FASHION & LOOK.
DALLA PREISTORIA AL TERZO MILLENNIO
Pier Pietro Brunelli
Dior,1952
bozza per IKON editrice 2014
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Indice
Prefazione
I)
Archetipi del vestire. Dalla preistoria all’antichità.
II)
Il gusto dell’abbigliamento nel mondo greco-romano.
III)
Etica ed estetica del vestire dal Medioevo
al Rinascimento
IV)
Il guardaroba della Modernità fino al Secolo dei lumi.
V)
Abbigliamento aristocratico e popolare
dal Romanticismo alla Belle Époque
VI)
L’industria dell’abbigliamento tra grandi ideologie
e grandi guerre
VII)
La moda dagli anni ’50 alla fine del secondo millennio.
VIII) Trend e tendenze della moda agli esordi del terzo millennio.
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Prefazione
Abbiamo pensato a questo libro come ad una ‘macchina del tempo’ per
compiere un viaggio ispirativo ed istruttivo nella cultura e nello stile del vestire, dai tempi arcaici ai giorni nostri. La macchina del tempo è qualcosa
di incredibile, ma se è ‘alla moda’ lo è ancora di più, perché riesce a trasportarci nel tempo e nello spazio a velocità supersonica e soprattutto con
‘tagli’, ‘cuciture’, ‘forme’, ‘dettagli’ e ‘accessori’ capaci con un’immagine di
rievocare epoche, miti, tradizioni. Si tratta di figure del vestire e della bellezza che congiungono ritorni del passato con fantasie del futuro, secondo
la creatività, la maestria ed anche la stravaganza delle mode, delle tendenze e degli infiniti ‘surprise trend’ di possibile successo.
Gli stilisti e gli amanti della moda ben conososcono l’andamento ondivago, eccentrico e sregolato della Fashion & Look creativity, che non teme
ogni sorta di intrecci e connessioni nel tempo e nello spazio. Si tratta di un
andamento storico-fantastico che lo stile di questo libro vuole accompagnare in quanto opera di ‘fashion study’ che, piuttosto di risultare cronologica, dizionariale e riassuntiva, mira ad essere un compendio ispirativo e
immaginativo. Testi, schede e immagini offrono una notevole passerella di
flash e di panoramiche estetico/antropologiche, mitologiche, storiche, psicologiche, sociologiche e, soprattutto, ci si consenta il termine: ‘modologiche’… per un originale contributo ‘concept & vision’ alla sempre rinascente filosofia, arte e scienza della moda…
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Archetipi del vestire. Dalla preistoria
all’antichità.
Capitolo I)
Una macchina del tempo ‘alla moda’, tra il sacro e la natura
selvaggia…
Saliamo a bordo della macchina del tempo e andiamo a scoprire come si
vestiva l’uomo della pietra. Avvertiamo subito che si tratta di una macchina del tempo piuttosto spericolata – in senso artistico e immaginativo perché vi proporrà un
viaggio psicovirtuale
che intreccia il passato
remoto con il presente
e il futuro, o per dirla
in modo più attuale:
con i new trend. La
principale attenzione
di questo primo capitolo è rivolta ai tempi
Pantalone risalente a 3300 anni fa ca. ritrovato in Cina
arcaici e quindi ai miti e ai reperti che ce lo rivelano. L’intenzione non è
quella di fornire una sintesi cronologico-storiografica sull’evoluzione del
vestire (il lettore a tale riguardo potrà consultare le schede e le illustrazioni contigue ai testi), quanto di offrire una riflessione ispiratrice su come
fattori archetipici e mitici risalenti alla preistoria siano presenti nel DNA
della cultura vestimentaria di tutti i tempi e luoghi.
L’archetipo del vestire - Gli archetipi – scoperti da Carl Gustav Jung - sono disposizioni
a pensare e ad agire innate nella psiche dell’umanità (inconscio collettivo) e riguardano
i sentimenti, la spiritualità, la creatività il confronto con l’oscurità e il mistero - perciò
sono gli stessi in tutti gli individui e in tutte le culture, seppure si manifestano in modi
differenti. Possiamo dire che l’archetipo della “Persona” (dal latino Persona vuol dire
‘Maschera’) è quello specifico del vestire, infatti esso è quel fattore della psiche che dispone a rappresentarsi con una propria immagine e ruolo. La Persona non è solo
l’archetipo dell’apparire, ma anche dell’essere, infatti in base alla propria immagine
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personale esprimiamo volontariamente e involontariamente emozioni, idee e valori
profondi della nostra personalità e costruiamo relazione e società. L’abbigliamento e il
look sin da tempi remoti e nelle loro infinite variazioni ed elaborazioni sono manifestazioni dell’archetipo della Persona, ovvero di un ‘istinto culturale’ ad apparire per essere e comunicare.
Esplorando le origini del vestire a livello antropologico e archeologico,
possiamo individuare significativi fattori primari insiti nella natura umana,
che ancora influenzano l’evoluzione dell’immagine personale e della moda
nel mondo globale attuale e nel futuro contingente. Cerchiamo dunque di
di scavare nel passato, ma anche nell’inconscio collettivo del nostro tempo, per fare rinvenire l’eredità archetipica ricevuta dai nostri progenitori
ancestrali in fatto di look e abbigliamento. In senso psicologico e sociale
possiamo quindi osservare che certi fattori culturali ed estetici primordiali
sono ancora presenti nel profondo di fantasie, gusti, vissuti e desideri che
animano l’esuberante fashion system del nostro tempo.
Senza indugio pilotiamo la nostra rapidissima e acrobatica macchina del
tempo il più lontano possibile: nella
cosiddetta “Età della pietra” e, in particolare, nel tempo dello Home sapiens comparso circa 200.000 fa (cioè
il nostro più prossimo progenitore che
ci ha consentito quindi di diventare
due volte sapiens, cioè quel che oggi
l’antropologia chiama Homo sapiens
sapiens).
Dai ritrovamenti degli scavi si è potuto osservare che le prime figure umane dipinte sulle pareti delle caverne sono nude. Tuttavia presso le stesse
caverne sono state rinvenute grandi quantità di oggetti assai semplici consistenti in ossa, denti, conchiglie, pietre e piume che i primi uomini raccoglievano trovandoli attraenti per la foggia o per il significato che vi attriOrnamenti paleolitici 15.000 ani fa
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buivano. Si tratta di ornamenti belli è pronti (in antropologia si parla di objets trouvés) impiegati come amuleti decorativi da portare con sé e in
qualche modo sul corpo. Si direbbe che i primi esseri umani prima di
pensare a vestirsi abbiano voluto decorarsi con tatuaggi, piercing e svariati
ornamenti. Ciò ci fa comprendere come il desiderio espressivo - linguistico, magico e simbolico - sia stato sentito come prevalente rispetto alla necessità pratica di coprirsi e proteggersi. Ben presto gli elementari oggetti
di decoro divennero accessori, quali bracciali, collane, fermacapelli, pendagli, anelli, cinture, copricapi, ecc. . Possiamo dire che gli accessori sono
nati prima dei vestiti, o insieme ad essi, ma in origine hanno avuto certamente un’attenzione e una diffusione prioritaria.
Da rilievi e dai reperti risalenti al Paleolitico (2,5 milioni di anni fa fino a
20.000 anni a. C.) e al Mesolitico (da 20.000 a 10.000 anni a. C.) si sa che i
primi rudimentali capi di vestiario vennero realizzati con fogliame, paglia e
pelli di animali, adornati con i suddetti monili e accessori. Quasi tutti gli abiti rituali che gli etnologi hanno studiato in Melanesia e in Africa sono interamente derivati da piante, ma in genere vi sono commistioni tra materiali animali e vegetali, con decorazioni in osso, piumaggio e pietra.
Con il Neolitico, ultima fase dell’Età della pietra e
quindi della preistoria (da 10.000 a 3500 anni a.C.,
ovvero l’ inizio della storia coincidente con la comparsa della scrittura) vennero prodotte le prime
grezze filature e quindi tessuti e telature in lino selvatico, ortica, canapa e filaccia proveniente dalla
corteccia di alberi. Anche i peli lanosi di capre, renne,
cavalli e cervi venivano lavorati con tecniche manuali
e con i cardi. Il pelo sembra essere stato la materia
prima delle prime filature. Ancora oggi certe usanze
degli aborigeni australiani insegnano a filare i capelli.
La filatura comportò ovunque lo sviluppo di tecniche per ottenere filati di
vario spessore, laddove quelli sottili e delicati erano i più difficili da ottenere; essi sono stati eccellenti per tessere leggerissime garze e veli utilissime nei luoghi più caldi per proteggersi dal sole e dagli insetti. Molteplici
tipi di fuso e di tecniche di filatura sono state messe a punto sin da tempi
Egyptian textyle museum
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arcaici per torcere la fibra e ricavarne gomitoli di filo, ma è probabile che
la più antica fosse quella che ancora si riscontra in Birmania ove si attorciglia la fibra no sul fuso, ma sulla coscia.
La tessitura si sviluppò ovunque attraverso la messa a punto dei primi telai e di tecniche di ordito e intreccio che permettevano di creare stoffe aventi qualità di impiego e di uso specifiche. Fondamentale fu l’invenzione
dell’orlo, o meglio delle cimose che grazie a differenti tipi di intreccio e di
armatura o di ordito più intenso e stretto, evitavano l’usura e lo sfilacciamento dei bordi.
La feltratura, consistente in fibre pressate, battute e incollate, conosciuta in tutta l’Asia del Nord e nell’America settentrionale, raggiunse risultati
notevoli soprattutto in Cina e nel Tibet. Ma il feltro per quanto preservi
dal freddo non risulta molto resistente e assorbe l’acqua, pertanto la filatura delle fibre e la tessitura divenne necessariamente in costante
sviluppo. Sin dal terzo
millennio a.C i cinesi
ebbero l’idea geniale di
trarre il filo dai bachi
che divennero così ‘da
seta’, la quale fu introdotta in Grecia solo al
tempo di Carlo Magno,
quindi
in
Egitto
nell’epoca di Cleopatra
e poi da Cesare a Roma. Gli egizi furono
grandi innovatori nella tessitura del lino già
5000 anni a.C. ottenendo filati e tessuti di varie qualità e funzionalità,
morbidezza e consistenza, a secondo del tipo e del grado di maturazione
delle piante di lino da cui si traeva la fibra. Grazie ad un paziente lavoro
artigianale, messo a punto soprattutto dalle donne i tessuti divennero
Tunica da bambino , Egitto ca. 1250 a.C.
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sempre più pregiati. Anche gli uomini furono ‘sarti’ e ‘guardarobieri’, ma
furono senza dubbio le donne a far evolvere la prima industria del vestire
a cominciare dall’Età del bronzo (dal 3.500 al 1200 a.C, inizio dell’Età del
Ferro). Reperti trovati nelle tombe scoperte in varie regioni del mondo e
risalenti all’Età del bronzo, hanno riportato alla luce i resti di tuniche, scialli e mantelli.
Prima o ultima moda? - Uno tra i più celebri esempi archeologicici di vera e propria
sartoria creativa è dato da una camicia risalente alla prima Età del Ferro, ritrovata in
Frisia orientale, cucita con un patchwork di 40 pezzi di vari tessuti in lana. Nella stessa
area venne ritrovato un pantalone, ricavato da un unico pezzo di stoffa con disegni a
losanga e cuciture laterali. Ma secondo più recenti ricerche condotte dagli archeologiche tedeschi Ulrike Beck and Mayke Wagner il più vecchio pantalone di tutti i tempi
mai ritrovato potrebbe essere quello recentemente ritrovato in Cina a Basin Rasin, fatto circa 3300 anni fa con tre tagli di lana ben cuciti a misura e cordino in vita allacciabile. Questi e molti altri affascinanti reperti la dicono lunga su come oltre 3000 anni fa,
l’arte del vestire tessile, fosse già in grado di garantire non solo un’elevata qualità pratica, formale e protettiva. I decori poi conferivano agli abiti dei ceti più elevati un prestigioso simbolismo creativo e magico-sacrale recante bellezza e potere. L’abito era il
più intimo tra tutti gli oggetti e al tempo stesso il più sociale, dunque veniva considerato come la massima espressione comunicativa della persona e del suo rango e ruolo
nella collettività.
Con l’evolversi delle tecniche tintorie – soprattutto grazie al lavoro femminile - i tessuti vennero colorati e dipinti, gli abiti dunque erano considerabili quali immagini, disegni e visioni da indossare. Le coloriture dei
tessuti in origine non consentivano grandi variazioni e, in genere, erano
preferiti il bianco, il rosa il rosso scuro e il bruno.
Egitto ca.1250
a.C.
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Nell’epoca del giovane faraone Tutankhamon, salito al trono all'età di 16
anni, nel 1333 a.C. e morto nove anni più tardi si diffuse l’arte del ricamo.
L’evolversi del vestire ‘pittorico, decorativo e coloristico’ accompagnato
dal ricamo, l’appretto, la piegatura, in origine ha espresso come niente
altro l’intima natura creativa ed artistica che ogni essere umano di ogni
luogo e tempo sente dentro di sé e cerca nella relazione con gli altri.
Accanto all’evoluzione delle primissime arti tessili, si sviluppavano gli artigianati della terracotta e della ceramica, e quindi gli ornamenti proliferarono a dismisura, tanto che possiamo considerare come una prima bigiotteria popolare diffusa, che sostituiva il ciottolo dipinto con ciondoli e pendagli in argilla. Nasceva anche la lavorazione di pietre semipreziose. Successivamente nasce la
più sontuosa e duratura gioielleria in metallo
(età del rame,del bronzo e del ferro).
L’impiego di pietre rare
ed effettivamente preziose si diffuse con le
prime civiltà statuali,
ma la loro preziosità inizialmente non era
tanto di ordine ecoAsaro, Indonesia
nomico, quanto magico e terapeutico. In
genere gli accessori da indossare, anche i
meno preziosi e pregiati, erano considerati come amuleti (portafortuna) e
talismani (strumenti di guarigione).
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La macchina del tempo ‘alla moda’ tra L’Egitto e la Mesopotamia (3000 anni a.C)
Le raffigurazioni degli antichi egizi
da sempre colpiscono per la loro sobria eleganza, e per quella voluttà
enigmatica che gioca tra anima e animale, tra socialità prodiga e conviviale e introversione misterica. Ancora oggi certe linee, certe soluzioni
vestamentarie e decorative egizie,
nonché i gioielli, il make up, le acconciature riescono a stimolare le
fantasie dei creatori di moda. La
concezione
archetipica
dell’ideogramma come geometrismo
metafisico perfetto tra forma, funzione e simbolismo, costituisce il
DNA archetipico degli stilisti di ogni
tempo, che dapprima attraverso il
costume e poi attraverso la moda
hanno contribuito ad esprimere e ad
evolvere nella cultura e nella società. Se consideriamo il gusto degli egizi anche nei dettagli meno appariscenti del loro gusto geometrizzante e bidimensionale che ha trasformato la visione in scrittura, possiamo renderci conto di come le arti e le mode contemporanee debbano riconoscere nell’estetica egizia la prima grande maestra ancestrale. Pensiamo ad esempio alla geometrica e lunga barba finta che poteva permettersi di indossare soltanto il faraone egiziano, considerato un dio vivente, essa lo rende
riconoscibile in tutte le raffigurazioni, lo rende figurativamente speciale attraverso un
dettaglio minimale. Questa personalizzazione nel dettaglio, nell’abito come nel look, è
un’aspirazione che la moda del nostro tempo ha messo potenzialmente alla portata di
tutti. Se un tempo solo il faraone poteva vestire un dettaglio che lo rendeva unico, oggi
ciascuno può essere unico, dal momento che attraverso un suo bricolage può costituire un suo proprio look che lo distingue, e che ad un tempo lo integra quale protagonista di tendenze collettive.
Indumento base degli egizi fu lo schenti una sorta di grembiule aderente, accavallato
e fisso sul davanti da una cintura. Si adottò in seguito anche un foulard trapezoidale
pendente dalla cintura. Il dorso era nudo e sul capo si portava un fazzoletto a righe
chiamato clafi, simile al copricapo delle sfingi. Le donne portavano una gorgiera inamidata posata sulle spalle. I ceti popolari indossavano il pano, un gonnellino piuttosto
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semplice (probabile prototipo della minigonna). Assai comune era anche il calasiris,
una tunica corta realizzat in velo e ricca di pieghe.
Certamente anche le altre popolazioni della Mesopotamia e dell’antica Asia minore
contemporanee alla civiltà egizia hanno contribuito all’evoluzione della storia
dell’abbigliamento. I Caldei, cioè gli Assiro-Babilonesi, nonostante vivessero in un territorio molto caldo, amavano fare eccessivo uso di stoffe variopinte e ricche di ricami e
bordature, anche in oro. Ne è un esempio il tipico kandis, una tunica vestita sia dagli
uomini che dalle donne. Amavano molto cimentarsi con trecce e treccine, anche per
mitigare il disordine dovuto ai loro tipici capelli crespi. Le donne facevano ampio uso di
veli fissati alla fronte e , le più ricche, si adornavano di gioielli preziosissimi) e indossavano sontuosissimi copricapi. Questo popolo fu tra i primi a calzare sandali, a suola liscia rialzata verso il tallone. Ma delle vere e proprie calzature furono usate dagli Ittiti, il
primo popolo che possedeva il fero e sancì vere e proprie regole di commercio, come
quella di fissare il prezzo per i singoli capi di vestiario. Le donne Ittite vestivano una
una sottana lunga fino ai piedi e ben pieghettata, e una sorta di giubba a maniche corte, che si fissava con un cinturino alla vita. Anch’esse amavano un’estetica alquanto sofisticata della capigliatura, del make-up e adoravano i gioielli di lusso.
Ma prima che la nostra macchina del tempo ‘alla moda’ vada troppo avanti nel Neolitico riportiamola ancora una volta all’indietro verso l’Età
della pietra – Paleolitico e Mesolitico - quando filati e tessuti non c’erano
ancora. Sebbene abbiamo proposto di viaggiare ad alta velocità, vogliamo gettare ancora uno sguardo sulle origini più remote del vestire e su
come queste ancora riverberano nel nostro attuale ‘essere alla moda’…
Reperti riportati alla luce nel sud-est della Francia risalenti al periodo “souleteriano” (22.000-17.000 anni fa) rivelano che gli abitanti delle caverne,
che avevano sviluppato una più raffinata industria nella scheggiatura della
selce per produrre strumenti da lavoro e da taglio, si vestivano con pelli e
decorazioni… infatti alcuni di quei primi strumenti da lavoro erano aghi
con la cruna, mentre le selci affilate servivano anche come taglierini delle
pelli. Possiamo quindi dire che la sartoria ebbe i suoi progenitori ancestrali nel paleolitico.
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Vestirsi di animalità e di anima
Himba , Namibia
Prima della comparsa e della diffusione delle tecniche di tessitura – quindi in epoche ancestrali che vanno dalla notte dei tempi fino a 10.000 anni
fa - il modo ‘più primordiale’ di coprire il corpo era quello di impiegare pelli di animali. Le si trattava con processi elementari di essiccazione e conciatura, per poi tagliarle con pietre affilate, forarle con punteruoli d’osso e
legarle e cucirle con tendini o fibre vegetali, anche con l’ausilio di grossi
aghi. Certamente l’abbigliamento degli albori non permetteva di esprimere particolari performance estetiche, quanto più che altro pratiche, protettive e di ordine simbolico. Tuttavia vestire con la pelle o la pelliccia di
un animale voleva dire anche trarne magicamente certi particolari poteri,
e ciò comportava, per quanto possibile anche una cura estetica e cerimoniale di fogge e ornamenti. E’ assai probabile che l’uccisione di animali al
fine di reperire le pelli, le ossa, i denti al fine di creare indumenti e orna-
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menti, comportasse un’attività non soltanto tecnica e artigianale, ma anche di ordine cerimoniale, e soprattutto, in onore degli animali totemici.
La firma del ‘sacro’ - L’uomo primitivo aveva una concezione animista della realtà e in
particolare degli animali. Coprire il corpo con pellami, pellicce e lane era dunque particolarmente impegnativo anche da un punto di vista magico-sacrale. Occorrevano dunque determinate cautele cerimoniali per difendersi dall’impurità e da eventuali spiriti
maligni e vendicativi riferibili agli animali uccisi. In genere la pelle di un’animale era
considerata un feticcio, quale resto di un sacrificio comprendente l’uccisione di un animale, fino ad essere consacrata quale simbolo centrale di un mito; così come fu per il
celebre Vello d’oro nella Grecia di Omero. Quando una pelle di animale veniva ‘trattata’ cerimonialmente e non solo artigianalmente, la possibilità di ibridarla con la figura
umana attraverso l’abbigliamento dava luogo a miti, riti e narrazioni leggendarie.
Nel mondo primitivo si credeva che gli spiriti maligni e le forze animiste
negative potevano agire attraverso le impurità di un qualsiasi oggetto,
persona, ambiente, o
pianta o animale. Cosicché gli abiti dovevano avere funzioni protettive
anche in senso spiritico e
animistico, e perciò dovevano anche essere creati
attraverso
cerimoniali
purificanti e propiziaziatoMongolia
ri. La vestizione di un abito importante costituiva un atto cerimoniale essenziale, avente in particolare funzioni iniziatiche. Stregoni, sacerdoti, regnanti e guerrieri hanno
da sempre indossato, previo opportuni atti magici, iniziatici, purificatori e
propiziatori, maschere e costumi realizzati con materiali, forme e colori
aventi il senso di una congiunzione tra natura e spirito, tra l’animale e il
divino. Nacque così uno stilismo immaginario ispirato dalle forze animiche
e animali della natura.
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Mursi, Etiopia
Le maschere di animali o animalizzate, le corna e i paramenti tratti da resti
di animali, erano fantasticate come appartenenti a creature mitiche e leggendarie e perciò potevano rendere più prestigiosi e potenti. Quindi in origine l’arte del vestire non fu pensata solo per gli esseri umani, ma anche
per gli dei e le molteplici altre creature soprannaturali. Attraverso la vestizione potevano essere indossati pelli, piume e ossa di animali diversi, e
anche di vegetali diversi, in particolare foglie, paglia e fiori. Tatuaggi e colorazioni della pelle e del viso, e strumenti di potere sciamanico, come bastoni e tamburi magici trasformavano l’animale umano in un dio animale. I
primordiali abiti magici erano ispirati da fantasie e da miti, ma possiamo
dire anche il contrario, e cioè che i primi grandi sarti abbiano ispirato leggende e fantasie mitiche. Sono i costumi sciamanici originari rappresentanti animali fantastici, quali draghi, serpenti piumati, leoni e cavalli volanti, mostri marini o altre creature dotate di particolari ‘superpoteri’ e connessioni con il mondo soprannaturale che hanno permesso di sognare e di
incontrare il mito.
Gli etnologi occupandosi di studiare popolazioni, etnie e tribù che ancora
oggi hanno mantenuto usi e costumi della cultura primitiva (cosiddette
neo-paleolitiche: in particolare gli aborigeni australiani, i pigmei e altre tribù africane, siberiane, artiche dell’Amazzonia e della Papuasia) hanno potuto comprendere attraverso certi costumi rituali, talvolta ancora oggi indossati, il linguaggio simbolico delle prime tribù e comunità umane
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dell’Età della pietra. Il corpo risulta trasformato in una figura che non è né
animale né uomo, ma un essere fantastico e sorprendente, spesso modificato anche nelle membra da protesi deformanti (tatuaggi, scarificazioni,
allungamento delle orecchie, delle vertebre del collo, delle labbra, modificazione dei genitali, ecc.).
Abiti mitici - Le metamorfosi dei miti originari
esprimevano innesti fantagenetici tra personaggi
umani, spiriti, animali, piante e pietre, astri ed elementi essenziali. Quindi i vestiti veicolavano
anche simbologie di acqua, fuoco, terra, aria, così
come di sangue, latte, sperma e di altre sostanze
magiche e preziose… Si tratta di maschere e costumi che nel corso delle epoche, tra magia, mito
e religione, hanno rappresentato con molteplici
variazioni e tendenze il bene e il male. Così i demoni diabolici hanno preso sembianze che uniscono l’essere umano ai caproni e ai pipistrelli; gli angeli unisex celesti vesto ali di cigno; le seduttive sirene erano dapprima donne uccello rapace e poi donne pesce; i
saggi centauri erano uomini cavallo. Come si vede da questi pochi esempi la fusion tra
animale e uomo si è evoluta nei miti e nelle figure della religiosità. Perciò gli esseri umani non soltanto si sono serviti degli animali e della natura per vestirsi, ma unendo
tra loro forme animali, naturali e fantastiche hanno sviluppato mitologie e insieme ad
esse anche stili rappresentativi e idee di costume e di vestiario.
La descrizione di un ‘completo’ da sciamano siberiano offertaci
dall’etnologa e antropologa Johan Halila:
Sul copricapo di panno verde […] sono raffigurati il muso di un lupo e la luna, nella
parte superiore, e le stelle su entrambi i lati. I ricami sono fatti con la barba bianca della renna, che è considerata sacra. Vi sono applicate anche code di scoiattolo e piume
per onorare gli animali alleati. Un nastro, che rappresenta la spina dorsale dello sciamano, adorno di stelle, simbolo del cielo, pende dietro il copricapo. In questo modo lo
sciamano è sotto la protezione di spiriti celesti. Il suo cappotto di renna è ornato sul
davanti con strisce di stoffa blu cina, che simboleggiano lo sterno e le costole, dietro, i
ricami riproducono la spina dorsale e la cassa toracica. Su entrambe le maniche sono
raffigurate le ossa. (Lo sciamano. Il maestro dell’estasi, 1982).
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Animal ispiration - Certamente
uno stilista dei giorni d’oggi in
vena di eccentricità potrebbe
trarre dagli abiti sciamanici una
qualche magica ispirazioni moda… lo vedremo nel capitolo finale di questo libro che aprirà uno
sguardo futuribile sull’ultime tentendenze moda, particolarmente
Mamuthones maschere della Sardegna
ricche di tatuaggi, piercing, primitivismo esotico e
sensuale animalità. Costumi che nei tempi arcaici erano assolutamente seri e impegnativi, indossati da sciamani e capi a scopo rituale, terapeutico e di potere, con il tempo
sono diventati abiti leggendari e del folklore. Oggi molte citazioni ed elaborazioni di
quei costumi sciamanici compaiono nelle feste mascherate, in particolare in quei carnevali tradizionali che hanno mantenuto tratti arcaici (si pensi ai Mamuthones e ad altre maschere e costumi zoomorfi del folkore di tutti i popoli). Gli abiti dunque, insieme
a leggende, feste, riti, danze diventa archetipo della cultura umana, quale portatore di
linguaggio simbolico che sancisce la ‘natura vestita’ dell’essere umano.
Se l’uomo era una “Scimmia nuda” (1967), come lo ha chiamato Desmond Morris (celebre studioso di ’zoologia umana’), il suo bisogno e desiderio di vestirsi lo costrinse a
‘svestire’ gli animali della loro pelle, ma con ciò anche a creare una relazione simbolica
, magica, conoscitiva con il mondo animale. In tal modo i primi uomini non soltanto indossavano le pelli degli animali, ma anche la loro anima e il loro spirito.
Va osservato che i colori , i decori e i disegni che accompagnano le vestizioni realizzate con materiali e foggie animali, hanno addolcito e reso mistico il carattere selvaggio e brutale di pelli e pellicce ‘informali’, quali
brandelli laceri di animali morti. La lavorazione decorativa, le prime tinture, e poi la commistione con i primi tessuti e cordami, gli ornamenti vari, le
applicazioni di foglie e fiori, conferivano anche ai costumi più animaleschi
un senso estetico e spirituale umanizzante. In tal senso possiamo dire che
oltre agli animali tutta la bellezza e il mistero della natura ha ispirato
l’evoluzione del vestire: le piante i fiori, le pietre, i cristalli, i corpi celesti, e
quindi tutto lo habitat terrestre e celeste degli umani come degli animali.
Affinché l’animale e le concezioni animiste, mitiche e spirituali ad esso
connesse potessero essere percepite e celebrate, gli esseri umani dovette-
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ro servirsi di narrazioni mitiche, ma soprattutto di atti rituali ove abiti e
costumi furono un linguaggio visivo essenziale per diffondere cultura, religione e civiltà. E’ ipotizzabile che tra tutti gli animali, quelli che maggiormente dovettero ispirare il senso estetico e coloristico dell’abbigliamento
furono gli uccelli con il loro variopinto piumaggio. Il sogno di volare era tipico della visionarietà della magia primitiva e degli sciamani, e quindi vestirsi con penne e piume consentiva di raggiungere le forze celesti. Il copricapo icona e corona dei nativi d’America è fatto con penne e piume di
falco, airone, tacchino selvatico, aquila, ed è ornato con code di ermellino,
strisce di cuoio e perline. Si tratta di un copricapo avente un grande valore
simbolico a livello individuale e sociale. La quantità di penne derivava dalla
quantità di gesta degne di onore compiute; quelle di aquila in particolare
simboleggiavano i raggi del sole e del Grande Spirito.
Il serpente (nelle sue varie versioni di drago e serpente piumato) con la
sua tipica muta ha suscitato l’idea di vestito come trasformazione e rinascita; così, ancora oggi, nell’indossare un nuovo abito, proviamo la piacevole sensazione di acquisire una ‘seconda pelle’.
Trend eco-sauvage - Ancora oggi possiamo riscontrare nel vestire il gusto per una certa animalità estetizzata che evoca il fascino esotico ed etnico del sauvage tra il mistico
e l’erotico. In molte creazioni e tendenze moda emerge un’istintualità magica e felina,
esaltata da creazioni in pelle e in cuoio, ma anche da fantasie di design tessile ispirate
al leopardato, lo zebrato e alla selvatichezza della natura. Si tratta di topos e concepts
creativi sui quali si cimentano varie tendenze moda orientate a differenti gusti, target e
generi di abbigliamento… solo la pelliccia è in parte caduta nell’abiura, in nome di un
indignato animalismo che però non rinuncia alla ecopelle, alle pellicce artificiali e alle
fantasie che richiamano animali, jungle, foreste e il fascino misterico delle forze naturali. Ovviamente l’animalità nella moda attuale è desacralizzata ed ha acquisito una valenza tipicamente ludica, pulsionale, sessuale, aggressiva e trasgressiva, oppure anche
di contatto con la ruvidità istintuale e spontanea della natura.
Dunque l’originaria relazione tra uomo e animale sancita dal vestire costituisce da
sempre e ancora oggi una mitica fonte di ispirazione e di creatività (ne parleremo in
particolare nel capitolo conclusivo di questo libro sulle ultime tendenze moda e new
trend – cap. VIII).
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Il vestito rendeva umani, magici, divini ed erotici.
Himba, Namibia
Nella contemporaneità gli dei che fanno la moda sono gli stilisti, le star e i
vip, così come anche coloro che esprimono per primi un trend, una novità,
un mood, che sono cioè i primi ad essere all’ultima moda. Molti studiosi
della società post-moderna si sono resi conto di come certi fattori culturali
ancestrali siano ancora leggibili negli usi e nei costumi attuali, per quanto
siano stati elaborati e desacralizzati dal consumismo e dalla spettacolarizzazione mediatica. Comprendere fattori originari nella preistoria e nella
storia del vestire consente quindi di approfondire il punto di vista sulla
moda e il ‘fashion system’ nella post-modernità. Con la nostra macchina
del tempo ‘alla moda’ stiamo quindi cercando di svolgere una ricognizione
ad ampio raggio su come nel vestire contemporaneo riecheggiano miti e
riti risalenti al mondo arcaico e ancestrale. Preghiamo il lettore di restare a
bordo, ci sono ancora tante scoperte da fare…
Il senso originario magico-sacrale dell’abbigliamento diede luogo sin dagli
esordi delle collettività umane organizzate ad un continuo perfezionamen-
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to della bellezza e della creazione di segni distintivi, mirati a recare prestigio onorifico e straordinaria espressività simbolica.
L’abbellimento delle ‘mise’ più primordiali e selvagge non poteva essere
ottenuto con il taglio, la cucitura, la forma quanto come abbiamo osservato, con l’ausilio di ciondoli e ornamenti, ed anche attraverso tatuaggi e
piercing recanti simbolismi magico-religiosi, connessi all’appartenenza ad
una tribù, una fratria, o ad una certa casta.
In ciò emerge il senso sacrale e archetipico della funzione estetica e comunicativa che ‘veste la natura umana’, e quindi che investe l’animale
umano di umanità, socialità e spirito. Gli antropologi hanno individuato diversi fattori che sanciscono il passaggio ancestrale tra l’animale e l’essere
umano. Darwin propose una teoria evoluzionistica di passaggio tra la
scimmia e l’uomo, ciò non toglie che l’uomo - la scimmia senza peli - divenne veramente tale quando cominciò a vestirsi. Secondo il celebre antropologo Lévi-Strauss la linea che determina la mutazione da animale ad
essere umano e riscontrabile nella differenza tra “ Il crudo e il cotto”, cioè
tra il consumo di cibi consumati non cucinati e quelli invece cucinati (cosa
che non fa nessun animale).
Altro fattore evolutivo degli ‘ominidi’ potrebbe essere derivato
dalla consapevolezza della morte, giacché le prime culture umane si svilupparono dando una
straordinaria importanza ai riti
funerari, al culto degli antenati e
alle costruzioni di tombe. Un altro punto di vista, certamente
più piacevole, è quello del già citato Morris che spiega quanto
sia stato importante per
l’evoluzione umano imparare a
compiere l’atto sessuale in reciproca posizione frontale – faccia
Dasanec, Etiopia
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a faccia – piuttosto che solo in posizione posteriore, come fanno tutti gli
altri mammiferi. Si tratta di fattori evoluzionistici, legati alla natura, agli
istinti della fame e del sesso, alla morte, che sono certamente fondanti
per segnare la trasformazione degli ominidi nella specie propriamente
umana; ma un fattore che è particolarmente creativo e culturale è dato
dal fatto che l’uomo si è distinto dagli animali imparando a vestirsi, con finalità pratiche ed anche espressive. Dal momento che il vestire assume un
senso estetico-simbolico, e non solo pratico e protettivo, il vestiario denota la nascita di un linguaggio visivo individuale e collettivo fondamentale
per dare all’essere umano una ‘natura culturale’, orientata alla bellezza e
alla convivialità.
Il limine
che
segna
l’arcano passaggio
della
trasformazione
non solo biogenetica, ma
culturale
tra
l’animale e l’uomo potrebbe quindi individuarsi tra ‘il nudo e il vestito’.
Certamente anche la cottura dei cibi distingue l’essere umano dagli animali, ma il vestiario avente funzione simbolica oltre che protettiva determina
maggiormente forme culturali di linguaggio e di organizzazione sociale.
In tal senso l’abito sacerdotale o regale diventa essenziale nel rito magico-sacrale in quanto chi lo indossa viene automaticamente investito di un
potere soprannaturale. In effetti ci sono voluti diversi millenni affinché
fosse coniato il proverbio italico: ‘l’abito non fa il monaco’, giacché sin da
tempi arcaici gli abiti sacri conferivano di per se stessi sacralità. D’altra
parte qualcosa di analogo avviene nell’inconscio di chi indossa ancora oggi
un abito di grande fascino, realizzato con materiali e finiture di pregio e
per di più alla moda: ecco che ci si sente ‘divi’, cioè vestiti e investiti di un
particolare prestigioso potere ‘psicomagico’.
L’idea e la pratica dell’abbigliamento come segno di potere e di distinzione è da sempre presente e, in origine, congiungeva la sfera del sacro a
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quella di una ritualità erotico-propiziatoria. Sacralità e sessualità non erano separati come fossero stati il bene e il male, e quindi il sesso faceva
parte della ritualità e della narrazione magico-religiosa. La fascinosità e la
simbolicità delle vesti di dei, re ed eroi poteva essere ad un tempo ieratica
ed erotica. Questa compresenza di ciò che oggi potremmo chiamare sacro
e profano, si ritrova nel folklore e nelle tradizioni dei popoli, e ha una sua
espressione attraverso le danze, le feste, i riti di corteggiamento e della
celebrazione amorosa. Gli abiti da fidanzamento e matrimonio, per entrambi i partner, valorizzati da anelli e collane che sono il pegno di un sicuro e duraturo vincolo, hanno comportato la massima spinta nella ricerca di
un linguaggio del vestire che fosse stato creativamente e spiritualmente
coinvolgente per i giovani di tutti i ceti sociali. Questo raffinato modo erotico-spirituale di concepire il linguaggio del vestire si sviluppò originariamente tra quelle popolazioni primitive protagoniste dell’era di passaggio
che va dalla Preistoria alla Storia, il cui inizio è databile a circa 5500 anni fa
con le civiltà dell’Egitto e della Mesopatamia.
I costumi delle prime civiltà arcaiche differenziavano con particolare evi-
Dani, Papua, Nuova Guinea
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denza gli abiti femminili da quelli
maschili in tutte le occasioni, sia
quotidiane e sia cerimoniali. In
genere le linee femminili sono più
morbide, sinuose e arrotondate, a
queste vennero destinate soprattutto garze, veli e sete. Anche il
corpo delle donne era deformato
per ragioni estetico-rituali, come
nel caso delle vertebre cervicali
delle donne long neck della Thailandia, o i piedi delle donne cinesi
mantenuti piccoli da strette fasciature (pratica vietata solo al
tempo di Mao).
Gli abiti maschili sono da sempre più rigidi e geometrizzati e, più spesso,
sono realizzati con tessuti robusti, quali lino, cotone e lane, e in certi casi
anche feltri. Il vestimento necessariamente maschile è l’astuccio penale,
una protezione rigida in cuoio, spesso decorata che risale alle culture primitive e che aveva certamente simbolicità fallico-propiziatorie. Ma
l’abbigliamento ha iniziato una sua vera evoluzione estetica vestendo la a
grazia del femminile. La donna venne quindi celebrata e valorizzata
nell’abbigliamento esaltandone la bellezza, mentre la forza e la virilità maschile venne evidenziata con criteri stilistici maggiormente volti alle attività eroiche e guerriere.
Unisexy & Protosexy - Sebbene le popolazioni asiatiche e quelle di regioni desertiche
prediligano tuniche e mantelli unisex per uomini come per donne, ciò era dovuto a
motivi metereologici, cioè alla troppa pioggia dei monsoni o al troppo sole dei climi
torridi. Tuttavia nelle civiltà delle origini un total look unisex non è mai esistito, almeno
volutamente, e se non per motivi pratici e per i ceti più popolari. Gli accessori, i decori
la capigliature ben sottolineavano le differenze di genere. L’unisex modernamente inteso, anche come semplice jeans e maglietta, può quindi considerarsi come un uso del
tutto tipica del nostro tempo, derivato dalla emancipazione delle donne, stufe di ‘ve-
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stire’ un ruolo di subalternità e decise invece a ‘vestire i pantaloni’, non solo nella moda, ma come segno effettivo di parità tra i sessi in tutti i sensi. L’abbigliamento femminile nelle sue prime evoluzioni fu ideato per sancire una netta differenza dal maschile,
al fine di preservare ed anche erotizzare le pulsioni sessuali. La donna dovette quindi
vestirsi con modalità che, relativamente alle diverse culture e mitologie, dovevano
moderare il desiderio maschile, ma al tempo stesso dovevano tenerlo vivo. Nelle danze
e nei riti propiziatori e di corteggiamento l’abito femminile costituiva spesso
l’elemento costumistico e coreografico centrale. Si pensi alla danza dei sette veli, alla
danza del ventre, al gioco del ‘vedo non vedo’ che anima da sempre la forza seduttiva
della moda femminile… Tuttavia va detto che oggi il ‘vedo non vedo’ si esprime anche
nella moda maschile, mentre nella donna si protende nel sempre più spinto: ‘si vede
tutto’.
Eppure alle origine del mito della seduzione erotica - e quindi secondo Afrodite: dea
dell’amore - non è la nudità a conferire fascino erotizzante, quanto la possibilità di nascondere, svelare e adornare il corpo. Emblematico è il celebre ‘cinto di Afrodite’: una
sorta di cintura sexy che copriva a misura il pube e che la rendeva irresistibile per chiunque. Si narra che una volta Afrodite prestò il suo magico cinto ad Era che lo adoperò
per far infervorare suo marito Zeus con lo scopo di distogliere la sua attenzione dalla
guerra di Troia. Vi riuscì a tal punto che i greci poterono agire senza incorrere nei giudizi e nei castighi di Zeus e quindi vinsero la guerra.
Dunque, gli abiti e gli ornamenti del corpo, secondo il punto di vista mitologico e antropologico ci hanno resi umani, magici, divini ed erotici.
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Il prestigio onorifico dell’abbigliamento nel mondo arcaico e in
quello attuale
L’abbigliamento, concepito
nella sua essenza esteticosimbolica divenne sin dalle
epoche più remote una seconda pelle per segnalare il
potere, nel senso del rango,
del lignaggio, della conoscenza, dei diversi ruoli di
comando: nelle caste religiose, regali e militari. Le
classi agiate, depositarie del
potere magico-sacrale e politico, sono da sempre le
protagoniste della storia del
vestire. Del resto, ancora
oggi sono i ceti più abbienti
che possono permettersi di
esprimersi attraverso il consumo di mode costose. Tuttavia in controtendenza con
le epoche precedente oggi
anche i giovani sono fondamentali propulsori di trend
nella moda e nel look, grazie
alle culture musicali, della
contesta zio ne e in tempi
più recenti, ai social media.
Capo tribù, Uta,
Museo Archeologico Cagliari
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Fashion Power - La moda ha determinato più di ogni altro fattore il fenomeno del
consumismo, laddove la funzione primaria, pratica e protettiva di un oggetto viene secondarizzata rispetto ai fattori di bellezza, novità e prestigio.
Nell’epoca del consumismo il concetto di classe agiata è da individuarsi in quel 20%
della popolazione mondiale che consuma circa l’80% delle risorse del pianeta, potendo
così permettersi consumi voluttuari e il lusso di ‘essere alla moda’. Anche le classi lavoratrici sono proporzionalmente al reddito considerabili come ‘classi agiate’, nella misura in cui hanno accesso al mondo dei consumi e a varie forme di status symbol.
L’abbigliamento e il look sono simboli di status disponibili sul mercato con varie fasce
di prezzo, capaci di elevare l’immagine e l’importanza personale anche per coloro che
hanno scarse possibilità di spesa. Perciò i vestiti alla moda nel mondo contemporaneo
sono i principali e più diffusi oggetti che, a prescindere dalla loro utilità pratica, vengono adottati tra i vari strati sociali quali simboli di status.
Per comprendere l’evoluzione del vestire e della moda è allora indispensabile riflettere sul perché un abito possa conferire maggior o minore prestigio onorifico. A tal fine
carburiamo la nostra macchina del tempo alla moda ed equipaggiamola con strumenti
adeguati perché non soltanto dobbiamo tornare alle origini, ma dobbiamo spostarci
continuamente tra passato remoto e presente (anche con l’ausilio di alcune schede
riassuntive come la presente e delle illustrazioni), per capire come l’abito dagli inizi
dell’umanità e da sempre rappresenti un simbolo di status e di prestigio onorifico.
Abbiamo già fatto presente che questo libro non è il ‘classico compendio
di storia della moda’, ma un veicolo per muoversi nel tempo e nello spazio
a caccia di ispirazioni, sguardi, visioni e anche curiosità che connettono archetipicamente il nostro vestire attuale a miti delle diverse lontane culture
arcaiche e alle antiche civiltà.
Nel presente paragrafo il principale strumento che portiamo a bordo è un
libro scritto dal celebre economista americano Thorstein Veblen nel 1899
e si intitola La teoria della classe agiata. Si tratta di una teoria dei fondamenti e dell’evoluzione economica che, partendo dalle società arcaiche
scopre fattori psichici e sociali essenziali per comprendere l’economia e i
fenomeni di consumo del nostro tempo. La teoria esamina la funzione onorifica degli oggetti e dei beni in generale ed anche dei comportamenti e
degli stili di vita, con riferimenti particolare all’abbigliamento e alla cura
dell’immagine personale. Veblen scoprì che sin da tempi remoti, quanto
più un oggetto o un comportamento appare dispendioso in termini di produzione e costo e quanto più è limitata e semplice la sua utilità, tanto più
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è onorifico. Il valore del prestigio onorifico, ad esempio,
di una tunica, di un cappello, o
di altro capo o accessorio dipende dal rapporto inversamente proporzionale tra dispendiosità di materiali e lavorazione e la sua utilità pratica. Per dare una plateale immagine di spreco onorifico
possiamo riferirci alla tipica e
paradossale vignetta del miliardario che si accende un
Scettro e flagello del Faraone
sigaro con una banconota da 100 dollari. Questa figura che ora ci fa sorridere e anche un po’ ci ripugna era nei tempi arcaici considerabile come
una sorta di garanzia che i potenti dovevano ostentare per essere considerati tali. Pertanto non era raro né disdicevole che in tempi arcaici abiti e
mantelli pregiati fossero bruciati per ostentare la possibilità di celebrare
grandiosi sacrifici.
Si tratta di riti centrati sullo spreco e il consumo vistoso a scopo onorifico,
ai quali gli antropologi chiamano generalmente Potlac, secondo il nome di
una cerimonia effettuata da nativi d’America a livelli così estremi da portare alla loro scomparsa per la difficoltà di sopravvivere al freddo estremo
senza coperte sufficienti .
Veblen, ed altri celebri antropologi, psicologi e sociologi, hanno dunque
osservato che sin da epoche remote il lusso dipende dalla capacità di evidenziare lo spreco. Il modo più comune per farlo è quello di ostentare il
possesso di oggetti realizzati con un eccesso di lavoro e di costo rispetto
alla loro funzione e utilità, che poteva essere interamente garantita altrimenti e cioè rispettando criteri di risparmio. Perciò il non risparmiare
tempo e denaro, anche quando ciò sia possibile, dimostra di essere più potenti, a patto di poter ostentare lo spreco con il possesso di oggetti e
comportamenti quanto più dispendiosi e insieme superflui o ricchi di or27
namenti e dettagli ricercati quanto superflui. Un abito regale può risultare
persino scomodo rispetto ad un abito normale di qualità confortevole, ma
il fatto che sia regale dipende da quanto sia pieno di orpelli decorativi inutili e costosi e dalla sovrabbondanza di tessuti, ricami e finiture pregiate.
Sin da epoche remote più un capo era importante e più il suo abito doveva
essere complesso, al punto da ostacolarlo nei movimenti, anche grazie a
impegnativi cappelli, mantelli e decorazioni d’ogni genere.
Piedi nudi e calzature - Gli antropologi hanno osservato che per quanto la calzatura
sia utile, essa ha avuto scarsa diffusione in epoche remote, probabilmente perché era
troppo utile e faceva apparire troppo ‘terra terra’… le prime calzature furono i sandali
con vario tipo di allacciature e servivano per attività di caccia e di guerra, corredate da
eventuali gambali. Solo successivamente nacque il mocassino – in origine caratteristico
dell’Asia artica e dell’America centro-settentrionale - dal quale deriva la nostra scarpa.
La corporazione dei calzolai, di grande valore in Africa, si formò quando si incominciò a
creare scarpe e pantofole pregiate non soltanto per la loro funzione pratica, ma anche
quale accessorio riservato ai dignitari delle corti e delle caste di potere in generale.
Negli usi aristocratici orientali è ancora oggi considerato più nobile lasciare le calzature
fuori dalle abitazioni, non soltanto perché è più igienico, ma perché doversi tenere le
scarpe denota di non possedere tappeti e pavimenti confortevoli e di essere sempre in
procinto di andare a lavorare o fare qualcosa di impegnativo e di utile. Lasciare le scarpe fuori dalla porta è quindi anche un ‘piccolo lusso’ che tutti possono e vogliono permettersi. Tuttavia già in epoca assiro-babilonese e Ittita, sandali e calzature divvenero
sempre più à la page.
Gli stilisti primitivi dovevano dunque creare abiti che fossero tanto più
inutili quanto più dispendiosi per recare bellezza e prestigio onorifico ai
capi e ai potenti. Lo stesso vale per i loro colleghi architetti. Si pensi ad
opere come le piramidi ad esempio, che certamente avevano una funzione sacra e politica, ma che hanno espresso anche il potere onorifico di poter dedicare risorse enormi per la realizzazione di tombe che altre popolazioni realizzavano con maggior risparmio, seppure nel rispetto di principi
sacri e quindi con un certo dispendio di forme architettoniche. Inoltre osserviamo che nelle prime civiltà il tempo e il lavoro dedicato ai riti, cioè ad
attività non direttamente connesse al bisogno di procurarsi cibi e ripari è
stato per certi aspetti considerato come prioritario. Basti dire che prima di
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costruire capanne e case impegnarsi moltissimo per decorare le pareti
delle caverne. Così, anche la cattura di animali mitici e potenti venne svolta e perfezionata per motivi e obiettivi sacrificali, considerati più importanti della possibilità di cibarsi di carne. Il prestigio di tali attività di caccia
veniva poi tradotto in abiti di pelle e pelliccia e in decori ricavati da resti
animali. L’abbigliamento dei cacciatori, dei contadini e dei guerrieri sin
dall’antichità poteva avere qualche dettaglio onorifico ed essere dotato di
orpelli scaramantici, ma la funzione pratica doveva essere ben preservata,
e quindi consentire ampia ed efficace possibilità di movimento adatti al lavoro e all’azione; in tal modo risultava poco onorifico. Perciò quanto più
un abito risulta da lavoratore, tanto
meno è onorifico e, ancora oggi, è
così. Invece in ambito sacrale e regale, sacerdoti, stregoni e regnanti potevano vestire in modo da limitare i
movimenti, con copricapi abiti dai colori e dai materiali delicati che risultano inadatti ad ogni lavoro. Questi
abiti potevano essere valorizzati da
gioielli, accessori e finiture di pregio,
ma il fatto che fossero completamente inadatti a compiere movimenti
produttivi li rendeva più prestigiosi,
In particolare Veblen osserva che le
mogli e le concubine degli antichi reSposa Gibuti Kenia
gnanti dovevano accentuare il prestigio del loro marito-padrone, attraverso comportamenti e abiti che le facevano apparire come mantenute, e quindi assolutamente distaccate da ogni attività domestica faticosa e impegnativa, alle quali provvedevano i
servi. Con ciò esse conferivano al marito uno speciale potere onorifico,
proporzionalmente al lusso che potevano ostentare negli abiti e nel vestire senza lavorare, e quindi grazie a lui… il quale avendo una posizione di
comando poteva permettersi a sua volta di tutto senza lavorare, come po29
teva essere dimostrato da una vasta quantità di attendenti e subalterni fino ai servitori e ai servi. Ma poiché non bastava che un uomo avesse tanto
senza fare nulla solo per se stesso, allora esso allargava la sua corte di aristocratici mantenuti, con particolare lusso per sua mogli e le sue dame di
compagnia, ed eventualmente le sue concubine. Il prestigio di un uomo di
potere dipendeva dunque anche
da quante mogli e concubine poteva riuscire a mantenere
nell’ozio e dal lusso con cui consentiva loro di vestirsi, adornarsi
e coltivarsi nelle arti delle belle
maniere. Queste donne, che potremmo considerare come schiave colte, fortunate o di lusso, furono quindi le prime grandi scopritrici e indossatrici di abiti, look
e accessori che, oltre ad accentuare la bellezza, dovevano conferire un’immagine di ozio onorifico.
Le unghia lunghe delle donne,
che sono da sempre un must,
Tacchi 15° e 16° sec Museo Corrier Venezia
dovevano essere la dimostrazione che esse non svolgevano lavori nei
campi o altre attività manualmente produttive in ambito domestico. Lo
stesso dicasi per i tacchi alti, che di certo impediscono di fare le contadine
e di correre per procurarsi qualcosa di utile o mettersi al riparo; a tutto ciò
pensa il marito (almeno come immagine di facciata), non tanto con lo
sforzo muscolare, ma con l’ausilio dei servitori e dei lavoranti che gli spettano dato il suo rango e il suo potere. Del resto, per la cronaca, i tacchi alti
furono impiegati in primis dai macellai egiziani per evitare di sporcarsi le
tuniche di sangue, soltanto in seguito si pensò di considerarli come la
quintessenza delle più seducenti e aggraziate calzature femminili.
30
Le origini antropologiche di strascico, frac e… - Sempre per una questione di prestigio dato dal giusto mix tra impaccio, bellezza ed eleganza, sono stati concepiti copricapi e vestiti femminili che costringono la figura ad assumere pose e movenze estetizzanti, ma non certe adatte a zappare, correre, fare a pugni e neppure guidare autoveicoli o
quant’altro comporti agibilità fisica. Non parliamo poi del tradizionale abito da sposa
che deve risultare perfino imbarazzante in fatto di impedimento dei movimenti, dettagli superflui, veli e controveli che impacciano, busti che soffocano e dulcis in fundo lo
strascico che comporta una lenta andatura, nonché l’impiego di pagetti che lo sorreggono. Quest’ultima invenzione stilistica, ripresa anche da personaggi regali e sacerdotali dalle lunghe vesti strascicanti, e poi anche dalle più corte, ma simboliche code del
frac, è un vero e proprio coup de théâtre per ostentare ozio e consumi vistosi e quindi
ottenere un più elevato prestigio onorifico. Un’altra trovata più semplice, ma elegantemente efficace sta nell’abito nuziale talmente lungo che la donna deve tenerlo con
per un pizzo sul davanti appena sollevato, mentre con l’altra mano tiene sul decolleté
del bustino il bouquet. Non è solo un’immagine di incantata bellezza è anche l’impegno
a farsi considerare e a considerarsi regina, dedita all’amore, al piacere ed attività importanti, ma leggiadre quali l’educare i figli e recare gusto e prestigio onorifico alla casa
e alla famiglia con scelte eleganti… anche se poi diventa la casalinga, o la moglie oggetto (solo con l’emancipazione della donna la incominciare dalla Rivoluzione francese,
l’abbigliamento femminile ha iniziato a liberarsi alle ambivalenze tra bellezza e sudditanza, vedi cap. VI; VII e VIII).
La funzione onorifica dell’abbigliamento si è sempre più evoluta e diffusa
come prioritario segno di agiatezza e simbolo di status in tutte le epoche e
in tutte le culture, non solo tra le donne, ma anche tra gli uomini e in
quantità e modalità differenti tra i vari ceti della società. Veblen fa notare
come anche il più povero contadino o operaio debba possedere il ‘vestito
della domenica’, che deve apparire del tutto inadatto alle attività lavorative e che perciò deve risultare il più possibile nuovo, delicato ed elegante.
Tutte le classi sociali, a meno che non si tratti di pauperismo, cioè di disadattati e vagabondi, sono disposte a sacrificarsi nei bisogni pratici e utilitaristici pur di garantirsi qualche segno di decoro, e quindi un qualche piccolo orgoglioso prestigio onorifico. Nel mondo di oggi sono molti i consumatori che pur di risultare alla moda finiscono con il tagliare le spese di
un’alimentazione e uno stile di vita più sani. Una T-Shirt di buon cotone
firmata da un grande stilista può avere un prezzo esorbitante rispetto a
quello di una T-shirt di qualità e di foggia analoga, tuttavia molti consuma31
tori fanno i ‘salti mortali’ per accaparrarsi almeno una maglietta firmata,
o attendono l’occasione per comprarsela in saldo. Questo incandescente
desiderio di moda è certamente connesso con il desiderio di Eros e di Potere.
Donna da sposare, Turkana, Kenya
32
Lusso e prestigio dalla notte dei tempi ai
giorni nostri.
Oggi, un abito importante può anche essere minimalista, avere una sua spiccata funzionalità, ed esprimere linee essenziali, ma
risultare prestigioso ed anche di lusso perché è prodotto da un brand e da una griffe
‘di culto’. Ad esempio un tubino, se è
all’ultima moda costa di più in quanto per
realizzarlo nei dettagli sono state spese notevoli somme per il design, le sfilate, il colFigura 1 Tuthankamun collare 1336 -1327 a.C.
lare brand, la griffe, la comunicazione.
Questo tubino alla moda avrà perciò un valore non solo in termini di prezzo, ma anche
di prestigio onorifico, che sarà superiore a quello di un tubino di uguale qualità, ma con
prezzo minore solo perché non è più alla moda o ‘non è firmato’, a prescindere quindi
dalla bontà della foggia e delle materie prime e lavorate. Per essere veramente in e al
top un consumatore deve dunque sostenere il costo di marchi e griffe che conferiscono prestigio onorifico oltre che bellezza e originalità. Dunque questo consumatore deve anche in qualche misura intendersene di moda e avere gusto, e perciò deve poter
perdere del tempo ad osservare le vetrine, le riviste, la televisione, la gente con
l’intenzione di capire e scegliere cosa sia più ‘in’ o al ‘top’, e cosa sia più adeguato, tra
le molteplici scelte, ad esprimere la sua personalità. Bisogna quindi anche avere denaro e tempo per andare a ‘caccia di moda’ e partecipare al grande piacevole gioco dello
‘shopping’, una dimostrazione di agiatezza, loisir e tempo libero paragonabile ad una
specie di ‘caccia alla volpe’…
La caccia alla volpe divenne di gran moda tra le aristocrazie del secondo millennio
perché non serviva proprio a nulla e, tuttavia, impegnava una dispendiosa partecipazione di uomini e mezzi. Si trattava di un hobby tra i più dispendiosi, cioè di un’attività
avente il solo scopo di rendere piacevole il tempo libero e di dimostrare che se ne ha
tanto e quindi si è molto potenti, nella misura in cui lo si può vivere ‘alla grande’. Nacquero in tal modo molti differenti hobby e sport di destrezza e passatempo, praticarli
costava e per essere bravi occorreva preparazione, equipaggiamento e allenamento (si
pensi al golf) quindi tempo e denaro, vale a dire dimostrazione di potenza attraverso
un dispendio superfluo. Lo stesso dicasi per giochi di società alquanto impegnativi,
come il bridge. Anche le belle maniere e le usanze cerimoniale comportano l’impiego e
l’esibizioni di abiti eleganti e alla moda. Il cerimoniale anglosassone delle lady che si incontrano per bere il tè con porcellane costose e ‘fare salotto’ sfoggiando abiti alla moda è un ulteriore esempio di lussuoso ozio e consumo vistoso. Ma, tra le tante forme
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per ostentare prestigio, la moda è diventata il modo più espressivo e diffuso. Da tempi
remoti, nelle varie epoche e fino ad oggi gli abiti, gli accessori, i decori e il look, quanto
più sono sofisticati, dispendiosi, eccentrici, unici ed estetizzanti, tanto più sono onorifici. Così in tutti i tempi, attraverso le differenti usanze e tradizioni vale il principio che
se un abito dovesse essere troppo adatto ad una performance pratica, non è onorifico.
Nella società del nostro tempo però, qualora una tuta o un abito assai pratico o una
scarpa sportiva, fosse firmato o di marca, tanto più il suo costo sarà elevato. La seguente formula Prestigio onorifico = Valore di scambio/Valore d’uso - laddove il prestigio aumenta quanto è maggiore il costo, quindi il valore di scambio, e minore il valore d’uso – ha avuto il suo esordio sin dagli albori dell’umanità. Certamente nei tempi
arcaici non esistevano hobby e mode, eppure i potenti, i capi spirituali e politici - che
nelle teocrazie originarie coincidevano – si sono cimentati nell’esprimere prestigio onorifico attraverso opere e gesta di straordinaria dispendiosità a fronte di un valore
d’uso assolutamente minimo o inesistente in termini puramente pratici. A tal fine si
servivano di raffinati designer e stilisti considerati talvolta allo stesso grado di importanza dei medici, dei generali, dei maghi e degli architetti.
Una differenza tra le modalità arcaiche di spreco vistoso e quelle del nostro tempo
consiste nel fatto che nella società dei consumi attuale il prestigio onorifico di un certo
livello può risultare espresso secondo due modalità: loud luxory o soft luxory, cioè può
essere sia molto chiassoso e vistoso e sia più morigerato e introverso. Possiamo dire
che il buon gusto moderno preferisce in genere il soft luxory, cioè un modo garbato e
più silenzioso di esporre l’eleganza, mentre tende a considerare l’eccesso come una cafonata qualora non venga riservato come sontuosità da impiegarsi in occasioni speciali
e veramente al top. Il lusso vistoso nel vestire è per lo più riservato al femminile
(haute couture), mentre nell’uomo è più onorifica una relativa integrazione tra funzionalità pratica dell’abbigliamento e la sua pregevolezza e originalità. Deve essere evidente quindi, a scopo di prestigio onorifico che la donna investe più tempo e denaro
per la sua immagine, mentre l’uomo deve apparire più sensibile ad un’immagine attiva
e funzionale. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che l’immagine dell’uomo si vanta di
un ruolo onorifico dato da qualità interiori ed abilità pratiche che lo rendono affascinante in termini di sapienza, professionalità, gesta ed attività intraprendenti e trionfali. Di converso la donna deve cercare di trarre più prestigio dall’apparenza. Ma c’è da
dire che dal secondo ‘900 anche la donna, nelle sue battaglie femministe per
l’emancipazione, ha incominciato ad avvicinarsi a linee maschili capaci di integrare
maggiormente funzionalità e bellezza. Con ciò è natio anche il concetto francese nel
nome , ma italiano nei fatti di prêt-à-porter, e cioè di un abbigliamento capace di recare bellezza, prestigio e novità anche nel quotidiano e quindi nel tempo libero come nelle attività lavorative e professionali (vedi cap. VII e VIII).
34
La foglia di fico. I miti originari del vestire tra sesso, potere e
libertà.
A questo punto la nostra macchina del tempo inizia a rivelarsi ancor di più per come è fatta; si tratta di una speciale carrozza ‘alla
moda’ trainata da due cavalli: il
primo cavallo è quello più razionale che corre su e giù tra preistoria
e storia in modo da offrirci una ricognizione panoramica, il più possibile significativa e informativa
sull’antropologia e i costumi delle
culture primitive e delle civiltà antiche; il secondo cavallo affianca il
primo, ma su un versante mitico,
archetipico, e ci aiuta ad osservare le
narrazioni magico-sacrali del vestire non solo a riguardo di ere remote, ma
anche su come queste siano ancora psicologicamente e culturalmente influenti nell’inconscio collettivo e nei modi di pensare e di vivere il vestire
nel nostro tempo. Il dialogo tra l’essere umano, la natura e la divinità è
stato espresso anche attraverso il vestire. Infatti, se ci lasciamo condurre
del cavallo mitico della nostra macchina del tempo alla moda, questi ci
porterà nell’era biblica della nudità, felice e senza vergogna, cioè nel Paradiso terrestre. Ma nella narrazione biblica quella paradisiaca felicità dura
solo poche righe, quale preambolo di un destino umano alquanto più pesante e impegnativo sancito, appunto, dalla cacciata dal Paradiso terrestre. Lo sfratto dal Paradiso avvenne dopo che Adamo ed Eva scoprirono
la vergogna della nudità, in particolare quella degli organi genitali, da nascondere con l’emblematica ‘foglia di fico’. Ecco che il biblico stilista che
ideò la foglia di fico non ebbe di certo un’idea a caso, giacché essa era stata descritta dalla somma sacralità dell’Antico testamento che unisce nel
monoteismo i ‘popoli del Libro’ (Ebrei, arabi e cristiani). Perché il testo
Tiziano, Adamo ed Eva, 1565
35
parla proprio di una foglia di fico e non di altro albero? Magari con foglie
più ampie e modellabili? Innanzitutto possiamo banalmente osservare che
la foglia di fico è particolarmente resistente e vellutata, e poi che ha una
forma triangolare che ben si presta a fare da perizoma ‘stile tanga’. Ma al
di là di queste qualità tessili e formali va osservato che l’albero di fico era
sacro ad Atena, la dea della saggezza, e a Dioniso, il dio dell’ebbrezza e
della trascendenza, e che era celebrato nei riti come albero della fecondità. Dalla Grecia all’Asia il fico era un albero di enorme valore simbolico e
religioso: il dio Vishnu nacque sotto un fico, e così anche Romolo e Remo.
Dobbiamo dunque considerare che lo stilista biblico – cioè l’autore divino
o divinizzato del testo biblico - al fine di ideare l’ancestrale ‘foglia di fico’
dovette svolgere una straordinaria ricerca e rielaborazione di valori e sensi
simbolici, allo scopo di proporre un primissimo e minutissimo capo di vestiario, ricco però di potenti immaginazioni ed evocazioni mitiche e religiose. Da ciò possiamo considerare che, archetipicamente, dalla notte dei
tempi al giorno d’oggi, il lavoro dello stilista si origina innanzitutto nella
creazione di vestizioni aventi significati simbolici e sensibilità estetica.
La mela … alla moda – Il fashion system attuale è una fabbrica universale di messaggi
estetico-simbolici, ove ciascuno desidera ‘mangiare la mela’ e trovare la sua personale
‘foglia di fico’, non più quale prova di un ‘peccato originario’, quanto prova di libertà,
piacere, possibilità di esprimersi, relazionarsi, essere e apparire secondo il propri desideri, sogni e aspirazioni. Tutto ciò è esortato e consentito dal grande gioco della moda
e del look e, nonostante vi siano molti cultori e giocatori esperti di tale gioco, ormai
tutti, chi più e chi meno, per stare in società devono sapervi giocare almeno un po’.
Non tenere conto di criteri minimi dell’eleganza e del look, a seconda delle circostanze,
dei luoghi e delle occasioni di incontro vuol dire infischiarsene anche della foglia di fico
e assicurarsi biasimo e brutte figure. Anche i più genuini sostenitori della ‘sostanza’, o
dei ‘valori interiori’ e quindi detrattori della superficialità e dell’apparire non possono
evitare, almeno nelle situazioni conviviali e professionali, di tenere conto di certi criteri
estetici e convenzionali che vengono sanciti dalla continua dialettica tra moda e tradizione. Se nei tempi arcaici e antichi la tradizione determinava il must e quindi gli obblighi nell’indossare certi abiti a seconda delle occasioni, nella modernità e quindi nella
moda compare l’obbligazione di rinnovarsi, sia nel rispetto di certi usi e tradizioni e sia
con colpi di scena volti alla stravaganza e allo sconvolgimento provocatorio di regole
consolidate.
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Ma torniamo ancora alla tradizionale ‘foglia di fico’, un’immagine archetipica della relazione primaria tra nudità e vestizione che, ad un tempo,
copre la vergogna e intanto seduce. E già, perché dobbiamo considerare
che intorno alla biblica foglia di fico si sono ramificate da sempre fantasie
di seduzione amorosa, tabù, trasgressioni, desideri, passioni e quindi, in
brevis: il ‘sesso’. L’abbigliamento, nel corso del tempo, dall’antichità fino
alla modernità - l’epoca in cui effettivamente si afferma il concetto di moda (vedi il cap. IV) – è sempre stato associato attraverso funzioni esteticosimboliche alla sfera della fascinazione erotica, tra tabù, desiderio e trasgressione. Ciò comporta che il ‘sesso’ abbia a che fare anche con il ‘potere’, in quanto comporta legami, regole, leggi, divieti e violazioni. Ecco
dunque che oltre alla parola ‘sesso’, compare un’altra parola chiave per
comprendere il senso archetipico del vestire: ‘potere’. In effetti la ‘vestizione’ con la foglia di fico coincide anche con una vicenda di potere, cioè
ad un atto di arbitrio e di ‘libertà’ umano che trasgredisce il comando divino di ‘non mangiare la mela’. Eppure fu proprio il potere di mangiare quella mela che, secondo la narrazione biblica, diede inizio all’epopea umana.
Eva, che fu tanto disprezzata per essersi lasciata tentare dal diabolico serpente, scelse ed esortò a compiere un atto di potere e di libertà, allo scopo di conoscere il bene e il male e di diventare ‘umani’. Da allora la straordinaria e tormentata epopea umana anela alla libertà, e quindi anche alla possibilità di trasgredire entro una certa misura le regole obbliganti e
conservatrici che se non si rinnovano finiscono con l’uccidere la libertà.
Dunque teniamo presente anche la parola ‘libertà’ come concetto originario che segna la mappa a bordo della nostra macchina del tempo ‘alla moda’. L’archetipo del vestire (riferibile a ciò che il grande psicoanalista C.G.
Jung chiamava ‘archetipo della Persona-Maschera’) nasce nella notte dei
tempi per dare all’animale umano la possibilità di vestirsi di spiritualità,
potere, sentimenti, socialità e libertà di ‘essere umani’.
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Moda: ‘fontana di giovinezza’
Cranach il vecchio, Fontana della Giovinezza, 1553.
Il principio etico ed estetico su cui si fonda la moda vera e propria - quella che si origina nel Rinascimento e si afferma nel ‘900 - è innanzitutto un principio di libertà e quindi di continua trasgressione delle regole per il fluire del libero mutamento. Non si tratta di un mutamento ciclico, come quello del ciclo biologico o delle stagioni che si ripetono, ma di una perenne mutazione e ars combinataria tra fantasie del passato e del
futuro. Se l’abbigliamento del passato era focalizzato su un archetipo della ciclicità e il
permanere delle origini, quello della moda guarda alla continua trasformazione e al futuro. Si tratta di un differenziale archetipico che segna emblematicamente il cambio
tra la storia dei costumi arcaici e l’avvento della moda. Nei popoli più antichi, dagli egizi
agli etruschi l’abbigliamento e i decori non erano solo essenziali per la vita terrena, ma
anche per la vita nell’al di là, e con ciò esprimevano una simbolicità magico sacrale necessariamente obbligante costrittiva. Gli egizi, così come altri popoli avevano impiegato tessuti e paramenti per le mummie e per altre pratiche di inumazione. In effetti la
simbolicità del vestire arcaico consiste in un confronto con il mistero della morte, e
quindi con il ‘vestire la morte’. Con la modernità la concezione religiosa della morte
subisce un rapido processo di secolarizzazione (solo in alcuni secoli). La morte va respinta, rimossa, evitata e curata, e tutto ciò nel dubbio che l’al di là possa essere sempre più una fantasia improbabile. Perciò si tratta di ‘vestire la vita’, di renderla cioè più
godibile e in continuo divenire. Ecco allora che l’abbigliamento incomincia divincolarsi
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dalla sua simbolicità religiosa e di potere, e può sempre più liberarsi verso la libido,
quindi la sessualità e la pulsione di vita. La moda si afferma come edonistica ricerca del
piacere all’insegna della libertà e della sregolatezza. L’unica regola è stupire, affascinare, attrarre come se il consumatore fosse un bambino, o più spesso un adulto o un anziano che vuol ritornare fanciullo: la moda diventa una specie di ‘fontana della giovinezza’. Quella fontana, mito di benessere e immortalità, è narrata in molte leggende
del mondo, e la più nota è quella che la colloca nel Giardino dell’Eden. Per bagnarsi si
doveva essere nudi, come si è nudi alla nascita e nei riti battesimali, ove la nudità acquisisce il senso della ‘verità’, che toglie ogni vizio e reca purezza. Ecco allora che per
rinascere bisogna spogliarsi dei vestiti come delle abitudini, quasi che ciò consenta di
cambiare muta, piumaggio, colore. Nella moda questo desiderio archetipico di immortalità e giovinezza si celebra inconsciamente attraverso le mutazioni del look e del
guardaroba, cosicché ci si spoglia degli abiti della moda passata per immergersi nella
‘fashion source’ che si rinnova ad ogni stagione moda e dalla quale si esce rivitalizzati e
rivestiti di bellezza e novità. Tuttavia , il rischio evidente del nostro tempo, tutto preso
dalla moda e dalla mondanità, è quello di lasciare che i valori profondi cadano
nell’oblio, e che tutto venga incensato nel nome della ‘sacra e consumistica apparenza’, con le tragiche conseguenze che ciò comporta per il benessere individuale e collettivo.
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