben sapete, Dio per mezzo suo
operò tra voi; questi, che per precisa volontà e prescienza di Dio fu consegnato, voi
uccideste, crocifiggendolo per mezzo di gente iniqua, Dio lo risuscitò, sciogliendo le
sofferenze della morte, poiché era impossibile che avesse potere su di lui. David, infatti,
dice di lui:
“Sempre vedevo il Signore avanti a me,
poiché egli è alla mia destra affinché io non mi turbi.
Perciò gioì il mio cuore e esultò la lingua mia,
e nella speranza riposerà pure il mio corpo;
perché l’anima mia tu non l’abbandonerai all’Ade
né permetterai che il tuo santo veda la corruzione.
Mi hai fatto conoscere sentieri di vita,
con la tua presenza mi riempi di gioia.”
Fratelli! Mi sia lecito parlare liberamente dinanzi a voi del patriarca David, che morì e
fu sepolto, tanto che la sua tomba si trova ancora oggi presso di noi. Siccome egli era
profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato che uno della sua stirpe doveva sedere sopra
il suo trono, egli previde ed annunciò la risurrezione del messia, quando disse che
questi non sarebbe stato abbandonato all’Ade né il suo corpo avrebbe veduto la
corruzione. Ebbene, questo Gesù Iddio l’ha resuscitato e noi ne siamo tutti testimoni.
53
Egli, ora, elevato al cielo dalla destra di Dio e ricevuto dal Padre il promesso Spirito
Santo, lo ha effuso come voi adesso vedete e ascoltate. David infatti non salì al cielo,
eppure egli dice:
“Disse il Signore al Signor mio: Siedi alla mia destra
finchè io ponga i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi.”
Dunque, con certezza assoluta sappia tutta la nazione d’Israele, che Iddio costituì lui
Signore e messia, questo Gesù che voi crocifiggeste.”
Quando ebbero udito queste parole, si sentirono il cuore compunto e chiesero a Pietro
e agli altri apostoli: “Fratelli, che cosa dobbiamo fare?” E Pietro a loro:
“Convertitevi” disse, “e ognuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per
la remissione dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Infatti, la
promessa è a favore vostro e dei vostri figli, ma anche per tutti quelli che sono lontani,
quanti a sé ne chiamerà il Signore nostro Dio.” E con molte altre parole egli li
persuadeva; e li ammoniva dicendo: “Salvatevi da questa generazione perversa!”
Quelli dunque che accettarono la sua esortazione si fecero battezzare e, in quel giorno,
circa tremila persone si associarono alla chiesa.”
Rispetto alla Pentecoste ebraica, quella cristiana ne mantiene la struttura significante
essenziale di evento festivo che attua un passaggio di condizione e fonda un ordine
nuovo, ma contemporaneamente ne rinnova profondamente i significati. All’interno
della comunità dei discepoli di Gesù la Pentecoste ha infatti perso il significato ebraico.
La Pentecoste cristiana inaugura la possibilità della presenza costante dello Spirito e la
possibilità per chiunque di godere dei suoi benefici. Alla celebrazione per la ricezione
delle tavole della Legge si sostituisce la celebrazione per la discesa dello Spirito Santo
che, con l’effusione dei carismi, sancisce una Nuova Alleanza tra Dio e gli uomini.
Il discorso di Pietro alla folla incredula, con i riferimenti al profeta Gioele e alla
figura mitica del re David, assolve alla funzione di inserire l’atteggiamento perturbante
degli apostoli nel solco della tradizione giudaica, presentando l’effusione dei “doni”
dello Spirito come la realizzazione delle promesse fatte da Dio per bocca dei profeti (Is
32,15-20; 44, 3; 59,21; Ez 11,19; 36,25-27). Nel racconto biblico, con la Pentecoste si
completa il processo che porta alla plasmazione della figura di Gesù di Nazareth in
quella del Cristo atteso, che si pone ora come unica figura nel cui nome è possibile
realizzare la salvezza promessa.
Su di un piano simbolico, dunque, la Pentecoste si presenta innanzitutto come
evento messianico, portatore di una dimensione salvifica che si realizza nel contatto
diretto con lo Spirito che “ispira” il fedele e lo ricolma di poteri soprannaturali. Tale
contatto assicura ai fedeli il perdono dai peccati e l’acquisizione di “doni” particolari, in
vista del definitivo ritorno del Cristo e della piena realizzazione sulla terra del Regno
dei Cieli, così come anticipato dallo stesso Gesù nel corso del suo ministero terreno (Gv
14,26; 16,7). L’effusione dei “doni dello Spirito” è infatti “segno” della nuova
54
benedizione di Dio che il popolo d’Israele attendeva, e si impone così come
compimento delle Scritture vetero-testamentarie e contemporaneamente come loro
superamento.
Il superamento dell’istituto tradizionale giudaico si manifesta sia su un piano
simbolico con la riplasmazione del significato originario della Pentecoste ebraica, sia su
un piano socio-culturale, con la costituzione di una nuova comunità legata a determinate
pratiche rituali. L’istituzione di un nuovo rapporto con la sfera del divino va di pari
passo con l’istituzione di una nuova comunità di fedeli.
L’azione dello Spirito si rende infatti efficace soltanto all’interno di nuove forme
aggregative che si definiscono nella partecipazione ai suoi “doni”, i quali
sostanzialmente rappresentano la possibilità di realizzare prodigia, terata, miracoli,
come manifestazioni di potere.
In particolare il “dono” della glossolalia, del “parlare in lingue”, viene inteso
come la possibilità dell’accesso alla predicazione del messaggio del Cristo anche da
parte delle genti non Giudee. Nell’accessibiltà della “parola” di Dio si vuole vedere il
superamento delle divisioni originatesi tra gli uomini con l’episodio della torre di
Babele (Genesi, capitolo 11) e la ricostituzione dell’unità dell’umanità in un unico
“corpo”. La Pentecoste è infatti intesa come momento fondativo dell’ekklesia cristiana,
una comunità potenzialmente universale, che si costituisce per conversione e non
secondo presupposti di appartenenza etnica come era invece il caso della comunità
ebraica.
L’effusione dei “doni dello Spirito” vuol dire anche l’istituzione della pratica
dell’esercizio di poteri personali sovrannaturali. Secondo la dottrina cristiana è Gesù
risorto che “comunica” lo Spirito agli apostoli affinché essi gli rendano testimonianza
nel mondo e possano continuare a compiere la sua stessa missione di salvezza.
Numerosi sono infatti, negli Atti degli Apostoli, gli episodi narrati in cui le gesta dei
discepoli sono accompagnate dall’azione dello Spirito che dona loro l’autorità per
compiere prodigi così come aveva fatto Gesù prima di loro. Grazie allo Spirito essi
operano guarigioni e ottengono conversioni, smascherano i falsi profeti come Simon
Mago e si fanno diretti interpreti delle Scritture come nell’episodio dell’eunuco di
Etiopia, trovano le parole per potersi esprimere apertamente contro l’autorità dei
sacerdoti del sinedrio. Esemplare a questo proposito è il discorso attribuito a Stefano,
uno dei primi diaconi arrestato a causa della sua predicazione (At, capitolo 7). Egli, di
fronte al sommo sacerdote, con il viso che “sembrava quello di un angelo”, elabora una
55
rilettura della storia ebraica tracciando un parallelo tra Mosè e i profeti e la figura di
Gesù: i primi perseguitati dagli antenati, il secondo non riconosciuto come Cristo e fatto
crocifiggere. Il non aver riconosciuto senza esitazioni Mosè come il “servo” di Dio - e
quindi Dio stesso che parlava letteralmente tramite Mosè – porta all’accusa verso la
casta sacerdotale di non essere osservante della legge mosaica, accusa aggravata dal non
aver riconosciuto in Gesù di Nazareth il Cristo promesso, rifiutando nuovamente il
volere di Dio. A seguito di questo discorso Stefano viene messo a morte, diventando
così il primo martire cristiano.
La problematica della sperimentazione del “sacro”
L’episodio di Pentecoste si configura dunque come snodo fondamentale e
delicato nella creazione del “sacro” cristiano. Esso si propone come dispositivo
salvifico, che “salva” in quanto pone le basi per la possibilità della creazione di
dinamiche relazionali sia tra esseri umani sia tra la sfera dell’umano e quella del divino.
La creazione di queste dinamiche risponde pienamente a quella interpretazione del sacro
non come situazione statica, ontica, ma come costruzione dinamica. Interpretazione
interna alla prospettiva della scuola storico-religiosa romana a cominciare dal sacro
genomenon di Pettazzoni.
Nella dimensione della Pentecoste cristiana queste dinamiche si costituiscono a
seguito di una “esperienza” particolare che è quella del “contatto” con lo Spirito Santo.
Lo Spirito in questa prospettiva è agente costruttore di sacro nella storia, e vi sono
persone come i carismatici e i pentecostali che costruiscono questo tipo di sacro in
risposta alle esigenze circostanziali.
Nella tradizione cristiana questo processo dinamico è codificato nella narrazione
degli Atti degli Apostoli ed è stata recentemente riproposta dalla visione pentecostalecarismatica come momento “vitale” per un auspicato “rinnovamento”, e della propria
vita personale, e più in generale della Chiesa e della società contemporanea. Quindi
come intervento attivo del “sacro” secondo le esigenze della storia.
Abbiamo visto in precedenza – facendo riferimento ai sermoni di Berten
Waggoner, leader pentecostale di una delle più recenti denominazioni protestanti –
56
come l’esigenza di fare riferimento ai “doni” dello Spirito nasca innanzitutto dalla
percezione di una crisi in atto che occorre arginare e risolvere.
Anche per quanto riguarda il “carismatismo” cattolico il punto di partenza è la
percezione di una crisi. Tra i numerosi riferimenti presenti nella letteratura
“carismatica” divulgativa, facciamo riferimento a quanto scrive a metà degli anni
Settanta il sacerdote calabrese Serafino Falvo, tra i primi e più accesi sostenitori del
movimento “carismatico” in Italia.
Alla ricerca dei “segni dei tempi” che secondo lui annuncerebbero un “ritorno
dei carismi”, dà una visione della società moderna molto simile a quella di Waggoner.
La sua attenzione si rivolge poi alla situazione della Chiesa:
“La Chiesa sta vivendo oggi forse le ore più drammatiche della sua storia. Ci sono state
in passato altre crisi religiose che hanno sconvolto le coscienze dei credenti, ma mai
così vaste e profonde come l’attuale. Allora intere nazioni si staccavano dalla Chiesa
cattolica – come avvenne per la Riforma protestante - , per cercarne un’altra che, a loro
giudizio, era migliore e più aderente al Vangelo. Oggi invece la crisi investe tutte le
Chiese, tutte le fedi. Oggi non si rinnega un credo, o parte di esso, ma ogni credo; non si
passa da una Chiesa all’altra, ma si disertano tutte le Chiese. […] Il momento attuale è
caratterizzato da confusione, disorientamento, defezioni, criticismo distruttivo,
sbandamenti, stanchezza, dubbi su tutto, perfino su dogmi fondamentali quali la Trinità,
la divinità e la resurrezione di Cristo, l’esistenza del demonio ecc. Si chiedono alla
Chiesa riforme tendenti a naturalizzare il messaggio evangelico, a spogliarla del suo
carattere soprannaturale. Molti sacerdoti, per non sembrare arretrati, non predicano più
il tradizionale dimensionalismo verticale: cielo, terra, inferno; ma preferiscono quello
orizzontale: centro, destra, sinistra!”47
Di fronte alla presa di coscienza di un radicale venir meno di una serie di certezze
percepite come fondamentali, la strada da intraprendere che Falvo suggerisce è quella di
“rivivere l’esperienza di Pentecoste”, cioè riappropriarsi di quei doni che rendono chi li
riceve, la comunità dei cristiani, ricchi di poteri:
“Rinnovare nella Chiesa di oggi il clima infuocato delle origini, l’esperienza carismatica
della Chiesa apostolica, la quale non era soltanto depositaria di verità rivelate, ma in
possesso di energie potenti e irresistibili. È ricreare l’atmosfera pneumatica della prima
comunità cristiana, per la quale lo Spirito Santo non era un’astrazione teologica, ma
vita, forza, guida, coraggio, entusiasmo.”48
La Pentecoste si presenta dunque, nell’ottica pentecostale-carismatica come “luogo”
privilegiato da cui attingere una “forza” derivante dal “contatto” con lo Spirito Santo, e
47
Falvo 1977: 75-76. Altri riferimenti alla crisi della società moderna e della Chiesa, interpretata come
conseguenza della “morte di Dio” si possono variamente riscontrare in Suenens 1976, Gouriou-Jehanno
1998, Gallagher Mansfield 2005
48
Falvo 1977: 89
57
in grado di operare una “rivitalizzazione carismatica nelle attuali strutture della
Chiesa”49 e, di conseguenza, nella società tutta.
La dimensione essenzialmente “esperienziale” della Pentecoste cristiana – per
cui si “percepisce” un’entità sovrannaturale come lo Spirito Santo, il quale elargisce
“doni” e “poteri” specifici che diventano “segni” dell’avvenuta conversione alla fede
nel Cristo – che comporta un forte coinvolgimento del corpo, ci permette di considerare
questo episodio come una variante di quei modelli mitico-rituali che nella costruzione e
fruizione del “sacro” assumono particolare valore.
Possiamo in questa prospettiva considerare i cosiddetti “stati modificati di
coscienza” come risposta alla ricerca di uscire dai limiti cognitivi “normali”.
L’esperienza diretta del “sacro” apre alla problematica riguardante la
sperimentazione di una conoscenza allargata che comporta l’acquisizione di poteri
personali, di capacità sovrannaturali in grado di operare il superamento della condizione
umana contingente. Perno di questa sperimentazione è l’uso ritualizzato del corpo del
credente, perciò in questa prospettiva acquistano rilevanza i modelli di trance e di
possessione.
La dicitura “stati modificati di coscienza” appare nel linguaggio etnoantropologico verso la fine degli anni Sessanta, in concomitanza con la pubblicazione di
numerosi studi riguardanti queste forme di sperimentazione del “sacro”, sviluppatisi
sull’onda del dilagare della controcultura psichedelica.
Nel 1968 Erica Bourguignon è tra i primi a proporre una mappa di ripartizione
dei sistemi culturali che si basano sulla sperimentazione della trance, in particolare di
quella di possessione, rilevando in questo caso l’importanza dell’area africana e, di
conseguenza, di quella afro-brasiliana e afro-caraibica. Il merito della Bourguignon sta
nel ricondurre queste pratiche, solo apparentemente disordinate e di derivazione
patologica, all’interno di specifiche coordinate di determinazioni culturali, quindi
analizzabili secondo una prospettiva storico-religiosa.
L’articolo della Bourguignon del 1968, Patterns of Possessions, è pubblicato nel
volume Trance and Possession States, edito a cura di Raymond Prince. In un lavoro di
qualche anno successivo la Bourguignon propone tre diversi esempi tratti da differenti
contesti culturali: il primo tratto dal vodoo haitiano, il secondo dalla popolazione
Amahuaca dell’America del Sud, il terzo dai Sioux del Nordamerica. Al termine della
comparazione traccia la seguente griglia interpretativa:
49
Falvo 1977: 89
58
“In ciascuno di questi esempi, le persone cercano di mettersi in contatto diretto con gli
spiriti attraverso uno stato di alterazione della coscienza. Lo fanno secondo una maniera
tradizionale, che un giovane che cresce in quelle società deve imparare, per potersi
comportare nel modo giusto o avere le opportune esperienze. Gli stati di alterazione
della coscienza non sono spontanei o idiosincratici, ma rientrano in uno schema
culturale. Gli spiriti, almeno nelle grandi linee, sono noti, e in una certa misura colui che
li cerca è consapevole di ciò che lo aspetta. Inoltre, in ciascun caso intervengono
individui sperimentati ed esperti, che sanno che cosa bisogna fare. In tutte le situazioni
di stato di alterazione della coscienza che troviamo in queste diverse culture incidono
dunque lo schema culturale, la pratica sociale, l’apprendimento e l’esperienza.”50
Vasta è comunque la bibliografia riguardante i cosiddetti “stati modificati di coscienza”.
Tra i più conosciuti segnaliamo gli studi sui culti di possessione di area islamica dello
scozzese Lewis, per quelli di impronta messianica e profetica il già citato Lanternari,
per l’area afro-brasiliana e caraibica i francesi Bastide e Lapassade. Non possiamo non
citare, infine, la ricerca sul campo sul tarantismo pugliese, effettuata da De Martino in
Salento alla fine degli anni Cinquanta. La terra del rimorso è probabilmente il primo
esempio di valutazione della possessione come fenomeno culturale. De Martino tuttavia
studiò il tarantismo non tanto come un caso specifico di possessione, quanto come caso
straordinario di “sopravvivenza” di una strategia rituale mediterranea e precristiana.
Pur avendo riscosso grande successo, l’etichetta “stati modificati di coscienza”
risulta essere estremamente vaga, comprendendo al suo interno tipologie di fenomeni
molto diversi gli uni dagli altri. Occorre quindi operare delle distinzioni.
Generalmente si riconoscono due esperienze ritenute opposte, quella della trance
e quella dell’estasi. Di fronte al modo confuso e all’interscambiabilità con cui questi
termini sono stati usati in passato, Gilbert Rouget ne propone un uso specifico nel suo
classico studio sui rapporti tra musica e fenomeni di possessione. L’analisi di Rouget
parte proprio dalla constatazione dell’uso indiscriminato e spesso contraddittorio con
cui “trance” ed “estasi” vengono utilizzati nel linguaggio etnoantropologico. Tale
confusione deriva anche dalla approssimativa definizione che se ne dà, come l’autore
riscontra raffrontando alcune enciclopedie inglesi e francesi. Rouget dunque constata
che
“Queste due parole non sono mai utilizzate per opporre due stati molto diversi l’uno
dall’altro, mentre tale opposizione esiste e sarebbe importante riuscire a definirla. Nella
prospettiva specifica di questo studio è tanto più importante precisarla in quanto la
trance e l’estasi si trovano con la musica in rapporti per nulla identici. Occorre quindi
50
Bourguignon 1983 (1979): 304-305
59
indicare in maniera netta ciò che le distingue per porre fine alla confusione esistente fra
questi termini e definire ciò che chiameremo d’ora in avanti estasi e trance.”51
Nel tentativo di definire delle forme “pure” di queste esperienze, egli suggerisce di
usare “estasi” per riferirsi a quel tipo di stati raggiunti nel silenzio, nell’immobilità,
nella solitudine, caratterizzati da allucinazioni e dal ricordo dell’esperienza vissuta. Con
“trance”, invece, ci si rifà agli stati cui si perviene in una dimensione collettiva, in
condizioni rumorose, agitate, tramite stimolazione sensoriale, senza allucinazioni e
senza ricordo. Comunque
“La trance si presenta sempre, in un modo o nell’altro, come un superamento di se
stesso, come una liberazione derivante dall’intensificarsi di una disposizione mentale o
fisica.”52
Ovviamente, essendo dei “modelli”, queste due definizioni si pongono come i poli
“ideali” tra cui oscillano le varie rappresentazioni rituali, molto più complesse e
sfumate.
Date queste premesse, l’episodio della Pentecoste ci fa optare decisamente per i
fenomeni legati alla trance. Essi vengono a loro volta suddivisi in due tipologie
antitetiche che stanno a rappresentare due opposte modalità di relazione con
l’extraumano: da una parte la trance conosciuta come “sciamanica”, dall’altra la trance
detta di “possessione”. La trance dello “sciamano” appare come una incursione in un
mondo superiore o inferiore durante la quale, attraverso un processo di sdoppiamento, la
sua anima abbandona il corpo e va incontro alle entità extraumane in cerca di
conoscenze allargate da utilizzare per varie soluzioni contingenti, legate spesso a
episodi di guarigione.
Nella trance di “possessione” il rapporto tra sfera umana e soprannaturale si
inverte. In questo caso infatti sono gli uomini a essere penetrati dalle entità extraumane
e a essere usati come mezzi di “incarnazione” o per mandare messaggi in linguaggio
umano, mettendo in scena una vera e propria rappresentazione del divino nell’umano e
viceversa.
Tornando al nostro racconto biblico della Pentecoste, vediamo come possiamo
considerarlo una forma di possessione, come del resto lo stesso Rouget riconosce,
preferendo però parlare di trance di “ispirazione”, in quanto non si attuerebbe la
51
Rouget 1986: 15. Più avanti nel testo, mettendo in luce il carattere eccessivamente omnicomprensivo
che la Bourguignon attribuisce al concetto di “stati modificati di coscienza”, l’autore sottolinea: “Perché
non accontentarsi semplicemente di chiamare la trance “trance”?”
52
Rouget 1986: 26
60
completa identificazione tra posseduto e possessore. Egli parla anche di trance “di
comunione”, intendendo con ciò le rappresentazioni rituali in cui la relazione tra
divinità e individuo in trance è vissuta, appunto, come una comunione, o una
rivelazione, o un’illuminazione, piuttosto che come una forma di incarnazione53.
Rouget rivolge l’attenzione in particolare al mondo della cultura araba, in cui la
trance di possessione è istituzionalizzata, come vedremo, grazie al sufismo e alla
presenza, legittimata dal Corano, degli jinn. Egli rileva tuttavia delle analogie tra la
pratica del dhikr (che consiste nel recitare il nome di Allah cantando e danzando) e del
samâ’ (cioè ascoltare musica, specialmente canto, allo scopo di raggiungere la trance,
per poi esprimerla attraverso la danza) e alcune pratiche presenti in movimenti di
ispirazione cristiana come gli Shakers negli Stati Uniti, i Chlysty in Russia, ma anche i
battisti e i pentecostali. A proposito di questi ultimi scrive:
“Le trance che si osservano presso i Neri (e a volte i Bianchi) americani – Battisti,
Pentecostali o altro – si collocherebbero piuttosto sul versante della trance indotta, e
quindi della possessione, a causa dell’importante ruolo svolto nel culto dai musicisti
(cantanti, organisti ecc.) e dal ministro protestante.”54
L’iconografia cristiana, del resto, nella rappresentazione pittorica dell’evento, codifica
questa relazione tra umano ed extraumano che “discende” raffigurando lo Spirito come
delle piccole fiammelle che si posano sul capo degli apostoli e di Maria, oppure come
dei raggi provenienti da un emisfero scuro, simbolo della trascendenza divina.
L’oscurità è interpretata come l’effetto agli occhi umani della luce brillantissima e
inaccessibile che si manifesta con la discesa dello Spirito, il quale illumina e trasfigura
tutta la realtà rendendo così l’uomo partecipe della sapienza divina. Le prime
raffigurazioni della Pentecoste, provenienti dalla Siria e dalla Palestina, avevano la
stessa struttura compositiva dell’episodio dell’Ascensione, con il fuoco dello Spirito
Santo che discende sugli apostoli in piedi attorno a Maria. Con l’affermarsi della
Pentecoste come momento fondativo della Chiesa missionaria, il modulo compositivo
cambia e si afferma il ritratto collettivo in cui un gruppo di saggi siede attorno al
maestro, volendo sottolineare così la parità di condizione e la continuità dell’azione tra i
dodici e il Cristo.
Se, come scritto nell’introduzione agli Atti degli Apostoli, “il libro fu scritto per i
cristiani provenienti dal paganesimo, ai quali vuol dimostrare che la loro religione è
l’opera di Dio, diretta alla salvezza del mondo”, è lecito ipotizzare come la nuova
53
54
Rouget 1986: 42-43.
Rouget 1986: 392
61
religione venga proposta alle popolazioni politeiste facendo leva su un modello
culturale, quello di una modalità della trance da possessione, ben conosciuto e diffuso,
anche se comunque inserito all’interno di un sistema monoteista.
La presenza diffusa e contestualizzata di pratiche inerenti l’utilizzo della trance,
nei suoi diversi aspetti e modalità, è ampiamente documentata nell’area culturale del
mediterraneo antico. L’appartenenza del fenomeno della possessione al bacino del
mediterraneo è evidenziata in particolare da Ernesto De Martino. Nel corso dei suoi
studi sul tarantismo salentino, egli ne individua gli antecedenti storici nella vita religiosa
greca di cui la Puglia era partecipe in quanto parte della Magna Grecia. De Martino
traccia l’ipotesi di un complesso arcaico mediterraneo che avrebbe determinato le
strutture del coribantismo, la possessione sperimentata dalla comunità dei Coribanti
nella Grecia del V secolo a.C. e di cui Platone riporta alcune testimonianze
nell’Eutidemo e nello Ione in relazione al complesso coreutico-musicale a fini
terapeutici. Le stese strutture, secondo l’etnologo napoletano, sono presenti nel
tarantismo pugliese, nei culti africani zar e bori e nei loro derivati afro-americani, in
particolare nel vodoo haitiano55.
Nei sistemi politeistici, in cui la reciproca interazione tra sfera umana ed
extraumana sta alla base della costituzione di ogni particolarità della dimensione
quotidiana, la possessione è uno dei mezzi più utilizzati per rappresentare gli dei,
rendere manifesta e relazionabile la loro presenza.
Il fatto che le maggiori dispute nel processo di affermazione del monoteismo
cristiano riguardassero la figura del Cristo inteso contemporaneamente come uomo e
come Dio, piuttosto che il ruolo e la figura dello Spirito – è la figura del Cristo la vera
idea rivoluzionaria del cristianesimo, anche se essa, già di per sé, apre alla
comunicazione diretta tra sfera umana ed extraumana, presentando fin dal suo inizio il
cristianesimo come un monoteismo imperfetto -, fa supporre, infatti, come questo
concetto fosse legato, nel panorama culturale del tempo, ad una funzione largamente
riconosciuta e accettata.
Le cose, tuttavia, non sono così semplici. Le uniche testimonianze relative
all’episodio di Pentecoste ci derivano infatti dai Vangeli e dal libro degli Atti degli
apostoli, in cui il piano del divenire storico e quello della sua interpretazione teologica
finiscono inevitabilmente per coincidere, rendendone difficoltosa una lettura storicoreligiosa.
55
De Martino 2002 (1961)
62
Cerchiamo dunque di procedere con ordine, partendo da ciò che conosciamo.
È noto come il Cristianesimo rifiuti la possibilità della possessione in virtù della
trascendenza del dio monoteista, ammettendola solamente in quanto diabolica e, di
conseguenza, necessitante di una cura terapeutica a carattere esorcistico.
Questa concezione ha veicolato all’interno della cultura occidentale l’idea della
possessione come fatto totalmente negativo in quanto depersonalizzante. Tale idea ha
trovato le proprie basi nell’espressione concettuale data dalla coppia di termini
soma/psiche, i quali, nel loro essere intesi come poli di una contrapposizione pressoché
irrisolvibile, hanno delimitato le coordinate per la pensabilità dell’identità dell’uomo
occidentale.
Questa prospettiva ha portato alla difficoltà, da parte occidentale, di pensare la
possessione senza rimandare ad una interpretazione psicopatologica i sintomi che la
identificano, i quali vengono in particolare ricondotti ad attacchi di isteria, disturbi della
personalità e dissociazione. Questa “sovrainterpretazione terapeutica” ha spesso
impedito di prendere in considerazione le differenti rappresentazioni di persona e di
corpo che circoscrivono culturalmente la sperimentazione della possessione. Ciò ha
portato a considerarla una pratica tradizionale propria delle società non occidentali,
relegandola nell’ambiguità “di un “mondo magico” inteso come luogo altro dove si
intrecciano i confini di poteri e saperi considerati impossibili.”56
L’universalità dei fenomeni legati alla trance, sottolineata dalla Bourguignon e
da Rouget, ci rimanda però ad
“Un mondo “magico” che occupa spazi rilevanti e trasversali nelle culture politeiste
antiche e no come nei grandi sistemi monoteisti ma che l’attuale vanificazione del
concetto di “magia” in favore della categoria più vasta, generica, ma insieme più
operativa di “poteri rituali” dilata in modo insospettabile.
In questo processo di vanificazione il “magico” perde la sua definizione di zona del
marginale, del primitivo, del patologico o dell’irrazionale per acquisire quella di
situazione morbida e creativa sottintesa nella nozione di magismo introdotta da Ernesto
De Martino. Sfuma in questa prospettiva la possibilità di definire una categoria del
“magico” come opposta a una categoria del “religioso” tenendo presente che in
entrambi i casi si condensano pratiche proposte come assolutamente efficaci, i rituali
appunto, che costruiscono l’esperienza del “sacro”.”57
Secondo questa prospettiva dunque, diventa più corretto intendere soma e psiche come
le coordinate che il mondo occidentale si è dato per definire non tanto l’identità
dell’uomo in quanto tale, bensì quel “luogo” particolare, culturalmente determinato di
56
57
Chirassi Colombo 2006: 163
Chirassi Colombo 2006: 163
63
volta in volta, che funge da strumento per la messa in atto di pratiche che rappresentano
analogie ed equilibri, avvicinamenti e distanziamenti, interconnessioni tra una realtà
percepita come umana e un’altra come extraumana58.
Sempre secondo questa prospettiva si rende necessario prendere in
considerazione l’aspetto politico della messa in pratica della sperimentazione del
“sacro”, in quanto vero e proprio discorso sull’identità.
Ciò diventa di rilevante importanza quando le pratiche di sperimentazione del
“sacro” vengono indagate presso le società che hanno subito un processo di
colonizzazione, un brusco confronto con una cultura “altra” opprimente. In questo senso
è ancora di fondamentale importanza lo studio di Lanternari sull’insorgere dei
movimenti cosiddetti “di libertà” e “di salvezza” tra le popolazioni indigene sottoposte
al dominio coloniale europeo. Pratiche come la Ghost Dance, la Dream Dance, il
Peiotismo presso i nativi del Nord America, l’Umbanda e il Candomblè brasiliani,
l’episodio delle chiese “spirituali” del Ghana, ma anche la presenza di numerose figure
di “profeti” indigeni sorte un po’ dappertutto nei territori coloniali, sono tutte
espressioni di una “religiosità” proveniente “dal basso” che si propone come creazione
identitaria alternativa, quando non in aperto contrasto, all’esercizio dell’autorità europea
e, di riflesso, al cristianesimo missionario.
Nella pratica cultuale ciò si realizza nella negazione del patrimonio culturale
“altro”, enfatizzando il ruolo fondante delle pratiche riguardanti la sperimentazione del
“sacro”. Esse sono ampiamente riconosciute all’interno delle strutture tradizionali delle
popolazioni africane, nord e sudamericane. Nel caso dei movimenti messianici e
profetici in questione vengono riadattate in chiave anti-colonialista con il recupero di
alcuni elementi cristiani, in particolare la figura del Cristo guaritore e taumaturgo, la
nozione del Dio testamentario come Essere Supremo, il concetto stesso di Spirito59.
58
Confronta quanto dicono Bottiroli e Ferraro nell’articolo Soma/psiche, presente nel tredicesimo volume
dell’Enciclopedia Einaudi: “La coppia soma/psiche, se considerata, come fin qui sostanzialmente s’è
fatto, quale strumento di rappresentazione, esprime quindi meno una contrapposizione concettuale che
non un rapporto di carattere operativo: tramite essa si definiscono e si mutano identità, si conquistano e si
perdono poteri, si realizzano scambi simbolici e s’instaurano relazioni sociali, si diventa adulti e si
perviene alla morte. Se dunque una particolare attenzione è stata dedicata in questa pagine ai fenomeni di
alterazione dell’equilibrio “normale”, i vari generi di “possessione” innanzitutto, ciò è dovuto al fatto
ch’essi mostrano molto bene quali possono essere le basi della natura sostanzialmente non statica del
rapporto tra componenti psichiche e somatiche nella rappresentazione della persona. I vari esempi tratti da
culture di società semplici stupiscono senza dubbio chi considera la possessione come forma
necessariamente patologica e derazionalizzante, poiché in questi esempi, al contrario, la possessione non
soltanto ha carattere sociale e riceve l’approvazione della comunità, ma arricchisce il corpo di valore e di
senso.”
59
Confronta in particolare Lanternari 2003 (1960), ma anche altri lavori dell’etnologo italiano come
Festa Carisma Apocalisse, Dei Profeti Contadini, o il più recente Ecoantropologia, in cui vengono presi
64
Questo processo di recupero e integrazione di elementi della tradizione cristiana
risulta fondamentale, come vedremo, nello sviluppo di certe forme di pentecostalismo
“indigeno”, sorte soprattutto nell’Africa subsahariana su iniziativa di personalità locali.
La rielaborazione di elementi culturali “altri” in vista dell’affermazione di una
nuova identità era stata d'altronde messa in luce precedentemente da Pettazzoni. La
concezione del “sacro” come prodotto interamente culturale gli permette di chiarire
l’origine del concetto monoteistico di dio, in opposizione tanto alla teoria
evoluzionistica quanto a quella del “monoteismo primordiale”. Lo studioso italiano ne
dimostra il significato politico mettendola in relazione alle costruzioni identitarie
ebraica, cristiana e islamica, affermatesi in opposizione alle culture politeiste del tempo,
considerate idolatre60.
Sullo stesso piano si muove Sabbatucci con il suo Monoteismo, in cui
l’attenzione si concentra nell’evidenziare le relazioni sussistenti tra le diverse modalità
di concepire il dio unico e le mutazioni di ordine culturale, sociale, economico, politico,
dei contesti in cui tali concezioni si sono affermate61.
A questo punto risulta chiaro che il problema non riguarda più il fatto se
considerare o meno l’episodio di Pentecoste come un fenomeno di possessione,
piuttosto che di ispirazione o di comunione. Questa questione è infatti legata a
sfumature di significati che sono venuti via via determinandosi lungo la storia del
Cristianesimo stesso e che sottendono un comune significante, quello che riguarda la
possibilità della rappresentazione del contatto diretto, personale, senza mediazioni, tra la
sfera dell’umano e quella dell’extraumano.
Si tratta allora di considerare secondo quali dinamiche la possibilità della
sperimentazione del “sacro” si è venuta codificandosi nella tradizione cristiana e di
riscontrare le differenze, se ce ne saranno, tra queste e la pretesa pentecostalein esame i NMR etichettati come “neo-paganesimo”, che operano un recupero di elementi dell’area
culturale celtica riproponendoli come funzionali all’emancipazionismo femminista e al rispetto
ambientale.
60
Confronta Pettazzoni 1957: 161: “Sempre l’affermazione del monoteismo si esprime con la negazione
del politeismo. Sempre tale negazione è il simbolo verbale di una lotta religiosa senza quartiere: la lotta
fra una fede che tramonta e una nuova coscienza religiosa che si afferma, - una lotta di cui ciascun profeta
del monoteismo è stato insieme banditore e vittima. Tutto ciò risulta dallo studio delle religioni
monoteistiche. Da esse ricaviamo il concetto di ciò che è realmente il monoteismo, non un concetto
teologico o speculativo, ma prettamente storico secondo il principio del verum ipsum factum, che fa
consistere la vera natura del fatto storico nella sua formazione e nel suo svolgimento.”
61
Confronta Sabbatucci 2001: 62: “Non è corretto interpretare i testi biblici, con l’idea che, quale che sia
il nome divino, si tratta sempre di Dio, il dio d’Israele, il dio dei Cristiani. In una ricerca sul monoteismo,
e non sull’esistenza di Dio, le variazioni del nome divino hanno tutta la loro importanza, in quanto
probabili indizi del processo in cui si è formata una concezione monoteista. E ciò vale anche per il
credente, il quale, se vuole, può scorgere in questo processo una graduale rivelazione di Dio: è quanto, del
resto, hanno fatto i redattori della Bibbia.”
65
carismatica specificata da Serafino Falvo di considerare lo Spirito Santo come fonte di
“vita, forza, guida, coraggio, entusiasmo” piuttosto che come una “astrazione
teologica”.
La sperimentazione del “sacro” nei monoteismi
Se nei sistemi politeisti le pratiche per una relazione “diretta” tra sfera umana ed
extraumana ricoprono un ruolo centrale e largamente utilizzato nella determinazione
dell’identità sia personale che collettiva, altrettanto non si può dire per i sistemi
monoteisti, cioè sistemi mitico-rituali fortemente gerarchizzati, in cui tali pratiche
trovano espressione ma occupano ruoli marginali.
Nelle formazioni monoteiste infatti, il ricorso a pratiche incentrate sulla
sperimentazione diretta del “sacro” è visto con sospetto, ed è stato sottoposto spesso,
quando non riconosciuto, a continui e severi monitoraggi e a cruente repressioni. L’idea
stessa di un unico principio di tutte le cose che trascende il mondo riduce di fatto la
possibilità di entrare in contatto con la sfera del divino a una decisione che spetta
unicamente a Dio stesso. Esemplare in questo senso è un’affermazione attribuita ad AlGhazzali, teologo islamico attivo attorno all’anno mille, secondo cui il vero
mussulmano sta nelle mani di Dio “come un cadavere tra le braccia del suo lavatore”.
Proprio all’interno dell’islam, tra i monoteismi quello dalla forma più “pura”,
strettamente legata alla ferrea messa in pratica dell’ortoprassi coranica, è possibile
riscontrare la presenza di forme di sperimentazione diretta del “sacro” codificate. Esse
si sviluppano essenzialmente seguendo due direttive distinte ma strettamente legate.
La prima si collega alla corrente del sufismo che ha rappresentato nel corso della
storia islamica un elemento particolarmente dinamico. I primi rappresentanti fanno la
loro comparsa già all’epoca del Profeta e per la loro proposta possono essere
formalmente accostati alle espressioni della cristianità tipiche dei primi anacoreti del
deserto e alle formazioni monastiche. Scopo principale del sufismo non era tanto quello
di apportare modifiche a livello dogmatico, quanto piuttosto di indicare una morale e un
metodo di approccio a Dio basato sulla proposta di pratiche alternative a quelle della
legge coranica. Ciò portò numerosi sufi ad essere pesantemente perseguitati dai
rappresentanti dell’islam tradizionale.
66
I poli del pensiero sufico stanno nell’esperienza “diretta” della divintà e nella
concezione personale della verità. Entrambi sono resi possibili da pratiche ascetiche e a
sfondo coreutico-musicale in cui il fedele subisce l’attrazione che Allah esercita verso di
sé. Le pratiche più note sono quelle riguardanti la confraternita dei dervisci che
propongono una particolare danza estatica, in senso rotatorio, da eseguire in occasione
del dhikr, la recitazione salmodiata dei testi coranici.
Il modello sufico crea la base per un’altra forma di sperimentazione del “sacro”,
quella resa possibile dalla presenza, nel mondo islamico, delle entità di origine preislamica note come jinn. Secondo la tradizione coranica gli jinn sono esseri ignei che
abitavano la terra da prima degli uomini “disponendo della signoria, della profezia, della
religione e della legge”, ma in seguito a un episodio di disobbedienza furono scacciati in
zone remote dell’Arabia. Il loro comportamento è considerato simile a quello degli
umani, ma essi, non possedendo un corpo, godono di una mobilità, di un’ubiquità e una
prescienza che gli uomini non possiedono; di qui la seduzione che su di essi riescono ad
esercitare.
La presenza degli jinn ha reso possibile lo sviluppo di diversi culti di
possessione nelle aree dell’Africa settentrionale e nord-orientale e in Medio Oriente. È
accertato come modelli di possessione come il bori e lo zar, presenti nell’area
subsahariana compresa tra Niger, Nigeria, Mali, ma le cui origini storiche risultano
tuttavia poco chiarite, si siano diffusi a seguito del processo di islamizzazione e della
tratta di schiavi gestita da mussulmani in Paesi come Tunisia, Marocco, Algeria dando
origine a formazioni come lo stambali, la derdeba, il diwan, sviluppatisi in rapporto
all’autorità islamica.
La pratica di questi culti è delimitata all’interno di gruppi, confraternite, secondo
il modello ammesso in ambito islamico dalle tariqa sufiche. Le tariqa sono la principale
forma di organizzazione del misticismo islamico: esse sono altamente gerarchizzate
attorno alla figura del maestro, figura mediatrice tra Dio e gli uomini in quanto
detentore della baraka, concetto di derivazione preislamica che sta a indicare una forza
benefica. La trasmissibilità della baraka è all’origine del culto dei “santi” (wali), molto
diffuso nell’ambito delle confraternite, i cui membri compiono periodici pellegrinaggi
sulla tomba del “santo”, sperando di essere partecipi del suo potere.
Generalmente in questi culti la messa in atto del dispositivo della possessione è
legato a uno stato “di malattia”, intesa sia come spirituale che come fisica. Dagli stessi
pellegrinaggi ci si aspetta guarigioni da malattie o sterilità, tanto che l’islam ortodosso
67
tende a rifiutarne le pratiche, considerandole non finalizzate alla comunicazione con
Dio. La possessione assolve a una funzione essenzialmente “terapeutica” che si
concretizza in complesse pratiche rituali in cui, attraverso un dispositivo coreuticomusicale, si procede con l’individuare lo spirito possessore, che tormenta, e il renderlo
innocuo tramite il soddisfacimento delle sue richieste.
La trance di possessione serve dunque ad organizzare sul piano simbolico le
risposte alle difficoltà di adattamento a una situazione nuova e drammatica, andando a
costituire la base ideologica per le varie tipologie di “culti di guarigione” di cui si
avverte una grande richiesta nella società contemporanea.
La dimensione “terapeutica” gioca un ruolo fondamentale nel successo di massa
che caratterizza il fenomeno pentecostale-carsimatico. Nella storia contemporanea del
cristianesimo esso non è tuttavia un caso isolato. Nel volume a cura di Franco Ferrarotti,
Studi sulla produzione sociale del sacro, viene presentata una dettagliata casistica
riguardante alcune figure di “guaritori” legati al mondo del cristianesimo, con
particolare riferimento al contesto italiano. Negli anni successivi alla seconda guerra
mondiale si riscontra infatti un notevole incremento di fenomeni “carismatici” in senso
lato. Tra il 1944 e il 1974 episodi “prodigiosi” come apparizioni, lacrimazioni di
immagini, stigmatizzazzioni, si moltiplicano e si contano a varie centinaia, mentre a
tutt’oggi diversi programmi televisivi testimoniano dell’interesse “popolare” che ancora
circonda questa tematiche.
Dietro questi fenomeni troviamo la presenza di diverse figure di laici, spesso di
umile condizione sociale, e più raramente di religiosi. Essi, pur professando la propria
adesione alla Chiesa cattolica e all’autorità papale, si auto-presentano come intermediari
del volere di Dio e soprattutto della Madonna, in virtù di una sorta di “iniziazione”
personale ottenuta a seguito di esperienze drammatiche di “contatto” con il divino
tramite sogni, visioni, sofferenze fisiche. Attorno a queste figure si vengono a formare
piccole comunità, più o meno numerose, di seguaci che chiedono la guarigione dai
propri mali, fisici o psichici, qualche consiglio per le proprie questioni personali, per
ascoltare i messaggi “rivelati”. Questi fenomeni, legati alla sfera del “miracoloso”,
dell’irruzione perentoria del divino nella quotidianità umana, meriterebbero da soli un
discorso a parte che qui non faremo. Se li abbiamo citati è soltanto per sottolineare
come anche all’interno del dogmatismo cattolico si creino spazi per la sperimentazione
“diretta” dell’extraumano, del fascino che tale “esperienza” ancora fortemente esercita,
e di come venga ricercata.
68
Nei confronti di questi fenomeni la Chiesa cattolica ha nutrito e nutre un
atteggiamento di completa chiusura, testimoniato da una numerosa documentazione in
cui si impone la cessazione immediata di tali forme cultuali “private”62.
Forme “private”, da intendersi come alternative alla tradizione “ufficiale”, sono
riconoscibili anche nella storia più recente dell’ebraismo, quando l’inasprirsi degli
atteggiamenti repressivi nei confronti degli Ebrei della diaspora ha favorito l’insorgere
di alcuni movimenti a sfondo messianico all’interno del monoteismo. Tra di essi ebbe
particolare fortuna la corrente del hasidismo, sviluppatasi all’inizio del XVIII secolo a
partire dall’Ucraina. Fondato da un umile carrettiere che insegnava come “l’uomo più
semplice possa trovare Dio”, il hasidismo poneva accanto alla preghiera e allo studio,
pilastri della tradizione rabbinica, la possibilità di realizzare l’unione con Dio attraverso
pratiche entusiastiche. Colui che riesce in questo intento è uno ziddik (“giusto”), il quale
“Grazie alla santità esemplare della sua vita, raggiunge la comunione intima con Dio e,
non contento di servire come modello per coloro che si collegano a lui, svolge anche la
funzione di colui che intercede per l’umanità presso la Divinità”63
Nel monoteismo ebraico la comunicazione tra Dio e gli uomini è invece ricondotta
principalmente al modello dei profeti veterotestamentari e di Mosè. Nel libro dei
Numeri (12, 24-10) è lo stesso Yhwe che spiega la differenza tra “profeta” e “servo”:
mentre al primo egli trasmetterà conoscenza tramite sogni o visioni, al secondo parlerà
“bocca a bocca, chiaramente e non per enigmi”. L’episodio si conclude con la punizione
della lebbra per la sorella di Mosè che aveva osato aspirare da non prescelta alla
conversazione diretta con Dio. Con la conclusione del periodo “profetico” storico,
attestato approssimativamente tra VIII e VI secolo a.C., e la creazione dell’istituto
sacerdotale, cessa la comunicazione diretta di Dio con il suo popolo. Di fatto però,
alcune forme di interrogazione della volontà del Signore rimangono comunque presenti
nel contesto culturale delle tribù d’Israele, venendo poste ai margini ma non bandite del
tutto.
Esse mutano con il mutare delle sorti del Regno d’Israele. Se, come scrive Clara
Kraus Reggiani, “il culto dell’epoca mosaica esclude qualsiasi genere di attentato alla
trascendenza divina”, le cose si presentano diversamente durante il cosiddetto
62
In De Lutiis 1978, l’autore riporta numerosi stralci tratti da diverse notifiche vescovili riguardanti i
suddetti presunti episodi “miracolosi” in cui si legge il deciso rifiuto di riconoscere carattere
soprannaturale agli episodi. Di fronte alla perseveranza di alcuni nel proseguire le loro pratiche, si sono
registrate prese di posizione di forza da parte delle Curie, con tanto di interventi delle forze dell’ordine
nei luoghi di ritrovo “incriminati” e sequestro degli oggetti di culto.
63
Gugenheim E. in Puech 1999 (1970): 214
69
“giudaismo ellenistico” (III secolo a.C. – I secolo d.C.) che coinvolge la nascita del
primo cristianesimo64. In questo periodo si attestano due direzioni diametralmente
opposte, entrambe rifiutate dall’ebraismo rabbinico, custode delle leggi cultuali e delle
norme morali espresse dalla Torah. La prima consisteva in un orientamento filosoficorazionalistico sviluppatosi nella diaspora ebraica di Alessandria d’Egitto, l’altra, in
Palestina, si affermava secondo una tematica apocalittica che mirava ad una evasione
dalla frustrante realtà del momento e alla salvezza in un mondo rinnovato.
“Alla disastrosa situazione politica, che sarebbe culminata nella distruzione del Tempio,
conseguì – durante l’occupazione prima greca e poi romana del paese – una
diramazione multipla nel campo della fede […] Il credo nel Dio unico era ormai un dato
acquisito da tempo, ma si era andata configurando la necessità di una conoscenza che si
spingesse al di là della contingenza storica e che, solo se rivelata da Dio in forme nuove,
avrebbe potuto avvalorare l’attesa di un’era di bontà e di pace, in un futuro prossimo
che poteva essere terreno, ma che di necessità era essenzialmente escatologico.”65
Nel quadro dell’apocalittica giudaica, la ricerca di forme alternative di mediazione tra
umano ed extraumano ha portato al recupero di tematiche che hanno precedenti
nell’Antico Testamento e che, adeguatamente rielaborate hanno avuto ripercussioni sul
cristianesimo primitivo. Tra queste tematiche assume particolare rilevanza la figura del
“Figlio dell’uomo”, presente sia nei libri “profetici” di Daniele ed Ezechiele, sia in
diversa letteratura apocalittica, dalla cui analisi emergono i tratti di una figura
“misteriosa, trascendente, preesistente alla creazione del mondo, un salvatore che supera
l’attesa messianica nazionale e terrena.”66
Dalla prospettiva tracciata nell’articolo della Kraus Reggiani trova conferma che
è il tema del mediatore-salvatore, sviluppato dall’apocalittica del pensiero giudaico, che
ha creato i presupposti culturali per la trasposizione della personalità di Gesù di
Nazareth in quella del Messia tanto atteso, nel Cristo, Unto del Signore e Figlio
dell’Uomo. Quest’ultimo appellativo è infatti attribuito innumerevoli volte a Gesù nei
Vangeli e negli Atti, e lo stesso Gesù lo attribuisce a sé stesso, usandolo in terza persona
(Mc 2, 10-11; 14, 62). È questa la pietra dello scandalo, ciò che mette profondamente in
discussione l’unicità del dio veterotestamentario e, di conseguenza, l’autorità della legge
mosaica: la pretesa di un contatto diretto con Dio reso possibile dalla mediazione del
Gesù-Cristo, contemporaneamente uomo e dio.
64
Clara Kraus Reggiani è autrice, tra le altre cose, di un contributo al fascicolo del 2001 di SMSR, Il
monoteismo ebraico e il concetto di mediazione, cui qui faremo riferimento.
65
Kraus Reggiani 2001: 21
66
Kraus Reggiani 2001: 33
70
L’azione dello Spirito Santo, tramite la sua “discesa” su Maria, aveva infatti
permesso il paradosso dell’incarnazione del Cristo, spogliando Dio della propria
assoluta trascendenza e rendendolo umano tra gli umani. Tale impasse verrà risolta,
salvaguardando l’idea monoteista, solo durante il concilio di Nicea con la formulazione
del simbolo trinitario che, affermando la consustanzialità del Figlio e dello Spirito con il
Padre, ne attribuiva la stessa sostanza e la stessa natura trascendente.
È nella narrazione biblica della Pentecoste che viene per la prima volta
codificata la condizione del Cristo, la cui eccezionalità è garantita dal dono dei
“carismi” fatto agli apostoli.
La portata politica dell’istituzione della “Nuova Alleanza” è messa in luce da
Lanternari, il quale traccia in ottica comparativista un parallelo tra i movimenti “di
libertà e salvezza” e la formazione delle prime comunità cristiane, giungendo a queste
considerazioni:
“Prodotto da una cultura urbana altamente gerarchizzata, il cristianesimo sorse e si
sviluppò, come manifestazione “popolare”, dal confronto con forze egemoniche
oppressive – il sacerdotalismo giudaico, lo statalismo romano – scaturite dal seno della
società di cui esso era parte integrante. Combatterle su un terreno religioso era possibile
a un’unica condizione, cioè globalmente rovesciando i valori dell’esistenza sociale,
additando come positivi unicamente i valori ultraterreni.
Insomma, il programma salvifico del cristianesimo, contro il sacerdotalismo e insieme
contro lo statalismo, doveva necessariamente fondarsi su una evasione integrale dalla
storia, sulla fondazione di un Regno che doveva attuare il rovesciamento, anzi
l’annullamento delle vigenti sovrastrutture sociali.”67
Lanternari però non prende in considerazione il fatto che dal cristianesimo primitivo
abbia preso piede un sistema culturale che si è fatto mediatore di valori che hanno
influenzato un’intera epoca storica, fondando una civiltà. È questo aspetto fondamentale
che distingue lo sviluppo delle prime chiese cristiane da quello dei movimenti
messianici delle popolazioni colonizzate, rimasti invece limitati ad aree regionali e
spesso esauritisi nel giro di qualche decennio.
La possibilità del perdurare e del rafforzarsi dell’azione del cristianesimo nella
storia risiede proprio nel valore che essa assume nell’ottica cristiana. È De Martino che
ne evidenzia l’efficacia nelle sue riflessioni attorno alla Pentecoste raccolte ne La fine
del mondo. Egli intanto distingue tra una “apocalittica di Gesù predicante e dei discepoli
che lo ascoltavano” – che probabilmente si rifaceva direttamente alle tematiche
dell’apocalittica giudaica cui abbiamo accennato precedentemente –, e una “apocalittica
67
Lanternari 2003 (1960): 407
71
dopo la morte di Gesù e cioè degli apostoli e dei discepoli che hanno esperito tale
evento e che drammaticamente, ma vittoriosamente, ne hanno oltrepassato la crisi”68 –
ed è questa che viene inaugurata dalla discesa dello Spirito.
La narrazione di Pentecoste, secondo la demartiniana concezione patologica del
“sacro”, si presenta così come discorso sulla fine, come dispositivo di plasmazione e
risoluzione di una crisi. La crisi è quella derivante dalla morte di Gesù, la scomparsa
della figura di riferimento per i discepoli che l’avevano seguito, tanto che
“È possibile interpretare la genesi del protocristianesimo come la esemplarizzazione di
una storica risoluzione di una crisi del cordoglio: risoluzione che trasforma Gesù morto
nel Cristo risorto, e il morto-che-torna della crisi nel morto-risorto presente nella Chiesa
e per eccellenza nel banchetto eucaristico, sino a quando il già accaduto della promessa
sarà compiuto mediante lo slancio missionario.”69
La qualità umana del Cristo permette di radicare un nuovo messaggio, pienamente
inserito nella storia, rivolto a tutti gli uomini, e di pensare un governo del mondo in
nome di Dio. La successiva affermazione delle chiese cristiane sul modello della Roma
imperiale, e viceversa l’adozione da parte di Costantino del modello cristiano, trovano
un punto d’incontro nella visione della terra come ecumene70. L’affermazione di
un’autorità assoluta annulla la possibilità di poter accedere liberamente alla fruizione di
“poteri” soprannaturali, potenzialmente sovvertitrici. Ciò di fatto contribuisce a
spogliare l’episodio della Pentecoste del suo valore “mistico”, di rottura con la
tradizione giudaica, e a interpretarlo a posteriori come il giorno in cui “è pienamente
rivelata la Trinità Santa”71.
Sempre nel Catechismo della Chiesa Cattolica si legge:
“La missione di Cristo e dello Spirito Santo si compie nella Chiesa, Corpo di Cristo e
tempio dello Spirito Santo. Questa missione congiunta associa ormai i seguaci di Cristo
alla sua comunione con il Padre nello Spirito Santo: lo Spirito prepara gli uomini, li
68
De Martino 2002 (1977): 285
De Martino 2002 (1977): 290-291. Anche Destro e Pesce, da un punto di vista più strettamente
antropologico, rilevano la centralità dell’episodio della morte di Gesù e della sua rielaborazione nella
definizione dell’identità dei primi gruppi cristiani: “È proprio la privazione della presenza fisica del
maestro che può trasformare in comunione permanente la comunità dei discepoli che hanno ricevuto lo
spirito mediante alitazione. Si instaura un’unione indissolubile e permanente con il leader, perché si è con
lui instaurato un flusso comunicativo vitale e non contingente. Ciò di cui ha bisogno il discepolo, d’ora in
avanti, è di mantenere il contatto con il maestro scomparso ma vivente presso Dio. Questa ricerca di
contatto è uno dei caratteri significativi della storia successiva dei discepoli che hanno assunto come
proprio il compito del maestro. […] L’avvento della risurrezione risana la situazione di debolezza;
attraverso le apparizioni di Gesù, tornato alla vita, il gruppo continua a sussistere in quanto espressione ed
emanazione di un vertice attivo e partecipe” (Destro – Pesce 2005: 46-47)
70
Vedi Chirassi Colombo 2006, anche per le implicazioni politiche che hanno le proprie radici nella
riforma augustea nel nome di Apollo Sol
71
Catechismo della Chiesa Cattolica: 203
69
72
previene con la sua grazia per attirarli a Cristo. Manifesta loro il Signore risorto, ricorda
loro la sua parola, apre il loro spirito all’intelligenza della sua Morte e Resurrezione.
Rende loro presente il Mistero di Cristo, soprattutto nell’Eucaristia, al fine di
riconciliarli e di metterli in comunione con Dio perché portino molto frutto”
L’azione dello Spirito, del pneuma cristianamente inteso, è dunque pienamente inserita
all’interno di un’ottica di mantenimento di potere.
La necessità di sottoporre a una rigida disciplina l’uso delle pratiche di
sperimentazione del “sacro” si manifesta già nel testo biblico. L’apostolo Paolo è colui
cui è attribuito il compito principale di divulgazione del messaggio del Cristo tra le
genti. Nelle epistole a lui attribuite si riscontra il tentativo di porre sotto una rigida
regolamentazione l’uso dei “doni dello Spirito”, dei carismi, per sottrarre le pratiche
della sperimentazione del “sacro” all’uso personale.
Nella Prima Lettera ai Corinti S. Paolo presenta una vera e propria lista di
“carismi”, differenziandoli e proponendone una precisa gerarchia. L’intento
dell’apostolo è principalmente quello di creare una solida base comunitaria, in cui tutto
sia fatto “a scopo di edificazione”, e nel fare ciò non esita a proporsi sovente come
guida ed esempio. La metafora usata è quella conosciuta delle varie parti del corpo che,
pur svolgendo funzioni differenti, appartengono tutte a un medesimo organismo. Su
questa metafora si dispiega l’elenco dei carismi e delle funzioni cui assolvono.
Non a caso Paolo indica il dono cui maggiormente aspirare nella profezia,
poiché essa è parola comprensibile agli uomini mentre il “parlare in lingue”, la
glossolalia è la modalità di relazione con Dio, per cui permette di esprimere “in spirito
cose misteriose (I Cor. 14,2)”. Il controllo dei carismi avviene mediante il tentativo di
una loro sempre più minuziosa definizione che mira sostanzialmente alla messa al
bando del corpo esuberante.
In questo senso si esprime il teologo gesuita Karl Rahner in un libello intitolato
Esperienza dello Spirito, datato 1977, in un periodo di particolare sviluppo per il
fenomeno pentecostale-carismatico. Scrive Rahner:
“L’esperienza dello Spirito prende l’avvio dalla sfera più intima della nostra esistenza,
dal suo polo soggettivo, se così possiamo dire, e non consiste nell’incontro con un
oggetto qualsiasi di natura particolare, che ci viene incontro dall’esterno e di cui
percepiamo gli effetti”72
In aperta polemica con la tendenza, fortemente avvertita in quegli anni, dei pentecostali
e dei carismatici a formare un’elite, egli ripropone la dimensione di uno Spirito che
72
Rahner 1977: 11
73
agisce nella quotidianità, volto a costituire la comunità cristiana anche attraverso
pratiche giornaliere, “profane”, come, da esempio Rahner, l’amministrare bene la cassa
di una comunità. L’uomo che ha fatto esperienza dello Spirito:
“Accetta con amore, nella sua esistenza quotidiana, la realtà assegnatali di questo
mondo”73
Quale pneuma ?
Il concetto greco di pneuma, da cui si fa derivare il latino spiritus, contiene in sé
una ampia gamma di sfumature di significati che, generalizzando, potremmo ricondurre
alla sfera dell’acquisizione di qualità e di conoscenze che travalicano la dimensione
umana, fisica, ma che ad essa rimangono comunque strettamente connesse. Nella
cultura greca si può riscontrarne l’uso all’interno della filosofia, delle scienze naturali,
della medicina e, naturalmente, in ambito “religioso”. Tracciarne un profilo completo
sarebbe impresa ardua, che richiederebbe numerosi volumi, a cui peraltro già si sono
dedicati esaurientemente studiosi come Leisengang e Verbeke.
Gerard Verbeke, nel suo L’evolution de la doctrine du pneuma, traccia una storia
del concetto a partire dal ruolo che occupa nella filosofia stoica, fino alla sua
elaborazione in ambito cristiano nella teologia di S. Agostino. Lo studioso francese
distingue due grandi filoni nella pneumatologia antica. Da una parte le concezioni delle
scuole medicali e delle correnti filosofiche greche che, senza subire influenze straniere,
hanno elaborato una concezione del pneuma che non si distacca mai da un materialismo
di fondo e che sfocerà nel neoplatonismo. Dall’altra, le dottrine di coloro che sono
entrati in contatto con elementi della cultura giudaica che hanno determinato un
progressivo distacco del concetto di pneuma da una sfera di significati riguardanti la
materialità e la mortalità, e che trova il suo ideale compimento nella teologia del
vescovo d’Ippona. Cercando le cause di questa evoluzione della pneumatologia antica,
Verbeke le individua nell’apporto specifico dovuto alla religione monoteista che applica
il concetto alla divinità trascendente e all’anima immortale, riconoscendo in ciò il
contributo originale del pensiero giudaico-cristiano.
73
Rahner 1977: 86
74
Per quel che ci riguarda, cercheremo di fermare l’attenzione sul ruolo che il
pneuma riveste nella creazione di forme sperimentali del “sacro”.
Da un punto di vista del significato letterale, il pneuma è indicato come
“La forza elementare della natura e della vita – sostanza e atto insieme – di cui l’effetto
esterno e interno si può ravvisare nella corrente d’aria, nel soffiar del vento,
nell’inspirazione e nell’espirazione e, in senso traslato nell’alito dello spirito che
ispirando riempie e afferma con la forza dell’entusiasmo.”
Per quest’ultimo significato, che è quello che ci interessa più direttamente, si aggiunge:
“L’alito del vento o del respiro è una forma d’essere e una rappresentazione in cui
soprattutto certe potenze divine superiori, di cui l’uomo non può disporre e che
appartengono al genere più disparato, comunicano all’uomo e anche alla natura, nel
bene e nel male, qualcosa di quel vivente essere ed agire che esse stesse sono.” 74
Il pneuma dunque può provocare una “possessione”. Un esempio tra i più conosciuti nel
mondo greco è modello di “possessione” costituito dalla mantica non tecnica, che trova
espressione nel culto tributato al dio Apollo nella sede oracolare di Delfi. Qui, Apollo
riempie con il suo alito divino una donna, sua amante nel mito, sacerdotessa nella
pratica cultuale, la Pizia.
A partire dal I secolo a.C., pneuma si afferma come termine tecnico che indica la
forza del soffio che investe la Pizia e la rende atta a ricevere e trasmettere in linguaggio
comprensibile, umano, l’oracolo del dio. La Pizia, seduta su un tripode posto all’altezza
di una spaccatura della terra, “riceve” il pneuma apollineo che da essa si sprigiona. Gli
effetti fisici sono in parte simili a quelli provocati da una folata di vento: i capelli si
sciolgono e si arruffano, il respiro si fa affannoso, la sacerdotessa è trascinata
dall’ebbrezza. L’atto del ricevere viene presentato come un vero e proprio
accoppiamento, stando la Pizia, virginale sposa del dio, a gambe divaricate e rimanendo
gravida del soffio. Altra immagine usata è quella del corpo femminile come
“strumento” usato dal dio per “suonare” la propria melodia, rendendola così accessibile.
Anche nel caso dell’oracolo delfico infatti, come nella Pentecoste, l’atto della
“possessione” è strettamente legato alla sperimentazione linguistica. Apollo, in quanto
dio, non possiede una voce umana, e tramite la voce femminile assicura la fonazione al
messaggio divino. L’attività oracolare della Pizia trasforma l’impulso pneumatico in
qualcosa d’altro, in parola, e fa arrivare il messaggio a destinazione. In questa
prospettiva, l’episodio della possessione delfica ripropone, confermandola in chiave
74
Kleinknecht in Grande Lessico del Nuovo Testamento
75
metaforica, l’idea greca secondo cui la donna è madre solamente per il suo ruolo di
“trasformatrice” del seme maschile ricevuto in un figlio analogo al padre.
La “possessione” della Pizia viene presentata come un modello particolare di
sperimentazione linguistica, quello in cui il destinatore del messaggio è rappresentato da
un’entità che vuole la comunicazione con l’umano, ma non ne conosce il linguaggio,
servendosi così di un tramite presentato come “adatto”. Questo modello si differenzia da
altre due possibilità di comunicazione tra umano e divino. Una in cui il destinatore sa
come mandare il proprio messaggio: è il caso del Dio onnipotente e onnisciente dei
monoteismi, che si “sceglie” da sé i profeti. L’altra possibilità è data da un destinatore e
un destinatario separati dalla mancanza di un codice comune, costretti dunque a cercare
una mediazione. Ciò si realizza nella messa in pratica di una lingua nuova, “speciale”,
che dà vita a un circuito comunicativo. È il caso del fenomeno glossolalico, che si pone
in relazione anche con una certa forma di follia. In questo caso la formula del “parlare”
con Dio o con gli dei, diventa il parlare con l’ “altro” in senso lato, con lo straniero
linguisticamente diverso75.
Nel Grande Lessico del Nuovo Testamento, in conclusione ad una comparazione
tra il concetto greco-ellenistico del pneuma mantico, e il significato che esso assume
nelle fonti neotestamentarie, si legge:
“Tra il concetto greco profano di pneuma – sia esso preso in senso fisiologico-cosmico,
mantico-entusiastico o anche spirituale – e quello neotestamentario corre questa
differenza, che il Dio che sta alla base di una concezione è “del tutto diverso” da quello
che si trova nell’altra.”
Pur esistendo diverse analogie formali nel modo di concepirlo - per cui il pneuma
“riempie”, “genera”, “trascina”, “ispira” e “dischiude”, rende possibile la capacità di
parlare e agire in modo straordinario, mette in relazione con la verità - esiste tra
concezione greca e neotestamentaria una totale diversità nel concepirne la provenienza,
la natura e l’autenticità.
Nell’interpretazione greca del pneuma, e in particolare della sua capacità di
provocare l’ispirazione mantica, esso rimane essenzialmente un principio corporeo,
sottile ed efficace insieme. Esso è letteralmente un soffio che si sprigiona dalle fenditure
della terra o un’illuminazione divina che agisce sull’involucro pneumatico dell’anima,
stimolandone le capacità divinatorie. Questa concezione si riallaccia al monismo
materialista dei filosofi stoici, per cui il pneuma è principio divino immanente che
75
Chirassi Colombo 1998: 90-91.
76
assicura l’unità non solo tra gli esseri umani, ma tra il cosmo intero. L’unità degli
elementi cosmologici assicura la possibilità di accedere ad un altro tipo di conoscenza,
quella legata alla pratica della divinazione tecnica, derivante dall’osservazione di
fenomeni fisici come il volo degli uccelli o le interiora degli animali sacrificati.
Data la sua natura corporea, il pneuma greco non appartiene mai alla sfera della
pura immaterialità. Strettamente connesso con l’azione del vento, esso è una forza
personale intramondana, un possesso di tutti, impersonale e vitale, stabilmente presente
nell’organismo del cosmo e delle sue parti.
Gerard Verbeke, nel suo classico studio sulla pneumatologia antica, parla di una
“spiritualizzazione” del pneuma, cioè un pneuma che viene via via concepito come
separato nettamente dalla sfera materiale, che non ha quindi più a che fare con la
dimensione della sensorialità del corpo, influendo invece su quella dell’etica e della
morale.
È con Filone d’Alessandria che in ambito greco-ellenistico si riscontrano i primi
esempi di un concetto di pneuma essenzialmente “spirituale”, slegato da una realtà
materiale. Ciò è dovuto all’influenza che i testi biblici ebbero sul pensatore alessandrino
in quel crocevia sincretico che fu la metropoli egiziana. Il pneuma che garantisce il
contatto tra la sfera dell’umano e quella dell’extraumano, mantiene questa caratteristica
anche all’interno della pneumatologia cristiana. Esso però non è più il pneuma mantico
di Apollo, ma è il pneuma del Dio monoteista trascendente, concepito come dono divino
che trascende il mondo. La contrapposizione è tra una sfera di significati riconducibili a
una “divinizzazione” della sensibilità corporea come potenzialità, e una sfera che invece
coinvolge soprattutto le facoltà psichiche e intellettuali dell’uomo, in vista non di una
“possessione” temporanea e transitoria, ma della costituzione di un’etica e di una
morale che siano storicamente operanti, così come il Dio monoteista è
fondamentalmente costruttore di storia. Al filosofo di Platone si contrappone il
pneumatikos di S. Paolo, in grado di discernere la provenienza divina o meno dei “doni”
derivanti dallo Spirito Santo.
A una diversa natura del pneuma che ispira e possiede, che vale a dire una
diversa concezione delle possibilità di accedere a conoscenze “altre”, sovrannaturali,
corrisponde una diversa istituzionalizzazione delle pratiche che consentono l’accesso a
tali conoscenze. Un altro esempio tratto dall’area culturale greca ci aiuterà a definire il
posto che l’azione pneumatica occupa nella prospettiva cristiana.
77
I cosiddetti “misteri eleusini” proponevano, tramite una complessa pratica
cultuale, il raggiungimento di una conoscenza “unica”, tanto che agli iniziati veniva
imposto un severo divieto atto a impedirne la divulgazione al di fuori della cerchia dei
partecipanti. Il carattere fortemente esoterico del culto ha reso difficoltoso identificarne
la funzione precisa. Dario Sabbatucci fa rientrare a pieno diritto la pratica eleusina nella
sfera del misticismo, da considerarsi tale in un’ottica essenzialmente “politica”.
Elaborando in chiave storico-religiosa il concetto occidentale di “mistica”, Sabbatucci
ne rovescia la prospettiva, indicando l’esperienza mistica non come un “andare verso” –
Dio, l’Assoluto, l’Alterità per eccellenza – ma piuttosto come un “separarsi da”, la
realizzazione di una dimensione escatologica in un atto rituale operante una negazione
della tradizione, un’evasione ritenuta radicale in quanto consente l’accesso a una verità
che annulla la contingenza storica76.
In quest’ottica la pratica misterica di Eleusi risolve su un piano “mistico” un
intento politico, sottraendo l’uso degli “stati alterati di coscienza” dalle manipolazioni
dei singoli, e inserendolo in un quadro performativo regolato da una rigida liturgia:
“Il fine ultimo della costituzione è il raggiungimento di un’effettiva uguaglianza tra i
cittadini e anche tra i non cittadini, l’uguaglianza tra gli uomini, l’utopia che traluce
dietro gli sforzi di costituzione dell’uguaglianza elitaria tra i pochi membri della
politeia, che sarà risolvibile solo nell’aldilà. Qui, coloro che non hanno visto e non
sanno il senso dei giochi, dei limiti e delle differenze, che non hanno cioè partecipato e
capito l’esperienza “femminile” di Eleusis, perderanno per sempre il privilegio di
godere la sorte degli uguali.”77
Ad Eleusi, dunque, si insegna “come capire la vita”, e lo si fa attualizzando un orizzonte
mitico-rituale che ricalca le dinamiche che sottendono la costituzione dell’istituto della
polis, ma che al contempo mira ad annullarle su di un piano metastorico.
Da questa prospettiva possiamo considerare “mistico” anche il primo
cristianesimo. “Mistico” non tanto per la proposta in sé del contatto diretto con lo
Spirito, ben presente e centrale, quanto piuttosto per la funzione che tale proposta
ricopre nel contesto culturale giudaico in cui si è sviluppata. La possessione-ispirazione
dello Spirito realizza sul piano mitico-rituale l’intento politico di emancipazione di una
parte del popolo ebraico da una situazione oppressiva dovuta alla presenza romana in
Palestina.
76
77
Sabbatucci 1965, ma confronta anche Chirassi Colombo 1986
Chirassi Colombo 1986: 11-12
78
L’eversione radicale si compie nel riconoscimento di Gesù come unica fonte di
autorità in quanto accettato come Cristo, Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio, mettendo di
fatto in discussione l’esercizio dell’autorità romana.
La “novità” del Cristo è tuttavia ben inserita nel solco della tradizione giudaica
di impronta millenarista, la cui carica utopica verrà variamente riproposta dal
cristianesimo lungo i secoli. Egli è infatti presentato come appartenente alla stirpe di
David da cui, secondo il profeta Isaia, discenderà il Salvatore nascendo da una madre
vergine (Is 7, 14). Questa nascita prodigiosa è il “segno” dell’inizio di un tempo felice,
caratterizzato dalla restaurazione della dimensione paradisiaca, in cui lupi e agnelli
pascoleranno insieme, così come leopardi e capretti, leoni, pecore e vitelli, sotto la
guida di un piccolo fanciullo. Egli giocherà con i serpenti velenosi senza farsi del male,
perché con la sua venuta è scomparsa la ferocia dal mondo (Is. 11, 1-9)78.
Durante il suo ministero terreno Cristo dichiara compiuta la Legge,
permettendosi dunque di infrangerla e invitando quanti lo seguivano a comportarsi
diversamente da quanto stabilito dall’autorità sacerdotale. Egli opera “miracoli”
liberamente, predica durante il sabato, annulla le restrizioni alimentari, entra in contatto
con persone considerate “impure” come nel caso dell’emorroissa da cui si lascia
toccare, guarendola (Mt 9, 18-22).
Il riconoscimento dell’azione prodigiosa del Cristo avviene, agli occhi dei suoi
seguaci, grazie al fatto che in lui agisce lo Spirito Santo. Prima della Pentecoste infatti,
nel racconto biblico lo Spirito interviene in due altri momenti determinanti: l’
“immacolata concezione” di Maria e il battesimo di Gesù nel Giordano a opera di
Giovanni il Battista. In entrambi i casi lo Spirito ha la funzione di rendere manifesta la
particolarità di Gesù come detentore di un potere e di una conoscenza “altri”, che ne
legittimano l’azione personale.
La presenza dello Spirito Santo ci viene dunque proposta come costantemente
operante agli albori del cristianesimo. Egli assolve a una duplice funzione: da una parte
è elemento di aggancio con la tradizione, e quindi di legittimazione della continuità di
un percorso culturale e “religioso” nuovo. Contemporaneamente, è ciò che permette il
78
L’immagine della vergine e del bambino compare anche nel Libro III della raccolta degli Oracula
Sibillina, testo profetico prodotto dalla comunità ebraica di Alessandria d’Egitto, i cui nuclei più antichi
risalgono al II secolo a.C. Essa è anche presente nell’Ecloga IV del poeta romano Virgilio e fu usata
dall’imperatore Costantino nell’orazione tenuta al concilio di Nicea per sottolineare l’universalità del
messaggio cristiano. A ciò si deve l’interpretazione di Virgilio come inconsapevole profeta, immortalato
da Dante. (Chirassi Colombo 2006/07)
79
definitivo distacco dall’istituto tradizionale e il suo superamento nella fondazione di un
nuovo ordine.
Ciò si traduce nell’organizzazione delle prime comunità cristiane secondo
dinamiche sociali e culturali nuove e autonome rispetto all’istituto tradizionale giudaico.
Adriana Destro e Mauro Pesce nel loro Forme culturali del cristianesimo nascente
mettono in evidenza le differenze tra le diverse forme aggregative discepolari, in
particolare tra le comunità derivanti dalla predicazione giovannea e da quella paolina.
Entrambe vengono messe in relazione con l’istituto tradizionale dell’oikos,
sottolineandone i caratteri di novità e di autonomia rispetto ad esso:
“La ekklesia, per sua natura, non sottostà a regole generali della società, ma è il luogo in
cui si realizza un modello differenziante di rapporti interpersonali, l’essere “fratelli” (la
filadelfia). Tutto questo significa peraltro che la ekklesia non ha bisogno di
legittimazione esterna. Possiede simbolizzazioni ed esigenze identitarie proprie.”79
La proposta cristiana dunque, sfrutta abilmente in senso rivoluzionario la possibilità di
una nuova alleanza tra Dio e uomini, lasciata aperta tra le righe dell’Antico Testamento
con i frequenti richiami all’attesa di un messia giudice ed annunciatore della fine dei
tempi.
Dario Sabbatucci, nel suo studio sui monoteismi, rileva come lo Spirito di cui si
parla nei Vangeli sia da considerarsi come concetto analogo al pneuma greco, inteso
cioè come “soffio”, con tutte le implicazioni riguardanti il contatto con la sfera del
divino che abbiamo visto80. Non è ancora presente la nozione di Spirito Santo come
“persona”, che verrà proclamata a Nicea e sancirà ufficialmente la creazione del
monoteismo cristiano, relegando l’efficacia delle pratiche di sperimentazione del
“sacro” nel tempo mitico della Pentecoste.
79
80
Destro-Pesce 2005: 64-65
Sabbatucci 2001
80
Onda su onda: la “nuova” Pentecoste
Una panoramica
Occorre prima di tutto delimitare il nostro campo di analisi, ovvero stabilire a
quali specifici movimenti e a che tipo di proposta “religiosa” intendiamo riferirci con i
termini “pentecostalismo” e “carismatismo”. Avvertiamo l’urgenza di questa necessità
in quanto il carattere frammentario in cui il movimento pentecostale si esprime ha reso
spesso difficoltosa una definizione chiara del fenomeno, sia tra i pentecostali stessi, sia
tra gli studiosi.
Un altro ostacolo a una visione organica del pentecostalismo sta nel fatto che
prima degli anni Settanta pochissimi storici estranei al movimento erano interessati a
studiarne le dinamiche; l’atteggiamento più diffuso era quello di considerare il
pentecostalismo non come una forza dinamica nel panorama della religione statunitense,
ma come un movimento fortemente conservatore che avrebbe esaurito entro breve la
propria carica propositiva. Dagli anni Settanta questo atteggiamento muta in
concomitanza con, da una parte l’ampia diffusione delle tematiche pentecostali, rimaste
fino a quel momento relegate alle fasce più emarginate, tra le classi medio e alto
borghesi della società capitalistica occidentale, dall’altra l’affermazione in ambito
accademico dell’interesse per i cosiddetti “stati alterati di coscienza” e gli aspetti più
emotivi dell’esperienza “religiosa”81. Questo “ritardo” del mondo accademico
nell’interesse per lo studio del pentecostalismo aveva comunque lasciato il tempo
perché si affermasse una ricca storiografia pentecostale basata su opere di membri
interni al movimento, che ne davano una visione apologetica e a-storica di sicuro
impatto popolare ma che ne inficiavano una corretta comprensione82.
81
Per una panoramica sui primi studi storici e sociologici riguardanti il pentecostalismo statunitense
rimandiamo all’articolo dello storico Randall J. Stephens, Assessing the roots of pentecostalism, reperibile
alla pagina web www.pctii.org
82
Ci limitiamo qui a segnalare il testo del pastore pentecostale David Wilkerson, La croce e il pugnale,
che ebbe molta influenza sui primi gruppi di carismatici cattolici; Il ritorno dello Spirito: storia e
significato di un movimento dei coniugi Kevin e Dorothy Ranaghan e Come una nuova Pentecoste. Lo
straordinario inizio del Rinnovamento Carismatico Cattolico di Patti Gallagher Mansfield, tre tra i più
attivi membri del carismatismo cattolico statunitense. Per quanto riguarda il movimento carismatico in
Italia, si segnalano per gli esasperati accenti entusiastici gli scritti del sacerdote calabrese Serafino Falvo.
81
In sostanza il pentecostalismo propone la costruzione di una rete relazionale
caratterizzata da una nuova etica, una nuova visione del mondo che ha dimostrato di
sapersi adattare mano a mano ai processi di modernizzazione e globalizzazione cui la
società mondiale è stata sottoposta nel XX secolo, riuscendo a mantenere una propria
vitale identità. Le varie fasi della diffusione del pentecostalismo ha portato questo
fenomeno religioso ad assumere una varietà di forme che ne rendono effettivamente
difficoltosa una esauriente definizione. In pratica in concomitanza con ogni periodo di
“risveglio” e con le aree in cui questo “risveglio” ha avuto luogo, gli elementi del culto
pentecostale sono stati sottoposti a diverse interpretazioni ed entrando in contatto con
tradizioni diverse, hanno finito con lo sviluppare proprie particolarità. Per evitare di
incorrere in troppo facili e sbrigative generalizzazioni sarebbe quindi opportuno far
seguire il termine “pentecostalismo” da un aggettivo che ne specifichi l’originalità
storica o quantomeno geografica.
È
tuttavia
possibile
riconoscere
alcuni
elementi
comuni
che
contemporaneamente ci permettono di determinare il pentecostalismo come fenomeno
specifico.
Una prima caratteristica, quella che peculiarmente definisce il movimento,
consiste nella particolare attenzione che i pentecostali riservano alla sfera emozionale,
soprannaturale, a-razionale dell’esperienza umana. La costruzione della comunità
pentecostale ha infatti come caratteristica imprescindibile un’esperienza del “sacro”
specifica: l’esperienza dello Spirito Santo, del pneuma cristianamente inteso, che si
manifesta attraverso dei “doni” particolari, i carismi, come quello di operare guarigioni
ed esorcismi, del parlare in lingue, di profetare, così some sono descritti nel libro degli
Atti degli Apostoli.
Nonostante il “battesimo nello Spirito” sia il minimo comun denominatore
dell’esperienza pentecostale, esso ha mantenuto una elasticità interpretativa che ha dato
luogo a differenze rilevanti sia sul piano dottrinale, sia sul piano associativo. Per i
carismatici cattolici – la “versione” cattolica del pentecostalismo protestante –
inizialmente indipendenti e successivamente integrati dalla Chiesa nell’istituzione
ecclesiastica, l’esperienza del “battesimo nello Spirito” sottostà ai dettami della dottrina:
esso può rafforzare ulteriormente lo Spirito già ricevuto dal fedele nei sacramenti del
battesimo e della confermazione, in nessun caso ne sostituisce la validità; l’identità
carismatica è dunque sottomessa a quella tradizionalmente cattolica.
82
Per quanto riguarda i pentecostali protestanti il “battesimo nello Spirito” assume
invece una valenza assolutamente fondante di una vita nuova, rinnovata, che non ha
legami con il passato. Anche all’interno del mondo pentecostale protestante si possono
riscontrare delle divergenze, soprattutto ai tempi della sua prima diffusione.
Differenti interpretazioni del “battesimo nello Spirito” danno luogo all’interno
della prima ondata pentecostale a tre famiglie distinte. La prima è definita
pentecostalismo “wesleyano”, con chiaro riferimento alla figura di John Wesley,
iniziatore del metodismo. Molti dei leader provengono infatti da ambienti metodisti e di
essi mantengono l’idea della santificazione come esperienza distinta dalla
giustificazione per fede. Divenuti pentecostali, interpretano il “battesimo nello Spirito”
come un’ulteriore esperienza di vita cristiana la cui prova è costituita dalla presenza dei
“doni dello Spirito”. È all’interno di questa corrente, soprattutto nelle denominazioni
afro-americane formatesi in zone rurali poverissime, che si sviluppano frange estreme
che, interpretando alla lettera certi passi dei Vangeli, invitano i fedeli a dimostrare di
essere ripieni di Spirito Santo tenendo tra le mani serpenti velenosi o mettendo le mani
nel fuoco o bevendo veleni.
Una seconda famiglia è detta pentecostalismo “battista”, impropriamente perché
essi distinguono solamente due e non tre esperienze cruciali nella vita cristiana: la
conversione – l’opera di Cristo è perfetta e completa e assicura la possibilità della
conversione senza bisogno della seconda tappa della santificazione – e il “battesimo
nello Spirito” di cui la glossolalia è la prova. Da una rottura all’interno di questa
corrente nasceranno le Assemblies of God, che avranno un ruolo fondamentale nello
sviluppo del pentecostalismo in Italia.
La terza famiglia è quella del pentecostalismo oneness (dell’unità) costituito dai
seguaci delle dottrine del predicatore canadese Robert Edward McAlister, che arriva a
negare la nozione di Trinità. Egli afferma infatti che le Scritture insegnano a battezzare
solo “nel nome di Gesù Cristo” che è esso stesso Dio Padre e creatore, mentre lo Spirito
Santo è Cristo considerato nel suo potere consolatore e santificatore. La dottrina di
McAlister mira dunque a negare la Trinità per esaltare ulteriormente la divinità di Cristo
e perciò la corrente è detta anche “modalista”, in riferimento alla corrente che nel II e III
secolo sosteneva tre diverse manifestazioni o “modalità” di Dio: come Padre nella
creazione e nella legislazione, come Figlio nella redenzione, come Spirito Santo nella
santificazione.
83
Strettamente collegata all’esperienza dei “doni” dello Spirito che viene
solitamente chiamata “battesimo nello Spirito”, c’è un’altra esperienza fondamentale
che è quella della conversione. Per molti pentecostali la conversione è un episodio
personale molto forte e decisivo, spesso definito come il più importante della vita, un
vero e proprio punto di svolta che muta radicalmente l’orizzonte di valori del credente
tanto che si è soliti distinguere una vita pre- da una post-conversione. La chiesa diventa
così un punto di riferimento sociale e culturale alternativo che spesso richiede una
profonda revisione dei legami con i non-convertiti e il rifiuto di quegli aspetti della
società percepiti come peccaminosi e demoniaci; in contesti in cui l’identità etnica è
ancora forte i membri della chiesa possono dare forma ad una nuova aggregazione
tribale. In generale il mondo culturale di provenienza del convertito non viene
completamente abolito ma il modo di percepirlo subisce profondi mutamenti: l’adesione
al pentecostalismo significa entrare a far parte di una nuova comunità che a livello
sociale assume una posizione trasversale, capace cioè di rimanere estranea a una
determinazione di classe o politica – anche se in questo senso delle eccezioni sono
possibili.
La costruzione di questa nuova identità comunitaria si basa su una terza
caratteristica comune ai pentecostali e che consiste nella visione duale del mondo che
essi adottano. Come su di un piano individuale si opera una distinzione tra una vita
precedente e una successiva alla conversione, così su quello sociale il mondo è diviso in
due: da una parte Dio e i suoi servitori, dall’altra i seguaci di Satana. La conversione
opera la “salvezza” in quanto porta il convertito dalla parte “giusta” e di conseguenza
dischiude la necessità di impegnarsi nella lotta per la vittoria finale di Dio sul Maligno,
e di operare attivamente alla diffusione del messaggio pentecostale con ogni mezzo. In
vista di questa missione le varie chiese pentecostali hanno sviluppato nel tempo una
fiorente attività editoriale con la pubblicazione e la diffusione di numerosi libri e riviste
periodiche, opuscoli, volantini, ma anche cd e videocassette. Inoltre con lo sviluppo di
radio e televisione dagli anni Cinquanta, e di internet nell’ultimo decennio, i
pentecostali hanno avuto modo di aumentare notevolmente il proprio raggio d’azione,
dando luogo in certi casi a vere e proprie comunità virtuali.
In linea di massima sono riconoscibili tre diverse linee di sviluppo del fenomeno
pentecostale che ci permetteranno di evidenziare come il culto dello Spirito Santo possa
assumere significati profondamente diversi in relazione al contesto storico, sociale e
culturale in cui è venuto sviluppandosi.
84
Innanzitutto un pentecostalismo protestante, sviluppatosi agli inizi del
Novecento negli Stati Uniti e che nel corso di varie “ondate” ha dato luogo alla nascita
di una grande varietà di chiese e movimenti più o meno strutturati; un pentecostalismo
cattolico, sviluppatosi indipendentemente verso la fine degli anni Sessanta grazie ad
influenze protestanti,
e che è
stato
successivamente riassorbito
all’interno
dell’istituzione-Chiesa assumendo caratteristiche sue proprie, e che per questo
identificheremo con il termine “carismatismo”; un pentecostalismo “indigeno”,
sviluppatosi in seguito all’azione di missionari cristiani tra le popolazioni soggette al
dominio coloniale occidentale, e che a sua volta, entrando in contatto con i complessi
culturali tradizionali indigeni, ha acquisito proprie caratteristiche indipendenti che lo
distinguono dagli altri due.
Accanto a questa distinzione occorre specificarne un’altra che caratterizza
essenzialmente il pentecostalismo protestante e, di riflesso, quello “indigeno”, mentre il
carismatismo ne rimane sostanzialmente immune; essa coincide con la ripartizione del
processo di diffusione del pentecostalismo in tre diverse “ondate”: una prima ondata dai
primi anni del Novecento al secondo dopoguerra (pentecostalismo “classico”), una
seconda ondata dal secondo dopoguerra agli anni Ottanta (neo-pentecostalismo), una
terza ondata dagli anni Ottanta ai giorni nostri (Third Wave).
Ogni ondata nasce come reazione alla progressiva istituzionalizzazione delle
comunità pentecostali che, con il tempo, tendono inevitabilmente a dare vita a delle
denominazioni specifiche. A questa “routinizzazione del carisma” si risponde
enfatizzando variamente di volta in volta gli aspetti più spettacolari del culto
pentecostale. In linea generale possiamo dire che più indietro nel tempo si situa la
fondazione di una comunità pentecostale, meno rilevante è l’attenzione che oggi i suoi
membri riservano alle pratiche entusiastiche, preferendo magari indirizzarsi verso
attività nell’ambito del sociale - è il caso delle Assemblee di Dio, denominazione del
pentecostalismo “classico” tra le più diffuse e meglio organizzate a livello mondiale: per
i suoi membri, ad esempio, l’unico vero “segno” del “tocco” dello Spirito è la
glossolalia, mentre gli altri carismi vengono posti in secondo piano. Viceversa, le
denominazioni che si ricollegano ideologicamente alla Third Wave rappresentano a
tutt’oggi l’ultima frontiera dell’esasperazione entusiastica con i loro continui riferimenti
alla demonologia e alla sfera del soprannaturale, alla battaglia spirituale tra bene e male,
alla ricerca di un propagandismo sensazionale.
85
Il pentecostalismo protestante
Nella storiografia recente si è soliti distinguere il protestantesimo in tre correnti:
un “primo protestantesimo”, detto anche “protestantesimo storico” è costituito dalle
comunità sviluppatesi direttamente dalla Riforma. Nel “secondo protestantesimo” si
collocano invece i movimenti cosiddetti “di risveglio” sorti tra il XVII e il XVIII secolo
come protesta contro le commistioni tra il primo protestantesimo e gli Stati europei e
contro la inevitabile istituzionalizzazione delle prime comunità che porta ad un
raffreddamento del fervore missionario. Tra questa seconda generazione protestante
sono particolarmente i metodisti e i battisti che insistono sull’idea di un incontro con
Cristo come esperienza personale che spinge appunto all’attività missionaria. Un “terzo
protestantesimo”, infine, raggruppa quei movimenti che ritengono che i movimenti “di
risveglio” siano divenuti a loro volta troppo istituzionalizzati e “freddi”. Tra questa
terza ondata sono compresi i movimenti detti “di santità” (holiness), le correnti
“perfezioniste” e “fondamentaliste” e, appunto, il pentecostalismo.
Storicamente dunque, il pentecostalismo si propone come una variante
nell’ambito del cristianesimo della Riforma avviata da Martin Lutero che ha come base
la libera interpretazione delle scritture e, di conseguenza, la legittimità di fondazione di
nuove chiese. In particolare i pentecostali partono da premesse presenti nei gruppi
riformati metodisti, facenti capo al predicatore John Wesley e originari dell’Inghilterra
del XVIII secolo. Alla dottrina metodista della santificazione si può far risalire la
nozione di “battesimo nello Spirito”, fondamentale nell’ “esperienza” pentecostale in
quanto sta a indicare l’avvenuta discesa dello Spirito sul fedele e la conseguente
acquisizione dei carismi, che diventano così “visibili” e “spendibili” all’interno della
comunità. Proprio in ambiente metodista l’espressione si afferma per indicare un
incontro particolare con il potere dello Spirito Santo in seguito alla conversione –
santificazione – e alla giustificazione per fede. Successivamente l’idea di un “battesimo
nello Spirito Santo” si diffonde negli Stati Uniti in particolare negli anni successivi la
guerra di Secessione, durante i quali molti americani aspirano alla riconciliazione e
all’inizio di una nuova vita. Risulta che negli ultimi trent’anni dell’Ottocento siano
presenti in Nord America diversi predicatori e gruppi che parlano del “battesimo nello
Spirito”, sebbene non tutti lo intendano allo stesso modo83.
83
In Introvigne 2004: 22-24 l’autore distingue quattro diverse interpretazioni del “battesimo nello
Spirito” preesistenti allo sviluppo della corrente pentecostale.
86
Dal mondo metodista viene anche mutuato l’interesse per le guarigioni e per altri
“segni” della presenza dello Spirito come profezie, estasi, fino all’esperienza dell’essere
“gettati a terra dallo Spirito”. In particolare il revival metodista fornisce le basi
teologiche per la pratica della guarigione divina che, fra il Settecento e l’Ottocento,
all’epoca del secondo protestantesimo, diventa oggetto di rinnovato interesse all’interno
dei grandi movimenti di risveglio come i Quaccheri, la Society of Friends, i Mormoni,
gli Avventisti. Con la progressiva istituzionalizzazione, l’interesse per la sfera del
“miracoloso” viene meno; tuttavia le tematiche legate alle guarigioni e ai fenomeni
estatici sono mantenute vive fino all’alba del Novecento dall’operato di diversi
predicatori indipendenti, alcuni dei quali arriveranno a fondare delle vere e proprie città
incentrate su una spiritualità basata sulla pratica della guarigione, che fungeranno da
punto di riferimento per diversi leaders pentecostali.
Un ruolo decisivo ebbero anche le posizioni dei Fratelli Moravi, espressione
dell’ala più moderata dell’eresia tardo medievale boema di Jan Hus, con cui Wesley
ebbe contatti sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. I Fratelli Moravi (o Unitas Fratrum)
sono considerati la prima chiesa protestante internazionale; a causa delle persecuzioni di
cui furono oggetto in Boemia prima e successivamente in tutta Europa, essi divennero la
prima e più attiva chiesa protestante nel campo della evangelizzazione missionaria,
tanto che suoi membri furono tra i primi padri pellegrini a sbarcare sulle coste
nordamericane. Essi si facevano portatori di una dottrina che, sullo sfondo
dell’annuncio della imminente seconda venuta del Regno, sosteneva la completa
depravazione della natura umana, in grado però di riconciliarsi con Dio attraverso
un’unione personale con il Cristo; costituivano perciò delle comunità in cui perseguire
un ideale di vita semplice e il più possibile distaccato dalle occupazioni mondane e che
godevano di un’ampia indipendenza nella propria organizzazione e gestione. Le liturgie
delle comunità morave erano caratterizzate da una forte semplicità che lasciava ampio
spazio a forme di preghiera spontanea.
87
Il pentecostalismo “classico”: Topeka, Azusa street, il revival
gallese
Secondo la leggenda tutto inizia improvvisamente nella notte fra il 31 dicembre
1900 e il 1° gennaio 1901 quando Agnes Ozman, un’allieva della Bethel Bible School,
una scuola biblica di Topeka, nel Kansas, comincia a “parlare in lingue”. Evidente è il
forte valore simbolico che si vuole dare a quella che è considerata la prima espressione
glossolalica moderna; situandola letteralmente all’alba di un nuovo secolo essa assume
un valore fondante, oltre che per una vita nuova, rinnovata, anche per una nuova epoca
storica84.
Fondatore della Bethel Bible School è Charles F. Parham, da alcuni considerato
il padre del pentecostalismo; anche se questa definizione non è accettata volentieri dai
pentecostali contemporanei a causa delle accuse di immoralità e razzismo che lo
colpirono in seguito, egli è sicuramente l’uomo sotto la cui direzione si ebbero le prime
manifestazioni riconducibili alle origini del pentecostalismo. Originario di Muscatine,
nell’Iowa, Parham era stato pastore metodista di Eudora, Kansas, fino al 1895. In
quell’anno si convince della tesi di una parte del movimento holiness secondo cui
occorre lottare contro le denominazioni e costituire comunità cristiane indipendenti,
mantenendo solo tenui legami con altre comunità. Nel 1896 Parham sposa una
quacchera la cui famiglia lo interessa sia al movimento quacchero sia ad alcune dottrine
che vengono dalle frange più radicali del mondo protestante. L’interesse principale di
Parham si focalizza sul tema delle guarigioni miracolose e nel 1900 con un gruppo di
seguaci riuniti in un gruppo chiamato Apostolic Faith apre la scuola biblica di Topeka,
con alcune caratteristiche mutuate dall’esperienza di Frank Sandford, pastore battista
che a Shiloh, Maine, aveva fondato cinque anni prima una comunità in cui i fenomeni
estatici giocavano un ruolo centrale; lo stesso Parham aveva visitato la comunità e ne
era rimasto fortemente impressionato. Nel solco della tradizione metodista, Parham
insegna il battesimo nello Spirito Santo come terza esperienza dopo la giustificazione e
la santificazione. Secondo lui è necessario che i suoi studenti si preparino nella
meditazione e nella preghiera, chiedendo incessantemente il battesimo dello Spirito
Santo che si mostrerà con segni inequivocabili. Parham scambia il “parlare in lingue” di
Agnes Ozman come autentica xenoglossia e annuncia alla stampa che la sua allieva
84
L’arbitraria attribuzione di un valore fondativo simbolico a questo episodio viene sottolineata da
Introvigne che rileva come, secondo alcuni storici recenti non meglio identificati, l’esperienza di Topeka
vada più realisticamente collocata nella serata del primo o nella mattinata del 2 gennaio 1901 (Introvigne
2004: 34).
88
parla in perfetto cinese. Quando in seguito altri allievi di Parham, che interpretano il
loro “dono delle lingue” come xenoglossia, cercano di svolgere attività missionarie tra
popolazioni asiatiche ed europee, l’equivoco è chiarito e nella sua grande maggioranza
la corrente pentecostale riconosce le proprie esperienze come glossolalia e non come
xenoglossia.
Come per la maggior parte delle organizzazioni pentecostali “classiche”, la
storia della Bethel Bible School dopo l’evento del 1901 rimane comunque modesta.
L’eco è ristretta alla stampa locale e l’interpretazione dei fatti è controversa all’interno
stesso della scuola, tanto che le polemiche ne favoriscono addirittura la chiusura e il
gruppo di Parham diventa una piccola “banda” itinerante come molte altre all’interno
del movimento holiness. I fenomeni di glossolalia si ripetono ma sono confinati ad
alcune comunità rurali dell’Oklahoma, del Missouri e del Kansas, dove a Keelville, nel
1904, viene costruita la prima cappella pentecostale. Nel 1905 Parham decide di
estendere le sue attività al Texas e nel 1906, benché utilizzi spesso toni apertamente
razzisti nei confronti della popolazione di colore, permette ad alcuni afro-americani di
assistere alle sue lezioni a Houston. È una decisione che si rivelerà cruciale per il futuro
del pentecostalismo.
Uno di questi afro-americani, il battista William J. Seymour, di cui si narra che
assistesse alle lezioni di Parham nascosto dietro una tenda per non turbare le
convenzioni sulla segregazione razziale, viene invitato a predicare a Los Angeles.
Benché non abbia ancora ricevuto il “battesimo nello Spirito”, Seymour accetta,
nonostante il parere contrario di Parham, e questa disobbedienza creerà una frattura
insanabile tra maestro e discepolo. A Los Angeles Seymour cerca senza successo di
farsi accogliere come predicatore in varie cappelle del movimento holiness ma incontra
una forte opposizione, in quanto all’interno del movimento non veniva riconosciuta la
glossolalia come prova iniziale e infallibile della presenza dello Spirito Santo.
Finalmente, dopo aver radunato i suoi sostenitori in una casa privata di Bonnie Brae
Street, Seymour rimette in ordine una chiesa abbandonata di Azusa Street, al numero
312, e questo edificio è da molti considerato la “chiesa madre” del pentecostalismo.
Seymour e alcuni suoi seguaci avevano sperimentato la glossolalia già prima di
trasferirsi ad Azusa Street; questi fenomeni non passarono inosservati e le reazioni sulla
stampa locale tendevano a mettere in ridicolo la glossolalia. Il Los Angeles Times in un
articolo del 18 aprile 1906 parla di “una nuova setta di fanatici” e di una “selvaggia
89
Babele di lingue”85. Parham, venuto ad ispezionare Azusa Street di persona, definisce i
fenomeni non glossolalia autentica, ma “rumori inarticolati tipici dei negri del sud”. Ad
Azusa Street infatti, la glossolalia come prova iniziale del “battesimo nello Spirito” si
fonde con l’oralità tipica della cultura afro-americana. La predicazione insiste sui temi
del premillenarismo e il terremoto che colpisce San Francisco nello stesso anno venne
visto da molti come l’inizio dei tempi apocalittici.
Tra il 1906 e il 1907 Azusa Street è frequentata da quasi tutti i leader delle
denominazioni holiness e da molti predicatori indipendenti. Tra gli europei che visitano
la cappella di Seymour un norvegese di origine inglese, Thomas Ball Barratt, svolgerà
un ruolo decisivo per la diffusione del pentecostalismo in Europa. Man mano che il
fenomeno pentecostale cresce e si diffonde a macchia d’olio, scema la capacità di
Seymour di gestirne l’organizzazione e la sua leadership declina inesorabilmente fino a
rimanere confinata a una piccola comunità afro-americana. Negli anni Dieci del
Novecento sono presenti tra gli Stati Uniti e il Canada diverse decine di migliaia di
pentecostali che non riconoscono né Parham né Seymour come leader. In realtà nella
grande maggioranza chi vede nella glossolalia la prova inconfutabile del “battesimo
nello Spirito” non intende riconoscere alcun leader né alcuna organizzazione, insistendo
invece nella critica contro qualunque forma di denominazionalismo. Il pentecostalismo
che viene a formarsi nei primi anni del Novecento non è quindi un insieme di
denominazioni, ma piuttosto una rete di relazioni tra diversi gruppi e comunità. Gli
aderenti a questa prima forma di pentecostalismo sono accomunati dalla glossolalia e da
un premillenarismo che attende l’imminente fine del mondo, ma divergono su molti altri
punti, avendo ogni gruppo locale sviluppato una propria dottrina distintiva.
Il terzo fenomeno che ha contribuito in maniera decisiva alla diffusione del
pentecostalismo è da ricondurre agli avvenimenti che si verificarono in Galles a partire
dal 1904. Il cosiddetto “revival gallese” ha in comune con il pentecostalismo americano
il carattere non organizzato e non denominazionale, anche se si può riconoscere in Evan
John Roberts, un minatore che aveva compiuto studi da pastore metodista e in seguito
trasformatosi in predicatore itinerante, una figura in grado di garantire al movimento
una certa unità. Migliaia di persone appartenenti a diverse denominazioni protestanti
sono coinvolte in lunghe riunioni che secondo alcuni osservatori sono caratterizzate da
“evidente spontaneità e disordine”. Non è chiaro se in queste riunioni la glossolalia
abbia un ruolo centrale: diversi studiosi sostengono la tesi che si tratti di una riscoperta
85
Riportato da Introvigne 2004: 38
90
della lingua gallese classica e letteraria da parte di persone di umili condizioni che
parlano normalmente il gallese moderno. Il fenomeno è variamente classificato come
xenoglossia miracolosa o come riemergere, sotto una grossa spinta emotiva, del ricordo
di una lingua appresa nell’infanzia ma poi abbandonata. Appare tuttavia evidente come
il fenomeno possa essere considerato una rivendicazione di un’identità culturale
autonoma, operata da una minoranza che non ha mai ben gradito fino in fondo la
presenza dell’autorità inglese sul proprio territorio.
Nel frattempo si intensificano gli scambi con gli Stati Uniti. Esponenti del
revival gallese visitano Azusa Street e le prime comunità nate da quell’esperienza,
prendendo così coscienza del pentecostalismo americano, mentre contemporaneamente
pentecostali americani visitano il Galles. Tuttavia la corrente gallese, pur assorbendo
alcuni temi caratteristici del pentecostalismo americano, manterrà sempre un’identità
distinta da esso, che si concretizza in particolare nella costituzione di una gerarchia ben
precisa, di un “governo spirituale” di apostoli, profeti e pastori. Dal Galles il revival si
estende all’Inghilterra e nel 1908 viene fondata una Apostolic Faith Church86, ma la
convivenza tra inglesi e gallesi si rivela complicata e nel 1916 uno scisma dà luogo alla
formazione, in Galles, della Apostolic Church, da cui avrà origine in seguito la Chiesa
evangelica apostolica. A causa di numerose scissioni che inevitabilmente sorsero nel
corso degli anni, oggi le Chiese apostoliche comprendono più di cinquanta
denominazioni presenti in trentacinque paesi e comprendenti più di un milione di
membri. Essi insistono particolarmente sul fatto che la loro origine deriva da un
movimento originale dello Spirito Santo tipicamente europeo, e non da scismi o
variazioni rispetto alle organizzazioni nate negli Stati Uniti. Di fatto, pur essendo
inequivocabili le relazioni tra pentecostalismo nordamericano e gallese, essi presentano
numerose differenze che sono da ricercare nelle rispettive origini storiche. Ne è prova il
fatto che negli stessi Stati Uniti il pastore Joseph Smale, tra i primi visitatori di Azusa
Street e contemporaneamente interessato al risveglio gallese, dopo aver lasciato la
chiesa battista di cui faceva parte, creò una autonoma New Testament Church per
promuovere da un lato le idee apprese in Galles, e dall’altro screditare l’operato di
Seymour.
86
Il risveglio gallese viene definito “apostolico” in quanto veniva sottolineata con fermezza l’equazione
Bibbia-Parola di Dio, ponendo così l’attenzione sull’importanza dell’azione degli apostoli e dei profeti,
visti come ministeri portanti della struttura ecclesiastica. All’interno dei gruppi poi, era prevista la nomina
di alcuni “apostoli” che si assumevano la responsabilità della regolamentazione della vita comunitaria.
Tuttavia oltre alle Chiese derivate dal revival gallese, sono definite “apostoliche” molte Chiese modaliste
e anche alcune Chiese carismatiche e neo-pentecostali, che differiscono le une dalle altre sia per genesi
storica sia per la dottrina che professano. ( Introvigne 2004: 45 e Bouchard 2003: 103-104 )
91
Il neo-pentecostalismo
Abbiamo visto come le varie chiese appartenenti alla prima ondata pentecostale
manifestassero la volontà di costituirsi come una rete di relazioni tra gruppi che
protestano contro le denominazioni, sostenendo energicamente di non voler creare
strutture organizzate, ponendosi così in un atteggiamento di rottura nei confronti di
qualsiasi istituzionalizzazione del potere. La straordinaria diffusione del movimento
pentecostale rende tuttavia inevitabile la formazione di denominazioni che nel corso
degli anni perdono le caratteristiche dei movimenti di protesta, riavvicinandosi al
mondo protestante “classico”. La progressiva istituzionalizzazione dei gruppi della
prima ondata provoca la nascita di una seconda ondata pentecostale che rivendica
nuovamente la propria autonomia da ogni forma di potere costituito. I fenomeni di
Topeka e Azusa Street costituiscono la base per la prima ondata del pentecostalismo
definito “storico” o “classico” che rimane delimitato all’interno del mondo protestante.
Con la seconda ondata invece, i temi tipici dell’esperienza pentecostale – la glossolalia,
la guarigione e altri “segni dello Spirito”, accompagnati da una lettura teologica del
“battesimo nello Spirito” – cominciano a circolare tra i fedeli di chiese e comunità
cristiane estranei alle denominazioni pentecostali, dando vita al fenomeno che va sotto il
nome di neo-pentecostalismo. Come il pentecostalismo “classico”, il neopentecostalismo nasce come momento di rottura nei confronti di una gerarchia che viene
percepita come eccessivamente “fredda” e quindi non adatta ad esprimere il “calore”
della fede.
Nelle denominazioni pentecostali si assiste infatti ad una sistematizzazione della
vita cultuale in cui l’originale spontaneità viene abbandonata per una liturgia legata
sempre più alla figura del pastore, che diventa ministro a tempo pieno assumendosi
compiti ben precisi e ricoprendo un ruolo sempre più autoritario. Contemporaneamente
si ravvisano flessioni nel rigore etico che aveva caratterizzato il pentecostalismo degli
inizi, e che consistono in una certa apertura nei confronti dei modelli dominanti della
società capitalistica – le donne possono portare i capelli corti e seguire le mode nel
vestire, accettazione del cinema e della televisione ecc. -. Queste aperture al “mondo”
vengono percepite come pericolose in quanto mettono in crisi l’identità pentecostale
privilegiata ed eletta dal “battesimo nello Spirito”; il neo-pentecostalismo nasce dunque
92
come movimento di riaffermazione radicale dei valori pentecostali che rischiano di
essere corrotti87.
Abbiamo visto come il pentecostalismo si sia sviluppato all’interno delle fasce
più emarginate della società americana, in particolar modo tra gli afro-americani e gli
immigrati italiani che in seguito, al loro ritorno in patria, hanno contribuito a far
conoscere e diffondere il movimento tramite un proselitismo spontaneo ed
inorganizzato. Uno dei tratti fondamentali del pentecostalismo era inoltre il rifiuto di
qualsiasi forma di intellettualismo, portando l’attenzione su una fede miracolistica che
aveva come base un’esperienza emotiva particolarmente coinvolgente88. Diversamente,
il neo-pentecostalismo nasce tra teologi e studenti delle università americane, ed è
supportato da organizzazioni forti che ne favoriscono la diffusione nei maggiori centri
urbani. I pentecostali inoltre, rifiutano la chiesa originaria mentre il neo-pentecostalismo
si diffonde all’interno delle maggiori denominazioni protestanti – episcopaliani,
presbiteriani e luterani, ma anche metodisti, mennoniti e battisti – avendo tra le proprie
caratteristiche fondamentali una forte attività evangelizzatrice. Altra caratteristica che
viene riconosciuta al movimento neo-pentecostale è un accentuato “spiritualismo” che
dà luogo a rituali basati su una marcata teatralità, su una regia sapientemente coordinata
dai leaders, sulla spettacolarità dei canti e delle preghiere, in contrasto con i riti
pentecostali improntati ad una semplicità addirittura austera89.
La causa prima della larga diffusione del neo-pentecostalismo e del suo carattere
inter-denominazionale è l’attività di alcuni predicatori itineranti che nei loro sermoni
focalizzano l’attenzione particolarmente sulla tematica della guarigione. Predicatori
itineranti sono all’origine di diverse denominazioni della prima ondata pentecostale, ma
è dopo la Seconda guerra mondiale che il numero di essi aumenta esponenzialmente in
87
Catucci 1978: 301-302: “Un carattere essenziale del rito neo-pentecostale è poi la lettura
“fondamentalistica” dei testi sacri. Contro ogni interpretazione storica della parola di Cristo, il male viene
scaricato esclusivamente sulle spalle degli uomini, i quali hanno il compito di formare un esercito al
servizio di Dio. La gerarchia deve essere rispettata; i figli devono cieca ubbidienza ai genitori, soprattutto
al padre; la moglie deve essere soggetta al marito e il pastore della chiesa è l’unica guida indiscutibile.
Autoritarismo e magia sono gli elementi peculiari di questo movimento religioso, insieme con la
predicazione dell’assoluto abbandono nelle mani di Dio e con la richiesta di salvezza: poiché soltanto chi
la chiede sarà salvato. Si predica anche un accentuato proselitismo e si offre agli aderenti un manuale nel
quale sono scritte le cose che il neo-pentecostale deve fare se vuole ricevere i doni: ad esempio, chiedere
al Signore il dono delle lingue, anche se non comprende a che cosa servirà; pregare ogni settimana con il
gruppo; dedicare ogni giorno almeno quindici minuti alla meditazione dei test sacri; comunicare ai fratelli
le proprie difficoltà e la propria crescita nella preghiera”.
88
A questo proposito è interessante una rivelazione ricevuta da Luigi Francescon, tra i fondatori della
prima chiesa pentecostale italiana, e riportata dal pastore valdese Eugenio Stretti: “Sono stato dieci giorni
sotto la croce, ed ho veduto il Signore e mi disse: non farti dottrine, brucia tutti i libri, tieni solo la Bibbia
e il Dizionario biblico”. (Stretti 1998: 21)
89
Catucci 1978: 301 e Castiglione 1974: 6-9
93
tutti gli Stati Uniti. Alcuni di questi predicatori non aderiscono al pentecostalismo,
mentre altri lo criticano profondamente, in comune hanno però il carattere nondenominazionale delle loro “crociate” di predicazione, e terminano i loro discorsi non
chiedendo di aderire alle denominazioni di cui essi fanno parte, ma invitando i cristiani
ad essere più partecipi all’interno delle proprie comunità di appartenenza, e i non
cristiani a convertirsi. Negli anni Cinquanta i guaritori indipendenti sono contati in
alcune migliaia, alcuni con un notevole numero di seguaci regolari. Due dei più attivi
predicatori sono William Marrion Branham, proveniente dal pentecostalismo oneness e
sostenuto anche da influenti pastori delle Assemblee di Dio, e Oral Roberts, ministro
della
Pentecostal
Holiness
Church
della
corrente
“wesleyana”
del
primo
pentecostalismo. Entrambi cercano di presentare un messaggio pentecostale spogliato il
più possibile da caratteristiche denominazionali o teologiche specifiche in modo da
raggiungere il più ampio numero possibile di uditori. A loro si può affiancare la figura
di Gordon J. Lindsey. Nato a Zion City, dove i genitori fanno parte della comunità
formata dal predicatore John A. Dowie, convertito alla glossolalia direttamente da
Parham e successivamente pastore di diverse denominazioni tra cui le Assemblee di Dio,
Lindsey è un “compendio vivente della storia del pentecostalismo”. Dal 1948 inizia a
pubblicare The Voice of Healing, mensile che dà voce e sostiene un gran numero di
guaritori itineranti di area pentecostale90. L’opera di predicazione di migliaia di
predicatori che percorrevano gli Stati Uniti in lungo e in largo, dai grandi centri urbani
alla provincia più profonda, e il successivo impiego massiccio di mezzi di
comunicazione di massa come riviste, emittenti radiofoniche e televisive, unito al loro
dichiararsi estranei a qualsiasi tipo di denominazione91, hanno creato i presupposti
necessari alla larga diffusione delle tematiche pentecostali, che cominciano così a
circolare all’interno delle maggiori denominazioni “storiche” protestanti.
L’incontro tra il protestantesimo “classico” e le predicazioni dei guaritori
itineranti crea però inevitabilmente nuovi scismi e frammentazioni che portano alla
nascita di chiese, comunità o gruppi neo-pentecostali, i quali avranno un ruolo
90
Introvigne 2004: 113-117
In realtà in seguito si è assistito a differenti evoluzioni in questo senso. A partire dal 1960 Branham si
isola dal mondo pentecostale proponendo dottrine considerate da molti eterodosse: da un rinnovato rifiuto
della Trinità all’annuncio di una fine del mondo imminente in cui chi avesse fatto parte delle
denominazioni sarebbe stato considerato segnato dal “marchio della Bestia”. Al contrario, Oral Roberts
ha istituzionalizzato sempre di più il proprio movimento, fondando nel 1967 la Oral Roberts University;
ha attenuato negli anni i temi caratteristici del pentecostalismo, collaborando molto con predicatori non
pentecostali, fino ad aderire ad una denominazione metodista nel 1968. Lindsey ha invece convertito
l’organizzazione che presiedeva – nata come struttura di servizio o “parachiesa” – in una vera e propria
nuova denominazione pentecostale. (Introvigne 2004: 117-118)
91
94
fondamentale nella penetrazione della tematica pentecostale all’interno dell’universo
cattolico a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta.
Dalla predicazione itinerante dei guaritori indipendenti nasce e si diffonde a
partire dal Canada un movimento che prende il nome da un passo del libro di Gioele
(2,23) in cui si legge:
“E voi, figli di Sion, esultate, rallegratevi nel Signore Dio vostro, perché egli vi dona la
pioggia d’autunno in giusta misura, vi fa scendere in abbondanza la pioggia d’autunno e
quella di primavera, come per l’innanzi”.
Molti pentecostali interpretano come di consueto arbitrariamente il passo in modo
simbolico, riferendo la prima pioggia “d’autunno” alla prima Pentecoste sperimentata
dagli apostoli nel cenacolo, mentre la seconda pioggia “di primavera” sarebbe la
seconda Pentecoste costituita dalla corrente pentecostale nel suo insieme. Secondo altri
la seconda pioggia avrebbe dovuto precedere gli avvenimenti apocalittici degli ultimi
tempi e si sarebbe diffusa tramite l’imposizione delle mani, che sarebbe stata
determinante affinché i fedeli ricevessero i “doni” dello Spirito Santo e a cui la
progressiva istituzionalizzazione della prima ondata pentecostale aveva tolto sempre più
importanza. Il Latter Rain Movement (Movimento della seconda pioggia) nasce dunque
come movimento di protesta e di ritorno alle origini del pentecostalismo. Esso ha
origine all’interno di una congregazione della Chiesa Internazionale del Vangelo
Quadrangolare – denominazione del primo pentecostalismo detto “battista” – e
successivamente si diffonde tra le Assemblee di Dio e tra altre denominazioni della
prima ondata. Rispettando quindi i criteri di inter-denominazionalità e di interpretazione
letterale delle Scritture ponendo l’accento sul recupero degli aspetti più miracolistici
legati alla figura dello Spirito Santo, si colloca pienamente all’interno della corrente
neo-pentecostale. I leaders del Latter Rain Movement cominciano a ritenersi partecipi di
una terza fase della cristianità, dopo il cristianesimo tradizionale e il pentecostalismo,
mentre le manifestazioni carismatiche giungono a estremi tali che dal 1950 le chiese
pentecostali cominciano ad espellere i pastori e i fedeli coinvolti nel movimento.
Denominazioni più piccole ne accolgono invece il messaggio e danno vita a una
corrente più complessa denominata Full Gospel (Pieno Vangelo)92.
È importante citare il Latter Rain Movement perché al suo interno si è formato e
ha agito il pastore americano John McTernan, il principale fautore della diffusione del
neo-pentecostalismo in Italia.
92
Introvigne 2004: 123-124
95
Il neo-pentecostalismo in Italia: la Chiesa Evangelica Internazionale
e gli “uomini d’affari”
McTernan è di fatto il fondatore della Chiesa Evangelica Internazionale,
costituitasi a Roma nel 1959. Dopo gli inizi modesti, nel corso degli anni Sessanta si
consolida man mano come organizzazione che funge da ombrello giuridico per le chiese
pentecostali che non si riconoscono nelle Assemblee di Dio (ADI)93. Nel gennaio 1966 a
Roma si svolge il primo convegno nazionale della Chiesa Evangelica Internazionale,
con una cinquantina di partecipanti, comprendenti per un terzo pastori stranieri; nel
frattempo la chiesa, assumendo sempre più il carattere di denominazione, si radica in
Italia centrale e meridionale e la comunità di Roma si ingrandisce notevolmente. In
quegli anni il locale di culto di questa è un enorme cinema nei pressi di Cinecittà
riadattato alle funzioni di tempio, in cui i fedeli si riuniscono il sabato sera e la
domenica mattina. La Chiesa Evangelica Internazionale è fiancheggiata nelle sue
attività dall’Istituto Biblico Sion, creato per formare quanti vogliono entrare nella
chiesa. Insieme essi promuovono numerose iniziative associazionistiche rivolte in
particolar modo ai giovani nonchè la redazione del periodico Dialogo cristiano, mentre
continuano a tenersi convegni nazionali annuali in cui vengono studiate le tecniche per
un’evangelizzazione più efficace. Nei primi anni Settanta si assiste al consolidamento
della chiesa anche a livello locale, con l’organizzazione di convegni regionali e
interregionali e con l’aumento del numero dei battesimi e delle testimonianze di
guarigione. Fondamentale al radicamento del movimento neo-pentecostale nel nostro
paese è l’atteggiamento conciliante della Chiesa Evangelica Internazionale nei
confronti delle autorità costituite, così come i buoni rapporti intrecciati con la gerarchia
cattolica, al punto che nel 1972 viene accettata nel Consiglio Ecumenico. L’apertura nei
confronti della Chiesa cattolica è dovuta in particolar modo alla collaborazione tra
McTernan e David Johannes Du Plessis, pastore pentecostale sudafricano che si è
impegnato nel tessere relazioni tra cattolici e protestanti, vantando amicizie tra le
gerarchie di entrambe le chiese. Altre figure importanti in questo senso sono il più
controverso giornalista olandese Fred Ladenius, che avrà un ruolo importante nella
diffusione del “carismatismo” cattolico in Sud Italia, conosciuto tra l’altro per aver
93
Introvigne 2004: 125
96
ricevuto sia il “battesimo nello Spirito” protestante sia quello cattolico, e il teologo
statunitense Francis Sullivan, docente alla cattolica università Gregoriana di Roma94.
La forte organizzazione della Chiesa Evangelica Internazionale e la sua strenua
campagna evangelizzatrice non avrebbero saputo essere tali e tanto efficaci senza
l’appoggio essenziale della Full Gospel Business Men’s Fellowship International
(Fraternità internazionale degli uomini d’affari del Pieno Vangelo). Si tratta di una
associazione inter-confessionale fondata da Demos Shakarian che ha come obiettivo la
diffusione della credenza nelle guarigioni e nel “battesimo nello Spirito” attraverso una
massiccia opera evangelizzatrice. Shakarian è un ricco industriale di origine armena.
Nato nel 1913 a Los Angeles, in una famiglia interessata alla tematica holiness del
“battesimo nello Spirito Santo”, a tredici anni il giovane Demos sperimenta una
“rivelazione personale del Signore”, che lo invita a non dubitare del suo potere. Già
durante le scuole superiori rivela un talento per gli affari e avvia una piccola impresa
che tuttavia fallisce dopo qualche anno. Lentamente, Demos riprende le attività
affermando di avere imparato dalle prime traversie la lezione secondo cui ogni attività
economica va intrapresa “con Dio” e non a prescindere da lui, mentre in seguito arriverà
a sostenere che le persone più ripiene di Spirito sono quelle che ottengono maggiori
successi negli affari. Dopo la vendita di alcune società Shakarian dispone di maggiori
fondi liquidi per le sue attività missionarie, che si svolgono nell’ambito della corrente
Full Gospel. Nel 1948 diventa direttore finanziario del Full Gospel Youth Rally, che
organizza diverse manifestazioni pubbliche, fra cui una all’Hollywood Bowl cui
partecipano ventiduemila persone. Nell’occasione, Shakarian riunisce cento uomini
d’affari per una cena al parco di divertimenti Knott’s Berry Farm, destinata alla raccolta
di fondi. Il successo di questa e ulteriori simili iniziative porta alla fondazione,
nell’ottobre 1951, presso la Clifton’s Cafeteria di Los Angeles della Full Gospel
Business Men’s Fellowship International (FGBMFI), che si dedica in particolare a
sostenere le campagne del famoso predicatore Oral Roberts. Il 22 novembre 1952 gli
statuti sono sottoscritti nel corso di una cerimonia presso la Clifton’s Cafeteria. Nel
febbraio 1953 è lanciata la rivista Full Gospel Men’s Voice95. Le periodiche riunioni
dell’associazione sono caratterizzate da un culto tipicamente pentecostale, con
preghiere, canti, testimonianze e l’esercizio dei “doni”. Dopo la riunione chi desidera
94
Catucci 1978: 302-303 e Castiglione 1974: 11-13
Confronta gli articoli di Introvigne raccolti sotto il titolo Le religioni in Italia. Il protestantesimo
pentecostale, pubblicati sul sito web del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni di cui lo stesso
Introvigne è direttore (www.cesnur.org)
95
97
ricevere il “battesimo nello Spirito” viene invitato ad accomodarsi in stanze separate
dove continuare a pregare, mentre gli altri impongono loro le mani96.
Da questi inizi, la storia della FGBMFI si confonde con la storia del movimento
neo-pentecostale di cui l’organizzazione segue tutti i passi e si fa promotrice in
numerosi Paesi, accompagnando in particolare con simpatia la nascita di un
rinnovamento “carismatico” all’interno della Chiesa cattolica e operando in seguito in
favore dell’ecumenismo e per la rimozione di ogni difficoltà di dialogo fra carismatici
cattolici e protestanti. Alla morte di Demos Shakarian, nel 1993, gli succede il figlio
Richard, e la famiglia Shakarian continua a sostenere finanziariamente l’organizzazione,
ormai diffusa con gruppi attivi in oltre 160 Paesi. Dal 1996 esiste un gruppo tutto
italiano della FGBMFI, fondato da Piero Luciano de Pieri, che aveva conosciuto il
movimento in Svizzera. In Italia la FGBMFI è sostenuta in particolare, pur mantenendo
il suo carattere ecumenico e interconfessionale, da una comunità carismatica cattolica
indipendente, la Comunità Vita Nuova, il cui responsabile è tra l’altro lo stesso Piero
Luciano de Pieri, che conta nel nostro paese oltre 250 gruppi e presso la cui casa
editrice, Il Dono, ha sede la FGBMFI - Italia.
È dunque rilevante il contributo dato dagli “uomini d’affari” alla circolazione
delle tematiche neo-pentecostali a livello mondiale, grazie sia alla solida base
economica che potevano offrire, sia alla visibilità acquisita dal coinvolgimento di una
parte della borghesia industriale, che ha permesso di raggiungere canali di divulgazione
di massa che sarebbero stati impensabili se il movimento fosse rimasto confinato, come
il pentecostalismo, alle fasce più emarginate e disagiate della popolazione.
96
Castiglione 1974: 17
98
La Third Wave
In seno all’ambiente protestante si può osservare, dall’inizio degli anni Ottanta,
il progredire di un movimento che ripropone, rielaborandole, le tematiche che hanno
contraddistinto il pentecostalismo fino a quel momento. Gli stessi partecipanti al
movimento si autodefiniscono come appartenenti a una Third Wave – “terza ondata”,
collocandosi così ideologicamente in continuità con il pentecostalismo “classico” e con
il movimento neo-pentecostale – che pone le proprie basi ideologiche sulla teologia
dello spiritual warfare. Le basi di questa teologia vanno ricercate nei corsi tenuti al
Fuller Theological Seminary, un’istituzione accademica evangelica con sede a
Pasadena, presso Los Angeles. Qui, nell’anno accademico 1981-1982, i professori Peter
Wagner e John Wimber tengono un corso durante il quale insegnano il power
evangelism, una strategia missionaria che presenta il messaggio cristiano come efficace
solo in virtù dei “poteri” che si manifestano nei credenti: guarigioni, miracoli, capacità
di cacciare i demoni, considerati i responsabili dei mali del mondo97.
Diversamente dal mondo cattolico, nella tradizione protestante la nozione di
“possessione diabolica” viene rigettata in quanto considerata non biblica; i demoni non
possono “possedere” completamente qualcuno, tuttavia hanno la capacità di
“demonizzarlo”. I “demonizzati”
“Non si comporteranno come gli indemoniati o le vittime della possessione descritte
nella letteratura cattolica, ma saranno di fatto controllati dal Diavolo, che orienterà
sistematicamente le scelte fondamentali della loro vita e ne farà – con diversi gradi di
consapevolezza e di responsabilità personali da parte loro – i suoi agenti nel mondo.”98
La vita spirituale ma non solo, anche la quotidianità e in generale la storia, vengono
concepite come una vera e propria guerra – una spiritual warfare appunto – combattuta
dagli angeli e dai diavoli e allo stesso tempo dai “buoni” e dai “cattivi” sulla Terra. Il
compito dei “buoni” è di assicurare una “copertura di preghiera” alle schiere angeliche e
di liberare quante più persone dall’influsso del maligno, che non si limita ad agire
soltanto sugli esseri umani ma anche su edifici, città, nazioni (demoni “territoriali”), e
che – rielaborando al negativo la dottrina calvinista della predestinazione -
può
addirittura essere trasmesso dai genitori ai figli, di generazione in generazione.
Questa distinzione netta tra “buoni” e “cattivi” - che ci richiama così
apertamente alla mente la contrapposizione tra Paesi del blocco sovietico e filo97
98
Introvigne 2004: 136-137
Introvigne 2004: 137
99
statunitensi che proprio negli anni Ottanta raggiunge il suo apice critico – ha avuto largo
successo in ambienti pentecostali tradizionalmente attenti ai “segni”, ma è stata oggetto
di numerose obiezioni provenienti dallo stesso mondo evangelico che l’aveva generata
proprio a causa dell’eccessiva insistenza sull’universo soprannaturale99.
Anche la Third Wave, come le altre ondate pentecostali, ha portato alla
formazione di nuove denominazioni autonome in cui l’idea della spiritual warfare è
centrale. Una delle più rappresentative è la Vineyard Christian Fellowship il cui leader
era John Wimber. Dalla originaria sede in California, le chiese Vineyard si sono diffuse
a centinaia negli Stati Uniti e nel mondo, contando diverse decine di migliaia di fedeli. I
rappresentanti delle chiese Vineyard esasperano ulteriormente una visione della storia
come assolutamente negativa, in balia degli orrori causati dagli abusi della scienza e
della tecnica100. A questa visione fa da contrappeso la proposta di pratiche rituali
caratterizzata da una forte carica evasionista e miracolistica.
Fin dagli anni Novanta alcune comunità si sono contraddistinte per la presenza
di manifestazioni “carismatiche” identificate come una sorta di “ruggito collettivo”, e
soprattutto la holy laughter (sacra risata), un accesso irrefrenabile di riso accompagnato
talvolta da una caduta all’indietro e una sorta di breve svenimento101.
Queste manifestazioni hanno trovato a partire dal 1993 un loro centro
nell’Airport Vineyard, una congregazione del movimento situata nei pressi
dell’aeroporto di Toronto la quale, in seguito a controversie sull’interpretazione dei
fenomeni, decide di staccarsi dalle chiese Vineyard e di proseguire un’esistenza
indipendente come Toronto Airport Christian Fellowship.
99
In Introvigne 2004 sono riportati alcuni episodi che hanno come protagonista Peter Wagner e che
testimoniano della radicale intolleranza che serpeggia alla base di questa nuova ondata pentecostale. Egli,
basandosi sulla teologia dei demoni “territoriali” e seguendo comunicazioni “profetiche” di suoi
collaboratori, sostiene che le figure della dea greca Diana e della Madonna sarebbero in realtà delle
manifestazioni della “Regina del Cielo”, secondo la tradizione biblica la più diretta collaboratrice di
Satana. Secondo questa visione le adorazioni mariane proprie del cattolicesimo sarebbero dunque delle
adorazioni rivolte a uno dei demoni più tremendi. Sempre secondo Wagner, in un’altra incarnazione la
“Regina del Cielo” sarebbe anche alla base delle radici spirituali dell’Islam.
100
Confronta a questo proposito gli articoli A community of hope in a despairing world e Building a
community of hope, a nome del leader Berten A. Waggoner, datati luglio 2003 e scaricabili dal sito
ufficiale della chiesa.
101
Introvigne 2004: 147
100
Il pentecostalismo nel sud del mondo, un esempio africano: il culto
pentecostale in Ghana
Con lo sviluppo recente della Third Wave si è assistito alla diffusione massiccia
del culto pentecostale in Africa e America Latina. Se questa forma particolare di
cristianesimo era una presenza marginale a metà Novecento, oggi rappresenta più di
cento milioni di fedeli tra i due continenti. La penetrazione del pentecostalismo in questi
Paesi ha reso ulteriormente difficoltoso tracciare un giudizio univoco per questo
fenomeno, testimoniando però dell’estrema plasticità e adattabilità che lo caratterizza.
Il culto dello Spirito ha avuto infatti esiti diversi a seconda del contesto storico e
culturale in cui è venuto a svilupparsi. Un buon esempio in questo senso è la diffusione
del culto pentecostale nell’Africa sub-sahariana. Prenderemo in considerazione
particolare il Ghana, di cui diversi studi ci danno testimonianza delle funzioni
diametralmente opposte che tale culto ha assunto.
Un primo esempio sono le chiese “spirituali” studiate da Lanternari negli anni
Settanta con una approfondita ricerca sul campo102. Con tale termine si definisce una
tipologia di movimenti religiosi sviluppatisi in Ghana – ma non solo, in generale hanno
attecchito in tutti i paesi dell’Africa occidentale – a partire dalla seconda metà del
Novecento, in concomitanza cioè con il crescente processo di modernizzazione che ha
favorito un aumento dei rapporti tra culture native e civiltà europea e la conseguente
disgregazione di sistemi socio-culturali tradizionali. Queste chiese sono profondamente
legate al cristianesimo in quanto hanno ricevuto influenze dirette e indirette in special
modo dal pentecostalismo statunitense, sviluppatosi assieme all’espansionismo
economico, culturale, politico degli Stati Uniti. Tuttavia esse hanno un carattere nativo e
autonomo, e sono sorte indipendentemente dalle chiese missionarie, grazie all’azione di
personalità “profetiche” indigene che, venute a conoscenza della Bibbia, sulla sua
interpretazione e riplasmazione basano il nucleo dottrinale del loro messaggio. Tali
movimenti si pongono dunque, rispetto sia ai sistemi religiosi tradizionali africani, sia
alla religione importata dagli europei, in una posizione particolare che coniuga apertura
ai valori del cristianesimo occidentale e preservazione del patrimonio tradizionale.
Queste chiese vengono dette “spirituali” perché la loro ideologia religiosa ruota
attorno alla nozione di “spirito”, nel cui nome intendono dar vita ad un mondo nuovo
102
Resoconti riguardanti le ricerche sul campo sulle chiese “spirituali” africane sono ampiamente presenti
in Lanternari 1988 e Lanternari 1983
101
dove poter trovare un’identità smarrita e minacciata. A proposito di questa nozione
Lanternari scrive:
“Da un lato essa riprende la nozione-esperienza propria già del sistema di credenze
ancestrali – lo “spirito”, sunsum, che permea di sé il mondo animato, opera attraverso
gli dei, e può entrare nell’uomo per possederlo - ; dall’altro fa sua e riplasma la nozioneesperienza della Pentecoste, come spirito unico e divino. Il sincretismo vuole che
anch’esso sia concepito come capace di “possedere” gli individui, dando effetti psichici
e motorii del tutto analoghi a quelli della “possessione” antica.”103
Il potere guaritore dello “Spirito” trova dunque nel contesto culturale dell’Africa
occidentale, dove sono presenti numerose entità sovrannaturali in grado di “possedere”
gli uomini, un terreno fertile su cui attecchire nelle sue componenti più emozionali ed
entusiastiche. Viene in particolare valorizzata la funzione salvifica del cristianesimo,
riattualizzando la figura del Cristo taumaturgo e guaritore prodigioso. Tuttavia
l’assimilazione di elementi “religiosi” occidentali non è avvenuta a discapito della
tradizione. Elementi di continuità sono ad esempio i rapporti di fiducia e protezione tra
paziente e guaritore104; a questo rapporto di fiducia si lega il ruolo centrale accordato
alla dimensione del sogno e della visione tramite cui, specialmente i vari leaders
indigeni scoprono la propria vocazione. Una certa sopravvivenza del complesso
“magico” e “stregonistico”, che induce gli stessi seguaci delle chiese “spirituali” a far
ricorso ancora, in situazioni estreme, ai guaritori tradizionali, testimonia che in queste
chiese
“La tradizione possiede un carattere di vischiosità, come forza interiorizzata
nell’individuo, a dispetto della stessa messa in crisi dell’intera cultura tradizionale per
effetto dell’urto con i modelli occidentali.”105
A differenza dei movimenti nativisti di “libertà e salvezza” sviluppatisi in altre zone
dell’Africa, le chiese “spirituali” del Ghana non prospettano un messianismo
anticolonialista, che vagheggia la scomparsa dei bianchi, la fine del loro dominio e il
rifiuto totale della civiltà occidentale. Ciò è dovuto al fatto che la nascita di tali chiese è
da mettere in rapporto essenzialmente con fattori culturali interni alla società ghanese.
103
Lanternari 1988: 218
Lanternari 1988: 194 “Profeti-fondatori e pastori preposti al culto – scrive Lanternari – rappresentano,
a loro modo, i successori dei “fetish-priests” o sacerdoti di antica tradizione rurale, che tuttora continuano
ad esercitare la loro funzione nell’ambiente dei villaggi, ma anche in ambiente urbano. Infatti in città la
presenza di sacerdoti tradizionali con le loro performances o pubbliche manifestazioni di culto
caratterizzate da fenomeni di possessione e da una partecipazione di massa, viene a formare, insieme con
le chiese spirituali distribuite per ogni quartiere, un panorama variegato della religiosità, e insieme alla
medicina ghanese contemporanea.”
105
Lanternari 1988: 197
104
102
In Ghana l’azione colonizzatrice non diede luogo all’espropriazione forzata e allo
sfruttamento indiscriminato delle terre come invece avvenne nei territori dell’Africa
orientale, centrale e meridionale, fatti che stanno alla base dei movimenti anti-bianchi.
Una sorta di “ritardo” degli effetti più deleteri della colonizzazione nella Costa d’Oro ha
delimitato per un certo periodo il trauma derivante dalla violenza occidentale. Ciò che
venne percepito fu comunque un incontro-scontro con una civiltà “altra” più potente,
tecnologicamente più avanzata che contribuì a mettere in crisi l’assetto tradizionale
indigeno. Non il “problema delle terre” dunque, ma la minaccia di “spossessamento
culturale” è il motivo scatenante la diffusione delle chiese “spirituali”, minaccia che si
aggrava nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. La rielaborazione
culturale proposta dalle chiese “spirituali” agisce quindi, come abbiamo accennato,
sicuramente a un livello simbolico, in quanto esse
“inventano e offrono un linguaggio cerimoniale, che fa da veicolo di riunificazione
entro un nuovo sistema sociale e comunicativo, per gente altrimenti perduta in una vera
diaspora. Nel sistema di segni da esse variamente rielaborato, si trovano dei
“significanti”, dati da espressioni coreutiche, canore, corali, gestuali: tutte continuatrici
di altrettante espressioni tradizionali, ma insieme rinnovate sotto gli influssi cristiani e
“moderni”.”106
L’attrattiva che tale movimento esercita sulla popolazione ghanese non è però dovuta
esclusivamente ai contenuti “religiosi”; esso infatti agisce anche concretamente sul
piano più strettamente sociale, attirando una casistica assai eterogenea di individui,
offrendo loro diversi servizi:
“Le chiese spirituali si presentano come ospedali-santuari aperti ai degenti bisognosi di
brevi o prolungate terapie; offrono rifugio, dormitorio provvisorio e sostentamento a
individui travagliati da crisi familiari, coniugali e personali. I profeti dedicano molto
tempo alle “consultazioni”: un istituto che ripete e continua quello analogo in uso tra i
fetish-priests tradizionali, ma che assume nuova importanza e efficacia nel nuovo
ambiente. […] Chi debba affrontare problemi d’ordine pratico, di lavoro, di rapporti
umani o chi abbisogna di incoraggiamento in una situazione scabrosa e in una calamità,
trova nella “consultazione” una sede e un crogiuolo per un rapporto privato
fecondo.[…] Offrono inoltre occasioni di intrattenimento e d’interazione sociale come
associazioni volontarie.[…] Imprestano, a ex-contadini inurbati e a individui isolati
dalle famiglie e dai lignaggi tradizionali – a causa della detribalizzazione e della
disgregazione dei sistemi parentali – un nuovo tipo d’aggregazione, sostituendo i
sistemi di famiglie estese tradizionali con una libera “famiglia” i cui membri cooperano,
solidarizzano, s’aiutano e si considerano (e si chiamano) “fratelli” e “sorelle”, vedendo
nel profeta, a loro volta, un “padre” o un “fratello” maggiore.”107
106
107
Lanternari 1988: 217
Lanternari 1988: 200
103
Concludendo, possiamo dire che le chiese “spirituali”, originatesi dall’azione
“profetica” di alcune personalità carismatiche, testimoniano della crisi verificatasi
all’interno dei sistemi socio-religiosi tradizionali dell’Africa occidentale. Il simbolismo
pentecostale dell’azione dello “Spirito Santo” e dei suoi doni fornisce, in questo caso,
l’elemento nuovo che, innestandosi nel tessuto culturale già presente, ne rinnova le
funzioni simboliche e ne consente il riscatto aprendo la possibilità a nuove tipologie
aggregative che si sovrappongono a quelle tradizionali, ponendosi come vere e proprie
forme di ridefinizione identitaria e di resistenza culturale.
Diversa è la situazione se prendiamo in considerazione lo sviluppo di alcune
chiese pentecostali negli ultimi decenni. A partire dagli anni Ottanta si assiste infatti alla
diffusione di un culto pentecostale che finisce con l’assumere caratteristiche e funzioni
diverse. Tale “ondata” pentecostale che si allarga con successo sia in Africa che in
America Latina è contemporanea alla cosiddetta Third Wave statunitense ed è sostenuta
in prevalenza da missionari occidentali che operano in questi Paesi108. Alla base di
questo tipo di pentecostalismo c’è sempre un’ideologia che fa leva su una volontà di
cambiamento, sulla proposta di una nuova visione del mondo da attualizzare con l’
“aiuto” dello “Spirito”, con l’utilizzo, dunque, di pratiche entusiastiche.
Questo cristianesimo “carismatico”, come abbiamo già sottolineato con le chiese
“spirituali”, trova nei contesti socio-religiosi africani e centro-sudamericani specialmente in Brasile dove sono ampiamente presenti forme religiose sincretiche
come l’umbanda e il candomblè, che combinano elementi cristiani con elementi della
tradizione yoruba (Africa occidentale) appartenenti agli schiavi – un terreno culturale
fertile su cui attecchire.
Tuttavia, come afferma Andrè Corten, tra i più attenti studiosi dello sviluppo dei
culti pentecostali nel Sud del mondo, questa forma di pentecostalismo si presenta come
una “cultura di resistenza che produce suo malgrado l’ideologia dominante”109. In
Africa e in America Latina esso è infatti un esempio dei paradossi legati ai processi di
globalizzazione e trans-nazionalismo: ne è un esempio l’uniformità delle pratiche rituali
che si riscontra nei vari Paesi – grandi raduni di massa, insistenza sulla guerra spirituale
per cui occorre cacciare gli spiriti malvagi dai nostri corpi e dai nostri paesi, continui
108
Paul Gifford in The complex provenance of some elements of african pentecostal theology, contributo
a Corten – Marshall Fratani 2001: 62-79, mette in evidenza come le principali dottrine che stanno alla
base del pentecostalismo africano siano di origine americana
109
Corten 2001. L’articolo di Corten in questione, Il boom dei pentecostali nel Sud del mondo, apparso su
Le monde diplomatique nel dicembre 2001, porta il seguente, eloquente sottotitolo: Strumento
dell’imperialismo o cultura popolare?
104
riferimenti a un millenarismo che riconosce Israele come luogo predestinato - , lo stesso
uso dei media – programmi televisivi e radiofonici dedicati alla “guarigione divina”,
grande disponibilità nelle librerie di best-seller di devozione tradotti dall’americano, il
tutto associato a nomi di famosi tele-predicatori statunitensi – le stesse “macchine
narrative” che spettacolarizzano il culto pentecostale andando a modificare i concetti
classici di “chiesa” e “comunità”, contribuendo a creare un’identità “allargata”,
sopranazionale, che si riconosce nell’appartenenza ad una comunità di “eletti” (born
again) che aderisce ad un medesimo immaginario.
L’immaginario condiviso da questi pentecostali costituisce per certi versi una
rottura con la tradizione pentecostale precedente, che va individuata in una diversa
considerazione del rapporto tra i credenti e il “mondo”. Una volta avvenuta la
conversione si ha una rottura netta, totale con il proprio passato, sia personale che
culturale; esso viene visto non tanto come peccaminoso, quanto piuttosto come
retrogrado, incapace di stare al passo coi tempi, mentre l’adesione al pentecostalismo è
percepita come adesione alla modernità, l’accesso a una condizione sociale più
dignitosa. Questa concezione è strettamente legata alla cosiddetta “dottrina della
prosperità” secondo cui Dio non ama la povertà e arricchirsi non è peccato: la salvezza,
dunque, non è più intesa come separazione dal mondo ma anzi diventa sinonimo di
prosperità economica e, più in generale, materiale. L’ideologia pentecostale,
rivolgendosi
“agli individui (generalmente poveri) e non alle fasce proletarizzate in quanto gruppo,
arriva effettivamente ad attutire l’impatto negativo dei programmi di aggiustamento
strutturale. Offrono ai convertiti quello che la Banca mondiale auspica, cioè la
concessione di diritti alle donne e agli uomini, la fiducia in sé e nella capacità di vincere
le avversità ! Permettono agli esclusi della società di non lasciarsi schiacciare. Inebriati
dall’emozione di culti esaltanti, i credenti attraversano così, senza protestare, le nuove
prova che la globalizzazione neoliberale impone loro, con la promessa che alla fine
godranno di un arricchimento rapido, come i loro pastori che viaggiano in
fuoristrada.”110
Gli elementi potenzialmente distruttivi della globalizzazione e della modernità, gli stessi
che hanno ridotto le popolazioni africane e sudamericane in una posizione subalterna
rispetto ai bianchi occidentali, vengono rielaborati e reinterpretati come “segni” di una
superiorità dovuta anche all’intimità con lo Spirito Santo. Capitalismo e neoliberismo
selvaggi, da strumenti oppressivi quali si sono dimostrati di essere, vengono dunque
presentati, in questo tipo di pentecostalismo, come elementi essenziali di una “salvezza”
110
Corten 2001
105
principalmente individuale, che manca però della dimensione sociale, comunitaria,
fondativa di un sistema culturale, quindi fondamentalmente riscattatoria.
Contrariamente a quanto visto per le chiese “spirituali”, in questo caso il ricorso
alle pratiche entusiastiche dello “Spirito” non apre a nuovi orizzonti di valori, ma si
configura come evasione fine a se stessa che sfruttando l’illusione del rinnovamento, in
realtà perpetra l’alienazione delle masse sottoposte a un dominio coloniale mai del tutto
concluso.
106
La risposta cattolica negli U.S.A.
Come una nuova Pentecoste
La costituzione di un movimento “carismatico” cattolico si colloca negli Stati
Uniti della seconda metà degli anni Sessanta del XX secolo. Essa si propone dunque
come risposta alla seconda ondata del “risveglio” pentecostale, quando cioè le tematiche
relative al culto dello Spirito Santo cominciarono a diffondersi, dalle prime
denominazioni pentecostali, anche all’interno delle chiese “storiche” che ne erano
precedentemente rimaste immuni.
Nel 1966 il dott. William Storey, storico, e Ralph Keifer, teologo, sono
professori laici presso l’università cattolica Duquesne a Pittsburgh, Pennsylvania111.
Entrambi vengono descritti come uomini di preghiera attivamente impegnati in attività
sociali oltre che apostoliche che, delusi dai risultati del proprio lavoro, cominciano ad
interrogarsi sulle ragioni del loro insuccesso. Il gesuita Walter Smet è, agli inizi degli
anni Settanta, tra i primi osservatori critici del movimento negli Stati Uniti. Nella sua
opera Pentecostalismo cattolico riferisce che mentre Storey e Keifer cercavano una
risposta nei vangeli e negli Atti degli apostoli, capirono che
“La loro vita cristiana sembrava essere in modo eccessivo una loro stessa creazione,
come se derivasse unicamente dalle loro forze e dalla loro volontà. […]. C’era un
motivo se mancavano loro il dinamismo del Signore risorto, la coscienza di sapersi
penetrati da Lui e di vivere in Lui qui e ora […]. Tirano questa conclusione: Se viviamo
veramente nel Cristo e se il Cristo è veramente presente nella chiesa e, mediante la
chiesa, presente nel mondo, è a causa dell’invio dello Spirito, dopo l’ascensione di
Cristo, sulla prima comunità cristiana. E’ qui il mistero della pentecoste, il vero giorno
di nascita della chiesa. Il gruppo dei discepoli fu trasformato in una comunità di fede e
di amore. Senza vergogna glorificavano Dio e rendevano testimonianza a Cristo. Essi ne
ripresero l’opera, la continuarono perseverando fino al martirio. Donde veniva loro
questa forza? Dallo Spirito Santo di cui erano stati posseduti secondo la promessa. Gesù
non li aveva lasciati orfani ma aveva inviato loro lo Spirito. In loro e attraverso loro,
egli si rendeva così presente nel mondo”112.
111
Smet 1975: 32. Diversamente Introvigne riferisce di Ralph Keifer e di un tale Patrick Bourgeois,
assistenti del dipartimento di teologia della Duquesne University (Introvigne 2004). Catucci indica invece
come iniziatori del movimento i coniugi Dorothy e Kevin Ranaghan, che sarebbero venuti in contatto con
un gruppo di presbiteriani neopentecostali, sempre a Duquesne. Altri (il teologo Falvo, il cardinale
Suenens, la sociologa Castiglione) rimangono più sul vago, segnalando un generico gruppo di persone
composto sia da laici – professori e studenti della Duquesne – sia da religiosi.
112
Smet 1975: 33. La traduzione italiana del titolo dell’opera di Smet non rende giustizia a quanto lo
stesso Smet scrive a pagina 30: “Per meglio distinguere il movimento carismatico cattolico dal
107
Storey e Keifer fecero un patto: ogni giorno avrebbero pregato l’uno per l’altro per
ottenere d’essere ripieni di Spirito Santo e avrebbero ripetuto ogni giorno l’inno Veni
Sanctae Spiritus, rimanendo fiduciosamente in attesa della risposte del Signore. Ad essi
si unirono presto Steve Clark e Ralph Martin, collaboratori laici della parrocchia
universitaria della Università dello Stato del Michigan, a East Lansing. In seguito i
nostri fecero conoscenza, per interposte persone, con Florence Dodge, carismatica
presbiteriana nella cui casa si tenevano regolarmente riunioni interdenominazionali di
gruppi di pentecostali protestanti, e fu durante uno di questi incontri che essi furono
“ripieni di Spirito Santo”.
L’esperienza di alcuni di loro venne riportata in questi termini:
“Ora tutto è più facile e più spontaneo. Tutto viene come dall’interiore. Non sono più io
che cerco di pregare o di collaborare con gli altri […]. Tutto ciò sembra provenire
spontaneamente dall’interiore. Questo non significa che tutte le difficoltà sono superate,
anzi. Ma ho più interiorità, più spontaneità, in altri termini, più forza di prima. È un
fatto che dura e che continua a durare. Ogni tanto una mancanza di fede ne diminuisce il
livello. Sono infatti convinto che Dio non si oppone alla nostra volontà. Bisogna
collaborare con lui, perseverare, lasciarlo agire liberamente in noi. Egli rifiuta ogni
automatismo, ogni magia, ogni superstizione in tutto questo. È sempre la stessa vita
cristiana della mia giovinezza, ma con un’altra dimensione, con un’altra forza, con una
interiorità che prima non possedeva”113.
Attorno al nucleo iniziale venne formandosi un primo gruppo di preghiera
comprendente una trentina di persone, tutti studenti o professori dell’università di
Duquesne. Questo primo gruppo cattolico organizzò per il week-end del 17 febbraio
1967 un ritiro improntato sullo studio dei primi quattro capitoli degli Atti degli apostoli.
I partecipanti al ritiro avevano in comune due elementi fondamentali: quasi tutti si erano
interessati alla tematica dei doni dello Spirito Santo frequentando il movimento
ecclesiale dei Cursillos de Cristianidad114; in più avevano condiviso la lettura di due
pentecostalismo protestante, si preferisce non parlare di “pentecostali cattolici” ma di “rinnovamento
nello Spirito Santo””. Il titolo originale dell’opera, Le renouveau dans l’Esprit. Charismatisme dans
l’Eglise d’aujourd’hui, evita qualsiasi fraintendimento. È interessante rilevare questo particolare in
quanto evidenzia la confusione di termini con cui ci si riferisce ai differenti movimenti “carismatici”,
nonché la difficoltà ad usare concetti univocamente definiti.
113
Smet 1975: 34
114
Il movimento dei Cursillos de Cristianidad è nato in Spagna, negli ambienti dell’Azione Cattolica di
Mallorca nel 1966. Il movimento propone “un’esperienza concentrata in pochi giorni di ritiro spirituale,
lungo i quali un direttore spirituale propone un percorso di riannuncio del messaggio cristiano. Lo scopo è
duplice: portare laici cattolici a riscoprire i fondamenti della fede e stimolare la formazione di piccole
comunità che possano poi vivere di vita propria seguendo un cammino che vuole offrire occasioni sia per
alimentare nel tempo la fede riconquistata che per espandere il messaggio nell’ambiente di lavoro o nella
realtà sociale in cui abitualmente si vive. […]La dinamica dell’aggregazione è scandita dal “pre-cursillo”,
dal “cursillo” vero e proprio e dall’ “ultreya” (le riunioni periodiche di gruppo post-cursillo). Il pre-
108
libri scritti da esponenti protestanti del mondo pentecostale-carismatico. Uno di questi è
un’inchiesta giornalistica sul mondo carismatico, Essi parlano in altre lingue di John
Sherrill, l’altro è La croce e il pugnale di David Wilkerson, pastore pentecostale che
raccontava come, avendo fede nello Spirito Santo, fosse giunto a New York dalla
provincia e avesse predicato tra le bande di giovani dei quartieri disagiati, operando
numerose conversioni e aprendo diversi centri di recupero nella metropoli
nordamericana115.
Questo week-end è rimasto famoso nella storia del movimento sotto il nome di
“week-end di Duquesne” ed è considerato come data ufficiale di nascita del
Rinnovamento Carismatico Cattolico in quanto durante il ritiro i partecipanti fecero
l’esperienza del “battesimo nello Spirito”. Ecco le parole usate da uno dei partecipanti,
David Mangan, per descrivere l’accaduto:
“Senza comprendere ciò che facevo, entrai nella cappella. Ero in piedi davanti all’altare.
Un momento dopo ero steso per terra in un trasporto estatico. Questa esperienza forse
non si ripeterà più nella mia vita. All’improvviso Gesù Cristo era tanto realmente
presente da sentirlo al mio fianco […]. Ero colpito da un amore che era impossibile
esprimere […]. Non so quanto tempo sia stato bocconi. Discendendo i gradini la mia
reazione fu il dubbio. Tutto quello era realmente accaduto? Compresi presto che nulla di
quanto era avvenuto corrispondeva al mio temperamento. Per natura, non sono un
sentimentale, non piango facilmente, non mi lascio convincere con troppa facilità.
Mentre riflettevo in questi termini, mi dissi che dovevo ritornare a pregare in cappella.
Avevo paura ma entrai ugualmente. Durante la mia preghiera provai una strana
sensazione…era come se intendessi un altro pregare nel profondo di me stesso.
Nell’intervallo, qualcuno era entrato in cappella. Mi sedetti e vidi che era una mia
amica. La vedevo pregare. Mi sentivo pieno di felicità e non potevo contenerla […]. Mi
chiese se poteva leggermi un passo della Bibbia. Non posso ricordarmi ciò che mi lesse.
Aveva infatti appena letto le prime parole che ebbi di nuovo un incontro con Cristo, più
cursillo è un momento di selezione delle persone che vengono sollecitate a fare il corso di tre giorni,
selezione che in genere ubbidisce a semplici criteri di omogeneità per età, sesso e posizione sociale. Il
corso è scandito in tre giornate – una sorta di sintesi concentrata dei più famosi esercizi ignaziani –
durante le quali vengono presentati vari “rollos”, le verità fondamentali del cristianesimo, ma non in
modo astratto. La comunicazione tende a essere personalizzata (“Cristo ti chiama, ha un progetto di
salvezza per te e tramite la tua persona per l’ambiente familiare, lavorativo e sociale in cui sei inserito:
Cristo conta su di te”). Al termine del corso il singolo cursillista è chiamato ad impegnarsi, a rinnovare
una promessa di dedizione delle proprie personali energie a Cristo.” Partendo da un’esperienza emotiva
individuale molto forte, possiamo enucleare alcuni elementi riscontrabili anche nell’esperienza
“carismatica”: a) primato della conversione soggettiva; b) esperienza religiosa diretta; c) ridefinizione del
senso di appartenenza ad una comunità di credenti; d) riscoperta della centralità del testo sacro, fonte
infallibile di ispirazione di comportamenti e atteggiamenti morali e mentali. (Pace 1993: 379-380)
115
Introvigne ci riferisce un particolare interessante e poco noto a proposito del tentativo dello stesso
Wilkerson di staccare il nascente movimento carismatico cattolico dalla Chiesa di Roma. Egli avrebbe
comunicato ai leader cattolici una propria rivelazione privata in cui lo Spirito gli rivelava che se i cattolici
che avevano sperimentato la glossolalia fossero rimasti all’interno della Chiesa romana, sarebbero stati
perseguitati. Ralph Martin ribatte che “lo spirito di indipendenza costituisce uno degli elementi meno
salubri che il pentecostalismo tradizionale ha portato come contributo al cristianesimo” ( Introvigne 2004:
132-133 )
109
intenso del primo. Cercavo di parlare con quelli che entravano nella cappella, ma
constatavo che parlavo una lingua incomprensibile, come un sordomuto che si mettesse
a parlare […]. Un po’ più tardi, lo stesso giorno, dopo un incontro sul terzo capitolo
degli Atti degli apostoli, ci riunimmo per la preghiera, e, ancora una volta, ebbi un
incontro con il mio Dio […]. Grande era la mia gioia. Mi rendevo conto che il Signore
aveva avuto pietà di me e prendeva su di sé la mia vita avvenire […]. Egli mi conosceva
da parte a parte e in verità me lo fece duramente sentire […]. Quel giorno scoprii che
anche gli altri erano stati ripieni di Spirito Santo che aveva loro rivelato il Signore in un
modo completamente nuovo e aveva dato alla loro vita cristiana una dimensione
completamente nuova. Ebbene! Ho vissuto questa dimensione, vi sono cresciuto da più
di un anno, e tutta la mia vita ne è stata trasformata. Il Signore m’ha preso per mano e
m’ha guidato attraverso molte difficoltà. Ciò che importa, l’essenziale, è questo: solo
Lui mi conduce presso di sé. Con le mie forze, lo so bene, non lo avrei mai
raggiunto”116.
Secondo le descrizioni dei professori e degli studenti di Duquesne a questo contatto
particolare con Cristo, intimo e nuovo, si accompagnavano “doni” speciali quali la
glossolalia, la profezia, il discernimento degli spiriti, tali e quali a quelli descritti nei
brani degli Atti che erano loro oggetto di studio. Dopo questi fatti, amici e conoscenti
cominciarono ad aderire al gruppo e si dice che anche su di loro sia disceso lo Spirito
con i suoi “doni”.
Per il 4 e 5 marzo 1967 venne organizzato un altro week-end di ritiro, questa
volta presso la Notre Dame University a South Bend, Indiana. Vi presero parte una
trentina di persone che, guidate da un testimone degli avvenimenti di Pittsburgh,
pregarono affinché anche loro potessero ricevere i “doni” della pentecoste, e anche loro
li ricevettero. Raccontano i coniugi Kevin e Dorothy Ranaghan, che con i loro libri si
pongono tra i primi e più importanti divulgatori del movimento:
“Avevamo cercato, nel nome di Gesù una pienezza di vita nello Spirito Santo. Ed ecco,
questa grazia si era già concretizzata in noi. Ciascuno di noi potrebbe solo dire ciò che
gli accadde individualmente quella notte. Ma si può affermare che tutti noi abbiamo
sperimentato come l’amore di Cristo avesse preso la nostra vita e fossimo testimoni del
modo col quale questa presa di possesso si operasse negli altri. Questo amore ci
comunicò pace e gioia, coraggio e certezza nella fede […]. Il giorno dopo qualcuno
sintetizzò le nostre impressioni dicendo: “Abbiamo visto il Signore”. Molti si sentirono
chiamati a dedicare lunghi momenti alla preghiera in cui prevaleva soprattutto la lode di
Dio. Certi costatavano che aprivano la Bibbia con una reale fame della Parola di Dio.
Quasi tutti scoprirono in loro stessi un desiderio nuovo e un nuovo coraggio per rendere
testimonianza al Signore davanti ad amici e sconosciuti. Scomparvero i dissensi tra i
fratelli e l’amore fra gli sposi s’interiorizzò maggiormente in Cristo”117.
116
117
Smet 1975: 36-37
Smet 1975: 39
110
La notizia arrivò in seguito alla parrocchia universitaria dell’università di Ann Arbor a
East Lansing, Michigan, e nell’aprile 1967 circa un’ottantina tra professori e studenti
delle tre università si incontrarono per un altro week-end a South Bend. Quest’ultima
riunione acquisì un significato storico rilevante in quanto venne considerata la prima
assemblea ufficiale del movimento, mentre la Notre Dame University divenne il luogo
di appuntamenti a scadenza annuale. Nel 1974, a soli sette anni da questi primi
avvenimenti, al secondo congresso internazionale si contarono circa trentamila
partecipanti provenienti da trentacinque paesi, circa settecento sacerdoti e una
quindicina di vescovi.
L’università di Ann Arbor divenne invece la sede di una delle più grandi
comunità del movimento, la “Word of God community”. A metà degli anni settanta è
segnalata la presenza di almeno 700 appartenenti che vivono in case, sono sposati e
hanno figli; esistono però anche gruppi di soli maschi o sole femmine che hanno scelto
di vivere in celibato. Nella comunità di Ann Arbor è presente una completa
organizzazione ecclesiale. I coordinatori dei gruppi vengono eletti ufficialmente durante
una speciale cerimonia: essi rappresentano gli strumenti attraverso cui la parola del
Signore si diffonde, esigono una totale ubbidienza e possono giudicare se i membri
seguono o meno l’ortodossia del movimento, hanno quindi potere di espellere chi non è
gradito118.
Ann Arbor è anche il luogo di pubblicazione di New Covenant, il primo organo
internazionale di collegamento tra i gruppi carismatici nel mondo.
La nascita e il repentino sviluppo del movimento in ambito cattolico hanno
suscitato un largo interesse soprattutto tra i sociologi della religione, principalmente tra
la fine degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta. Tale interesse sembra suscitato
dalla sorpresa per un fenomeno che per molti versi si presenta inaspettato, e dalla
conseguente necessità di fornirne una decodificazione chiara. Numerose sono quindi le
opere che in quegli anni si occupano del movimento “carismatico” cattolico da un punto
di vista prettamente sociologico e spesso interno alla Chiesa quando non addirittura al
movimento stesso, che mirano soprattutto a dare un’interpretazione delle dottrine e delle
pratiche dei “carismatici” in relazione alla dottrina ufficiale cattolica, tralasciando le
implicazioni storiche e culturali del movimento. Riporteremo quindi di seguito alcune
118
Catucci 1978: 308-311. La sociologa Catucci è autrice di alcuni studi molto interessanti sul
movimento “carismatico” cattolico nei primi anni della sua diffusione in Italia. Oltre ad una attenta
ricostruzione storica, la Catucci si avvale anche di una prolungata esperienza di frequentazione diretta dei
primi gruppi di preghiera “carismatici” sviluppatisi a Roma.
111
caratteristiche generali del movimento nella sua prima espansione negli Stati Uniti e
nello sviluppo successivo che ebbe nel nostro Paese.
Un altro gesuita, Joseph Fichter, è autore de I carismatici cattolici, la prima
ricerca sociologica riguardante i “carismatici” cattolici statunitensi, dalla quale
apprendiamo che la comunità residenziale di Ann Arbor costituisce un’eccezione
all’interno del movimento
“in quanto è formata soltanto ed esclusivamente da gente impegnata, da una elite
spirituale di persone disposte a sedersi alla stessa tavola, a pregare insieme e a
condividere la propria casa con gli altri. In altre parole, mentre in teoria questa comunità
è aperta a tutti i membri del movimento, in pratica l’accesso è limitato ad un numero
relativamente ristretto”119.
La forma di aggregazione più diffusa risulta invece essere quella di una o più riunioni
settimanali, nei locali delle parrocchie di qualche sacerdote simpatizzante o in altri
stabili adeguati di volta in volta per tale scopo. Il movimento “carismatico” cattolico si
configura quindi, almeno nei suoi primi anni di vita, come un’organizzazione che
affonda saldamente le radici nelle comunità locali, tenute assieme da una fitta rete
sociale. Non è possibile avere dei dati attendibili per quanto riguarda il numero degli
aderenti al movimento, in quanto da una parte le cifre fornite dagli studiosi e dagli
aderenti al gruppo sono eccessivamente discordanti, dall’altra i gruppi di preghiera si
sottraevano ad ogni statistica in quanto continuamente ne nascevano di nuovi. Nella
continua fioritura di gruppi e comunità gioca un ruolo fondamentale il fatto che, a
differenza di altri movimenti, per quello “carismatico” cattolico non viene riconosciuto
alcun fondatore o leader ufficiale e tutto viene ricondotto alla forza creatrice dello
Spirito Santo, anche se, come già abbiamo visto e come vedremo in seguito, è
incontestabile l’azione diretta di alcune personalità ben definite. Gli stessi leaders
rifiutano qualsiasi definizione da attribuire al fenomeno “carismatico”, insistendo sul
fatto che l’opera dello Spirito non deve diventare una routine. Come sempre accade al
sorgere di nuovi movimenti religiosi, i primi nuclei “carismatici” desiderano essere
liberi e spontanei, senza alcuna idea di strutture o di programmazione; man mano che si
moltiplicarono gli aderenti al movimento e i gruppi di preghiera, si rese però necessaria
un’organizzazione più ferrea. Ancora Fichter ci dice che
“A due anni di distanza del famoso week-end di Duquesne, si ebbe un’organizzazione
del culto con programmi da stabilire e con gente di cui occuparsi. Si era anche affermato
119
Fichter 1976: 51
112
un gruppo rappresentativo di leaders anziani, provenienti da diverse parti del paese. Una
burocrazia vera e propria ebbe inizio con la formazione di un comitato di servizio,
costituito da due sacerdoti e da cinque laici, persone che erano state accettate come
leaders nazionali del rinnovamento carismatico. Durante l’anno, si formò un comitato
consultivo, comprendente anche parecchi canadesi; ne erano membri tredici sacerdoti,
dieci laici, due suore e un frate”120.
Il fenomeno “carismatico” si avviava così verso una rapida e larga diffusione a livello
mondiale, tanto che già nel 1969 le autorità ecclesiastiche romane nominarono una
commissione presieduta da monsignor Zalewsky il quale tuttavia suggerì, in un rapporto
alla Conferenza Episcopale americana, di non intralciare lo sviluppo del movimento. Da
quel momento però si fece sempre più consistente all’interno dei “carismatici” la
presenza di membri della gerarchia cattolica – preti, suore, ma anche monsignori,
cardinali e teologi -
il cui compito consisteva nel monitorarne gli sviluppi onde
conferire al gruppo un’identità definita cercando di evitare possibili deviazioni
eterodosse. La probabilità di deviazioni dalla dottrina cattolica ufficiale è infatti elevata
soprattutto agli inizi del movimento, visti gli stretti rapporti che i suoi appartenenti
intrecciano con il mondo protestante, in particolare pentecostale.
Sempre Fichter ci rivela che
“i primi leaders del movimento cattolico della Duquesne University e della Notre Dame
University presenziarono agli incontri di preghiera dei pentecostali protestanti e
invitarono dei ministri pentecostali a parlare ai loro gruppi”
Riporta inoltre una testimonianza dello stesso Kevin Ranaghan che ammette
apertamente il debito dei carismatici cattolici nei confronti dell’amicizia, delle
preghiere, dell’incoraggiamento e dei consigli dei pentecostali121. Esemplare in questo
senso è il largo successo che ebbero tra i cattolici diversi guaritori protestanti, in
particolar modo la presbiteriana Katryn Kulhman, ricevuta anche da Paolo VI, che il
primo giugno del 1974 operò un gran numero di guarigioni a Ann Arbor122. Inoltre, le
pagine del New Covenant sono spesso messe a disposizione di ministri protestanti,
mentre il programma della conferenza annuale della Notre Dame University prevede gli
interventi di alcuni portavoce tra i più importanti del pentecostalismo, tanto da suscitare
pesanti critiche da parte di diversi vescovi americani che si pronunciarono apertamente
120
Fichter 1976: 52
Fichter 1976: 57
122
Catucci 1978: 314
121
113
contro il movimento, considerandolo una delle più pericolose minacce per l’unità della
Chiesa nel XX secolo123.
Le preoccupazioni dei rappresentanti dell’ortodossia cattolica si rivelano
fondate: come risultato della propria ricerca, Fichter ci segnala la presenza significativa
di credenze che non rispettano l’ortodossia cattolica. Egli ne individua precisamente tre:
la convinzione di una imminente seconda venuta di Cristo che porterà una lunga età
dell’oro caratterizzata dalla pace, dalla felicità e dalla santità. Questa tematica era molto
forte nel cristianesimo degli inizi ed è stata in seguito adottata da alcune sette protestanti
che basano la loro dottrina su di un fondamentalismo caratterizzato da un millenarismo
spesso esasperato. La seconda credenza riguarda la certezza della salvazione totale
ottenuta per grazia dello Spirito Santo al momento della conversione del fedele. Questa
dottrina è tipica del protestantesimo metodista inaugurato da John Wesley, ed è stata
oltretutto condannata dal Concilio di Trento. Il terzo concetto cattolicamente eterodosso
che rileva Fichter è quello riguardante la convinzione che lo Spirito parla al cuore
piuttosto che alla mente, concetto apertamente in contrasto con tutta la tradizione
teologica cattolica. Fichter sottolinea il fatto che esso è caratteristico del primo
pentecostalismo, sviluppatosi tra gli strati più bassi e meno istruiti della popolazione, e
che porta a forme di culto basate su una emotività molto accentuata124.
Alla carica fortemente emotiva della prassi cultuale, si lega il fatto che tra i
carismatici cattolici americani una delle pratiche più diffuse sia quella riguardante la
guarigione attraverso i miracoli, tanto che dal 1973 divenne attivo a Notre Dame
l’Healing Service, servizio pubblico di guarigione, organizzato e diretto dal domenicano
Francis McNutt in collaborazione con altre persone considerate particolarmente dotate
in proposito. Si racconta che all’inaugurazione dell’Healing Service numerose furono le
guarigioni: dopo aver cantato e pregato molto, McNutt domandò quanti fossero stati
“toccati” da Dio e si registrarono guarigioni da cecità, sordità, artriti, varie malattie
psicosomatiche e addirittura leucemie. Anche Ann Arbor divenne la sede di un servizio
di guarigione molto conosciuto in cui si tenevano grandi raduni, durante i quali la gente
si abbandonava al canto, alle grida di alleluia e alle testimonianze fino allo
sfinimento125.
123
Fichter 1976: 58
Fichter 1976: 63-65
125
Catucci 1978: 312-313
124
114
È importante sottolineare come quello della guarigione sia uno dei “doni” più ricercati
da parte dei “carismatici” cattolici. Catucci, riferendosi ai gruppi di preghiera romani,
sottolinea che
“Imporre le proprie mani sulla testa di qualcuno, invocare la guarigione fisica e psichica
di chi ne faccia richiesta, pronunciare frasi intraducibili circondati da carismatici in
rapimento estatico e saldamente uniti da una catena di mani intrecciate, è una esperienza
che li esalta. Chiunque abbia ricevuto il battesimo, e di conseguenza i doni, in pratica
può possedere la capacità di guarire. La grazia concessa da Dio riguarda però una sola
persona, scompare l’infermità del singolo che chiede il miracolo e per il quale si prega
invocando lo Spirito Santo e imponendogli le mani sul capo. La guarigione produce un
effetto securizzante sul gruppo e i carismatici si convincono che soltanto appartenendo
ad esso possono chiedere e ottenere la salute, la salvezza spirituale.”126
L’azione soprattutto psicologica della credenza nella guarigione si ravvisa anche nel
fatto che le guarigioni più praticate dai “carismatici” sono quelle “dai ricordi” o “dalle
memorie”. Convinti che ognuno custodisce nel proprio inconscio angosce e sofferenze
dovute a traumi subiti nel corso della vita, nelle testimonianze essi danno ampio spazio
all’analisi del proprio vissuto. Il “male” da guarire può così annidarsi in un’infanzia o in
una giovinezza caratterizzate da difficili rapporti con i genitori, esperienze sessuali
difficili, frustrazioni, o in un matrimonio infelice, in un impiego di lavoro non
gratificante. Il gruppo di preghiera diventa quindi un circolo psicoanalitico in cui, sotto
la guida del leader, le difficoltà esistenziali vengono risolte nel mito reso attuale del
Cristo che perdona e dello Spirito consolatore127.
Un
ulteriore
influsso
del
pentecostalismo
si
evidenzia
anche
nella
frammentarietà del movimento “carismatico” cattolico: esso infatti si esprime – come
vedremo meglio trattando della sua diffusione in Italia - attraverso scissioni di gruppi e
comunità operate dai membri che non si riconoscono come appartenenti alla medesima
realtà “carismatica”, pur senza predicare alcuna rottura radicale con l’istituzione-Chiesa,
e anzi presentandosi come parte integrante di una cattolicità più autentica. Infatti il
“rinnovamento” cui spesso fanno riferimento e a cui mirano i carismatici cattolici non è
di tipo istituzionale o strutturale, ma è riferito ad un piano più individuale, ad una
rigenerazione spirituale, e l’attenzione dei membri è rivolta a ciò che Dio ha fatto per il
singolo individuo. Riportiamo una delle testimonianze raccolte da Fichter:
“Dacchè sono diventato membro di questo movimento, la mia vita è cambiata in misura
tale che mi torna difficile darne una spiegazione. La mia vita spirituale ha assunto un
126
127
Catucci 1978: 334
Catucci 1978: 335-336
115
significato assai più ampio. È una gioia andare alla messa. La mia vita quotidiana viene
vissuta in Dio per tutto ciò che faccio. Mi sono dedicato a lui in maniera assoluta. Sia
lode a Dio!”128
La “salvezza” dal mondo per questi “carismatici” non passa attraverso lo sforzo attivo
di agire nella storia per modificarne gli aspetti critici, ma si realizza nella ricerca di una
“vita nuova in Cristo”, che “salva” in quanto converte e rinnova. Walter Smet raccoglie
la testimonianza di tale James Cavnar, collaboratore laico nella parrocchia universitaria
di Ann Arbor dal 1972 e membro attivo nel movimento, che ci sembra particolarmente
utile riportare per evidenziare questa dinamica di crisi-ricerca di riscatto individuale,
che facendo ampio ricorso alla sfera simbolica dello Spirito Santo e dei suoi doni, apre
le porte ad un misticismo che sembra orientato più verso un’abdicazione della
personalità da parte dell’individuo che delega ogni sua azione a Dio, piuttosto che ad
una sua reale emancipazione:
“Scoprire il niente della vita è un’esperienza liberatrice, che può portare sia alla libertà
che riempie di felicità, sia a una disperazione, fonte d’infelicità, che sopprime ogni
ragione e ogni desiderio di vivere oltre. Fu il mio caso. La disperazione mi tolse a poco
a poco ogni volontà di vivere[…]. Dietro insistenza di un amico, feci una specie di
ritiro. Durante questi tre giorni, assistetti a scambi di vedute fra laici sulla vita cristiana
e potei discuterne con loro. Mi accorsi allora della differenza esistenziale apportata dal
Cristianesimo. Tale differenza è Gesù Cristo. Essere cristiani significa avere un rapporto
personale con una persona, lo stesso Cristo; vivere in unione con altri cristiani,
condurre, assieme a Cristo, gli altri a Cristo. Ciò che il Cristianesimo offriva e non
poteva essere offerto da nessun filosofo, non era un ideale, né un’idea, né un’etica, né
una dottrina ma Gesù di Nazareth. Quella notte la mia vita ebbe una svolta radicale.
La mia disperazione cedette il posto ad una gioia straordinaria e alla ferma
determinazione di cominciare a conoscere più personalmente Cristo. Cominciai a
pregare ogni giorno, a leggere la Bibbia e a servirmi di ogni occasione per condividere
con altri la mia fede nel Cristo. Capivo poco a poco che questa era la cosa più
importante di tutte, e che il resto non significava nulla. Dedicai allora il mio tempo
migliore a costruire la mia fede e a condurre altri a Cristo. Dopo avere a lungo pregato,
cambiai indirizzo ai miei studi. Abbandonai la fisica e passai alla teologia. Speravo così
di prepararmi meglio al lavoro apostolico cui mi volevo consacrare”129.
L’interesse dei “carismatici” cattolici si indirizza dunque nei confronti di un
rinnovamento che è innanzitutto personale, che tralascia il confronto diretto con le sfide
della modernità, o meglio, che di fronte alle sfide della modernità sceglie di cercare
conforto e consolazione in un gruppo che in una certa misura dal mondo si isola,
mettendo in secondo piano tra i suoi programmi un attivo impegno sociale. Essi infatti
128
129
Fichter 1976: 49
Smet 1975: 46, corsivo mio
116
“non sono soddisfatti del mondo come è, ma non hanno la minima intenzione di tentare
di mutarlo attraverso azioni collettive organizzate. La loro convinzione di base è che la
riforma ha origine nella propria casa, nel proprio cuore, e in qualche modo poi trabocca
nelle altre case e negli altri cuori, fintantoché tutta la società non ne sia riformata”130.
La tendenza generale è quella di un disinteresse per le strutture esterne e i sistemi sia
della Chiesa sia della società, in quanto di esse Dio se ne prenderà cura in un modo o
nell’altro.
Questa rinuncia all’azione sociale diretta porta i membri del movimento ad
aderire a posizioni essenzialmente conservatrici; essi entrano così in contrasto con i
propositi di apertura alla modernità promulgati dal concilio Vaticano II, da cui tuttavia
si dicono ispirati. L’atteggiamento più conservatore che tutti gli studiosi del movimento
mettono particolarmente in evidenza è quello della discriminazione nei confronti delle
donne: la maggior parte di leaders e scrittori “carismatici” sono uomini, alle donne non
è concesso ricoprire cariche di prestigio nelle organizzazioni “carismatiche”, e dove
questo accade è perché non ci sono uomini disponibili. Sebbene la presenza femminile
all’interno del movimento sia di gran lunga più numerosa di quella maschile, alle donne
viene insegnato ad accettare con sottomissione l’autorità maschile e sembra che le
donne stesse la riconoscano come conseguenza del volere divino131. Dalla ricerca di
Fichter sulle prime comunità “carismatiche” americane, emerge che soltanto tre su dieci
tra gli intervistati si dice d’accordo che la Chiesa debba sostenere i movimenti di
emancipazione femminile, mentre solo un terzo si dichiara favorevole al sacerdozio
delle donne. Nonostante la posizione di sottomissione, il ruolo delle donne all’interno
del movimento non è di pura passività: esse sono attratte in misura sempre maggiore dai
130
Fichter 1976: 100. Renè Gouriou e Yves Jehanno, entrambi insegnanti e membri attivi di gruppi
“carismatici” francesi fin dagli anni Settanta, sono autori di un testo, Nel soffio di Pentecoste…i gruppi
carismatici, in cui è espressa chiaramente qual è ancora oggi la posizione dei “carismatici” nei confronti
della società: “I progressi tecnici attuali sono straordinari. Hanno qualcosa di esaltante. Quanti mezzi
sempre più perfezionati in tutti i settori della produzione, dei trasporti, delle comunicazioni! La vita
quotidiana è cambiata considerevolmente in poche diecine d’anni. Col suo rigore scientifico e tecnico
l’uomo padroneggia sempre più il mondo. Tutto ciò non è avvenuto senza rischi. Lo sguardo oggettivo sul
mondo ha degenerato talvolta in filosofia positivista. La volontà di agire sulla materia si è evoluta in
ideologia materialista. Il successo dei risultati tecnici ha lasciato nella dimenticanza le aspirazioni
spirituali […]Bisogna fare i conti con Dio, dedicare tempo alla preghiera personale, alle riunioni di
preghiera, ai raduni, ai ritiri. Questa riforma dell’agenda, delle cose da fare, si accompagna a un
rovesciamento dell’ordine dei valori […]Prima di fare delle riunioni di coscientizzazione o delle
rivendicazioni intempestive per chiedere che la società cambi, ciascuno può prima di tutto cambiare sé
stesso”. (Gouriou-Jehanno 1998: 101-103)
Catucci riassume esemplarmente la questione in questi termini: “Poiché sulla terra non si è realizzata la
promessa di bene, di felicità, di amore, poiché la scienza e la tecnica si sono rivelate deboli e
insoddisfacenti, poiché la cultura è sprofondata in valori edonistici, materialistici, e la secolarizzazione si
rivela un fenomeno in continua espansione, ecco che fioriscono tentativi di creare una controcultura”.
(Catucci 1978: 315)
131
“L’analogia teologica raccomanda che proprio come il Figlio guardava in spirito di obbedienza al
Padre divino, così la moglie e i figli dovrebbero obbedienza al capo famiglia.” (Fichter 1976: 166)
117
“benefici spirituali” derivanti dai carismi e sembrano essere più portate degli uomini ad
esprimersi nelle testimonianze, nelle profezie, ad ammettere di parlare in lingue e, in
generale di aderire pienamente alla dottrina “carismatica”132.
Si riscontra dunque all’interno delle prime comunità americane una sorta di
fondamentalismo “carismatico”. Nelle previsioni di Fichter – che, ricordiamo, scrive
nella prima metà degli anni Settanta, cioè quando il movimento “carismatico” comincia
appena a darsi una struttura in Nord America e a diffondersi in Europa – lo sviluppo del
movimento dovrebbe portare alla formazione di una organizzazione di chiaro stampo
conservatore. Catucci riferisce di un’intervista a William Storey, tra i fondatori del
movimento e successivamente allontanatosi, che nel 1976 rivela la presenza di un
apparato fortemente accentratore e autoritario all’interno del movimento americano: il
Centro di Comunicazione Nazionale che stampa libri e riviste, divulga dischi, cassette e
altro materiale informativo avrebbe anche il compito di scegliere, consigliare ed
eventualmente censurare le letture destinate agli aspiranti “carismatici” e ai membri dei
vari gruppi. Il Comitato Centrale di Servizio è assistito da un consiglio di 37 elementi
che dovrebbero essere eletti da ogni regione ma che in realtà vengono scelti
arbitrariamente dai membri del consiglio. Accanto a queste linee abbastanza ben
definite di potere e di autorità convivono tuttavia strutture periferiche che riescono a
mantenere una certa autonomia. Sempre Fichter ci porta l’esempio di un gruppo di
giovani carismatici maschi che nel Michigan hanno dato vita a una comune religiosa
indipendente, di alcuni benedettini del New Mexico che hanno fondato la prima abbazia
“carismatica”, e di un gruppo di genitori e insegnanti che gestiscono una scuola
parrocchiale “carismatica” nel Rhode Island133.
132
133
Fichter 1976: 127-131 e Catucci 1978: 317
Fichter 1976: 171
118
La risposta cattolica in Italia
I primi gruppi
Nonostante le iniziali riserve di una parte del clero statunitense, in seguito agli
avvenimenti della Duquesne University il movimento “carismatico” cattolico si
sviluppa rapidamente in tutto il mondo. Anche in Italia esso trova il luogo ideale dove
potersi sviluppare all’interno di una università cattolica, la Gregoriana, a Roma. Fautore
della costituzione del primo gruppo di preghiera “carismatica” in Italia è considerato
unanimemente dagli stessi carismatici il sacerdote canadese Padre Valeriano Gaudet, la
cui storia è raccontata con enfasi trionfalistica. Si dice di lui che nel 1969, durante un
soggiorno negli Stati Uniti, si fosse recato a South Bend dove ricevette il “battesimo
nello Spirito” e rimase impressionato dalle guarigioni e dalle conversioni avvenute in
sua presenza. Il percorso che porta P. Gaudet a diventare “carismatico” è raccontato da
Serafino Falvo, sacerdote calabrese tra i primi, assidui sostenitori in Italia del
movimento, cui ha dedicato diversi libri permeati da una forte vena entusiastica. In
L’ora dello Spirito Santo, riferendosi all’episodio del “battesimo nello Spirito” ricevuto,
scrive che P. Gaudet
“sente quel giorno cominciare per lui un nuovo sacerdozio, vede dischiudersi dinanzi un
nuovo campo di lavoro mai sognato, né lontanamente immaginato. Torna a Roma con il
cuore traboccante di gioia, come il giorno della prima messa, e smania dal desiderio di
comunicare ad altri la nuova esperienza. Ma deve attendere più di un anno prima che il
Signore gli dia il segnale di partenza”134.
Il “segnale” arriva per P. Gaudet il 10 dicembre 1970 tramite una telefonata che lo
invita a tenere un incontro sul Rinnovamento Carismatico presso le suore francesi
“Sorelle del Cenacolo”, a Monte Mario. Da questa serata nasce l’idea di creare un
gruppo di preghiera a Roma e così avvenne. Il gruppo non ha una sede fissa e si sposta
da
un
convento
all’altro
fino
a
quando
l’Università
Gregoriana,
grazie
all’interessamento del professor Francis Sullivan, mette a disposizione una stanza
dell’Università stessa. Verso la fine del 1971 il gruppo è così numeroso da dover
134
Falvo 1977: 46 e Catucci 1978: 322
119
richiedere di trasferirsi per le proprie attività nell’auditorium, ed è qui che il 19
dicembre una quarantina di persone di nazionalità diverse, per lo più religiosi, ricevono
il “battesimo nello Spirito” e prendono il nome di Lumen Christi. Qualche mese dopo,
nel gennaio del 1972, P. Gaudet dà vita ad un gruppo di preghiera in francese, il gruppo
Hosanna, formato inizialmente da un altro sacerdote e da una decina di suore che si
riunivano presso le Suore Francescane Missionarie in via Giusti. Siccome inizialmente
pregava ancora in modo "tradizionale", al gruppo vennero invitati anche i coniugi
Alfredo Ancillotti e Jacqueline Dupuy che avevano già avuto modo di conoscere la
preghiera “carismatica” partecipando agli incontri che si tenevano all'Università
Gregoriana.
Nel 1971 P. Gaudet aveva incontrato, nella casa generalizia degli Oblati di
Maria Immacolata, don Giancarlo Moretti e un laico suo amico, Alberto Trevisani. Il
primo, allora cappellano in un piccolo paese della Romagna in provincia di Cesena, San
Mauro Pascoli, era desideroso di ricevere l'effusione dello Spirito Santo. Da
quest'incontro scaturì una primissima esperienza di preghiera “carismatica”135. Nel 1972
nascevano a Roma altri gruppi di preghiera: Esperanza, di lingua spagnola e
Maranathà, di lingua tedesca; P. Gaudet, insieme a P. Sullivan, ai coniugi Ancillotti, la
madre di lei e altre due persone, pensò di dar vita ad un nuovo gruppo di preghiera, ma
questa volta di lingua italiana. Esso ebbe sede dapprima a casa del giornalista Fred
Ladenius, poi, dato il numero crescente di partecipanti, nella chiesa romana di "S. Saba"
all'Aventino, tenuta dai Gesuiti. Infine presso le suore Adoratrici del Preziosissimo
Sangue, in via Beata Maria de Mattias. Il gruppo italiano di cattolici "carismatici" prese
il nome di Emmanuele. Nell'ottobre del 1973, a Grottaferrata, si tenne l'incontro
internazionale dei responsabili del movimento “carismatico” cattolico. Alcuni leaders
vengono ricevuti in udienza, per la prima volta, dal papa Paolo VI136.
In realtà non è facile ricomporre l’esatto sviluppo del movimento, in quanto la
bibliografia riguardante la sua origine in Italia è piuttosto scarsa e non sistematica a
causa di una serie di discrepanze che si riscontrano tra le varie ricostruzioni storiche.
Un’ulteriore difficoltà a ripercorrere l’iter carismatico deriva dall’atteggiamento degli
stessi appartenenti al movimento, i quali sono restii a proporre una storia del movimento
135
Catucci 1978: 321-323. Caterina Ruggiu nell’articolo Rinnovamento, una nuova stagione pubblicato
sulla rivista Città Nuova del giugno 2002, indica addirittura nella cittadina di San Mauro Pascoli la “culla
del primo gruppo italiano”.
136
Falvo 1977: 47. Una ricostruzione breve ma abbastanza dettagliata sulla formazione dei primi gruppi
di preghiera romani si trova sul sito web della comunità carismatica Gesù Risorto, all’indirizzo
www.gesurisorto.it
120
storicamente attendibile. Essi sono infatti più interessati a sottolineare l’originalità
dell’azione dello Spirito nella propria comunità, rivendicando una sorta di primato
“carismatico” nei confronti degli altri gruppi, deviando così dalla versione “ufficiale”
della storia del movimento, che data come suo inizio gli avvenimenti occorsi
all’Università di Duquesne. A questo proposito è interessante riportare quanto scritto
nel sito web ufficiale di un gruppo “carismatico” di Palermo, in cui si legge:
“Palermo può essere considerata la città privilegiata dallo Spirito Santo, perché le prime
manifestazioni di tipo carismatico (lingue, profezie, guarigioni) nella chiesa cattolica
contemporanea ebbero luogo proprio in Palermo, alla fine del 1947 e all’inizio del 1948,
venti anni prima che avvenissero in Duquesne, in America, nel 1967, anno che
comunemente segna la data di nascita del Movimento Carismatico Cattolico, adesso
diffuso in tutto il mondo.[…] Le manifestazioni coinvolsero molti fedeli che
gravitavano attorno alla chiesa di “Terrasanta” officiata dai Frati Minori. Il fenomeno
durò pochi mesi perché incontrò il duro intervento dell’autorità ecclesiastica del tempo,
Card. Ernesto Ruffini, che come risulta dal suo atteggiamento nel Concilio Vaticano II,
era contrario alle manifestazioni carismatiche”137.
Più tardi, continua il testo, con la formazione dei primi gruppi romani e in seguito ad
una massiccia opera di proselitismo condotta da diversi leaders, il movimento
“carismatico” ebbe nuova linfa e modo di svilupparsi anche in Sicilia.
Come negli Stati Uniti, anche in Italia l’interesse per il movimento da parte di
giornalisti, sociologi e teologi si concentra soprattutto nei suoi primi anni di vita,
stimolato dalla necessità di dare una collocazione definita del fenomeno all’interno della
Chiesa cattolica.
La sociologa Catucci è autrice, verso la fine degli anni Settanta, di alcuni
interessanti e dettagliati studi tra i primissimi sul movimento “carismatico” in Italia,
arricchiti da una larga partecipazione diretta alle attività di diversi gruppi di preghiera
romani.
Prevedibilmente le caratteristiche generali che la studiosa riscontra nei gruppi
romani presentano forti analogie con quelle rilevate da Fichter nello studio dei gruppi
americani. Come negli Stati Uniti i gruppi di preghiera hanno conosciuto un forte
sviluppo: già nel 1976 se ne contano oltre 150 in tutta Italia di cui sedici solo a
Roma138.
137
Da http://digilander.libero.it/cgesuliberatore/lnstoria/html
Catucci 1978: 354: “Dei sedici gruppi già noti, cinque sono in lingua straniera: due inglesi, il terzo
tedesco, il quarto spagnolo, il quinto francese. Di quelli in lingua italiana, cinque si riuniscono in istituti
religiosi e fanno capo, generalmente, al gruppo “Emmanuele”, il primo che si organizzò nella capitale; sei
operano invece direttamente nelle parrocchie con il beneplacito dei parroci e discendono dal gruppo
“Maria”, fondato per iniziativa di due leaders usciti da quello “Emmanuele””.
138
121
Come negli Stati Uniti, il movimento “carismatico” attecchisce in particolare tra i ceti
medi della popolazione, in quella fascia sociale composta prevalentemente da
insegnanti, studenti, alti funzionari, dirigenti d’azienda, commercianti, che è alla ricerca
di una riaffermazione del proprio status. Questa si realizza facendo ricorso al potere dei
carismi dello Spirito Santo, che è al di sopra di qualsiasi istituzione umana e viene
elargito liberamente, per grazia divina e non secondo una logica meritocratica:
“Il bisogno di evasione, di sicurezza, di protezione, di rivalutazione dei valori
individuali, ha così spinto numerose persone a promuovere un associazionismo in
piccoli gruppi, sia pure inseriti nella istituzione ecclesiastica e da essa tenacemente
controllati”139.
Come negli Stati Uniti, anche in Italia la diffusione in ambito cattolico di tematiche
legate al culto dello Spirito Santo e di forme di preghiera pentecostali, sebbene
incanalate prontamente a sostegno della Chiesa in crisi, dà luogo a delle ambiguità.
Ambiguità e riserve sono legate soprattutto al preteso “rinnovamento” predicato dai
“carismatici” che però si risolve nella proposta di una mistica evasionista che porta ad
un atteggiamento di chiusura, quando non ad una vera e propria avversione, nei
confronti della realtà sociale. Alla rinuncia ad operare attivamente nel sociale fa da eco
un conservatorismo che si riflette in un’organizzazione “verticistica, autoritaria e
paternalistica” il cui obiettivo consiste nel ridare credibilità ad una Chiesa in crisi
d’identità140. Anche la supposta spontaneità delle forme di aggregazione è in realtà il
frutto di un’azione ben programmata; scrive infatti Catucci:
“I gruppi di preghiera romani si dicono spontanei. In realtà essi sono il risultato di un
forte proselitismo all’interno e all’esterno e di norme ben precise che impegnano il
carismatico a frequentare assiduamente la preghiera, ad imparare canti nuovi, ad
139
Catucci 1978: 345-346
“I carismatici si dichiarano al diretto servizio della chiesa istituzionale, vagheggiandone anzi un suo
rafforzamento ad opera dello Spirito Santo; ripropongono modelli di vita religiosa di tipo medievale,
basati sui carismi della profezia, della guarigione, del parlare in lingue; credono in un ritorno imminente
di Cristo e sono convinti che ci si possa salvare soltanto attraverso lo Spirito Santo; divulgano una
ideologia di tipo “apostolico”, misticheggiante e securizzante; riuniscono un grande numero di laici, di
suore e sacerdoti che dichiarano di aver finalmente risolto le loro crisi; si avvalgono delle moderne
tecniche di terapia psichica e di interazione fra i gruppi per risanare i mali che affliggono gli uomini sulla
terra e per far guadagnare loro il regno dei cieli; fondano la loro tessitura finanziaria su raduni, ritiri,
seminari a pagamento ai quali partecipano laici e religiosi; riconducono ad una religiosità di tipo popolare
alquanto singolare se si considera la provenienza sociale degli aderenti al movimento; vogliono chiamarsi
“rinnovamento”, mentre in realtà dichiarano di voler soltanto colmare il vuoto che angoscia la chiesa;
respingono ogni forma di vita intellettuale, in quanto si contentano di opporre la fede a qualsiasi attività
razionale; rifiutano ogni prospettiva storica, in quanto la vita del popolo di Dio è soltanto quella riferita
agli atti degli Apostoli; cancellano le preoccupazioni terrene attribuendo valore esclusivamente alla vita
che verrà dopo, nel regno di Dio; parlano di liberazione a livello individuale, da realizzarsi subito
attraverso un dialogo personale con Cristo; conservano un tenace legame alla madre-patria statunitense e
stretti rapporti con la Chiesa Evangelica Internazionale”. (Catucci 1978: 346-347)
140
122
occuparsi di determinati ministeri, ad essere presente anche in più gruppi, a frequentare
seminari e ritiri, ad abbonarsi alla rivista e a farne regalo agli amici, a dare prova
dell’avvenuta conversione in famiglia, nel posto di lavoro, durante la vita
quotidiana”141.
Sviluppo del movimento: organismi, strutture, separazioni
Finora abbiamo trattato il movimento “carismatico” cattolico come un’unica
realtà compatta, ed in effetti così è stato nei primissimi anni della sua espansione. Con il
progressivo aumento dei membri e la relativa istituzionalizzazione all’interno della
Chiesa, cominciarono a verificarsi delle scissioni che portarono alla formazione di
strutture organizzate che si riconoscevano comunque come “carismatiche” cattoliche ma
che intrapresero percorsi indipendenti le une dalle altre. In questo processo l’Italia si
rivelò terreno particolarmente fertile.
Il primo esempio di una divisione di un certo rilievo avviene in Italia
relativamente presto, già nel novembre del 1973, quando a Roma i coniugi Alfredo
Ancillotti e Jacqueline Dupuy si staccano dal gruppo Emmanuele e danno vita al gruppo
Maria che si espanse ben presto a macchia d'olio fino ad arrivare a ottantadue gruppi
sparsi in tutta Italia. Gli spazi a disposizione del gruppo si dimostrarono ben presto
insufficienti a contenere le centinaia di persone che affluivano il sabato pomeriggio per
la preghiera, provenienti da tutte le parti. Il gruppo si trasferì allora nella chiesa di S.
Ignazio, tenuta dai Gesuiti, dove si arrivò fino a circa duemila partecipanti. Nel volgere
di brevissimo tempo i Gesuiti presero la leadership del gruppo e, in seguito a
incomprensioni e contrasti interni riguardo al riconoscimento dell'importanza dei
carismi nella vita cristiana e al ruolo dei laici nel movimento, Jacqueline ed Alfredo
Ancillotti nel 1976 fondarono la Comunità Maria, andando a costituire un ramo
autonomo142. La comunità romana scelse come sede, per gli incontri settimanali di
141
Catucci 1978: 326
Durante la frequentazione dei gruppi di preghiera romani, Catucci ha avuto modo di incontrare
personalmente i coniugi Ancillotti ai tempi del loro distacco dal gruppo Maria. Al termine di un’intervista
riguardante la loro attività di leaders “carismatici” riporta le seguenti, interessanti, considerazioni:
“Quanto hanno detto i due leaders, ex guide del gruppo Maria del centro, non si distacca da quello che ho
ascoltato dagli altri carismatici. C’è da notare tuttavia qualche discordanza, qualche accento diverso che
ha poi finito con il procurare loro molte difficoltà. Essi hanno ad esempio parlato, anche se
marginalmente di una lettura non fondamentalistica delle scritture; di un carisma dei baraccati; hanno
rilevato perché i religiosi e i parroci generalmente vedano i carismatici con diffidenza; hanno attribuito
alla donna un posto importante, sia pure secondario. Tutti questi elementi hanno scatenato contro di loro
142
123
preghiera, l'antica chiesa di Sant'Angelo in Pescheria. La Comunità Maria di Roma
s'incontrò la prima volta il 13 novembre 1976:
“La Comunità Maria è nata nell’estate-autunno del 1976 da una particolare maturazione
dei doni dello Spirito nei cuori di alcuni laici e sacerdoti che, pur avendo scoperto e
sperimentato la propria vita carismatica nei vari gruppi già allora esistenti in Italia,
avvertivano l’esigenza di una più totale donazione e partecipazione comunitaria. […]
Dopo il travaglio della nascita, la comunità venne definitivamente alla luce con la
presentazione delle Linee Caratteristiche del 5 marzo 1982 ai Vescovi della diocesi in
cui si stava formando”143.
La comunità si definisce “cristocentrica”, “carismatica” e “mariana”144 ed ebbe modo di
diffondersi in varie città italiane, pubblicare il periodico bimestrale Risuscitò, mentre
nel settembre del 1977 si tenne il primo convegno nazionale, a Napoli. In seno alla
comunità cominciarono a nascere dissapori in seguito a divergenze sulla conduzione
della comunità stessa, alimentate da alcuni Padri Passionisti, che volevano porre dei
limiti all'originaria impronta laicale. Pertanto, dopo il convegno del 1987, svoltosi a San
Benedetto del Tronto, Paolo Serafini e Giampaolo Mollo - già responsabili nazionali
della Comunità Maria e diaconi permanenti della diocesi di Roma - le rispettive mogli,
Carmencita Leonardi e Anna Liberace, decisero di fondare, insieme ad Alfredo e
Jacqueline Ancillotti, la Comunità Gesù Risorto. Si racconta che il nome venne
“ispirato” nella preghiera, durante uno dei primi incontri dei circa trenta responsabili
della nuova comunità:
“Una delle caratteristiche fondamentali della Comunità Gesù Risorto fu, fin dall'inizio,
quella di essere strettamente legata al vescovo diocesano e alla parrocchia nella quale
viene a radicarsi. Il suo carisma fondante è quello di vivere e annunciare la presenza di
Cristo risorto in mezzo al suo popolo. La sua missione si svolge soprattutto nell'ambito
della parrocchia e della famiglia (non è un caso che la Comunità viene fondata da tre
coppie di sposi) oltre che nei luoghi di lavoro, attraverso le comunità ambientali”145.
sospetti e gelosie. Il dichiarare che la donna ha il compito di curare la spiritualità del mondo; il porsi al
servizio diretto e assoluto della chiesa; l’accennare al carisma “intellettuale”; l’essere convinti di poter
fare presto, anzi subito, cose straordinarie per mezzo dello Spirito Santo, non appaiono certo sinonimi di
rinnovamento: ma sono bastate poche note vagamente diverse per distinguere i due leaders e creare
intorno ad essi barriere e sottili minacce, fino a rendere impossibile la loro permanenza nei gruppi. Ciò
potrebbe rivelare ancora una volta le reali intenzioni dei carismatici, il loro integrismo, il loro
tradizionalismo. Le stesse persone che durante le preghiere e le effusioni usano i carismi più discutibili,
profetizzano e fanno guarigioni imponendo le mani sul capo della persona in difficoltà, pronunciano
parole senza senso allo scopo di creare un rito magico e suggestivo, si sono servite di questi stessi aspetti
della preghiera carismatica per accusare i due leaders di profetizzare troppo, di guarire troppo, ma
soprattutto di non attenersi ad una rigorose lettura dei testi sacri, di non essere ligi alle norme dei gruppi e
all’ortodossia della chiesa”. Catucci 1978: 390-391
143
Comitato di Servizio, a cura di, 2004: 2-3
144
Comitato di Servizio, a cura di, 2004: 4-6
145
Tratto da www.gesurisorto.it
124
La Comunità Maria e la Comunità Gesù Risorto rappresentano ancora oggi, all’interno
del movimento “carismatico” cattolico, due tra le associazioni meglio organizzate e
strutturate, nonché più ampiamente diffuse nel nostro paese. Dal sito web ufficiale della
comunità146 veniamo a sapere che la Comunità Maria conta oggi gruppi di preghiera in
Calabria, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana,
Umbria, Veneto; due gruppi in Spagna, entrambi a Barcellona; uno addirittura in
Eritrea, ad Asmara. Sempre sul sito si trovano pubblicate diverse testimonianze di fedeli
appartenenti alla comunità che solitamente parlano della propria personale conversione
ed elencano i benefici che l’azione di Dio ha arrecato nella loro vita; vengono raccolte
preghiere e intenzioni; vengono proposti i canti della comunità di cui si possono
scaricare i testi o gli mp3; si trovano le date dei vari raduni della comunità, regionali o
nazionali, vengono proposti convegni e seminari: in particolare la Comunità Maria
propone un “Seminario di effusione dello Spirito Santo” della durata di dodici
settimane, in cui il fedele viene fornito di uno speciale sussidio per prepararsi alla futura
vita “carismatica” e alla esperienza fondamentale del “battesimo nello Spirito”.
Particolarità della Comunità Maria sono un “atto di consacrazione a Maria” che il
fedele deve compiere e in cui ribadisce il proprio totale abbandono alla figura della
madre di Cristo, e la “preghiera delle 12” che prevede che i membri della comunità si
trovino ogni giorno a mezzogiorno per pregare e invocare lo Spirito a seconda delle
necessità.
La Comunità Gesù Risorto è più diffusa in Italia anche se, oltre ad essere
presente nei centri urbani più sviluppati come Roma, Milano, Torino, Napoli, Trieste,
Bari, si concentra maggiormente nelle cittadine di provincia di Puglia, Sicilia e
Campania. La comunità è presente anche all’estero con un gruppo di preghiera
rispettivamente in Bolivia, Germania e Stati Uniti, quattro in Croazia e nove in
Colombia. Come per la Comunità Maria, anche il sito web ufficiale della Comunità
Gesù Risorto raccoglie testimonianze dei fedeli, una selezione di canti, preghiere e
intenzioni, date di convegni e seminari. La comunità pubblica una rivista trimestrale,
Gesù Risorto, e accompagna la propria azione evangelizzatrice con la diffusione di
musicassette e cd, recital e spettacoli. Per quanto riguarda l’educazione sessuale viene
proposto il metodo Billings, metodo naturale di regolazione delle nascite147.
La Comunità Maria e la Comunità Gesù Risorto non sono le uniche realtà
“carismatiche” strutturatesi in maniera indipendente le une dalle altre. Nel corso di oltre
146
147
www.comunitamaria.net
Cfr. il sito web ufficiale della comunità all’indirizzo www.gesurisorto.it
125
vent’anni ne sono nate una sessantina che mantengono una certa autonomia, hanno i
propri responsabili e molte hanno ricevuto l’approvazione dei loro statuti, contribuendo
così alla formazione di una
“realtà comunitaria frantumata, un privato allargato, un insieme di gruppi micro-sociali,
con una forte spinta all’esperienzialità e al mondo emozionale”148.
Esse sono definite “Comunità di Alleanza” e generalmente sono nate grazie all’impegno
di laici privati; la loro diffusione e azione rimane comunque limitata a livello locale.
Vale la pena ricordarne quattro, più facilmente rintracciabili sul web: la Comunità
Magnificat, fondata a Perugia nel 1978, la Comunità Shalom, nata a Trento nel 1979, la
Comunità di Gesù, Bari, 1983 e la Comunità Gesù Ama, sorta a Roma nel 1992.
L’organizzazione “carismatica” cattolica meglio strutturata, diffusa e conosciuta
rimane comunque il Rinnovamento nello Spirito (RnS), ed è quella a cui noi faremo
maggiormente riferimento. La storia del RnS ha inizio nell’aprile del 1977, a Milano
Marittima, in occasione della prima conferenza nazionale dei responsabili dei gruppi
italiani, che si tenne con lo scopo di creare un organismo in grado di coordinare le varie
realtà “carismatiche” del territorio che prenderà il nome di Comitato Nazionale di
Servizio (CNS). Durante il convegno alcuni leaders e teologi sostennero la necessità di
dare al movimento “carismatico” una identità nazionale: nacque così il primo nucleo
dell’organizzazione RnS. L'istituzione di un Comitato Nazionale di Servizio in ogni
nazione venne proposta dall'ICO (International Communications Office), organismo
nato nel 1973 su iniziativa di Ralph Martin con l’intenzione di promuovere il
movimento “carismatico” nel mondo. Esso aveva il compito di mantenere i contatti fra i
leaders e di fare da tramite fra il movimento “carismatico” e la Santa Sede, tenendola
costantemente al corrente dell'attività delle diverse comunità. L’ICO ebbe un ruolo
fondamentale nell’organizzazione del III Congresso Internazionale dei “carismatici” nel
maggio del 1975 a Roma, alle catacombe di San Callisto. In quei giorni affluirono nella
capitale oltre diecimila “carismatici” che il giorno di Pentecoste furono ricevuti dal papa
Paolo VI. Grazie all’eco che l’avvenimento ebbe sulla stampa il movimento venne
conosciuto anche dal grande pubblico. Nel 1978 fu proprio Paolo VI che favorì la
costituzione di questo ufficio di coordinamento internazionale che mutò il proprio nome
in ICCRO (International Catholic Charismatic Renewal Office), nominando quale
proprio rappresentante il Card. Léon Joseph Suenens, già arcivescovo di Bruxelles e
148
Maino 2004: 123-125
126
moderatore al Concilio Vaticano II149. A lui subentrò, nel maggio 1984, mons. Paul J.
Cordes. L’ICCRO cambiò in seguito il nome in ICCRS (International Catholic
Charismatic Renewal Services) e nel 1993 il Pontificio Consiglio per i laici lo riconobbe
ufficialmente come organismo di promozione del movimento “carismatico”
approvandone gli statuti150. Attualmente l’ICCRS ha sede a Roma e si occupa
prevalentemente di mantenere e gestire i rapporti tra le varie comunità “carismatiche”
sparse nel mondo e tra queste e la Santa Sede. Nel fare ciò pubblica un Notiziario
bimestrale in Italiano, Inglese, Francese, Spagnolo, Tedesco e Portoghese che contiene
novità, testimonianze ed eventi da tutti i paesi; inoltre organizza regolarmente
conferenze internazionali per i responsabili dei gruppi e ne supporta economicamente le
attività.
Il RnS oggi è diffuso in tutte le regioni d’Italia e conta gruppi di preghiera anche
in Svizzera Germania, Australia e Canada. Fonti interne al movimento forniscono per il
2004 i seguenti dati: 1503 gruppi riconosciuti, 225 gruppi in formazione, 64 gruppi
assistiti, per un totale di 1864 gruppi che gravitano attorno al RnS151. Il nome del
gruppo è stato mutuato da un passo della lettera di Paolo a Tito (Tt 3, 4-7):
“Ma quando si manifestò la benignità e l’amore degli uomini del salvatore nostro Dio,
non da opere che facemmo noi in giustizia ma conforme alla sua misericordia, ci salvò
mediante un lavacro di rigenerazione e rinnovazione di Spirito Santo, che egli effuse su
noi doviziosamente mediante Gesù Cristo salvatore nostro, affinché, giustificati per la
sua grazia, divenissimo eredi, secondo speranza di vita eterna”.
Anche nel sito web ufficiale del RnS152 trovano ampio spazio testimonianze e preghiere
dei fedeli, testi e mp3 dei canti, articoli tratti dalle due riviste pubblicate, Rinnovamento
nello Spirito e Venite e Vedrete, date di seminari, incontri, convegni, oltre a una breve
storia del movimento, la pubblicazione dello statuto e di documenti riguardanti i
rapporti con i membri della gerarchia ecclesiastica. Oltre a proporre le consuete
tematiche “carismatiche” con relative liturgie, l’opera evangelizzatrice del RnS si
avvale della collaborazione di progetti paralleli costituiti con lo scopo di raggiungere il
più largo numero di persone possibile: il progetto Colonna di Fuoco si occupa di
149
A proposito del card. Suenens Catucci scrive: “Uno dei protettori dei neo-pentecostali europei è il
cardinale L.J.Suenens il quale ha scritto un volume dedicato al loro movimento ed ha presenziato a molte
riunioni sia in Europa che fuori. Qualcuno ha fatto osservare che, costretto a far rientrare con diplomazia
le posizioni progressiste espresse al concilio, Suenens – il quale amerebbe i ruoli vistosi – avrebbe trovato
proprio nel movimento carismatico una nuova occasione per tornare alla ribalta.” (Catucci 1978: 324)
150
Maino 2004: 126-127. Cfr inoltre il sito web ufficiale dell’ICCRS all’indirizzo www.iccrs.org e il sito
web www.gesurisorto.it
151
I dati sono ricavati da Associazione RnS 2004b: 16
152
www.rns-italia.it
127
proporre spettacoli itineranti da portare nelle piazze, nei teatri, negli stadi delle città,
mentre la cooperativa Servizi RnS gestisce l’aspetto logistico dell’organizzazione degli
stessi e dei vari raduni del movimento. La cooperativa VocePiù si occupa della
realizzazione e diffusione di materiale divulgativo, specialmente audio e video cassette;
Telefono Preghiera offre invece assistenza “a chi si sente triste e debole nella
preghiera”.
Il RnS si presenta oggi come Associazione privata di fedeli con sede in Roma,
ed ha un proprio regolamento e un proprio statuto, approvato in via definitiva dalla
Conferenza Episcopale Italiana il 14 marzo 2002. Con questo provvedimento il RnS da
“movimento spirituale” o “corrente di grazia” diventa “movimento ecclesiale”,
completando così il suo cammino verso la progressiva istituzionalizzazione e
regolamentazione del carisma, abolendo di fatto ogni pretesa di spontaneità. Si legge
infatti nel regolamento:
“L’esperienza spirituale dell’effusione dello Spirito Santo comporta una radicale
conversione e pone tutta la vita sotto la guida dello Spirito Santo e la signoria di Cristo.
Tutte le componenti della vita cristiana acquistano gradualmente il loro valore e
prendono il loro posto: la conformazione a Cristo e la ricerca della santità attraverso
l’obbedienza alla parola di Dio, la partecipazione ai sacramenti (specialmente Eucaristia
e Riconciliazione), la preghiera personale e liturgica, la comunione fraterna, l’impegno
per l’evangelizzazione, i carismi e i “ministeri di fatto”, i rapporti intraecclesiali, ecc.
Tutte queste potenzialità spirituali si possono sviluppare solo partecipando alla vita di
un Gruppo o di una Comunità, in cui si può trovare la cura pastorale, l’opportuna
formazione spirituale e il sostegno per un equilibrato esercizio dei carismi e
dell’impegno ministeriale. L’esperienza ha dimostrato che il percorso del Seminario in
preparazione alla preghiera per una rinnovata effusione dello Spirito Santo è necessario
per tutti, anche per coloro che hanno già una buona formazione dottrinale (come i
sacerdoti, i religiosi e le religiose). Non si tratta, infatti, di acquisire soltanto una
conoscenza intellettuale, pur indispensabile, ma di essere aiutati a far entrare le verità di
fede nell’esperienza e nel vissuto mediante l’azione dello Spirito Santo.”153
“Carismatico” dunque può dirsi solo chi, dopo aver frequentato un apposito seminario,
abbia ricevuto il “battesimo nello Spirito” mediante “l’intercessione di un gruppo di
fratelli/sorelle anziani del Rinnovamento” e abbia partecipato attivamente da almeno un
anno alle attività dell’Associazione. Il RnS propone infatti un grande numero di
incontri, convegni e seminari che intendono rivolgersi al più ampio numero di persone
possibile. Si va dall’annuale Convocazione Nazionale di Rimini rivolta a tutti gli
appartenenti e simpatizzanti, a proposte più mirate come campeggi per giovani, vere e
proprie scuole per gli animatori dei gruppi, seminari di vita “carismatica”, di
153
Associazione RnS 2004a: 48-49
128
metodologie per l’evangelizzazione sia per adulti che per bambini e ragazzi, incontri di
orientamento per fidanzati, coppie di sposi, fino ad arrivare al Progetto Cartafraterna,
una vera e propria tessera sociale la cui sottoscrizione offre uno sconto sulle quote di
iscrizione ai vari corsi e con cui
“non solo ci si sente più partecipi del dono della comunione spirituale, ma si favorisce
concretamente la vita organizzativa, formativa e missionaria.”154
Il movimento “carismatico” cattolico viene presentato sia dai suoi membri sia, in
generale, dalla gerarchia cattolica come “un avvenimento, un happening”155 che si è
svolto e continua a svolgersi grazie alla spontanea forza creatrice dello Spirito Santo,
per cui non sarebbe possibile riconoscervi uno o più fondatori né legami con altri
movimenti che non siano riconducibili appunto all’azione dello Spirito. Tuttavia,
ricostruendone le dinamiche storiche dello sviluppo possiamo notare chiaramente come
si sia andati via via seguendo la strada di una regolamentazione e di una successiva
rigida strutturazione di un movimento inizialmente caratterizzato da una certa
spontaneità ed indipendenza.
Tale avanzato processo di strutturazione risulta evidente se si prende in
considerazione una delle registrazioni video prodotte dal RnS stesso e riguardanti in
particolare l’annuale convocazione nazionale del movimento che si tiene a Rimini156.
Di fronte ad una platea gremita è allestito un palco dove trova spazio una
orchestra al gran completo e coreografie realizzate con versetti biblici e una grande
colomba rossa stilizzata, simbolo cristiano della discesa dello Spirito Santo. I ritmi delle
giornate sono ben scanditi, sul palco si avvicendano di volta in volta leaders nazionali
del movimento che guidano le riunioni: laici come Salvatore Martinez, attuale
coordinatore nazionale, e sacerdoti come don Dino Foglio, consigliere spirituale
nazionale. Solitamente si inizia con una “preghiera comunitaria carismatica” in cui i
presenti invocano la discesa dello Spirito Santo e durante la quale si può assistere alla
“preghiera in lingue”; successivamente c’è spazio dedicato ai leaders in cui vengono
presentate della relazioni sulla situazione del movimento, si riportano i saluti del
pontefice, vengono proposti spunti di riflessione a partire dai testi biblici o esempi di
laici virtuosi. Si continua con delle testimonianze di fedeli che raccontano la loro
esperienza di conversione dovuta all’azione dello Spirito: a questo proposito è da
154
Associazione RnS 2004b: 25-106
AAVV 1982: 99
156
Il documento video che ho avuto modo di prendere in esame riguarda la XXVII Convocazione
Nazionale dei Gruppi e delle Comunità del RnS, svoltasi a Rimini dal 29 aprile al 2 maggio 2004
155
129
segnalare la presenza, nel video in questione, di Claudia Koll, ex soubrette e popolare
personaggio televisivo che viene appositamente chiamata sul palco a testimoniare. C’è
l’occasione, infine, di poter assistere al “ministero di preghiera per la liberazione”
presieduto dal sacerdote indiano Rufus Pereira, vice-presidente internazionale degli
esorcisti, e al “ministero di preghiera per la guarigione”, con il frate francescano Matteo
La Grua, carismatico di vecchia data. Ogni giornata si conclude con una celebrazione
eucaristica officiata da alti prelati come i cardinali Salvatore de Giorgi, arcivescovo di
Palermo, Giovanni Battista Re, Ennio Antonelli, vescovo di Firenze.
È proprio la consistente presenza di vari leaders, che gestiscono in maniera
decisa l’evento, che conferma i dubbi sulla pretesa spontaneità del movimento. D’altra
parte l’altrettanto consistente presenza di membri della gerarchia cattolica, anche di alto
grado, solleva una questione che da sempre accompagna lo sviluppo del fenomeno
carismatico e, più in generale, di quei movimenti di matrice cristiana che rivendicano
una certa autonomia, ed è la questione delicata ma importantissima che riguarda i
rapporti con il potere centrale e centralizzatore del Vaticano.
I “carismatici” e la Chiesa
Fin dalla prima diffusione del movimento “carismatico” cattolico si assiste ad un
atteggiamento ambivalente da parte dei membri della gerarchia. Mentre da una parte
essi lodano la formazione di queste nuove forme di aggregazione che pretendono di
essere riconosciuti dalla Chiesa cattolica come riscopritori della sua dimensione
“carismatica”, dall’altra mettono in evidenza e criticano duramente le possibili
deviazioni a cui proprio questa riscoperta può dare luogo, invitando i movimenti a fare
continuo riferimento alle direttive dell’autorità ecclesiastica.
In un comunicato ufficiale del 28 aprile 1975, i vescovi canadesi denunciano il
pericolo dell’emozionalismo derivante da una eccessiva pretesa miracolistica,
l’interpretazione letterale delle Scritture, la scarsa preparazione teologica che ne deriva,
la tendenza dei gruppi di preghiera a chiudersi in sé stessi, il rischio di un ecumenismo
edulcorato157. Nel documento ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, datato 2
157
Falvo 1977: 228-245
130
febbraio 1996, in cui si annuncia la prima approvazione ad experimentum dello statuto
dell’associazione RnS, si mettono particolarmente in evidenza i seguenti punti:
a) in ogni Diocesi fare riferimento al Vescovo, secondo le esigenze della
comunione ecclesiale;
b) negli itinerari formativi sintonizzarsi con le indicazioni pastorali della
Conferenza Episcopale Italiana;
c) osservare fedelmente le norme liturgiche ed evitare comportamenti inclini al
sensazionalismo e al miracolismo;
d) promuovere una spiritualità ed una testimonianza cristiana feconde anche nella
vita sociale158.
Nel maggio 1998 invece, Giovanni Paolo II si rivolge così ai partecipanti al congresso
mondiale dei movimenti ecclesiali tenutosi in San Pietro:
“L’originalità propria del carisma che dà vita a un movimento non pretende, né lo
potrebbe, di aggiungere alcunché alla ricchezza del depositum fidei, custodito dalla
Chiesa con appassionata fedeltà. […] Come custodire e garantire l’autenticità del
carisma? È fondamentale, al riguardo, che ogni movimento si sottoponga al
discernimento dell’Autorità ecclesiastica competente. Per questo nessun carisma
dispensa dal riferimento e dalla sottomissione ai Pastori della Chiesa. […] Nella
formazione cristiana curata dai movimenti non manchi mai l’elemento di questa
fiduciosa obbedienza ai Vescovi, successori degli Apostoli, in comunione con il
Successore di Pietro”159.
Se da una parte la gerarchia cattolica riconosce ufficialmente gli statuti associativi del
RnS e di movimenti analoghi, legittimandone una certa autonomia, dall’altra non perde
occasione per ribadire altrettanto ufficialmente la necessità di una loro sottomissione al
dogma pontificio. Nei rapporti tra i “carismatici” e il potere centrale della Chiesa si
ripropone dunque, in una certa misura, quell’atteggiamento ambiguo che si ritrova
espresso nelle lettere paoline tra l’apostolo delle genti e la comunità cristiana di Corinto.
Anche in quel caso infatti, le pratiche “carismatiche” erano da una parte sollecitate,
dall’altra sottoposte ad una rigida regolamentazione.
All’interno della struttura della Chiesa cattolica il RnS occupa una posizione
particolare assieme ad altri movimenti più o meno conosciuti che vengono etichettati
come “movimenti ecclesiali”. È importante sottolineare come tali movimenti siano nati
grazie all’iniziativa di laici a da laici siano essenzialmente composti: i movimenti
ecclesiali sono dunque l’espressione di esigenze provenienti “dal basso”, esterne alla
gerarchia ecclesiastica, miranti a riempire il vuoto creatosi con la crisi delle tradizionali
158
Associazione RnS 2004a: 10
Dal Discorso del Santo Padre ai partecipanti al congresso mondiale dei movimenti ecclesiali, tratto
dal sito web www.laici.org
159
131
realtà associative cattoliche160. In secondo luogo i movimenti ecclesiali sono
originariamente caratterizzati da una forte spontaneità, fondata su un’evangelizzazione
del “passa parola”. Terzo, si fanno portatori di insegnamenti dottrinali e pratiche
liturgiche spesso estranee alla tradizione cattolica e mutuate da un certo tipo di
protestantesimo: essi portano l’attenzione sulla possibilità di avere un’esperienza diretta
di Dio, un “profondo coinvolgimento emotivo che ridefinisce gli schemi di riferimento
abituali di una persona inducendola a convertirsi”; a questa centralità dell’individuo si
affianca la centralità del testo scritto, della Bibbia “come testo inerrante e fonte di
certezze per la vita”, che viene continuamente letto e interpretato alla luce della propria
esperienza personale161; su queste basi si innesta una particolare pratica cultuale
incentrata sulla figura dello Spirito Santo e improntata su un forte entusiasmo in cui
grande importanza viene data al canto e ai movimenti del corpo, corpo che diventa
veicolo privilegiato dello Spirito che ispira le azioni del fedele.
I movimenti ecclesiali si sono incontrati la prima volta “per uno scambio di
riflessioni e di esperienze” al Congresso internazionale tenutosi a Roma dal 24 al 27
settembre 1981, una seconda volta a Rocca di Papa (Roma) dal 28 febbraio al 4 marzo
1987, e una terza a Bratislava dall’1 al 4 aprile 1999. In occasione della Pentecoste del
1998 è stata la stessa Santa Sede a proporre a Roma il Congresso mondiale dei
movimenti ecclesiali e delle Nuove Comunità: se ne contarono 56162. Tra di essi, oltre al
RnS e ai Cursillos de Cristianidad, vanno inserite realtà associative come il Cammino
Neocatecumenale, fondato alla fine degli anni Sessanta dallo spagnolo Kiko Arguello
dopo che ebbe vissuto per tre anni nella baraccopoli madrilena di Palomeras Altas. Le
comunità neocatecumenali propongono un percorso di formazione basato su un vero e
proprio catechismo alternativo, che tuttora non smette di sollevare dubbi e perplessità
sulla propria ortodossia; sono oggi più di dodicimila suddivise tra 1600 parrocchie, 390
diocesi in più di 80 nazioni; il controverso Opus Dei, riconosciuto la prima volta nel
160
“La mutazione antropologica investe con lo status sociale, la morale corrente: dalla scuola che decolla
anche ai livelli superiori verso indici di massa, ai mass media che – specialmente la tv – cambiano le
abitudini, i gusti e i costumi degli italiani, alle maggiori opportunità di incontri inter-sessuali, molte sono
le possibili “distrazioni”, specialmente per i giovani, dal vecchio mondo dell’associazione e dell’oratorio,
ove vigeva l’apartheid sessuale. Il “mondo” pare ormai offrire più opportunità in termini di esperienze,
formazione, svago, di un ambiente cattolico che continua a vivere con modelli improvvisamente – quanto
meno agli occhi di molti – superati e svuotati. La crisi del tradizionale mondo cattolico, che in poco
tempo – per citare due soli esempi – dimezza gli iscritti di Azione cattolica e ACLI, ha queste precise
origini “mondane”: l’onda schiumosa della secolarizzazione avviluppa la società italiana con i ritmi della
rivoluzione tecnologica, della secolarizzazione di massa e dello sfrenamento consumistico.” (AAVV
1981: 428-429)
161
Pace 1993: 363-364
162
Maino 2004: 102
132
1941, che si preoccupa di costruire proprie università in cui “formare persone che siano
nei posti chiave dell’economia, della finanza, del potere politico e che, proprio in forza
delle posizioni occupate, possano meglio e più concretamente assicurare la riconquista
cristiana del mondo”163; l’Opera di Maria, meglio conosciuta come Movimento dei
Focolari, nato a Trento sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale, per
iniziativa di un gruppo di ragazze capitanate da Chiara Lubich. Nel 2003 risulta presente
in 182 paesi con 141.280 membri appartenenti. Aderenti e simpatizzanti si stimano
essere più di due milioni, di cui oltre 50.000 di 350 Chiese e comunità ecclesiali; oltre
30.000 di varie religioni, tra cui ebrei, musulmani, buddisti, induisti, taoisti; oltre
100.000 considerati “amici di convinzioni diverse”. Nel complesso presenta una
composizione molto varia, ne fanno parte infatti sia giovani che famiglie, religiosi e
religiose di parecchie congregazioni, sacerdoti e vescovi. Il “carisma” dei focolarini
consiste principalmente nella vita comunitaria con la fondazione delle Mariapoli (città
di Maria) presenti in 46 nazioni, notevole è anche la presenza del movimento in campo
editoriale con la casa editrice Città Nuova che pubblica, tra l’altro, ben tre riviste: Città
Nuova, Nuova Umanità e Gen’s164. Sono da considerarsi ecclesiali anche movimenti
come Comunione e Liberazione, la Comunità di Sant’Egidio, la Communautè de
l’Arche, la Communautè de l’Emmanuel, il Movimento “Chiesa-Mondo”, la Legione di
Maria, l’Opera di Schoenstatt, i movimenti Chiesa Viva, Luce e Vita, Acqua Viva.
Per poter essere ecclesiale, un movimento deve soddisfare determinati criteri che
sono oggi così definiti:
“1) La presenza di un carisma, cioè di un dono dato liberamente dallo Spirito Santo per
il bene di tutta la Chiesa: carisma consistente in un modo originale di comprendere
qualche aspetto della rivelazione cristiana o di porvi una forte accentuazione e in una
forma originale di vivere il Vangelo. Un carisma non può mai essere “fuori” della
Tradizione cristiana, garantita dal Papa e dai vescovi in comunione con lui, né mai
essere “fuori” del Vangelo, poiché lo Spirito Santo è lo Spirito di Gesù e ha lo scopo di
conformare i cristiani a Cristo e di farli vivere dei suoi insegnamenti contenuti nel
Vangelo. Scopo del carisma è il bene della Chiesa, il suo rinnovamento e la sua crescita
nella fede e nella carità.
2) La presenza di una persona a cui il carisma è stato dato e che diviene fondatore di un
movimento ecclesiale in quanto esercita una misteriosa attrattiva su altre persone che si
lasciano coinvolgere nella sua esperienza spirituale e formano una particolare comunità.
3) La struttura prevalentemente laicale del movimento e la sua apertura a tutte le
vocazioni presenti nella Chiesa, per cui possono farne parte persone di ogni età e di ogni
condizione, persone sposate, sacerdoti e religiosi: in tal senso il movimento è ecclesiale,
e quindi una “forma di autorealizzazione e un riflesso dell’unica Chiesa”.
163
164
Pace 1993: 372-374 e 391-400
De Rosa 2005: 211-212
133
4) La presenza di un itinerario di fede e di testimonianza cristiana, per cui ogni
movimento ecclesiale ha l’obbligo di offrire ai suoi aderenti un itinerario che li conduca
alla maturazione della fede, che deve divenire consapevole, personale e adulta, e alla
capacità di essere testimoni della fede nel loro ambiente familiare e professionale e nella
loro vita pubblica. Questo itinerario di fede e di testimonianza si ispira al carisma del
movimento, in quanto fonda su di esso il proprio metodo pedagogico-spirituale.
5) Il riconoscimento dell’autorità ecclesiastica, locale, se si tratta di un movimento che
vive e opera in ambito diocesano, del Pontificio Consiglio dei Laici, se si tratta di un
movimento diffuso o tendente a diffondersi a livello della Chiesa universale. Per
riconoscere l’ecclesialità del carisma e quindi del movimento, l’autorità ecclesiastica
dovrà far ricorso ai “criteri di ecclesialità” delle aggregazioni laicali, indicati dalla
Christifideles laici. Essi sono:
a) il primato dato alla vocazione di ogni cristiano alla santità.
b) la responsabilità di confessare la fede cattolica.
c) la testimonianza di una comunione salda e convinta con il Papa e con i vescovi.
d) la conformità e la partecipazione al fine apostolico della Chiesa.”165
Questa istituzionalizzazione del “carisma” dei movimenti ecclesiali è il frutto di un
lungo e costante processo messo in atto dai rappresentanti della gerarchia cattolica per
riportare all’ordine i possibili focolai devianti dall’ortodossia. La preoccupazione
maggiore riguardante queste realtà associative è infatti quella che esse possano isolarsi e
costituire una “chiesa nella chiesa” 166.
Per evitare possibili fratture, il ruolo dei movimenti ecclesiali viene integrato
all’interno della storia della Chiesa in una presunta continuità con quanto fatto dagli
165
AAVV 2001: 442-444. Confronta inoltre De Rosa 2004: 528-530
De Rosa 2004: 532-536. Confronta inoltre AAVV 2001: 450-451. E’ interessante a questo proposito
segnalare l’articolo Neocatecumenali. Diario esclusivo di una messa con battesimo, tratto dal sito web
www.chiesa.espressonline.it. L’autore dell’articolo, che ha preferito rimanere anonimo, è stato invitato
dai genitori neocatecumenali di un neonato a partecipare al suo battesimo nella comunità di appartenenza
della coppia. Il sacramento è stato celebrato la sera di una vigilia di Pentecoste, assieme alla messa, in un
locale annesso a un’importante chiesa del centro di Roma. Dopo aver minuziosamente descritto la
cerimonia a cui ha assistito, l’autore riporta le proprie impressioni che, seppur personali e opinabili,
contribuiscono senz’altro ad arricchire la riflessione critica sul fenomeno dei movimenti ecclesiali: “La
mia sensazione è stata quella di assistere a un cerimoniale di iniziazione. Dove però l’iniziato principale
non era l’ignaro bambino ma, per mezzo suo, la comunità. Dove la prova era una sorta di sfida lanciata al
mondo esterno e alla mentalità dei moderni “faraoni”. Noi siamo diversi! Noi siamo i salvati! Anche a
prezzo di dolore! Curiosamente, nell’arco dell’intera veglia, il culmine dell’esaltazione e del canto urlato
è stato raggiunto proprio dopo il triplice tuffo del bambino, che a sua volta – comprensibilmente –
strillava a più non posso. Insomma, assistendo a questo battesimo, mi son fatto l’opinione che il fine della
gran parte dei presenti non fosse tanto quello di far rinascere il bambino nella Chiesa, ma di annetterlo a
quella particolarissima, autoreferenziale chiesuola che è la setta di Kiko”. È altresì interessante riportare
un episodio che riguarda più direttamente il RnS, occorso in Francia con la pubblicazione del libro di
Baffoy-Delestre-Sauzet, Les naufragés de l’Esprit. Des sectes dans l’Eglise catholique, Seuil, Paris 1996.
Autori di questo libro sono degli ex appartenenti a dei gruppi francesi del RnS che denunciano le
comunità di cui erano membri come delle vere e proprie sette in cui si farebbe uso di tecniche di lavaggio
del cervello volte a plasmare la volontà dei fedeli. Questo episodio si inseriva in un periodo di particolare
attenzione nei confronti dei movimenti religiosi, dopo la pubblicazione nel gennaio 1996 del documento
Le sette in Francia, stilato da una commissione parlamentare che includeva in una lista di 172 “sette
pericolose” alcuni movimenti di ispirazione cattolica. (confronta l’articolo di Introvigne, I naufraghi del
buon senso, tratto dal sito web www.cesnur.org)
166
134
ordini monastici nel Medioevo e dalle Congregazioni post-tridentine, seguendo la logica
per cui
“tutta la storia della Chiesa, particolarmente nei suoi momenti di declino e di crisi
spirituale e apostolica, è attraversata da una corrente “carismatica” che ha investito
uomini e donne, dotandoli di carismi appropriati alle diverse situazioni drammatiche, in
forza dei quali hanno raccolto attorno a sé persone di ogni genere che hanno
potentemente contribuito a rinnovare la Chiesa e a darle nuovo slancio spirituale e
apostolico”167.
In realtà i movimenti ecclesiali sono l’espressione della crisi di potere che la Chiesa si
trova ad affrontare nel XX secolo. Contemporaneamente come effetto e come causa di
questa crisi, possiamo considerare la convocazione del concilio Vaticano II da parte del
pontefice Giovanni XXIII nell’ottobre 1962.
Esso venne inaugurato negli anni in cui era avvertita l’urgenza di lasciarsi alle
spalle trent’anni di guerre, gli stenti della ricostruzione, i totalitarismi macchiatisi di
crimini orrendi; si consolidava la tensione della guerra fredda e della minaccia nucleare.
Erano anche gli anni della “nuova frontiera” kennedyana, della destalinizzazione, del
benessere economico sempre più facile da raggiungere – almeno in occidente - , alla
vigilia della conquista dello spazio; un momento, cioè, in cui la percezione del mondo
da parte dei suoi abitanti stava modificandosi radicalmente168. Anche la Chiesa
attraversava un periodo nuovo, mai vissuto in precedenza. Il mondo cattolico si
presentava ora assai eterogeneo. Infatti, accanto alle tradizionali oligarchie europee di
italiani, francesi e spagnoli, la sua gerarchia si componeva anche di una sempre più
massiccia presenza di nord e sud americani, di africani e di asiatici rappresentati da
centinaia di milioni di cattolici generati dal colonialismo europeo. Al cattolicesimo
occorreva, dunque, un repentino aggiornamento.
Dal concilio di Trento, indetto nel Cinquecento per sancire la rottura definitiva
con i protestanti, la Chiesa non era più ricorsa alla pratica conciliare per ben tre secoli.
Quello di Trento non fu un concilio di apertura, convocato per riunire i vertici della
Chiesa e discutere in materia di fede. Fu un concilio di chiusura, di chiamata a raccolta
di tutta la gerarchia cattolica in difesa del proprio primato minacciato. Da quel momento
il papa era diventato una sorta di monarca assoluto, e la Chiesa si era impossessata del
ruolo di unico depositario della verità divina, rimanendo irremovibile nella sua
intransigenza. Tre secoli dopo, nel 1870, in concomitanza con un nuovo pericolo per
167
168
AAVV 2001: 448
Viola 2000: 411
135
l’integrità della Chiesa, cioè la fine del suo potere temporale, papa Pio IX convocava un
nuovo concilio di chiusura e arroccamento, il Vaticano I, durante il quale venne
proclamato il dogma dell’infallibilità papale. Giovanni XXIII ebbe il coraggio e
l’intuizione di indire nuovamente un concilio, questa volta di apertura e di discussione
con l’obiettivo di far uscire la Chiesa dal suo isolamento, manifestando così la volontà
di una parte della gerarchia ecclesiastica di seguire le trasformazioni sociali in atto e di
proporsi come forza di progresso169.
Senza entrare nello specifico delle risoluzioni prospettate dai padri conciliari, ci
basti dire che il Vaticano II propone, nelle intenzioni, la questione di una nuova identità
cattolica capace di essere al passo con i tempi, e lo fa suggerendo una ridefinizione di
alcune forme del sacro cattolico. È importante innanzitutto notare come venga
sottolineata l’efficacia dell’azione dello Spirito da parte degli stessi pontefici: Giovanni
XXIII affermava di aver pensato e proposto il concilio Vaticano II guidato da
un’intuizione dello Spirito Santo e ad esso si rivolgeva con queste parole: “Rinnova
nella nostra epoca i prodigi come di una nuova Pentecoste”, mentre Paolo VI
nell’udienza generale del 16 ottobre 1974 si esprimeva in questi termini: “Voglia il
Signore effondere, oggi, una grande pioggia di carismi per rendere feconda, bella e
meravigliosa la Chiesa, capace di imporsi all’attenzione e allo stupore del mondo
profano, del mondo laicizzante”. D’altro canto già papa Leone XIII, il primo gennaio
1901, data simbolica di inizio di una nuova era, aveva indicato il Novecento come anno
dello Spirito Santo intonando il Veni Creator Spiritus in nome dell’unità della Chiesa
dopo la pubblicazione dell’enciclica dedicata appunto allo Spirito Santo. In essa il
pontefice invitava i cristiani a guardare all’episodio biblico della Pentecoste e ad
invocare lo stesso Spirito per la riunione della cristianità.
Le modifiche che ebbero un più forte impatto all’interno della Chiesa furono
quelle in campo liturgico con l’abolizione del latino quale lingua ufficiale per la
celebrazione dell’Eucaristia e l’uso della Sacre Scritture. La Liturgia delle Ore ad
esempio, una volta appannaggio esclusivo di clero e religiosi, è divenuta una pratica
sempre più abituale per molti fedeli laici; la recitazione dei Salmi occupa una parte
consistente nella preghiera cristiana, mentre la Bibbia è oggetto di riflessione quasi
esclusivo durante i ritiri spirituali e gli incontri di preghiera170.
Questi atteggiamenti sono il frutto di un provvedimento che nelle intenzioni
desiderava ridimensionare la secolare supremazia degli appartenenti alla gerarchia
169
170
Viola 2000: 410
AAVV 2002: 435
136
ecclesiastica nei confronti del laicato, nel tentativo di ricreare una situazione più simile
a quella presente nelle prime comunità cristiane. Il 18 novembre 1965, in unione con
l’assemblea conciliare, Paolo VI rendeva noto il decreto Apostolicam Actuositatem,
dedicato all’apostolato dei laici. Il decreto era stato votato in sessione pubblica dalla
totalità, meno due, dei Padri presenti, cioè 2340 voti contro 2. Scrive, a questo
proposito, Paolo Maino, tra i primi membri del RnS in Italia e autore del libro Il
postmoderno nella Chiesa? Il Rinnovamento Carismatico:
“Ricuperando il significato teologico della laicità del mondo e dell’autonomia della
sfera secolare, si sottolinea la missione del laico, quale uomo della Chiesa nel cuore del
mondo e quale uomo del mondo nel cuore della Chiesa. Quindi anche il laico è
interprete della parola divina espressa nella creazione e della dimensione incarnatoria
della salvezza, in base alla sua stessa vocazione battesimale e non per delega gerarchica.
Questo significa riconoscergli una “competenza” che va rispettata come un carisma
ecclesiale.”171
In realtà, leggendo il testo dell’Apostolicam Actuositatem, ancora una volta si fa sentire
forte la volontà da parte della gerarchia vaticana di esercitare un ferreo controllo per
quanto riguarda le pratiche carismatiche:
“A tutti i cristiani quindi è imposto il nobile impegno di lavorare affinché il divino
messaggio della salvezza sia conosciuto e accettato da tutti gli uomini su tutta la terra.
Per l’esercizio di tale apostolato lo Spirito Santo, che già opera la santificazione del
Popolo di Dio per mezzo del ministero e dei sacramenti, elargisce ai fedeli anche dei
doni particolari (1 Cor. 12,7) «distribuendoli a ciascuno come vuole» (1 Cor. 12, 11),
affinché mettendo «ciascuno a servizio degli altri il suo dono al fine per cui l’ha
ricevuto», contribuiscano anche essi «come buoni dispensatori delle diverse grazie
ricevute da Dio» (1Petr. 4,10) alla edificazione di tutto il corpo nella carità (Eph. 4,16).
Dall’aver ricevuto questi carismi, anche i più semplici, sorge per ogni credente il diritto
e il dovere di esercitarli per il bene degli uomini e a edificazione della Chiesa, sia nella
Chiesa che nel mondo, con la libertà dello Spirito, il quale «spira dove vuole» (Gio. 3,8)
e al tempo stesso nella comunione con i fratelli in Cristo, soprattutto con i propri
pastori, che hanno il compito di giudicare sulla loro genuinità e uso ordinato, non certo
per estinguere lo Spirito, ma per esaminare tutto e ritenere ciò che è buono.”172
Oltre ad una inevitabile istituzionalizzazione del “potere carismatico” all’interno del
movimento stesso, per quanto riguarda il RnS e in generale i cosiddetti “movimenti
ecclesiali”, assistiamo ad una loro progressiva integrazione all’interno delle logiche
simboliche del cattolicesimo. Con il richiamo continuo alla tradizione cattolica che
intende il “potere carismatico” dello Spirito operativamente valido se e soltanto se
171
Maino 2004: 101. In seguito, il 6 gennaio 1967, sempre ad opera di Paolo VI, viene creato il Pontificio
Consiglio per i Laici.
172
Enchiridion Vaticanum 1970: 525-585
137
sottoposto al giudizio dell’autorità vaticana, in un’ottica di mantenimento dell’economia
di potere dell’istituzione-Chiesa, la potenziale carica “creativa” insita nei movimenti
carismatici risulta essere vistosamente depotenziata. Pur presentandosi come
rinnovatori, in realtà i gruppi carismatici finiscono spesso con l’aderire all’ala più
conservatrice del cattolicesimo, proponendo una “salvezza” che rimane profondamente
ancorata alla sfera individuale quando non decisamente alienante, mancando così il
bersaglio di un’azione simbolica e politica che sia storicamente, socialmente,
culturalmente emancipante, in una parola: efficace.
138
Osservazioni finali
Innanzitutto è opportuno sottolineare come la capacità di sviluppo del fenomeno
pentecostale-carismatico non si sia attenuata negli ultimi anni, anzi si sia fatta sempre
più visibile. Lo attesta la presenza negli ultimi mesi anche in Italia di articoli apparsi su
riviste non specialistiche ma di carattere popolare e a tiratura nazionale, come Il Venerdì
di Repubblica. Sono dati spiccioli che testimoniano inequivocabilmente l’attenzione che
il movimento attira nel variegatissimo panorama delle “innovazioni del sacro”173.
I motivi della larga diffusione del pentecostalismo vengono riassunti in un articolo di
Sabrina Pellazza, ricercatrice che si muove nell’ambito strutturalmente ben
individuabile del CESNUR, in questi termini.
Il successo pentecostale viene ricondotto alla “portabilità”, alla “trasmissibilità”
e all’ “accessibilità” che caratterizzano le modalità del culto, ma anche e soprattutto,
aggiungiamo, nel tipo di messaggio di allargamento “infinito” delle potenzialità
personali grazie al rapporto “intimo” con un sacro posto come essenza “altra”, della
quale è possibile appropriarsi o farsi appropriare.
La portabilità si traduce come realtà che non ha bisogno di grandi strutture.
Nell’ottica della Riforma alla quale appartengono, le chiese pentecostali possono infatti
nascere in qualsiasi luogo, e in effetti spesso nascono nelle aree più dimesse delle grandi
periferie urbane, grandi capannoni, vecchi cinema ecc. In secondo luogo il
pentecostalismo si presenta con un apparato dogmatico relativamente leggero, per cui il
convertito viene coinvolto principalmente dall’annuncio di salvezza per opera
dell’amore di Dio, e non da una serie di regole preordinate o da una visione ecclesiale
mediatrice e istituzionalizzata.
Infine si rende estremamente accessibile perché rispetto al rigore liturgico delle
chiese “storiche”, il culto pentecostale propone una viva spontaneità ed un’accentuata
emotività legate all’ “azione” dello Spirito e alle pretese ricchezze che le chiese
carismatiche e pentecostali elargiscono174.
Ciò è sicuramente vero ma nel resoconto della Pellazza non è presente alcun
approfondimento sulla qualità di questo tipo di dono, come invece accade, per esempio,
nelle riflessioni dei rappresentanti di un movimento ugualmente operativo in seno al
173
174
Confronta Quagliata 2007 e Cicala 2007
Confronta Pellazza 2005
139
cristianesimo nel corso del XX secolo, in modo particolare in America Latina, ma anche
in Africa, e che prende anch’esso spunto dai contenuti presenti nel racconto di
Pentecoste: la cosiddetta Teologia della Liberazione.
Questa particolare forma di teologia, fortemente osteggiata dalla gran parte
dell’organizzazione ecclesiastica vaticana, coniugava alla pratica “carismatica”
un’azione a livello collettivo d’ordine sociale, culturale, politico, sottolineando il “dono
dello Spirito” come strumento di ricostituzione della comunità di eguali. Nel contesto di
proliferazione dei regimi dittatoriali in America Latina, la possibilità, lasciata aperta dal
cristianesimo, di un libero accesso da parte di chiunque ai “doni” della Pentecoste viene
simbolicamente sfruttata per rivendicare l’uguaglianza tra esseri umani e la necessità di
organizzarsi in forme di opposizione alle dinamiche di oppressione e sfruttamento.
Come sottolinea Lanternari, che considera la Teologia della Liberazione un
esempio efficace di movimento basato su di un potere “carismatico”, i leaders di questo
movimento, appartenenti al clero cattolico,
“Nell’assumere posizioni antagoniste rispetto alla politica tradizionale della Chiesa e dei
governi locali, si fanno interpreti di bisogni, rivendicazioni, attese e speranze di intere
popolazioni o classi sociali esposte alla miseria, all’oppressione e alla persecuzione. Il
ruolo istituzionale di questi leaders non contraddice il fondamento carismatico della loro
ispirazione e del loro operare, che si richiama al primo potenziale carismatico del
cristianesimo evangelico originario, nella prospettiva totalizzante di una palingenesi
umana nel cui contesto però essi rimarcano l’urgenza di una liberazione di ordine
sociale ed esistenziale, dalla pressione di forze tirannicamente oppressive.”175
In altre parole, essi pongono in evidenza i valori di emancipazione sociale e
politica presenti nel messaggio cristiano, adattando la lettura dei Vangeli di volta in
volta alle diverse necessità delle realtà con cui la loro opera missionaria veniva in
contatto. Esattamente l’opposto avviene con il fenomeno pentecostale-carismatico, in
cui la “verità” dei Vangeli viene proposta come imprescindibile punto di riferimento
metastorico a cui doversi necessariamente adeguare.
Lasciamo comunque cadere l’approfondimento appena abbozzato. In questo
contesto esso vuole rimanere l’indicazione di uno spunto per suggestivi studi futuri sulle
possibilità lasciate aperte dalle tematiche pentecostali, ma che ci porterebbe
inevitabilmente lontano dal percorso tracciato fin qui.
Nell’approccio alla vitalità della “ricerca dello Spirito” o meglio, della necessità
di costruire lo Spirito, si ripropone in maniera forte l’ottica tracciata da De Martino per
175
Lanternari 1984: 52
140
cui ciò che perdura non è il bisogno di sperimentazione di un “sacro” esistente, quanto
piuttosto il bisogno di inventare un “sacro” da intendersi come possibilità di
allargamento di “poteri” e di “saperi” per conquistare zone di sicurezza a norma e
misura delle singole circostanze sia sociali che personali.
Ciò che ritorna è dunque il rischio sempre presente di una crisi che occorre
arginare e riplasmare.
La produzione diversificata di “sacro” spiega e si spiega con le diverse
formulazioni che articolano il fenomeno pentecostale-carismatico nella sua molteplice,
variegata realtà. L’acquisizione del concetto storicistico di “sacro” inteso come prodotto
interamente culturale ci ha reso possibile indicare come non sia propriamente corretto
parlare di un unico pentecostalismo.
Infatti, a fronte di una comune condizione contingente di crisi, il contesto
culturale in cui esso ha preso piede ha determinato differenti riplasmazioni della figura
dello “Spirito”.
Abbiamo visto così che in contesti come quello africano il culto dello “Spirito”,
quando promosso da personalità indigene, si è legato al patrimonio cultuale popolato di
sogni, visioni, culti degli antenati, fungendo da elemento dinamico per la creazione di
un’identità da contrapporre alla presenza occidentale e, di conseguenza, a forme di
resistenza culturale attiva. Diversamente, quando è stato promosso da leaders
appartenenti alle denominazioni protestanti lo Spirito è stato veicolo di imposizione di
un modello culturale unico, ispirato al capitalismo globalizzante di matrice statunitense.
All’interno del cristianesimo e della cultura occidentale invece, le varie
interpretazioni succedutesi e accavallatesi lungo l’arco della storia hanno permesso al
concetto di “Spirito” di mantenere un’ambiguità di fondo. Da una parte la possibilità di
ricevere i “doni” è relegata nella dimensione mitica dell’episodio biblico di Pentecoste,
considerato concluso e non più storicamente operabile nel senso in cui è descritto nel
libro degli Atti. Con l’affermarsi della chiesa cristiana sul modello imperiale romano le
possibilità “creative”, ipoteticamente rivoluzionarie, della rappresentazione del contatto
tra sfera umana e sfera extraumana vengono ricondotte “ufficialmente” alla funzione di
mantenimento di un potere centrale e accentratore.
Contemporaneamente però, l’idea del “contatto” diretto, “magico” secondo
l’accezione che del termine ne dà De Martino, è stata variamente riproposta lungo i
secoli dai vari movimenti cristiani di ispirazione riformata.
141
È su questo aspetto secondario rispetto alla dottrina ufficiale della Chiesa che
anche i “carismatici” cattolici, così come le varie denominazioni pentecostali
protestanti, fanno leva per proporre il loro messaggio di salvezza. Questa “salvezza”
rimane però limitata alla sfera ristretta degli aderenti al culto: essa rimanda
continuamente alla sfera dell’emozione personale e della realizzazione individualistica
mentre non prevede un’azione concreta né sociale né politica, attuando così una
dimensione di deresponsabilizzazione collettiva che limita di fatto la possibilità di un
agire operante nella storia.
Rimane dunque aperta e non ancora risolta l’alternativa prospettata da De
Martino. Da una parte il fanciullino di Cebete che esige continui incanti, dall’altra la
necessità di prendere consapevolezza della propria condizione storicamente determinata
e determinante.
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Scarica

Usi e abusi dello Spirito - Università degli Studi di Trieste