IL DECRETO LEGGE SULLA RIVALUTAZIONE DELLE
PENSIONI: ALCUNI SPUNTI CRITICI
Premessa
Sulla Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 116 del 21 maggio 2015, è stato
pubblicato il decreto legge 21 maggio 2015, n. 65, il quale, in ottemperanza alla sentenza
della Corte Costituzionale n. 70 del 30 aprile 2015, ha rideterminato le modalità di calcolo
dell’adeguamento delle pensioni al costo della vita (c. d. “perequazione automatica”), a
suo tempo stabilite dall’art. 24, comma 25, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 (altrimenti denominata
“Riforma Monti/Fornero” ovvero “Decreto salva Italia”).
A tal fine il decreto legge di cui si discorre ha adottato la “tecnica della sostituzione
legislativa”, estendendo così, anche con effetto retroattivo, la perequazione alle fasce di
importo pensionistico non previste dalla precedente norma (come già detto, il comma 25
dell’art. 24 più sopra citato).
Infatti, per espressa previsione contenuta nell’art. 1, comma 1, sub 1), dello stesso
decreto legge, “il comma 25 è sostituito dal seguente:
"25. La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo
stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni
2012 e 2013, è riconosciuta:
a) nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo
complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo
superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato della
quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente
lettera, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto
limite maggiorato;
b) nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici
complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a
quattro volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei
trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto
trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione
automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di
rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;
c) nella misura del 20 per cento per i trattamenti pensionistici
complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o
inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo
complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a cinque volte il
predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di
rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera,
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l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite
maggiorato;
d) nella misura del 10 per cento per i trattamenti pensionistici
complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a
sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei
trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a sei volte il predetto trattamento
minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica
spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di rivalutazione è
comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato;
e) non è riconosciuta per i trattamenti pensionistici complessivamente
superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo
dei trattamenti medesimi."
Dal momento che le pensioni di importo complessivo fino a tre volte il trattamento
minimo INPS (lettera a) del decreto n. 65) erano state già oggetto di rivalutazione nella
medesima misura stabilita dalla precedente normativa (art. 1, comma 483, lettera e),
della legge 27 dicembre 2013, n. 147) potranno beneficiare della rivalutazione le sole
pensioni il cui ammontare si collochi all’interno degli scaglioni elencati nelle lettere b),
c), e d) dello stesso decreto.
Un altro motivo di esclusione riguarda le pensioni di importo superiore a sei volte il
trattamento minimo INPS in quanto (l’argomento sarà ripreso successivamente) alla lettera
e) ne è stato stabilito espressamente il mancato riconoscimento.
Una esclusione ingiustificabile
A prescindere dall’assai penalizzante “decalage”, in termini di aliquota percentuale,
applicata ai trattamenti che si collocano da oltre tre volte e fino a sei volte l’ammontare del
trattamento minimo INPS (si passa infatti in maniera repentina dal 100% al 40% dal primo
al secondo scaglione, vale a dire dalla lettera a) alla lettera b) più sopra esplicitate) ed a
differenziali ancora più bassi per gli altri due raggruppamenti), non si ritiene di poter
condividere l’esclusione dalle rivalutazione delle pensioni il cui ammontare sia
superiore ad oltre sei volte il trattamento minimo INPS.
La circostanza si appalesa ancora più grave se si pensa che il comma 25-bis, inserito
nel testo della “Riforma salva Italia” dal decreto legge in commento, almeno secondo il
parere di alcuni Autori, sembrerebbe aver escluso ulteriormente i suddetti trattamenti
pensionistici dalla perequazione relativa agli anni 2014, 2015 e 2016. Anche tale argomento
sarà ripreso nel paragrafo successivo.
Eppure la Corte, al punto 8 della sentenza n. 70 del 30 aprile 2015, aveva inviato un
preciso monito al legislatore, laddove era stato ribadito che “Non a caso, fin dalla sentenza
n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura sistematica degli artt. 36 e 38 Cost., con
la finalità di offrire «una particolare protezione per il lavoratore». Essa ha affermato che
proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del
collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in
relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta», senza che ciò comporti
un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione,
poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione, anche graduale,
dei termini suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986;
n. 26 del 1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal
canone dell’art. 36 Cost. «consegue l’esigenza di una costante adeguazione del
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trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza n. 501 del 1988;
fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004).”
Per non parlare poi dell’ulteriore danno arrecato in conseguenza della mancata
attivazione del c. d. “effetto trascinamento”, altrimenti denominato “effetto a cascata”,
che invece si realizza con riferimento agli altri scaglioni: a tal fine giova rammentare che le
conseguenze arrecate da tale manchevolezza erano state altresì evidenziate dalla Corte
Costituzionale al punto 9 della sentenza n. 70 del 10 marzo 2015, laddove si recita che “per
le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del
potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a brevi periodi, è, per sua natura,
definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale
originario, bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già
stato intaccato.”
Detto in altri termini, oltre al c. d. “effetto diretto” (vale a dire l’incremento mensile
di cui beneficerà la prestazione nell’anno nel corso del quale verrà applicata la
rivalutazione), si registrerà anche un ulteriore effetto (quello di trascinamento, appunto)
dovuto al fatto che i successivi aggiornamenti annuali dei ratei di pensione saranno a loro
volta oggetto di rivalutazione: si otterrà in pratica la capitalizzazione composta su base
annua dei ratei di pensione conseguente appunto alle rivalutazioni di volta in volta
riconosciuti.
Per buona misura, sempre con l’appena menzionata pronuncia, il Giudice delle leggi
ha ulteriormente specificato che “Deve essere, tuttavia, segnalato che la sospensione a
tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di
misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli
invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità (su cui, nella materia dei trattamenti
di quiescenza, v. sentenze n. 372 del 1998 e n. 349 del 1985), perché le pensioni, sia pure
di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai
mutamenti del potere d’acquisto della moneta.”
Ed ancora che è riservato alla discrezionalità del legislatore “individuare idonei
meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo
della vita” (v. il punto 8, settimo capoverso, primo periodo, della sentenza n. 70/2015). Va
tuttavia segnalata la sussistenza di un limite che il legislatore medesimo è tenuto a non
prevaricare. Tale soglia consiste nel tenere presente il “criterio della ragionevolezza”, il
quale, se da un lato consente di “predisporre e perseguire un progetto di uguaglianza
sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost., così da evitare disparità
di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici”, dall’altro lato, “così
come delineato dalla giurisprudenza in relazione agli art. 36, primo comma, e 38, secondo
comma, della Costituzione, circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue
scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.” (v. il punto 8, terzo
capoverso, primo periodo, e settimo capoverso, della sentenza n. 70 del 30 aprile 2015).
Per quanto appena esposto, non è dato modo di comprendere il motivo per cui il
Governo, che pure ha emanato il decreto con l’ausilio tecnico dei vertici dell’INPS, abbia
ritenuto di non attribuire alcunché alle pensioni di importo più elevato: si può supporre che
sia prevalso un atteggiamento populistico dovuto alle recenti polemiche innescate dalle
generosissime pensioni di cui beneficiano i parlamentari ed anche altre categorie di soggetti
privilegiati.
Eppure, anche per queste, si è indubbiamente registrato una perdita del potere
di acquisto.
Giunge peraltro notizia che, operando in tal modo, i trattamenti che sarebbero rimasti
esclusi dalla perequazione ascenderebbero ad appena seicentomila unità: attribuire loro
anche un piccolo importo, ancorchè calcolato su base fissa, non avrebbe certamente mandato
in dissesto le casse dello Stato italiano.
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Il motivo per cui si insiste tanto sulla ingiustificata mancata attribuzione della
perequazione automatica sulle pensioni di importo elevato è che, per quanto appena
sottolineato, il provvedimento di cui si discorre è suscettibile di una più che probabile
ulteriore censura da parte della Corte Costituzionale, specialmente se si pensa che tale
disattenzione si protrae da diversi anni (precisamente da oltre un decennio) quasi
ininterrottamente.
A tale riguardo sembra altresì il caso di segnalare quanto affermato dalla Consulta,
sempre con la sentenza n. 70 del 30 aprile 215, laddove si recita che “L’azzeramento della
perequazione, disposto per effetto dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, prima
citata, è stato sottoposto al vaglio di questa Corte, che ha deciso la questione con sentenza n.
316 del 2010. In tale pronuncia questa Corte ha posto in evidenza la discrezionalità di cui
gode il legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e
adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo l’azzeramento, per il solo anno
2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato (superiore ad otto volte il
trattamento minimo INPS).”
Ed inoltre che “La norma, allora oggetto d’impugnazione, ha anche superato le
censure di palese irragionevolezza, poiché si è ritenuto che non vi fosse riduzione
quantitativa dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica
perequativa delle pensioni di valore più cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al
dovere di solidarietà, hanno fornito una giustificazione ragionevole alla soppressione della
rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di importo otto volte superiore al
trattamento minimo INPS, «di sicura rilevanza», secondo questa Corte, e, quindi, meno
esposte al rischio di inflazione.”
Tutto ciò conferma la mancata conformità del decreto in commento alle
statuizioni del Giudice delle leggi.
Ulteriori motivi di critica
L’art 1, comma 1, sub 2), del decreto legge in commento stabilisce testualmente che
“2) dopo il comma 25 è inserito il seguente: 25-bis. La rivalutazione automatica dei
trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della
legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013 come determinata dal
comma 25, con riguardo ai trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre
volte il trattamento minimo INPS è riconosciuta:
a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento;
b) a decorrere dall’anno 2016 nella misura del 50 per cento.”
La poco felice formulazione letterale della norma da adito a non poche perplessità,
dovute principalmente al fatto che non è stato specificato con chiarezza la base pensionistica
su cui applicare le percentuali del 20 e del 50 per cento: sarebbe infatti stato opportuno che
nel testo fosse stato chiarito non solo che tali parametri avrebbero rappresentato una aliquota
percentuale dell’incremento del costo della vita determinato dall’ISTAT, che a sua volta
viene calcolato in valori percentuali (una “percentuale della percentuale”, insomma), ma
anche lo scaglionamento degli importi pensionistici su cui applicare le appena citate
percentuali.
Ciò da luogo a non pochi dubbi interpretativi, il primo dei quali porterebbe ad
assumere che le aliquote percentuali del 20% e del 50% debbano essere applicate alle sole
pensioni il cui importo complessivo non sia superiore a sei volte il trattamento minimo.
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Tale interpretazione, sarebbe suffragata dalla locuzione, riportata nel testo del
decreto legge, laddove si recita “come determinata dal comma 25”. Una siffatta presa di
posizione colliderebbe (anzi risulterebbe in aperto contrasto) con l’art. 1, comma 483, lettera
e), della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (la “Legge di stabilità per l’anno 2014”), con il
quale è stato stabilito che la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici viene
riconosciuta “nella misura del 40 per cento, per l’anno 2014, e nella misura del 45 per
cento, per ciascuno degli anni 2015 e 2016, per i trattamenti pensionistici
complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento
all’importo complessivo dei trattamenti medesimi e, per il solo anno 2014, non è
riconosciuta con riferimento alle fasce di importo superiori a sei volte il trattamento minimo
INPS.”
Aderendo a tale interpretazione, l’appena parafrasata norma risulterebbe
implicitamente abrogata, con l’ulteriore conseguenza che i soggetti titolari di una o più
pensioni il cui importo complessivo si collochi oltre sei volte l’ammontare del trattamento
minimo INPS dovrebbero restituire la perequazione automatica relativa all’anno 2015, la
quale, al momento in cui si scrive (giugno 2015), è in corso di erogazione.
Sulla base di una seconda interpretazione - che, almeno dal punto di vista
strettamente letterale, sembrerebbe la più accreditata - le aliquote percentuali del 20% e del
50% si dovrebbero applicare, indiscriminatamente ed in maniera non modulare, su tutti i
trattamenti pensionistici il cui importo complessivo si collochi ad oltre tre volte l’ammontare
del trattamento minimo INPS: anche tale lettura avrebbe la difficoltà tecnico-operativa di
dover corrispondere un conguaglio (questa volta, fortunatamente, positivo), almeno avuto
riguardo alle pensioni superiori a sei volte il trattamento minimo INPS.
Tale ultima considerazione sarebbe tuttavia in controtendenza rispetto all’intento, più
volte manifestato dalle Autorità governative, di escludere dalla rivalutazione tale ultima
categoria di pensione.
Relativamente invece alle altre fasce pensionistiche, per stabilire la sussistenza di un
conguaglio positivo, bisognerà determinare, caso per caso, in quale misura influisce
l’incremento dovuto all’effetto trascinamento rispetto al decremento relativo alle minori
aliquote percentuali da applicare (in particolare quella del 20% per gli anni 2014/2015).
Entrambe le ragioni interpretative (giova ribadirlo, la prima e la seconda), infine,
presentano il comune inconveniente del non tenere conto della necessità dell’applicazione
del meccanismo del c. d. “decalage” in relazione all’importo di trattamenti pensionistici, il
cui effetto potrebbe essere punitivo nei confronti delle fasce più basse.
A tale riguardo, in un precedente lavoro predisposto da chi scrive era infatti stato
posto in evidenza che la mancata previsione, nell’articolo 19 della legge 30 marzo 1969, n.
153, di un meccanismo regressivo delle aliquote percentuali della perequazione automatica
delle pensioni, in relazione al loro ammontare in pagamento al 31 dicembre dell’anno
precedente, ha provocato, nel corso del tempo, l’allargamento del divario tra le pensioni
minime e quelle di importo più elevato, incrementando ingiustificatamente il gap
sussistente al momento della decorrenza iniziale della prestazione: un conto è infatti
applicare un determinato indice percentuale di perequazione (poniamo il 5 per cento) su una
pensione integrata al trattamento minimo (attualmente, anno 2015, pari a 502,39 euro
mensili) tutt’altra cosa è invece attribuire la stessa aliquota ad un importo, sempre su base
mensile, pari a 3.000 euro.
Nel primo caso infatti si arriverebbe ad un importo rivalutato di euro 527,51; nel
secondo l’aggiornamento perequativo lo porterebbe a 3.150 euro.
Anche se il rapporto percentuale tra le due prestazioni rimane invariato (i quozienti
di 502,39 : 3.000 e 527,51 : 3.150 portano infatti allo stesso risultato di 16,75 %), il loro
differenziale in valore assoluto aumenta considerevolmente. In particolare, a fronte di un
divario, per l’anno 2015, di 2.497,61 euro (3.000 - 502,39), si arriverebbe ad uno scarto di
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2.622,49 euro (3.150 - 527,51) nell’anno successivo, portando così la differenza tra i due
importi a ben 124,88 euro.
Nello stesso articolo era stato pertanto sostenuto come fosse auspicabile che in futuro
la perequazione automatica avrebbe dovuto continuare ad essere applicata con aliquota
modulata in modo decrescente su tutte le pensioni in pagamento in relazione, giova ripeterlo,
al loro ammontare.
Nel caso in esame, il presunto ritorno all’aliquota unica, anche relativamente
alle pensioni il cui ammontare si pone nella fascia di importo superiore all’ammontare
di tre volte il trattamento minimo INPS, comporterà inevitabilmente - almeno con
riferimento ad alcuni trattamenti pensionistici - un ulteriore allargamento del divario
tra le pensioni integrate al trattamento minimo e quelle di importo più elevato.
L’utilizzo del termine “presunto” sta a significare che occorre attendere sia la
conversione in legge del decreto, sia l’interpretazione ufficiale che sarà data alla norma.
Sussiste tuttavia una terza possibilità interpretativa, a mente della quale le due
aliquote percentuali più sopra citate (quella del 20% e quella del 50%) dovrebbero essere
applicate a titolo di ulteriore perequazione da aggiungere agli importi risultanti dopo
l’avvenuto riconoscimento delle aliquote di cui alle lettere b), c) e d) del novellato comma
25 della “Riforma Monti/Fornero” secondo le aliquote prevista nel comma 1, lettere da b) a
d).
Ciò consentirebbe, da un lato, un incremento della perequazione automatica
relativamente alle pensioni con fasce di reddito da quattro a sei volte il trattamento minimo
INPS e, dall’altro lato, sarebbe confermato il mancato riconoscimento della perequazione,
per l’anno 2015 e seguenti, della perequazione relativa alle pensioni il cui importo si
collochi oltre sei volte l’appena citato trattamento minimo.
I dubbi interpretativi più sopra elencati potranno essere fugati dalla decisione che
sarà adottata dall’INPS con il probabile conforto del Ministero del lavoro e delle politiche
sociali.
Francavilla al Mare (CH), lì 31 maggio 2015
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IL RICALCOLO DELLA PEREQUAZIONE AUTOMATICA