SCAFFALE a cura di Patrizia Funghi Curare e prendersi cura. Temi di bioetica e di biodiritto Franco Angeli 2009 Pagine 304 € 23,00 Negli ultimi anni la bioetica, sia sul versante più squisitamente morale sia su quello giuridico, si è spesso interrogata e ha cercato di fornire risposte convincenti riguardo al tema della relazione medico-paziente, o più in generale della relazione fra operatore sanitario e persona bisognosa di cure. Ciò pur tenendo conto delle diverse e talora contrastanti premesse ontologiche e antropologiche che sottendono a scuole di pensiero talora difficilmente inseribili in categorie definite. In questo ambito, che in parte mette in luce confini labili con la psicologia, la psiconcologia, la deontologia professionale, le scienze della comunicazione, l’etica dell’organizzazione dei servizi e dell’allocazione delle risorse, la questione si è progressivamente spostata dall’esame 46 L’INFERMIERE 1/2010 di un rapporto (a volte definito relazione o, più modernamente, alleanza) al più vasto e complesso passaggio dal semplice curare (to cure) al prendersi cura (to care), fino al farsi carico (caring) del bisogno di aiuto espresso in maniera esplicita, ma anche implicita, dal paziente. In questo ambito si colloca l’ultima fatica di Patrizia Funghi, che ha impostato il suo lavoro in maniera interessante e originale. In primo luogo va dichiarata molto indovinata la scelta degli autori: competenti, esperti della materia, ma soprattutto professionisti che, per la gran parte, vivono ogni giorno sulla propria pelle le problematiche di cui discutono, siano essi medici, giuristi, pazienti, operatori del volontariato. Interessante e originale, inoltre, lo schema del libro, che, nella sua semplicità apparente, riesce a ricomprendere tutti i principali temi odierni: dall’etica della cura, al curare e al prendersi cura in ambito di inizio vita, minori, fine vita e interculturalità. Numerosi sono gli spunti e le suggestioni che il testo propone: dallo statuto dell’embrione, alla procreazione medicalmente assistita, alla diagnosi prenatale, ai dilemmi etici in neonatologia, alla sedazione continua, alla bioetica nella fase terminale della vita, alle tematiche valoriali in una società multietica e multietnica. Senz’altro una delle sezioni più interessanti è quella dedicata all’etica della cura, in particolare a quella che qui viene definita l’etica del diniego, sia che si tratti di un no detto dal medico oppure di un no affermato dal paziente. Nell’ambito del tema della necessità, dell’appropriatezza e dell’efficacia dell’intervento sanitario, senz’altro coraggioso e da condividere è il capitolo cu- rato da A. Bussotti e G. Amunni. L’analisi critica dell’incremento della domanda di cura, che ormai si va registrando negli ultimi anni, ne mette in luce alcune cause non certo banali: dal malinteso concetto di prevenzione (“una persona sana è solo colui che non è stato adeguatamente esaminato”), all’invenzione di malattie, alla vendita dei disturbi, sino all’istigazione alla malattia. Nel capitolo si mette in evidenza con chiarezza sia il ruolo assunto da alcune associazioni di pazienti nel costruire azioni lobbistiche, ma non si risparmiano critiche neppure al mondo medico, soprattutto nel rapporto che molti colleghi, magari anche molto autorevoli e conosciuti dal grande pubblico, hanno con i media, con messaggi talvolta pericolosi per il grande pubblico: un’immagine della medicina ormai assolutamente onnipotente, oppure un incoraggiamento a un consumo inappropriato di farmaci e accertamenti diagnostici. Ma i due autori hanno anche l’onestà intellettuale di ammettere che l’etica del diniego non può prescindere da una buona relazione tra medico e paziente e da una forte responsabilizzazione del cittadino nell’ambito di un patto di fiducia tra utente, medico e servizio sanitario pubblico. Altro capitolo di impatto, anche da un punto di vista emotivo, è quello scritto da una paziente, L. Bindi, sotto forma di lettera aperta ai curanti (Quello che non avrei mai voluto da voi). L’autrice è, tra l’altro, psicologa e psicoterapeuta, quindi un’osservatrice/ testimone/utente particolarmente qualificata e acuta. Le sue parole e gli episodi narrati sono a tratti duri, mettono in luce l’inadeguatezza relazionale (ma anche professionale!) di alcuni colleghi e SCAFFALE ciò che la paziente non avrebbe voluto dai curanti si riassume in semplici quanto terribili sostantivi: superficialità, mancata tutela, presunzione, codardia. Afferma Bindi con grande efficacia che “la scienza senza amore non guarisce” e chiude con ottimismo il suo capitolo con un ringraziamento a coloro che oggi la stanno seguendo con passione, grande attenzione e professionalità, ma quelle pagine, per chi frequenta corsie e ambulatori, rimangono lì a testimoniare una realtà spesso non edificante che non dobbiamo e non possiamo sottacere. Valga un esempio per tutti: quanto, come operatori sanitari, sottovalutiamo e trascuriamo il sentimento di solitudine del malato? La persona che rimane sola con la sua sofferenza, il suo dolore, il suo umor nero, i suoi pensieri, la sua fatica. Nel testo si discute della crisi di valori che sta attraversando la medicina moderna, in particolare quella delicata, unica e irripetibile relazione che si instaura (quando si instaura!) tra professionista e paziente. Una relazione delicata, perché sempre a rischio di rottura e di irreversibile frattura; unica, perché soltanto queste due esistenze, che si confrontano e si affrontano, sanno davvero che cosa reciprocamente possono trasmettersi; irripetibile, perché specifica di quel professionista e di quel paziente in un dato tempo della loro vita e a causa di quella determinata malattia. Tale relazione viene ancor più messa alla prova quando viene posta a tema una patologia grave, a volte inguaribile – anche se mai incurabile – come può essere il cancro. Con la malattia la sicurezza affidata alle proprie attività e prestazioni è persa; entra in crisi la certezza circa il senso globale della propria esistenza; naufraga la fiducia di base. Il problema centrale è, allora, come parlare con il paziente. La relazione è incontro tra due persone in cui l’operatore entra in empatia con l’assistito, dove empatia significa immedesimarsi nella situazione della persona che abbiamo davanti, mantenendo sempre una propria obiettività. Le conoscenze scientifiche, le abilità tecniche e le doti umane devono fondersi. Inoltre va considerato con attenzione che in questo rapporto si confrontano due soggetti: uno sano e l’altro malato e la malattia, dal punto di vista psicologico, è il mestiere quotidiano per il primo, un evento traumatico per il secondo. Ancora: nessun paziente parla per non dire niente. Ogni parola del paziente ha un significato, per quel che dice e, ancor più, per quel che nasconde. Infine, non dobbiamo temere l’angoscia del malato, che è poi lo specchio delle nostre paure di uomini, ricordandoci continuamente di mettersi nei panni dell’altro. Le caratteristiche intrinseche di questo rapporto sono ben conosciute: lo stato di dipendenza, vulnerabilità e ansietà del paziente; l’ineguaglianza delle competenze (il paziente non è competente, nemmeno quando ad ammalarsi è un medico, e l’autonomia nelle sue decisioni è inevitabilmente relativa); le aspettative di fiducia nei confronti del medico; il sanitario che cura attraverso se stesso e dà se stesso come farmaco; la conoscenza scientifica che non è una proprietà personale dei sanitari; il giuramento o il codice degli operatori come impegno davanti alla società. Ma oggi gli operatori sanitari, in un contesto che quasi quotidia- namente celebra i fasti di una scienza ormai apparentemente invincibile, vive sempre più l’inguaribilità e la morte del proprio paziente come una sconfitta personale, a cui seguono le reazioni di fuga, quindi di abbandono del paziente o di aggressività, spesso sconfinante nell’accanimento terapeutico. Umanizzare la medicina significa invece: curare l’uomo, il malato e non la malattia; farsi carico della sofferenza, oltre il dolore fisico; curarsi delle persone, piuttosto che curare le persone, nell’ambito di un incontro irripetibile tra due esistenze, quella del paziente e quella del sanitario. Come scrive Jaspers: «il medico non è né un tecnico, né un salvatore, bensì un’esistenza di fronte ad un’altra esistenza, un essere umano caduco accanto ad un altro, impegnato a portare nell’altro e in se stesso la dignità e la libertà per l’essere e a riconoscerli come criterio». Senza questo, il prendersi cura e il farsi carico rimangono soltanto slogan accattivanti quanto inutili, mentre nella realtà si continuano a erogare singole e talora anche costose prestazioni, spesso inappropriate e che, oltretutto, lasciano i pazienti insoddisfatti in quanto risposte non adeguate a bisogni complessi. Il lavoro di Patrizia Funghi suscita molti quesiti e mette in luce questioni complesse, ponendo domande sia alla politica sia ai servizi sanitari. Alle professioni il dovere di iniziare a rispondere in maniera forte, intellettualmente onesta, non emotiva, soprattutto mettendo al centro delle proprie riflessioni la persona. Riccardo Poli Medico, Direttore Società della Salute di Firenze L’infermiere 1/2010 47