Fingo ergo sum
Elementi di teoria poetica della modernità
Lettura del canto XXVI del Purgatorio
RAFFAELE PINTO
UNIVERSITAT DE BARCELONA
SOCIETAT CATALANA D’ESTUDIS DANTESCOS
Il canto sviluppa una riflessione di tipo storico-letterario che si
organizza concettualmente attorno a tre grandi temi, proposti ciascuno in
forma di domanda nel corso del dialogo fra i personaggi di Dante e di
Guinizzelli. Tale riflessione evita accuratamente di adottare le forme
argomentative dirette del registro dottrinale e segue invece le linee
oblique di un conversare in cui la densa implicazione affettiva degli
interlocutori dissimula la tensione critica del discorso, come pure la
dissimula la tecnica ad incastro per la quale lo svolgimento di ogni
singolo tema viene interrotto prima della sua conclusione dalla
apparizione di quello successivo. È una maniera, consueta nella
Commedia, di imprimere tensione al movimento narrativo, a scapito
della evidenza dei nessi logici, che in questo canto hanno però un rilievo
di particolare interesse, poiché sono in discussione categorie critiche per
Dante certamente essenziali. Ricostruendo il testo a partire da tali temi, e
riordinandolo secondo un coerente svolgimento di pensiero, mi
propongo di evidenziare, in qualche misura, il generalissimo problema
di poetica posto dal poeta, e l'ambizioso progetto ermeneutico della
soluzione da lui fornita, che spazia in un terreno in cui la letteratura, la
filosofia e l'antropologia confondono ampiamente i rispettivi domini.
La prima domanda è quella che rivolge Guinizzelli al
protagonista, ai versi 22-24:
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Dinne com' è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete.
La seconda la rivolge Dante alla schiera dei penitenti (vv. 64-66):
ditemi, acciò ch'ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a' vostri terghi.
L'ultima è ancora di Guinizzelli a Dante (vv. 109-111):
Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d'avermi caro.
1º movimento: il soggetto umbratile.
Il primo movimento del canto propone un motivo che potrebbe
essere definito come poeticamente trascendentale, il motivo, cioè, della
evidenza dell’esistenza umana attraverso indizi certi ed immediatamente
riconoscibili. Trattandosi di un tema dominante nella riflessione
filosofica (ed anzi in questa ben più pertinente che nel discorso
letterario), non sembra inopportuno convocare al riguardo il patriarca
della evidenza esistenziale, allo scopo di illuminare retrospettivamente
aspetti di un ingegno forse non inferiore sul piano della teoresi, ma certo
un po’ appesantito dall'onnivoro enciclopedismo aristotelico e
scolastico. Cartesio, dunque, sul piano filosofico, risponde alla questione
con l'elegante assioma "cogito, ergo sum", che circoscrive
l’autoevidenza esistenziale del soggetto all’ambito della razionalità.
Come a dire: fuori del pensiero razionalmente (cioè matematicamente)
strutturato non è possibile attingere certezze di nessun tipo, neppure
quella, apparentemente così ovvia, della propria esistenza1. Ne
risulterebbe l'inaccettibilità, come oscuro ed indistinto, di ogni tentativo
di fondare tale certezza su un piano diverso, per esempio quello poetico
della sensibilità e dell'espressione. Ce ne sarebbe abbastanza per
licenziare come non pertinente, o irrilevante, l’esperimento critico che
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qui si propone se il soggetto poetico in questione condividesse il
paradigma scientifico del francese, se si trattasse, poniamo, di un
Leopardi -che infatti sudò parecchio prima di trovare una soluzione
poetica al problema che non fosse in contraddizione con l’assioma del
cogito, soluzione di ripiego, oltre tutto, che consiste nella identificazione
di poesia e finzione, intendendo questa, semplicemente, come desiderio
di vita e quindi come confutazione autoillusoria del vero (che la
smentisce mostrando "una tomba ignuda"), ma l'unica possibile se si
accettano, e come indiscutibili, ipoteche di tipo razionalista sul principio
di realtà2.
Ma Dante, peripatetico ben "antico" da un punto di vista
leopardiano, opera nella felice ignoranza del paradigma galileiano e poi
cartesiano, con un atteggiamento di sostanziale scetticismo nei confronti
della corrente di pensiero antica e medievale che gli è più affine, cioè
l'idealismo platonico e la dicotomia trascendentale che da esso si
propaga nella filosofia del cristianesimo prescolastico: per lui non c’è
alcun attrito fra i numeri e le metafore, e quindi fra conoscenza e poesia,
anzi gli uni trascolorano nelle altre (l'una trascolora nell'altra) come lo
spirito nella materia, come la mente nel corpo3. L'aristotelismo arabo
aveva infatti permesso di mitigare il severo dualismo di ispirazione
agostiniana introducendo dispositivi di mediazione progressiva
(emanatista) sia sul piano metafisico (le intelligenze) che su quello
antropologico (gli intelletti)4. Occorre a questo punto ricordare che la
nozione che permette ad alcune correnti del pensiero medievale di
leggere materialisticamente il reale come un continuum che
gradualmente si assottiglia e spiritualizza dal basso verso l'alto, e si
condensa e materializza dall'alto verso il basso, è quella (originariamente
aristotelica, poi stoica) di pneuma, cioè spirito, soffio vitale che
costituisce il supporto materiale (o l'involucro) dell'anima, la cui
plasticità aeriforme garantisce la ricezione e riproduzione degli stimoli
provenienti dagli oggetti esterni da una parte, la illuminazione filosofica
o divina dall'altra5. In tale ottica, la questione circa la evidenza
esistenziale del soggetto acquista un rilievo teoreticamente essenziale
proprio per spiegare la plausibilità teorica della fictio della Commedia,
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cioè la sua compatibilità con il paradigma scientifico aristotelicoscolastico. A questo fondo di tradizioni antiche che aristotelismo e
neoplatonismo ripropongono all'attenzione dei pensatori del medioevo
attinge, infatti, Dante per descrivere lo "status animarum post mortem",
che, indipendentemente dalle intenzioni allegoriche, è oggettiva
descrizione di concrete realtà individuali, che conservano, dell'esistenza
intramondana, la ricettività psicofisica agli agenti esterni: in quanto
sostanza pneumatica, infatti, l'anima mantiene intatte le sue potenze (che
la rattristano o la rallegrano, a seconda dei casi6), pur in assenza della
struttura corporea di cui l'anima è ombra, come dice tante volte il poeta,
cioè non semplicemente immagine, ma prolungamento materiale dello
"spirito novo", che ha perduto le sue membra, ma ha conservato intatte,
anzi "in atto molto più che prima agute" (Purg. XXV 84), memoria
intelligenza e volontà.
Il principio della materialità dell'ombra, enunciata da Dante in
diverse occasioni7, ha una sistematica applicazione poetica innanzitutto
nella differente consistenza fisica delle anime-ombra dell'Inferno (con le
quali il contatto è possibile8) rispetto a quelle del Purgatorio, "vane, fuor
che ne l'aspetto" (II 78): tale regime differenziato dipende dal graduale
smaterializzarsi dell'ombra, che nell'Inferno è minimo e nel Purgatorio è
massimo. Nel Paradiso poi, per lo stesso principio, le anime sono
descrivibili come ombre solo fino al cielo di Venere9.
In che modo risponde allora Dante, sul piano poetico e nel canto
XXVI del Purgatorio, al quesito circa la evidenza esistenziale del
soggetto? I lussuriosi che bruciano la loro colpa nel rogo dell’ultima
cornice riconoscono Dante come vivo, ossia come esistente, attraverso
l’ombra che il suo corpo, illuminato dal sole radente del pomeriggio,
proietta sulla cortina di fuoco che li avvolge, facendo sì che la fiamma,
oscurata, sembri più viva. Si tratta, certo, di una evidenza dell’io agli
altri, più che a se stesso (come è invece nell’esperienza del cogito10). Ma
la differenza forse è solo apparente, dipende, voglio dire, dalla
prospettiva poetica e non filosofica in cui Dante pone la questione. È
infatti appunto nella proiezione espressiva dell’io che la poesia rivendica
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la necessità antropologica della propria funzione, il suo apriorismo
esistenziale. Se l'evidenza razionale è autoriflessiva, e quindi, in un certo
senso, tautologica, quella poetica non può prescindere dalla eteronomia
connessa ad ogni funzione espressiva: il carattere proiettivo del
linguaggio verbale, cioè il destinatario implicito in ogni discorso,
presuppone una alterità esterna che direziona la parola pronunciata o
scritta. In termini teoretici, l’io poetico esiste per sé in quanto si rivela
agli altri nel suo gesto comunicativo, il che significa la identificazione
antropologica di esistenza ed espressione11.
Abbiamo qui, con la vivida immagine di una "fiamma ...
rovente" ("e io facea con l'ombra più rovente / parer la fiamma..."), un
primo elemento della teoria poetica deducibile da questo canto.
L’”ombra portata” (quella che il corpo proietta su una superficie, distinta
dall’”ombra propria”, cioè la parte in ombra di esso) è indizio di vita, per
chi osserva. Intuizione che nella pittura darà i suoi frutti solo un secolo
dopo con Masaccio, l’ombra si presenta nel Purgatorio (secondo le acute
intuizioni di Roberto Longhi riprese da Gianfranco Folena (1977: 481484) come “controllo esistenziale della figura umana”; essa esprime
quindi “la certezza esistenziale” del personaggio del protagonista,
“rivela –insomma- il segreto della sua esistenza terrena” (R. Longhi
1982: 327-332, in particolare 332).
Ciò che rende, intuitivamente, l’ombra portata veicolo di valori
simbolici legati alla fisicità del corpo è certo l'antica identificazione della
spiritualità razionale con la luce, e quindi della materia irrazionale con il
buio12. Esistono però fonti culturali più ravvicinate che spiegano meglio
l'emergere di questo tema nella coscienza estetica. Penso alla concezione
medica dell'oscuramento interno del corpo e della mente prodotto dai
vapori della bile nera, uno degli umori che irrorano l’organismo,
determinando l’equilibrio o lo squilibrio delle sue funzioni. Nel quadro
di una concezione fortemente integrata dell’uomo nel cosmo, quale è
quella che si afferma dapprima nell’aristotelismo latino e poi nel
neoplatonismo rinascimentale, l’ombra può finalmente apparire come il
riflesso della materialità sublunare che costituisce uno degli elementi
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strutturali della persona, immagine di essa e materia essa stessa (in
quanto in una certa misura ne conserva le funzioni). Di tale materialità
essa rivela, proiettandola all’esterno, la torbida fisiologia umorale che
internamente agita l'essere umano ancorandolo alla temporalità della
esistenza. Le anime dell'al di là sono diverse da Dante non perché non
percepiscano o non sentano (funzioni che in ultima istanza dipendono
dal pneuma, sul quale gli agenti esterni riverberano la loro azione), ma
perché non dispongono di quell'involucro fisico (cioè il corpo) che è
esclusivo dell'esistenza intramondana nel tempo, e che costituisce la
fisicità dell'essere.
A tale dimensione ontologica allude quindi l'ombra. Marsilio
Ficino, medico e filosofo, interpretò il suo significato esistenziale in
questo modo:
(O mente mia) la machina del mondo come ombra di Dio non
ti mostra esso Dio, se prima tu non riduci a te l’ordine suo e
clarissimamente examinando lievi l’ombra. Allora finalmente in te
come immagine di Dio el mondo d’ombra diventa immagine, e in
te come vera similitudine di Dio veramente conosci Iddio quando
tu pruovi che lui è essa vera eternità e verità eterna, ma che ‘l
tempo è l’ombra sua, e le cose temporali tucte sono ombratili...
Terribili sono sopra tucte le tenebre, perché la vita sta nella luce, la
luce consiste nella vita. Quanto più interiori sono le tenebre, tanto
più sono terribili. Orribili sono le tenebre fuori di noi comunemente
a tucti. Ma più orribili sono le tenebre dentro al corpo a’
maninconici. E molto più atroci le tenebre nell’anima a’ damnati13.
Anche in Dante (anzi nel Purgatorio per la prima volta) l’ombra
rivela agli osservatori la presenza reale del corpo e quindi la temporalità
che lo costituisce14. “Colui non par corpo fittizio” (v. 12), commentano i
penitenti quando la vedono, e uno di essi gli chiede come sia possible
che egli faccia di sé “parete / al sol” (vv. 22-23). Nella sua risposta,
Dante gli spiega che è lì, nel Purgatorio, con le sue membra, “col sangue
suo e con le sue giunture” (vv. 56-57).
Corpo reale, pertanto, e non virtuale o semplice pneuma, come
loro, la sua persona si oppone alla luce per la densità opaca della materia
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che lo costituisce, e che l'ombra rivela15. Al luminoso soggetto razionale
della filosofia, diafano nella sua virtualità intellettiva, la poesia
contrappone dunque un soggetto umbratile, radicato nel fondo torbido
delle sue passioni, che non sono semplicemente il materiale biologico
del quale il soggetto è forma, ma anche il segno visibile della realtà della
sua esistenza. Intrisa della passionalità e pulsionalità che riempiono di
esistenza il soggetto, l’ombra è anche il segno elementare che ne rivela
la presenza alla percezione degli altri.
2º movimento: la gerarchia dei generi sessuali
Il secondo movimento del canto illustra le passioni che, in quanto
direttamente implicate nella esperienza poetica, determinano il soggetto
moderno in quanto tale. Il fatto che ci troviamo nella cornice dei
lussuriosi ci immette subito in una problematica, quella della sessualità,
di cui il poeta ha già messo in evidenza, nel canto XXV, l'assoluto
rilievo antropologico, poiché è nell'ambito della sua fisiologia che si
dirime la questione dell'anima (cioè la sua origine e le sue funzioni),
dalla cui soluzione dipendono le grandi cosmovisioni che accendono il
dibattito filosofico e teologico della scolastica. Fissata lì, in astratto, la
sua posizione rispetto ai principi teorici generali, Dante ne verifica qui le
conseguenze sul piano storicamente concreto della poesia (ovviamente
di quella che pone il desiderio sessuale al centro della sua ispirazione).
Come già in altre occasioni16, Guinizzelli figura come il saggio la cui
autorità dottrinale è addotta perché abbiano credibilità le carte che il
poeta intende vergare.
La spiegazione che fornisce il bolognese (cioè la situazione dei
lussuriosi nella cornice e il suo significato etico) è però inintellegibile se
non si parte dalle tesi sulla generazione dell'anima esposta nel canto
XXV, e questa a sua volta deve essere compresa nel quadro della
metafisica e della antropologia svolte nel Convivio. Queste ultime
(profondamente integrate l'una nell'altra, come è caratteristico della
cosmovisione aristotelica) si basano su una concezione gerarchica
dell'universo, per la quale tutti gli esseri creati si distribuiscono in una
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scala graduale e continua di perfezioni17. In tale gerarchia, ogni livello
superiore di organizzazione dell'essere include come propio stadio di
sviluppo il livello inferiore. Relativamente all'uomo, l'anima razionale
(che rappresenta la sua 'perfezione', cioè il livello evolutivo che gli è
proprio nell'universo) include, come potenza, quella degli animali, e
questa a sua volta quella delle piante18.
È questo, nella sostanza, il processo descritto in Purg. XXV, che
così riassume C. Vasoli, che a sua volta riprende la lettura di B. Nardi
(Opere Minori, I, 2, p. 761):
Il seme maschile prende nel cuore del padre 'virtute
informativa a tutte membra umane' (vv. 40-41); poi nella matrice
ha luogo la catamenia; e la virtù attiva del seme, o 'virtù
informativa', dapprima diviene anima come di pianta, poi prende a
muoversi e a sentire come negli animali più imperfetti, quindi,
ancora, già fatta anima vegetativa e sensitiva, prende a creare gli
organi per le sue facoltà, spiegandosi in tutto l'organismo per
attuare le proprie potenzialità. Con la produzione dell'anima in vita,
la natura ha così raggiunto il limite estremo delle sue possibilità; ed
a questo punto, nella generazione umana, che sinora non è diversa
da quella degli altri animali, interviene la virtù del motore del cielo,
cioè di Dio cui solo spetta di creare l'intelletto19.
Tale processo evolutivo, che in Purg. XXV è descritto come una
successione di stadî biologici20, in Conv. IV vii 14-15 viene comparato
alla generazione dei poligoni l'uno dall'altro per addizione di lati21. È
appunto la sottrazione del lato intellettuale, cioè la rinuncia all'uso
dell'anima razionale, ciò che riporta indietro l'essere umano nella scala
evolutiva della natura, rendendolo simile ad "animale bruto". Il tema è
frequentissimo in Dante, e vale ovviamente per le donne non meno che
per gli uomini22.
A tale gerarchica distribuzione dei livelli dell'essere, e,
relativamente a quelli animati, delle rispettive anime, corrisponde una
ugualmente gerarchizzata distinzione di 'amori', cioè di modi di appetire
e di oggetti appetibili, i quali nell'essere umano agiscono
sincronicamente, poiché egli, "avvegna che una sola sustanza sia,
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tuttavia ... tutti questi amori puote avere e tutti li ha" (Conv. III iii 5)23.
La direzione etica dell'agire umano dipende dal prevalere dell'una o
dell'altra delle sue anime nella scelta dell'oggetto di desiderio: arrestarsi
alla "sensibile apparenza", lasciare che prevalgano, in tale scelta, i sensi
inferiori, cioè "il gusto e il tatto", significa, nell'uomo, amare "come
bestia", poiché la sua perfezione, cioè la sua identità specifica nella
gerarchia degli esseri, è costituita dalla razionalità24.
Tutto ciò spiega gli esempi e le similitudini a cui ricorrono prima
il narratore e poi Guinizzelli per illustrare la condizione dei lussuriosi,
cioè di coloro i quali agirono "seguendo come bestie l'appetito" (v. 84):
circolando in senso inverso lungo la cornice, i due gruppi di lussuriosi, i
sodomiti da una parte e gli ermafroditi dall’altra, si incrociano in due
punti della circonferenza e si baciano, como formiche che si scontrano
frontalmente; poi si allontanano in direzioni opposte come gru che
innaturalmente volassero alcune verso il nord, altre vero il sud. Noi
diremmo, neutralizzando la violenza del giudizio morale del poeta,
omosessuali ed eterosessuali, ossia, nella pragmatica del desiderio, le
due direzioni etiche del soggetto, quando si intenda il desiderio
(d'accordo con Dante) como fondamento passionale della soggettività.
Sodomiti ed ermafroditi procedono cantando inni penitenziali; ma
i due gruppi gridano, quando si incontrano, ciascuno un esempio
illustrativo del proprio peccato: le due città bibliche che Dio distrusse
per il vizio contro natura dei suoi abitanti, gli uni; il mito di Pasifae che
si innamorò di un toro e generò il minotauro, gli altri. Nella spiegazione
di Guinizzelli, i due peccati sessuali sono descritti con esempi che
rinviano a una concezione gerarchica dei generi sessuali, nel quadro
della scala evolutiva della natura che la lussuria perverte: la sodomia è
definita come il vizio per il quale Cesare, durante i suoi trionfi nelle
strade di Roma, era chiamato regina (secondo il racconto di Svetonio),
il che implica una degradazione generica, da uomo a donna; la lussuria
eterosessuale viene invece esemplificata da Pasifae, che è definita, “colei
/ che s’imbestió ne le ‘mbestiate schegge” (v. 87), la qual cosa implica
una doppia degradazione, da donna ad animale, e poi da animale a
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vegetale (il legno, originariamente pianta, con cui fu fabbricata la finta
vacca). Insieme, i due peccati rappresentano una tipologia della
degradazione personale che consiste nel ripercorrere all’indietro e verso
il basso la scala esistenziale della natura:
1º dal maschile al femminile,
2º dal femminile all’animale,
3º dall’animale al vegetale.
La gerarchia implicita in questo processo di degradazione
distingue gradi diversi di dignità tra il maschile ed femminile, in modo
tale che quest'ultimo si presenta come il gradino immediatamente
superiore a quello della specie animale. Tale distinzione non ha però
validità universale o ontologica (come tutte le altre). Intuiamo il suo
relativismo attraverso gli esempi che sono addotti, estratti dalla storia di
Roma e dalla storia sacra, ossia dalla cultura antica. A questo modello
androcentrico, basato sulla superiore dignità del maschile25, Dante
oppone un altro modello, ginocentrico, nel quale il rapporto fra il
maschile e il femminile si inverte. Lo vediamo nei versi 58-60:
Quinci sù vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che m’acquista grazia,
per che ‘l mortal per vostro mondo reco.
Il chiarimento di Dante parte da una premessa ("Quinci sú vo per
non esser piu cieco") che, pur non avendo ancora l'interlocutore rivelato
la sua identità, sembra un argomento ad hominem, scelto perché
l'interrogante è certamente sensibile ad esso. Nel sonetto Pur a pensar mi
par gran meraviglia, Guinizzelli aveva infatti denunciato la cecità di
coloro che non pensano alla morte e al destino ultraterreno dell'uomo
(vv. 13-14):
e però credo solo che 'l peccato
accieca l'omo e sí lo fa finire,
e vive come pecora nel prato.
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Nella sua replica, "Beato te, che de le nostre marche / ... / per
morir meglio, esperïenza imbarche" (73-75), Guinizzelli, oltre a citare il
sonetto a Guittone Caro padre mëo, sta anche rievocando la propria
riflessione sulla irresponsabilità degli umani, i quali, pur vedendo "l'un
l'altro morire" (v. 9), agiscono "come non fusse mai piú altra vita" (v. 6);
ed alla fine del canto ricorderà (si direbbe con una punta di nostalgia)
quella condizione di peccaminosità che nella vita terrena (nel sonetto
"questo mondo" -v. 3, cui si oppone in Dante "questo mondo", cioè il
Purgatorio) "accieca l'omo": "... noi di questo mondo / dove peccar non è
più nostro" (131-132)26. Il verso finale del sonetto , "e vive come pecora
nel prato", riecheggiato qui dal v. 84: "seguendo come bestie l'appetito",
è in perfetta sintonia con la teoria della regressione animalesca degli
umani che abbandonano l'uso della ragione, ed utilizza anzi un termine
di paragone (le pecore) frequentissimo in Dante27. È dunque il rischio di
imbestialimento connesso alla sessualità, rischio ben noto ai poeti
d'amore, e a Guinizzelli in particolare, ciò che la donna di cui parla
Dante ha il compito di scongiurare, invertendo la direzione etica delle
passioni umane: verso l'alto invece che verso il basso. D'altra parte,
proprio Guinizzelli, attraverso la canzone Al cor gentile ed il sonetto Io
voglio del ver, aveva indicato a Dante il cammino verso una concezione
del femminile come funzione metafisicamente redentrice (attraverso il
tema della salute) e compatibile con un desiderio sessuale purificato dal
"fedele consiglio de la ragione".
La donna che dall’alto ha procurato al poeta la grazia di
percorrere vivo l’al di là è Beatrice, che rappresenta nella poesia di
Dante, oltre che il personaggio (reale o fittizio) a cui è dedicata, anche il
principio trascendentale femminile che la ispira, ed il cui sovversivo
compito ideologico consiste nel redimere il corpo ontologizzandolo,
ossia assumendo la sfera della sensibilità, che da esso dipende, nel cuore
della soggettività, la quale, in questo modo, si singolarizza e
personalizza28. Si consideri, infatti, che la sessualità e il desiderio
possono essere fondamento morale della personalità solamente se il
corpo e le sue passioni sono intesi come elementi che partecipano
positivamente alla costituzione della persona umana (il che sarebbe
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impensabile non solo nel cristianesimo della patristica, ma anche nel
dualismo platonizzante della cultura antica). Questa è, infatti, la
rivoluzionaria allegoria del viaggio nell’aldilà che la Commedia narra.
Nel canto che leggiamo il motivo romanzesco della sorpresa delle anime
purganti nei confronti del corpo vivo di Dante va decodificato, sul piano
della teoria poetica, come la sorprendente e inaudita promozione
metafisica dell’ombra esistenziale dell’individuo umano, che ha
miracolosamente raggiunto la dimensione dell’essere per la virtù poetica
del desiderio ispirato da una donna, e che attraversa tale dimensione con
la irriducibile singolarità delle proprie passioni. È più che mai
opportuno, quindi, che proprio qui, nel luogo del Poema destinato a
commemorare i supremi maestri della lirica provenzale ed italiana il
rango trascendentale di Beatrice si riveli finalmente in tutto il suo
significato critico, che era d'altra parte già stato adombrato, in quanto
condizione preliminare del viaggio del poeta, nel I canto dell'Inferno,
laddove Virgilio spiega che l'ascesa alle "beate genti" del Paradiso sarà
mediata appunto da lei:
alle qua' poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò di me più degna,
con lei ti lascerò nel mio partire29.
Dante informa colui che in Italia inaugurò la moderna poesia
d’amore che questa poesia ha fatto, grazie a Beatrice (quindi a lui stesso)
un enorme salto culturale, portando finalmente a compimento ciò che
era già implicito nella sua originaria invenzione30. Il lato più intimo e
personale dell’uomo, cioè le sue passioni fisicamente primarie, sono
ormai divenute prospettiva ermeneutica trascendentale, grazie appunto
alla poesia che ne ha depurato e razionalizzato il torbido fondo
pulsionale. Il primato moderno del femminile, assiologicamente opposto
all’androcentrismo antico, proietta il mortal (cioè il corpo e le sue
passioni) nell’altro mondo, in quella dimensione trascendentale
dell’essere che finalmente lo redime dalla sua antica condanna alla cieca
irrazionalità della materia31.
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La funzione redentiva che ha Beatrice nei confronti della
corporeità e della sua umbratile pesantezza avrà una nuova clamorosa
conferma in Par. XXII 100-105, dove un suo cenno sospingerà Dante,
vincendo la sua natura, lungo la scala di Giacobbe, dietro Benedetto e le
altre anime del cielo di Saturno:
La dolce donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala,
sì sua virtù la mia natura vinse;
né mai qua giù dove si monta e cala
naturalmente, fu sì ratto moto
ch'agguagliar si potesse a la mia ala.
Ed insiste su tale funzione anche Adamo, in Par. XXVI 109-111:
Tu vuogli udir quant'è che Dio mi puose
ne l'eccelso giardino, ove costei
a così lunga scala ti dispuose.
È però qui, nel confronto con i maestri della poesia moderna, che
essa deve essere solennemente dichiarata ed autorizzata (poco prima che
il personaggio di Beatrice faccia la sua apparizione sulla scena)32.
Il sovvertimento della gerarchia dei generi sessuali, con la
conseguente superiorità (di sopra) della donna e del femminile, sono
dunque condizione di quella promozione metafisica del soggetto
umbratile che la formula di dolce stil novo lapidariamente riassume. È
appunto in rapporto al concetto enunciato da tale formula che risulta
pertinente la paternità di Guinizzelli, ossia la anteriorità genealogica che
qui viene proclamata. È evidente, infatti, che la nozione di dolcezza,
addotta per definire la poesia di Guido, ha lo stesso valore tecnico che in
Purg. XXIV 57, ed anzi rappresenta l'approfondimento teorico di un
concetto che lí era stato solo parzialmente tematizzato. Qui l'aggettivo
appare due volte, la prima, appena citata, in dittologia con leggiadre, la
seconda in sostanziale sinonimia con cari: "dolci detti" - "cari incostri".
In realtà i tre aggettivi (dolce, leggiadro, caro) circoscrivono un campo
semantico concettualmente molto compatto, e che potremmo definire, in
connessione logica con la umbratilità del primo movimento, come la
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affettività, sublimata attraverso la poesia e quindi concepita come
principio interno di nobilitazione della persona. L'analisi dell'uso
dantesco dei tre lessemi illustrerà tale campo semantico.
Il valore tecnico (cioè critico) dell'aggettivo dolce, in Dante, non
si riduce al senso formale di "fusione melodica" del dettato poetico
(autorevolmente indicato da G. Contini33 (1960: 444). Esso dice
piuttosto la risonanza interiore del dettato, la sua forza intimamente
persuasiva, che pur dipendendo dalla oggettiva armonia formale, se ne
distingue però in quanto movimento interno della sensibilità34. La
dipendenza teorica degli aspetti formali o esterni da quelli sostanziali o
interni, nella nozione di dolcezza, è messo in evidenza da questi luoghi
del Convivio:
(II vii 5) Dico adunque che vita del mio core, cioè del mio
dentro, suole essere un pensiero soave (soave è tanto quanto
suaso, cioè abellito, dolce, piacente e dilettoso).
(III iii 14) Dico che li miei pensieri -che sono parlare
d'Amore- "sonan sì dolci" che la mia anima, cioè lo mio affetto,
arde di potere ciò con la lingua narrare... E dico l'anima ch'ascolta
e che lo sente: "ascoltare", quanto alle parole, e "sentire", quanto a
la dolcezza del suono.
Come in questi passaggi, che riferiscono la dolcezza alla
interiorità degli affetti, anche in Purg. XXIV la dolcezza di cui parla
Bonagiunta deve essere letta contestuamente al "dittar dentro" di cui
parla il personaggio-Dante, nel quadro teorico (originariamente proprio
della grammatica speculativa) dell'isomorfismo verbale fra concetto ed
espressione(cfr. R. Pinto 2002: 191-215)35.
La leggiadria è oggetto di ampia riflessione nella canzone Poscia
ch'amor del tutto m'ha lasciato; qui essa è il principio etico che valorizza
l'individuo attraverso comportamenti che mostrano all'esterno la sua
virtù (12-16):
cioè di leggiadria, ch'è bella tanto
che fa degno di manto
imperial colui dov'ella regna:
158
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
ell'è verace insegna
la qual dimostra u' la vertù dimora.
Tale virtú non solo coincide senz'altro con la nobiltà36, ma è
anche allusione al concetto specificamente guinizzelliano di essa (96107):
Al gran pianeto è tutta simigliante
che, dal levante
avante infino a tanto che s'asconde,
co li bei raggi infonde
vita e vertú qua giuso
ne la matera sí com'è disposta:
e questa, disdegnosa di cotante
persone, quante
sembiante portan d'omo, e non responde
il lor frutto a le fronde
per lo mal c'hanno in uso,
simili beni al cor gentile accosta;
Si osservi, in questi versi, la accusata citazione di Al cor gentile,
non solo nel sintagma del verso 107, ma anche nella similitudine con il
sole ed il suo selettivo potere sulla materia che ne riceve l'influsso (3134):
Fere lo sol lo fango tutto 'l giorno
vile reman né 'l sol perde calore;
dis'omo alter: "Gentil per sclatta torno";
lui semblo al fango, al sol gentil valore37.
È chiaro allora che l'aggettivo leggiadro, il cui senso Dante aveva
guinizzellianamente ridefinito nella canzone, è, in Purg. XXVI, citazione
da Guido, di cui evoca il più caratteristico dei temi lirici, e cioè la nobiltà
del cuore come condizione di ogni autentica esperienza d'amore. A tale
valore, semmai, Dante aggiunge di suo una più precisa connotazione
espressiva (o poetica) della nobiltà, come emerge dal "leggiadro parlare"
della donna che interroga il poeta in Vita Nuova XVIII; o dalla
leggiadria dell'accompagnamento melodico della ballata (in Per una
ghirlandetta, 18-21):
159
Tenzone nº 5
2004
Le parolette mie novelle,
che di fiori fatto han ballata,
per leggiadria ci hanno tolt'elle
una vesta ch'altrui fu data38.
Infine l'aggettivo caro, su cui il poeta insiste per categorizzare la
poesia di Guido (111: "nel dire e nel guardar d'avermi caro"; 114:
"faranno cari ancora i loro incostri") ha il senso squisitamente tecnico,
ed anzi senz'altro storico- letterario, deducibile da De Vulgari II iii 7:
Que nobilissima sunt carissime conservantur; sed inter ea
que cantata sunt, cantiones carissime conservantur, ut constat
visitantibus libros: ergo cantiones nobilissime sunt, et per
consequens modus earum nobilissimum est.
Qui è caro ciò che, per la sua nobiltà (cioè il suo valore) è degno
di essere conservato. Ma la conservazione di un testo implica la sua
scrittura. La canzone dimostra il suo primato, rispetto agli altri generi
lirici più legati alla memoria orale, attraverso la sua vocazione alla
fissazione scritta, "ut constat visitantibus libros". E dei "dolci detti" di
Guido sono appunto cari gli incostri, cioè la loro materialità testuale.
Questi incostri alludono alla codificazione scritta della lirica, grazie alla
quale la letteratura in volgare acquista nobiltà, cioè rango culturale e
dignità intellettuale. L'aggettivo cari indica, di nuovo, il lato soggettivo
ed interno delle attività e le competenze relative alla conservazione dei
testi poetici, il coinvolgimento affettivo dei lettori (i "visitantes libros"),
necessario perché i loro incostri possano perdurare nella memoria e
nell'uso.
La affettività, che l'emergenza del femminile nella cultura del
desiderio mobilita, è il tratto più significativo, anzi senz'altro il valore
caratterisitico, di quell'uso moderno di cui Guinizzelli viene indicato
come fautore, e all'interno del cui concetto acquista significato la sua
poetica paternità. Moderna, infatti, è quella poesia che attraverso il culto
del femminile pone il proprio principio di ispirazione nell’ambito degli
affetti. Dolci (e leggiadri e cari) sono i discorsi ispirati dall’amore, e
l’”uso moderno” nella letteratura coincide con questo ideale estetico e
160
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
con la svolta antropologica che esso implica, giacché l’ambito degli
affetti è inseparabile da quelle passioni che oscurano, con l’ombra della
loro materialità, il soggetto individuale.
Guinizzelli, con un atto di modestia frequente nei personaggi del
Purgatorio, reagisce alla ammirazione di Dante dicendogli che lì accanto
a lui si trova un altro poeta, migliore di lui, il trovatore Arnaut Daniel39.
Nelle parole con cui lo presenta, però, l’uso poetico moderno, all'interno
del quale il primato di Arnaut è argomentabile, acquista un’altra
determinazione. Il poeta moderno è definito come artigiano della lingua
materna (“fu miglior fabbro del parlar materno”, v. 117), ossia del
volgare, che è materno in quanto i bambini lo apprendono in casa, dalle
loro madri o nutrici, e non a scuola, come il latino (secondo la
distinzione che Dante formula nel primo capitolo del De Vulgari
Eloquentia). La rima moderno/materno indica con evidenza folgorante
cosa significhi per Dante modernità, anzi, più esattamente, in che cosa
consista il progetto poetico della modernità, quel progetto di cui in Purg.
XXIV egli ha messo in evidenza l'attualità (incompresa da molti
contemporanei), e del quale ora, nel XXVI, ricostruisce la genealogia.
Il fatto che la superiorità del femminile si dispieghi
originariamente sul piano della poesia, evidente ed ovvio per la
specializzazione erotica dei poeti che agiscono come personaggi in
questo canto (che non a caso descrive la condizione dei lussuriosi), ha
delle implicazioni, non altrettanto ovvie ed evidenti, sul piano della
teoria del linguaggio, poiché il nuovo primato che il corpo ed il
femminile acquistano nella prassi dei poeti implica una revisione del
sistema delle funzioni linguistiche tanto radicale e sovversiva quanto
quella dei generi sessuali. L'asse teorico di tale revisione è il nuovo e
moderno primato del volgare, in quanto lingua naturale e sermo
maternus, nei confronti del latino, in quanto lingua artificiale o
grammatica40. Il "parlar materno" di cui Arnaut Daniel fu "miglior
fabbro" è infatti nozione riassuntiva di una tematica che Dante era
andato sviluppando fin da quando, nel capitolo XXV della Vita Nuova,
aveva teorizzato l'inscindibile nesso fra poesia e volgare, tema erotico e
161
Tenzone nº 5
2004
destinataro femminile. Solo in virtù di tale nesso, d'altra parte, lì, come
qui nel XXVI del Purgatorio, lirica provenzale e lirica italiana gli
possono apparire come una unica civiltà letteraria che nel suo insieme è
orientata alla istituzione della modernità, la quale è evidentemente molto
più un concreto paradigma di poesia e di cultura che una astratta
cronologia. 'Antico' e 'moderno' si opponevano, già nella Vita Nuova, in
quanto tradizioni letterarie caratterizzate da strumenti espressivi e valori
culturali antagonici: quella antica fondata sulla grammatica ("tra noi"
latina), quella moderna sul volgare (d'oco e di sì, cioè provenzale ed
italiano):
anticamente non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi
erano dicitori d'amore certi poete in lingua latina; tra noi dico,
avvegna forse che tra altra gente addivenisse, e addivegna ancora,
sì come in Grecia, non volgari ma litterati poete queste cose
trattavano41... e segno che sia picciolo tempo, è che se volemo
cercare in lingua d'oco e in quella di sì, noi non troviamo cose
dette anzi lo presente tempo per cento cinquanta anni.
L'allusione che subito segue ai grossi che tuttavia "ebbero fama di
saper dire" serve a sgombrare immediatamente l'illazione che la
modernità dipenda dall'anagrafe, proprio come, nel nostro canto, gli
antichi che diedero pregio a Guittone sono non personaggi del passato
ma attualissimi ritardatari nella mentalità, cioè quegli stessi di cui già in
Purg. XXIV era stata denunciata l'incomprensione del nuovo stile. Il
loro ritardo intellettuale consiste non nel fatto che non usino la lingua
naturale, ma nel fatto che, pur usandola, non ne hanno compreso il
significato culturale, ossia quella trasformazione della mentalità di cui il
parlar materno è portatore. L'affermazione (apparentemente ingenua) del
libello giovanile secondo la quale in volgare non bisogna rimare «sopra
altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare
fosse dal principio trovato per dire d'amore», è in realtà un disvelamento
ermeneutico che appunto qui, nel XXVI del Purgatorio, rivela la
necessità delle sue ragioni storico-culturali, e cioè il fatto che la
centralità del desiderio sessuale nella poesia in volgare è al servizio di un
programma culturale che, per il fatto di considerare nucleo della
162
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
personalità la sfera affettiva, ha nel culto della donna e nel primato del
femminile i suoi fondamentali elementi ideali42.
3º movimento: la poesia come espressione del vero
Qual è però la consistenza ermeneutica di tale paradigma di
poesia? Esso implica l'accesso alla verità? Se la poesia ha il compito di
riorientare la soggettività, aprendola ai valori della affettività, non verrà
sacrificata quella dimensione veritativa che il soggetto antico del sapere,
astratto ed universale, garantisce? La questione è cruciale per Dante ed
accompagna tutta la sua riflessione storico-critica. Essa è affrontata nel
canto XXVI in tre momenti: nei vv. 109-111, quando Guinizzelli chiede
al protagonista perché lo ammiri tanto:
Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d’avermi caro;
poi nei versi 121-123, quando Guinizzelli spiega perché Guiraut de
Bornelh gode ingiusta fama di essere miglior poeta di Arnaut Daniel:
A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti;
ed infine ai versi 124-126, quando il poeta bolognese spiega che, come
Guiraut in Provenza, così anche Guittone in Italia usurpò una fama
immeritata, che altri (più persone) avrebbero poi ridimensionato:
Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto il ver con più persone43.
Si tratta, nei tre casi, di una verità che la parola poetica include in
sé come contenuto latente e che la riflessione critica enuncia,
manifestandola (quella di Dante lettore di Guido nel primo caso, quella
di coloro che non si lasciano ingannare dalla voce e dal grido, nel
163
Tenzone nº 5
2004
secondo e nel terzo). È tale riflessione critica che fa giustizia dei falsi
valori letterari, rivelando quelli autentici.
La necessità di una funzione critica che accompagni la prassi
poetica in ogni suo momento era stata formulata per la prima volta nel
cap. XXV della Vita Nuova:
degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante [cioè figure
retoriche], ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione la quale
poi sia possibile d’aprire per prosa... E acciò che non ne pigli
alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano
così sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così non
avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però
che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta
di figura o di colore retorico, e poscia, domandato, non sapesse
denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero
verace intendimento.
Ma questa esigenza di verità nella poesia, che rappresenta una
costante della riflessione dantesca44, è anche elemento fortemente
caratterizzante della poesia di Guinizzelli, che nel suo sonetto di risposta
a Bonagiunta aveva invocato appunto il ver come elemento
discriminante fra un pensiero critico saggiamente formulato ed uno
imprudentemente ed affrettatamente esposto. E una istanza di tipo
veritativo è presente sia nella apertura metafisica della strofa finale di Al
cor gentil, sia nel proposito di lodare la donna, nel sonetto Io voglio del
ver. Guittonismo significa allora, tanto per Dante quanto per Guinizzelli,
una poesia che non ha ancora assimilato, come proprio a priori
espressivo, quel contenuto di verità che il lettore intelligente (la "persona
degna da dichiararle onne dubitazione" di Vita Nuova XXV) ha il
compito di enucleare45.
Noi oggi possiamo senz'altro osservare che l’esigenza (filosofica)
di verità che Guinizzelli e soprattutto Dante assegnano alla poesia è una
rivoluzione culturale di ampia portata, giacché la posizione critica che la
letteratura moderna postula rappresenta un dispositivo di ricerca
ermeneutica sostanzialmente ignoto alla letteratura antica, i cui
164
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
procedimenti compositivi erano subordinati al sistema, puramente
classificatorio e sostanzialmente normativo, della retorica, ed estranei
alla ermeneutica del vero (olre che alla problematizzazione etica ed
estetica del soggetto personale) (cfr. R. Pinto 1994: 109-122). Ed anzi,
proprio per avere una percezione esatta della nostra modernità, è più che
mai necessario aver chiaro che una risposta come quella che Dante dà a
Guinizzelli (“I dolci detti vostri...”), che giustifica il valore del testo a
partire dalla risonanza interiore che esso produce sul lettore e dalla
attualità culturale del suo messaggio (l’”uso moderno”), è indeducibile
dai manuali di retorica. Essa infatti mette al centro della interrogazione
critica non la fedeltà del testo ad astratte regole della scrittura letteraria,
ma bensí quella che il soggetto morale deve all'istanza della propria
necessità espressiva (l'interno dittator di Purg. XXIV), la quale ha
stimoli oggettivi ed esterni, essendo il femminile la alterità che apre il
vissuto personale al mondo ed espone il soggetto alla differenza di esso,
ma che non può divenire parola poetica senza il filtro interiore di una
soggettività che ne venga realmente modificata. Ciò vuol dire che la
poesia viene modernamente sottratta al dominio della retorica ed inclusa
nel dominio della noetica (mezzo espressivo di costruzione personale
della soggettività)46.
Il carattere assiologico, e non cronologico, che la nozione di
modernità ha nel canto XXVI del Purg., e quindi il carattere
programmatico, oltre che storiografico, che ha il concetto di uso
(letterario) moderno lo osserviamo anche in un altro luogo della
Commedia, in cui l'autore chiama in causa la propria attualissima
esperienza di scrittura del Poema, e la interroga circa il suo contenuto di
modernità. A Cacciaguida che gli ha anticipato il suo difficile futuro,
Dante chiede se la manifestazione delle scomode verità che gli sono
state rivelate durante il viaggio non gli crei antipatie ed ostilità (Par.
XVII 106-120):
"Ben veggio, padre mio, sí come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch'è piú grave a chi piú s'abbandona;
per che di provedenza è buon ch'io m'armi,
165
Tenzone nº 5
2004
sí che, se loco m'è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s'io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
e s'io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico".
La difficile alternativa che qui Dante enuncia spiega bene in cosa
consista il compito che la modernità assegna al poeta. L'impegno dello
scrittore alla verità, una verità da intendere in un senso che non si
potrebbe immaginare più radicato nel presente storico ed esistenziale di
un soggetto empirico del quale sono in gioco le passioni elementari (in
un senso, quindi, 'umbratile'47) coincide con la sua aspirazione a
perdurare nella memoria dei posteri, a sopravvivere alla antichità di
"questo tempo". E il valore progettuale, quindi politico della modernità,
emerge con una forza estrema, tanto più tragicamente persuasiva in
quanto radicata nella dolcezza degli affetti, che filtra, e riempie così di
senso, ogni evento storico esterno.
Se mi è consentito estrapolare considerazioni di respiro generale
dall'analisi di queste pagine dantesche, direi che è sostanzialmente in tale
compito espressivo che consiste la dimensione veritativa postulata dalla
poesia moderna, tanto più politicamente necessaria quanto maggiore è il
vuoto in cui la scomparsa delle antiche verità religiose e cosmologiche
getta le coscienze. Si tratta di una verità poetica che certamente non
esclude la rappresentazione della realtà (quale realismo letterario è più
convincente di quello dantesco?), ma che impone come a priori estetico
un filtro affettivo a qualunque discorso sul mondo. In altre parole, è
suscettibile di trasformarsi in parola poetica e quindi vera solo ciò che ha
una corrispondenza emotiva nella interiorità del soggetto che dice.
Nessuna verità è enunciabile se prima non risuona dentro come
166
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
movimento affettivo. Ciò significa, sul piano teoretico, assegnare alla
sensibilità, ossia all'umbratile sfera delle passioni, un fondamento
veritativo che rappresenta l'aspetto più innovativo della poetica dantesca,
che lo sgancia dalle sue fonti scolastiche immediate (Tommaso
d'Aquino, principalmente), e lo proietta prepotentemente verso la
modernità. Percepiamo tale rottura epistemica proprio dal confronto con
Cartesio, la cui etica ha soprendenti punti di contatto con l'estetica di
Dante.
Come è noto ai suoi studiosi, Cartesio ridefinisce la sfera delle
passioni introducendo in essa come affetto originario un movimento
dell'anima che da Aristotele in poi era stato considerato come il punto di
partenza del filosofare, e cioè la meraviglia (thaumazein). Si tratta di una
passione non orientata verso il bene o il male, e che anzi, manifestando
la spontanea reazione del soggetto nei confronti di cosa ignota e
straordinaria, attribuisce alla sensibilità una funzione ermeneutica che la
riabilita sul piano della perfezione dell'essere umano e dei suoi fini:
Au nom de la réinterpretation de la notion aristotélico-thomiste
d'admiration, Descartes donne une place centrale aux passions dans
la vertu et la félicité humaines. Chez Descartes, c'est en effet le
dynamisme passionel lui-même, à condition qu'il en soit fait bon
usage, qui nous oriente à la connaissance et à la possession du
souverain bien. Les passions ont donc un rôle fondamentale dans
l'orientation vers la perfection morale de l'homme et vers la
possession de cette perfection (L. Renault 2003: 267).
L'ammirazione è però il lato soggettivo di una relazione che
guarda verso l'esterno, verso le cose del mondo. Perché queste suscitino,
in un soggetto, il movimento della sorpresa, devono avere, ai suoi occhi,
il carattere della novità:
Lorsque la première rencontre de quelque objet nous surprend, et
que nous le jugeons être nouveau ou fort différent de ce que nous
connaissions auparavant ou bien de ce que nous supposions qu'il
devait être, cela fait que nous l'admirons et en somme étonnés48.
167
Tenzone nº 5
2004
Anche in Dante la novità dell'oggetto percepito è la sua prima
determinazione nella prospettiva della eticità dell'essere umano. In
Conv. IV xii 14-17 la procedura del desiderio in quanto motore
dell'agire viene descritta in questo modo:
lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima dalla natura dato, è lo
ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio delle nostre
anime e fattore di quelle simili a sé‚ (sì come è scritto: "Facciamo
l'uomo ad imagine e simiglianza nostra"), essa anima
massimamente desidera di tornare a quello. E sì come peregrino
che va per una via per la quale mai non fue, che ogni casa che da
lungi vede crede che sia l'albergo, e non trovando ciò essere,
dirizza la credenza all'altra, e così di casa in casa, tanto che
all'albergo viene; così l'anima nostra, incontanente che nel nuovo e
mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al
termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia
in sé avere alcuno bene, crede che sia esso. E perché la sua
conoscenza prima è imperfetta per non essere esperta né dottrinata,
piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a
desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un
pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più
oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e
poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra
perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e
credela trovare più oltre.
L'oggetto nuovo è quello che mobilita ogni volta il desiderio
dell'anima nella ricerca del bene sommo, cioè Dio. E tale desiderio è
naturale nell'anima, poiché essa naturalmente tende a "ritornare a lo suo
principio". Tale concezione del desiderio come naturale motore
dell'azione riappare, relativamente all'intelletto, in Par. IV 124-132:
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l'ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
168
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch'al sommo pinge noi di collo in collo;
e soprattutto, relativamente ai primi movimenti dell'anima, cioè quelli
della sensibilità, in Purg. XVIII 22-27:
L'animo, ch'è creato ad amar presto,
ad ogne cose à mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto.
Vostra apprensiva da esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l'animo ad essa volger face;
e se, rivolto, inver' di lei si piega,
quel piegare è amor, quell'è natura
che per piacer di novo in voi si lega.
Qui di novo non è avverbio ("di nuovo" o "per la prima volta"),
ma genitivo di specificazione: "della novità", cioè della cosa nuova che
si presenta alla sensibilità come oggetto di piacere mai sperimentato e
potenziale contenitore di quel bene ultimo che appare naturalmente,
come vestigio o immagine provvisoria, in ogni cosa, che, per questo, è
sempre un "esser verace" la cui intenzione si trasmette alla apprensiva49.
È alla luce di tale prospettiva ermeneutica che bisogna valutare la
nozione dantesca di novità poetica (dolce stil novo), che è già
sintonizzata sulla linea speculativa che sarà propria di Cartesio, e cioè
sulla promozione ermeneutica delle passioni e in particolare del
desiderio, che Dante intende come primo motore dell'agire umano. Si
potrebbe a questo punto obiettare che la dicotomia mente/corpo
caratteristica del filosofo francese è incompatibile con la dantesca
traducibilità di poesia e scienza. Si è visto però che Cartesio afferma
con decisione l'unità dell'anima, cioè l'unità del soggetto personale (per
quanto diverse siano le sue attività e funzioni psichiche). E potremo
allora concludere che la dialettica ricostruttiva fra l'interno e l'esterno,
quindi fra la mente e il corpo, che Dante postula come fedeltà del
significante verbale al significato concettuale, rappresenta, nella cultura
moderna, la posizione propria del soggetto poetico, la sua condizione
169
Tenzone nº 5
2004
antropologica, più complementare che opposta a quella della scienza
(nel cui paradigma l'unità del soggetto, pur presupposta sul piano
ontologico, non è operativa dal punto di vista della traducibilità dei
codici espressivi). Se per Cartesio il cogito, ossia l’intelletto separato
dagli affetti, è fondamento della certezza esistenziale del soggetto, per
Dante lo è il fingere della poesia, ossia una affettività perfettamente
integrata nelle funzioni espressive ed intellettuali dell'io. Non cogito
ergo sum, ma fingo ergo sum.
170
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
NOTE
1
Si vedano, al riguardo, le osservazioni di E. Gilson sul carattere di "primo
principio" che ha il cogito nella filosofia di Cartesio (Descartes 1925: 299-301). Si
consideri, in particolare, la risposta di Cartesio alla obiezione per la quale anche altre
proposizioni analoghe (del tipo "je respire, donc je suis") dimostrano l'esistenza del
soggetto: "Si l'on y prend garde, on trouvera que toutes les autres propositions
desquelles nous pouvons ainsi conclure notre existence reviennent à cela même -Je
pense, donc je suis-; en sorte que, par elles, on ne prouve point l'existence du corps,
c'est a dire celle d'une nature qui occupe de l'espace, etc., mais seulement celle de
l'âme, c'est à dire d'une nature qui pense; et bien qu'on puisse douter si ce n'est point
une même nature qui pense et qui occupe de l'espace, c'est a dire qui est ensemble
intelectuelle et corporelle, toutefois on ne la connâit, par le chemin que j'ai proposé,
que comme intellectuelle" (ib.: 301).
2
"Cartesio distrusse gli errori de' peripatetici. In questo egli fu grande, e lo spirito
umano deve una gran parte de' suoi progressi moderni al disinganno proccuratogli da
Cartesio" (Zibaldone, 21 maggio 1823).
3
Il che non significa che non sia cosciente dei gravi problemi teorici posti dal dogma
cristiano dalla sopravvivenza dell'anima alla morte fisica e della sua reattività post
mortem agli agenti fisici esterni (il fatto cioè che essa, pur priva del corpo, sia atta "a
sofferir tormenti, caldi e geli"). Ciò che è in discussione è appunto il tipo di legame
che unisce l'anima al corpo, tema di accesissimi dibattiti nella scolastica duetrecentesca, e che costituisce uno degli snodi essenziali della poetica di Dante
(sistematicamente svolto, a ridosso del nostro canto, nel XXV del Purgatorio, con
ulteriore e definitiva presa di posizione antiaverroista ed anticavalcantiana).
Estremamente significativo, dal punto di vista che qui interessa, è che il primo
approccio al tema, nel quale la filosofia antica viene dichiarata in blocco impreparata
ad affrontarlo perché ad essa mancano i contenuti ideali del cristianesimo (in Purg.
III 31-45) sia suscitato proprio dalla circostanza fattuale dalla quale muoviamo, cioè
dalla evidenza esistenziale che l'ombra proiettata dal corpo significa per
l'osservatore, che lí, ai piedi della montagna, è lo stesso protagonista, che si
sorprende ed impaurisce non della propia ombra, alla quale è ovviamente ben
abituato, ma di quella che Virgilio non proietta (vv. 16-21: "Lo sol, che dietro
fiammeggiava roggio, / rotto m'era dinanzi a la figura, / ch'avëa in me de' suoi raggi
l'appoggio. / Io mi volsi dallato con paura / d'essere abbandonato, quand'io vidi /
solo dinanzi a me la terra oscura"). Si percepiranno meglio le implicazioni
dell'ombra sul piano della poetica se si osservano, in questo frammento, gli
ammiccamenti a Cavalcanti: la rima figura - paura, che allude a Donna me prega 47
("la figura - con paura - storna") e il sintagma rotto n´era dinanzii, che riprende un
171
Tenzone nº 5
2004
analogo sintagma del sonetto Certo non è de l´inteletto accolto (il cui destinatario è,
con ogni probablità, lo stesso Dante : "Ancor dinanzi m'è rotta la chiave" (Cfr. R.
Pinto 2001: 41-43). Il tema dell'ombra, e del rapporto ontologico fra corpo ed anima,
implica, ogni volta che appare, un rinnovato confronto con la poetica dell'amico.
4
Così riassume J. Jolivet gli aspetti essenziali del contributo arabo alla filosofia
europea nel XII secolo: "une métaphysique dont les thèmes principaux étaient l'être,
l'essence, l'un, l'émanation; une doctrine de l'âme et de l'intellect conçus comme des
séries hiérarchisées de fonctions ou d'entités suspendues finalement à une
Intelligence première, ou agente, qui n'est pas Dieu: ces deux schèmes doctrinaux,
l'ontologique et le noétique, avaient en commun celui d'un épanchement descendant,
épanchement d'être, d'unité, de lumière intelligible" (1995: 50-51).
5
Sul significato di tale nozione nella poesia di Dante ha scritto pagine suggestive R.
Klein (1970: 5-74).
6
"Secondo che ci affliggono i disiri / e li altri affetti, l'ombra si figura", Purg. XXV
105-106. La familiarità di Dante con la pneumatologia antica e medievale, ed anzi la
centralità di tale dottrina nella sua teologia, sono evidenti in Conv. II viii 12-13:
"vedemo continua esperienza della nostra immortalitade nelle divinazioni de' nostri
sogni, le quali essere non potrebbono se in noi alcuna parte immortale non fosse; con
ciò sia cosa che immortale convegna essere lo revelante, [o corporeo] o incorporeo
che sia, se bene si pensa sottilmente - e dico [o] corporeo o incorporeo, per le diverse
oppinioni che io truovo di ciò -, e quello ch'è mosso o vero informato da informatore
immediato debbia proporzione avere allo informatore, e dallo mortale allo immortale
nulla sia proporzione" (sulle fonti di questo passaggio cfr. C. Vasoli, in Dante
Alighieri, Opere Minori, Ricciardi, Milano-Napoli, t. I - p. II, pp. 186-188). È questa
la premessa della deduzione di Purg. XVII 13-18: "O imaginativa che ne rube /
talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge / perché dintorno suonin mille tube, / chi
move te, se 'l senso non ti porge? / Moveti lume che nel ciel s'informa, / per sé o per
voler che giù lo scorge".
7
Cfr. Conv. IV xxi 8: "E s'elli avviene che, per la puritade de l'anima ricevente, la
intellettuale vertude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea...", e Par.
XIX 64-66: "Lume non è, se non vien dal sereno / che non si turba mai; anzi è
tenebra / od ombra de la carne o suo veleno".
8
Come nell'episodio di Bocca degli Abati (ma G. Folena osserva che anche fra
Dante e Brunetto Latini si dà contatto fisico (1977: 481-508, in particolare 494495). Che in Inf. VI 36 Dante e Virgilio passeggino "sovra lor vanità (delle anime)
che par persona", non significa che le anime siano del tutto immateriali, ma
semplicemente che la loro consistenza materiale è estremamente ridotta, essendo
prive del corpo (nello stesso canto, vv. 100-101, è menzionata la "sozza mistura" che
formano le anime e la pioggia: "Sì trapassamo per sozza mistura / de l'ombre e de la
172
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
pioggia"). Il fatto che golosi e traditori siano le uniche anime, ai due estremi
dell'Inferno, ad essere calpestate, stabilisce una analogia a distanza nella quale la
variazione di registro etico ed estetico potrebbe consistere proprio nella differente
consistenza materiale delle loro ombre (Il rapporto fra le due situazioni è ben
descritto da Guido da Pisa: "Ubi est prudenter et sagaciter advertendum quod autor,
gradiens per Infernum, in nulla parte animas calcat nisi animas gulosorum et
proditorum; et hoc ad innuendum quod nulla peccata sunt ita vilia et abominabilia
sicut ista. Nam peccatum gule est peccatum vile, immo vilissimum. Peccatum vero
proditionis est peccatum non solum abominabile, sed etiam abominabilissimum.
Primum enim facit hominem simillimum bestiis, et ideo vile. Secundum vero facit
hominem similem dyabolo, et ideo abominabile. Et propter ista duo calcat animas
gulosorum et proditorum, innuens atque monstrans quam sit vile, immo vilissimum,
primum, et quam sit detestabile et abominabile secundum similiter reputandum".
9
Il motivo è spiegato da Folchetto da Marsiglia in Par. IX 118-119: "Da questo
cielo in cui l'ombra s'appunta / che 'l vostro mondo face..."; il cono d'ombra
proiettato dalla terra termina con la sua punta nel cielo di Venere, e cessa quindi qui
ogni traccia della umbratile materialità del mondo sublunare. Tuttavia, il fatto che
l'anima, innalzandosi verso l' Empireo, perda consistenza materiale e quindi
umbratilità, non significa che essa perda affettività né tensione di desiderio. Nel
cielo del sole, alla "luce più dia" che spiega a Dante perché il ricongiungimento con
la carne, dopo il giudizio finale, non danneggerà la visione divina, ma anzi la
potenzierà, le due corone di beati dimostrano al protagonista la persistenza, fin nel
Paradiso, degli affetti più personali ed intensi (Par. XIV 61-66): "Tanto mi parver
sùbiti e accorti / e l'uno e l'altro coro a dicer "Amme!", / che ben mostrar disio d'i
corpi morti: / forse non pur per lor, ma per le mamme / per li padri e per li altri che
fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme". Si osservi, qui, che il desiderio del
corpo, in quanto legame indissolubile con i propri affetti, è dominato dal principio di
alterità, è diretto cioè soprattutto verso le persone care, cioè le mamme e i padri.
Sono evidenti i rinvii intertestuali di queste terzine a Purg. XXVI..
10
_ Non è certo irrilevante, del resto, per la formulazione dell'assioma cartesiano, la
situazione di solitudine fisica e morale nella quale il filosofo si immerge, cioè lo
spazio di intimità rappresentato dalla stanza in cui viene ambientata la riflessione
che dà origine alla scoperta, né il paragone del filosofo che dubita della percezione
del proprio corpo con gli insensati, la mente dei quali è offuscata dai vapori della
bile: "Ma benché i sensi c'ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e
molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può
ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio
che io son qui, seduto accanto al fuoco, vestito d'una veste da camera, con questa
carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io negare che queste
mani e questo corpo sono miei? a meno che, forse, non mi paragoni a quegli
173
Tenzone nº 5
2004
insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dei neri vapori della
bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di
essere vestiti d'oro e di porpora, mentre son nudi affatto; o s'immaginano di essere
delle brocche, o d'avere un corpo di vetro. Ma costoro son pazzi; ed io non sarei da
meno, se mi regolassi sul loro esempio" (Descartes 1982: 18). Vale la pena di
osservare la coincidenza fra questo testo e il terzo capitolo della Vita nuova ("come
inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d'una mia camera, e
puosimi a pensare di questa cortesissima. E pensando di lei, mi sopragiunse uno
soave sonno..."). Non sembra privo di significato il fatto che tanto l'inizio del poetare
quanto quello del filosofare siano ambientati, modernamente, nello spazio intimo
della camera, nella quale il soggetto, interrotto ogni rapporto con gli altri, si
confronta con il proprio immaginario, che è prodotto da una condizione di malattia
(anche in Dante si tratta dei vapori malinconici, come ironizzando diagnostica Dante
da Maiano), ed è trasformato, dopo un processo di razionalizzazione, nel
fondamento della propria attività di scrittura e di pensiero. Nella camera, intesa
come luogo appartato di ripiegamento introspettivo e di autocomprensione del
soggetto, abbiamo forse il simbolo più originario e riassuntivo della cultura
moderna.
11
L'applicazione più clamorosa di tale assioma la leggiamo in De Vulgari I v 1,
dove si afferma che esistenza e linguaggio, in Adamo, furono prodotti da Dio nello
stesso istante: "rationabiliter dicimus ipsum loquentem primum, mox postquam
afflatus est ab animante Virtute, incunctanter fuisse locutum".
12
Si veda, per esempio, la lettura platonizzante del tema dantesco in Cristoforo
Landino: "[Purg., III, 19-21] sol dinanzi da me la terra scura: aombrata. Quando
cominciamo a salire alla purgatione, el sole, i. la gratia illuminante, ci accompagna.
Ma e razzi suoi penetrano Virgilio in modo, che non lascia ombra di sé. Ma non
penetrano Danthe, perché ha corpo denso, col quale ritiene e razzi, et non gli lascia
penetrare. Onde adviene che si vede la sua ombra innanzi. Virgilio è la ragione
superiore, la quale è tutta penetrabile dal lume, anzi è quasi epso lume. Il perché da
quella non procede obscurità o ignorantia. Ma Danthe, i. la sensualità, ha corpo
denso, et non penetrabile da' razi, onde fa ombra, quasi ignorantia. La ragione è tutta
illuminata, et ha lume in sé, chome el sole. El senso et l'appetito è chome la luna, la
quale non ha lume da sé, et quello che viene dal sole illustra la superficie ma non
penetra. Il perché da quella parte che el sole non la percuote, rimane obscura; chosí
l'appetito et la sensualità non ha lume, se non quanto ne riceve dalla ragione, et
quello non la penetra. Il perché rimane dall'altra parte tenebrosa. Questa è adunque la
cagione che Danthe vede l'ombra, i. la ignorantia, in sé, et non in Virgilio".
13
Il rapimento di Paolo, in Prosatori latini del Quattrocento (1952: 965-967). Il
tema della malinconia in Ficino è ampiamente sviluppato in R. Klibansky, E.
Panofsky, F. Saxl ( 1983). Non viene però dato rilievo alla connessione fra la
malinconia e l’ombra. Il volto oscuro del personaggio che incarna la malinconia
174
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
nella incisione omonima di Dürer viene infatti ricollegato al sintomo della “facies
nigra” descritta dai trattati di medicina (pp. 272-273, ma cfr. anche E. Panofsky
1975: 289), e non al chiaroscuro che mette in ombra una parte del corpo, e che
palesemente trae ispirazione da queste pagine di Ficino. Si vedano anche il ritratto di
Michelangelo nella Scuola d´Atene di Raffaello, e la Malinconia di Domenico Feti,
entrambi con un accentuato chiaroscuro del volto e della persona. Si veda poi in Par.
IX 70-72 la connessione della “facies nigra” del malinconico con l’ombra del corpo
(intesa come immagine della persona): “Per letiziar là su fulgor s’acquista, / sì come
riso qui, ma giù s’abbuia / l’ombra di fuor, come la mente è trista”.
14
La connessione tra fisicità e temporalità è particolarmente esplicita in Purg. XVI
22-27: “Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?” / diss’io. Ed elli a me: “Tu vero
apprendi, / e d’iracundia van solvendo il nodo”. / “Or tu chi se’ che ‘l nostro fummo
fendi, / e di noi parli pur come se tue / partissi ancor lo tempo per calendi?”. In Purg.
III 26, invece, Virgilio parla del “corpo dentro al quale io facea ombra”, alludendo
alla connessione fra ombra, corpo ed esistenza terrena. Suggestivo è il commento a
questi versi di V. I. Stoichita (2000: 44): "In questo passo fondamentale l'autore fa
risaltare, con la chiarezza e lo spirito poetico che gli sono propri, che l'ombra
prodotta per proiezione è cosa legata alla vita: nella Divina Commedia solo Dante ne
'possiede' una, mentre gli altri, come Virgilio, ne sono 'fatti'". Un concetto analogo a
quello dantesco, ma con più chiara espressione della temporalità che l’ombra
contiene, si trova in Rerum vulgarium fragmenta, 268, 37-44: “l’invisibil sua forma
è in paradiso, / disciolta di quel velo / che qui fece ombra al fior degli anni suoi, / per
riverstirsen poi / un’altra volta, et mai più non spogliarsi, / quando alma et bella farsi
/ tanto più la vedrem, quanto più vale / sempiterna bellezza che mortale”.
15
In quanto forma visibile del corpo l'ombra è quindi funzione della visibilità degli
oggetti e ne esprime il valore epifanico. Tale valore è enunciato in modo analitico in
Purg. XXV 100-101: "Però che quindi ha poscia sua paruta, / è chiamata ombra", e
in modo appassionato in Deh, Violetta, 1-2: "Deh, Vïoletta, che in ombra d' amore /
ne gli occhi miei sì subito apparisti".
16
Cioè nel sonetto Amore e il cuor gentil son una cosa e in Conv. IV xx 7).
17
(Conv. III vii 6): "E però che ne l'ordine intellettuale dell'universo si sale e
discende per gradi quasi continui da la infima forma a l'altissima [e da l'altissima] a
la infima, sì come vedemo ne l'ordine sensibile; e tra l'angelica natura, che è cosa
intellettuale, e l'anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l'uno a l'altro
continuo per li ordini de li gradi, e tra l'anima umana e l'anima più perfetta de li bruti
animali ancor mezzo alcuno non sia; e noi veggiamo molti uomini tanto vili e di sì
bassa condizione, che quasi non pare essere altro che bestia: e così è da porre e da
credere fermamente che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione che quasi non
sia altro che angelo. Altrimenti non si continuerebbe l'umana spezie da ogni parte,
che essere non può". La fonte principale di Dante è un passaggio della Summa
175
Tenzone nº 5
2004
contra gentiles (II, 68) di Tommaso d'Aquino (citata sia da Busnelli-Vandelli che da
Vasoli) in cui l'anima razionale risulta essere la zona di confine, o l'orizzonte, fra
l'ordine corporeo e quello incorporeo: "Et inde este quod anima intellectualis dicitur
esse quasi quidam horizon et confinium corporeorum et incorporeorum, in quantum
est substantia incorporea, corporis tamen forma".
18
(Conv. III ii 11-14): "Lo Filosofo, nel secondo de l'Anima, partendo le potenze di
quella, dice che l'anima principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e
ragionare: e dice anche muovere; ma questa si può col sentire fare una, però che ogni
anima che sente, o con tutti i sensi o con alcuno solo, si muove; sì che muovere è
una potenza congiunta col sentire. E secondo che esso dice, manifestissimo che
queste potenze sono intra sé per modo che l'una è fondamento dell'altra; e quella che
è fondamento puote per sé essere partita, ma l'altra, che si fonda sopra essa, non può
da quella essere partita. Onde la potenza vegetativa, per la quale si vive, è
fondamento sopra 'l quale si sente, cioè vede, ode, gusta, odora e tocca; e questa
vegetativa potenza per sé puote essere anima, sí come vedemo nelle piante tutte. La
sensitiva sanza quella essere non puote, [e] non si truova [in] alcuna cosa che non
viva; e questa sensitiva potenza è fondamento della intellettiva, cioè della ragione: e
però nelle cose animate mortali la ragionativa potenza sanza la sensitiva non si
truova, ma la sensitiva si truova sanza questa, sì come nelle bestie, nelli uccelli, ne'
pesci e in ogni animale bruto vedemo. E quella anima che tutte queste potenze
comprende, [ed] è perfettissima di tutte l'altre, è l'anima umana, la quale colla
nobilitade della potenza ultima, cioè ragione, participa della divina natura a guisa di
sempiterna Intelligenza: però che l'anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata
e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è
l'uomo divino animale dalli filosofi chiamato".
19
_ B. Nardi, in polemica con Busnelli e Vandelli, ha insistito sul fatto che Dante
segue Alberto Magno e non Tommaso su un punto di tale processo generativo (se le
anime vegetativa e sensitiva si corrompano o no nel momento di essere assunte
dall'anima razionale). Si tratta però di differenze concettuali relativamente marginali,
rispetto all'assioma che entrambi, e poi Dante, considerano essenziale, e cioè che
l'anima intellettiva "... ciò che trova attivo quivi, tira / in una sustanzia, e fassi
un'alma sola" (e si veda anche Purg. IV 1-12: "Quando per dilettanze o ver per
doglie, / che alcuna virtù nostra comprenda, / l'anima bene ad essa si raccoglie, / par
ch'a nulla potenza più intenda; / e questo è contra quello error che crede /
ch'un'anima sovr'altra in noi s'accenda. / E però, quando s'ode cosa o vede / che
tegna forte a sé l'anima volta, / vassene 'l tempo e l'uom non se n'avvede; ch'altra
potenza è quella che l'ascolta, / e altra è quella c'ha l'anima intera: / questa è quasi
legata e quella sciolta", che riprende l'argomento di Tommaso in S. Th. I q.76 a.3:
"una operatio animae, cum fuerit intensa, impedit aliam. Quod nullo modo
contingeret, nisi principium actionum esset per essentiam unum"). È opportuno tener
presente che su tale punto Cartesio è senz'altro sintonizzato sulla posizione
176
Raffaele PINTO
Fingo ergo sum Elementi di teoria poetica della ...
aristotelico-tomista, e fermamente contrario alla teoria platonico-agostiniana della
pluralità delle forme, cioè di principi differenti coesistenti nell'anima umana: "il n'y a
en nous qu'une seule âme, et cette âme n'a en soi aucune diversité de parties: la
même âme est sensitive et raisonnable" (Les passions de l´âme, 47, AT, XI, p. 364).
20
Nello sviluppo dell'embrione, questo prima vive come una pianta, "Anima fatta ...
/ qual d'una pianta" - vv. 52-53, poi come "spungo marino" -v. 57, poi come animal
che finalmente diviene fante -v. 61.
21
"Sì come dice lo Filosofo nel secondo de l'Anima, le potenze de l'anima stanno
sopra sé come la figura de lo quadrangulo sta sopra lo triangulo, e lo pentangulo,
cioè la figura che ha cinque canti, sta sopra lo quadrangulo: e così la sensitiva sta
sopra la vegetativa, e la intellettiva sta sopra la sensitiva. Dunque, come levando
l'ultimo canto del pentangulo rimane quadrangulo e non più pentangulo, così
levando l'ultima potenza de l'anima, cioè la ragione, non rimane più uomo, ma cosa
con anima sensitiva solamente, cioè animale bruto". Nel paragrafo xi dello stesso
capitolo la scala biologica della natura viene descritta in questo modo: "Sì come dice
Aristotile nel secondo de l'Anima, 'vivere è l'essere de li viventi'; e per ciò che vivere
è per molti modi (sì come ne le piante vegetare, ne li animali vegetare e sentire e
muovere, ne li uomini vegetare, sentire muovere e ragionare, o vero intelligere), e le
cose si deono chiamare da la più nobile parte, manifesto è che vivere ne li animali è
sentire -animali, dico, bruti-, vivere ne li uomini è ragione usare".
22
Cfr. Poscia ch´amor 55-57: "... 'n donne è sì dispento / leggiadro portamento / che
paiono animai sanza intelletto".
23
(Conv.. III iii 6 y 9-11): "Per la natura del semplice corpo, che ne lo subietto
signoreggia, naturalmente ama l'andare in giuso; e però quando in su muove lo suo
corpo, più s'affatica. Per la natura seconda, del corpo misto, ama lo luogo de la sua
generazione, e ancora lo tempo; e però ciascuno naturalmente è di più virtuoso corpo
ne lo luogo dove è generato e nel tempo de la sua generazione che in altro... E per la
natura terza, cioè delle piante, ha l'uomo amore a certo cibo (non in quanto è
sensibile, ma in quanto è notribile), e quello cotale cibo fa l'opera di questa natura
perfettissima, e l'altro non così, ma falla imperfetta. E però vedemo certo cibo fare li
uomini formosi e membruti e bene vivacemente colorati, e certi fare lo contrario di
questo. E per la natura quarta, delli animali, cioè sensitiva, hae l'uomo altro amore,
per lo quale ama secondo la sensibile apparenza, sì come bestia; e questo amore
nell'uomo massimamente ha mestiere di rettore per la sua soperchievole operazione,
nello diletto massimamente del gusto e del tatto. E per la quinta e ultima natura, cioè
vera umana o, meglio dicendo, angelica, cioè razionale, ha l'uomo amore alla
veritade e alla vertude; e da questo amore nasce la vera e perfetta amistà, dell'onesto
tratta, della quale parla lo Filosofo nell'ottavo dell'Etica, quando tratta dell'amistade".
24
Si veda sullo stesso tema Monarchia I iii 5-7: "Dico quod nulla vis a pluribus
spetie diversis participata ultimum est de potentia alicuius illorum; quia, cum illud
177
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quod est ultimum tale sit constitutivum spetiei, sequeretur quod una essentia pluribus
spetiei esset specificata: quod est inpossibile. Non est ergo vis ultima in homine
ipsum esse simpliciter sumptum, quia etiam sic sumptum ab elementis participatur;
nec esse complexionatum, quia hoc reperitur in mineralibus; nec esse animatum,
quia sic etiam in plantis; nec esse apprehensivum, quia sic etiam participatur a
brutis; sed esse apprehensivum per intellectum possibilem: quod quidem esse nulli
ab homine alli competit vel supra vel infra... Patet igitur quod ultimum de potentia
ipsius humanitatis est potentia sive virtus intellectiva". La naturale tendenza
dell'anima umana a proiettare il desiderio verso l'alto (le ricadute verso il basso sono
innaturali, poiché contraddicono la natura umana, che, come si è appena visto, è
essenzialmente razionale) è chiaramente esposta in Purg. XVIII 28-33: "Poi, come 'l
foco movesi in altura / per la sua forma ch'è nata a salire / là dove più in sua matera
dura, / così l'animo preso entra in disire, / ch'è moto spiritale, e mai non posa / fin
che la cosa amata il fa gioire". Si osservi qui la similitudine del fuoco, che da una
parte sembra preannunciare il paesaggio morale del XXVI del Purgatorio, dall'altro
rinvia alla similitudine guinizzelliana di Al cor gentil 21-24 (che vuole appunto
significare la naturale tendenza a spiritualizzarsi dell'amore, nei cuori nobili): "Amor
per tal ragion sta 'n cor gentile / per qual lo foco in cima del doplero: / splendeli al
su' diletto clar sottile; / no li stari' altra guisa, tant'è fero".
25
L'androcentrismo tradizionale viene enunciato da Dante in De Vulgari Eloquentia
I iv 3: "Quanquam mulier in scriptis prius inveniatur locuta, rationabilius tamen est
ut hominem prius locutum fuisse credamus, et inconvenienter putatur tam egregium
humani generis actum non prius a viro quam a femina profluxisse".
26
Cfr., per questi rilievi intertestuali, G. Folena (1977: 488 e 497).
27
Si veda per esempio questo passaggio del Convivio concettualmente molto vicino
a quelli appena considerati (II vii 2): "è da sapere che le cose deono essere
denominate dall'ultima nobilitade della loro forma: sí come l'uomo dalla ragione, e
non dal senso né d'altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l'uomo vivere, si
dee intendere l'uomo usare la ragione, che è sua speziale vita ed atto della sua piú
nobile parte. E però chi dalla ragione si parte e usa pure la parte sensitiva, non vive
uomo ma vive bestia: sí come dice quello eccellentissimo Boezio: "Asino vive".
Dirittamente, dico, però che lo pensiero è propio atto della ragione, per che le bestie
non pensano, ché non l'hanno; e non dico pur delle minori bestie, ma di quelle che
hanno apparenza umana e spirito di pecora o d'altra bestia abominevole".
28
L'orgoglio con cui i due poeti intervistati da Dante pronunciano il loro nome, "son
Guido Guinizzelli" (92), “Ieu sui Arnaut” (142) drammatizza il principio di
individuazione cui la poesia del desiderio tende, e quindi l'"essere per la poesia" del
soggetto personale moderno. Il nome dell'autore, che "di necessità qui si registra"
(Purg. XXX 63), prima parola pronunciata da Beatrice dopo l'incontro con Dante,
rivela appunto il primo dei valori redentivi del personaggio, che consiste nel
178
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riscattare dall'ombra del corpo la singolarità individuale del poeta proiettando essa
ombra nella dimensione metafisica dell'essere.
29
Dà il giusto rilievo a questo elemento G. Contini: "Il superamento [di Dante nei
confronti di Guinizzelli] è tutto enunciato nel fatto che una donna superna è bandita
salute di Dante entro il girone stesso dei lussuriosi ('donna è di sopra che m'acquista
grazia'), e l'empireo (cielo 'ch'è pien d'amore') è augurato imminente albergo"
(Contini 1970: 357).
30
Il carattere di rivelazione che sul piano critico ha per Guinizzelli l'informazione
relativa a Beatrice lo cogliamo dalla sua reazione (vv. 106-107): "Tu lasci tal
vestigio, / per quel ch' io odo...", che ricalca quella di Bonagiunta alle parole di
Dante in Purg. XXIV (v. 57): "...di qua dal dolce stil novo ch´i´ odo".
31
La stretta relazione esistente fra l'accesso della donna alla cultura scritta e la nuova
dignità metafisica del corpo nella teologia della scolastica è stata ampiamente
illustrata da C. Walker Bynum (cfr. 1987 e 1994).
32
Credo che il tormentato verso 146 "que vos guida al som de l'escalina" risulti
meno problematico se si legge il soggetto della frase, "aquella valor", come allusione
a Beatrice, cioè alla donna che "di sopra" cioè dall'alto, acquista a Dante la grazia
necessaria perché possa ascendere al cielo. La cima della scala ("el som de
l'escalina") è il nuovo rango che la donna ha acquistato, rango di cui il trovatore ora
intende finalmente il significato metafisico e religioso (quello sessuale e profano gli
era ovviamente già chiaro). D'accordo con le equilibrate considerazioni di M.
Sansone (Varia ermeneutica di Purgatorio XXVI, in "Medioevo Romanzo", XIII,
1988, 1, pp.55-74) tenderei quindi a leggere il verso secondo la vulgata.
33
Un senso prossimo a quello di 'melodia' è deducibile da De Vulgari II xiii 4: "Et
primo sciendum est quod in hoc [cioè nella disposizione delle rime nella stanza]
amplissimam sibi licentiam fere omnes assumunt, et ex hoc maxime totius armonie
dulcedo intenditur").
34
Illustra bene l'azione che la dolcezza del suono esercita sulla interiorità
dell'ascoltatore la descrizione della musica in Conv. II xiii 23-24: "queste due
propietadi sono nella Musica: la quale è tutta relativa, sì come si vede nelle parole
armonizzate e nelli canti, de' quali tanto più dolce armonia resulta quanto più la
relazione è bella: la quale in essa scienza massimamente è bella, perché
massimamente in essa s'intende. Ancora: la Musica trae a sé li spiriti umani, che
quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione:
sì e l'anima intera, quando l'ode, e la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile
che riceve lo suono.
35
Si consideri anche in Monarchia, I xvi 5 il nesso fra la "dolcezza della divina
persuasione" e l'affetto umano: "O genus humanum... Intellectu egrotas utroque,
similiter et affectu: rationibus irrefragabilibus intellectum superiorem non curas, nec
179
Tenzone nº 5
2004
experientie vultu inferiorem, sed nec affectum dulcedine divine suasionis; e in
Epistole V 13 la funzione sirenicamente seduttrice (quindi perversamente suasiva)
della dulcedo: "Nec seducat alludens cupiditas, more Sirenum nescio qua dulcedine
vigiliam rationis mortificans"; e in Egloge II 18-21 la contestualità della dolcezza del
canto alla interiorità del sentimento: "Mopsus in his, dum lenta boves per gramina
ludunt, / contemplatur ovans hominum superumque labores; / inde per inflatos
calamos interna recludit / gaudia, sic ut dulce melos armenta sequantur".
36
Poiché "è nobilitade dovunque è virtude" (Conv. IV xix 5). Si consideri, inoltre,
che il manto del verso 13 tornerà, come metafora della "poca nostra nobiltà di
sangue", in Par. XVI 7: "Ben se' tu manto che tosto raccorce".
37
Si veda anche Conv. IV xx 7: "se l'anima è imperfettamente posta, non è disposta
a ricevere questa benedetta e divina infusione: sì come una pietra margarita è male
disposta, o vero imperfetta, la vertù celestiale ricever non può, sì come disse quel
nobile Guido Guinizzelli in una sua canzone, che comincia: Al cor gentile ripara
sempre Amore".
38
Qui la vesta, come nella canzone e nella Commedia, il manto afferiscono sempre
al lato esterno (o lleggiadria) di una virtù interna (o gentilezza) che Guinizzelli è
stato, secondo Dante, il primo a definire e valorizzare.
39
Sui motivi e sul significato della presenza di Arnaut in questo canto sono
particolarmente pertinenti le osservazioni di M. Perugi sull' Aura amara (nella
canzone di Arnaut "l'archetipo ... dell'allegoria della selva infernale ... si coniuga a
una trattazione dell'amore che la violenza tematica e lessicale, e l'esasperato e
abrupto monosillabismo, cospirano a qualificare come outrée, la più risentita e la più
emblematica dell'intero canzoniere. Sulla base di questa importantissima e
diffusissima canzone Arnaut diventa quasi automaticamente per Dante il poeta
dell'aura proprio amara, della squallida e irta selva invernale (e infernale), squassata
dai fremiti tempestosi di una immoderata passione amorosa") (Perugi 1978: 96-97).
In particolare il ricordo della terza strofa (ed. Riquer) appare in Purg. XXVI da molti
indizi verbali: "Amors, guara! / Suy be vengutz? / Qu'auzir / tem far, si·m
dezacuelhs, / tals detz / pecx / que t'es mielhs que·t trencx; / qu'ieu suy fis druts, /
cars / e non vars, / ma·l cors ferms fortz / me fai cobrir mans vers, / qu'ab tot lo ney /
m'agr'obs us bays al caut / cor refrezir, / que no·y val autra goma".
40
Sul tema rinvio al mio La donna come alterità linguistica, in La rappresentazione
dell´altro nei testi del Rinascimento, a cura di S. Zatti, Pacini Fazzi, Lucca, 1998.
41
Il senso del passo è chiarissimo: “il passaggio dalla poesia amorosa in lingua
grammaticale alla poesia amorosa in lingua volgare si dà solamente tra noi, cioè
unicamente in quello spazio culturale che ha il latino come lingua di cultura, e non
presso altri (come i greci), che forse continuano ad usare, oggi, per la poesia
d'amore, la lingua grammaticale”. L'acutezza ermeneutica di questa osservazione è
enorme, poiché con essa Dante pone la questione del relativismo non solo storico ma
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anche geografico (o geolinguistico) della poesia in lingua materna e della modernità
culturale che in essa si esprime. In altre parole, la modernità è concetto relativo allo
spazio non meno che al tempo, poiché si tratta di una civiltà, basata sul desiderio e
sull'uso letterario delle lingue naturali, che si è affermata esclusivamente
nell'occidente europeo (nella cartografia geolinguistica del De Vulgari Eloquentia –
I, viii- questo spazio corrisponderebbe al nord anglo-germanico-slavo ed al sud
romanzo; si osservi che la frontiera della civiltà moderna coincide con i confini
linguistico-religiosi: il latino è lingua di culto e di cultura per i cristiani della chiesa
romana). Sui problemi di lettura che pone questo passo, si veda M. Tavoni 1984: 952.
42
La diversa indicazione del De Vulgarii, che in II ii 7 ripropone come temi dello
stile elevato i tradizionali "tria magnalia" (cioè salus, o "armorum probitas", venus, o
"amoris accensio", e virtus, o "directio voluntatis" -ma il primo viene subito
relativizzato perché "arma vero nullum latium adhuc invenio poetasse") rappresenta
un momentaneo arretramento della riflessione del poeta su posizioni convenzionali
(antiche, appunto) che è funzionale al generale ripiegamento diglossico della sua
teoria linguistica nel trattato latino, che implica il parallelo ridimensionamento del
rango culturale della donna (cfr. I iv 3, già citato) e del primato della lingua propria
materna (cfr., per esempio, I vi 2: "Quicunque tam obscene rationis est ut locum sue
nationis delitiosissimum credat esse sub sole, hic etiam pre cunctis proprium vulgare
licetur, idest maternam locutionem"). Il primato del femminile (inteso come
moderna soggettività che ha il suo nucleo morale negli affetti della esistenza
individuale) e del volgare proprio (inteso come unico sistema espressivo della
comunità nazionale, per quanto diversi siano i registri che coesistono al suo interno)
è il filo principale della riflessione dantesca, che si sviluppa in modo coerente dalla
Vita Nuova, al Convivio, alla Commedia, ed ha il suo logico punto d'arrivo in Par.
XXVI 124-138, in cui viene sancita, per la naturalità del "parlar materno", la
irrilevanza ontologica, e quindi la parità funzionale, di tutti i codici linguistici.
Questi ultimi, quindi, per la loro radicale storicità, tollerano senza alcun problema
ogni tipo di modificazione interna (cioè ogni differenza diastratica e diatopica) e la
coesistenza con altri codici (o plurilinguismo). Proprio il canto che analizziamo, in
effetti, è una dimostrazione fattuale di pluralità di codici (se si vuole, di lingue),
perfettamente coordinati all'interno di un unico sistema espressivo: la Commedia non
è meno italiana, per il fatto che una parte del suo testo sia scritta in provenzale. Si
veda, al confronto, l'intransigenza diatopica di De Vulgarii I xv 7: "dicimus
Tridentum atque Taurinum nec non Alexandriam civitates metis Ytalie in tantum
sedere propinquas quod puras nequeunt habere loquelas; ita quod si etiam quod
turpissimum habent vulgare, haberent pulcerrimum, propter aliorum commixtionem
esse vere latium negaremus". Anche la scelta di Arnaut Daniel, rispetto a Guiraut de
Bornelh, in quanto rappresentante di prestigio del mondo provenzale, in Purg.
XXVI, è funzionale ad un paradigma poetico centrato sulla lingua materna e sul
desiderio sessuale. Guiraut de Bornelh può aspirare a tale ruolo solo nel paradigma
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descritto dal De Vulgari, centrato sul distacco diglossico dalla lingua materna e sulla
rectitudo come valore letterario politicamente prioritario. Da tale priorità dipende
anche l'autocomprensione poetica di Dante nel De Vulgari, che privilegiando la
linea morale della sua lirica presenta se stesso come poeta della rectitudo (II ii 9).
Nel paradigma stilnovista della Commedia, invece, Dante si presenta come fedele
notaio del dettato di Amore (Purg. XXIV).
43
Leggo senz'altro più persone come allusione ai miei miglior (fra i quali sono
inclusi ovviamente anche Guinizzelli e Dante). Bisogna però postulare anche qui la
presenza logica di lettori capaci di distinguere la poesia autentica da quella solo
apparente.
44
Con la clamorosa eccezione del De Vulgari Eloquentia, che su questo punto
(come su molti altri) ha una posizione fortemente eccentrica rispetto alla linea di
sviluppo principale della riflessione di Dante: la polarità vero / falso, infatti, è del
tutto assente nel trattato.
45
Osservando la sostanziale continuità della nozione dantesca di verità dalla Vita
Nuova alla Commedia, G. Contini in Un esempio di poesia dantesca (1970: 484)
parla del "valore euristico rispetto alla conoscenza" di Amore.
46
È interessante osservare la tendenza dei commentatori trecenteschi a ricondurre la
poetica dello stil novo alla cultura classica (con la nobile finalità di sottrarla ad una
lettura di tipo religioso e moraleggiante). Benvenuto da Imola (Purg. XXIV 34-69):
"io mi son un che, quando Amore spira, idest, inspirat mihi; et non intelligas de
amore divinae gratiae, sicut quidam falso exposuerunt, immo de amore lascivo; noto,
scilicet, in mente, e vo significando, extra per versus amoris, a quel modo che detta
dentro, scilicet, secundum quod ipse amor inflammat me; sicut olim Apollo
dicebatur intrare pectora poetarum, et dictare materiam describendam. Francesco da
Buti (Purg. XXIV 40-54): e questo dice, secondo che il Filosofo dice; ciò: Voces
sunt earum, quae sunt in anima, passionum notae"; e (Purg. XXIV 55-63): "Di dietro
al dittator sen vanno strette; cioè seguitano strettamente i movimenti naturali de la
mente dentro, come dice Orazio ne la sua Poetria: "Format enim natura prius nos
intus ad omnem Fortunarum habitum, iuvat aut impellit ad iram, Aut ad humum
maerore gravi deducit et angit: Post effert animi motus, interprete lingua". Manca
però, alla cultura antica, la nozione essenzialmente moderna di soggetto personale.
47
Si osservino anche l'avvio 'stilnovista' del canto: "Per che mia donna 'Manda fuor
la vampa / del tuo disio' mi disse, 'sí ch'ella esca / segnata bene de la interna stampa",
e poi la ripresa delle modalità affettive legate all'aggettivo caro: 13, O cara pianta
mia che sí t'insusi; 55-56, "Tu lascerai ogni cosa diletta / più caramente"; 110, "sí
che se loco m'è tolto più caro".
48
R. Descartes, Passions de l´âme, art. 53 (in Renault 2003: 257).
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La novità come elemento propulsivo del desiderio, e quindi come elemento
naturalmente necessario al movimento dell'anima, è ben descritta, sul piano erotico,
in Cavalcando l´altr´ier (10-12): "e disse: 'Io vegno di lontana parte, / ov'era lo tuo
cor per mio volere, / e recolo a servir novo piacere'", e in Io sento sì d´amor la gran
possanza (71-74): "Io non la vidi tante volte ancora / ch'io non trovasse in lei nova
bellezza; / onde Amor cresce in me la sua grandezza / tanto quanto il piacer novo
s'aggiugne" (che coincide con Guido Cavalcanti, Veggio negli occhi 1-4: "Veggio
negli occhi della donna mia / un lume pien di spirti d'amore / che porta uno piacer
novo nel core / sì che vi desta d'allegrezza vita"). Relativamente al desiderio della
scienza, la novità è stimolo del desiderio in Conv. IV xiii 1-2: "lo desiderio de la
scienza non è sempre uno ma è molti, e finito l'uno, viene l'altro; sì che,
propriamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola
cosa in grande cosa. Che se io desiderio di sapere li principii de le cose naturali,
incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io
desidero di sapere che cosa e com'è ciascuno di questi principii, questo è un altro
desiderio nuovo, né per l'avvenimento di questo non mi si toglie la perfezione a la
quale mi condusse l'altro; e questo cotale dilatare non è cagione d'imperfezione, ma
di perfezione maggiore"; tale movimento progressivo del sapere, stimolato dalla
novità del desiderio, è esemplificato in Purg. XVIII 1-6: "Posto avea fine al suo
ragionamento / l'alto dottore, e attento guardava / ne la mia vista s'io parea contento;
/ e io, cui nova sete ancor frugava, / di fuor tacea, e dentro dicea: "Forse / lo troppo
dimandar ch'io fo li grava". Sul piano del linguaggio e della sua ontologia la novità
(del piacere) è il motore del mutamento in Par. XXVI 127-129: "ché nullo effetto
mai razïonabile / per lo piacere uman che rinovella / seguendo il cielo sempre fu
durabile" (relativamente a quest'ultimo passaggio, si consideri che la novità come
lato oggettivo del piacere che dipende "dal cielo", cioè dalle variabili influenze
astrali, è già perfettamente concettualizzata in I´ mi son pargoletta 11-14: "Ciascuna
stella ne li occhi mi piove / del lume suo e de la sua vertute; / le mie bellezze sono al
mondo nove, / pero che di là su mi son venute"".
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