Premessa
Questa nuova edizione del manuale di penale, parte speciale, viene data alle stampe a seguito dell’ampio intervento di depenalizzazione realizzato con i decreti legislativi nn. 7 e 8 di
attuazione della legge delega 67/2014.
Il volume, che prende in esame tutte le fattispecie di reato di fonte codicistica, è strutturato
in tre parti: la prima relativa ai delitti, la seconda alle contravvenzioni e la terza alle principali figure di reati di fonte legislativa. Per ciascuna fattispecie viene trattato l’interesse tutelato, l’elemento oggettivo e soggettivo, la pena e gli istituti processuali; la disamina tiene
conto dei più significativi orientamenti dottrinali e delle questioni maggiormente dibattute in
giurisprudenza.
Fra le novità disciplinari di cui si tiene conto nella presente edizione, si segnalano l’introduzione dell’inedito sistema delle sanzioni punitive di natura civile, in relazione ad individuate figure di reato espunte dal sistema penale, operata dal D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7,
l’ampia depenalizzazione di reati di fonte codicistica e legislativa, dovuta al D.Lgs. 15
gennaio 2016, n. 8, il «giro di vite» sanzionatorio concernente i delitti contro la pubblica
amministrazione per effetto della L. 27 maggio 2015, n. 69, la sostanziale riforma dei reati
ambientali, ad opera della L. 22 maggio 2015, n. 68.
Un dettagliato indice analitico-alfabetico chiude il volume, permettendo un rapido reperimento dell’argomento di interesse.
Edizioni Simone - Vol. 3/1 Diritto penale (Parte speciale)
Capitolo 2
I delitti contro la Pubblica Amministrazione
Sommario
Sezione Prima: Concetti generali e disposizioni comuni. - 1. Generalità sui reati contro la P.A. - le leggi di riforma.
In particolare: la legge anticorruzione 2015. - 2. Nozione di «pubblico ufficiale».
3. La duplice configurazione del requisito dell’abuso di ufficio nel codice penale.
4. Il concetto di «persona incaricata di un pubblico servizio». - 5. Il concetto di «persona esercente un servizio
di pubblica necessità». - 6. Pubblico ufficiale e persona incaricata di un pubblico servizio e la L. 29-9-2000, n. 300.
7. Rapporti tra qualifica e fatto. - 8. Cessazione della qualità (art. 360).
9. La pena accessoria dell’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro (art. 32quinquies).
Sezione Seconda: I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. - 1. Peculato (artt. 314 e 323bis).
2. L’abrogazione dell’art. 315 (malversazione a danno di privati) e le sue conseguenze.
3. Peculato mediante profitto dell’errore altrui (artt. 316 e 323bis). - 4. Malversazione a danno dello Stato
(artt. 316bis e 323bis). - 5. Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316ter).
6. Concussione (artt. 317 e 323bis). - 7. La corruzione in generale. - 8. Corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318).
9. Corruzione propria antecedente (artt. 319, 1° comma, 320, 321 e 323bis). - 10. Corruzione propria susseguente
(artt. 319, 320, 321 e 323bis). - 11. Corruzione in atti giudiziari (art. 319ter). - 12. Induzione indebita
a dare o promettere utilità (art. 319quater). - 13. Istigazione alla corruzione impropria (art. 322, 1° comma e 323bis).
14. Istigazione alla corruzione propria (artt. 322, 2° comma e 323bis). - 15. Peculato, concussione, induzione indebita a dare o
promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale
o degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art. 322bis).
16. Riparazione pecuniaria (art. 322quater). - 17. L’abuso d’ufficio (art. 323).
18. Utilizzazione di invenzioni o scoperte conosciute per ragioni d’ufficio (art. 325).
19. Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio (art. 326). - 20. Abrogazione dell’art. 327.
21. Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione (art. 328). - 22. Rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare
o da un agente della forza pubblica (art. 329). - 23. Abbandono collettivo di pubblici uffici, impieghi, servizi o lavori (art. 330).
24. Interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità (art. 331). - 25. Abrogazione dell’art. 332.
26. Abrogazione dell’art. 333. - 27. Sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro
disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa (art. 334).
28. Violazione colposa dei doveri inerenti alla custodia di cose sequestrate (art. 335).
Sezione Terza: I delitti dei privati contro la P.A. - 1. Profili generali.
2. La reazione legittima ad atti arbitrari del pubblico ufficiale, dopo il cd. Pacchetto sicurezza (art. 393bis).
3. Violenza o minaccia ad un pubblico ufficiale (artt. 336, 339). - 4. Resistenza ad un pubblico ufficiale (art. 337).
5. Occultamento, custodia o alterazione di mezzi di trasporto (art. 337bis). - 6. Violenza o minaccia ad un corpo politico,
amministrativo o giudiziario (art. 338). - 7. Circostanze aggravanti comuni ai tre reati precedenti (art. 339)
- in particolare: il concetto di «armi» per il codice penale (art. 585). - 8. Interruzione di un ufficio o servizio pubblico
o di un servizio di pubblica necessità (art. 340). - 9. La reintroduzione dell’oltraggio a pubblico ufficiale,
ex L. 94/2009 (cd. Pacchetto sicurezza). - 10. Oltraggio a un corpo politico, amministrativo o giudiziario (art. 342).
11. Oltraggio a un magistrato in udienza (art. 343). - 12. Abrogazione dell’art. 344.
13. Offesa all’autorità mediante danneggiamento di affissioni (art. 345). - 14. Millantato credito (art. 346).
15. Traffico di influenze illecite (art. 346bis). - 16. Usurpazione di funzioni pubbliche (art. 347).
17. Abusivo esercizio di una professione (art. 348). - 18. Violazione di sigilli (art. 349). - 19. Agevolazione colposa (art. 350).
20. Violazione della pubblica custodia di cose (art. 351). - 21. Vendita di stampati dei quali è stato ordinato
il sequestro (art. 352). - 22. Turbata libertà degli incanti (art. 353) e del procedimento di scelta del contraente (art. 353bis).
23. Astensione dagli incanti (art. 354). - 24. Inadempimento di contratti di pubbliche forniture (art. 355).
25. Frode nelle pubbliche forniture (art. 356).
Capitolo 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione
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Sezione Prima
Concetti generali e disposizioni comuni
1.Generalità sui reati contro la P.A. - le leggi di riforma. In particolare: La
legge anticorruzione 2015
Il titolo II del libro II del codice penale è dedicato all’esame dei delitti contro la pubblica
amministrazione. Esso prevede non solo i delitti che ledono l’attività amministrativa in
senso proprio, ma anche quelli che ledono l’attività legislativa e quella giudiziaria.
Il titolo in esame è diviso in tre capi:
Capo I – Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (artt. 314-335bis).
Capo II – Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione (artt. 336-356).
Capo III – Disposizioni comuni ai capi precedenti (artt. 357-360).
Il capo primo e gli artt. 357 e 358 del Capo III hanno subìto una notevole modifica per effetto della L. 26 aprile 1990, n. 86 che ha ridisegnato le varie figure dei reati commessi dai
pubblici ufficiali contro la P.A. procedendo, da un lato, ad attuare una riforma capace di
potenziare la risposta punitiva dello Stato di fronte alle condotte illecite poste in essere dai
soggetti rivestiti di funzioni pubbliche nell’esercizio di tali funzioni, dall’altro ad eliminare
ogni ingiustificato ed arbitrario sindacato del giudice penale sul merito delle scelte amministrative, specie se discrezionali (così LOMBARDI).
Sono così scomparsi reati che avevano dato origine a vivaci contrasti sia in dottrina che in
giurisprudenza: si pensi all’abuso «innominato» di ufficio (art. 323) o ancor più all’ipotesi
di peculato per distrazione (art. 314). Quest’ultima, in particolare, aveva creato i maggiori
problemi, perché rispetto ad una dottrina piuttosto «cauta» nel definire i confini della «distrazione», la giurisprudenza prevalente era attestata su un concetto rigoroso, che comprendeva tutti i casi in cui il pubblico danaro fosse stato destinato ad uno scopo differente da
quello voluto, ancorché pubblico.
Inoltre, è stata soppressa la dicotomia peculato-malversazione, che traeva origine dalla diversa titolarità del bene mobile (appartenente alla P.A., nel peculato; al privato, nella malversazione). In base alla nuova disciplina, in entrambi i casi si avrà peculato, mentre una
particolare ipotesi di malversazione (questa volta, ai danni dello Stato) è stata introdotta con
riferimento a contributi, sovvenzioni o finanziamenti che vengono «distratti» dalle finalità
per le quali sono erogati, ma il soggetto attivo può essere «chiunque». La concussione (inizialmente reato proprio del P.U.) è diventata reato anche per l’incaricato di un pubblico
servizio.
Sono state riformulate le norme incriminatrici dell’abuso (art. 323) e dell’omissione o ritardo di atti di ufficio (art. 328), dettandosi per tale ultima ipotesi un’articolata disciplina per
la concretizzazione del ritardo.
La legge 26-4-1990, n. 86 è stata ulteriormente precisata e migliorata dalla legge 7 febbraio 1992, n. 181. Infine, con la legge 16 luglio 1997, n. 234 il legislatore è ulteriormente intervenuto sulla materia, modificando
nuovamente il testo dell’art. 323, che, secondo una corrente di pensiero, era eccessivamente ambiguo e lasciava troppo spazio al sindacato del Potere Giudiziario, così intaccando in modo intollerabile il principio dell’autonomia ed indipendenza della Pubblica Amministrazione, in particolare quando esercita poteri discrezionali.
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Parte I: I delitti
Si segnala, infine, che tale «famiglia» di reati è stata oggetto di ulteriori correttivi ad opera della L. 6 novembre
2012, n. 190, con cui, fra l’altro, si sono ridisegnati i margini disciplinari dei delitti di corruzione, concussione
e delle relative disposizioni complementari (con le modalità di cui si dirà di seguito).
Da ultimo, ulteriori correttivi alla disciplina dei delitti in esame sono stati apportati dalla L.
27-5-2015, n. 69, recante «Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio», nota come «legge anticorruzione 2015», di cui si darà conto di seguito.
In estrema sintesi, la legge del 2015 si è mossa sulla base di quattro direttrici politico-criminali.
La prima è quella dell’inasprimento sanzionatorio. Viene operato, infatti, un incremento
delle sanzioni detentive per taluni dei più importanti delitti contro la pubblica amministrazione (come il peculato, l’induzione indebita a dare o promettere utilità), e fra di essi, in
particolare, per tutte le fattispecie di corruzione (propria, impropria ed in atti giudiziari).
Il secondo obiettivo politico criminale perseguito è individuabile nel favorire la resipiscenza, allo scopo di rendere più agevole, attraverso opportuni incentivi, il disvelamento investigativo dei fenomeni corruttivi. Tale obiettivo è stato attuato attraverso una estensione
della figura circostanziale attenuante di cui all’art. 323bis (in origine limitata ai fatti di
particolare tenuità). In particolare, un sostanziale decremento sanzionatorio (da un terzo a
due terzi della pena) viene promesso a chi si adoperi per evitare conseguenze ulteriori del
reato, per acquisirne le relative prove o far catturare i colpevoli, o per consentire la pubblica acquisizione di quanto maltolto con attività corruttive (attraverso il sequestro delle
relative somme o altre utilità trasferite).
Quale terzo obiettivo, il legislatore ha avuto di mira l’imposizione di condotte riparatoriorisarcitorie. In tale ottica, si è, in primis, disposta la riparazione pecuniaria in favore
dell’amministrazione di appartenenza del reo, connessa alla condanna per i principali delitti contro la pubblica amministrazione (attraverso il neointrodotto art. 322quater), oltre a
subordinarsi a condotte riparatorie anche i benefici della sospensione condizionale della
pena, nonché del patteggiamento.
Il legislatore ha, infine, attribuito rilevanza alla concussione degli incaricati di pubblico
servizio. In particolare, si è esteso ad essi il novero dei potenziali soggetti attivi del reato,
espressamente esclusi dalla riforma del 2012, per tal via ritornando all’opzione politicocriminale della riforma del ’90.
Quanto agli interessi tutelati, l’attività amministrativa trova un preciso referente di rango
costituzionale nell’art. 97, 1° comma, Cost. che per essa fissa i parametri del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione.
Buon andamento significa svolgimento corretto e regolare dell’attività amministrativa, da
intendersi come capacità di perseguire i fini che le vengono assegnati dalla legge.
Imparzialità significa che la P.A., nell’adempimento dei propri compiti, deve procedere ad
una comparazione esclusivamente oggettiva degli interessi contrapposti, senza operare arbitrarie discriminazioni.
La competenza penale per i reati di cui al Capo primo, in seguito alla legge istitutiva del Giudice unico in primo grado (D.Lgs. 19-2-1998, n. 51, modificato dalla L. 16-12-1999, n. 479),
spetta al Tribunale in composizione collegiale ad esclusione dei delitti indicati dagli artt. 329,
331 primo comma, 332, 334 e 335. Prima di passare all’esame delle singole figure, è neces-
Capitolo 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione
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sario premettere i concetti di pubblico ufficiale, incaricato di un pubblico servizio e persona
esercente un servizio di pubblica necessità, concetti fondamentali per l’esame dei vari reati.
2.Nozione di «pubblico ufficiale»
La nozione di pubblico ufficiale è sempre stata estremamente controversa in dottrina e giurisprudenza a causa della vaghezza delle definizioni normative contenute negli artt. 357,
358 c.p., nella loro originaria formulazione.
La nuova formulazione dettata dalla L. 86/90 e modificata dalla L. 181/92, dell’art. 357 ha
risolto i dubbi interpretativi che l’originaria formulazione aveva suscitato in dottrina specialmente per quanto riguardava l’esatta individuazione dei soggetti cui riconoscere la
qualifica. Così per il disposto dell’art. 357 c.p., come modificato: «Agli effetti della legge
penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa,
giudiziaria o amministrativa. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi, e caratterizzata dalla formazione
e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per
mezzo di poteri autoritativi o certificativi».
In base alla nuova formulazione dell’art. 357 c.p., la funzione amministrativa viene definita sulla base di parametri sia esterni che interni a tale pubblica funzione.
I parametri esterni consistono nella regolamentazione di essa da parte di norme di diritto pubblico e di atti
autoritativi. Gli elementi di riconoscimento interno consistono nello svolgimento di funzioni relative all’attività di formazione e manifestazione della volontà dell’amministrazione nell’esercizio di poteri autoritativi o
certificativi.
Secondo la giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 11-7-1992, n. 7958), nel concetto di poteri autoritativi rientrano
non solo quelli coercitivi, ma anche tutte quelle attività che sono comunque esplicazione di un potere pubblico
discrezionale nei confronti di un soggetto che si trova su un piano non paritetico rispetto all’autorità. Rientrano
nel concetto di poteri certificativi tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia
probatoria, quale che ne sia il grado.
Si deve precisare che entrambi i poteri cui fa riferimento la norma de qua riguardano non il Pubblico ufficiale
in quanto tale, ma la sua funzione, quale normale esplicazione della stessa.
Dalla definizione legislativa si deduce che l’elemento che caratterizza il pubblico ufficiale
è l’esercizio di una funzione pubblica. In ogni caso, poiché non sussiste una univoca definizione di pubblica funzione da parte della dottrina vi è di conseguenza molta incertezza
circa la precisa nozione di pubblico ufficiale.
Passiamo quindi ad esaminare dapprima le principali teorie dottrinarie al riguardo e poi la posizione della giurisprudenza. Così MAGGIORE, partendo dalla definizione di pubblica funzione come ogni attività che realizza dei fini propri dello Stato, anche se esercitata da persone estranee alla pubblica amministrazione, definisce
il pubblico ufficiale come «la persona fisica in qualsiasi modo chiamata a volere e ad agire nell’interesse
dello Stato o di una pubblica amministrazione».
ANTOLISEI si limita ad indicare solo alcuni criteri di massima che possano servire da orientamento nell’applicazione della legge allo scopo di ridurre i dubbi che si presentano.
Pertanto, la qualifica di P.U. va attribuita:
1. ai soggetti che concorrono a formare o formano la volontà dell’ente pubblico ovvero lo rappresentano
all’esterno;
2. a tutti coloro che sono muniti di poteri autoritativi;
3. a tutti coloro che sono muniti di poteri di certificazione.
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Parte I: I delitti
La tesi di ANTOLISEI è sostanzialmente accolta anche da PAGLIARO, il quale, nel precisare che è l’esercizio
della funzione l’unico elemento certo per l’individuazione del pubblico funzionario, riconosce che poi, in concreto, è necessario ricorrere ai criteri di identificazione individuati da ANTOLISEI per accertare se ad un soggetto possa o meno riconoscersi tale qualifica.
Secondo GUARINO è pubblico ufficiale il soggetto al quale sono riferibili gli atti di esercizio della pubblica
funzione. Dunque, la qualità di pubblico ufficiale si acquista in virtù del collegamento con la pubblica funzione,
collegamento che può avvenire permanentemente, quando il soggetto appartenga ad un organo o ufficio istituzionalmente competente ad esercitare pubbliche funzioni o temporaneamente, quando il soggetto, pur al di
fuori di un rapporto organico, eserciti a qualsiasi titolo una pubblica funzione.
La giurisprudenza si limita ad indicare i criteri di massima cui attenersi per riconoscere o meno tale qualifica in
un determinato soggetto o, più spesso, risolve caso per caso, con riferimento alla singola fattispecie concreta, il
problema.
Anche chi è chiamato a svolgere un’attività di carattere accessorio o sussidiario, ai fini istituzionali dell’ente
pubblico si può considerare pubblico ufficiale poiché costui partecipa sia pure in misura ridotta alla formazione
della volontà dell’ente (Cass. 13-5-1998, n. 5575). Si precisa poi che per qualificare un’attività come pubblica
si deve verificare se essa sia o no disciplinata da norme di diritto pubblico, prescindendosi dalla connotazione
soggettiva dell’agente. La pubblica funzione inoltre si distingue dal pubblico servizio per la presenza dei poteri tipici della potestà amministrativa ex art. 357 co. 2 (Sez. Un. 24-9-1998, n. 10086).
Le Sezioni Unite della Cassazione (11-7-1992) hanno precisato che è pubblico ufficiale il pubblico dipendente
o il privato che, nell’ambito dei poteri di diritto pubblico, può e deve formare e manifestare la volontà della
pubblica amministrazione, anche senza investiture formali, ovvero eserciti poteri autoritativi, deliberativi o
certificativi, considerati distintamente.
Ai fini della nozione di pubblico ufficiale, non rileva il rapporto di dipendenza del soggetto rispetto allo Stato o
ad altro ente pubblico, ma è richiesto soltanto l’esercizio effettivo di una pubblica funzione (Cass. 5-3-97, n. 2036).
La giurisprudenza prevalente e la migliore dottrina infine (cfr. MANZINI, PANNAIN) sono concordi nel ritenere che deve considerarsi pubblico ufficiale anche il cd. funzionario di fatto, cioè il soggetto che effettivamente eserciti una pubblica funzione pur senza una formale o regolare (perché affetta da annullabilità o nullità
non ancora riconosciuta e dichiarata dalla competente autorità) investitura, con la tolleranza o acquiescenza
della P.A. (Cass. 10 luglio 1990, n. 1189; Cass. 16 gennaio 1991, n. 406 e Cass. 17-6-1995, n. 6980).
Precisa PANNAIN che per aversi esercizio di fatto di una pubblica funzione valido e produttivo di effetti giuridici, occorre che non vi sia usurpazione o comunque autorizzazione «contra legem» della funzione.
Dalla riforma sembra emergere che l’intento del legislatore del 1990 sia stato quello di
garantire che l’attività amministrativa si eserciti conformemente ai principi costituzionali
di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. Da ciò ne deriva che una specifica
attività possa essere ricondotta ai concetti di cui all’art. 357 e 358 c.p. soltanto se sottoposta
ad una disciplina che ne imponga il suo funzionamento in ossequio al principio di imparzialità, inteso come divieto di porre favoritismi o discrimiazioni e come obbligo di fornire
prestazioni socialmente rilevanti a chiunque ne abbia titolo e alle stesse condizioni (GAROFOLI, CARINGELLA). Quanto al principio di buon andamento, invece, deve lo stesso
interpretarsi in termini di doverosità o necessarietà dell’azione amministrativa destinata al
perseguimento delle finalità ad essa istituzionalmente assegnate.
3.La duplice configurazione del requisito dell’abuso di ufficio nel codice penale
Il requisito dell’«abuso di ufficio» ha assunto, nel codice del 1930, una duplice configurazione, essendo stato riferito o alla soggettività dell’ufficio (abuso della qualità) o alla oggettività
di esso (abuso dei poteri). In linea generale l’abuso, in quanto tale, si sostanzia in un cattivo
uso della qualità o dei poteri inerenti all’ufficio; in particolare, l’abuso soggettivo, e cioè
l’abuso delle qualità, può assumere, come osserva INFANTINI, vari aspetti, tutti caratteriz-
Capitolo 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione
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zati da un elemento comune, e cioè «la prospettazione (implicita) al soggetto passivo da
parte del pubblico ufficiale della possibile (o probabile) estrinsecazione dei poteri inerenti al
proprio ufficio». Esso normalmente si sostanzia nel fatto di manifestare, senza alcuna ragione o necessità di sorta, la propria qualità di P.U. alla vittima; l’abuso oggettivo, e cioè l’abuso dei poteri, può anch’esso assumere varie configurazioni concrete ed anch’esso si sostanzia,
in ultima analisi, in una prospettazione da parte del P.U. del possibile esercizio dei suoi poteri: senonché, a differenza dell’abuso delle qualità, l’abuso oggettivo si sostanzia nella prospettazione dell’esercizio del potere in modo sfavorevole per il destinatario dell’atto.
Elemento comune ad entrambe le figure di abuso è, poi, la strumentalizzazione, e cioè l’avvalersi della qualità o della funzione per una data finalità illecita. L’abuso, sottolinea INFANTINI, rileva in tutte le figure dei delitti commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, in quanto, anche se non espressamente previsto (es. artt. 318-319),
costituisce pur sempre la «ratio» della previsione legislativa di tali reati.
4.Il concetto di «persona incaricata di un pubblico servizio»
A) La nozione legislativa (art. 358)
Per l’art. 358: «Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio.
Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con
esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera
meramente materiale».
A seguito della riforma è prevalsa una concezione oggettiva, in base alla quale è incaricato di pubblico servizio
chiunque presti, a qualunque titolo, un pubblico servizio.
B) La posizione della dottrina e della giurisprudenza
La definizione dell’incaricato di un pubblico servizio ha creato, in dottrina, diversità di opinioni e di teorie che
passiamo ad esaminare.
Per MANZINI pubblico servizio è l’attività non autoritaria connessa o accessoria ad una pubblica funzione,
come pure l’attività monopolistica della P.A., diretta a fini sociali, che non sono caratteristicamente essenziali
dello Stato, esercitate immediatamente o a mezzo di concessionari privati per cui «incaricato di un pubblico
servizio» è chi esercita una tale attività. Secondo ANTOLISEI e PANNAIN la categoria degli incaricati di un
pubblico servizio ha carattere residuale e comprende coloro che non sono né pubblici ufficiali né esercenti un
servizio di pubblica necessità.
Per la giurisprudenza sono incaricati di un pubblico servizio, ai sensi dell’art. 358 c.p., come novellato dall’art.
18 della legge n. 86 del 1990, coloro i quali, pur agendo nell’ambito di un’attività disciplinata nelle forme della pubblica funzione, mancano dei poteri tipici di questa, purché non svolgano semplici mansioni di ordine, né
prestino opera meramente materiale. Il pubblico servizio è dunque attività di carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dalla mancanza dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, con
la quale è solo in rapporto di accessorietà o complementarietà (Cass. Sez. Un. 11-7-1992, n. 7958).
Peraltro, si ritiene che la riforma del ’90 abbia operato un ampliamento della nozione di incaricato di pubblico
servizio, corredandola all’attività concretamente esercitata dall’agente, a prescindere da un rapporto di subordinazione con l’ente pubblico (Cass. 15-4-1993, n. 3657; in senso conforme: Cass. 25-1-1995, n. 3809).
Nessun dubbio che per l’incaricato di un pubblico servizio, come per il P.U., la qualifica compete anche a chi,
senza un regolare atto di nomina e senza una formale investitura, esplichi di fatto e non abusivamente un servizio pubblico.
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Parte I: I delitti
5.Il concetto di «persona esercente un servizio di pubblica necessità»
Per l’art. 359: «agli effetti della legge penale, sono persone esercenti un servizio di pubblica necessità:
1. i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie o altre professioni il cui esercizio
sia per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell’opera di
essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi;
2. i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio,
adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della Pubblica
Amministrazione».
6.Pubblico ufficiale e persona incaricata di un pubblico servizio e la L.
29-9-2000, n. 300
La legge 29 settembre 2000, n. 300, contenente la ratifica di una serie di atti internazionali,
compresi quelli in tema di corruzione dei membri delle Comunità europee, ha esteso la
qualità di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio ai membri degli organi
delle Comunità europee ed ai funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri. Così, ai
sensi dell’ultimo comma dell’art. 322bis, aggiunto al codice penale dall’articolo 3 della
legge stessa, sono assimilati ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni corrispondenti, e agli incaricati di un pubblico servizio negli altri casi:
—i membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento europeo, della
Corte di Giustizia e della Corte dei conti delle Comunità europee;
—i funzionari e agli agenti assunti per contratto a norma dello statuto dei funzionari delle
Comunità europee o del regime applicabile agli agenti delle Comunità europee;
—le persone comandate dagli Stati membri o da qualsiasi ente pubblico o privato presso
le Comunità europee, che esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o
agenti delle Comunità europee;
—i membri e gli addetti a enti costituiti sulla base dei Trattati che istituiscono le Comunità europee;
—coloro che, nell’ambito di altri Stati membri dell’Unione europea svolgono funzioni e attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio.
Per effetto dei correttivi operati sull’art. 322bis dalla L. 20-12-2012, n. 237, il novero dei
soggetti equiparati ai pubblici ufficiali, agli effetti anzidetti, è stato esteso ai giudici, al
procuratore, ai procuratori aggiunti, ai funzionari e agli agenti della Corte penale internazionale, alle persone comandate dagli Stati parte del Trattato istitutivo della Corte penale
internazionale le quali esercitino funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti
della Corte stessa, ai membri ed agli addetti a enti costituiti sulla base del Trattato istitutivo
della Corte penale internazionale.
Inoltre, ai sensi dell’art. 322ter, introdotto dall’art. 3 della legge summenzionata, nel caso
di condanna, o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p.,
per uno dei delitti previsti dagli artt. da 314 a 320, anche se commesso dai soggetti di cui
sopra, è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo dei
reati, salvo che appartengano a persona estranea al reato.
Capitolo 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione
75
A norma dell’art. 335bis, introdotto dalla L. 27-3-2001, n. 97, salvo quanto previsto dall’articolo 322ter, nel caso di condanna per delitti previsti dal Capo primo del Titolo secondo
(delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A.) è comunque ordinata la confisca anche nelle
ipotesi previste dall’articolo 240, 1° comma del codice penale.
7.Rapporti tra qualifica e fatto
Come vedremo meglio esaminando le singole figure criminose, la semplice qualifica,
nell’agente o nella vittima, di pubblico ufficiale, incaricato di un pubblico servizio o di
esercente un servizio di pubblica necessità, non basta perché un determinato fatto possa
considerarsi rientrante tra le fattispecie criminose previste nel titolo secondo; spesso, infatti, occorre un particolare rapporto tra la qualifica e il fatto, rapporto che può essere di:
a) contestualità, nel senso che il fatto deve esser commesso contestualmente all’esercizio
della funzione;
b) finalità, nel senso che tra il fatto e la funzione vi deve essere un nesso finalistico;
c) causalità, nel senso che il fatto deve verificarsi «a causa» dell’esercizio della funzione
o servizio.
Per il concorso tra il soggetto investito di qualità pubblica ed il privato si veda l’art. 117. Per quanto attiene, in
particolare, all’abuso della qualità o dei poteri da parte del pubblico ufficiale si veda quanto detto retro al §3.
8.Cessazione della qualità (art. 360)
Detta l’art. 360: «quando la legge considera la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato
di un pubblico servizio o di esercente un servizio di pubblica necessità, come elemento
costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, la cessazione di tale qualità, nel
momento in cui il reato è commesso, non esclude la esistenza di questo né la circostanza
aggravante, se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato».
Trattasi, in pratica, di una norma che estende l’efficacia delle norme in esame al caso in cui
il fatto sia commesso quando il soggetto abbia cioè perso la qualità; ciò si giustifica agevolmente, considerando che le norme concernenti le persone investite di pubbliche qualità
sono dettate nell’interesse dell’Amministrazione (ANTOLISEI). Affinché, tuttavia, sia
configurabile il reato, occorre che il fatto «si riferisca» alle funzioni o al servizio, e cioè sia
in qualche modo connesso con le funzioni già esercitate dal soggetto, non è necessario però
alcun rapporto specifico, bastando un qualsiasi riferimento alle funzioni o servizio.
Per le cause di cessazione della qualità valgono le norme di diritto amministrativo che reggono il singolo rapporto da cui deriva la qualità.
9.La pena accessoria dell’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro
(art. 32quinquies)
L’art. 32quinquies del codice penale, introdotto dall’art. 5 della L. 27-3-2001, n. 97, recante norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del
giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (norma successivamente modificata dalla L. 190/2012, nota come legge anticorruzione, nonchè, da
76
Parte I: I delitti
ultimo, dalla L. 69/2015), dispone che, salvo quanto previsto dagli articoli 29 e 31 (disciplinanti le ipotesi in cui alla condanna consegue l’interdizione dai pubblici uffici), la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni per i delitti di cui agli articoli
314, 1° comma, 317, 318, 319, 319ter, 319quater, primo comma e 320 importa altresì l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni
od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica.
Stabilisce, peraltro, l’art. 5, 4° comma del citato provvedimento che, salvo quanto disposto
dall’articolo 32quinquies del codice penale, nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti di amministrazioni o di enti pubblici
ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica, ancorché a pena condizionalmente
sospesa, l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito
di procedimento disciplinare.
Sezione Seconda
I delitti dei pubblici ufficiali
contro la pubblica amministrazione
1.Peculato (artt. 314 e 323bis)
A) Nozione e bene - interesse tutelato
Commette il delitto di peculato il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio,
che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio, il possesso o comunque la disponibilità
di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria.
Oggetto specifico della tutela penale è non solo la tutela del regolare funzionamento e del
prestigio degli enti pubblici, ma anche e soprattutto quello di impedire danni patrimoniali
alla P.A. Escludono, invece, ogni riferimento al danno patrimoniale MAGGIORE e MANZINI, per i quali l’interesse tutelato è esclusivamente quello concernente il buon andamento della P.A. Ritiene, invece, preminente l’interesse patrimoniale FLICK, per il quale oggetto della tutela penale dell’art. 314 è, in primis, la conservazione del patrimonio dell’ente, cui si accompagnano altri interessi quali la garanzia dell’imparzialità ed obiettività del
pubblico ufficiale, la tutela delle finalità e delle scelte attuate dalla P.A. e, in definitiva,
quella della funzionalità della stessa P.A.
La Cassazione, in taluni orientamenti, ha ribadito la natura plurioffensiva del reato di peculato ritenendo che l’eventuale mancanza di danno patrimoniale non esclude la sussistenza del reato, rimanendo pur sempre leso dalla condotta dell’agente l’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione (Cass. 7-4-1999, n. 4328).
Più di recente è, invece, prevalso l’orientamento secondo il quale non sussiste il delitto di
peculato in assenza di intrinseco rilievo economico dell’oggetto dell’appropriazione e di
concreta incidenza di quest’ultima sulla funzionalità dell’ufficio o del servizio (in tal senso,
fra le più recenti, Cass. 18-10-2013, n. 42836).
Capitolo 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione
77
B) Soggetto attivo ed oggetto materiale
Soggetto attivo può essere solo un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio,
non anche l’esercente un servizio di pubblica necessità.
Oggetto materiale del delitto è il denaro o altra cosa mobile.
Si discute in dottrina se la menzione del «danaro» accanto alla «cosa mobile» sia meramente «pleonastica» o
abbia un proprio significato ed una propria portata.
Ritengono opportuna la menzione «pleonastica» PAGLIARO e PANNAIN. Per MANZINI, contrariamente, il
danaro non è soltanto la moneta, ma tutte le cose comprese nell’equiparazione dell’art. 458.
Sembra preferibile tale seconda teoria, perché è innegabile che con la doppia dizione il legislatore ha inteso
punire l’appropriazione o distrazione da parte del P.U. o dell’incaricato del pubblico servizio di qualsiasi cosa
o valore, nessuna esclusa.
La nuova formulazione dell’art. 314 c.p. non prescrive più che il denaro o la cosa mobile,
oggetto del delitto, debba appartenere alla P.A., ma esige solo che essa si trovi nel possesso
o nella disponibilità del soggetto attivo. Conseguenza diretta di tale impostazione è l’abrogazione del delitto di malversazione, già previsto dall’art. 315 (cfr. art. 20 L. 26-4-1990 n. 86).
In giurisprudenza si ritiene che il peculato possa avere ad oggetto cose che, pur essendo prive di valore intrinseco, possano acquistare o riacquistare rilevanza economica per la utilizzazione che ne faccia l’agente (Cass.
24-7-2007, n. 30154). Non integra, invece, il delitto di peculato la condotta del pubblico ufficiale che utilizzi
arbitrariamente a proprio beneficio l’attività lavorativa prestata dal suo sottoposto, atteso che l’energia umana,
non essendo cosa mobile, non è suscettibile di appropriazione (Cass. 4-5-2015, n. 18465).
C) Il possesso del P.U. o dell’incaricato di pubblico servizio
Di tale denaro o di tale cosa mobile il pubblico ufficiale o l’incaricato del pubblico servizio
deve avere il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio: è
questo che ANTOLISEI chiama il presupposto del reato.
Anche la giurisprudenza per lungo tempo ha sostanzialmente aderito alla teoria di ANTOLISEI,
mentre la dottrina più recente non distingue fra la materiale disponibilità e il potere di disporne.
Discusso è anche il problema se ai fini della norma rileva il solo possesso legittimo o anche
quello acquistato illecitamente.
La dottrina (ANTOLISEI, PANNAIN, MANZINI, RANIERI) pressocché unanime e la
giurisprudenza sono concordi nel ritenere la legittimità dell’acquisto del possesso come
condizione indispensabile del reato (Cass. 22-1-1971; Cass. 7-4-1970).
La Cassazione ha precisato che la nozione di possesso rilevante deve intendersi non solo come comprensiva
della detenzione materiale della cosa, ma anche della sua disponibilità giuridica, nel senso che il soggetto agente deve essere in grado, mediante un atto dispositivo di sua competenza o connesso a prassi e consuetudini invalse nell’ufficio, di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità del danaro e di conseguire quanto poi oggetto
di appropriazione (Cass. 20-3-2007, n. 11633).
Anche sul concetto di ragione d’ufficio, come titolo del possesso, vi è incertezza in dottrina ed in giurisprudenza.
In giurisprudenza si afferma che il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su prassi e consuetudini invalse in un ufficio determinato, che consentono al soggetto di avere di fatto la disponibilità della cosa mobile della P.A. (così, fra le altre, Cass. 8-8-2013, n. 34490).
78
Parte I: I delitti
La dottrina, invece, rifiuta generalmente che la «ragione d’ufficio» si possa considerare
equivalente ad «occasione».
Così MANZINI ritiene necessario che il P.U. o l’incaricato del pubblico servizio sia competente o autorizzato
a ricevere l’affidamento; se manca tale competenza o autorizzazione potrà ricorrere l’ipotesi di appropriazione
indebita aggravata ex art. 61 n. 9 o il peculato di cosa avuta per errore ex art. 316, ma non il delitto ex art. 314.
D)La condotta «appropriativa»
Il fatto materiale consiste nell’appropriarsi il denaro o la cosa mobile posseduti per ragione
dell’ufficio o del servizio.
Si richiede l’altruità della cosa oggetto del reato, rientrando in tale nozione non solo la cosa di proprietà altrui,
ma anche quella oggetto di qualsiasi altro diritto reale o personale. Ne consegue che il pubblico ufficiale che si
appropri di una res nullius non commette alcun reato (GAROFOLI).
Appropriarsi significa comportarsi nei confronti della cosa «uti dominus», esercitando su
di essa atti di dominio incompatibili con il titolo che ne giustifica il possesso, come ad
esempio alienarla, distruggerla, ritenerla per sé senza restituirla, usarla in modo che si consumi etc. (così ANTOLISEI, PANNAIN, VINCIGUERRA e la Cassazione).
Il reato è configurabile anche quando il pubblico ufficiale ometta o ritardi di versare quanto abbia ricevuto per
conto della pubblica amministrazione, realizzando in tal modo un’interversione del titolo del possesso, sottraendo la «res» alla disponibilità del suo legittimo proprietario (la P.A.).
La giurisprudenza ha escluso che l’appropriazione debba avere carattere indebito, mancando nell’art. 314 c.p.
il richiamo ad un ingiusto profitto, orientamento non condiviso in dottrina, la quale esclude l’illecito ove il
profitto non sia ingiusto.
Si segnala una interpretazione estensiva della Cassazione, la quale ha ritenuto integrati gli estremi del peculato
nella condotta del pubblico ufficiale che, avvalendosi della propria funzione, distolga i dipendenti dall’esecuzione
delle attività inerenti al pubblico servizio cui siano adibiti, utilizzandoli a scopi privati (Cass. 18-1-2001, n. 352).
Si ritiene che, per aversi vera interversione del possesso, non basti acquisire la materiale disponibilità della res,
ma occorre che il reo abbia agito con la volontà di ritenere il bene (c.d. animus rem sibi habendi) (GAROFOLI).
Si ritiene, infine, che nel delitto di peculato il concetto di «appropriazione» comprenda anche la condotta di
«distrazione» in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene (in tal senso, Cass.136-2014, n. 25258).
E) L’abrogazione del cd. peculato per distrazione
La nuova formulazione dell’art. 314 ha fatto venir meno il peculato cd. per distrazione, che
si concretizzava nell’indirizzare la cosa o il danaro a profitto proprio o di altri.
Il legislatore del ’90 anche se ha abolito la fattispecie del peculato per distrazione ha fatto
in modo che tale ipotesi delittuosa confluisse nella disciplina dell’abuso di ufficio di cui
all’art. 323 c.p. al fine di non sguarnire di tutela le condotte che refluivano in esso.
F) Il peculato d’uso (art. 314, 2° comma)
Il secondo comma dell’art. 314 prevede l’ipotesi del cd. «peculato d’uso», che si ha quando
l’agente si è appropriato della cosa al solo scopo di farne uso momentaneo e, dopo tale uso
momentaneo, la restituisca immediatamente.
Oggetto del peculato d’uso possono essere solo cose mobili di specie (es.: automobile di
servizio: v. Cass. 2-3-1990) e non anche il danaro (Cass. 23-1-2003) o cose generiche, per-
Capitolo 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione
79
ché diversamente sarebbe perfezionata l’ipotesi del peculato tout court (Cass. 12-7-2000).
La giurisprudenza ha precisato che il peculato d’uso costituisce un reato autonomo, non un’attenuante del peculato (Cass. 29-4-1992) e che l’espressione «uso momentaneo» non va intesa
come sinonimo di uso istantaneo, bensì temporaneo, cioè protratto per un tempo limitato, così
da comportare una sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale, tale da non compromettere seriamente la funzionalità della pubblica amministrazione (Cass. 9-3-2005, n. 9216).
Al peculato d’uso si estende la sentenza della Corte Costituzionale in materia di furto d’uso (sent. 13-12-1988,
n. 1085), che ha dichiarato l’illegittimita dell’art. 626, n. 1, 1° comma, nella parte in cui non estende la disciplina ivi prevista alla mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore, della cosa sottratta.
In merito ad una delle principali ipotesi «di scuola» di peculato d’uso (l’indebito impiego
del telefono d’ufficio), le Sezioni unite della Cassazione hanno puntualizzato che tale condotta ne integra gli estremi se effettuata per fini personali e al di fuori dei casi d’urgenza o
di specifiche e legittime autorizzazioni, purché produca un danno apprezzabile al patrimonio
della P.A. o di terzi, ovvero una lesione concreta alla funzionalità dell’ufficio, mentre deve
ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative (sent. 2-5-2013, n. 19054).
G)Peculato e consenso dell’avente diritto
Discusso è il problema se il peculato possa essere scriminato dal consenso dell’avente diritto.
In dottrina prevale in genere la tesi negativa, partendo dalla considerazione che i beni tutelati dalle norme di cui agli artt. 314-356 sarebbero indisponibili (così ANTOLISEI, PANNAIN, RIZ). In senso contrario è, invece, MANZINI, per il quale la P.A. ben potrebbe
consentire a determinate appropriazioni da parte del P.U. entro i limiti del diritto obiettivo;
ugualmente il consenso del privato ben può valere come scriminante ex art. 50 quando costui
mantenga sulla cosa affidata un diritto incondizionato di ripresa e fino a che tale diritto
possa essere esercitato (es.: danaro depositato per ottenere copia di atti prima che il relativo
lavoro sia incominciato; lettere affidate alla posta e diritto di ripresa del mittente).
Per MANZINI, infine, non costituiscono peculato (per consuetudine legittimatrice) le modestissime appropriazioni usuali di carta, matite, penne etc. e ciò non perché manchino gli
elementi del reato ma perché, per consuetudine, sono tollerate dalla P.A.
Anche la giurisprudenza si è talvolta pronunciata nel senso dell’ammissibilità del consenso
come scriminante del delitto di peculato; anche se attualmente si ritiene che realizza il delitto in esame il comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio
che utilizzi momentaneamente il telefono per finalità personali, sottraendolo alle finalità cui
è destinato, anche se può disporre dell’apparecchio in ragione di una prassi più o meno
ortodossa, di una tollerata attività di fatto o anche per effetto di una semplice occasionalità comunque riconducibili all’ufficio o servizio cui è preposto, purché la condotta produca
un danno apprezzabile al patrimonio della p.a. di terzi, ovvero alla funzionalità dell’ufficio
(Sez. Un. 2-5-2013, n. 19054).
H)Consumazione e tentativo
Il delitto si consuma quando il soggetto inizia a comportarsi nei confronti della cosa uti
dominus. Non è richiesto anche il verificarsi di un danno per la P.A.
È ammissibile il tentativo, in quanto la condotta del reo può consistere in più atti.
80
Parte I: I delitti
I) Elemento soggettivo
Il dolo del reato di peculato è generico, consistendo nella coscienza e volontà dell’appropriazione. Così la giurisprudenza assolutamente pacifica.
Nel peculato d’uso è, invece, specifico in quanto si richiede che il soggetto si appropri della cosa allo scopo di farne uso momentaneo.
L) Circostanze
Poiché la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio e l’abuso di
tale qualità costituiscono elemento costitutivo del reato, non sono ipotizzabili per il delitto
di peculato le aggravanti di cui ai nn. 9 e 11 dell’art. 61. Nessun dubbio, invece, circa la
configurabilità dell’aggravante di cui al n. 7 dell’art. 61 (danno patrimoniale di rilevante
gravità).
Il reato è attenuato se il fatto è di particolare tenuità (art. 323bis).
L’attenuante ex art. 323bis concerne il fatto illecito in tutti i suoi profili, compreso quello psicologico, e possono di conseguenza rilevare anche i motivi sottesi alla condotta dell’agente. Con riferimento al problema della
compatibilità di tale attenuante speciale con quella comune prevista dall’art. 62, n. 4 (danno patrimoniale di
speciale tenuità), attenuante applicabile a tutti i delitti che comunque offendono il patrimonio, si è osservato in
dottrina (PIOLETTI) che esso va risolto, per analogia, come viene risolto l’analogo problema posto con riferimento al capoverso dell’art. 648 (ricettazione di particolare tenuità): le due attenuanti debbono ritenersi tra loro
compatibili, a condizione, però, che la valutazione del danno patrimoniale sia rimasta estranea al giudizio sulla
particolare tenuità del fatto che caratterizza l’ipotesi attenuata di reato contro la P.A., perché ove il danno patrimoniale sia stato tenuto presente in tale giudizio l’attenuante prevista dall’art. 62, n. 4 è assorbita dall’attenuante speciale prevista dall’art. 323bis.
Differenze
Il reato di peculato e quello di furto sono strutturalmente diversi quanto ad elementi costitutivi. Nel
furto, infatti, l’impossessamento della cosa altrui avviene invito domino, vale a dire, attraverso la
sottrazione della res a chi la detiene, nel peculato, viceversa, l’agente ha la disponibilità del bene per
ragioni del suo ufficio (senza distinzione, dopo l’entrata in vigore della legge 26 aprile 1990 n. 86, tra
beni di proprietà dei privati e beni della pubblica amministrazione).
Quanto, invece, all’elemento distintivo tra il delitto di peculato e quello di truffa aggravata, ai sensi
dell’art. 61, n. 9, cod. pen., va individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o
d’altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione, ricorrendo la prima figura quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio se ne appropri avendone già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, e ravvisandosi invece la seconda ipotesi quando il soggetto attivo, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o
raggiri per appropriarsi del bene (Cass. 8-10-2013, n. 41599). Analogamente, la Cassazione ha evidenziato che mentre nel peculato la condotta consiste nell’appropriazione di denaro o altra cosa
mobile altrui, di cui il responsabile abbia il possesso o la disponibilità per ragioni del suo ufficio — onde
la violazione dei doveri di ufficio costituisce esclusivamente la modalità della condotta, cioè dell’appropriazione — nella figura criminosa di abuso d’ufficio, prevista dall’art. 323 c.p., la condotta si
identifica con l’abuso funzionale, cioè con l’esercizio delle potestà e con l’uso dei mezzi inerenti ad
una funzione pubblica per finalità differenti da quelle per le quali l’esercizio del potere è concesso.
M)Pena ed istituti processuali
Per effetto delle modifiche all’impianto sanzionatorio di tale fattispecie, dovute alla L. 27-5-2015, n. 69 (c.d.
Legge anticorruzione 2015) la pena è la reclusione da 4 anni a 10 anni e 6 mesi (prima dei citati correttivi era
da 4 a 10 anni). In precedenza, la legge anticorruzione del 2012 aveva sostituito la parola «quattro» alla prece-
Capitolo 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione
81
dente parola «tre» (art. 1, c. 75, l. 190/2012). Quanto al peculato d’uso, invece, la pena resta la reclusione da 6
mesi a 3 anni. L’arresto in flagranza è facoltativo solo per il peculato comune, rispetto al quale è consentito
anche il fermo. Si procede d’ufficio e la competenza spetta al Tribunale collegiale.
Giurisprudenza
— Il peculato d’uso previsto dall’art. 314, 2° comma è da considerarsi fattispecie di reato autonoma
rispetto al reato di cui al 1° comma e non un’attenuante dello stesso, dato il carattere di elemento
specializzante rivestito dal fine del pubblico ufficiale (Cass. 25-5-1995, n. 6094).
— In tema di peculato il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio, nel senso di
disponibilità giuridica, non è quello soltanto che rientra nella competenza funzionale specifica del
pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su prassi e
consuetudini invalse in un ufficio determinato, che consentono al soggetto di inserirsi di fatto nel
maneggio o nella disponibilità della cassa in senso materiale, traendo l’occasione per un tale
comportamento dalla propria qualità di soggetto organicamente inserito nell’ufficio pubblico (Cass.
12-2-1996, n. 1675).
— Ricorre l’ipotesi del peculato e non della truffa qualora vengono posti in essere raggiri ed artifici non per entrare in possesso del denaro pubblico, ma per occultare la commissione della illecita
appropriazione di cose mobili delle quali il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio
abbia già la disponibilità (Cass. 12-2-1996, n. 1675).
— Commette il reato di peculato il pubblico ufficiale che, avendo per ragioni del suo ufficio il possesso e la disponibilità delle armi comuni da sparo versate dai privati ai fini di distruzione, ai sensi
dell’art. 6, terzo comma, della legge 22 maggio 1975, n. 152, se ne appropria. Infatti, le armi consegnate dal privato al fine di disfarsene, passano in proprietà dello Stato, il quale può anche
alienarle, non essendo previsto da alcuna disposizione di legge un divieto in tal senso. D’altra
parte, non ha alcuna rilevanza la circostanza che l’arma abbia un valore pressoché nullo, essendo sufficiente, perché si configuri il peculato, che la cosa abbia anche un minimo valore o, comunque, una qualche utilità (Cass. 19-1-2000, n. 694).
— Per la configurabilità del delitto di peculato, è sufficiente che il possesso o la disponibilità del denaro o
della cosa mobile si verifichino per ragioni di ufficio, poiché non rileva che la effettiva appropriazione si
sia consumata in un momento in cui l’agente non svolge più la sua funzione (Cass. 18-3-1999, n. 3579).
— Commette il reato di peculato consumato il dipendente di un Comune che si appropria di un «buono economato», trattandosi di bene appartenente alla pubblica amministrazione di cui l’agente
aveva il possesso per ragioni di servizio, a nulla rilevando, ai fini della consumazione del reato, il
fatto che l’agente aveva il possesso per ragioni di servizio, a nulla rilevando, ai fini della consumazione del reato, il fatto che l’agente non abbia concretamente conseguito il fine divisato, e cioè
l’ottenimento della merce corrispondente all’importo del buono (Cass. 10-6-1999, n. 7481).
— Non integra il reato di peculato di cui all’art. 314 c.p. la condotta del pubblico ufficiale il quale utilizzi beni appartenenti alla P.A. privi in sé di rilevanza economica e quindi inidonei a costituire
l’oggetto materiale dell’appropriazione (Cass. 30-5-2001, n. 21867).
— Integra il reato di peculato e non quello di appropriazione aggravata di cose smarrite l’apprensione, da parte di agente della polizia di Stato in servizio presso un aeroporto, di cose custodite
in uno zaino rinvenuto presso lo scalo aeroportuale e a lui affidato per ragione del suo ufficio, non
potendo considerarsi smarrite le cose lasciate in uno scalo navale, ferroviario o aeroportuale, per
le quali sono predisposte particolari norme di tutela, né potendo comunque qualificarsi come tali
le cose dimenticate in un luogo che il legittimo possessore sia in grado di ricordare, sia pure attraverso una ricostruzione logico-temporale dei suoi spostamenti, in modo da poterle colà ricercare e recuperare (Cass. 31-3-2003, n. 15124).
— Deve considerarsi pubblico ufficiale anche il funzionario di fatto che, senza essere investito
formalmente delle funzioni di tesoriere comunale, le abbia in concreto esercitate con il beneplacito della pubblica amministrazione. Pertanto, risponde del reato di peculato il tesoriere di un
Comune, il cui incarico sia divenuto all’epoca dei fatti illegittimo in base alla nuova normativa in
materia di tesoreria unica, che si sia appropriato delle somme appartenenti al predetto ente pub-
82
Parte I: I delitti
blico, laddove sia provato il consenso della pubblica amministrazione alla continuazione del precedente incarico (Cass. 19-6-2003, n. 26697).
— Non è configurabile il reato di peculato nell’uso momentaneo di un’autovettura di ufficio, quando
la condotta abusiva non abbia leso la funzionalità della P.A. e non abbia arrecato un danno patrimoniale apprezzabile. (In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto non configurabile il
reato di peculato d’uso nell’occasionale utilizzazione per scopi personali da parte di un carabiniere dell’autovettura di ufficio) (Cass. 9-3-2007, n. 10233).
— Commette il reato di peculato il pubblico ufficiale che, avendo per ragioni del suo ufficio il possesso
e la disponibilità delle armi comuni da sparo versate dai privati ai fini di distruzione, se ne appropria.
(Nell’affermare tale principio, la Corte ha ritenuto che non ha alcuna rilevanza ai fini della sussistenza del reato la circostanza che l’arma abbia un valore pressoché nullo, essendo sufficiente che la
cosa abbia anche un minimo valore o, comunque, una qualche utilità) (Cass. 21-6-2007, n. 24677).
2.L’abrogazione dell’art. 315 (malversazione a danno di privati) e le sue conseguenze
L’abrogazione di tale fattispecie ad opera della L. 26-4-1990, n. 86, non ha comportato anche il venir meno
della rilevanza penale del fatto; infatti la maggioranza delle ipotesi prima previste dall’art. 315, e cioè quelle di
malversazione per appropriazione, sono trasmigrate sotto la più ampia previsione dell’art. 314. Le ipotesi di
malversazione per distrazione, invece, rientrano, per lo più, nella figura dell’abuso di ufficio, nei limiti che
saranno delineati più avanti date le modifiche che la L. 234/97 ha apportato all’art. 323.
3.Peculato mediante profitto dell’errore altrui (artt. 316 e 323bis)
A) Nozione e scopo della norma
È punito il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell’esercizio
delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente,
per sé o per un terzo, danaro od altra utilità.
Anche tale reato è plurioffensivo: scopo della norma, infatti, è tanto la tutela dell’osservanza del dovere di probità dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio,
quanto la tutela del privato.
B) Elemento materiale ed elemento soggettivo
Il delitto in esame è in sostanza una forma attenuata di peculato.
Esso può esser ricondotto alla figura prevista per i soggetti diversi dal P.U. o dall’incaricato di un pubblico servizio nell’art. 647, 1° comma n. 3.
Presupposto del reato è l’errore sul dovuto (sull’an o sul quantum) da parte di colui che
effettua il pagamento al P.U. o all’incaricato del pubblico servizio; tale errore non deve
essere provocato dolosamente dal funzionario, altrimenti ricorre il reato di concussione (così
Cass. 24-7-1980). Per effetto di tale errore si determina il possesso del danaro o dell’altra
utilità da parte dell’agente: il delitto in esame, quindi, a differenza del peculato, non postula il previo possesso della cosa.
Ricevere significa accettare in qualsiasi modo la cosa.
Ritenere significa non restituire la cosa ricevuta.
L’eventuale errore sulle norme che disciplinano la funzione o il servizio, ovvero dispongono cosa il pubblico ufficiale può legalmente ricevere esclude il reato ex art. 47 c.p.
Capitolo 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione
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Secondo la prevalente giurisprudenza il termine «utilità» indica tutto ciò che rappresenta
un vantaggio per la persona, materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, oggettivamente apprezzabile, consistente tanto in un dare quanto in un facere e ritenuto rilevante
dalla consuetudine o dal convincimento comune.
La ricezione o la ritenzione, per integrare il fatto punito, debbono essere indebite.
Se parte della dottrina ritiene inutile tale qualificazione, altra parte, ed è la maggioranza, sostiene, invece, che
l’avverbio «indebitamente» non è pleonastico in quanto occorre che il pubblico ufficiale sappia dell’errore del
privato e lo utilizzi per realizzare la condotta di ricezione o ritenzione che, dunque, sono «indebite» quando
hanno ad oggetto cose e denaro non dovuti alla pubblica amministrazione; qualora, invece, il denaro o l’utilità
spettino al pubblico ufficiale come tale o come privato il reato non è configurabile.
Il dolo previsto è generico, e consiste nella coscienza e volontà di ricevere o ritenere la cosa
con la consapevolezza dell’errore altrui e dopo aver scoperto l’errore stesso. Non può accogliersi la teoria che in questo caso parla di dolo superveniens, in quanto la condotta criminosa,
e cioè il ricevere o ritenere, non precede ma segue la scoperta dell’errore altrui: il soggetto,
infatti, ritiene indebitamente la cosa dopo aver scoperto l’errore altrui, per cui il dolo precede
sempre la condotta. Anche qui il reato è attenuato se il fatto è di particolare tenuità (art. 323bis).
La pena è della reclusione da 6 mesi a 3 anni.
La condanna importa interdizione temporanea dai pubblici uffici (art. 31).
Si procede d’ufficio e la competenza è del Tribunale collegiale.
Non possono applicarsi le misure cautelari personali; l’arresto in flagranza è facoltativo ma solo se necessario
ad interrompere l’attività criminosa; il fermo non è consentito.
Giurisprudenza
— Perché ricorra l’ipotesi di cui all’art. 316 c.p. l’errore deve cadere sull’«an» o sul «quantum debeatur», e non sul pubblico ufficiale delegato alla riscossione; ove, invece, l’errore cada sul soggetto, questi risponde comunque del reato di cui all’art. 314 c.p., a prescindere da chi o cosa
abbia determinato l’errore (Cass. 13-10-1992, n. 9732).
— Il reato di cui all’art. 316 c.p. (peculato mediante profitto dell’errore altrui) si può configurare esclusivamente nel caso in cui l’agente profitti dell’errore in cui il soggetto passivo già spontaneamente versi, come si desume dalla dizione della norma incriminatrice («giovandosi dell’errore altrui»,
cioè di un errore preesistente ed indipendente dalla condotta del soggetto attivo); e non ricorre,
pertanto, nel caso in cui l’errore sia stato invece determinato da tale condotta, ricadendo in tal
caso l’appropriazione commessa dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio nella più
ampia e generale previsione dell’art. 314 c.p., rispetto alla quale quella dell’art. 316 costituisce
ipotesi marginale e residuale (Cass. 4-6-96, n. 5515).
— La qualità di persona offesa dal reato compete esclusivamente al titolare dell’interesse direttamente protetto dalla norma penale e non coincide con quella di danneggiato. Nei reati contro la
pubblica amministrazione «persona offesa» è soltanto quest’ultima, mentre «danneggiati» possono essere i soggetti che solo di riflesso e in via eventuale subiscono un pregiudizio dall’azione
delittuosa. Pertanto, in caso di peculato mediante profitto dell’errore altrui (art. 316 c.p.), il cassiere della Banca d’Italia che, in occasione di un pagamento, corrisponda, per errore, al soggetto
attivo del reato somme eccedenti quelle dovute, appartenenti all’amministrazione finanziaria, non
può considerarsi persona offesa dal reato, ma solo «danneggiato» dal reato (se l’Istituto di emissione gli chieda la rifusione di dette somme), con l’ulteriore conseguenza che il reato di peculato
non può considerarsi aggravato ai sensi dell’art. 61, nn. 7 e 10, per non essere detto cassiere
«persona offesa» e per non essere stato consumato il reato «contro» costui, ma contro l’amministrazione finanziaria dello Stato (Cass. 30-2-1999, n. 4074).
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Parte I: I delitti
4.Malversazione a danno dello Stato (artt. 316bis e 323bis)
L’art. 316bis, introdotto dalla L. 86/90 ed ulteriormente precisato dalla L. 181/92, configura la nuova ipotesi incriminatrice della malversazione a danno dello Stato.
Commette tale reato chiunque, estraneo alla P.A., distragga dalle finalità cui erano destinate somme di danaro (sovvenzioni, finanziamenti o contributi) ricevute dallo Stato o da altro
Ente pubblico o dalle Comunità Europee destinate a favorire iniziative per la realizzazione
di opere o per lo svolgimento di attività di pubblico interesse.
Si tratta, come può vedersi, di un reato comune, in quanto può commetterlo «chiunque»,
per cui meraviglia la sua collocazione tra i reati propri di questo capo I e non tra quelli del
capo II e cioè tra i reati dei privati contro la Pubblica Amministrazione.
Il bene-interesse tutelato dalla norma in esame è quello del buon andamento dell’ente erogatore.
La condotta è costituita dalla «distrazione», cioè dalla destinazione di un bene a fini diversi
da quello cui era finalizzato. In questo senso si differenzia dalla truffa aggravata, perché mentre qui il bene è conseguito legittimamente, ma il suo uso è distorto, nella truffa gli artifici e i
raggiri sono funzionali all’ottenimento della cosa, il cui possesso diventa perciò illegittimo.
L’ampia previsione della norma, che comprende i contributi, le sovvenzioni o i finanziamenti, appare idonea a tutelare tutte le forme di intervento della P.A. o Comunitarie, e cioè
sia quelle a titolo gratuito, sia quelle a titolo oneroso, ma agevolato (es. incentivazioni per
insediamenti industriali nel Sud del Paese).
Il reato è attenuato se il fatto è di speciale tenuità (art. 323bis).
La pena è della reclusione da 6 mesi a 4 anni, per cui l’arresto è consentito e sono applicabili le misure cautelari personali. La competenza è del Tribunale collegiale.
5.Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316ter)
L’art. 316ter, introdotto dall’art. 4 della legge 29 settembre 2000, n. 300 (si veda quanto
detto nella Sezione prima, §6), punisce, a titolo di «indebita percezione di erogazioni a
danno dello Stato» e salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’articolo 640bis,
chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni
dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee, per un ammontare superiore a 3.999 euro e 96 centesimi.
Si tratta di un reato comune, in quanto può commetterlo «chiunque».
La condotta commissiva può consistere nell’utilizzare o nel presentare dichiarazioni o
documenti falsi o attestanti cose non vere; quella omissiva consiste nell’omettere informazioni dovute che sono quelle che, ai sensi delle norme procedimentali riguardanti il provvedimento erogativo, il soggetto è tenuto a fornire all’autorità procedente.
Il dolo richiesto è specifico, dovendo il fatto essere commesso al fine di conseguire l’erogazione per cui l’errore sulla genuinità del documento o sulla veridicità delle dichiarazioni
esclude il dolo.
Il delitto si consuma col conseguimento indebito del beneficio (contributo, finanziamento,
mutuo agevolato o altra erogazione) sempreché lo stesso superi 3.999 euro e 96 centesimi.
Capitolo 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione
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È indebito il beneficio che senza l’utilizzazione o la presentazione del falso documento o
della falsa dichiarazione ovvero fornendo le informazioni richieste non si sarebbe ottenuto;
ne consegue che se, nonostante la condotta dell’agente corrispondente alla fattispecie, il
beneficio si sarebbe ugualmente ottenuto il fatto non sussiste.
Il tentativo è senz’altro configurabile.
Se la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a 3.999 euro e 96 centesimi il fatto
costituisce soltanto illecito amministrativo e non reato. Secondo la Cassazione, per la valutazione del superamento o meno della soglia quantitativa anzidetta, al di sotto della quale,
come appena detto, il fatto degrada a mero illecito amministrativo, occorre tener conto
della complessiva somma indebitamente percepita dal beneficiario, e non di quella allo
stesso mensilmente corrisposta (Cass. 24-3-2010, n. 11145).
La pena è della reclusione da sei mesi a tre anni.
Si procede d’ufficio e la competenza appartiene al Tribunale collegiale.
Misure cautelari personali, arresto in flagranza e fermo non sono consentiti.
Il reato è attenuato se il fatto è di particolare tenuità (art. 323bis, anch’esso modificato dalla legge n. 300 del 2000).
Differenze
Come emerge dalla lettera dell’art. 316ter, la fattispecie è in rapporto di sussidiarietà con quella di truffa
aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, ex art. 640bis c.p., al pari della quale, e diversamente dal delitto di malversazione a danno dello Stato, è astrattamente configurabile anche nel caso
di indebita erogazione di contributi aventi natura assistenziale (in tal senso, Cass. Sez. Un., 27-4-2007,
n. 16568). La linea di discrimine tra il reato in esame e la truffa aggravata va ravvisata nella mancata
inclusione tra gli elementi costitutivi del primo reato della induzione in errore del soggetto passivo. Pertanto qualora l’erogazione consegua alla mera presentazione di una dichiarazione mendace senza
costituire l’effetto dell’induzione in errore dell’ente erogante circa i presupposti che la legittimano, ricorre la fattispecie prevista dall’art. 316ter, e non quella di cui all’art. 640bis c.p. (Cass. 24-7-2007, n. 30155).
Approfondimenti
In giurisprudenza si è precisato che il delitto in esame assorbe il reato di falsità ideologica commesso
dal privato in atto pubblico, contenendone tutti gli elementi costitutivi, e dando così luogo ad un reato
complesso. Tale assorbimento si realizza anche nell’ipotesi in cui, per il mancato superamento della
soglia minima del valore economico dell’erogazione, il fatto integri (come appena visto) una mera
violazione amministrativa (in tal senso Cass. 24-7-2007, n. 30155). Nel medesimo senso si era
espressa la Corte, a Sezioni unite (sent. 27-4-2007, n. 16568), precisando, tuttavia, che nel reato di
cui all’art. 316ter c.p. restano assorbiti solo i delitti di falso di cui agli artt. 483 e 489 c.p., ma non le
altre falsità, eventualmente commesse al fine di ottenere l’erogazione, le quali, all’occorrenza, concorrono con il primo reato.
6.Concussione (artt. 317 e 323bis)
A) Nozione e interesse tutelato, alla luce della cd. legge anticorruzione (L. 190/2012)
Ai sensi della citata disposizione, riformulata dalla L. 190/2012, nonché, da ultimo, dalla
L. 27-5-2015, n. 69 (c.d. Legge anticorruzione 2015) risponde penalmente il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra
utilità.
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