Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport Ufficio dell'insegnamento medio Maria Luisa Altieri Biagi PRASSI DEL LEGGERE E TESTO LETTERARIO A cura di Giancarlo Quadri, Fiorenzo Valente e Margherita Valsesia Dipartimento educazione, della cultura e dello sport Ufficio dell'insegnamento medio UIM 98.02 UIM 2005 Prima ristampa 300 es Presentazione All'origine di questa pubblicazione è il corso di aggiornamento La lettura del testo letterario nella scuola media, organizzato dagli esperti per l'insegnamento dell'italiano e tenuto il 28 ottobre 1995 dalla professoressa Maria Luisa Altieri Biagi, docente ordinario di Storia della lingua italiana nella facoltà di Lettere dell'Università di Bologna. Molti docenti, in quell'occasione, hanno avuto l'opportunità di apprezzare la capacità della relatrice di affrontare in modo ricco, chiaro e brillante le riflessioni su un tema oltremodo interessante per la didattica della materia. Infatti la professoressa ha proposto, a partire dal testo letterario, un vivace e convincente percorso sulla riflessione metalinguistica. Esso rispecchia l'idea di lavoro sui testi e sulla lingua che è ben conosciuto da chi utilizza o ha utilizzato i manuali della professoressa. L'interesse mostrato dai partecipanti e la disponibilità della relatrice ci hanno spinto a proporre questa pubblicazione. Essa si divide in due parti: la prima consiste nella trascrizione della registrazione e ne mantiene il carattere di colloquialità e di freschezza comunicativa; la seconda è un breve e denso saggio sullo stesso tema che la professoressa ci ha messo a disposizione come testo che avrebbe potuto sostituire il precedente o eventualmente integrarlo. Noi abbiamo optato per entrambi, pur consapevoli che presentano, in forme diverse, lo stesso contenuto. Non ci siamo sentiti infatti di rinunciare alla pubblicazione dell'uno o dell'altro; abbiamo preferito lasciare al lettore la scelta del taglio espositivo che più gli è congeniale. Pensiamo che la diffusione di questi testi sia utile anche ai colleghi che non hanno potuto partecipare alla conferenza della professoressa Maria Luisa Altieri Biagi, cui siamo grati per averci generosamente concesso di pubblicarli. Ringraziamo pure il prof. Giancarlo Quadri, che si è prestato a trascrivere la registrazione, a tenere i contatti con la relatrice e a collaborare alla redazione definitiva. 1 Indice 1. Il testo letterario nella scuola (trascrizione della conferenza) p. 3 2. Conversazione al termine dell'esposizione p. 26 3. Il testo fra norma e creatività 3.1 Antologia sì o no? 3.2 L'Antologia in funzione della lettura 3.3 Che cosa leggere? 3.4 Criteri per l'organizzazione delle scelte 3.5 Aprire ai testi «effimeri»? 3.6 Quali scopi deve proporsi un'antologia? 3.7 Quali tecniche di lettura? 3.8 Un'osservazione conclusiva p. p. p. p. p. p. p. p. p. 30 30 31 33 36 36 38 38 41 2 IL TESTO LETTERARIO NELLA SCUOLA (TRASCRIZIONE DELLA CONFERENZA) Il testo seguente è tratto dalla registrazione di un intervento orale e dell’oralità conserva le caratteristiche di immediatezza e di approssimazione. Letture citate e usate quali esemplificazioni nella conferenza: Italo Calvino, "Il lampo", "Attesa della morte in un albergo" e "Le città invisibili", in Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1994 Dino Buzzati, "Il macigno", in In quel preciso momento, Milano, Mondadori, 1979 Alberto Savinio, "Vecchio pianoforte", in Achille innamorato, Milano, Adelphi, 1993 Inoltre: U. Eco, G. Flaubert, T. Mann, L. Tolstoj, A. Cechov, É. Benveniste, V. Woolf e alcune fiabe classiche. 3 IL TESTO LETTERARIO NELLA SCUOLA Il modo di affrontare la lettura nella scuola - e quindi anche nella scuola media - vede da sempre due posizioni, fieramente sostenute da due schieramenti o partiti che si contrappongono: c’è chi è partigiano della fiducia e dell'entusiasmo e chi invece è convinto che le cose vadano sempre peggio. La mia convinzione è che, se ci si rassegnasse al pessimismo (se il giorno in cui vedessimo bruciare la biblioteca di Alessandria non ci si passasse il secchio), allora sarebbe proprio finita. Vale la pena lavorare per ciò in cui si crede e dare un segno di fede e di speranza. Dunque, il testo letterario nella scuola. Almeno nella scuola italiana, esso viene concepito o come testo letterario intero, per i docenti che non rinunciano all’organicità della lettura, o come testo letterario antologizzato. Certamente è preferibile la completezza della lettura e non l’assunzione di dosi omeopatiche del testo: ma non nella scuola, per la semplice ragione che ciò che si dovrebbe fare a scuola dovrebbe essere l'attivazione di una curiosità che viene poi soddisfatta a casa. E a volte capitano cose meravigliose a un genitore, come il sentirsi chiedere dai figli l'Orlando Furioso per leggerlo «tutto»: perché il pezzettino letto in classe ha destato la curiosità - del tutto legittima - di vedere «come andava a finire quella storia». Per i ragazzi - i bambini, gli adolescenti - il primo approccio con il testo letterario è certamente la trama, il racconto. Si pensi allora a che cosa succede quando in una classe - per esempio in una seconda media - un insegnante "sbaglia" libro (anche Il barone rampante, in una classe, può essere un libro sbagliato e generare noia, sazietà, stanchezza): bisogna allora avere il coraggio di cambiare libro; oppure bisogna avere il coraggio di costruire un percorso antologico intelligente, trovando un filo che riesca a dare, nella pluralità delle voci, il senso di come si trasmette una storia, valida (di là dai tempi e di là dai paesi in cui si svolge) come capitolo tematico dell'immaginario. Esemplificando, è possibile, cominciando da Cenerentola, spiegare che cosa è il ballo per chiunque, ma specialmente per una donna: l'esposizione sotto un riflettore, sotto una luce che all'improvviso aumenta la bellezza o la restituisce, che fa diventare desiderabili. Cenerentola è tutto questo, è il riscatto di una bellezza non remunerata dalla vita; è la luce che all'improvviso si concentra sul personaggio; è la felicità che, logicamente, è limitata nel tempo (perché a mezzanotte Cenerentola deve scappare via, pena l' interruzione del sortilegio). Così può iniziare il «tema» del ballo, di un’esaltazione, che è esaltazione fisica ma anche esaltazione della bontà, della gioia, perché chi si sente felice è anche buono. E possono essere letti tutti i balli della letteratura, italiana e straniera: i balli di Flaubert (Madame Bovary); il ballo della Parure di Maupassant; i due splendidi balli del Tonio Kröger di Thomas Mann; il ballo di Natascia in Guerra e pace e l'altro ballo di Tolstoj - questa volta visto dalla parte di un uomo - nel racconto che si intitola proprio Un ballo; il ballo di Cechov nel racconto Un marito; il ballo di Angelica nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Lo scopo è quello di mostrare ai ragazzi la poliedricità di un tema che ha impressionato la fantasia e la capacità creativa di grandi scrittori. 4 Si è parlato del ballo, ma si sarebbe potuto parlare di altri temi: la città, la finestra (intesa come rapporto fra l'io e il mondo), il viaggio, latamente inteso. Non solo i viaggi lunghi con mete prestigiose: la luna, le colonne d’Ercole, il centro della Terra, ecc., ma anche viaggi minimi - soprattutto interiori - come quello di una poesia di Moretti, Ascensore. Moretti viene sempre antologizzato per la poesia Piove. Mercoledì sono a Cesena... che è un bel testo, ma dice poco ad un ragazzo, poiché è veramente «crepuscolare». Ci si chiede perché, invece della supercitata poesia, non si legga Ascensore, che è l'espressione di un turbamento fisico trattato con straordinaria delicatezza. Un uomo sale in ascensore con una ragazza: ed è un viaggio lunghissimo, anche se dura poco. Ma facciamo un passo indietro. Far frequentare testi simili pone dei problemi che, come si suol dire, stanno a monte della lettura: a che cosa serve la lettura? perché spingere i ragazzi a leggere? ha ancora un senso? o non dobbiamo far imparare loro una lingua in più? o non dobbiamo farli diventare più bravi a manovrare le macchine, in un mondo come quello attuale caratterizzato dall’estrema rapidità dell'informazione e forse destinato ad aprire la fase della definitiva morte del libro? È un pezzo che, ad ascoltare gli apocalittici, il libro deve «morire»; ma, grazie a Dio, non è ancor morto e si spera che non morirà, perché, come spiega Calvino, c'è una ritualità della lettura e ci sono modalità del leggere che non possono essere sostituite dal calcolatore. Si rivada a quella splendida pagina di Se una notte d’inverno un viaggiatore in cui Calvino descrive il tagliacarte come un'arma che serve per entrare nel bosco incantato: tagliare le pagine del libro è un piccolo impedimento, ma è emblematico della fatica che il lettore compie per attraversare il testo e arrivare in una specie di radura mentale in cui il lettore ha tempo prezioso per pensare, per immaginare, per desiderare di andare avanti. Ma il problema non è solo quello della scelta attraente. Non esiste solamente la funzione ludica del testo; il bisogno del libro non si esaurisce nel piacere della lettura. C'è bisogno del libro come alimento indispensabile dell'intelligenza. La lingua che si parla tutti i giorni è la lingua della sopravvivenza quotidiana. Sarebbe utile esercizio portarsi in tasca un registratorino e registrare quel che si dice nel corso di una normale giornata: poche centinaia, forse poche decine di parole in funzione informativa, conativa, puramente fàtica, in una comunicazione che ci mette a contatto con interlocutori anonimi e spesso insignificanti. Ma quando si legge, si ha un'ora di contatto con chi si vuole: con Platone, con Galileo, con Pirandello, con Shakespeare, ecc. Questo dobbiamo far capire ai ragazzi! Nella routine della giornata è indispensabile avere un’ora di contatto con persone che hanno cose straordinarie da dirci. Certamente con i ragazzi bisogna fare attenzione: si è detto che anche Il barone rampante può essere una lettura arida se essi non si rendono conto di quel che Calvino ha voluto dire, ossia se non accettano di vedere il mondo dalla prospettiva rialzata, anomala, di chi vive sugli alberi. Cosimo non è un pazzo, ma una guida a guardare il mondo da una prospettiva non ovvia, non abituale. 5 Anche I promessi sposi possono essere una esperienza negativa per i ragazzini: perché se è vero che i ragazzi privilegiano la «trama», resta da spiegare quale senso e quale fascino possa avere su di essi la storia di due contadini che si vogliono a tutti i costi sposare (non è neppure bella, quella «baggiana» di Lucia e le noie che i circonvicini causano a Renzo e Lucia finalmente sposi sono tante che i due si devono perfino trasferire!) Si capisce allora come la battaglia tra I promessi sposi e Beautiful sia persa in partenza, perché Beautiful è una storia molto più vicina agli interessi dei ragazzi: possiede i colori, i movimenti, le musiche fatte da specialisti di alto livello, si affida a bravi attori, non richiede alcuno «sforzo» mentale. Bisogna allora dare ai ragazzi degli strumenti in più per capire. Che cosa fa il lettore intelligente e colto quando, leggendo I promessi sposi, arriva su quella stradicciola percorsa da don Abbondio e proprio mentre è tutto teso a vedere che cosa succederà con i bravi, si vede sbarrare l’attesa dalla spiegazione delle «gride»: un brano lungo che interrompe l’azione? Il lettore intelligente la prende bene. Entra in quel discorso come si entra in un’anticamera, comprendendo l’astuzia manzoniana per ritardare la soddisfazione della curiosità e quindi farla crescere. E se il lettore, oltreché intelligente, è anche esperto e gode della parodia linguistica della «comunicazione» politico-giudiziaria, può apprezzare quella «anticamera», trovandola bella in sé, oltre che utile contrappunto a ciò che segue. Leggendo quelle pagine del Manzoni, al lettore esperto viene in mente la scena di una commedia dell'arte del Cinquecento (l'Angelica, di Fabrizio de' Fornaris, 1585), in cui c'è un «Capitan Coccodrillo», spagnolo (che sostituisce il «Miles gloriosus» latino), che presenta se stesso al suo servo (affamato, come sono sempre i servi della commedia), in una specie di gergo spagnoleggiante: Capitan don Alonso Cocodrillo, Hijo d'el Colonel don Calderon de Berdexa, hermano d'el Alferez Hernandico Mandrico de strico de Lara de Castilla la vieja, cavallero de Sevilla, hijo d'Algo verdadero, trinchador de tres cuchillos, copier major de la Reyna de Guindaçia, saccador de coracones, tomador de tierras, lancador de palos, cavalcador de janete, jugador de pelota, enventor de justras, ganador de torneos, protetor de la ley Christiana, destruydor de los Luterianos, segnor y Rey de 1'arte militaria, terror de los traydores, matador de los vellacos [...] y amigo 6 cordialissimo de don Gatavite Pontius de Leon, y de don Rebalta Salas de Castagnedo. Alla quale presentazione il povero Squadra risponde con questa battuta: Signore, io resto el più attonito huomo d'el mondo; perché pensava haver un solo padrone, et mi pare de haverne duimilia. Questa può essere l'operazione che fa il lettore esperto quando legge il brano «noioso» dei Promessi sposi: lo usa come stimolo della curiosità per ciò che verrà dopo; conoscendo le tecniche di lettura, sa che gli giova aspettare. Ricorda testi dello stesso genere, è aperto ai confronti, alle strizzatine d'occhio con cui lo scrittore lo rinvia ad altri testi, in una specie di arte allusiva fortemente complice. Ma il lettore inesperto non ha queste armi. Con i ragazzi bisogna avere il coraggio di tagliare; bisogna saltare passi del genere anche se ciò ripugna all’insegnante che è lettore colto. Abbiamo detto prima che la lettura serve all’intelligenza; essa ha dunque funzione informativa. Ma bisogna intendersi sul significato da dare al termine informativo: ciò che comunemente si intende per informazione è qualcosa di molto superficiale; l'informazione di cui parliamo ora è quella che va al fondo delle cose, che ne spiega gli aspetti in modo originale e innovativo. E i testi letterari sono fortemente informativi, perché sono cultura che si muove, che rifiuta gli stereotipi. Bisogna spiegare ai ragazzi che il testo letterario possiede al massimo grado il potere che un grande linguista francese, É. Benveniste, conferisce alla «parole»: Il linguaggio instaura una realtà immaginaria, anima le cose inerti, fa vedere ciò che ancora non esiste, riconduce qui ciò che è scomparso. Ecco perché tante mitologie, dovendo spiegare come all'alba dei tempi qualcosa sia potuto nascere dal nulla, hanno posto come principio creatore del mondo questa essenza immateriale e sovrana: la PAROLA. Non esiste potere più alto e, a ben pensarci, tutti i poteri dell'uomo derivano senza eccezione da quello. Ecco perché creano preoccupazione il declino della competenza linguistica, la stereotipia, la passività di abitudini mentali che a lungo andare rischiano di diventare degradanti. Si rischia cioè di aderire al modello che Calvino ha perfettamente illustrato in Ultimo viene il corvo 1 . Il ragazzo dalla faccia tonda, a mela, così bravo a sparare con il fucile, non parla. Per tutto il racconto parlano i partigiani, ma il ragazzo quasi non parla perché, per stabilire un rapporto tra se stesso e le cose, deve usare il fucile. Nel momento in cui punta il fucile, allora si sente in comunione con l'uccello che ha nel mirino, con la lumaca che si spiaccica su un sasso, con la trota e poi con il 1 Italo Calvino, "Ultimo viene il corvo", in Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 1994, 7 petto del soldato tedesco a cui il ragazzo spara. L'unico mezzo che ha questo piccolo automa muto per mettersi in rapporto con le cose è sparare: togliere la vita a ciò che sta all’altro capo della traiettoria. Calvino lo dice bene: nel momento in cui il ragazzo spara, c'è qualcosa che dalla bocca del suo fucile va a finire all'altro oggetto, mettendolo in contatto con questo oggetto. Il ragazzo muoveva la bocca del fucile in aria. Era strano a pensarci, essere circondati così d'aria, separati da metri d'aria dalle altre cose. Se puntava il fucile, invece, l'aria era una linea diritta ed invisibile, tesa dalla bocca del fucile alla cosa, al falchetto che si muoveva nel cielo con le ali che sembravano ferme. A schiacciare il grilletto l'aria restava come prima trasparente e vuota, ma lassù all'altro capo della linea, il falchetto chiudeva le ali e cadeva come una pietra. Se dunque si vuole che i ragazzi non siano ridotti all'analfabetismo ed al dialogo incentrato sulle tre o quattro parole oggi di moda, bisogna far capire loro l'importanza della parola letteraria quando questa entra nei nostri circuiti mentali e diventa nostra. Il mondo creato dalla parola letteraria è più istruttivo di quello da noi abitato, proprio perché è fatto di parole che sono simboli, non oggetti materiali. L'uomo è diventato grande perché a un certo punto, invece di abbracciare l'albero o di toccarlo, lo ha pensato come ALBERO: e allora l'oggetto/albero è potuto diventare la barca (l'albero scavato), o la ruota (l'albero tagliato a fette), o il riparo, o il combustibile (l'albero tagliato e bruciato). È potuto diventare tutte quelle cose perché, invece di reagire all'albero come la rana reagisce allo stimolo, l'uomo ci ha pensato. E quell'albero, entrato attraverso la parola corrispondente nella sua mente, è stato messo in rapporto con altre parole a formare delle proposizioni e dei testi. Vengono in mente le parole di Virginia Woolf, scritte nel diario due giorni prima di uccidersi. La scrittrice aveva appena finito un libro, l'aveva pubblicato ed era svuotata, un po' come dopo un parto. E annota nel suo diario: Ed ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e devo preparare la cena. Merluzzo e salsicce. Credo sia vero che, scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni del merluzzo e delle salsicce. Ossia, nel momento in cui va a preparare la cena (e non è certo una cena raffinata, quella a base di merluzzo e salsicce!) ha la splendida idea che, per il fatto stesso di nominarli, di inserirli in circuiti mentali, quei due oggetti sono diventati simboli intellettualmente manovrabili. Poiché senza motivazione non si fa nulla, prima di passare all'analisi dei testi è sembrato giusto insistere sulla necessità di far capire ai ragazzi quanto i testi siano importanti. È ben vero che un ragazzo legge quando è convinto, prima di tutto, che leggere «serva» per la vita. È giusto anche questo: non si devono dare subito motivazioni ideali per la lettura; prima si spieghi ai ragazzi che il possesso della lingua è anche 8 prestigio, conservazione di ruolo, capacità di difendersi, capacità di reagire all'offesa; si spieghi loro il valore sociale della lingua; si metta bene in rilievo che cosa significhi possedere lo strumento parola nel contatto sociale (e magari nel contrasto sociale). Solo in seguito andranno chiariti i valori più ardui della lingua: quello del monologo interiore; quello del colloquio con gli autori di testi scritti (abolendo qualsiasi distanza di spazio e di tempo). È comprensibile che un bambino - un ragazzo, un adolescente - preferisca altri tipi di dialogo. Ma è certo che, andando avanti nella vita, le altre voci pian piano taceranno e l’individuo si troverà a dialogare con gli «autori», se ha gli strumenti per farlo. Questo bisogna far capire ai ragazzi, in un modo o nell'altro. Nella scuola si sono visti gravi errori prodotti da un eccesso di sicurezza, commessi in nome della scienza, del metodo scientifico, quasi che la scienza moderna, perdute le sicurezze del sistema newtoniano, non ci avesse spiegato che le «verità» scientifiche sono tutt’altro che assolute e definitive, sicché vera scientificità è utilizzare fonti che si siano rivelate feconde, senza escludere la possibilità di ipotesi e metodologie alternative. Il dubbio è la nostra forma di sicurezza. Anche quel che si debba leggere non è scontato, non è stabilito una volta per tutte; se non altro perché quel che va bene per una classe non va bene per un'altra. Dunque, che cosa leggere in classe? Quello che piace di più ai ragazzi. Quello che piace di più, in partenza; oppure quello che si riesce a far loro piacere in seguito. Arriveremo a scoprire testi che interessano i ragazzi e piacciono loro solo se non avremo idee preconcette, se useremo il dubbio, per risolvere il problema. Così come faceva Guglielmo nel Nome della rosa di Umberto Eco: Capii che, quando non aveva una risposta, Guglielmo se ne proponeva molte e diversissime tra loro. Rimasi perplesso. "Ma allora," ardii commentare, "siete ancora lontano dalla soluzione ..." "Ci sono vicinissimo," disse Guglielmo, "ma non so a quale." "Quindi non avete una sola risposta alle vostre domande?" "Adso, se l'avessi insegnerei teologia a Parigi." "A Parigi hanno sempre la risposta certa?" "Mai," disse Guglielmo, "ma sono molto sicuri dei loro errori." "E voi," dissi con infantile impertinenza, "non commettete mai errori?" "Spesso," rispose. "Ma invece di concepirne uno solo ne immagino molti, così non divento schiavo di nessuno. Prendiamo esempio: dobbiamo fare molte prove, non dare per scontato che un testo debba piacere. Se un testo piace, è facile capirlo, perché all'improvviso si fa il silenzio in classe; e se si interrompe la lettura, si avvertirà la delusione dei ragazzi. 9 Chiaramente sono da preferire testi della letteratura italiana, perché la lingua è originale: però esistono le buone traduzioni e - a mio parere - è bene che i ragazzi non abbiano limiti nella loro voracità e leggano Flaubert, Shakespeare, Tolstoj , Mann, ecc., quando sarà il momento. Lo diceva anche Calvino: [...] è molto importante che, anche nella scuola, lo studio della letteratura italiana sia integrato quanto più si può con la lettura dei grandi romanzieri francesi, inglesi, russi; e anche con quello che si può vedere della grande poesia nelle altre letterature. Penso che oggi dobbiamo pensare in termini di letteratura internazionale; tutti noi siamo influenzati forse in maggior misura dalle grandi letterature straniere piuttosto che dalla nostra. [..] dobbiamo avere uno sguardo planetario e guardare a tutto il mondo, e nello stesso tempo anche scrivere pensando che le nostre cose non sono lette soltanto nel nostro Paese, ma possono circolare e partecipare ad un dialogo mondiale. È bene che i ragazzi leggano di tutto: opere intere o «circuiti» antologici attorno a un concetto chiave. Si pensi alla finestra come telaio che mette in comunicazione l'io con il mondo; oppure come riquadro in cui compare la donna all'uomo che le parla dal basso. Si pensi a tutti i dialoghi aerei della nostra e delle altre letterature: Alfio e Mena, Romeo e Giulietta, Rossana e Cirano, ecc. Oppure si pensi alle coppie di amici (Ulisse e Diomede, Eurialo e Niso, Cloridano e Medoro) che traducono in comportamento eroico l’idea dell’amicizia. Bisogna far vedere ai ragazzi come il mito dell'amicizia, della morte, della giovinezza passi da uno scrittore all'altro, con una precisa trama di rimandi, di rinvii da parte di chi scrive. Un accorgimento per conciliare il ritmo di lettura dei ragazzi con l’auspicata «completezza» dell’opera potrebbe essere la scelta di racconti invece che di romanzi. Racconti di Buzzati, di Calvino, di Tolstoj, di Cechov, di Maupassant, ecc. Una scelta vastissima e affascinante. Spesso si tratta di testi molto brevi, come nel caso di un racconto di Calvino, Il lampo, che fa parte della raccolta Prima che tu dica “Pronto” Il lampo Mi capitò una volta, a un crocevia, in mezzo alla folla, all'andirivieni. Mi fermai, battei le palpebre: non capivo niente. Niente, niente del tutto, non capivo le ragioni delle cose, degli uomini, era tutto senza senso, assurdo. E mi misi a ridere. Lo strano era per me allora che non me ne fossi mai accorto prima. E avessi fin'allora accettato tutto: semafori, veicoli, manifesti, divise, monumenti, quelle cose così staccate dal senso del mondo, come se ci fosse una necessità, una conseguenza che le legasse l'una all'altra. Allora il riso mi morì in gola, arrossii di vergogna. Gesticolai, per richiamare l'attenzione dei passanti e - Fermatevi un momento! - gridai - c'è qualcosa che non va! Tutto è sbagliato! Facciamo cose assurde! Questa non può essere la strada giusta! Dove si va a finire? La gente mi si fermò intorno, mi squadrava, curiosa. Io rimanevo lì in mezzo, gesticolavo, smaniavo di spiegarmi, di farli partecipi del lampo che m'aveva 10 illuminato tutt'a un tratto: e restavo zitto. Zitto, perché nel momento in cui avevo alzato le braccia e aperto bocca, la grande rivelazione m' era stata come ringhiottita e le parole m'erano uscite così, per via dello slancio. - Ebbene - chiese la gente - cosa vuol dire? Tutto è al suo posto. Tutto va come deve andare. Ogni cosa è conseguenza di un'altra. Ogni cosa è ordinata con le altre. Noi non vediamo niente di assurdo o d'ingiustificato! E io rimasi lì, smarrito, perché alla mia vista tutto era tornato al suo posto e tutto mi sembrava naturale, semafori, monumenti, divise, grattacieli, rotaie, mendicanti, cortei; e pure non me ne veniva tranquillità, ma tormento. - Scusate - risposi. - Forse ho sbagliato io. M'era sembrato. Ma tutto è a posto. Scusate - e mi feci largo tra i loro sguardi irti. Pure, anche adesso, ogni volta (spesso) che mi accade di non capire qualche cosa, allora, istintivamente, mi prende la speranza, che sia di nuovo la volta buona, e che io torni a non capire più niente, a impossessarmi di quella saggezza diversa, trovata e perduta nel medesimo istante. "Mi capitò una volta, a un crocevia, in mezzo alla folla, all'andirivieni." E se in classe si crea il silenzio, questa è la prima verifica, perché i silenzi intelligenti sono comunicati interstiziali. Dicono che il testo - o l'incipit almeno - è piaciuto, che gli ascoltatori sono agganciati, che hanno «abboccato» al testo letterario e desiderano che la lettura continui. Calvino voleva proprio questo; ed è per questo che usa il perfetto iniziale, a dare l’idea dell’eccezionalità dell’evento. Quando Calvino dice: "Mi capitò una volta," viene la curiosità di vedere e di capire cosa gli sia capitato. Diverso il caso di un incipit come quello del Macigno di Buzzati. Sopra la bella villa, dove si conduce una vita spensierata, un macigno pèncola..." Che è un altro modo straordinario di comunicare il senso dell'angoscia. Qui la duratività del presente è minaccia; perché il macigno che "pèncola" dà il senso della duratività: ma si tratta della duratività di un pericolo. E, si noti, la minaccia deriva anche dal verbo "pèncola" posposto: una parola sdrucciola che dà il senso sonoro della precarietà della situazione, dell’imminenza del crollo. Ecco cosa significa leggere un testo letterario con i ragazzi: prima lo si esegue oralmente e si lascia capire ai ragazzi quello che essi vogliono (possono) capire. Capiranno una porzione minima del testo, leccheranno la panna sulla torta, per così dire. Poi entreranno dentro il testo, nei suoi strati, man mano che le loro osservazioni verranno stimolate. Elenco alcuni elementi notevoli del testo di Calvino: 1. L'elenco delle cose "accettate" come «torrone» di elementi rapidamente compattati, a dare l’idea della casualità e del disordine della vita. 2. Il ritmo incalzante dei perfetti, e poi il contrasto tra perfetto ed imperfetto (uno dei meccanismi più straordinari dell'arte narrativa) che giova indagare in altri testi per vedere come gli autori lo usano. Nel Gattopardo, ad esempio, tutto è all'imperfetto 11 nella scena della recita del Rosario, perché tutto si ripete (le Avemarie), tutto stagna. Ma a un certo punto l'azione comincia e Tomasi di Lampedusa segnala l’attimo con due perfetti: "... il cane Bendicò entrò e scodinzolò" . E va sottolineato che il cane è il primo e l'ultimo personaggio del libro: imbalsamato e tarmato chiuderà il romanzo e sarà buttato giù dalla finestra nell'immondezzaio: figura emblematica della fine di un mondo. 3 "i loro sguardi irti". Un ragazzo avrebbe detto sguardi pungenti: non avrebbe avuto il coraggio di scrivere sguardi irti. Ecco cosa significa imparare dai testi: vuol dire imparare dagli autori l’audacia delle connessioni ardite, delle manipolazioni metaforiche. 4. Dopo una serie di osservazioni si può discutere sul significato globale del testo, sul significato «nascosto». Il «lampo» in fondo ci dice che la trama del quotidiano all'improvviso si lacera. Succede a tutti, una volta o l'altra. E qual è la vita vera? Quella della routine o quella del lampo? Gli scrittori insegnano delle tecniche. Gli "occhi irti" di Calvino possono stimolare i ragazzi a cercare altri esempi di connessioni originali nell’opera calviniana. Esemplificando rapidamente: a) "Aveva grandi occhi grigi nuvolosi, qualcosa di severo nel viso, incorniciato di capelli lisci e neri ... " 1 b) "C'era un gran spaziare d'aria, mattiniera e tenera, [...] uno sfumato circondario di montagne, e in mezzo il paese, di case ossute e accatastate, tutte pietre e ardesia. E nell'aria tesa veniva dal paese un gridare tedesco e un battere di pugni contro porte. ... " 2 Le parole che Calvino usa sono semplici: ma come può venire in mente che una casa sia "ossuta"? Si tratta di una casa popolare che ha tutte le vene in rilievo - i condotti sembrano vene - è una casa sfiancata dalla povertà ed è raccontata con aggettivi che andrebbero bene per una donna vecchia. c) "Entrò mia madre, alta e vestita di nero, coi bordi di pizzo e la scriminatura impassibile tra i capelli bianchi e lisci." 3 Viene in mente la scriminatura di Emma Bovary. Sta parlando col medico, che sarà il suo futuro marito, nella sala oscura. Ed è la prima volta che lui guarda lei, di cui vede solo il viso (Flaubert descrive i suoi personaggi attraverso gli occhi dell'altro, e si vedono di Emma le cose che Carlo a mano a mano scopre). Ma viene in mente anche la scriminatura di Lucia, promessa sposa. La scriminatura "impassibile": l'aggettivo dice tutto. Significa che è regolare, che non c'è un capello fuori posto. Un'altra donna, una donna che non avesse avuto il vestito nero coi bordi di pizzo, avrebbe avuto una scriminatura più ribelle. 1 Italo Calvino, "Attesa della morte in un albergo", ibidem Italo Calvino, "Il bosco degli animali", ibidem 3 Italo Calvino, "Pranzo con un pastore", ibidem 2 12 d) "Era una mucca giovane, affettuosa, puntigliosa." 1 e) "Era un vecchietto, lindo e logoro, col colletto inamidato, col cappotto benché non fosse inverno, col filo dell'apparecchio acustico che gli pendeva dall'orecchio." 2 f) "sembrava lottasse con i dolci, minacciosi nemici, strani mostri che lo stringevano d'assedio, un assedio croccante e sciropposo in cui doveva aprirsi il varco a forza di mandibole." 3 Normalmente si pensa ad un assedio in termini di spargimento di sangue e ci si trova davanti ad un assedio "croccante e sciropposo"! ... Certamente se si sguinzagliano i ragazzi a ricercare queste «perle» nei libri di Calvino non si fa lettura, ma ricerca linguistica, un lavoro intelligente, molto più intelligente che rispondere alle domande delle famigerate «griglie» che ammorbano le antologie scolastiche, griglie che in più di un'occasione offendono l'intelligenza del lettore e quasi sempre sono riduttive. g) "Ogni volta che apriva gli occhi si sentiva addosso tutta quella luce gialla e acida delle grandi lampade della biglietteria." [La luce gialla e acida è una sinestesia efficace]"Coricandosi non s'era accorto di come gelide e dure erano le lastre di pietra del pavimento" 4 Non se n'era accorto perché era tanto stanco che era crollato; ma le sente "gelide e dure" quando si risveglia. I due aggettivi, tipici delle lastre di pietra, cessano di essere attributi materiali per diventare elementi percettivi. Nei casi precedenti si è cercato l'aggettivo nel testo di Calvino: ma si può cercare in esso qualsiasi oggetto o fenomeno linguistico. Non soltanto nell’ambito stilistico e retorico, ma anche in quello grammaticale. Ad esempio con l'articolo si possono esplorare territori straordinari: C'era una guerra contro i turchi. Il visconte Medardo di Terralba, mio zio, cavalcava per la pianura di Boemia diretto all'accampamento dei cristiani. Lo seguiva uno scudiero a nome Curzio. Le cicogne volavano basse, in bianchi stormi, traversando l'aria opaca e ferma. ..." 5 "C'era una guerra contro i turchi": si pensa immediatamente a "C'era una volta un re...": e proprio questo vuole significare Calvino, cioè che racconterà una fiaba, sia pure molto moderna, ma una fiaba. 1 Italo Calvino, "Il bosco degli animali", ibidem Italo Calvino, "Visti alla mensa", ibidem 3 Italo Calvino, "Furto in una pasticceria", ibidem 4 Italo Calvino, "Si dorme come cani", ibidem 5 Italo Calvino, "Il visconte dimezzato", ibidem 2 13 "Il visconte Medardo di Terralba, mio zio": e così si sa immediatamente che c'è qualcuno che narra di qualcun altro, in terza persona, ossia che si tratta di un racconto e che chi racconta è lì presente. "Le cicogne": Calvino non dice delle cicogne, non dice una cicogna: le cicogne sono un elemento necessario del paesaggio. Un altro esempio: Fu il 15 di giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l'ultima volta in mezzo a noi. Ricordo come fosse oggi. Eravamo nella sala da pranzo della nostra villa d'Ombrosa, le finestre inquadravano i folti rami del grande elce del parco. ... 1 Calvino non ci «presenta» nulla, né personaggi né scenario, perché siamo lì anche noi. Tra poco vedremo arrivare in tavola «le lumache». E tutto è scandito dall'articolo determinativo. L’esperimento potrebbe continuare con tutte «le parti del discorso», con la sintassi della frase, con gli elementi della coesione testuale: connettivi, pronomi, marche morfologiche, ecc. Questa esplorazione dei testi, alla ricerca di particolari fenomeni, potrebbe sostituire egregiamente la grammatica. Certamente non è «lettura», ma è «consultazione» del testo: un’operazione che manca nella scuola e che si rivela invece molto produttiva, anche per l’apprendimento della scrittura. Il ragazzo può infatti imitare l’autore: può anche copiarlo purché dichiari la sua fonte. Analisi de Il macigno di Dino Buzzati e di Vecchio pianoforte di Alberto Savinio. Il macigno Sopra la bella villa dove si conduce una vita spensierata un macigno pèncola. Come mai non se ne cura nessuno? "Se non è caduto finora - dicono - che motivo c'è che cada in avvenire?". In realtà non è rimasto immobile. L'anno scorso, forse a motivo del disgelo, ha fatto un piccolo scarto, una scivolatina, e una scarica di ghiaia e sassi è piombata sul tetto della villa. Poi si è fermato, ancor più sporgente e minaccioso. "Meglio così - hanno detto -, si è assestato, e poi, anche ammesso il pericolo, che c'è da fare?". Si potrebbero mettere dei puntelli, per esempio. O fare una colata di cemento. Oggi si fanno dei lavori anche più difficili". "E i soldi? - ribattono ridendo. - E il tempo necessario? E poi chi ha voglia di arrampicarsi fin lassù e di lavorare sul limite del precipi1 Italo Calvino, "Il barone rampante", ibidem 14 zio? Non solo: come escludere che dopo non sarebbe peggio? Per rassodare la piattaforma del macigno, magari si finirebbe a smuoverlo". Ancora: "Se cadesse, è proprio stabilito che schiacci la villa? Chi lo sa. Potrebbe cadere un po' più in qua o un po' più in là, senza fare danni di sorta. E poi non sarebbe ora di piantarla con questa storia del macigno? Per carità, che menagrami. Se è proprio scritto che il disastro accada, pazienza. Intanto non amareggiamoci la vita". Ridono, giocano, mangiano, si ubriacano. Ogni tanto, nel pieno della notte, da altre parti della valle, giungono dei tetri tonfi, i vetri tremano. È segno che qualche pezzo di montagna si è staccato precipitando giù, può anche darsi che qualche casa ne sia rimasta spiaccicata. Ma oramai si è fatta l'abitudine. Nessuno batte ciglio a questi tuoni. Continuano a giocare, la sigaretta fra le labbra, poi vanno tranquilli a letto e si addormentano. Quando vede un titolo come Il macigno, il lettore esperto è assalito da dubbi: si tratta di un macigno oppure di una metafora? Il lampo aveva valore trasferito. Ma il macigno sembra proprio un macigno concreto, reale. E tuttavia si pensa anche alla seconda possibilità. I ragazzi non hanno questa sensibilità, ma possono assumerla se concentriamo la loro attenzione sui titoli. Possono raccogliere testi che hanno per titolo una parola sola e chiedersi: a) se la parola rimandi ad un oggetto concreto; b) se l'oggetto concreto abbia possibilità metaforiche; c) se l'oggetto sia pura metafora. Pèncola è parola sdrucciola. Si può spiegare che le parole sdrucciole in italiano sono più rare di quelle piane (perché la vocale postonica è caduta nelle parole latine da cui le nostre derivano) e sono parole di livello quasi sempre «alto». Una ricerca sui testi potrebbe confermare la nostra spiegazione storico-linguistica e stilistica. Faremo notare ai ragazzi la costruzione sintattica che colloca in fine di periodo quella parola sdrucciola a dare l’idea della «sporgenza» del sasso, del suo affacciarsi sul vuoto, della angosciosa labilità del suo «stare». Il macigno "pèncola. Come mai non se ne cura nessuno?" Si assiste al dialogo tra i benpensanti, i pacifici e Buzzati, con tutte le sue angosce, i suoi tremori. È il contrasto fra la filosofia dello struzzo, quotidianamente praticata dall'umanità, e la spaventosa chiaroveggenza di chi vive pensando al significato della vita e al mistero della morte. Si badi ai rumori che pervengono dalla valle, agli eventi che in essa si verificano: le scelte lessicali sono studiatissime ("i vetri tremano"; "tetri tonfi": allitterazione al limite dell’onomatopea; "casa spiaccicata", che richiama l'idea della distruzione totale, per cui non rimane più nulla). I ragazzi, se opportunamente interrogati, fanno 15 emergere queste osservazioni. Allora vale la pena di segnalare loro certi indizi affinché poi ne vadano in cerca autonomamente. È chiaro che, se non si percorre questa via, ai ragazzi non piacerà mai leggere. Leggere non è infatti percorrere con l'occhio il testo, ma è visitarlo con occhio giudice. Prevedo una domanda: e se questo (o altro testo simile) non desta reazioni? Se i ragazzi rimangono freddi, annoiati? Non bisogna insistere, ma pensare che quei ragazzi necessitano di un approccio più semplice. L’esperienza verrà rinviata, non soppressa, fino al momento in cui sarà possibile (non importa stabilire quando) passare da testi elementari ad altri più complessi. Certamente complesso è il Calvino delle Città invisibili. Ma c'è un passo da leggere ai ragazzi per far capire loro che cosa significhi un testo letterario. Marco Polo è arrivato alla reggia del Gran Khan; è stato incaricato di visitare i territori dell'impero e di raccontare all'imperatore quello che ha visto. Marco ritorna e racconta cose fantastiche delle città da lui visitate e che l'imperatore mai ha visto né avrà la possibilità di vedere coi suoi occhi, tanto sono lontane. Quelle città gli vengono raccontate. Ed ecco che nel racconto - acquistano fascino e «eternità»: Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quello che gli dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità ed attenzione che ogni suo altro messo o esploratore. Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato [si noti l'abbiamo: Calvino sottolinea all'improvviso, con la prima persona plurale del verbo, che il discorso non si riferisce solo a Marco Polo, ma ad ognuno di noi]: è il momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie [e quando parla dell'impero, chiaramente si riferisce a quello di Kublai Kan, ma anche a tutte le inutili mete sperate e raggiunte dall’uomo] è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti. Nel racconto di Marco Polo le cose continuano ad esistere; dunque esiste e resiste solo ciò che è stato affidato alla parola. Non certo alla parola effimera ma a quella duratura dei grandi scrittori. Il testo più alto, quello che veramente può rendere al massimo nella scuola (e nella vita), è il testo letterario, per ragioni più che evidenti. È certamente importante che il cittadino sappia leggere e capire il giornale; è importante che sappia leggere e capire la lingua delle bollette della luce, quando arrivano a casa: ma si faccia attenzione a non espungere il testo letterario, perché solo quel testo resiste al "morso delle termiti". 16 Ritorniamo al Macigno per notare che dalla pagina di Buzzati può uscire la grammatica intera (intendendo per grammatica ogni forma di analisi linguistica: lessicale, logico-sintattica, ecc.). La grammatica non sta nei libri di testo; la grammatica sta nei testi. Si potrebbe chiedere ad esempio ai ragazzi quale o quali siano i soggetti di cui si parla nel brano, magari partendo da una richiesta meno tecnica: «Di chi o di che cosa si parla?» La prima risposta immediata individuerà il macigno. Ma ci sono anche «gli uomini». Si possono cercare tutte le parole che, nel testo, si riferiscono al macigno, nel senso che o pronunciano la parola o la ripetono sinonimicamente o hanno la stessa referenza o la sostituiscono (pronomi). La presenza degli uomini è meno esplicita. Va ricavata dalle marche morfologiche di terza persona plurale: hanno detto, ribattono, ecc. Gli uomini sono dunque degli «innominati». E ci si chiede perché siano degli innominati. 17 IL MACIGNO Sopra la bella villa dove si conduce una vita spensierata un macigno pèncola. Come mai non se ne cura nessuno? "Se non è cadut o finora - dic ono - che motivo c' è che cada in avvenire?" In realtà non è rimast o immobil e. L'anno scorso , forse a motivo del disgelo, ha fatto un piccolo scarto, una scivolatina, e una scarica di ghiaia e sassi è piombata sul tetto della villa . Poi si è fermat o, ancor più sporgent e e minaccioso. "Meglio così - hanno detto -, si è assestat o, e poi, anche ammesso il pericolo, che c'è da fare?". Si potrebbero mettere dei puntelli, per esempio. O fare una colata di cemento. Oggi si fanno dei lavori anche più difficili". " E i soldi? - ribatt ono ridendo. - E il tempo necessario? E poi chi ha voglia di arrampicarsi fin lassù e di lavorare sul limite del precipizio? Non solo: come escludere che dopo non sarebbe peggio? Per rassodare la piattaforma del macigno , magari si finirebbe a smuoverlo". Ancora : "Se cadess e, è proprio stabilito che schiacc i la villa ? Chi lo sa. Potrebbe cadere un po' più in qua o un po' più in là, senza fare danni di sorta. E poi non sarebbe ora di piantarla con questa storia del macigno ? Per carità, che menagrami. Se è proprio scritto che il disastro accada, pazienza. Intanto non amareggiamoci la vita ". Rid ono, gioc ano, mangi ano, si ubriac ano. Ogni tanto , nel pieno della notte, da altre parti della valle giungono dei tetri tonfi, i vetri tremano. È segno che qualche pezzo di montagna si è staccato precipitando giù, può anche darsi che qualche casa ne sia rimasta spiaccicata. Ma oramai si è fatta l'abitudine. Nessuno batte ciglio a questi tuoni. Continu ano a giocare, la sigaretta fra le labbra, poi v anno tranquilli a letto e si addorment ano. gli uomini Forse perché sono un enorme soggetto collettivo: l’intera umanità? O perché sono così sbiaditi, così inconsistenti, nei confronti del macigno, da non meritare una citazione esplicita? Nel momento in cui Buzzati dice "ridono, giocano, mangiano" c’è qualcuno che viene escluso? Chi? Non c'è dubbio, l'autore si sottrae alla massa e sottrae anche il lettore: l'autore parla di altri con il lettore, cioè parla degli uomini come se fossero altri, creando così un senso di complicità. Così il ragazzo può essere introdotto nella dinamica autore-testo-lettore, a cui solitamente non riflette. In altre parole: il ragazzo legge I promessi sposi , ma non stabilisce un contatto con Manzoni, non va al di là del 18 testo. Bisogna quindi spiegare che di là dal testo c'è un uomo, l’autore che si rivolge al lettore. Nel caso in esame l'uomo è Buzzati, che sta parlando con noi e ci solleva al rango di individui consapevoli, mentre gli altri sono riuniti (e condannati) in ridono, giocano, ecc. Un'obiezione. Si dirà: è vero che i ragazzi dovrebbero toccare il libro, aprirlo, tagliarne le pagine (se ancora esistono libri intonsi). Ma queste operazioni costituiscono dei rituali che probabilmente hanno fatto il loro tempo e che potrebbero venir utilmente sostituiti dal mezzo elettronico. Noi abbiamo incontrato gli "occhi irti", ma oggi c’è la macchina che può trovare tutti gli "irti" della nostra letteratura, con rapidità imbattibile, risparmiandoci la ricerca. Grazie ad essa si può sapere molto facilmente e rapidamente chi ha usato, e dove, la parola irto. Ma resta da vedere a che cosa sia riferito irto e quindi le connotazioni legate a questo aggettivo. E poi, è un po' come andare ad un concerto: è chiaro che si può ascoltare benissimo la stessa musica da disco, seduti in poltrona, nel silenzio delle pareti domestiche. Ma si va al concerto perché è un'altra cosa, per il rituale di un ascolto partecipato e rischioso, dal vivo. Anche il libro instaura il rituale della lettura. Tornando al testo di Buzzati, finora non si è fatto che individuare i due soggetti, il macigno da un lato e gli uomini dall'altro. Poi si è sottolineato nel testo tutto quello che si riferisce al macigno e tutto quello che si riferisce agli uomini. Ma si vede dal grafico che gli uomini non sono mai presenti nel testo, che sono recuperabili solo dalla loro parvenza morfologica, tanto sono amorfi: personaggi dal volto senza lineamenti, ad uovo come certi uomini di Magritte, o di Ricasso. I ragazzi, leggendo il testo per la prima volta, probabilmente non penseranno al macigno/morte. Penseranno forse ad altri macigni di tipo affettivo, a loro più vicini: la solitudine, le situazioni familiari, ecc. E ben vengano tutti i macigni: il testo letterario non è un limone spremibile una volta per tutte, definitivamente, che poi si butta via. Non si riuscirà mai a spremere un testo letterario fino a fargli dire tutto quello che contiene e che evoca. Verrà sempre qualcuno che lo spremerà in maniera diversa ricavandone altri sensi, altre emozioni: il testo è inesauribile. Tutte le interpretazioni possibili sono la vera ricchezza del testo letterario. Una circolare ministeriale, una legge devono realizzare la biunivocità del messaggio; al testo letterario competono polimorfia e polisemia. Ed è importante che venga messo bene in rilievo come, a differenza del discorso comune, in cui esiste un limite, varcando il quale si cade per forza o nella bugia o nell'imbroglio, il testo letterario abbia il diritto di mentire e di creare mondi possibili, capaci di tollerare interpretazioni diverse da parte di lettori diversi. Per questo il testo letterario è la lettura più democratica di tutte: perché dà spazio a tutte le interpretazioni. La circolare ministeriale, la legge, ecc. dovrebbero dire la stessa cosa a tutti; nel testo letterario ci sono nicchie per la sensibilità di ciascuno. Nel testo letterario c'è un massimo di libertà. 19 Nel brano di Buzzati tutto il testo si organizza e si coagula attorno ai due poli; nella parte iniziale tutto è orientato verso il macigno (si noti la coesione fortissima del testo imperniata sul riferimento a quella parola); nella seconda parte compaiono gli uomini dalla testa a uovo. La loro presenza si ispessisce alla fine del testo: "continuano a giocare, la sigaretta tra le labbra, poi vanno tranquillamente a letto." L'operazione compiuta or ora ha lo scopo di mostrare che cosa sia la coesione: un testo è unitario perché ricorrono in esso parole che hanno un riferimento precedente (di tipo anaforico), o anticipano un riferimento successivo (di tipo cataforico). Guardando il grafico è possibile cogliere l’intera trama morfologica e lessicale. C'è chi asserisce che la grammatica è stupida: lo è se diventa fine a se stessa. Non lo è più se è grammatica funzionale, recuperata dal testo in cui funziona. Nel caso in esame, ogni richiamo al macigno serve a tessere il testo in maniera che risulti compatto, ossia coeso. La morfologia serve per tramare il testo. Quando Galileo dice "la sfera celeste è un orbe stellare, formato..." si capisce che "formato" si riferisce "all'orbe stellare". Pertanto la scoperta della coesione del testo si traduce in interpretazione del testo stesso. Dopo la lettura del Lampo e del Macigno, ci può venire in mente che i ragazzi hanno anche il diritto di ridere. La proposta di lettura è allora Vecchio pianoforte, di A. Savinio. Vecchio pianoforte Il cavaliere Putignani, la signora Putignani, la signorina Putignani sboccarono in via Ripetta. Ivi, il paterfamilias trasmise il comando della piccola brigata alla signorina Ilda, la quale, come più pratica dei luoghi, condusse il babbo e la mamma all'ingresso della Filarmonica. Il custode non divagò in interrogazioni vane, ma con fare sbrigativo domandò: "È per il pianoforte?". "Appunto" rispose il cavaliere, sbalordito di tanto acume. Preceduti dall'indovino gallonato, i tre visitatori traversarono la conventuale nudità di un lungo corridoio, entrarono nella saletta riservata ai concertisti. Un divanetto rosso e due poltrone, si serravano come naufraghi sull'isolotto rettangolare del tappeto. Una piccola foresta di leggii levava al soffitto i rami spogli. Un contrabbasso intabarrato dormiva con la spallaccia al muro. Pianisti curvi sulla tastiera come ciclisti in salita, violinisti con la guancia sul violino, violoncellisti col violoncello tra le gambe costellavano le pareti. Una corona d'alloro lasciava piovere i nastri ingialliti sul divano. "Ecco lo strumento" disse il custode, e con esperta mano scoprì la tastiera di un pianoforte nero e caudato. La signora Putignani ammirava la stupenda dentatura. "Fabbricazione tedesca" soggiunse il custode "corde incrociate, feltri novissimi: una vera occasione!". "Bisognerebbe provarlo" replicò il cavaliere, e chiamò: "Ilda!". 20 Ilda era andata nel fondo della stanza, e per lo spiraglio di una portiera cremisi, spiava la sala dei concerti. Solitario nella fredda luce che pioveva dall'alto, il successore del pianoforte spodestato riposava sul palco, sotto un camice di tela bigia. "Ilda" ripeté il cavaliere "sònaci qualcosa". Ilda si schermiva: "Non so... non so..." e tuffò il mento nel pettino magro, come gallinella che si spulcia. "Come sarebbe! E Fremito d'Amore, e Ricordo di Capri, e Passano i Bersaglieri che suoni sempre in casa della zia Clotilde?". Ilda sculettava, torceva dietro la schiena le braccette nude. "Lasci fare" intervenne sdegnoso il custode e facendo scorrere il pollice da un capo all' altro della tastiera, suscitò un rivolo di note che rintronò a lungo, si allontanò, si spense. I Putignani tacevano ammirati. Allora un altro rivolo di note, più sommesso e misterioso, echeggiò nell'adiacente sala dei concerti: l'addio del pianoforte giovane al veterano che partiva. L'indomani, le scale di casa Putignani risonarono di orrende imprecazioni. Sotto gli sforzi associati di una squadra di facchini, il vecchio pianoforte saliva a passo di lumaca. Sul pianerottolo del quarto piano, l'imprecante corteo si fermò: la scala si restringeva a tal punto, che non quel mastodontico strumento con tutta la coda dietro, ma non ci sarebbe passata la più esile spinetta. "Io non ce la faccio" dichiarò il caposquadra, e fece l'atto di rinfilarsi la giacca. Terrorizzato dall'atteggiamento del caposquadra, intimidito dagli inquilini che si affacciavano alle porte degli appartamenti, il cavalier Putignani offrì mance sbalorditive. Il caposquadra si ammansì, e mediante un sistema di corde e di carrucole, il vecchio pianoforte uscì dalla finestra, oscillò nel vuoto, si posò su una terrazza fiorita di gerani, entrò nel salotto di casa Putignani. Sotto lo sguardo compiaciuto del cavaliere e della signora Putignani, la piccola Ilda "faceva" le scale. Uno strazio. Scale maggiori e scale minori, scale melodiche e scale armoniche, scale a terze e scale a seste, scale a ottave e scale cromatiche. Un tormento. Finite le scale, la piccola Ilda attaccava gli esercizi di Pischna, molto indicati per "sciogliere" le dita. Una tortura. Dopo gli esercizi di Pischna, l'inesperta pianista passava a una melensa sonatina di Kullak. Un supplizio. Il vecchio pianoforte fremeva di sdegno. Lui che durante la sua gloriosa carriera era stato toccato dalle dita dei Paderewski e dei Busoni, sentirsi addosso sul tardi dell'età quelle manine inabili e mollicce! E nelle lunghe solitudini notturne, tra i puf di velluto e i fiori di carta, tra il cane di bronzo con l'orologio in bocca, e la fotografia in ingrandimento di Goffredo Putignani giovane in uniforme di bersagliere, il vecchio pianoforte rievocava il passato. 21 Dei tanti pianisti che aveva conosciuto, era quel pianista scheletrico, non si sa bene se polacco o boemo, ma israelita comunque, che meglio di tutti lo aveva saputo dominare. Sotto il martellamento di quelle dita ossute, lo strumento, giovane allora e nel pieno delle forze, vibrava come creatura viva. Che momenti erano quelli! E quando il pianista, fradicio e traballante si alzava dalla tastiera, le corde fremevano ancora all'uragano degli applausi. Questi ricordi rievocava il vecchio pianoforte, e nello spasimante desiderio di ritrovare sulla tastiera ingiallita il tocco delle gloriose dita, la sua carcassa scricchiolava come quercia in mezzo alla bufera, e una lontana, misteriosa musica correva le lunghe corde di metallo. Il commendatore Corpas che abitava al piano di sotto, incontrò per le scale il cavaliere Putignani. "Ma lo sa, cavaliere, che la sua figliola è una pianista straordinaria?". "Ha cominciato che è poco" rispose Putignani con grato sorriso "ma è volonterosa e si farà". "Altro che si farà. È un genio, un prodigio! Ieri si stava a sentirla, io e la mia signora. Che forza! Che agilità! Che sentimento!". "Ieri? ripeté dubitativamente il cavaliere. Aggiunse: "Ma se ieri eravamo a Frascati...". Alle lodi del commendatore Corpas, seguirono quelle della signora Strua del terzo piano, poi quelle del notaio del secondo, del ragioniere del primo, dell'ostetrico del piano rialzato, della portiera, dei vicini. Putignani non dubitava più. La ricchezza gli sorrideva e, impiegato all'Esattoria Civica, compilava mentalmente la lettera di dimissioni da mandare a quella carogna del capufficio. È domenica. La famiglia Putignani torna dalla messa. All'altezza del secondo piano, un sospetto penetra nell'animo del cavaliere. Al terzo, il sospetto si converte in certezza. Al quarto piano, Putignani stringe a sé la moglie e la figliola. Sulla soglia di casa sussurra: "Seguitemi in punta di piedi", e spalanca la porta del salotto. Davanti ai tre membri esterrefatti della famiglia Putignani, il vecchio pianoforte ricanta l'antica gloria. I tasti balzano vertiginosamente, lunghi arpeggi corrono la tastiera, la cassa vibra come una caldaia, la coda oscilla come una balena in navigazione. E la musica cresce. I bassi si spezzano con orribili schianti, le corde si torcono come serpenti, i martelli schizzano dalla cassa armonica, i feltri volano per il salotto. La musica sale al parossismo. Il vecchio pianoforte si rizza in uno sforzo supremo, oscilla a mezz'aria, abbatte la vetrata, ricade fracassato sulla terrazza. La musica è cessata. Fu così che in un tenero meriggio d' autunno, sopra una terrazza fiorita di gerani, il vecchio pianoforte chiuse la sua gloriosa carriera, sotto un cielo limpido, indifferente come l'occhio di una dea. 22 Si procederà anche in questo caso a brevi rilievi puntuali. Intanto il titolo si presenta con le credenziali di un onesto titolo riferito all'oggetto. Si è avvertiti che si racconterà di «un vecchio pianoforte», ma non si sa che cosa succederà di esso, se assumerà funzione e titolo di simbolo, di emblema, o se rimarrà uno strumento musicale. Già l'inizio stupisce il lettore, per il quale la cosa più ovvia sarebbe stata leggere *la famiglia Putignani, oppure *il cavalier Putignani con moglie e figlia, per risparmiare la ripetizione. Si ponga anche mente al cognome. L'autore ha dovuto inventarlo: perché allora proprio «Putignani», per di più accompagnato dal degno e onorifico titolo di «cavaliere»? La «presentazione» dei personaggi suggerisce subito la sensazione che si tratti di una famiglia piccoloborghese che fa (forse) una passeggiata domenicale. E allora si capisce che la ripetizione del cognome è intenzionale; si badi anche al termine paterfamilias, che rinvia all'idea dell'autorità spettante al capo di una famiglia socialmente ligia. Anche il nome della signorina Putignani, Ilda, si colloca bene in questo clima ottocentesco. La famigliola va a comprare un vecchio pianoforte, il quale si trova presso la locale Filarmonica. Il pianoforte, suonato da grandi musicisti, capiterà sotto le mani gentili, delicate e borghesissime della signorina Ilda, e sarà costretto a «fare» le scale e ad eseguire sonatine insulse per deliziare gli ospiti dopo pranzo. Il custode (che diventerà tra poco "l'indovino gallonato") dimostra molto acume e sbalordisce il cavalier Putignani. Il termine acume suggerisce qualcosa: dice che il portiere - il quale fa parte della Filarmonica, sia pure solamente come portiere (ma ha ascoltato molti concerti!) - ha intuito subito, al primo comparire, che «i Putignani» venivano a comperare il povero, vecchio pianoforte, reduce da tanti trionfi. "La conventuale nudità": l'espressione indica la sacralità del luogo ma suggerisce anche come sarà l'interno di casa Putignani. Pur essendo giunto ad un certo grado di dignità sociale, il cavaliere Putignani avrà certamente mobili e soprammobili di pessimo gusto (come puntualmente l'autore confermerà). Si osservi la descrizione, bellissima, della saletta. [Esercizio utilissimo: far descrivere ai ragazzi un arredamento]. L'immagine è splendida: il divanetto e le due poltroncine che si stringono tra loro per salvarsi sull'isolotto del tappeto... Il pianoforte, "nero e caudato": (*pianoforte a coda sarebbe stata espressione insulsa, priva di sapore; caudato dà l'impressione di un essere animato: subito dopo, infatti, la signora Putignani ne ammirerà la "dentatura"): ciò significa che gli strumenti diventano personaggi, appaiono umanizzati, quasi possedessero un'anima. È un indizio importante. "I Putignani tacevano ammirati": i Putignani al plurale perché si tratta di una «categoria»; non solo una famiglia, ma una categoria di persone. 23 "Allora un altro rivolo di note ... si spense": la voce del vecchio pianoforte richiama la voce dello strumento nuovo: Savinio fa capire che ci sono dei morti (ossia i Putignani), e dei vivi (ossia i pianoforti), che si salutano. "L'indomani...ma non ci sarebbe passata la più esile spinetta"; nessuno si era preoccupato di controllare se il pianoforte potesse passare per le scale: e il pianoforte «non gira». Sembra quasi esista una sua volontà di «non girare». Una bella mancia (assolutamente inedita nel comportamento dei Putignani) riesce nel miracolo di introdurre lo strumento in casa. Ma il lettore non dimentica l’episodio, quasi un segno del destino: il pianoforte non voleva entrare. "Sotto lo sguardo compiaciuto...la piccola Ilda «faceva» le scale": le scale non si possono suonare, non si possono eseguire: vanno «fatte». Si noti poi lo splendido esempio di anafora al termine di ogni «esecuzione» musicale della signorina Putignani: "Uno strazio...Un tormento...Una tortura...Un supplizio". E il ritorno a capo, ogni volta con un termine solo, una notazione brevissima, in terribile climax. "Il vecchio pianoforte...rievocava il passato": vengono presentati qui gli oggetti di casa Putignani (le «buone cose di pessimo gusto») evocati, con somma sapienza artistica, in piccole sequenze. "Il commendatore Corpas...eravamo a Frascati": eravamo, ossia i Putignani viaggiano sempre, ordinatamente, convenientemente, tutti insieme (e la notazione rimanda all’inizio del racconto). "Alle lodi...del capufficio": è questo l'ultimo, splendido tratto di identificazione del cavalier Putignani: evidentemente non poteva andare d'accordo col suo capufficio il quale, per forza di cose, non poteva non essere «una carogna». "È domenica....salotto": è sconsigliabile dare il testo ai ragazzi affinché lo leggano autonomamente. È necessario invece leggerlo loro, perché bisogna che pendano dalle labbra dell’esecutore. Devono essere costretti a chiedere: «Che cosa succederà ora?». Poiché non hanno l'esperienza del surreale che permetterebbe di prevedere la conclusione della vicenda (non hanno, probabilmente, mai visto gli orologi di Dalí, è bene che la soluzione arrivi loro all'improvviso, come uno schianto finale). "Davanti ai tre membri esterrefatti della famiglia Putignani...indifferente come l'occhio di una dea": il pianoforte si è suicidato, per non subire l'onta delle manine sudaticce e mollicce della signorina Ilda. Ha preferito una morte gloriosa ad una vita ignobile. C’è dunque un senso riposto, nel racconto, che - in un certo senso - lo riconduce al Macigno: il senso è che la mediocrità non paga. Non si può vivere tra la paccottiglia di casa Putignani e resistere al disgusto. 24 Il pianoforte si suicida, perché ha una forma di sublimità, una sublimità che i Putignani non sono assolutamente in grado di capire: il suicidio del pianoforte significa il disprezzo delle cose banali e l’esaltazione delle cose belle, dell’arte, della musica. 25 CONVERSAZIONE AL TERMINE DELL'ESPOSIZIONE Come affrontare la lettura di un testo letterario? Qualsiasi testo va - prima di tutto - letto ad alta voce e non spiegato: ci si affidi ad una comprensione di tipo intuitivo. In questa fase bisogna badare alla reazione dei ragazzi: se si vede che c'è interesse, si continua; altrimenti si cambia. Nello stesso giorno è bene non fare altre operazioni sul testo. L'indomani lo si riprenderà, operando un approfondimento di tipo contenutistico o linguistico, compiendo anche, un po’ alla volta, l’itinerario grammaticale. Non è il caso di ripetere le esperienze del passato, quando gli insegnanti divaricavano il più possibile le lezioni di antologia e quelle di grammatica affinché non si contaminassero a vicenda (il testo non deve essere aduggiato dalla grammatica!). Ma come è un itinerario di tipo grammaticale? Significa partire dal testo intero per arrivare alle sue unità più piccole. Ma si può fare anche un percorso che rivitalizzi la grammatica tradizionale. Ad esempio, se si vuole trattare l'articolo, forniscono un ottimo materiale gli incipit delle favole. ("C'era una volta un mugnaio. Il mugnaio aveva tre figli. Quando morì, lasciò al primo il mulino, al secondo ..., al terzo un gatto". «Il mulino», ovviamente, perché ne aveva uno solo). Dal contesto appare bene la successione articolo indeterminativo (la prima volta che compare il nome) / articolo determinativo (quando il nome ricompare, ormai «noto» al lettore). Ma i testi offrono anche i controesempi: "La luna sorse all'improvviso. Era una luna verdastra [...]"(V. Rossi). Qui assistiamo al rovesciamento della regola. È giusto dire «La luna sorse all'improvviso» perché c'è una sola luna; ma la luna si presenta tutte le sere e assume vari aspetti: di conseguenza è più che lecito dire «Era una luna...». Si veda l'inizio del Giorno della civetta di Leonardo Sciascia: "L'autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell'alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice (cattedrale): solo il rombo dell'autobus e la voce del venditore di panelle, panelle calde panelle, implorante e ironica. Il bigliettaio chiuse lo sportello, l'autobus si mosse con un rumore di sfasciume. L'ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza, colse l'uomo vestito di scuro che veniva correndo; il bigliettaio disse all'autista - un momento - e aprì lo sportello mentre l'autobus ancora si muoveva. Si sentirono due colpi squarciati: l'uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò". Non c'è un articolo indeterminativo: Sciascia ci dà un assassinio in prima pagina e vuole che il lettore sia impressionato da quanto succede; lo introduce quindi sulla scena e descrive i fatti come se il lettore fosse presente (traspare qui l’esperienza 26 cinematografica dell'autore). Non dice quindi: «Vide un uomo», ma «Vide l'uomo», ossia quell'uomo lì che anche tu, lettore, vedi, perché stai guardando la scena. Come fa la grammatica tradizionale, descritta sul manuale, a spiegare queste cose? La grammatica spiega delle generalità che vengono continuamente smentite dai testi: bisogna pur dirlo ai ragazzi. Fare grammatica sì, partire dall'articolo, se proprio si vuole, sì; ma avvertire i ragazzi che l'articolo si dovrà misurare con i casi in cui non c'è nessun articolo («Tempo verrà ..», e non «il tempo verrà… » che toglierebbe tutta la solennità del dire). In Sciascia è usato l’articolo determinativo perché il lettore vede gli oggetti: e c’è una sola piazza, un solo autobus, un solo uomo, ecc. In Vittorini è diverso: l'articolo determinativo (l'uomo, l'uomo coi baffi, l'Arrotino, l'uomo Ezechiele) è usato per sottolineare che non si tratta di uomini reali, ma di emblemi, di rappresentanti di una categoria: quella di tutti gli uomini che la pensano in un certo modo. Quindi l'Arrotino non potrà mai diventare *Un arrotino, perché un arrotino è colui che esercita il mestiere dell'arrotino, mentre in Vittorini «L'arrotino» è colui che prepara i coltelli per reagire, per riscattare l'onore offeso, per rialzare la testa. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Occorre quindi spiegare ai ragazzi che non esiste una grammatica separata dai testi (così come non esistono testi senza grammatica). Quale sarebbe il procedimento più logico per l’analisi linguistica «testuale»? Si potrebbe cominciare, per esempio, dalla narratologia (sembra giusto procedere dal più grande al più piccolo); ma si potrebbero scegliere anche altre partenze. Calvino è stato usato per gli aggettivi; Buzzati per le parole sdrucciole e per la coesione testuale. In tutti i casi i testi devono offrire lo spunto all’osservazione di un fenomeno o al massimo due. E la mano deve essere tenuta leggera, perché l’analisi deve essere approfondimento del piacere della lettura, consapevolezza delle motivazioni di quel piacere; non attività meccanica, stressante, sul testo, che rischierebbe di rovinare a ritroso il gusto della lettura. È quanto succede con le famigerate «griglie»: i ragazzi leggono malvolentieri perché prevedono di doverle applicare. Si devono ancora leggere I promessi sposi? Il Manzoni entrava ogni mattina nel suo studio e correggeva il romanzo (vedere la sua scrivania con gli occhialini varrebbe il viaggio a Milano): tredici anni di correzioni, dall’edizione del 1827 a quella del 1840. Questo l’episodio educativo per i ragazzi, che credono loro compito quello di scrivere e compito del docente quello di correggere; essi non sanno che cosa significhi tornare sul proprio testo a distanza. sarebbe bene, una tantum, prendere l’edizione di Caretti (che riporta le due redazioni) e far notare ai ragazzi quanto, che cosa, come e perché correggeva, il Manzoni. Va anche detto ai ragazzi che Manzoni parlava milanese, proprio come Pirandello parlerà siciliano: l'italiano parlato non esisteva nell'Ottocento e anche agli inizi del Novecento. Ognuno si arrangiava, nella comunicazione familiare, con il dialetto. Esisteva una lingua letteraria, ossia il toscano, adottato dagli scrittori di tutta la penisola; ma Manzoni, che doveva far parlare gli umili, non poteva farli parlare in 27 lingua letteraria, poiché sarebbe stata una contraddizione. Bisognava dunque creare una lingua parlata abbastanza vicina al toscano, ma tale da non essere avvertita «estranea» dai lettori delle diverse regioni italiane. Correggendo, il Manzoni passa spesso dalla scelta «letteraria» a quella più quotidiana e familiare: a) "Cosa comandan questi signori - diss'egli" diventa "Cosa comandan questi signori disse ad alta voce" : è sparito quell'«egli», che era letterario, e, poiché «disse» sembrava troppo corto e tronco, viene aggiunto «ad alta voce». b) "Levarono le palme" diventa "Alzarono le mani supplici": banalizzata l'espressione, si aggiunge un aggettivo alto a dare il senso di una preghiera abbastanza solenne. L'aggettivo restituisce quel tanto di nobiltà di eloquio che, con la correzione, era andata perduta. c) "Prima di tutto un buon fiasco di vino sincero - disse Renzo - e poi un bocconcino" diventa "e poi un boccone". «Un bocconcino» era una leziosità sulla bocca di Renzo. «Un boccone» invece è grossolano come lui e va benissimo. d) "Così dicendo s'assettò a sedere sur una panca:" diventa "si buttò a sedere". e) "Verso l'estremità del desco" diventa "verso la cima della tavola". f) "Ma tosto gli corse alla memoria quella panca e quel desco a cui da ultimo era stato seduto con Lucia e con Agnese" diventa "Gli venne subito in mente quella panca e quella tavola a cui era stato seduto l'ultima volta con Lucia e con Agnese", dove «l'ultima volta» è scelta felice perché contiene anche il rimpianto. g) "Dié poi una scrollatina di capo" diventa "Scosse poi la testa come per riscattar quel pensiero e vide venir l'oste col vino". «Diè» è sentito come "punta ostile" (Saba) e sostituito. h) "Il compagno s'era seduto rimpetto in faccia a Renzo" diventa "Il compagno s'era messo a sedere in faccia a Renzo". i) "Per ammollar le labbra" diventa "Per bagnare le labbra". l) "Riempiuto l'altro bicchiere" diventa "Riempito..." m) "Che cosa mi darete da mangiare? - disse poi all'ostiere" diventa "Cosa mi darete da mangiare? - disse poi all'oste". L'operazione compiuta dal Manzoni costituisce un passo decisivo per la storia della nostra lingua: Manzoni ha intuito, sbagliando pochissime volte, quali parole avrebbero vinto la lotta per la sopravvivenza e quali sarebbero cadute. In genere sa scegliere la parola che trionferà (anche grazie al fatto che l'ha scelta lui, usandola in un testo letterario famoso). Chi ha letto o legge o leggerà questo testo letterario, amandolo o magari odiandolo (a volte cominciando ad odiarlo e poi finendo per amarlo), deve sapere che si deve anche a quel testo se - dalle Alpi alla Sicilia - esiste oggi una notevole omogeneità linguistica. Parlare del testo letterario significa dunque parlare anche della sua esemplarità e della sua importanza storica. Ammesso che i ragazzi preferiscano a I promessi sposi altre letture che meglio interpretano i loro gusti (nel qual caso dovremmo accettare - almeno inizialmente - le loro preferenze), l’importanza dei Promessi sposi rimane «storica»; e il Manzoni può essere utilizzato come fonte di lingua e modello di comportamento «correttivo». La mia convinzione è che anche il piacere della lettura possa essere raggiunto se 28 l’insegnante fornisce ai suoi scolari gli strumenti idonei, la necessaria preparazione, e se garantisce la sua collaborazione continua. Del resto, recentemente, ho comprato qualche numero di Dylan Dog, per vedere come è scritto il fumetto che più interessa i ragazzi d’oggi, e ho avuto la sorpresa di trovare una lingua conformista, nei confronti della grammatica, tutt’altro che ribelle alle convenzioni e alle norme. Certamente c’è più carica rivoluzionaria nei Promessi Sposi e l’operazione linguistica del Manzoni è più innovativa di quella degli autori del «pazzoide, surreale, demenziale, ecc.» fumetto. Sono profondamente convinta del fatto che un insegnante debba cominciare da Dylan Dog - se questo serve ad attirare i suoi scolari - ma sono anche convinta che un bravo insegnante possa riuscire a portare la sua classe a letture meno effimere, se ha la pazienza di attendere e il coraggio di provarci. 29 IL TESTO FRA NORMA E CREATIVITÀ 1. Antologia sì o no? Come lettrice penso che i testi vadano divorati per intero, non assaggiati in dosi omeopatiche. Ci penserà poi, fatalmente, la nostra debole memoria ad antologizzare, cioè a selezionare e a ricordare per brandelli. Questa convinzione dovrebbe tradursi in un rifiuto dell'Antologia nella scuola, a favore dell'alternativa possibile: la lettura integrale di una (o più di una) opera letteraria; di solito - nella prassi didattica - un'opera narrativa. Ma questa alternativa, che tutela l'integrità delle opere, rinuncia alla varietà e ricchezza delle esperienze testuali (non solo narrative; non solo letterarie!), che pure sono importanti, in fase di iniziazione alla lettura. Sicché non me la sentirei di condannare l'Antologia, di estrometterla dalla scuola. Tanto più che l'integrità delle opere potrà essere, almeno in parte, salvaguardata privilegiando i testi brevi su quelli lunghi (per es. il racconto sul romanzo); e là dove il "taglio" si impone, esso potrà essere giustificato agli studenti come necessaria strategia di accesso, rinviando a letture più adulte. Un esempio: il buon lettore non si ribella, quando il Manzoni ritarda l'incontro di don Abbondio e dei bravi, per inserire nel testo «alcuni squarci autentici», cioè documenti storici riguardanti quegli ambigui personaggi. Egli potrà criticare la «digressione» (come faceva il Tommaseo), o potrà apprezzarla come controcanto ironico, come contrappunto linguistico secentesco al testo narrativo; ma in tutti e due i casi non "salterà" quella pagina, ben sapendo che essa - proprio perché interrompe lo svolgersi degli eventi - agisce come stimolo della sua curiosità e delle sue attese. Non possiamo pretendere un comportamento altrettanto maturo in un lettore apprendista, interessato soprattutto (come è logico) al livello più accessibile e vistoso del testo: quello della trama. Il ragazzo "salterà" - con la nostra complicità - il brano delle gride, suturando così l'apparizione dei bravi con la desolazione di don Abbondio, quando questi deve constatare che «l'aspettato» è proprio lui. Questa lettura ingenua rinvierà esplicitamente a successive e più smaliziate letture: fino a quella capace di mettere in rapporto il funambolismo sonoro della pagina manzoniana sulle gride (ne diamo un esempio qui sotto, in B) con le acrobazie linguistiche della commedia dell'arte (si legga qui sotto, in A, la presentazione di un capitano spagnolo al servo Squadra): A) "COCCODRILLO.... Capitan don Alonso Cocodrillo, Hijo d'el Colonel don Calderon de Berdexa, hermano d'el Alferez Hernandico Mandrico de strico de Lara de Castilla la vieja, cavallero de Sevilla, hijo d'Algo verdadero, trinchador de tres cuchillos, copier major de la Reyna de Guindaçia, saccador de coracones, tomador de 30 tierras, lancador de palos, cavalcador de janete, jugador de pelota, enventor de justras, ganador de torneos, protetor de la ley Christiana, destruydor de los Luterianos, segnor y Rey de l'arte militaria, terror de los traydores, matador de los vellacos [...] y amigo cordialissimo de don Gatavite Pontius de Leon, y de don Rebalta Salas de Castagnedo. SQUADRA. Signore, io resto el più attonito huomo d'el mondo; perché pensava haver un solo padrone, et mi pare de haverne duimilia." (Fabrizio de Fornaris, Angelica (1585), A. I, sc. III) B) "Fino dall'otto aprile dell'anno 1583, l'illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia [...] pubblica un bando contro di essi [...] All'udir parole d'un tanto signore [...] viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d'un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della città di Frias, Conte di Haro e Castenovo, Signore della casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc." (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. I) 2. L'Antologia in funzione della lettura Antologia sì, dunque, come strategia di iniziazione alla lettura, nella speranza che l'ampio assaggio di testi possa stimolare l'appetito del lettore. D'altra parte la decadenza della lettura è fenomeno ormai così vistoso, ed è così a rischio la sopravvivenza della specie-lettore, da giustificare l'impiego di tutti i mezzi, anche di quelli più rischiosi, per invertire la tendenza. E se possono esistere dubbi sulla legittimità dell'antologia, non esiste dubbio di sorta sulla necessità di salvare - a ogni costo - la lettura: non solo perché è attività 31 ludica e consolatoria, capace di liberare l'uomo dalla routine o dallo squallore quotidiano per farlo decollare verso i «mondi possibili» creati dalla letteratura; ma anche e soprattutto perché è veicolo di esperienze culturali indispensabili alla nostra sopravvivenza intellettuale, fonte di un approvvigionamento linguistico necessario alla conoscenza, se è vero che il rapporto dell'uomo con il mondo esterno è mediato dalla parola. Non sono soltanto i concetti astratti ad aver bisogno di un perimetro lessicale; anche oggetti concreti e scarsamente evocativi esistono e vengono inseriti nei nostri circuiti mentali solo se simbolizzati da un nome. Scriveva Virginia Woolf, nel suo Diario, poco prima della tragica fine: "Ed ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e che devo preparare la cena. Merluzzo e salsicce. Credo sia vero che, scrivendone, ci si rende in qualche modo padroni del merluzzo e delle salsicce." (Diario di una scrittrice, trad. di G. De Carlo, Milano, Mondadori) Ne concludiamo che «ci si rende in qualche modo padroni» del reale non manipolandolo, ma nominandolo: noi pensiamo un mondo che la nostra lingua ha già modellato. La conclusione è impegnativa per chi - a qualsiasi titolo - insegni lingua: il suo compito non è fornire uno strumento, ma trasmettere un potere, forse il più alto potere possibile: "Il linguaggio instaura una realtà immaginaria, anima le cose inerti, fa vedere ciò che ancora non esiste, riconduce qui ciò che è scomparso. Ecco perché tante mitologie, dovendo spiegare come all'alba dei tempi qualcosa sia potuto nascere dal nulla, hanno posto come principio creatore del mondo questa essenza immateriale e sovrana: la PAROLA. Non esiste potere più alto, e, a ben pensarci, tutti i poteri dell'uomo derivano senza eccezione da quello". (É. Benveniste, Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971) Ecco perché preoccupa il declino della competenza linguistica, nelle sue forme più meditate e creative: lettura e scrittura. Venendo meno l'esperienza e l'esercizio di lingua scritta, la diffusione geografica della lingua orale e la sua penetrazione nello spessore sociale avvengono in forme così scialbe e stereotipe da far rimpiangere le alternative dialettali anche a chi non abbia mai avuto nostalgie di tipo folcloristico. Oggi quasi tutti i cittadini italiani possiedono quella conoscenza strumentale della lingua che serve alla sopravvivenza quotidiana e alla ricezione di Pippo Baudo; ma ben pochi sanno utilizzare la lingua nelle sue funzioni superiori, di tipo logico e fantastico. È a rischio la capacità di concettualizzazione, di strutturazione logica del pensiero, non soltanto un comportamento comunicativo, un'abilità retorica. 32 Alcuni esperti hanno già teorizzato il passaggio dalla «civiltà della parola» alla «civiltà del numero» (come se il numero non fosse anch'esso parola!), o alla «civiltà dell'immagine», ecc.; ma il timore è che l'alternativa sia la civiltà della clava. Non mancano gli episodi quotidiani di banalità, di ottusità, di rozzezza, di insofferenza, di violenza, che sembrano preludere a Neanderthal. Per giustificarli si parla a volte di follia individuale o collettiva, ma può darsi che la motivazione sia l'ignoranza e la elementarità di un pensiero non sufficientemente stimolato a operare logicamente: a classificare, a seriare, a generalizzare/degeneralizzare, a stabilire relazioni, ecc. E chi non può esercitare il potere della parola, può ricorrere a mezzi più elementari e immediati per inserirsi nella realtà. Viene in mente, a questo proposito, il «ragazzotto con la faccia a mela» di Calvino (in Ultimo viene il corvo) che spara invece di parlare, perché solo così riesce ad abolire la distanza fra se stesso e le cose, e quindi a entrare in contatto con esse: "Il ragazzo muoveva ancora la bocca del fucile in aria. Era strano a pensarci, essere circondati così d'aria, separati da metri d'aria dalle altre cose. Se puntava il fucile invece, l'aria era una linea diritta ed invisibile, tesa dalla bocca del fucile alla cosa, al falchetto che si muoveva nel cielo con le ali che sembravano ferme. A schiacciare il grilletto l'aria restava come prima trasparente e vuota, ma lassù all'altro capo della linea, il falchetto chiudeva le ali e cadeva come una pietra." La parola non è certamente l'unico antidoto alla violenza; ma è sicuramente un correttivo di essa, se sperimentata a quei livelli - primo fra tutti la lettura del testo letterario - che possono tirare fuori il meglio da un individuo, canalizzando i suoi pensieri, liberando le sue emozioni. Se così è, il problema dell'Antologia, come strategia di accesso alla lettura, deborda dalla sfera didattica, per assumere dimensioni cognitive ed etiche. Queste due dimensioni rimarranno presenti, nel mio discorso, anche se esso diventerà, da ora in poi, più operativo, nel tentativo di rispondere a tre domande: A) che cosa leggere? B) con quali scopi? C) con quali tecniche? 3. Che cosa leggere? Ho visto guasti didattici così gravi, commessi in nome del «rigore scientifico e metodologico», che le mie simpatie vanno sempre più a un sano e consapevole eclettismo, in campo didattico. C'è un brano di Umberto Eco che mi sembra istruttivo, a questo proposito. Si tratta di un dialogo fra il giovane Adso, impaziente di arrivare alla soluzione del mistero, e il suo maestro Guglielmo: «Capii che, quando non aveva una risposta, Guglielmo se ne proponeva molte e diversissime fra loro. Rimasi perplesso. 33 "Ma allora," ardii commentare, "siete ancora lontano dalla soluzione..." "Ci sono vicinissimo," disse Guglielmo, "ma non so a quale." "Quindi non avete una sola risposta alle vostre domande?" "Adso, se l'avessi insegnerei teologia a Parigi." "A Parigi hanno sempre la risposta certa?" "Mai," disse Guglielmo, "ma sono molto sicuri dei loro errori." "E voi," dissi con infantile impertinenza, " non commettete mai errori?" "Spesso," rispose. "Ma invece di concepirne uno solo ne immagino molti, così non divento schiavo di nessuno."» (U. Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani) Risponderò dunque alla domanda iniziale illustrando alcune mie opinioni che non aspirano ad essere accettate come «vere», ma solo ad essere verificate come «feconde», nella prassi didattica. Nella dimensione dello spazio, pur privilegiando la letteratura nazionale, il nostro sguardo dovrebbe essere - come voleva Calvino - planetario: "... è molto importante che, anche nelle scuole, lo studio della letteratura italiana sia integrato quanto più si può con la lettura dei grandi romanzieri francesi, inglesi, russi e anche con quello che si può vedere della grande poesia nelle altre letterature. Penso che oggi dobbiamo pensare in termini di letteratura internazionale; tutti noi siamo influenzati forse in maggior misura dalle grandi letterature straniere piuttosto che dalla nostra [...] dobbiamo avere uno sguardo planetario e guardare a tutto il mondo, e nello stesso tempo anche scrivere pensando che le nostre cose non sono lette soltanto nel nostro Paese, ma possono circolare e partecipare a un dialogo mondiale." La stessa elasticità suggerirei nella dimensione del tempo: la presenza dei classici greci e latini, è così costante e determinante nella nostra storia letteraria, ivi compresa quella del Novecento, da rendere assurdo ogni steccato. Virgilio è nostro quanto Dante; Orazio quanto Ariosto. È purtroppo necessario ricorrere alle traduzioni (per gli autori greci e latini, così come - del resto - per gli autori stranieri); ma la condizione va accettata, se l'alternativa è la rinuncia. Aboliti gli steccati spazio-temporali, la mia idea di Antologia - in riferimento alla scuola media e al biennio - è traducibile nell'immagine di una grande, festosa, policroma edicola da stazione ferroviaria, che offra in conciliante disordine e in accattivante promiscuità testi di tutti i secoli e di tutti i luoghi, anche a dare il senso della facilità con cui il dialogo autore/lettore può suturare continenti e abolire millenni. Letture successive (liceali, universitarie) struttureranno storicamente l'esperienza di lettura; ma all'inizio i testi dovrebbero essere messi semplicemente a disposizione degli apprendisti-lettori; il criterio prevalente di scelta dovrebbe essere quello del (verificato o presunto) «massimo gradimento» da parte dei ragazzi. 34 Non è questo il luogo per indicare e discutere scelte specifiche; vorrei invece sottolineare l'importanza dei rapporti inter-testuali: la ricchezza di un'antologia dipende certamente dalla qualità e quantità dei brani in essa contenuti, ma anche dalla molteplicità di letture che quei brani consentono, se inseriti in diverse configurazioni testuali. Sarebbe riduttivo procedere alla scelta dei testi da antologizzare, senza prevedere di quali itinerari quei testi possano essere tappe, e senza preventivare fra essi "radure", vale a dire ampi spazi lasciati all'elaborazione logica e fantastica dei lettori. Mi spiego meglio. È giusto prelevare da Guerra e pace la scena del ballo di Natascia, non soltanto perché coinvolge i ragazzi, ma anche perché quel tema immette il testo di Tolstoj in una costellazione di testi - da Cenerentola al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, attraverso Flaubert, Maupassant, Cechov, Goethe, Mann, ecc. che ospitano il ballo come momento favoloso, magico, trasfigurante: favola subito interrotta da una «scadenza», da una «perdita di aureola», dal fatale rientro nel grigiore e nello squallore della vita quotidiana. Il ballo di Natascia potrebbe trascinare con sé anche la scelta di un bel racconto di Tolstoj, Dopo il ballo, dove l'episodio esaltante è vissuto da un uomo, con interessante modifica della prospettiva più abituale. Ci sono poi episodi testuali che creano precisi circuiti allusivi, reti di rinvii. L'impresa valorosa di una coppia di amici che fa strage dei nemici addormentati nel loro accampamento, passa da Omero (Ulisse/Diomede) a Virgilio (Eurialo/Niso), all'Ariosto (Cloridano/Medoro), per limitarci ad autori notissimi. Ed esiste un filo prezioso che collega a ritroso l'episodio iniziale del Nome della Rosa di Eco (quello del cavallo scappato ) con Zadig di Voltaire, con una novella di Giovanni Sercambi e con il filone della novellistica orientale. Il piacere della lettura di un testo viene esaltato dalla scoperta di queste «armoniche» culturali; non esiste profilo storicoletterario più istruttivo di queste concordanze che i ragazzi stessi potranno ricavare dai testi, scoprendone i rapporti. Insomma: oltre ai messaggi rappresentati dai singoli testi, ce ne sono altri, per così dire «interstiziali», che il lettore ricava dalle relazioni esistenti fra i testi stessi. Calvino ha detto qualcosa di simile nelle Città invisibili, a proposito dei racconti che Marco Polo fa a Kublai Kan: "... ciò che rendeva prezioso a Kublai ogni fatto e ogni notizia riferiti dal suo informatore era lo spazio che restava loro intorno, un vuoto non riempito di parole. Le descrizioni delle città visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa." Anche in questo modo l'Antologia può redimersi dalla formula selettiva e configurarsi come una foresta che lascia al lettore ampi spazi per le sue soste, che offre sentieri per le sue «fughe», nella consapevolezza - anch'essa espressa da Marco Polo che "chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio". 35 4. Criteri per l'organizzazione delle scelte Non basta individuare i testi; occorre scegliere un criterio per organizzarli. Il problema è stato molto dibattuto, in tempi recenti: privilegiare l'ordinamento cronologico? preferire un raggruppamento per generi letterari? oppure uno per nuclei tematici?, ecc. Autori e insegnanti aderenti alle diverse soluzioni appaiono volta a volta sicuri della superiorità del criterio prescelto, il che forse testimonia del fatto che ogni soluzione ha i suoi pregi e i suoi vantaggi. Le mie preferenze vanno all'ordinamento per generi letterari, che valorizza gli aspetti formali su quelli contenutistici. Ciò non significa deprimere gli elementi affettivi presenti nel testo, ma essere consapevoli del fatto che, a distinguere Leopardi dai comuni mortali, non sono le passioni e i sentimenti - a tutti comuni - ma la sublime capacità - solo sua! - di tradurli nelle parole e nei versi dei Canti. Solo chi penetra nella magia verbale del testo poetico, può provare le sensazioni, le emozioni, gli affetti, che esso trasmette: la forma poetica è produttrice di significato. Non conosco sensibilità di lettore che non sia preceduta dall'intelligenza del testo. Non mi nascondo, però, che lettori inesperti di tipologia testuale potrebbero trovare ostico un raggruppamento per generi. Penso a studenti che provengano da una scuola in cui siano stati privilegiati gli aspetti affettivi connessi con la fruizione del testo. È ancora presente - nella scuola dell'obbligo - quell'impianto idealistico che insiste soprattutto sui contenuti, con una preferenza per quelli commoventi ed edificanti. Il ragazzo viene invitato a vibrare emotivamente in rapporto a un testo non sempre perfettamente inteso: "T'amo, pio, bove..." studiava a memoria un ragazzino, qualche tempo fa; e a chi gli chiedeva il perché delle pause fiancheggianti il «pio», rivelava la sua convinzione che «Pio» fosse nome proprio del quadrupede. Esempio estremo, non imputabile ad alcuna didattica, certamente; ma non sono poche le vittime del «Che cosa hai provato ...?»; le stesse che, per anni, hanno dovuto indicare «il personaggio che li ha colpiti di più» (ma perché dovrebbe esistere un simile personaggio?); che hanno letto Funere mersit acerbo in concomitanza con il 2 Novembre e Natale di Ungaretti in prossimità delle sante feste. Ragazzi le cui letture siano state per otto anni scandite dalle stagioni, da fenomeni atmosferici suggestivi (neve, nebbia, pioggia, ecc. ), da feste comandate, ecc., possono riluttare davanti a una classificazione dei testi basata su caratteristiche formali. Sono perciò favorevole a contaminare il criterio dell'ordinamento per generi con un meno arcigno criterio tematico (dove per tema non si deve intendere un contenuto materiale, una circostanza concreta, ma una situazione archetipa, un luogo dell'immaginario, un oggetto simbolico). Ho già esemplificato questa possibilità parlando del ballo; altri temi potrebbero essere quello del viaggio, del sogno, della malattia, della città, della finestra (intesa come varco fra l’io e il mondo), e così via. 5. Aprire ai testi «effimeri»? Finora ho preso in considerazione l'ipotesi di un'antologia letteraria: una definizione che può includere - nell'accezione più vasta - tutti quei testi che abbiano avuto la vitalità sufficiente a sopravvivere al di là del tempo e al di fuori dello spazio in cui 36 sono stati prodotti. In questa definizione vasta rientrano, oltre alle opere letterarie propriamente dette, le opere che ospitano l'avventura conoscitiva dell'uomo: scientifiche, storiche, filosofiche, ecc. Non si tratta di una soluzione pacifica, scontata; molte antologie si sono aperte, in tempi recenti, alla ricca gamma dei testi effimeri, nel senso etimologico di «quotidiani» o di «rapidamente deperibili», una volta esaurita la loro funzione pratica: testi giornalistici, pubblicitari, giuridicoburocratici, tecnici, ecc. L'apertura si è ideologicamente connotata come democratica e progressista, in contrapposizione con quella letteraria, giudicata elitaria e conservatrice. Certamente la didattica della lingua deve considerare tutte le forme di comunicazione, ed essere comprensiva di tutti i sottocodici e registri; il testo letterario non esaurisce la gamma delle funzioni comunicative. Ma il luogo in cui articoli giornalistici, slogan pubblicitari, documenti burocratici, testi giuridici, tecnicoscientifici, ecc., vanno osservati e analizzati, non è l'antologia, bensì la grammatica, se questa è - come dovrebbe essere - attenta alle varianti testuali, oltre che alle costanti del sistema. Una grammatica dovrebbe applicarsi proprio ai livelli medi, colloquiali, della lingua, valorizzando gli aspetti pragmatici della comunicazione. L'analisi grammaticale del testo letterario può essere solo differenziale. L'alternativa vera è quella fra una comunicazione inerte e ripetitiva, e una informazione dinamica e stimolante; fra una cultura che diffonde e consolida opinioni e una cultura che attiva processi di ricerca e di scoperta. È il Cantico di San Francesco che fa scorgere nell'acqua il simbolo della purezza, della castità; sono I fiumi di Ungaretti che rivelano la simbologia uterina delle acque; è Montale che ci fa vedere l'insidia, nelle «acque dei piranha». E dall'altra parte è la scienza che rivela nel liquido inodoro e insaporo che beviamo e con cui ci laviamo - i due atomi di idrogeno e l'atomo di ossigeno che sfuggono alla nostra percezione. Cioè: sono la letteratura e la ricerca scientifica a sondare originalmente la realtà, a penetrare nei suoi strati proliferanti per attingere significati riposti, rinnovando così la nostra percezione del mondo reale, abilitandoci all'esperienza di mondi immaginari o ipotetici. Testi letterari, dunque, in una scelta innovativa del canone ma non iconoclasta. Perché Marino Moretti deve essere conosciuto sempre per Piove. È mercoledì. Sono a Cesena ... e mai per Ascensore, che è poesia più vicina alla sensibilità di lettori adolescenti? Perché di Montale si devono leggere sempre e soltanto quelle cinque o sei liriche, e non altre, altrettanto belle anche se escluse dalla selezione didattica? E d'altra parte esiste, nella nostra tradizione culturale, un canone in cui ognuno di noi si riconosce e che - entro certi limiti - va rispettato. Personalmente ritengo che un poeta come Pascoli (ed è solo un esempio) sia stato fortemente ridimensionato dalla selezione scolastica, che - privilegiando le poesie più facili e piagnucolose - ha occultato la dimensione robusta e tragica della sua lirica. Ma, tutto considerato, non mi piacerebbe che il legittimo desiderio di restituire al Pascoli la seconda dimensione, si risolvesse nel rifiuto de L'aquilone, o de I due fanciulli, o di altre poesie che fanno saldamente parte dell'enciclopedia mentale del cittadino italiano di cultura media. Lo svecchiamento non va realizzato come velleitario rifiuto del noto, ma come allargamento delle scelte a ciò che rimane indebitamente ignoto, nella scuola. L'aquilone va proposto ai ragazzi (anche perché il Pascoli lo considerava la sua poesia 37 migliore); ma ad esso possono essere affiancate Le due aquile: una fra le poesie pascoliane più belle e più ignorate. Innovare dunque, senza negare quel patrimonio di letture che - trasmesso attraverso le generazioni - crea fra esse una forma di continuità mentale, instaura una tradizione culturale: un concetto di cui è sbagliato fare un feticcio, ma di cui è altrettanto sbagliato negare l'importanza. 6. Quali scopi deve proporsi un'antologia? Alla domanda sugli «scopi» che un'Antologia dovrebbe proporsi, ho già risposto implicitamente, quando ho definito la lettura attività piacevole, consolatoria, ma soprattutto altamente informativa e quindi necessaria alla nostra sopravvivenza mentale. È evidente che l'antologia ha lo scopo primario di favorire l'accesso a questa attività. Trasformare degli individui in «lettori» (cioè in persone che continuino ad amare la lettura, e a leggere, anche dopo la fine dell'obbligo scolastico) dovrebbe essere uno degli scopi più ambiziosi della scuola. Ma esiste anche uno scopo secondo (non secondario), che è quello di trasformare l'esperienza di lettura in abilità di scrittura. Dagli autori si può «imparare a scrivere», se alla lettura corrente, di tipo intuitivo, segue una riflessione che - senza mortificare il testo - metta a fuoco sue caratteristiche di tipo grammaticale e stilistico. So che su questo punto esiste dissenso, fra gli esperti, ma credo che chi nega l'influenza della lettura sulla scrittura abbia commesso degli errori nello sperimentare il passaggio. Ho parlato di abilità di scrittura, ma avrei dovuto parlare più ampiamente di efficacia comunicativa, includendo in essa anche la produzione orale. La ricchezza di lessico e l'abilità di costruzione sintattica, maturate attraverso le esperienze di lingua scritta, si manifestano anche nell'oralità, con notevoli vantaggi di tipo pragmatico. Potremmo dire - per rifarci a Rostand - che l'umanità si divide in «Cirani» e in «Cristiani», e che il discrimine fra le due categorie di individui è rappresentato dalla lingua, intesa come manifestazione di intelligenza e di spiritualità, ma anche come capacità di sostituirsi all'azione e di realizzare obiettivi. Nonostante l'handicap dell'enorme naso, pensiamo che convenga appartenere alla consorteria dei «Cirani». 7. Quali tecniche di lettura? La terza e ultima domanda investe le tecniche di lettura antologica. È indispensabile, prima di tutto, un abbondante commento linguistico che spieghi parole o espressioni presumibilmente ignorate dai ragazzi. La competenza lessicale dei giovani è oggi così ristretta, che tale commento dovrebbe essere approssimato per eccesso piuttosto che per difetto. Le note di questo commento andrebbero utilizzate dagli studenti in fase di ri-lettura casalinga; in classe nulla dovrebbe interrompere la lettura ad alta voce da parte dell'insegnante: c'è infatti un significato contestuale che consente l'intuizione globale 38 del testo, anche in presenza di numerose lacune lessicali; è anzi ottimo esercizio abituarsi a cogliere questo valore contestuale. Non sto suggerendo una lettura a ruota libera, di tipo intuitivo; dico solo che chiarimenti, approfondimenti testuali, ecc. dovrebbero appartenere a una fase successiva, di riflessione sul testo, senza interferire con il piacere dell'ascolto. Che l'insegnante legga ad alta voce (almeno l'inizio, i passaggi più significativi, la fine del racconto) è molto importante, a conferire energia verbale alla pagina scritta: il canale orale/acustico trasmette il testo con immediatezza ed efficacia maggiori di quanto non possa fare quello grafico/visivo della scrittura, certamente più ostico per un lettore inesperto. Un brano, una poesia, una scena teatrale, ecc. vanno inquadrati nell'opera dell'autore, messi in rapporto con la sua personalità. Ci vuole dunque una presentazione che però, a mio parere, dovrebbe limitarsi a fornire le informazioni essenziali. Non credo opportuno che il piacere della lettura venga turbato da un apparato storico-letterario o critico che rischia di diventare deterrente; ci sarà tempo, in seguito, per la storia della letteratura e della critica. Né sembra giusto che il curatore «spiattelli» in anticipo il significato profondo del testo (o quello che egli giudica tale), sottraendo a chi legge il gusto della scoperta. Dovrebbe piuttosto inserire, in appendice ai testi, domande capaci di sensibilizzare il lettore a certi problemi e di indirizzarlo a loro soluzioni, il più possibile aperte. Una sola soluzione trovata dal ragazzo vale più della consegna anticipata di un «pacchetto» critico ben confezionato. Dovrebbe essere respinta anche la prassi didattico-editoriale che esige, a corredo dei testi, un apparato pachidermico di esercizi, schede, rubriche, griglie, quiz, ecc. Non appartengo alla categoria di quelli che affidano interamente i testi alla degustazione intuitiva del lettore. Penso che il testo, una volta letto, possa e deva essere ri-letto, sfruttato come terreno di osservazione e perfino di manipolazione, da parte dei ragazzi. Ciò che trovo avvilente è la meccanicità di certe procedure, la fissità delle cosiddette griglie: letti di Procuste a cui dovrebbero adattarsi i testi più diversi. Viene consumato, in questa attività, un tempo che potrebbe servire a leggere di più; basterebbe, in calce a un racconto di Buzzati, o di Calvino, ecc., il rinvio ad altri titoli raccomandati. Non si nega l'utilità episodica di certi strumenti narratologici, semiologici, stilistici, ecc. Ciò che gli insegnanti dovrebbero rifiutare è la standardizzazione di quelle procedure. Facciamo un esempio: può essere utile, dopo la lettura di un testo narrativo, attirare l'attenzione dei ragazzi sui personaggi, sui luoghi, sui tempi, sui modi in cui la vicenda si svolge. Il livello più immediato di comprensione del testo è quello della trama, ed è giusto cominciare da lì, verificando la ricezione dei dati narratologici, da parte dei ragazzi. Ma c'è una bella differenza fra questa procedura episodica e l'imposizione a tutti i testi della griglia del «chi? dove? quando? come?». Il «chi» di Pirandello può essere uno, nessuno, centomila: come dire che, al di là del nome proprio, il personaggio pirandelliano può essere emblematico di una tipologia. Infatti molti «Grandi Me» pirandelliani non hanno nome ("L’uomo dal fiore in bocca", "Il pedagogo", "Il filosofo", ecc.) perché costituiscono una categoria umana troppo fluida per essere bloccata anagraficamente; e sono senza nome anche molti «Piccoli 39 Me» ("Il pacifico avventore", "L'uomo grasso", ecc.), a sottolineare con l'anonimato la loro inconsistenza . Il «dove» dei Promessi Sposi, più che una localizzazione geografica, è una contrapposizione di alto e di basso: il palazzo di don Rodrigo sta in alto rispetto al paese di Lucia e di Renzo, al convento di padre Cristoforo; il castello dell'innominato domina dall'alto la valle in cui pure l'innominato dovrà scendere per incontrare il Cardinale (che sta in basso, al livello del popolo). Ed è chiaro che alto/basso non sono pure indicazioni altimetriche, ma emblemi di una superbia che verrà umiliata e di una umiltà che verrà innalzata. Il «dove» di Galileo, nel Dialogo sopra i Massimi Sistemi, è un palazzo patrizio di Venezia, ma non ha alcun senso precisarlo, se poi non si capiscono le ragioni (ideologiche e scientifiche) per cui Galileo ha scelto proprio questa ambientazione. È un palazzo patrizio (e non l'aula di un'Università, o la sala di una Corte) perché le verità matematiche sono aperte a tutte le persone fornite di cervello (non ai soli specialisti), e quindi la Matematica non è soltanto una disciplina, ma una filosofia, uno strumento di conoscenza, un linguaggio a tutti necessario per interpretare il gran libro dell'Universo. E si tratta di Venezia perché in quella città è vistoso quel fenomeno delle maree ("flusso e reflusso del mare", per dirla con Galileo) che lo scienziato, sbagliando, considerava la prova fisica, inoppugnabile, della mobilità della Terra. Il «quando» di Pavese non è una data, un punto segnato su un vettore temporale, ma un ritmo scandito dalla circolarità delle stagioni; il «quando» di Proust è un problema di durata, non di collocazione cronologica. E si potrebbe continuare. La conclusione di questo discorso è che ogni testo va affrontato con strumenti commisurati alla sua singolarità, e che quindi non possono rimanere brutalmente gli stessi o essere usati sempre allo stesso modo. L'esempio precedente era suggerito dalla narratologia; quello che segue è suggerito dalla pragmatica. Da qualche anno la moda didattica impone la partizione dei testi in descrittivi, narrativi, persuasivi, argomentativi, dimostrativi, ecc; essendo molte le classificazioni teoricamente possibili, e molte le contaminazioni didattiche di queste classificazioni, l'elenco rischierebbe di diventare lungo. Si tratta, ancora una volta, di distinzioni legittime, finché valgono e finché servono a individuare la funzione comunicativa di un testo. Ma bisognerebbe guardarsi dall'assolutizzarle e dal farne un uso meccanico, in fase di esercitazione sul testo. Ci sono infatti testi che si rifiutano di entrare in queste definizioni come un gatto si rifiuterebbe di entrare in un sacco: Il Saggiatore di Galileo è un testo persuasivo, più che dimostrativo, e qualcuno ha sostenuto a buon diritto che il dialogo del balcone fra Giulietta e Romeo è un testo argomentativo, visto che Giulietta tenta di dimostrare (a un Romeo che sostiene debolmente il contrario) che "non è ancora l'alba...". Insomma, definire la funzione di un testo significa quasi sempre individuare quella prevalente nel fascio di funzioni coesistenti in quel testo; e capire un testo complesso, significa rispettare la sua complessità, non ridurla arbitrariamente a semplicità. Eccessi come quelli sopra esemplificati hanno una giustificazione: da quando è tramontata la critica estetica di matrice idealistica, si avverte la necessità didattica di 40 mettere a punto altri metodi, sufficientemente rigidi e quindi rassicuranti, per condurre quella che l'onestà intellettuale e l'autorevolezza di Borges definiva «l'arte incerta e rudimentale della lettura». Non bisognerebbe invece dimenticare che, qualunque sia il metodo di analisi prescelto, esso si applica a un testo, cioè a un oggetto complesso, semanticamente fluido, la cui realtà varia a contatto con il ricevente, e a seconda delle condizioni di lettura. Sicché un testo può essere letto in modi diversi, rivelando a ogni lettura una diversa faccia della sua poliedrica realtà. Più il testo è ricco, più esso tollera una pluralità di letture compatibili. Questo non significa rassegnarsi al relativismo più assoluto; né significa rinunciare alla scelta di particolari strumenti di analisi. Ciò che si dovrebbe evitare, nell'applicazione didattica, è la trasformazione in fede o in routine di procedure di analisi che, al massimo, vanno considerate (e presentate ai ragazzi) come tecniche feconde. Una tecnica feconda è quella a cui prima alludevo, di riflettere - a lettura finita - su alcuni aspetti della scrittura di un autore. Sarà il brano stesso a suggerire l'aspetto che volta per volta - conviene mettere a fuoco: impiego degli aggettivi in Calvino; dei pronomi personali in Pirandello; le varie modalità di inserimento del dialogo nel testo narrativo di Buzzati, l'uso della punteggiatura in Tadini, ecc. È così che si impara dagli autori: imitando dapprima, poi usando del loro esempio come di un fermento interno alla nostra scrittura. 8. Un'osservazione conclusiva Il nostro ambiente offre modelli di telespettatori e connota negativamente la lettura, in quanto attività che esige l'isolamento, il silenzio, il monologo interiore. Bisognerebbe far capire ai ragazzi che nessuno contesta o critica il loro legittimo bisogno di compagnia, di socialità; ma che dosi periodiche di isolamento, di silenzio, di riflessione, sono indispensabili all'equilibrio psichico e mentale di un individuo. A comunicare questa convinzione saranno più efficaci le testimonianze degli scrittori che le prediche dei professori. A ragazzi che concepiscono la scrittura come obbligo scolastico bisognerebbe far leggere una frase del diario di Pavese (in data 4 maggio 1946): "È bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla". Oppure l'appello che Calvino rivolge al lettore, all'inizio di Se una notte d'inverno un viaggiatore, una pagina che presenta l'incontro Scrittore/Lettore come una forma di complicità gioiosa, esaltante. Nella galleria delle testimonianze metterei anche un'altra pagina di Calvino, dalle Città invisibili, che ribadisce la superiorità dell'immaginario sul reale, l'intangibilità della parola nei confronti della peribilità dell'oggetto. I ragazzi dovrebbero capire che, se l'enorme impero di Kublai Kan si salva dallo sfacelo, è solo perché esso è sorretto dalla sottile filigrana del racconto di Marco Polo: "Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. 41 Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato [...]: è il momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina. Solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d'un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti." Forse su questa pagina, e sulla capacità della parola di creare mondi incorruttibili, si può cominciare a discutere con i ragazzi. 42