MALATTIE APPARATO RESPIRATORIO
Sbobinature
SINTOMI SENTINELLA
Prof. Saltini, 01/03/09
Quello che faremo oggi è un’overview di semeiotica dell’apparato respiratorio, perché possiate mettere in evidenza i sintomi
principali che ritroverete nelle malattie di cui discuteremo in seguito. Per fare una diagnosi occorrono 3 cose: conoscere la
malattia, sapere cosa cercare e sapere come trattare. La diagnosi non è la parte più facile di tutto il processo: sbagliata la diagnosi,
è facile sbagliare tutto il resto. Nell’apparato respiratorio abbiamo sintomi e segni frequenti presenti in tutte le malattie, che vanno
conosciuti, differenziati e analizzati nel contesto dell’anamnesi, dell’esame obiettivo e dell’esame strumentale. I sintomi sono 3:
tosse, dispnea e dolore toracico. Il segno sentinella è uno (presenza di una massa palpabile). Sono presenti in quasi tutte le
malattie respiratorie, ma non solo in queste.
La tosse
La tosse è il sintomo che si trova più frequentemente, un numero elevato di pazienti che va dal medico ha tosse come sintomo
principale. In realtà è quel tipo di sintomo che se analizzato accuratamente permette di arrivare vicini alla diagnosi.
La tosse è l’espirio forzato nel quale il paziente a corde vocali il più chiuse possibile espira per eliminare quello che c’è
nell’apparato respiratorio. La tosse è una sequenza di eventi caratterizzata da profonda inspirazione, espirazione forzata con una
fase compressiva e una impulsiva con rilascio di una colonna d’aria ad alta pressione e a glottide aperta. I recettori per la tosse si
trovano nel timpano, nell’orofaringe, nella laringe e nell’albero respiratorio. Punti di massima stimolazione: laringe, trachea,
carena tracheale, biforcazioni bronchiali (massima concentrazione di recettori). Nel polmone periferico in realtà non c’è stimolo
per la tosse (i polmoni non tossiscono, lo fanno solo i bronchi). La tosse può essere attuata o repressa volontariamente o indotta
forzatamente dall’esterno. Ci sono diverse vie nervose che trasmettono stimoli provenienti da stimoli irritativi attraverso le fibre
mieliniche del Vago.
Gli stimoli che inducono la tosse sono: il particolato (polveri), i gas irritanti (tipica la tosse della casalinga che mette troppa
varechina sul pavimento e troppo cloro e i vapori acidi o alcalini possono indurre la tosse), stimoli infiammatori (istamina),
contatto con il muco stesso, fumo di sigaretta (più comune stimolo per la tosse, sia in chi fuma che in chi non fuma). Se voi
prendete la popolazione generale che si dice contenga un 5-8% di soggetti con allergia respiratoria di vario genere e un 3-5% di
persone con bronchite cronica e le fate passare davanti all’aula di medicina dove tutti gli studenti fumano, il 90% di queste
persone avrà un attacco di tosse. La tosse di per sé è capace di causare alterazioni respiratorie e quindi un attacco di tosse può
scatenare un attacco d’asma e così via. La tosse è scatenata da irritanti che sono localizzati nelle mucose delle vie respiratorie.
Abbiamo un controllo volontario e uno involontario della tosse, con l’innervazione vagale che porta al centro della tosse che
proviene dalle biforcazioni bronchiali e non dal polmone.
Funzione della tosse: liberare l’albero respiratorio da oggetti estranei: polvere, pollini e quant’altro. Quello che in realtà
comunente succede è che la tosse serve e disperdere il muco che intrappola sostanze aerogene. Nei soggetti con ipersecrezione di
muco (bronchitici cronici e asmatici), la tosse è il meccanismo che permette di liberare l’albero respiratorio dal muco. Quando la
tosse diventa inefficace (es. pazienti tracheostomizzati o pazienti con problemi di motilità delle corde vocali) il muco si accumula
e può causare tutta una serie di problemi.
Le cause che portano ad una tosse inefficace sono: alterazioni della parete toracica (ad es. fratture costali), paralisi dei muscoli
toracici, depressione dei centri nervosi del respiro e della tosse (non c’è stimolo centrale), quando ci sono alterazioni che causano
la compressione delle vie respiratorie. Quando avete un paziente con un gozzo intratoracico, questo può essere talmente grande da
occupare parte della gabbia toracica e comprimere la trachea. In questo caso può esserci difficoltà a tossire. Oppure quando ci
sono malattie bronchiali che causano broncocostrizione. La tosse c’è, ma il meccanismo è alterato perché i bronchi sono più stretti
e non permettono un normale passaggio d’aria e di muco. Ci sono una serie di condizioni in cui il paziente non è capace di tossire.
I due esempi più comuni sono: il paziente con malattia neuromuscolare polmonare (non tossisce, è intubato e immobile), il
paziente con la costola rotta (non può tossire perché sente dolore), il paziente con asma (non tossisce perché l’aria non esce dai
bronchi). Se l’atto della tosse non riesce a generare una velocità dell’aria sufficiente, la tosse si dice inefficace. La conseguenza è
il ristagno di secrezioni nei polmoni. Esistono condizioni in cui c’è ristagno che porta a due fenomeni patologici comuni: la
polmonite da ristagno di secrezioni (se c’è secrezione e ristagno durante un’infezione) e l’atelettasia (addensamento del polmone
che perde il suo contenuto aereo, può essere causato da ristagno di muco nei bronchioli periferici).
La tosse di per sé è un meccanismo di difesa, ma può determinare problemi. Può essere causa di sovrastimolazione respiratoria
nei pazienti con infiammazione bronchiale, ostruzione bronchiale o iper-reattività bronchiale (asma). Un attacco di tosse può
scatenare ad esempio un attacco d’asma. In questo caso la tosse è causa di alterazioni respiratorie e non effetto. Può causare ernia
polmonare, trauma alla laringe. La tosse convulsa può causare alterazioni gravi, come la rottura di una bolla di enfisema, con
pneumotorace o enfisema mediastinico. Lo pneumotorace è determinato dalla rottura di una bolla sottopleurica con passaggio
d’aria dal polmone alla pleura e collasso del polmone. Si può avere anche la fenestrazione di un bronco con passaggio d’aria alle
strutture connettivali peribronchiali (mediastino, nella fattispecie). Si può avere enfisema sottocutaneo, per traumi nei bronchi. La
conseguenza più grave è lo pneumotorace. Esistono altre complicazioni secondarie come ipotensione, bradiaritmia per
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stimolazione vagale, alterazione della posizione dei cateteri, rottura di vene sottocutanee, capillari, alterazioni della minzione
(soprattutto in persone di una certa età).
Le condizioni patologiche che portano alla tosse sono innumerevoli: possiamo avere tosse per alterazioni non polmonari o
polmonari.
Diagnosi differenziale: tosse acuta (causata da una malattia acuta, dura meno di 3 settimane) e tosse cronica (di durata maggiore
di 3 settimane).
La tosse acuta può essere causata da alterazioni delle vie aeree superiori: infezioni virali e batteriche (raffreddore), agenti
ambientali (spesso allergeni), asma (malattia ingannevole perché è per definizione cronica ma accessionale, si hanno attacchi
d’asma per diversi motivi e possono trarre in inganno il medico perché vengono catalogati come raffreddori o tracheiti). La tosse
può derivare dalle vie respiratorie inferiori: polmonite, BPCO, asma senza rinite. La maggior parte dei casi di asma comprende
pazienti affetti di allergie. La rinite è il primo segno di allergia, insieme all’asma. Abbiamo anche embolia cronica polmonare,
scompenso cronico congestizio. L’emobolia polmonare è caratterizzata da tosse, dispnea e dolore. La tosse è acuta e causa dolore
(si accompagna a interessamento pleurico).
Le tossi croniche sono tipiche dell’asma, della rinosinusite con scolo di muco retronasale (causa più comune di tosse nei
bambini), reflusso gastro-esofageo (che si accompagna a corde vocali arrossate e infiammate e laringe infiammata), bronchite,
bronchiectasie, carcinoma bronchiale (che soprattutto quando è centrale colpisce i grossi bronchi e causa tosse). La tosse da
carcinoma bronchiale è da distinguere dalla tosse mattutina del fumatore, considerata parte della sua abitudine al fumo. Poi fibrosi
polmonari (tosse da distorsione dei bronchi, insistente (un vero flagello personale per questi pazienti). Importante lo scompenso
cardiaco sinistro con edema polmonare, può causare anche i sintomi dell’asma notturno. Infine alcuni farmaci: inibitori dell’ACE
che si usano per l’ipertensione (farmaci di largo consumo).
L’anamnesi è critica per la diagnosi differenziale. Per le malattie respiratorie, il rapporto polmoni-ambiente è fondamentale per la
comprensione della malattia e dello stesso paziente. Se si ha un paziente che tossisce e ci si limita a chiedergli perché, come e
quanto tossisce, si arriverà difficilmente alla diagnosi. Si deve anche chiedere dove lavora ecc. L’esposizione al fumo di sigaretta
(proprio e altrui) è la prima delle esposizioni ambientali che causa, aggrava e modifica la patologia respiratoria. Quindi il medico
deve per prima cosa informarsi sulla sua abitudine al fumo e sulla sua esposizione al fumo passivo. Se all’anamnesi si ha una
storia di assunzione di farmaci che possono indurre la tosse, si può provare a sospendere l’assunzione del farmaco o fare una
radiografia del torace.
Esami strumentali. Visto che il polmone è trasparente ai raggi X, tutto quello che c’è in più rispetto all’aria si possono vedere
eventuali danni. Però l’RX torace espone a radiazioni, quindi va usata con parsimonia. Se l’RX è anormale e voi non siete un
medico televisivo che guarda il paziente e fa diagnosi subito (come il Dr House), bisogna fare l’esame dell’espettorato: secondo
esame da fare dopo un RX anormale. Ci sono alcuni altri sintomi e segni da cui farsi guidare. L’esame dell’espettorato vi può dire
se ci sono batteri o cellule indicative di patologie particolari. Se avete una macchia del polmone, l’esame citologico
dell’espettorato può dirvi se c’è o non c’è una neoplasia del polmone.
Se avete un esame radiografico anormale che non sia chiaramente una polmonite batterica tale che con 8 giorni di
antibiotico risolvete il quadro, l’esame successivo da fare è la broncoscopia. È un esame col quale esplorare l’albero respiratorio
usando un sistema a fibre ottiche. Si vedono alterazioni della mucosa, ostruzioni del calibro dei vasi, si può aspirare materiale per
l’esame istologico, citologico ecc. Non è un esame divertente per chi lo subisce ma neanche terribile. In realtà è come una
gastroscopia. Se avete tosse cronica, bisogna escludere che il paziente abbia il raffreddore o un attacco di asma allergico o abbia
lavato il pavimento con una mistura di acido solforico, cere e altro. Se c’è il sospetto di un’allergia dovete fare il test per
l’allergia. Per l’asma dovrete fare una spirometria.
La spirometria permette di valutare la funzione ventilatoria, cioè il meccanismo di pompa del polmone. Si valuta
l’inspirazione, l’espirazione, i flussi e i volumi. Si valuta la capacità ventilatoria del polmone, prima e dopo stimolazione con
farmaci che inducono il broncospasmo o broncodilatatori. Se il paziente fa la spirometria, ha un flusso espiratorio ridotto
(caratteristico di asma e bronchite cronica), gli diamo un broncodilatatore (un derivato dell’adrenalina) e migliora, questo ci dice
che l’ostruzione bronchiale è reversibile. Se non migliora, avrà un’ostruzione bronchiale irreversibile. Il test alla metacolina
(analogo dell’acetilcolina, stimolatore vagale che induce broncospasmo) viene usato perché il paziente potrebbe avere tosse in
modo episodico: il paziente può andare dal medico con un broncospasmo e arrivare dallo specialista a crisi già passata. Il test
della metacolina serve perché induce il broncospasmo solo in persone con iper-reattività bronchiale (asma in primis). Se noi
usiamo una dose alta di metacolina ognuno di noi avrà broncospasmo; a dosi basse solo chi ha broncospasmo.
L’esofagografia e la gastroscopia con monitoraggio di pH possono essere necessari per fare diagnosi di tosse cronica
con spirometria normale e RX normale, perché il reflusso gastro-esofageo è causa frequente di tosse cronica.
La fibro-broncoscopia è l’ultimo esame per fare diagnosi di tosse anche con RX torace negativo: un tumore bronchiale
può non essere sufficientemente grande da causare atelettasia e collasso del polmone a valle del bronco ostruito e non vedersi alla
radiografia. Può vedersi in una TAC. Mentre la broncoscopia può arrivare fino ai bronchi segmentari e sub-segmentari, tutti i
tumori abbastanza centrali possono essere visti. Serve anche una valutazione cardiologia, può essere risolutiva per tossi di origine
cardiaca e non respiratoria. La tosse può essere sintomo di malattia cardiovascolare, gastroesofagea e tante altre cose.
Dispnea
Secondo sintomo che si trova in pazienti con malattie respiratorie. La dispnea è la sensazione soggettiva di disagio del respirare
che comprende sensazioni diverse e di diversa intensità. Il senso di dispnea che percepisce il paziente deriva da una quantità di
fattori psicologici, sociali e ambientali che possono indurre una percezione o un comportamento diverso. Insomma è un sintomo
estremamente soggettivo. Ci sono varianti dello spirometro che misurano la tosse, invece la dispnea non è quantificabile. La
dispnea è il sintomo che mette il paziente in uno stato di allarme circa il suo sistema respiratorio. Mancanza d’aria, sensazione di
polmoni che bruciano, respirare con difficoltà o con fatica o altro. Difficile da esprimere perché percepita in modo diverso.
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Abbiamo pazienti che percepiscono la dispnea col primo colpo di tosse e altri che si adattano e non percepiscono la dispnea prima
di arrivare a basse saturazioni. L’alterata percezione mette in pericolo sia il paziente che il medico (il paziente vi affliggerà la
mattina e la sera perché non respira). Pazienti cronici si adattano e possono avvertire di meno la dispnea, anche eliminando tutto
ciò che può causare affanno. In genere la dispnea intesa come fiato corto (e relative varianti) va messa in conto soprattutto se il
paziente si muove poco e non è obeso.
La dispnea è un sintomo complesso a genesi multifattoriale e implica tutta una serie di fattori come la percezione della malattia,
della propria relazione con la malattia, la propria storia clinica e personale. Correla con la capacità respiratoria e con la misura dei
test da sforzo e degli esami cardiologici. Può essere acuta o cronica e presente a riposo o sotto sforzo. Sono due eventi diversi,
spesso la dispnea da sforzo è il primo segno di una malattia cronica che darà dispnea a riposo o di una malattia episodica come
l’asma in cui si avrà sempre dispnea solo sotto sforzo.
Cause della dispnea: più delle cause della tosse. La dispnea va vista nel complesso di un esame clinico completo e non deve
essere presa con facilità. Può essere causata da alterazioni della meccanica respiratoria (come l’ostruzione al flusso aereo), esiti di
pleurite con fibrosi pleurica, fibrosi interstiziale, scompenso cardiaco, cifoscoliosi (causa alterazioni ventilatorie), obesità (per
aumento della richiesta metabolica e per la massa di tessuto adiposo che circonda la gabbia toracica e impediscono la motilità del
diaframma). Tutto ciò che causa difficoltà alla ventilazione e altera la meccanica della ventilazione per alterazioni del
meccanismo di pompa (esiti di poliomielite, malattie neuromuscolari), causa dispnea. Altre cause di dispnea per alterazione del
meccanismo di pompa: enfisema (determina iperinsufflazione d’aria), versamento pleurico, pneumotorace. Altre cause: malattie
metaboliche che causano acidosi e renali, anemie, diminuzione della funzione cardiaca (marcata dispnea da sforzo), malattie in
cui si avverte dispnea perché il centro respiratorio è iperfunzionante (disfunzioni psicologiche tipo ansia o depressione o
“sindrome da indennizzo” = malattia nelle quali la dispnea non è più percepita quando è sentito il sonante tintinnio del rimborso).
Ricapitolando, ci sono cause respiratorie, cardiache, ematologiche, metaboliche o psicogeniche.
L’anamnesi contempla la persistenza del sintomo, la presenza di eventuali fattori aggravanti, i tempi di insorgenza (la dispnea
notturna è tipica dell’asma, soprattutto dell’asma notturno da reflusso gastroesofageo), eventuali sforzi, la postura ed eventuali
terapie farmacologiche in corso. Pazienti seduti sul bordo del letto per scaricare l’eccesso di liquidi sugli arti inferiori e respirare
meglio, tipico paziente cardiopatico. Rimettendolo sdraiato, ricomincia a tossire. Per quanto riguarda la postura, si deve
differenziare l’ortopnea (il paziente deve stare diritto per poter respirare, ad es. nell’edema polmonare) dalla platipnea (il paziente
deve stare sdraiato per poter respirare, ad es. nello shunt interatriale e nella cirrosi epatica che può causare shunt intrapolmonare
diffuso). L’ortopnea è molto più comune.
Diagnostica strumentale. Misurazione della funzionalità respiratoria (spirometria, diffusione di gas, emogasanalisi, test da sforzo
cardiorespiratorio, stimolazione bronchiale, massima pressione inspiratoria). Esiste un test per misurare il passaggio di gas
dall’aria al sangue capillare: se avete un paziente con il 30% della diffusione che dovrebbe avere in base a età, peso ecc. questo
può indirizzare verso la possibile causa della dispnea. Il test da sforzo più semplice è il test del cammino dei 6 minuti: se il
paziente ha problemi di ossigenazione si ferma prima dei 6 minuti o si vede con un pulsossimetro che la sua saturazione può
scendere al di sotto degli 80. Si può valutare la circolazione polmonare con una scintigrafia perfusionale o una angio-TAC per
vedere le diramazioni dei grossi vasi. Valutazione gastroenterologica (per dispnea da reflusso gastro-esofageo), esame
otorinolaringologico (dispnea da pressione alta, alterazioni delle corde vocali). Esiste la sindrome della dispnea da alterazione
delle corde vocali che si muovono in modo anormale e ostacolano il passaggio d’aria. Possono esserci dispnee da apnea notturna e
dispnee di origine psichiatrica.
Trattamento (della malattia di origine, non esistono antidispnoici): farmacoterapia, ossigeno-terapia, riabilitazione, nutrizione,
chirurgia.
Quantificazione della dispnea: misure fatte chiedendo al paziente come respira. Si può usare la scala di Borg (0 = nessuna
sensazione, 10 = dispnea massimale), si fa compilare il quiz al paziente 4 volte (alla fine impara). Viene usata soprattutto in
riabilitazione per vedere quanto migliora. Insomma, si può misurare ma usando parametri soggettivi. Importante soprattutto per
valutare i risultati di una terapia.
Cianosi
Colorazione bluastra della pelle che deriva dall’eccesso di Hb non ossigenata del sangue, segno principe dell’insufficienza
respiratoria cronica. Si vede nel paziente cronico perché serve tempo per accumulare Hb non ossigenata. Al giorno d’oggi la
cianosi è meno frequente per il livello di assistenza e di cure (es. ossigeno-terapia a lungo termine). Avendo poco ossigeno, si ha
aumento dell’eritropoiesi (succede anche nell’acclimatazione) per stimolazione midollare e la cianosi è più visibile. La cianosi
vera comporta poliglobulia: è quantitativamente correlata con la quantità di Hb non ossigenata nel sangue. In un paziente anemico
sarà difficilmente visibile.
Tachipnea
Aumento della frequenza respiratoria, meccanismo normale di compenso di cui vivono tutti gli atleti (tachipnoici al massimo
dello sforzo e bradipnoici a riposo)
Dolore toracico
Altro grande sintomo insieme a tosse e dispnea. Molto spesso il dolore toracico ha una causa facilmente riconoscibile, comunque
esistono sindromi dolorose difficilmente diagnosticabili. Può insorgere anche in assenza di un danno riconoscibile. Sintomo
frequente (12%), non unitamente respiratorio. Dolore che più spesso portano il paziente dal medico, motivo specifico.
Cause: infezioni, embolia, pneumotorace ecc.
Dolore pleurico percepito come puntorio, che si accentua con gli atti respiratori. La pleura parietale e quella viscerale sono
continuamente a contatto e scivolano. In presenza di alterazioni della superficie sfregano e questo causa dolore.
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Dolore costo-condrale viene percepito come dolore della parete. Dolore da neurite, infezione da Herpes, malattie della colonna.
Più importante dei dolori del cingolo scapolare: dolore da sindrome di Pancoast (determinata da tumore all’apice del polmone che
causa dolore toracico apicale e alcune manifestazioni neurologiche). Primo segno in un tumore polmonare.
Tumore propriamente da gabbia toracica: primo fra questi la frattura costale.
Dolori di origine cardiaca: da ischemia, da valvulopatia, dolore pericardio e altri dolori percepiti come dolore toracico.
Dolore di origine gastro-intestinale come colecistite (dolore tipo pleuritico) ulcera peptica e pancreatite, a parte il reflusso gastroesofageo.
Dolore di origine psichiatrica: dolore anginoso da somatizzazione, iperventilazione, ansia ecc.
Tipi di dolore toracico: acuto (pneumotorace spontaneo = dolore secco, puntorio, a trafittura da spada; embolia polmonare per
ostruzione di un’arteria polmonare; polmonite tipica da pneumococco) e subacuto (TBC, neoplasie = dolore per metastasi o per
infiltrazione pleurica).
Emottisi
Presenza di sangue nell’espettorato. Emissione di sangue rosso vivo o schiumoso (emoftoe). Tipica della TBC. Presente anche in
caso di cancro bronchiale, polmoniti varie, bronchiectasie, infarto polmonare, vasculiti (emottisi alveolare diffusa), aspergilloma.
Ora è più frequente l’emottisi da tumore bronchiale.
FISIOPATOLOGIA E PROVE DI FUNZIONALITÁ
Prof. Rogliani, 03/03/09
Espirazione e inspirazione
Pressione intrapleurica = pressione nello spazio pleurico, negativa, dovuta alla mancanza d’aria. Pressione transpolmonare =
differenza delle pressioni attraverso le pareti polmonari. Il gradiente tra pressione intrapolmonare e intrapleurica garantisce
l’armonico movimento del complesso polmone-gabbia toracica. L’inspirazione è un processo attivo, l’espirazione è un processo
passivo nel caso dell’espirazione tranquilla, un processo attivo nel caso dell’espirazione forzata. L’inspirazione è dovuta alla
contrazione del diaframma, che determina verticalmente un aumento del volume toracico. Lo sterno si muove anteriormente verso
l’alto per aumentare il volume durante la fase inspiratoria, mentre le coste si muovono lateralmente verso l’alto. Questo grazie ai
muscoli intercostali e parasternali. La riduzione di P negli alveoli fa arrivare l’aria nel compartimento alveolare dalle alte vie.
Nella fase inspiratoria nell’alveolo si ha una riduzione Di P da 0 a –3 mmHg.
Nell’espirazione si ha retrazione dei muscoli messi in gioco nella fase inspiratoria e una riduzione di volume polmonare con un
aumento delle pressioni dal compartimento alveolare che determina fuoriuscita d’aria dai polmoni (da –3 a +3mmHg).
Compliance e parametri spirometrici
La compliance è la distensibilità del polmone, rappresentabile nel grafico pressione-volume del polmone. A volumi polmonari più
alti, la compliance tende a ridursi (necessaria un’elevata pressione per ottenere piccole variazioni di volume). Polmoni e gabbia
toracica in questa fase formano un complesso unico e solidale.
Durante la respirazione tranquilla a ogni atto respiratorio la quantità d’aria che viene immessa ed emessa dal polmone è definita
volume corrente (VC). La capacità polmonare totale (CPT) è di 6 litri. Una inspirazione profonda consente di aumentare al
massimo il volume polmonare fino a raggiungere la CPT. Quando si fa un’inspirazione forzata i polmoni non collassano, ma c’è
sempre una minima quantità d’aria che rimane al loro interno, chiamata volume residuo (VC, 1-1.2 litri). Esiste anche una quota
di aria che rimane nelle vie di conduzione (nei bronchi), non disponibile per gli scambi gassosi e pari a 150ml (spazio morto
anatomico, SMA). Esiste anche lo spazio morto fisiologico (SMA + quantità di aria che raggiunge unità alveolari non per fuse). I
vecchi spirometri erano a campana: il soggetto è invitato a espirare in un boccaglio collegato a una campana collegata a un
pennino che viene mossa in alto e in basso. Quando si passa dall’espirazione forzata all’inspirazione forzata, si registra la capacità
vitale (CV). Sommata al VR, dà la capacità polmonare totale (CPT).
Normalmente le zone basali del polmone sono più ventilate di quelle apicali, ciò è dovuto a ragioni gravitazionali (se il soggetto è
in posizione supina, le porzioni in alto ventileranno di meno di quelle poste in basso), perché l’aria tende ad andare verso il basso
e il sangue verso il basso. Le basi del polmone sono più perfuse e gli apici più ventilati. Gli apici ventilano di meno perché sono
iperinsufflati. Ci sono diversi valori di depressioni intrapleurica a diversi livelli del polmone (differenza pressioria di 10cm H2O
tra le basi e gli apici). Le regioni basali sono più distendibili: servono pressioni maggiori per piccole variazioni di volume.
Aspetti dinamici della ventilazione
Dati essenzialmente dalla resistenza tissutale al processo di ventilazione e dalla resistenza delle vie aeree. La resistenza tissutale
in condizioni normali ha in condizioni normali un’importanza trascurabile, aumenta in soggetti gravemente obesi, nella
cifoscoliosi, in condizioni patologiche come la fibrosi polmonare e le interstiziopatie (va ad alterare il processo della diffusione
stessa). La resistenza delle vie aeree costituisce uno dei fattori capaci di esercitare la maggiore influenza sulla capacità
respiratoria. La resistenza determina la caduta di pressione alle due estremità di un bronco, espressa dalla relazione R = P/Q
(pressione / flusso). La resistenza al flusso laminare è direttamente proporzionale alla lunghezza del tubo e inversamente
proporzionale alla potenza del raggio del tubo. La situazione che si realizza nella trachea, nei bronchi principali, segmentali fino
ai bronchioli terminali è diversa a seconda del calibro. Abbiamo nelle grandi vie aeree un flusso turbolento dovuto al maggior
calibro della trachea rispetto a quello delle vie aeree più a valle, mentre un flusso laminare si verifica appunto nelle piccole vie
aeree. Piccole riduzioni di calibro aumentano la resistenza alle vie aeree. La resistenza determina un impedimento al flusso
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dell’aria: è un elemento importante al fine di una corretta ventilazione. Nei bronchioli terminali (vie aeree con calibro inferiore a
2mm), la resistenza si riduce. Sono più rappresentate le vie aeree di piccolo calibro, perché più numerose e maggiormente
distribuite e ramificate. Le resistenze nell’albero bronchiale variano durante le fasi della respirazione. Nell’inspirazione, il
progressivo aumento del volume polmonare determina un lieve aumento del calibro bronchiale. Nell’espirazione, all’inizio
aumenta la pressione (nel cavo pleurico e negli alveoli + pressione dovuta al ritorno elastico).
Diffusione dei gas
La diffusione dei gas attraverso la membrana alveolo-capillare si attua in maniera passiva e il passaggio è bidirezionale. La
membrana alveolo capillare è sottilissima, l’alveolo è formato da pneumoniti di I ordine (80%) con citoplasma sottilissimo,
mentre i capillari polmonari sono dotati di endotelio fenestrato. Sono talmente piccoli che i globuli rossi devono deformarsi
mentre passano. In alcuni tratti la membrana del globulo rosso è adesa alla parete dell’alveolo stesso, per garantire la diffusione
dei gas. Lo spessore che il gas deve attraversare deve essere minimo. Il principio che regola la diffusione dei gas attraverso la
lamina di tessuto è la legge di Fick (“la quantità di gas che diffonde in un tessuto nell’unità di tempo è direttamente proporzionale
all’area di tessuto e alla differenza di concentrazione del gas nei due versanti, mentre è inversamente proporzionale allo spessore
del tessuto”). La diffusione dei gas respiratori è agevolata dalle caratteristiche della superficie di scambio (ampia area e ridotto
spessore per le caratteristiche anatomiche). La diffusione dei gas dipende dal gradiente presso rio (gradiente di O2: 100mmHg
alveolare – 50mmHg tissutale). Sangue venoso nei capillari: 46mmHg per la CO2. Il gradiente è di 50mmHg per l’ossigeno e
6mmHg per l’anidride carbonica. In condizioni normali sia l’ossigeno che l’anidride carbonica diffondono rapidamente attraverso
la membrana alveolare. Quando il sangue venoso arriva all’alveolo, basta solo 1/3 del tempo che permane accanto all’alveolo per
ossigenarsi e scaricare l’anidride carbonica. In condizioni di sforzo aumenta la velocità del sangue ma visto che lo scambio
avviene in tempi brevissimi, si ha sempre un’ossigenazione normale. Solo in una condizione fisiologica non si riesce in esercizio
a ossigenare in maniera adeguata: in alta montagna (le pressioni sono ridotte).
La curva di saturazione dell’emoglobina viene misurata clinicamente con il saturimetro e si sposta a destra o a sinistra in varie
situazioni. Le condizioni che alterano l’andamento della curva sono principalmente il pH (in acidosi si ha uno spostamento a
destra della curva e quindi una maggiore affinità per l’Hb per l’ossigeno e diversi valori di PaO2 in relazione alla saturazione; in
alcalosi respiratoria si ha uno spostamento verso sinistra). Ai valori normali di PaO2 vigenti in alveolo, la percentuale di
saturazione dell’Hb si aggira intorno al 100%. Un incremento della PaO2 ha effetti trascurabili sulla percentuale di saturazione
dell’Hb. La dissociazione dell’Hb per la CO2 ha un andamento lineare e non sigmoide.
Perfusione
Il piccolo circolo è un sistema vasale a bassa resistenza, costituito da arterie con struttura a struttura prevalentemente elastica
regolate in senso vasomotorio da arteriole precapillari. Si distribuisce in un gran numero di capillari in cui i globuli rossi scorrono
in un’unica fila, al punto di dover deformare la loro forma per poter passare. Nel piccolo circolo vige una bassa pressione: la
circolazione polmonare risente in modo spiccato della forza di gravità.
Nel polmone distinguiamo 3 zone. Una zona superiore (dove la P alveolare è più alta di quella arteriolare e venulare, qui la
circolazione è ridotta e si ha un rapporto ventilazione/per fusione elevata, è più una zona di riserva che una zona che partecipa allo
scambio di gas), una zona media e una zona inferiore (più perfusa, partecipa maggiormente allo scambio di gas).
Oltre alla forza di gravità esistono altri fattori in grado di interferire nella regolazione della perfusione polmonare: l’arteriolocostrizione da stimolazione ipossica. La riduzione di ossigeno può determinare una costrizione arteriolare. Altre condizioni:
aumento della pressione atriale sinistra, acidosi. Il polmone è dotato del circolo arterioso bronchiale che provvede all’irrorazione
delle vie aeree, mentre la pleura viscerale è irrorata dal circolo polmonare.
Prove di funzionalità respiratoria
Prove di funzionalità ventilatoria permettono di misurare i volumi statici e dinamici del polmone, prove di funzionalità
respiratoria permettono di misurare gli scambi gassosi e quindi la capacità di diffusione del polmone.
Indicazioni. Si fanno per fare diagnosi di patologie polmonari (es. la BPCO, il concetto di ostruzione è funzionale e la diagnosi
non si fa clinicamente né anamnesticamente, ma funzionalmente, cioè con la spirometria che evidenzia l’ostruzione al flusso delle
vie aeree). Ci permette di seguire nel tempo le patologie polmonari (valutazione della gravità e dell’evoluzione della patologia).
Oltre alla BPCO, usate per valutare patologie come le interstiziopatie (quadri restrittivi, esatto opposto del quadro ostruttivo).
Usate anche per valutare il rischio respiratorio (e la capacità ventilatoria del paziente, importante per la fase intra- e postoperatoria) e per valutare l’invalidità del paziente a scopi assicurativi.
Controindicazioni. Emottisi (si aumentano le pressioni, si forzano i gradienti pressori e questo può aumentare il problema),
pneumotorace, recenti interventi addominali (potrebbero strapparsi i punti), traumi toracici, infarti cardiaci, interventi oculari ecc.
Tracciato spirometrico. VC = 500ml, VRI (volume di riserva inspiratoria = volume di aria mobilizzabile al di sopra di un VC),
VRE (volume di riserva espiratoria = volume di aria mobilizzabile al di sotto del VC), CV (capacità vitale = max volume di aria
espirato completamente dopo un’inspirazione massimale).Questi sono i volumi polmonari mobilizzabili. I volumi polmonari
statici invece sono la CFR (capacità funzionale residua = massima quantità di aria contenuta nel polmone al termine di
un’espirazione tranquilla), VR (volume residuo = quantità di polmone residua dopo un’espirazione massimale), CPT (capacità
polmonare totale = massima quantità di aria contenuta nel polmone all’apice di un’inspirazione massimale).
Curva flusso-volume. Test di espirazione forzata. Al paziente viene fatta eseguire una manovra di inspirazione massimale e di
successiva espirazione massimale. Fornisce dati importanti, che permettono anche di fare diagnosi. È una curva di volume su
tempo. Dividiamo il tempo in secondi. Se tracciassimo una ipotetica linea a livello del primo secondo nella fase espiratoria,
abbiamo uno dei parametri più importanti nella patologia ostruttiva, il VEMS o FEV-1 (volume espiratorio massimo al 1°
secondo). Insieme alla CV, forma un rapporto che si chiama “indice di Tiffenau”. Al primo secondo bisogna avere espulso circa
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l’80% della capacità vitale. È un indice di ostruzione. Corrisponde al rapporto VEMS/CV x 100 = 80%. Parliamo di ostruzione se
<80%. Il FEV-1 ci dice di che grado è l’ostruzione. Comunemente è accettato anche VEMS/CVF. È possibile rappresentare la
manovra di espirazione forzata con una curva flusso-volume. Ad ogni momento si riporta il flusso istantaneo e il volume
corrispondente. Nella fase espiratoria, la velocità di flusso aumenta fino al massimo della curva, ma non oltre il fenomeno della
compressione dinamica delle vie aeree.
Curva flusso-volume ostruttiva. La curva ha un andamento “a dito indice”, si riduce il FEV-1. Si ha un picco e una brusca
riduzione dei flussi, è come se le vie aeree si chiudessero anzitempo.
Curva flusso-volume restrittiva. Nel deficit restrittivo (che si realizza nelle interstiziopatie e nella fibrosi polmonare, ma le vie
aeree non sono toccate) si ha una riduzione armonica di tutti i flussi. La morfologia della curva rimane molto simile a quella
normale, ma è tutto più piccolo. Si hanno aumentate pressioni di ritorno elastico, velocità di flusso ridotte e normale calibro delle
vie aeree. Avremo diminuita CVF, diminuito il VEMS e indice di Tiffenau normale. Nel deficit ostruttivo possiamo avere una
CVF normale o leggermente diminuita con un VEMS diminuita di molto. Il Tiffenau in questo caso è diminuito (<80%).
Per quanto riguarda i flussi statici, la curva flusso-volume ci dice se il paziente è ostruito e ha una BPCO (asma, bronchite
cronica, enfisema). Però non sappiamo quale delle 3. Ci aiuta l’approfondimento funzionale con la valutazione dei volumi statici,
che si fa in pletismografia. Se il paziente è enfisematoso, c’è distruzione del parenchima polmonare e si avrà una quota di aria
intrappolata nel polmone notevolmente superiore a condizioni fisiologiche. Avremo che la quota di aria che permane nel polmone
e non partecipa agli scambi sarà aumentata. L’enfisematoso avrà il VR aumentato. Se il VR è normale, dobbiamo capire se il
paziente è un asmatico o un bronchitico cronico. In un disordine di tipo restrittivo, sarà diminuito il VR (nel fibrotico, ad es. il
polmoni sono più piccoli e meno elastici), diminuita anche la CPT (CV + VR) e l’indice di Motley (VR/CPT) sarà normale.
Nell’insufficienza ventilatoria di tipo ostruttivo, il VR sarà aumentato. Se sarà aumentato di molto (es. il 200% del normale),
siamo sicuri che il nostro paziente è un enfisematoso. La CPT è normale o lievemente aumentata e l’indice ti Motley sarà
aumentato. È diverso dire “insufficienza ventilatoria” da “insufficienza respiratoria”. L’insufficienza ventilatoria è divisa in
ostruttiva (BPCO, asma, bronchiectasie) e restrittiva (interstiziopatie, patologie della gabbia toracica, patologie neuromuscolari,
lesioni occupanti spazio). Per quanto riguarda le BPCO, ci sono scuole che mettono l’asma nelle BPCO e altre che lo tengono
fuori. La spirometria deve essere fatta in centri altamente qualificati, perché uno dei problemi è la precisione e l’accuratezza. Tra
un laboratorio e un altro possono esserci alterazioni nella tecnica di esecuzione. Possono esserci variazioni tali da non permettere
una diagnosi o un follow-up della patologia.
Le prove di funzionalità respiratorie registrano dei volumi. I valori rappresentano una certa percentuali rispetto ai teorici. Ci sono
3 colonne di numeri accanto al valore da misurare, tra cui il teorico (stabilito su criteri internazionali, varia a seconda di peso,
sesso, razza ecc.).
Test di broncodilatazione forzata. Torniamo al paziente con VR normale. Per capire se è un asmatico o un bronchitico cronico,
serve un altro esame, il test di broncodilatazione o reversibilità. Permette di vedere se l’ostruzione bronchiale è reversibile o no. Il
nostro bronco è ancora capace di tornare ad una situazione fisiologica o no. L’asmatico ha un’ostruzione reversibile: con l’utilizzo
di β-2 agonisti come il ventolin, cioè il salbutamolo, ripetendo la prova dopo 15-20’ si ha un incremento della funzionalità
respiratoria superiore a 200ml. Il suo bronco ha una capacità di aumentare nuovamente il calibro. Il bronchitico cronico è
parzialmente reversibile o non reversibile. L’enfisematoso non è reversibile. Se il FEV-1 è aumentato di 200ml (12%) rispetto al
valore basale, ma resta sotto all’80% teorico, si ha un bronchitico cronico parzialmente reversibile. Se il FEV-1 aumenta meno del
12%, si ha la BPCO non reversibile (enfisema o bronchitici cronici di lunga data).
Test di provocazione bronchiale. È l’esatto contrario del test di reversibilità. Abbiamo un soggetto giovane che descrive in
ambulatorio una sintomatologia di tipo asmatico. Lo visitiamo e non sentiamo niente. Gli facciamo una spirometria e viene fuori
normale. In quel caso come faccio a dire se è un ipocondriaco, uno psicopatico o ha una sintomatologia asmatica e un asma
intermittente (soprattutto se è un asma allergico o un asma da sforzo)? Induco i suoi bronchi a chiudersi. Valuto così se il soggetto
è un iperreattivo, cioè ha una maggiore sensibilità del bronco alla costrizione. Esistono delle controindicazioni assolute: sarebbe
una follia fare un test di provocazione bronchiale a un paziente con FEV-1 inferiore al 50%. Significa buttarlo nella fossa
direttamente. O anche se ha avuto un infarto nei 3 mesi precedenti, se ha un’ipertensione non controllata, un aneurismo, durante
la gravidanza ecc. Il test consiste essenzialmente nell’inalare per due minuti (durante una ventilazione a volume corrente) quantità
crescenti di un farmaco capace di indurre broncocostrizione (metacolina, in genere). Questo mettendo un’ampollina allo
spirometro. All’inizio si mette soluzione fisiologica nebulizzata (“nebbia”): se il paziente è molto sensibile può bastare a indurre
una costrizione. Viene fatta una spirometria, poi comincia la somministrazione di metacolina a basse dosi. All’inizio vengono
somministrati picogrammi, poi si va al raddoppio. A ogni quantità somministrata viene effettuata una curva flusso-volume. Si
considera significativa una caduta di VEMS o FEV-1 superiore al 20%. A quel punto si interrompe l’esame e si sentenzia che il
paziente è positivo al test della metacolina. Il test è molto sensibile e poco specifico. Se negativo escludo l’asma, ma se positivo
può essere un problema bronchiale presente non solo nell’asma, ma anche in altre patologie. Non dice se il paziente è asmatico,
ma solo se è iperreattivo.
Prove di funzionalità polmonare
Gli scambi gassosi si valutano con la diffusione e con l’emogas-analisi.
Test di diffusione. La diffusione viene praticata nel laboratorio di fisiopatologia respiratoria (soffiando in un tubo). Il processo di
diffusione dell’ossigeno e dell’anidride carbonica dall’ambiente alveolare al sangue capillare e viceversa si sviluppa attraverso la
membrana alveolo-capillare. Il test di diffusione valuta l’integrità di questa barriera. La diffusione, che viene detta anche DLCO,
viene impiegata usando monossido di carbonio (CO), dotato di elevatissima affinità per l’Hb. Spiazza l’ossigeno e si lega
all’emoglobina. Non è che andiamo a uccidere il nostro paziente, non è come il tubo di scappamento di quelli che si suicidano nel
garage, viene fatta con la tecnica del singolo respiro in modo controllato. Il test di diffusione del CO viene effettuato facendo
inalare una miscela di CO a bassissime concentrazioni (0,3%) + He al 10% mediante la tecnica del single breath. Le principali
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patologie che determinano alterazioni della diffusione attraverso la membrana alveolo-capillare sono due: l’enfisema e la fibrosi
polmonare, con meccanismi diametralmente opposti.
Nell’enfisema c’è la distruzione dei setti interalveolari, quindi si creano delle grandi bolle che sono inefficienti e inefficaci per la
diffusione dei gas. Distruggendosi le pareti alveolari, si ha una riduzione notevole della superficie di scambio. Se noi prendiamo
un bronchiolo terminale con i suoi sacchi alveolari e mettessimo su una linea retta la superficie di scambio di tutti gli alveoli,
avremo una superficie di scambio elevata. Se prendiamo un alveolo di enfisematoso, avremo una superficie di scambio ridotta. I
gas diffondono meno da un compartimento all’altro: si avrà una DLCO ridotta.
Nella fibrosi si ha aumento dell’interstizio tra alveolo e capillare per deposizione di fibroblasti, miofibroblasti e collagene.
L’interfaccia alveolo-capillare viene notevolmente ispessita, tanto che in alcune zone del polmone diventa quasi impossibile la
diffusione e lo scambio dei gas. Anche in questo caso si avrà una DLCO ridotta. Per fare diagnosi differenziale, usiamo i test della
funzionalità respiratoria. Se abbiamo un ostruito con la DLCO bassa e il VR aumentato, siamo sicuri di avere di fronte un
enfisematoso, perché il bronchitico cronico non ha la superficie ridotta, perché la superficie di scambio è rimasta integra.
Dopo aver fatto inspirare la CO, c’è un metodo di diffusione dell’He per vedere quanto CO si è legato all’Hb. Nel caso se ne leghi
poco, la diffusione è ridotta.
Emogas-analisi. Prelievo arterioso, consente la misurazione immediata dei gas principali della respirazione (ossigeno e anidride
carbonica) e del pH. L’emogas teoricamente è una pratica medica, non infermieristica (anche se in pratica gli infermieri esperti lo
fanno). Il pH è un parametro di fondamentale importanza: alterazioni minime possono essere non compatibili con la vita. I
principali organi che risentono di minimi variazioni di pH sono il SNC e il cardiovascolare. Il pH varia tra 7,35 e 7,45. Gli
idrogenioni sono specie reattive pronte a unirsi e a rompere legami con altre sostanze. Non compatibile con la vita un pH inferiore
o uguale a 7,0 o superiore o uguale a 7,8. I valori di PaO2 (80-100mmHg) sono modificabili per il fattore età. I valori di PCO2
vanno da 35 a 45 mmHg. Gli altri 2 fattori importanti da vedere sono gli ioni bicarbonato e l’eccesso basi, che sono necessari per
l’omeostasi del pH. HCO3- 22-26 mmol/L, BE (eccesso basi): +2/-2.
ASMA BRONCHIALE
Prof. Cazzola, 05/03/09
Definizione ed eziopatogenesi
Malattia infiammatoria cronica delle vie aeree, caratterizzata da episodi ricorrenti di dispnea, respiro sibilante, tosse (come
equivalente della crisi asmatica, può rappresentare l’unico sintomo), ostruzione reversibile dei bronchi (a differenza della BPCO),
iperreattività bronchiale (capacità delle vie aeree di reagire in maniera abnorme a stimoli esterni), infiltrazione di cellule
infiammatorie, rilascio di mediatori e rimodellamento strutturale delle vie aeree. È una delle malattie più frequenti in ambito
pneumologico, si stimano 300.000.000 di casi in tutto il mondo. Malattia in aumento per il riscaldamento globale e
l’inquinamento ambientale. In genere quando vediamo un paziente asmatico troviamo sempre una correlazione tra ostruzione
bronchiale e gravità dei sintomi. Però c’è un grosso problema: non ci permette di correlare proprio strettamente sintomi e gravità,
perché la percezione dell’ostruzione varia da soggetto a soggetto. Il paziente percepisce la dispnea in modo estremamente
individuale.
Riconosciamo 2 fondamentali forme di asma: allergico e intrinseco. L’asma allergico è un’atopia, positività al prick test
associata ad aumento delle IgE sieriche totali e specifiche per un determinato allergene. L’asma intrinseco è una forma molto più
frequente di quello che si possa pensare, colpisce pazienti non atopici con IgE normali. In realtà asma intrinseco vuol dire
incapacità del medico di riconoscere la malattia. [Quindi intrinseco = idiopatico, n.d.r.]. Comunque le IgE hanno un ruolo
fondamentale per l’asma. C’è una correlazione tra livello di IgE e capacità di sviluppare asma negli adulti. Circa i 2/3 dei pazienti
pneumologici sono asmatici. L’asma in realtà non è una malattia dei bambini: non cade il rischio di asma negli anziani, vengono
rilevati pazienti in cui viene diagnosticato un’asma anche a 60-65 anni. Non è così frequente come nei bambini, ma il rischio
permane. Quando un paziente ha veramente asma grave, il rischio che questo sia sostenuto da IgE aumenta. Aumentando i livelli
di IgE totali, aumenta il rischio che il paziente sviluppi asma.
Le fasi dell’asma sono sostanzialmente 4: esposizione all’allergene (che da solo non significa niente), sensibilizzazione, risposta
immediata e risposta tardiva. Ci sono delle cellule APC che ingeriscono e digeriscono l’allergene formando piccoli frammenti
peptidici che vengono presentati insieme all’MHC sulla loro superficie. Vi è il riconoscimento dalle cellule T2 che stimola la
produzione di citochine (soprattutto IL-4, IL-5 e IL-13). Le citochine stimolano la produzione di IgE specifiche per l’allergene da
parte dei linfociti B che hanno riconosciuto l’antigene. Le IgE si legano a recettori specifici dei mastociti (recettori ad alta
affinità). Questo porta al rilascio dei mediatori che sostengono le fasi del processo infiammatorio: istamina, leucotrieni,
prostaglandine, citochine che a loro volta portano al richiamo di eosinofili (quando parliamo di asma, parliamo di flogosi
eosinofila) e di fatto si instaura il quadro tipico della malattia topica. Questo vale anche per le atopie cutanee e così via, il
meccanismo è sempre lo stesso. Queste cose permettono di capire come progredisce la malattia e come intervenire
terapeuticamente. Il fatto che ci siano eosinofili nel plasma spiega perché gli asmatici sono trattati con steroidi, nella BPCO non
sono efficaci.
Abbiamo una risposta precoce e una tardiva. Le reazioni immediate sono legate al rilascio di sostanze pre-formate, i granuli dei
mastociti e dei basofili contengono istamina, TNF-α, eparina e proteasi. Queste sostanze danno i tipici sintomi iniziali, come il
fatto che il paziente starnutisca e lacrimi molto (sintomi di rinite e di congiuntivite precedono l’asma). Poi ci sono altre sostanze
che sono comunque preformate che portano entro dei minuti al respiro sibilante e al broncospasmo (prostaglandine e leucotrieni,
talmente importanti che abbiamo tutto un gruppo di farmaci inibitori usati nel trattamente dell’asma). Nel tempo si formano dei
mediatori e questo dà la risposta tardiva, che insorge dopo 6-8 ore e porta alla produzione di IL-4 e IL-13 che portano alla
produzione di muco e al reclutamento degli eosinofili. La risposta tardiva è importante: esistono test di provocazione specifica per
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capire se uno specifico allergene è in condizioni di destare una crisi nel paziente. Questo serve per capire ad es. se una sostanza
professionale è realmente capace di provocare una crisi asmatica. È importante conoscere le 3 fasi, altrimenti dopo il recupero
della funzione manderete il paziente a casa, può avere dopo 6-8 ore una crisi d’asma dovuta al rilascio di mediatori tardivi. Es. un
bambino allergico al pelo di gatto (che ha un allergene molto aggressivo) va a casa di un amico che ha un gatto. Presenta una crisi
immediata, lo portano via, torna a casa e dopo 6-8 ore viene portato al pronto soccorso per una crisi d’asma dovuta alla reazione
tardiva, a cui nessuno ci pensa. Quando ha la prima crisi bisogna trattarlo subito: il fatto che la crisi sia reversibile non significa
che non vada trattata. Quindi conoscere queste cose diventa non un esercizio meramente accademico per bocciarvi quando venite
agli esami, semplifichiamo il concetto.
Le IgE si legano a mastociti e basofili ma i recettori ad alta affinità sono abbastanza ubiquitari: hanno un certo ruolo anche le
cellule dendritiche, la muscolatura liscia bronchiale, l’epitelio e le piastrine. Sicuramente se ci sono IgE, queste sopraregolano i
recettori ad alta affinità sui basofili. Questo ci dice che potremmo tentare di abbassare il livello di IgE per non esprimere un
eccesso di recettori ad alta affinità (anche se il farmaco costa talmente tanto che siamo autorizzati ad adoperarlo solo su pazienti
con asma grave). Sicuramente nel paziente allergico l’espressione dei recettori ad alta affinità è sopraregolato. Lo switch verso i
linfociti Th2 è estremamente importante: se riuscissimo a far “stchare” il linfocita T0 verso il Th1 (che sono quelli dell’infezione),
il rischio di asma diminuirebbe. L’asma è una malattia della pulizia: più puliamo le case e più avete il rischio che ci ammaliamo
di asma, perché non avviene più lo switch verso il Th1, c’è tutto l’orientamente dei Th0 verso i Th2 e si aumenta il rischio di
asma. Noi dobbiamo mantenere il bilanciamento Th1-Th2. Se ci sono molte infezioni, si abbassa il rischio di sviluppare asma.
L’asma intrinseco è sempre caratterizzato da una risposta Th2 (IL-4, IL-5 e IL-13), che porta a infiltrazioni di eosinofili ed
espressione delle chemiochine CC. In entrambe le forme si osserva una elevata espressione dei recettori ad alta affinità, questo si
vede se facciamo biopsie bronchiali con un broncoscopio. Nella pratica quotidiana questo si fa poco. Troviamo queste situazioni
anche se lo skin test è negativo. Non si riesce a capire perché a livello bronchiale si ha una situazione di allergia e a livello
cutaneo no. Comunque l’infiammazione è l’essenza dell’asma bronchiale e serve a definire la malattia. Dall’infiammazione
vengono le altre cose, soprattutto l’iperreattività bronchiale e la bronco-ostruzione.
Epidemiologia e fattori di rischio
C’è un grosso aumento della prevalenza dell’asma nei bambini tra 13 e 14 anni. Stanno uscendo degli studi fatti nel sudamerica
dove c’è un drammatico aumento dell’incidenza dell’asma.
Due grosse categorie di fattori di rischio: individuali e ambientali. La predisposizione genetica è qualcosa di non modificabile.
Poi abbiamo l’atopia (sempre legata a predisposizione genetica) e la iperreattività (che però non sempre comporta sviluppo di
asma), il sesso (aumento dell’incidenza dell’asma nei maschi), l’etnia (negli afroamericani l’incidenza è maggiore). I fattori
ambientali (gli allergeni) sono modificabili. Attorno a Tor Vergata ci sono campi estesi de cicoria e parietaria. Questa è una pianta
da muro, ed è una delle cose più allergizzanti dell’area mediterranea. Poi infezioni delle vie respiratorie (soprattutto virosi)
facilitano l’ingresso degli allergeni per la disepitelizzazione che inducono. L’inquinamento atmosferico contribuisce, per via delle
particelle fini che veicolano gli allergeni. Un altro fattore di rischio ambientale sono i temporali: portano alla rottura dei pollini
con la liberazione degli allergeni. Un temporale primaverile determina un aumento dei pazienti che vanno in pronto soccorso per
crisi asmatiche. Sicuramente ci sono le sensibilizzazioni professionali, il fumo di tabacco (in effetti non è il motivo per cui insorge
l’asma, ma il fumatore asmatico ha condizioni più gravi e una progressione della malattia più rapida), fattori economici (dove il
paziente vive, quali sono le condizioni igieniche…), grandezza del nucleo familiare, obesità (più un paziente è obeso, più corre il
rischio di soffrire d’asma, c’è un link tra l’infiammazione sistemica legata all’obesità e l’infiammazione delle vie aeree, ci sono
dei mediatori non prodotti nell’obeso che in condizioni normali contrastano i mediatori dell’asma).
La predisposizione genetica è importante, ma il genotipo da solo non è determinante, serve l’interazione tra genotipo e fenotipo.
Genotipo + ambiente danno il fenotipo, ed è quello che realmente porta all’espressione della malattia. Il problema è che abbiamo
interazioni tra fattori genetici e ambiente. Quello che sappiamo è che a livello di asma bronchiale e di immunologia clinica, c’è
correlazione tra i cromosomi 5q, 6p, 11q, 13q, 16q, 20p e l’asma-atopia e che ci sono alcuni geni sicuramente coinvolti alla genesi
dell’asma, come il gene ADAM-33 che regola la funzione delle metallo-proteinasi, importanti per indurre il rimodellamento,
condizione che ritroviamo nell’asmatico quando la patologia progredisce nel tempo.
L’asma è una malattia caratterizzata da episodi di broncospasmo accessionali, quindi possiamo avere dei fattori che portano a
questi attacchi. In genere questi fattori sono: infezioni delle vie respiratorie (virosi, una banale influenza che può far soffrire di
una crisi asmatica che dura anche parecchio tempo, soprattutto se il paziente asmatico stando in benessere non assume i farmaci e
dimentica che ha una malattia infiammazione cronica, quindi l’infiammazione rimane e basta un piccolo fattore trigger per
scatenare le crisi), gli allergeni (il pelo di gatto, il dermatofagoites cioè l’acaro della polvere domestico, gli inquinanti
atmosferici), l’esercizio fisico (c’è un problema del comitato olimpico nei confronti degli atleti, che usano β2-stimolanti come
doping e perché possano essere in trattamento bisogna documentare che sono asmatici; ci sono soggetti iperreattivi che hanno
broncospasmo quando fanno esercizio fisico massivo al freddo), fattori metereologici (temporali), alcuni farmaci (come i βbloccanti, che bloccando i β-recettori alle vie aeree possono indurre broncospasmo se sono poco specifici) e vari alimenti. Nei
bambini, per le virosi, sono molto temuti i rhinovirus.
Gli allergeni possono essere classificati in domestici e degli ambienti esterni. I domestici sono gli acari, gli animali (gatti e cani).
L’allergene del pelo di gatto è più aggressivo di quello del cane, anche perché si fissa sui vestiti, soprattutto se il gatto è maschio
(e i gatti maschi anche se castrati lasciano molto allergene). Se voi andate in una metropolitana o un pullman e c’è qualcuno
allergico al pelo di gatto che vi sta vicino, questo può cominciare ad avere i sintomi solo al contatto. L’allergene di gatto resta sui
vestiti anche dopo il lavaggio. Altri allergeni sono quelli degli scarafaggi e dei miceti, frequenti soprattutto per l’uso di
condizionatori. Poi ci sono gli allergeni ambientali esterni: le piante (soprattutto erbacee e graminacee, oleacee e betullacee) e
allergeni professionali come le polveri.
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Diagnosi
La diagnosi è sempre la tomba dei medici, non c’è nulla da fare, anche il più esperto su 100 pazienti, una diagnosi la sbaglia.
Questo perché tutto quello che diciamo in quanto a diagnosi si riferisce ad una curva gaussiana: quando pensiamo a un paziente,
diamo per scontato che faccia parte dell’apice della gaussiana e ci dimentichiamo che esistono le code. E se il paziente è in una
delle due code, lo sottovalutiamo e non lo identifichiamo. Di fatto il nostro approccio alla diagnosi deve essere sempre a mente
aperta.
Episodi ricorrenti di respiro sibilante, tosse notturna (grosso problema: può essere espressione di molte cose come il reflusso
gastro-esofageo, cardiopatie). Presentiamo tutti un andamento circadiano del tono bronchiale, che aumenta durante la notte e
diminuisce nel pomeriggio dove c’è una prevalenza del tono simpatico che contrasta il tono vagale. Poi crisi asmatiche dopo
esposizione ad allergeni ambientali e dopo malattie virali (il raffreddamento che “va al petto” o che tarda a guarire).
Fondamentale l’anamnesi: il paziente dice molto più di quello che saremmo in grado di raccogliere con un atteggiamento
aggressivo che un medico può avere. Racconta tutto e alla fine si riesce a capire la patologia. Si devono guardare l’anamnesi
insieme all’esame obiettivo e ai sintomi.
Anamnesi. Informarsi se è mai capitato di avere mancanza di fiato dopo uno sforzo fisico, di svegliarsi con la presenza di respiro
sibilante o per un attacco di tosse, è mai capitato di avere un episodio di mancanza di respiro a riposo. Già una risposta positiva su
4 può indirizzare verso una diagnosi di asma bronchiale.
Esame obiettivo. Abbiamo un esame obiettivo assolutamente negativo. Respiro sibilante nella fase finale dell’espirazione e un
reperto di broncospasmo serrato, che nell’asma grave può nascondere i sibili (legati al passaggio dell’aria attraverso un bronco di
calibro ristretto.
Diagnostica strumentale. Una volta che l’esame clinico e anamnestico vi porta a sospettare un’esma bronchiale, è necessario
chiedere un esame funzionale respiratorio. L’esame funzionale, per quanto riguarda l’asma si basa su 3 momenti importanti: la
spirometria, il test di reversibilità e il test di provocazione bronchiale. La spirometria dice se c’è un’ostruzione bronchiale: se il
FEV-1 diminuisce rispetto alla CV (e il Tiffenau diminuisce) vuol dire che c’è un’ostruzione. Indica anche se c’è un danno alle
piccole vie aeree che è espressione del rimodellamento. Posso trovare una spirometria normale ma mi accorgo che è in atto un
rimodellamento della prime vie aeree, in quel caso sospetto subito un asma bronchiale. Mettete caso che il paziente presenti una
funzione completamente normale, ma dice di star male in primavera o di metterci molto a guarire dall’influenza. Posso pensare ad
un’iperreattività bronchiale. Per togliere i dubbi posso fare un test alla metacolina o all’istamina o alla nebbia per vedere se il
paziente è realmente iperreattivo. Chi è iperreattivo, comincia ad avere broncocostrizione a concentrazioni basse di metacolina. Se
il paziente invece viene con una funzione alterata (FEV-1 sotto al 70% teorico), non posso fargli il test alla metacolina perché gli
aggraverei il quadro clinico. Allora si fa il test di bronco-reversibilità: gli si dà un broncodilatatore (in genere il salbutamolo che è
un β-2 agonista a rapida insorgenza d’azione, in genere si danno 400mg o 4 puff), si ripete la spirometria dopo 15’ e si vede se c’è
un miglioramento (un aumento del FEV-1. Se c’è grossa reversibilità, sicuramente il paziente è asmatico con iperreattività. La
reversibilità viene identificata con un aumento di almeno 200ml rispetto al valore basale prima del β2-stimolante o un aumento
del 12% del FEV-1. Non serve a differenziale l’asma dalla BPCO, anche un paziente con BPCO può presentare questo tipo di
reversibilità, in genere nell’asmatico si hanno valori più alti.
Basta una tipica immagine del tracciato spirometrico per capire che il paziente ha un’ostruzione. Comunque NON si fa diagnosi
di asma solo dalla spirometria, servono anche i sintomi di asma, un’anamnesi positiva e che siano escluse altre diagnosi che
portano a ostruzione bronchiale. I medici di famiglia negano quasi a tutti l’esame spirometrico. La spirometria va eseguita alla
prima valutazione e dopo un periodo di trattamento per documentare il raggiungimento della normale funzionalità respiratoria.
Questa viene persa fisiologicamente dai 20 anni in su.
Ci sono anche indagini per identificare i fattori di rischio (come i test cutanei allergologici) e altre indagini.
Diagnosi differenziale. Nel bambino e nel neonato devo pensare a malattie delle vie aeree superiori, ostruzioni delle vie aeree
centrali e delle piccole vie aeree. Il problema è che non sempre a una certa età si ha un determinato sviluppo dell’apparato
respiratorio, ci sono grosse variazioni individuali. Si possono fare diagnosi sbagliate perché il polmone ancora è poco sviluppato.
Anche lo sviluppo immunologico ci mette un po’ a completarsi, in genere si deve aspettare i 4 anni prima di fare delle prove
allergiche. Nell’adulto la diagnosi differenziale si fa con la BPCO (non difficile se si raccoglie bene l’anamnesi), con lo
scompenso cardiaco (la tosse notturna è un sintomo comune), con l’embolia polmonare di basso livello, ostruzioni meccaniche
delle vie aeree e disfunzioni laringee. C’è una disfunzione delle corde vocali che può simulare un attacco d’asma. Una cosa che i
medici generici dovrebbero fare è dare un misuratore del picco respiratorio di flusso, farci soffiare dentro e misurare la variabilità
mattina e sera. Se si ha una caduta del PEF nel tempo, il paziente sta andando incontro a una crisi d’asma e si può aggiustare la
terapia.
Ulteriori indagini. L’RX torace serve solo a escludere una polmonite, mentre i test allergologici sono fondamentali. Il problema
del prick test è che si hanno sensibilizzazioni multiple e che può esserci dermatografismo (rilascio immediato di mediatori al
semplice contatto sulla pelle) o eczema (che nasconde la reattività cutanea) o pelle molto giovane o atrofica (che non rispondono
ai test) o il paziente è sotto antistaminici o ha una storia di anafilassi. I test multipli sono poco usati perché molto costosi.
Test di II livello: RAST, misuro le IgE specifiche per un determinato allergene. Ci sono classi diverse a seconda della quantità di
allergene riscontrato. Il grosso problema del test in vitro è che è meno sensibile e più costoso del prick test.
Il fumo di sigaretta provoca un marcato aumento dell’infiammazione nel soggetto allergico. Accanto all’infiammazione eosinofila
compare un’infiammazione neutrofila stimolata dal fumo di sigaretta. Quindi devo trattare 2 tipi di infiammazione, è un paziente
che è a cavallo tra asma e BPCO. C’è una relazione tra storia di fumo di sigaretta, infiammazione delle vie aeree e funzione
respiratoria. Nell’asma gli allergeni sono un fattore inducente, nella BPCO è il fumo di sigaretta. Le infiammazioni sono diverse:
nel primo caso si ha una prevalenza di CD4, nell’altro di CD8 (infiammazione eosinofila o neutrofila-macrofagica). Nella BPCO
si ha un’ostruzione non completamente reversibile, nell’asma si ha ostruzione completamente reversibile. Ma noi potremmo avere
un soggetto con un’ostruzione fissa ma le prove allergiche dicono che il paziente è asmatico. Allora andiamo a fare una TAC (per
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vedere un ispessimento delle pareti bronchiali) e vediamo che anche nell’asmatico fumatore le pareti sono ispessite. Questo
giustifica il fatto che non risponda pienamente al trattamento. Il paziente che fuma e asmatico ha in genere una risposta ridotta ai
corticosteroidi (gold standard nel trattamento dell’asma). Importante l’identificazione dei fattori di rischio, per bonificare
l’ambiente o fare in modo che il paziente si allontani da questi.
Si fa il test di diffusione del CO per diagnosticare ispessimenti di membrana. Poi c’è la possibilità di fare lo studio
dell’espettorato (spontaneo o indotto), possono essere presenti cellule infiammatorie e in base alla presenza di un tipo di cellula
infiammatoria rispetto ad un altro si può fare diagnosi differenziale. Poi si può misurare l’NO nell’esalato, importante per
verificare l’efficacia del trattamento. Ma nel fumatore aumenta, in questo caso i risultati sono falsati. Inoltre si verifica che il
paziente abbia un’eosinofilia.
La valutazione dell’otorino diventa fondamentale, perché spesso il paziente ha anche alterazioni delle alte vie aeree o presenta
poliposi endonasale (che porta al rilascio di istamina e prostaglandine che aggravano l’asma) o sinusite (che induce lo scolo
retronasale). E poi valutare la presenza di un reflusso gastro-esofageo.
Classificazione di gravità
Permette di valutare la terapia più idonea e verificare se il trattamento è veramente efficace. Mentre nella BPCO una volta fatta
una diagnosi di gravità non si ha mai un recupero, nell’asma si ha un up&down con periodi di benessere e di malattia, è
importante seguire il livello di gravità che ha il paziente in un determinato momento. Se un paziente è allergico alla parietaria che
fiorisce solo ad aprile-maggio, tenerlo sotto steroidi per tutto l’anno non ha molto senso. Se un paziente presenta una forma
intermittente, viene trattato al bisogno, se ha una forma grave il trattamento è intensivo e continuato.
La gravità viene stabilita in base alla presenza di sintomi (compresi i sintomi notturni) e in base alla funzione respiratoria. Molti
dei pazienti in pneumologia sono affetti di asma intermittente, pochi presentano asma lieve o moderato persistente, pochissimi
hanno asma grave persistente (in genere ritrovato nel 15-20% dei pazienti asmatici) con crisi d’asma ricorrenti. Di questi, il 510% non è controllabile nonostante la terapia (“asma difficile”, attacchi d’asma gravi e pericolosi per la vita, esposizione a
steroidi sistemici per lungo periodo che determinano una serie di effetti collaterali)
Step 1: asma intermittente (trattato al bisogno)
Step 2: asma lieve peristente
Step 3: asma moderato persistente
Step 4: asma grave persistente.
FUMO E FUNZIONE RESPIRATORIA
Prof. Saltini, 08/03/09
Il fumo è il maggior fattore di rischio per le malattie respiratorie e nei rapporti del fumo il medico deve avere due posizioni e
atteggiamenti: di profonda gratitudine (se non ci fosse il fumo, gli pneumologi e i cardiologi non avrebbero di che lavorare) ma se
vestiamo i nostri panni pubblici dobbiamo fare di tutto affinché si conoscano i problemi relativi al fumo, perché le persone
possano coscientemente scegliere di fumare (se vogliono morire malamente 30 anni prima di quanto dovrebbero) o non fumare e
campare più a lungo e soprattutto di inserire il problema fumo nel proprio rapporto col paziente (non si può visitare un paziente
senza chiedergli se e quanto fuma e senza tentare di fargli smettere di fumare). Secondo l’istituto di statistica nazionale fuma più
del 30% della popolazione attorno ai 20-30 anni.
Cosa c’è in una sigaretta: tabacco, che contiene una sostanza che è la miglior droga mai inventata, è come la cocaina (anche se
meno potente) alla quale si aggiunga un po’ di eroina per dare quel senso di felicità che la cocaina da sola non darebbe. Questa è
la nicotina, una sostanza capace di attivare processi nervosi estremamente potenti, una sostanza che dà dipendenza e fa alcune
cose come inibire l’apoptosi e favorire la crescita di cellule tumorali (ma in realtà questo è un effetto piccolo in confronto a tutto il
resto). La nicotina è una sostanza psicotropa che induce un miglioramento dei processi cognitivi: chi ha mai fumato sa che si
fuma per essere più attenti, per rilassarsi mentre si guida, per studiare per l’esame di anatomia fino alle 3 di notte altrimenti ci si
addormenterebbe alle 11 di sera, e via dicendo. In aggiunta a questo effetto eccitante, la nicotina ha anche un effetto
tranquillizzante, ansiolitico. Infatti è la droga paradossa: la si prende sia come eccitante che come rilassante (che è l’effetto
libico). La nicotina agisce sulla corteccia (dove stimola l’attenzione) e sulle strutture limbiche (dove determina l’effetto rilassante
e tranquillizzante). Il sistema della nicotina si chiama sistema mesolimbico e la nicotina esercita i suoi effetti legandosi a specifici
recettori (recettori nicotinici colinergici, gli stessi che legano l’acetilcolina), diffusi in tutta la sostanza cerebrale, nel sistema
periferico e nei bronchi. Questi recettori rispondono all’acetilcolina, legano la nicotina e sono coinvolti in diversi processi
fisiologici. Con esperimenti di fissazione e di attivazione della sostanza cerebrale, la nicotina attiva zone sia corticali che
limbiche. La nicotina interagendo con il suo recettore determina l’eccitazione della cellula e la liberazione di dopamina e
noradrenalina. La dopamina è il mediatore fondamentale delle sostanze che hanno un’azione modificatoria sulla coscienza. Ed è
quello che favorisce la dipendenza: avete nella sigaretta un composto che determina effetti sulla corteccia e sulle strutture
limbiche con effetti di aumento dell’attenzione, rilassamento, ansiolitico e di attivazione del circuito del piacere che determina
dipendenza. Inoltre legandosi ad uno specifico recettore, la nicotina determina iperplasia o l’aumento del numero dei recettori, per
cui il forte fumatore ha più recettori nicotinici del non-fumatore. Tanto che se prendete un soggetto fumatore, lo chiudete in una
gabbia e gli buttate le sigarette, il fatto che abbia più recettori renderà l’assenza dello stimolo molto più rapida e più forte di
quanto succede nel soggetto normale, nel quale l’acetilcolina è sufficiente a saturare i recettori.
Le altre cose che troviamo nella sigaretta sono composti tossici come CO, Cadmio, acido cianidrico, acetone, arsenico e una
quantità di composti (il più noto dei quali è il benzopirene o aldeidi) che sono cancerogeni. Nella sigaretta ci sono circa 4000
composti, una quarantina dei quali sono sicuramente cancerogeni. Ma la sostanza più importante è la nicotina, cioè quello che
rende la sigaretta quello che è.
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Dal punto di vista della prevenzione è importante capire perché si inizia a fumare. In realtà si comincia a fumare molto
presto. La gran parte delle persone che fumano, lo fanno perché hanno in casa genitori o parenti che fumano e intromettano l’idea
del fumo come una cosa “cool” (come si direbbe negli USA) o “figo” (come si direbbe in Italia). Poi esistono tutta una serie di
condizionamenti sociali (gli amici, la pubblicità, il cinema e quant’altro) e nella pre-adolescenza (10-13 anni) si comincia a
formare un’idea sul fumo, e il non avere un’idea su cosa sia il fumo rende suscettibili al rischio di cominciare a fumare. Una cosa
che non viene fatta è spiegare ai pre-adolescenti che il fumo non è tutta questa gran cosa. Intorno all’adolescenza i ragazzini
cominciano a fumare e sulla base di queste prime esperienze il soggetto diventerà o meno fumatore. La letteratura anglosassone
ha prodotto tutta una serie di studi psico-sociali che dimostrano come ci sia un processo che dura nel tempo che porta a 15-20 anni
a stabilizzare un soggetto in fumatore o non fumatore (la “centesima sigaretta”). Arrivati a 20-25 anni si stabilizza il tipo di
sigaretta, la quantità di sigaretta ecc. La percentuale di fumatori sta lentamente scendendo e dopo i 40 anni comincia ad aumentare
il numero di ex-fumatori, mentre il picco di fumatori si ha intorno ai 30-35 anni. Il numero di sigarette aumenta col tempo e anche
se il numero di fumatori diminuisce dai 20 ai 30 anni, aumenta il numero di fumatori incalliti (più di 20 sigarette al giorno,
raggiungono il 15% dopo i 30 anni), che sono a più alto rischio di malattia.
Epidemiologia. Il fumo è la causa di più del 30% di tutti i tumori (anche stomaco, prostata ecc), del 70% di tutte le malattie
respiratorie croniche e del 13% delle malattie cardio-vascolare. Si può considerare questo dal punto di vista della spesa sanitaria e
della diminuzione della qualità di vita. A causa del fumo sono morte 800000 persone nel 1965, quasi 5 milioni nel 2003, si ritiene
moriranno 10 persone all’anno nel 2030, che è lontano ma non lontanissimo. Cause di morte attribuibili al fumo: tumori
polmonari, malattie coronariche, malattie respiratorie croniche, malattie vascolari e cerebro-vascolari (stroke), altri tumori.
Il fumo passivo è il secondo aspetto non irrilevante della tossicità da fumo di sigaretta. Il fumo passivo o fumo di seconda mano è
la combinazione di due cose: il sidestream smoke (il fumo che esce direttamente dalla sigaretta) e il mainstram smoke (il fumo
che esce dal fumatore). Metà del fumo generato dalla sigaretta non viene aspirato ma disperso nell’aria. Questo contiene tutto
quello che viene aspirato dal fumatore. Il fumo esalato dal fumatore in sostanza è filtrato. Gli effetti del fumo passivo, a parte
l’infastidire chi non fuma, sono: aumentata suscettibilità ai tumori polmonari e al rischio cardiovascolare, danni al tratto
respiratorio superiore e inferiore, irritazioni corneali, attacchi allergici, aumento della dispnea da esercizio e sotto sforzo. Il fumo
passivo è fattore concausale nello sviluppo di malattie respiratorie o allergiche nel bambino e fattore scatenante di sintomi
respiratori nell’adulto.
La storia della regolamentazione del fumo inizia verso gli anni ’50, quando ci si accorge che il fumo è causa di malattia. Prima
della Grande Guerra esistevano molte pubblicità che propagandavano le sigarette come rimedio contro la tosse. Dopo che nel
1959 venne scritto un articolo che provava una correlazione tra fumo e aumentata incidenza di tumori, le case produttrici di
tabacco cominciarono a produrre una serie di artefatti (filtri, sigarette con poco catrame ecc.) per “alleggerire” le sigarette. Nel
1930 in America c’erano 3000 casi di cancro, nel 1955 27000 casi, nel 1962 41000 casi. Nel 1945 c’erano 2300 bronchitici
cronici, nel 1962 il numero sale a 15000. Il fumo nel 1800 era una cosa costosa perché si fumavano sigari, dopo la prima guerra
mondiale vengono prodotte di massa sigarette economiche, con tabacco di qualità molto minore arrotolato con una cartina. Quindi
il consumo di sigarette cresce esponenzialmente. Nel non-fumatore abbiamo circa 10 casi di cancro per 100000 all’anno, nel
fumatore si sale a 251 per 100000 all’anno. Se calcolate l’aspettativa di vita del forte fumatore, a 80 la probabilità di essere morti
è del 25%.
Il fumatore ha l’idea che il fumo sia una sostanza pesante che gli rimane attorno a non diffonde, quindi quando fuma davanti a
una porta aperta non immagina che stia portando il fumo all’interno. Così come ha l’idea che il filtro buttato per terra venga
immediatamente dissolto nell’aria. In realtà un filtro impiega mediamente 10 anni per essere metabolizzato.
Effetti sistemici del fumo
Il fumo causa infiammazione sistemica, stress ossidativi sistemico, effetti vasomotori. Infiammazione sistemica vuol dire che se
prendete un fumatore in confronto a un non fumatore, ha più neutrofili e più cellule che hanno attivati i geni della
mieloperossidasi (uno degli enzimi chiave dei neutrofili). Il fumo determina un aumento della disponibilità della risposta
infiammatoria e una risposta infiammatoria sistemica subliminale. In più determina riduzione delle capacità antiossidante
dell’organismo, soprattutto subito dopo aver fumato (la sigaretta produce un’enorme quantità di ROI). Se prendiamo i prodotti
della perossidazione lipidica, vediamo che il non-fumatore ne ha una quantità minore. Quindi il fumo determina acutamente e
cronicamente uno stress ossidativo cronico o acuto che determina aumento dell’infiammazione sistemica. Quindi c’è un effetto
sistemico che si manifesta in vario modo, anche sui vasi e sulla coagulazione, determinando aumento di rischio di trombosi. I
risultati sono da una parte la cardiopatia coronarica (che deriva dalla dieta e dal fumo) e dall’altra la trombosi venosa (il fumo
altera la funzione endoteliale e la coagulazione).
Per quanto riguarda l’apparato respiratorio, si hanno due malattie causate dal fumo di sigaretta: la BPCO e il cancro del polmone.
Se si smette di fumare a 35-40 anni, dopo 20 anni di fumo di sigaretta, viene ridotta la mortalità (anche se non si riduce ai livelli
del non-fumatore). Smettere di fumare a 65 anni determina sempre un aumento dell’aspettativa di vita, anche se ridotto. Se tutti i
fumatori potessero fumare fino a 85 anni, il 25% sarebbe morto di cancro, il 20% di bronchite cronica, il 20% di cardiopatia
coronaria e i restanti sarebbero ancora vivi perché hanno ereditato dei geni fortunati che gli permettono di bere e fumare quanto
vogliono ma campare lo stesso fino a 100 anni.
Essere fumatore ed avere BPCO è un indice prognostico sfavorevole per quanto riguarda il cancro polmonare. Questo perché
l’infiammazione è un fattore promuovente e c’è una correlazione tra il FEV-1 e l’incidenza di cancro (che è maggiore per pazienti
con funzionalità respiratoria minore, quindi con maggiore ostruzione bronchiale).
Dal punto di vista dell’epidemiologia è importante che i pazienti fumatori con alterazioni ventilatoria sono a maggior rischio di
tumori del polmone. Si può usare l’informazione data dalla spirometria per convincere a smettere di fumare (anche se in genere le
alterazioni spirometriche nel fumatore non si manifestano prima dei 40-45 anni). Il fumo è associato anche a fibrosi polmonare,
malattia non comune (10 casi per 100000 persone all’anno), con presenza di microcisti periferiche (dovute a dilatazione del
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tessuto periferico bronchiolare) e fibrosi “secca” (senza considerevole componente infiammatoria). Studi epidemiologici sulle
famiglie associano la fibrosi polmonare idiopatica al fumo di sigaretta e dimostrano che l’incidenza aumenta con l’età. Tipico
caso di malattia in cui una componente genetica combinata con un’esposizione causa malattia.
L’enfisema
L’enfisema è istruttivo per quanto riguarda la comprensione delle malattie causate dal fumo. L’enfisema è una malattia di difficile
definizione. Quella che viene più usata è “sovradistensione degli spazi aerei a monte dei bronchioli terminali con distruzione dei
setti alveolari senza evidente fibrosi”. Su queste ultime 3 parole c’è un enorme dibattito, perché alcuni illustri anatomo-patologi
affermano che la fibrosi interstiziale sia parte integrante dell’enfisema, anche se non la componente che si vede maggiormente.
L’enfisema può essere centroacinare, panacinare e bolloso. L’enfisema panacinare è causato da fattori ambientali e genetici. Il
difetto genetico di α1-antitripsina (molto raro in Italia) non colpisce più dell’1-2% dei pazienti con enfisema panacinare e più del
3-4% dei pazienti con bronchite cronica. L’α1-antitripsina è l’enzima antiproteasico che blocca l’elastasi con un’inibizione
suicida 1:1. L’elastasi è la proteasi capace di digerire il tessuto elastico prodotta dai neutrofili in gran quantità in condizione di
infiammazione. Il fumatore ha un più alto numero di neutrofili e per questo una maggior quantità di elastasi che non viene
sufficientemente contrastata dall’α1-antitripsina. In una popolazione di persone con deficit di α1-antitripsina, i fumatori si
ammalano di enfisema più precocemente. L’enfisema è dovuto principalmente al fumo e al fatto che il fumo induca
infiammazione, stress ossidativo e in attivazione dell’α1-antitripsina (bloccata per danno radicalico del fumo stesso). Il fumatore
è come se avesse comunque un deficit di α1-antitripsina, anche con un patrimonio genico normale.
L’enfisema panacinare o di tipo A colpisce tutto il polmone e distrugge gli alveoli nella periferia. È caratterizzato da riduzione
della CPT, riduzione della diffusione di gas, assenza di ipercapnia, ipossiemia grave, assenza dei segni dell’infiammazione,
enorme dilatazione dell’infiammazione. Quindi c’è un aumento del volume totale dei polmoni.
L’enfisema centroacinare di tipo B colpisce la parte centrale del lobulo polmonare lasciando in parte indenne gli alveoli periferici.
Determina un aspetto radiologico meno enfisematoso, perché abbiamo segni di infiammazione (aumento del disegno vascolare,
“polmone sporco” del bronchitico cronico). Abbiamo ipercapnia e ipossiemia e spesso scompenso cardiaco cronico e poliglobulia.
Le manifestazione cliniche dei due enfisemi sono riassunte da una classificazione del 1968 come i “pink puffers” e i “blue
bloathes”. Pink puffer vuol dire “soffiatore rosa”, Blue bloather vuol dire “soffiatore blu”.
Il pink puffer è magro, ha un polmone molto espanso con cuore a goccia, non ha poliglobulia, ha una paO2 conservata e non ha
aumento della PaCO2, perché in realtà è una persona che iperventila. Ha poca superficie di scambio,
compensa iperventilando vivendo al limite delle sue possibilità ventilatorie e muscolari. Quando si
scompensa, diventa rapidamente ipercapnico. L’illustrazione che è presente dappertutto del pink
puffer rappresenta un paziente cachettico (perché iperventila, sfrutta al massimo i muscoli respiratori
accessori e produce in eccesso il TNF o cachessina) che sviluppa i muscoli respiratori accessori
(quelli del cingolo scapolare e gli intercostali) perché ha il diaframma abbassato e piatto.
Il blue bloather (che secondo alcuni può essere tradotto come “aringa blu”) ha scompenso cardiaco
che determina edema e per questo è gonfio. La poliglobulia e la ridotta
PaO2 determinano cianosi. Questo signore non è magro, è edematoso,
ha un’immagine cardiaca allargata per lo scompenso cardiaco destro,
riferisce edema declive, edema polmonare notturno, crisi di asma
cardiaco notturne. Ha ipertensione polmonare, ha un’ematocrito alto
con difficoltà circolatorie (cosa che portava nella medicina antica al
salasso). Per compensare l’ipossiemia cronica, il midollo produce più
globuli rossi (si arriva a 18-20 grammi di Hb). Prima
dell’ossigenoterpia questi pazienti venivano sottoposti regolarmente a salasso. Si ha ipossia e
ipercapnia.
Le manifestazioni radiologiche dell’enfisema di tipo A sono: sovradistensione del torace,
abbassamento e appiattimento del diaframma, iperdiafania, aumento degli spazi intercostali,
oligoemia, aumento degli spazi retrocardiaco e retrosternale. Gli spazi intercostali oltre ad essere
allargati sono orizzontalizzati. Il cuore è a goccia (verticale e sottile), i lobi inferiori sono
ipertrasparenti (per enfisema e riduzione del circolo). La linea del diaframma è concava verso l’alto
e non si ha l’angolo acuto costo-diaframmatico, ma diventa ottuso. Questo indica una ipomobilità diaframmatica (ed è per questo
che il paziente usa i muscoli accessori della respirazione come gli intercostali).
Un paziente con enfisema di tipo B ha sempre un torace iperespanso, ma il cuore è ingrandito e non a goccia e il torace ha aspetto
“sporco” (c’è aumento della trama vascolare per stasi vascolare per l’ipertensione polmonare, ad albero). Il torace si può
confondere con quello del fibrotico: alcuni pazienti hanno sia enfisema che fibrosi. Nell’ inspirazione il cuore si affonda nel
diaframma, cosa che non faceva nell’enfisema di tipo A.
Nel paziente con enfisema centroacinare, nel centro dell’acino avviene uno scambio d’aria da quella che viene dai bronchi e
quella che proviene dagli alveoli. Quella dai bronchi ha pochissimo ossigeno, quella dagli alveoli è satura di O2. Invece di
rimescolarsi alla periferia del polmone dove ci sono gli alveoli e i capillari attorno, l’aria si rimescolerà nella parte centrale
dell’acino e per conduzione arriverà negli alveoli dove si rimescolerà con aria ad alto contenuto di CO2. Il paziente respirerà
un’aria inspirata ricca di CO2 per cui diventerà sempre più ipercapnico, perché ha una tale alterazione anatomica che negli alveoli
non arriva aria inspirata fresca. Se il rimescolamento dell’aria avviene più a monte (nelle lacune enfisematose dei bronchioli
respiratori), gli alveoli non saranno ventilati in modo adeguato e il nostro paziente non respirerà abbastanza O2, diventando
ipercapnico. Riassumendo, nel paziente con enfisema panacinare l’aria atmosferica arriva ai dotti fino agli alveoli, prima per
conduzione e poi per convezione. Il problema del tipo A è che non ha setti, perché sono distrutti. Però la diminuzione dei setti è
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uniforme, c’è poco scambio perché ci sono pochi setti funzionanti, gli alveoli sono grandi 2-3 volte tanto e c’è un marcato
abbassamento degli indici di diffusione dei gas. Nel paziente centrolobulare il meccanismo è diverso: c’è questa lacuna di
enfisema centrolobulare con bronchioli dilatati, infiammati e dotti dilatati enfisematosi centralmente all’acino. Ci saranno anche
meno setti e alveoli dilatati in periferia, ma questa è la lesione principale. L’aria arriva in quest’area dove ristagna l’aria espirata
ad alto contenuto di CO2. C’è un rimescolamento, prima che l’aria arrivi agli alveoli periferici viene rimescolata, quindi ci arriva
aria a più alto contenuto di CO2. I pazienti di tipo B con enfisema centrolobulare respirano più CO2 dei pazienti di tipo A, che per
riuscire a respirare con meno setti devono iperventilare.
BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO)
Prof. Cazzola, 10/03/09
Definizione e classificazione
Di fatto la bronchite cronica, l’enfisema, l’asma cronico (unremitted), sono tutte condizioni che poi di fatto poniamo sotto l’unica
terminologia di broncopneumopatia cronica ostruttiva. È un termine che include patologie diverse. La vecchia definizione di
BPCO era “ostruzione del flusso aereo dovuto ad enfisema o bronchite cronica”. Oggi sappiamo che è troppo semplicistica e
abbiamo elaborato un’altra definizione più consistente: “malattia prevenibile e trattabile (è stata una grossa acquisizione, perché
20 anni fa era considerata non prevenibile né trattabile) che si accompagna a manifestazioni extra-polmonari che, a seconda della
importanza, possono influenzare la gravità della condizione clinica”. Ad esempio il paziente con BPCO ha insufficienza cardiaca
congestizia e a seconda dell’entità dell’insufficienza può avere una BPCO più o meno grave. La componente polmonare è
caratterizzata da una limitazione del flusso aereo: il calibro del bronco viene ristretto da un’occlusione interna e non da una
costrizione. Rispetto all’asma, non è pienamente reversibile: anche dopo aver somministrato broncodilatatori non riesco a
ristabilire una funzione respiratoria normale considerando l’età e il sesso del paziente. È una malattia progressiva: anche la
limitazione del flusso aereo diventa progressiva e associata ad una risposta infiammatoria. Anche la BPCO, come l’asma, è una
malattia infiammatoria delle vie aeree. L’infiammazione si ha perché si ha una risposta infiammatoria contro particelle nocive o
gas irritanti. Vi è una sovrapposizione tra asma, enfisema e bronchite cronica: ci sono varie condizioni intermedie.
La BPCO di fatto è una malattia che arriva tardivamente alla nostra osservazione, perché in genere colpisce i fumatori ed è
caratterizzata da tosse e catarro cronici. E i fumatori tossiscono ed espettorano ma sottovalutano la portata di questi sintomi
perché li considerano unicamente come conseguenza della loro abitudine al fumo. Quando comincia a comparire dispnea e
limitazione funzionale, la malattia è tanto avanzata che si può fare ben poco. Il problema è complicato dal fatto che ci sono
pazienti fumatori che non presentano né tosse né catarro, ma vengono alla nostra osservazione quando ormai la limitazione del
flusso aereo è così importante da determinare una limitazione funzionale.
La BPCO è una malattia a più componenti. La limitazione al flusso aereo (non completamente reversibile) è il componente
cardine, ma è dovuta all’impatto di diversi fattori: contrazione della muscolatura liscia, infiammazione (e ispessimento della
mucosa), modifiche strutturali (enfisema) e distruzione dell’apparato muco-ciliare.
Classicamente riconosciamo 4 livelli di gravità della BPCO in base ai parametri spirometrici. È una classificazione che oggi è
messa in discussione, perché non è solo la funzione respiratoria che indica quanto è grave il paziente, bisogna considerare anche
le condizioni generali, il livello di insufficienza respiratoria e così via. Ma questa classificazione è stata molto utile perché ci ha
suggerito come possiamo trattare i pazienti in base al livello di gravità funzionale. Più andiamo verso uno stato grave, più
aggressiva sarà la terapia farmacologica da attuare. Abbiamo 4 stadi: lieve, moderato, grave e molto grave.
Stadio 1: lieve
Stadio 2: moderato
Stadio 3: grave
Stadio 4: molto grave
FEV1/FVC < 0,70
FEV1/FVC < 0,70
FEV1/FVC < 0,70
FEV1/FVC < 0,70
FEV1 > 80% prevista
50% < FEV1 < 80% prevista
30% < FEV1 < 80% prevista
FEV1 < 30% prevista o FEV1 < 50%
prevista + insuff. respiratoria cronica
È fondamentale che il rapporto FEV1/FVC (capacità vitale forzata) sia minore di 0,7. Questo è un altro concetto che sta
cambiando totalmente, però si usa attualmente nelle linee guida. Per esempio, usare questo indice per un paziente anziano ci porta
a sopravvalutare l’entità della malattia, in un paziente giovane ci porta a sottovalutarla. Il FEV1 è fondamentale nel suo rapporto
rispetto al teorico. Ci sono dei pazienti che sono comunque non classificabili in questa scala di severità: i pazienti a rischio, in
genere giovani fumatori (30-35 anni) con tosse cronica, abbondante espettorato ma funzione respiratoria normale. Non è detto che
necessariamente svilupperanno ostruzione bronchiale, però sono pazienti a rischio. Quindi è giusto metterli in allarme.
Peso della malattia
È una malattia piuttosto importante, in genere sottovalutata. Quando diventa grave impatta pesantemente sulle condizioni del
paziente e sul servizio sanitario nazionale. È una delle poche patologie che in proiezione sta realmente aumentando, non solo nei
paesi industrializzati ma un po’ dappertutto. Deve essere vista ed è sempre più apprezzabile nei fumatori e negli ex-fumatori, nelle
persone con più di 40 anni. Ed è maggiore nei maschi che nelle femmine. Riteniamo che la BPCO è una malattia anche
dell’invecchiamento. Circa il 20% dei pazienti con BPCO non è mai stato fumatore.
Se manteniamo un rapporto fisso di 0,7 sopravvalutiamo o sottovalutiamo una certa percentuale dei pazienti. La sopravvalutiamo
negli anziani perché oltre una certa età si assiste ad una diminuzione della funzione respiratoria.
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Con il progresso della medicina, dal 1965 al 1998, siamo riusciti ad abbattere il rischio delle malattie coronariche, dell’ictus, di
altre malattie cardiovascolari. Ma la BPCO è in aumento, nonostante tutto (+163%). Dal 1970 c’è stato un drammatico aumento
di BPCO, non si sa se legato al fatto che in quel periodo si è riconosciuta la malattia o che è aumentata realmente. Di fatto c’è
stato un numero di morti per 1000 abitanti, soprattutto nelle donne. Nel 1970 ancora c’erano le vecchiette che venivano alla visita
e di fronte alla domanda “lei fuma?” si offendevano, perché per una signora fumare era una cosa disdicevole. Ora come ora la
situazione è molto cambiata, le donne sono diventate forti fumatrici. Quando le donne cominciano a fumare, sviluppano una
dipendenza alla nicotina maggiore rispetto agli uomini. La mortalità è prevista in grosso aumento, e passerà dal 12° al 6° posto
come mortalità totale. Il nostro reparto è passato da 8 a 20 posti letto ma ancora sono insufficienti rispetto alla domanda di
ricovero per malattie respiratorie e soprattutto per BPCO. Studi epidemiologici hanno evidenziato che nei soggetti tra 20 e 40
anni, il 10% presenta tosse ed espettorato senza segni di ostruzione bronchiale e il 3, 6% sintomi di ostruzione bronchiale. Questo
significa che gli individui che fumano e hanno tosse ed espettorato sono sicuramente ad alto rischio per BPCO.
Fattori di rischio
Importante il patrimonio genico, l’esposizione a particelle (polveri professionali, fumo di sigaretta, l’inquinamento interno delle
case (problema soprattutto in India o in molti paesi africani dove le donne cucinano in piccoli ambienti dove utilizzano biomasse
che liberano dei fumi estremamente tossici, peggio del fumo di sigaretta, nell’induzione della patologia); l’inquinamento esterno.
Importante lo sviluppo del polmone: in caso di ritardi dello sviluppo è più facile andare incontro alla patologia. Lo stress
ossidativo è estremamente importante (legato al fumo di sigaretta); il
sesso maschile; l’età (è una malattia soprattutto dell’età avanzata); le
infezioni respiratorie ricorrenti; lo stato socio-economico (la BPCO è
una malattia della povera gente, lo studio di uno pneumologo non è
realmente affollato); la nutrizione (sono fattori di rischio sia
l’anoressia che l’obesità); le co-morbidità.
Questa è l’immagine più proiettata al mondo per quanto riguarda la
pneumologia. Dimostra qual è la storia naturale della BPCO
relazionata al fumo di sigarette. Ci ha portato a capire molte cose. Ci
sono molte persone che pur avendo fumato tutta la vita non
sviluppano BPCO: esiste una suscettibilità individuale su base
genetica al danno da sigarette. Se non si è suscettibili, non si sviluppa
malattia anche fumando molto. Ma se si è suscettibili, c’è un importante impatto sulle vie aeree e il declino della funzione
respiratoria (che in genere si va perdendo a partire dai 22-23 anni) si accelera in maniera importante. A un certo punto porta una
riduzione del VEMS a livelli tali da causare disabilità e, alla fine, morte. Se il soggetto riesce a smettere di fumare a un’età
adeguata si può influenzare positivamente questa caduta.
In Italia ci sono 12 milioni di fumatori e 9 milioni di ex-fumatori. Vi è una tendenza all’aumento degli ex-fumatori. Gran parte
degli ex-fumatori sono pentiti: cioè è gente che riprenderebbe a fumare immediatamente. Circa il 30% dei fumatori incalliti
sviluppano una limitazione del flusso aereo. Dal 40 al 50% dei fumatori sviluppano BPCO. È un dato che abbiamo allargato, in
passato era stimato il 15%. Anche il fumo passivo è pericoloso, per l’aumento del carico globale dei gas inalati. Ci sono solide
evidenze scientifiche che documentano l’importanza del fumo passivo, perché di fatto il sidestream smoke contiene particelle e
gas che vengono inalati da chi sta accanto al fumatore e inducono danni.
Per quanto riguarda la genetica, abbiamo una molteplicità di geni che possono essere differentemente e anche globalmente legati
alla possibilità che compaia una BPCO. In effetti il grosso problema che abbiamo nel capire l’impatto dei geni e come la malattia
progredisce viene dalla constatazione che i soggetti non sviluppano tutti la stessa malattia e non sviluppano tutti lo stesso quadro.
Un esempio può essere l’enfisema con i suoi due quadri opposti (blue bloather e pink puffer). Il pink puffer ha un enfisema
panacinare, sia il parenchima e la circolazione sono distrutti, non si ha shunt ventilo-perfusivo e il paziente rimane dispnoico ma
senza cianosi. Il blue bloather ha un enfisema centro-acinare, ha tessuto polmonare distrutto ma circolazione conservata: si
modifica il rapporto ventilo-perfusivo (che normalmente è 0,8) e quindi ci sono zone irrorate ma non ventilate e si ha tendenza
alla cianosi, perché non si ha scambio. Sono due pazienti affetti da BPCO, ma c’è qualcosa che spinge verso un quadro o verso un
altro, anche se l’iniziatore della patologia è sempre il fumo di sigaretta. Nella quotidianità abbiamo un’infinità di quadri che molto
spesso si sovrappongono, per cui diventa difficile identificare ogni quadro. È previsto che da qui a 15 anni si arriverà ad una
personalizzazione della malattia, quindi sarà necessario differenziare un quadro da un altro. Chiamo BPCO tutti questi quadri, ma
è possibile che ognuno sia una malattia a se stante. Sicuramente il fumo di sigaretta è importante nell’enfisema, ma anche
l’inquinamento esterno deve essere considerato. Ogni incremento di 10μg/m3 di particelle fini è associato al 4% di aumento del
rischio di mortalità per qualsiasi causa, il 6% per cause cardiopolmonari e l’8% per cancro polmonare. Questo è il motivo per cui
la legge obbliga i sindaci a chiudere il traffico veicolare quando il pm10 aumenta oltre una certa soglia. I combustibili biologici
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usati per il riscaldamento (ad esempio lo sterco degli animali) sono la causa dell’alta percentuale di BPCO in alcune zone del
mondo, come la Mongolia. C’è una relazione significativa tra basso livello di istruzione e aumento della mortalità per BPCO:
questo perché c’è una diversa percezione della malattia e un più tardivo riconoscimento dei sintomi e un impatto alimentare
(minor consumo di sostanze antiossidanti).
Patogenesi e fisiopatologia
Per adesso abbiamo fatto quasi filosofia sociale, adesso andiamo a vedere in concreto quello che porta alla limitazione del flusso
aereo. Ci sono 2 condizioni fondamentali: una distruzione parenchimale (es. enfisema, dove c’è perdita degli attacchi alveolari e
di conseguenza riduzione del ritorno elastico) e un interessamento delle piccole vie aeree (calibro < 2mm), che interessano gran
parte della struttura del polmone a causa dell’estesa arborizzazione terminale. Qui avviene infiammazione e rimodellamento.
Sicuramente nella patogenesi della BPCO il fumo di sigaretta fa da padrone. Se la genetica non è tale da consentirci la produzione
di antiossidanti endogeni, c’è un’amplificazione dell’impatto di questi fattori trigger e si arriva all’infiammazione del polmone. Si
forma uno stress ossidativo e si liberano proteasi. L’organismo ha la capacità di attività antiossidante e antiproteasica. Se l’insulto
è forte (e/o l’organismo non produce questi meccanismi di difesa), questi meccanismi vengono superati e viene fuori la BPCO.
Allo stress ossidativo sono legate molte altre malattie e l’invecchiamento, per il discorso dell’accorciamento dei telomeri. Lo
stress ossidativo è importante perché si liberano sostanze che mettono in funzione i meccanismi infiammatori, per attivazione
dell’NF-kB che porta alla liberazione di IL-8 e di TNF-α, le due citochine che hanno un ruolo fondamentale per il reclutamento
dei neutrofili. Il neutrofilo attivato poi libera proteasi (es. l’elastasi neutrofila e le metalloproteinasi) che inducono rottura del
tessuto polmonare e quindi enfisema. A parte questo, le sostanze ossidative possono liberare isoprostani che hanno un ruolo
nell’indurre stravaso plasmatico e broncocostrizione e nello
stimolare la secrezione mucosa. Quando si attivano i
neutrofili mettiamo in funzione i meccanismi antiproteasici
(come l’α1-antitripsina). Comunque il deficit di α1antitripsina è uno dei meno incidenti, non è così frequente.
Esistono altri meccanismi proteasici ad incidenza più alta.
Lo stress ossidativo blocca anche la iston-deacetilasi 2
(HDAC2), estremamente importante per instaurare i
meccanismi antinfiammatori (soprattutto per gli steroidi
naturali). Se c’è blocco della HDAC2, c’è steroidoresistenza e un’amplificazione dell’infiammazione. Questo è
un grosso problema in terapia, perché un grosso errore che
viene fatto è di trasferire alla BPCO quello che si sapeva
dell’asma. E l’asma viene curato con gli steroidi: ancora per
la BPCO viene prescritto uno steroide inalatorio. C’è una
parte di pazienti con BPCO che ha un’infiammazione
eosinofila (e quindi lo steroide va dato), ma la maggior parte
dei pazienti con BPCO non ha questa componente e quindi somministrare uno steroide è inutile e anzi si rischia di sottoporre il
paziente agli effetti collaterali, come appunto il blocco della HDAC2.
Una cosa molto importante è cercare di capire se durante l’infiammazione si liberino delle sostanze che possano predire la gravità
della malattia. La gravità della malattia trova riscontro unicamente nella presenza di neutrofili e CD8 nell’espettorato, anche se ci
sono indicatori di flogosi sistemica (PCR e TNF-α nel siero). Ma c’è una grossa dispersione dei valori, quindi la percentuale di
macrofagi nell’espettorato non è un grande indicatore. C’è una grande variabilità che prescinde dalla gravità della malattia. Di
fatto i neutrofili nell’espettorato aumentano, ma non rappresentano un grande bio-marcatore.
La BPCO colpisce le vie periferiche e centrali. Vi è a livello dell’epitelio un piccolo sfaldamento, ma soprattutto metaplasia
squamosa, che può predisporre all’insorgenza del cancro del
polmone. Infatti il fumatore è un soggetto a rischio anche di cancro
del polmone. C’è un aumento di CD8 e macrofagi, iperplasia di
cellule globose (e quindi ipersecrezione di muco), iperplasia delle
ghiandole mucose, ma la muscolatura liscia delle vie aeree non
aumenta di spessore (contrariamente a quanto accade nell’asma).
Per le piccole vie aeree, c’è fibrosi peri-bronchiale, ispessimento
della parete con infiltrazioni di cellule infiammatorie (CD8) e
fibrobasti. C’è essudato infiammatorio nel lume e aumento dei
follicoli linfoidi. Il lume non è chiuso perché c’è contrazione della
muscolatura, ma perché c’è ingombro per via dell’infiammazione.
Si perde la struttura e il polmone perde la capacità di scambiare
gas. Nel soggetto normale, nell’inspirazione il lume si restringe e
nell’espirazione si allarga. Se c’è una BPCO lieve o moderata, c’è
una perdita di elasticità, flusso minore ma conservato. Se nella
forma grave c’è perdita degli attacchi alveolari, l’aria entra in
inspirazione ma le vie si chiudono e l’aria rimane nei polmoni, c’è iperinsufflazione o air-trapping. Questo porta a modifiche
anatomiche (come l’appiattimento del diaframma), compare dispnea e riduzione della capacità di compiere sforzo fisico, con
grosso impatto sullo stato di salute del paziente.
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Quando penso a un paziente affetto da BPCO, penso a come posso evitare che queste trasformazioni avvengano. Una volta che
questa trasformazione si è instaurata riusciamo a desufflare il paziente ma non a modificare queste anomalie a livello delle piccole
vie aeree.
I quadri dell’enfisema centroacinare e panacinare sono completamente diversi anche a livello istologico a anatomo-patologico, ma
quando li vado a trattare somministro a tutti e due lo stesso farmaco. E questo è uno dei motivi per cui non siamo così capaci
realmente di influenzare l’andamento della malattia.
Il problema è ancora più grave, perché accanto a un interessamento del parenchima e delle vie aeree, c’è un interessamento delle
arterie polmonari. Abbiamo infiltrazione di CD8 e macrofagi, iperplasia della muscolatura liscia e dell’intima e disfunzione
endoteliale (la cosa peggiore). Un paziente con BPCO può andare incontro a ipertensione polmonare secondaria. E questa aggrava
molto la capacità del paziente a compiere qualsiasi capacità e influenza in maniera drastica la prospettiva di sopravvivenza.
Possiamo avere riduzione del letto capillare, riduzione delle pareti alveolari, allargamento degli spazi alveolari e un rapporto
ventilo-perfusivo abbastanza alto. Oppure possiamo avere piccole vie aeree ristrette, distorte, senza una distribuzione dell’aria
inspirata omogenea e con una ridotta ventilazione degli alveoli
dipendenti, quindi un rapporto ventilo-perfusivo ridotto. In questo
caso parliamo di ostruzione del flusso aereo, mentre nell’altro caso
parliamo di intrappolamento aereo e di iper-insufflazione. Il grosso
problema è che alla fine mettiamo tutto insieme. Starà alle prossime
generazioni capire come differenziare queste situazioni. Riguardo
all’ipertensione polmonare, se un paziente non scambia andrà
incontro a ipossia. L’ipossia ha un importante effetto sulla parete
muscolare dei vasi, portando a vasocostrizione polmonare che porta
ad aumento di pressione del circolo polmonare. Un protratto periodo
di ipertensione polmonare porta a muscolarizzazione dei vasi,
iperplasia dell’intima, fibrosi e obliterazione. Questi sono gli stessi
effetti che descrive il cardiologo, il problema è solo settorializzato.
La pressione aumentata del circolo polmonare si ripercuote a livello
cardiaco e compare la condizione di “cuore polmonare”, che porta
allo scompenso cardiaco destro (quindi alla comparsa di edemi) e se non interveniamo con opportune terapie (la più importante è
quella di correggere l’ipossiemia somministrando ossigeno a lungo termine e a bassi flussi), il paziente va incontro a morte.
Clinica
La tosse può essere intermittente o giornaliera, presente tutto il giorno o solo di notte. L’espettorato può essere di qualsiasi tipo
(denso, mucoso, purulento ecc). La dispnea rispetto all’asma è caratteristica: è progressiva e persistente, il paziente avverte un
senso di costrizione e di fatica nel respirare. La dispnea peggiora con l’esercizio, ma il paziente affetto di una malattia progressiva
adegua il suo stile di vita alla comparsa dei sintomi. Ci possono essere pazienti con grosse alterazioni funzionali ma che non
avvertono una grossa dispnea. Bisogna tenere in conto il livello di esercizio a cui il paziente arriva. Ci sono dei sistemi molto
semplici, basta il “6 minute walk test”, basta far passeggiare il paziente a velocità costante lungo un corridoio di 30 metri e vedere
con un pulsossimetro che distanze percorre. È un test che il paziente impara, bisogna farlo ripetere 3-4 volte. Ci sono altri sistemi,
come quello dell’endurance (vedere quanti minuti il paziente sostiene un certo carico, in genere l’80% del carico massimo
previsto). D’altra parte è molto difficile misurare la dispnea, anche perché è una sensazione soggettiva. Molte scale di valutazione
vengono messe in discussione. Sicuramente un paziente con BPCO che va incontro ad una qualsiasi affezione respiratoria (come
un banale raffreddore) presenta un peggioramento dei sintomi iniziali.
L’esposizione ai fattori di rischio è una condizione da esplorare all’anamnesi. Bisogna pensare alla presenza di BPCO in ogni
paziente con dispnea, tosse cronica o produzione di espettorato E una
storia di esposizione ai fattori di rischio. Il sospetto deve indurre a
richiedere una spirometria. Non bisogna fare come la maggior parte
dei medici generalisti che prescrive sempre un’ECG ma non richiede
mai una spirometria. Siccome le co-morbidità sono frequenti, queste
dovrebbero essere attivamente ricercate. Non bisogna fermarsi alla
diagnosi di BPCO, ma pensare alle malattie correlate e all’impatto
delle co-morbidità. La spirometria va fatta dopo somministrazione di
bronco-dilatatore, perché tutti noi se facciamo una spirometria
abbiamo una variazione (ripetendo la spirometria in giorni diversi, i
valori non sono mai gli stessi). Bisogna cercare di standardizzare,
portando il paziente al massimo della sua broncodilatazione,
stabilizzandolo nel tono e cercando di capire se quello è il suo reale
valore. Per questo si consiglia sempre di fare la prima spirometria
dopo bronco-dilatazione. E ovviamente bisogna tenere in conto
dell’età del paziente per evitare una sovradiagnosi di BPCO. Si fa
espirare il paziente per 1 minuto e 36’’, ma si valuta quello che il
paziente riesce ad espirare nel primo secondo (FEV1). Come si vede dall’immagine, c’è una grossa differenza di quantità tra un
soggetto normale e un soggetto con BPCO. 4 litri contro 2 litri. Ma anche la FVC si modifica, così come il rapporto tra i due
valori. Di fatto il FEV-1 si modifica molto più della FVC, se diminuissero armonicamente si avrebbe una interstiziopatia (una
restrizione) e non un’ostruzione.
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Esame fisico e altri esami strumentali. Non si può fare una diagnosi sicura di BPCO soltanto in base all’esame fisico. Visitando
il paziente si percepiscono i segni di limitazione del flusso aereo, ma questo non vuol dire necessariamente che siamo di fronte a
un caso di BPCO. Ci sono varie condizioni che determinano limitazione del flusso aereo. È moderata la sensibilità ma anche la
specificità. Se il paziente alla visita presenta questi disturbi, devo chiedere un test di reversibilità con broncodilatatore, per
differenziare la BPCO (che è parzialmente reversibile) dall’asma (che è totalmente reversibile). Poi cerco di capire qual è la
migliore capacità polmonare che il paziente riesce ad ottenere, cosa che permette anche di programmare gli interventi terapeutici
(come la riabilitazione), di giudicare la prognosi e guidare nelle decisioni di trattamento. Soprattutto in prima diagnosi si richiede
una radiografia del torace, che serve per escludere altre patologie (come polmoniti) e per ricercare la presenza di bolle (grosso
fattore di rischio per la comparsa di pneumotorace e dice quanto il parenchima è compromesso). La TC non dice molto di più se
non in determinate condizioni.
Questa è una tipica radiografia di un paziente con
BPCO. Si vede in antero-posteriore l’appiattimento
dei diaframmi e delle coste e la scarsità della trama.
Alla latero-laterale si vede l’aumento dello spazio
retro-cardiaco (completamente scuro) che indica
un’iper-insufflazione. Quando si sospetta una BPCO
si deve guardare subito la latero-laterale per fare
subito una diagnosi di iperinsufflazione. La TC la
posso richiedere per valutare l’ispessimento della
parete alveolare.
Posso richiedere altri esami. L’emogas-analisi si fa
soprattutto per FEV-1 < 40-50% del teorico, perché
può esserci insufficienza respiratoria. E comunque
devo cercare segni di insufficienza respiratoria o di
scompenso cardiaco destro. L’emogas si fa subito in
presenza di cianosi o di turgore delle giugulari o epatomegalia o turgori declivi. Per parlare di insufficienza respiratoria, la PaO2
deve essere < 60mmHg (punto in cui la curva di dissociazione precipita) e la PaCO2 > 50mmHg. In un paziente che presenta
immagini di air-trapping o di bolle enfisematiche vado a chiedere anche il dosaggio della _____. Poi bisogna andare a fare la
mappatura genica, mandando i campioni a Pavia perché solo lì sono attrezzati. C’è uno stretto legame tra le varie componenti
della BPCO ed è difficile differenziarle. Nella BPCO lo stato di salute è influenzato dalla funzione respiroria, bisogna fare in
modo di migliorarla, anche perché è un predittore di mortalità. Anche uno stato di salute compromesso è un predittore di
mortalità.
Co-morbidità. La BPCO è una malattia a più componenti, ma è anche a natura polivalente, dove ci sono anche un problema
relativo agli effetti sistemici, cioè alle co-morbidità. I pazienti con BPCO sono a particolare rischio di: infarto del miocardio,
osteoporosi, infezioni respiratorie, depressione, diabete e tumore del polmone. C’è un drammatico aumento rispetto alla
popolazione generale di queste patologie nell’ambito dei pazienti con BPCO. Questo avviene perché il fumo di sigaretta induce
infiammazione nei polmoni, le citochine che si producono hanno uno “sgocciolamento” nel circolo sistemico. L’IL-6 a livello
epatico stimola la produzione di PCR che va nel circolo ed è responsabile di patologie a livello del sistema cardiovascolare e di
altri organi, compresa la muscolatura. Accanto a queste malattie, una condizione alternativa è la perdita di peso e la presenza di
alterazioni nutrizionali. Sono ad alto rischio sia i pazienti molto magri che quelli molto grassi. Ma un paziente che perde peso è
estremamente compromesso. Si ipotizza che la BPCO sarebbe l’espressione di una condizione di infiammazione sistemica. Le comorbidità hanno un importante effetto sulla prognosi di una malattia: se ho 2 malattie diverse è più difficile trattare il paziente.
Circa 1/3 dei pazienti con cardiopatia è anche affetto da BPCO e una riduzione del FEV-1 è un grosso fattore di rischio di
mortalità per tutte le cause. I cardiologi sanno che un paziente con FEV-1 ridotto implica un minor successo del trattamento.
Quasi tutti i BPCO sono pazienti anziani. Il grosso problema è che in genere si semplifica tutto in linee guida. Mentre per l’asma
le linee guide sono specifiche, per la BPCO il problema è più complicato. Le linee guida per la BPCO indicano come comportarsi
in generale, ma non dicono come comportarsi nei confronti delle co-morbidità. Ad esempio nei confronti della depressione molte
volte non si sa come comportarsi, però si sa che un paziente depresso ha una probabilità quadruplicata di morire per BPCO.
Interstiziopatie (parte1)
Prof. Rogliani, 12/03/09
Definizione e classificazione
Interstiziopatie o pneumopatie infiltrative diffuse: patologie che riguardano quel piccolo spazio anatomico che è l’interstizio
polmonare. Vengono anche dette pneumopatie infiltrative diffuse perché hanno l’aspetto di infiltrati al quadro radiologico.
Essenzialmente si dividono in due grandi capitoli: le interstiziopatie da causa nota e da causa ignota.
Le interstiziopatie polmonari diffuse comprendono un gruppo eterogeneo di disordini non neoplastici caratterizzati da una
disorganizzazione morfo-funzionale dell’interstizio polmonare, costituito inizialmente da infiammazione e successivamente da
fibrosi, con possibile coinvolgimento anche delle vie aeree periferiche e delle strutture vascolari. È un gruppo eterogeneo perché
ci sono patologie totalmente diverse tra loro: fibrosanti, granulomatose, patologie professionali. Non neoplastiche perché molte di
queste hanno caratteri evolutivi molto simili ai disordini neoplastici. Aspetto all’RX a nido d’ape, per deposizione di materiale
fibrotico (in queste zone non si respira).
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La fibrosi polmonare è stata identificata come tale per la prima volta intorno agli anni ’30, esattamente nel 1935 quando Hamman
e Rich identificarono 4 casi nei quali c’era una fibrosi polmonare (poi vista al reperto autoptico) che aveva un carattere
ingravescente ed evolutivo molto rapido. Fu inizialmente chiamata “cirrosi muscolare del polmone”, proprio per l’aspetto
compatto, o sindrome di Hamman-Rich. Solo successivamente (dal ’35 fino agli anni ’60) si arriva a classificare le interstiziopatie
ad opera di Leadoff e Carrington. Questa classificazione era basata sul quadro anatomo-patologico se c’era una componente
linfocitaria veniva chiamata LIP (lymphocitic interstizial pneumonia), se era una patologia acuta si chiamata AIP (acute
interstitial pneumonia), e così via. La sindrome di Hamman-Rich non era quella che oggi riconosciamo come forma usuale a
prognosi infausta (UIP), ma la forma acuta con esordio ed evoluzione rapida. Più recentemente (nel 2000) è stata stilata una
classificazione dall’ATS e dall’ERS (le maggiori società di pneumologia, rispettivamente americana ed europea), il cosiddetto
“consensus”. Fu poi migliorato nel 2002 e ancora oggi usiamo questa classificazione. Gli acronimi vengono dalla definizione
inglese. Si tende ad usare gli acronimi inglesi anche in italiano per facilitare la ricerca biografica ed avere un codice universale.
UIP = polmonite interstiziale diffusa, BOOP = bronchiolite obliterante con polmonite organizzata, LIP, forma desquamativa,
forma associata a metalli duri con cellule giganti.
La fibrosi polmonare idiopatica è una polmonite interstiziale cronica fibrosante a causa sconosciuta associata ad un pattern
istologico di polmonite interstiziale usuale (UIP). Quella di tipo usuale è quella che ha prognosi infausta. Caratteri salienti:
aspetto a nido d’ape (sovvertimento morfo-funzionale, il parenchima elastico è sostituito da tessuto cicatriziale rigido, al tavolo
autoptico il polmone è duro).
Essenzialmente le interstiziopatie polmonari diffuse si dividono in
• Interstiziopatie a causa nota (associate a patologie vascolari e del collagene)
• Polmoniti interstiziali idiopatiche
• Forme granulomatose (tra queste la sarcoidosi)
• Forme come istiocitosi X, LAM ecc.
La prima cosa da fare quando ci si trova davanti ad una interstiziopatia è chiedersi se è a causa nota o idiopatica. Le polmoniti
interstiziali idiopatiche sono essenzialmente:
• UIP (forma usuale, particolarmente infausta)
• DIP (forma desquamativa, presente soprattutto nei fumatori, forma più benigna)
• RB-ILD (forma di bronchiolite respiratoria associata a malattia interstiziale polmonare)
• AIP (forma acuta o sindrome di Hamman-Rich)
• NSIP (forma interstiziale non specifica)
• COP (forma criptogenetica organizzata)
• LIP (forma linfoide)
Sulla base dell’evoluzione si dividono in acute (AIP), subacute e cronica (UIP).
La definizione clinico-strumentale corrisponde ad un quadro anatomo-patologico: se viene definita una fibrosi polmonare
idiopatica bisogna specificare se è di tipo UIP, che definisce anche il pattern anatomo-patologico. Ad esempio la forma NSIP
corrisponde al quadro anatomo patologico, ma c’è una ulteriore suddivisione perché può essere di tipo fibrotico o cellulare. In
quella cellulare prevale la componente infiammatoria e quindi ha una prognosi migliore della forma fibrosante.
Diagnostica
La fibrosi polmonare idiopatica è ad eziologia sconosciuta ed è una patologia limitata al polmone, per questo è un disordine non
neoplastico, non “metastatizza”. La forma UIP ha un carattere evolutivo con alcuni aspetti simile a quello delle neoplasie. Non è
una diagnosi facile, quando si sospetta una polmonite intersitiale idiopatica si ricorre alla biopsia polmonare. Necessario escludere
una patologia a causa nota. Il nostro paziente deve presentare un quadro funzionale (alla spirometria) di tipo restrittivo, con una
capacità di diffusione dei gas ridotta. Poi deve avere un quadro tipico alla TC (polmone a nido d’ape). Se abbiamo questi elementi
si può procedere con una biopsia polmonare. È una malattia molto difficile da inquadrare e diagnosticare: nei quadri iniziali può
presentare alla TC quadri molto sfumati di difficile interpretazione. Nei pazienti con storia di fumo di tabacco, le alterazioni
ostruttive possono spesso mitigare la forma restrittiva, quindi nelle fasi iniziali non si riesce a cogliere il deficit ventilatorio (può
essere un fattore confondente). In assenza di biopsia chirurgica che mostri un quadro anatomo-patologico tipico in un soggetto
immuno-competente, sono stati identificati 4 criteri maggiori che devono essere soddisfatti e 4 criteri minori (sempre nel
consensus del 2002). Bisogna avere 3 su 4 criteri maggiori e almento 2 su 4 criteri minori.
• I criteri maggiori sono:
1. Causa ignota: non bisogna avere all’anamnesi storia di esposizione a fattori di rischio per altre patologie note né
assetti autoanticorpali positivi o vasculopatie o storia di assunzione di farmaci che possono avere azione
fibrosante come l’amiodarone usato in cardiologia
2. Tipico quadro funzionale: deficit ventilatorio di tipo restrittivo, ridotta diffusione alveolo-capillare (l’interfaccia
alveolo-capillare è ispessiva dalla deposizione di tessuto fibrotico)
3. Imaging toracico con aspetto radiologico tipico di fibrosi polmonare
4. BAL (lavaggio bronco-alveolare) o biopsia trans-bronchiale che esclude altre patologie note (due operazioni
che si fanno in broncoscopia)
• I criteri minori sono:
1. Età superiore ai 50 anni: è una patologia che insorge in età adulta.
2. Esordio subacuto: dispnea da sforzo
3. Durata della malattia superiore ai 3 mesi: l’affanno deve essere continuo e presente da almeno 3 mesi
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4.
Rumore tipico all’ascultazione: crepitii bilaterali secchi (senza la componente umida dell’enfisema) alle basi
dovuti all’apertura degli alveoli rigidi, preceduti da rumore tipo velcro (soprattutto nelle fasi iniziali
dell’interstiziopatie); rumori con andamento centripeto
La malattia dà segno di sé solo quando è abbastanza diffusa, per via della grande capacità di compenso del polmone. Se la
componente elastica viene sostituita da piccole cicatrici, si avrà come sintomo iniziale dispnea da sforzo. Ma non ipossiemia
come il bronchitico cronico: a riposo la saturazione è normale, scende durante l’esercizio quando aumenta il fabbisogno di
ossigeno. Il paziente ha dei cali di saturazione immediati. I sintomi di esordio sono, a parte la dispnea da sforzo, una tosse secca
non produttiva (esacerbata soprattutto dallo sforzo).
I test di funzionalità respiratoria sono essenziali per fare diagnosi (insieme agli altri criteri), valutare quanto grave è il nostro
paziente, eventualmente monitorare la
patologia (le cadenze nel follow-up sono in
genere trimestrali) e gli effetti della terapia.
Si valuta la compliance statica del polmone,
i volumi polmonari statici, i flussi aerei e gli
scambi gassosi. Nei pazienti con fibrosi
polmonare idiopatica la compliance
polmonare è tipicamente ridotta. I pazienti
perdono volume polmonare, hanno una
ridotta distensibilità dell’alveolo e c’è un
aumento
della
tensione
superficiale
dell’ossigeno. Nel paziente con restrizione le morfologie delle curve flusso-volume sono simili, ma tutto funziona a volumi più
bassi. La CV è ridotta per riduzione del numero di unità alveolari funzionanti e per le alterazioni del tessuto elastico (sostituito
con tessuto fibrotico). La CPT è ridotta, ma in misura minore rispetto alla CV. La CFR è ridotta, il VR è relativamente
conservato, con un aumento del rapporto VR/CPT. Il VR invece nella BPCO è aumentato per aumento dello spazio morto dato
dalla distruzione dei setti interalveolari. La funzione delle vie respiratorie è normale o aumentata nonostante il ridotto volume
polmonare statico. FEV-1 e CVF sono normali o poco aumentati. Il Tiffenau è normale perché il rapporto è normale: se si
riducono, lo fanno armonicamente (altra differenza con la BPCO). La curva ha morfologia normale ma a più bassi volumi (non
c’è aspetto “a dito indice”). Per quanto riguarda gli scambi gassosi, aumenta lo spessore della superficie di scambio, la PaO2 può
essere normale o di poco ridotta. Se la valutiamo subito dopo lo sforzo, abbiamo una caduta repentina per l’impossibilità di
diffondere normalmente. La PaCO2 subisce meno variazioni (i pazienti normalmente sono ipossiemici e normocapnici, con pH
equilibrato). La DLCO può essere leggermente ridotta nelle fasi iniziali, molto ridotta nelle fasi finali. È in questa patologia
l’indice spirometrico più sensibile. Si ha un’alterazione del rapporto ventilazione-perfusione, ci sono zone ventilate ma non
perfuse, perché il sovvertimento strutturale comprende anche le strutture vascolari. Questo si verifica nelle fasi finali quando
subentra dispnea anche a riposo.
Sotto sforzo c’è ridotto reclutamento dei capillari alveolari, riduzione del tempo di contatto tra GR e gas alveolari e riduzione del
rilascio dell’ossigeno in periferia. Il lavoro inspiratorio viene incrementato per aumento del carico elastico. Per soddisfare
l’aumentata richiesta ventilatoria i pazienti tendono ad aumentare la frequenza respiratoria, incrementando il VT (volume
corrente). I pazienti quando fanno il test del cammino in 6 minuti hanno una frequenza respiratoria molto aumentata, cosa che
porta a ipocapnia e a lieve alcalosi respiratoria.
La forma UIP è a prognosi infausta: secondo studi epidemiologici internazionali il 50% dei pazienti muore entro i 3 anni
dall’inizio della sintomatologia respiratoria (dispnea respiratoria e tosse secca). Si distingue nettamente dalla forma non specifica
fibrotica (NSIP) che è sempre infausta ma ha una sopravvivenza superiore. In base alle curve di sopravvivenza si distingue
nettamente la UIP da tutte le altre forme. Fino agli anni ’70 si pensava che la UIP fosse la fase finale di tutte le altre forme, oggi
invece si è capito che è una forma a sé. Le altre forme rispondono al trattamento anti-infiammatorio al alte dosi, la UIP no :l’unica
terapia risolutiva alla fine è il trapianto di polmone, per il quale ci sono limiti di età (< 65 anni).
Per quanto riguarda le indagini di laboratorio e il BAL si ha assenza di agenti microbici o cellule neoplastiche, assenza di cellule o
particelle estranee compatibili con una pneumoconiosi, indici di flogosi aumentati, soprattutto negli eventi acuti prima
dell’avvento della fibrosi (VES, PCR, aumento delle Ig sieriche e degli immunocomplessi circolanti). Il BAL dei pazienti con
fibrosi polmonare presenta aumento della cellularità. I reperti del BAL non discriminano tra le varie forme di fibrosi polmonare,
ma possono distinguere una forma a causa nota da una idiopatica. Tra i vari indicatori di migliore sopravvivenza sono compresi
un aumento della percentuale di linfociti nel BAL e una ridotta percentuale di neutrofili ed eosinofili (anche se è un dato
abbastanza compromesso). Un altro dato controverso è il cambiamento di cellularità nel BAL in risposta alla terapia steroidea. In
genere non si pensa che il BAL nel follow-up sia molto utile.
Algoritmo diagnostico per un sospetto di interstiziopatia polmonare: storia del paziente, esame clinico, RX torace, spirometria. Se
è una forma idiopatica si fa fare una TC. Se ha tutte le caratteristiche della forma UIP possiamo fare diagnosi, se è una forma
atipica o sussiste il sospetto facciamo prima un BAL con eventuale biopsia transbronchiale ed eventualmente anche la biopsia
chirurgica (a cielo aperto o in videotoracoscopia assistita).
Epidemiologia
La prevalenza è di 6-15 casi ogni 100000 abitanti. L’incidenza aumenta con l’aumentare dell’età, così come la mortalità. L’età
media di insorgenza è tra i 40 e i 50 anni. La forma più frequente è la fibrosi polmonare idiopatica insieme alla forma
granulomatosa idiopatica (la sarcoidosi). In realtà questa casistica (studio USA) è di qualche anno fa: oggi l’incidenza è
aumentata, anche per la migliore conoscenza negli anni di questa patologia. Non è raro che giungano in ambulatorio pazienti che
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fino a quel momento sono stati trattati per un’altra patologia (soprattutto BPCO) mentre in realtà avevano una fibrosi polmonare.
Si pensa che la prevalenza sia comunque superiore a quella presentata, per la difficoltà di diagnosi.
Per quanto riguarda il registro epidemiologico italiano (dati del 2005), esiste una forma di UIP familiare e la prevalenza è
superiore negli uomini rispetto alle donne (450 uomini rispetto a 250 donne), prevale quella di tipo UIP, il 50% dei pazienti con
fibrosi polmonare idiopatica non ha mai fumato (il fumo non è un elemento determinante nella patologia). Per quanto riguarda la
funzionalità respiratoria, prevale il pattern di tipo restrittivo.
Cenni di broncoscopia
Primi broncoscopi rigidi, poi sempre più flessibili. Il primo broncoscopio risale alla fine dell’800, era un broncoscopio rigido che
veniva posizionato fino alla carena. Ikaeda nel ‘64 stabilisce gli standard per il primo broncoscopio flessibile, nel ’68 viene messo
sul mercato il primo broncoscopio flessibile. Nel 1987 si trova il modo di mettere una telecamera all’interno. La broncoscopia
diagnostica oggi si avvale di vari strumenti come l’ultrasonorografia, autofluorescenza e broncoscopia virtuale (ricostruzione su
immagini TC). In più da poco è uscito uno strumento elettronico costituito da un materassino collegato alla struttura della colonna
video nel quale viene caricata la TC del paziente con punti di repere particolari che vengono fissati nel software. Quindi sulla base
della TC e dei punti di repere viene ricostruita una specie di viabilità endoscopica. Si ha l’immagine real-time della broncoscopia
e la sede anatomica precisa dove si posiziona il broncoscopio. Sarà sicuramente utile per fare biopsie transbronchiali mirate. La
biopsia transbronchiale essenzialmente è una biopsia con pinze in endoscopia non di qualcosa di cui si ha la visione diretta, ma
alla cieca.
• Indicazioni alla broncoscopia: patologia neoplastica (per fare diagnosi, stadiazione ecc), infezioni polmonari croniche,
malattie interstiziali del polmone, masse mediastiniche.
• Indicazioni principali alla broncoscopia: tosse da almeno 3 mesi non motivata, dispnea e stridore, emottisi, radiografia
anormale del torace (anormalità localizzate, in genere dovute a patologie neoplastiche o infiltrati polmonari; o anormalità
diffuse come le pneumopatie interstiziali)
• Controindicazioni alla broncoscopia ispettiva: non ci sono controindicazioni assolute. Esistono comunque condizioni ad
alto rischio e ad altissimo rischio.
o Ad altissimo rischio
Aritmie cardiache severe, perché i bronchi principali sono a stretto contatto nel mediastino con
strutture vascolari importanti, col nervo laringeo e altre strutture nervose. Il paziente può avere una
reazione vagale e se è già bradicardico, possiamo perderlo. Bisogna avere un ECG recente e un
emocromo
Infarto miocardio nelle 6 settimane precedenti
Ipossiemia refrattaria: si ha una minima riduzione della saturazione del paziente all’inserimento del
tubo, se già ha un’ipossiemia grave determiniamo un’ulteriore riduzione della PO2
Cardiopatia ischemica instabile e scompenso
Broncospasmo in atto
o Ad alto rischio
Asma instabile: soggetti ipersensibili nei quali basta un minimo elemento per determinare la chiusura
delle vie aeree
Infarto del miocardio nei 6 mesi precedenti
• Controindicazioni alla broncoscopia con prelievi bioptici: neanche qui ci sono controindicazioni assolute. Ci sono
condizioni ad alto e ad altissimo rischio simili a quelle elencate precedentemente più alcune aggiuntive.
o Coagulopatia severa: al prelievo bioptico provochiamo un sanguinamento che a volte non è arginabile.
• Controindicazioni alla biopsia transbronchiale: esiste una controindicazione assoluta.
o Controindicazioni assolute
Coagulopatia severa: non vediamo dove facciamo la biopsia e non possiamo capire dove tamponare e
dove abbiamo fatto il danno.
o Controindicazioni ad alto e ad altissimo rischio
Uguali alle precedenti
Nella preparazione alla broncoscopia è necessario il consenso informato del paziente, esami ematochimici, radiologici, digiuno,
premedicazione, anestesia locale e monitoraggio. C’è un’ispezione della parete e del lume bronchiale (possono esserci strutture o
secrezioni anomale o disturbi di motilità nella respirazione o durante la tosse). L’introduzione del broncoscopio è molteplice:
possiamo avere un’introduzione orale, nasale e tracheostomica nei pazienti tracheostomizzati (più facile e meno fastidiosa per il
paziente). Si va a ispezionare l’epitelio della mucosa e la sottomucosa. Si possono avere “strie a binario” per infiltrazioni della
sottomucosa.
Il prelievo si può fare con una biopsia, un ago-aspirato tracheobronchiale, con un brushing o con un BAL, tutti strumenti che
possono essere inseriti nel canale operativo del broncoscopio. L’agoaspirato tracheobronchiale in genere viene fatto quando ci
sono compressioni tracheobronchiali, quindi quando non abbiamo la visibilità della lesione e tranciamo con l’ago la parete
tracheobronchiale per andare a colpire strutture linfonodali contigue adese alle vie di conduzione dell’aria che esploriamo. Il
brushing viene usato per raccogliere materiale da usare per studi microbiologici e citologici. Il BAL è una procedura che permette
il recupero di componenti cellulari e non della superficie epiteliale. Si chiama alveolare perché si studia il contenuto dell’alveolo.
Ha finalità sia cliniche che di ricerca. Indicazioni cliniche: diagnosi batteriologica di infezione respiratoria, diagnosi citologica di
neoplasia, diagnosi immunologica di malattia infiammatoria. Il BAL viene effettuato dopo un’ispezione. Viene usata una
soluzione salina sterile e irrigati i segmenti di pertinenza della lesione (100-300ml a boli, buona resa se recuperato il 50%). Effetti
collaterali: crepitii umidi nella 24h successive, lieve broncostenosi, febbre fugace la sera dopo (30% dei casi).
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Interstiziopatie (parte2)
Prof. Saltini, 15/03/09
Fattori di rischio
Le malattie più frequenti sono la fibrosi polmonare idiopatica, la polmonite non specifica e alcune malattie che sono due legate
strettamente all’esposizione a fumo di sigaretta (la bronchiolite respiratoria e la polmonite interstiziale desquamativa) e una (la
polmonite linfocitica interstiziale) legata alle neoplasie linfoidi.
Per quanto riguarda la fibrosi polmonare idiopatica, la cosa più importante è di ricordare e sapere che è associata a 3 ordine di
fattori di rischio:
• L’età: aumenta di incidenza in modo quasi geometrico all’aumentare dell’età, dipende verosimilmente dalle alterazioni
normale dell’invecchiamento, cioè la riduzione della capacità dell’organismo di gestire ed eliminare lo stress ossidativo
ed alcuni stress ambientali e di ricostituire i propri cromosomi generazione dopo generazione (es. sindrome del telomero
corto)
• Esposizione al fumo di sigaretta o ad inquinamento ambientale di tipo industriale
• Fattori genetici, non tutti definiti
[La definizione di questa malattia è di una polmonite fibrosante cronica che è limitata al polmone e che è associata con quello che
si dice essere l’aspetto istologico della polmonite interstiziale (o UIP, cioè polmonite idiopatica usuale). Il pattern UIP è
caratterizzato da una fibrosi con scarsi aspetti infiammatori. È una malattia periferica (sottopleurica, a differenza dalla sarcoidosi
che è centrale), presenta una fibrosi reticolare (alternata ad aree di polmone apparentemente sano radiologicamente) e microcisti
(dilatazioni degli spazi aerei terminali). Questa malattia ha una prognosi che è rapidamente infausta nella maggioranza dei
pazienti. Il dato classico è pessimista per il fatto che il tempo di sopravvivenza è giudicato in base alla diagnosi e nei 2-3 decenni
scorsi la diagnosi era ritardata dal fatto di non avere strumenti potenti di imaging polmonare. La sopravvivenza mediana era
stimata attorno a 2 anni e 4 mesi (a 2 anni e 4 mesi, il 50% dei pazienti è deceduto). La cosa è diversa per la NSIP (polmonite non
specifica), che in realtà ha una mediana di sopravvivenza attorno ai 5-7 anni o anche di più. Insomma è una malattia non meno
grave di un tumore del polmone e colpisce un numero di persone intorno a 5 x 100000 per anno (incidenza poco più bassa di
quella della TBC nel nostro paese) e aumenta di incidenza con l’età (0 casi a 20 anni,150 casi x 100000 oltre i 70 anni). Malattia
in aumento dal punto di vista dell’epidemiologia (per l’aumentare dell’inquinamento o perché siamo diventati più bravi a fare le
diagnosi).
Viene diagnosticata sostanzialmente su 3 criteri clinici e radiologici: esclusione di altre patologie interstiziali polmonari (l’aspetto
UIP è comune ad altre malattie come l’artrite reumatoide, l’asbestosi, alcune forme di collagenopatie come la sclerodermia); i
pazienti si presentano con una funzione polmonare anormale (sindrome restrittiva: ↓ CV, CPT e VR, ↓ DLCO perché i setti
alveolari sono ispessiti e i vasi polmonari sono alterati); aspetto istologico della UIP alla biopsia. Diagnosticata in base al sospetto
clinico, ma la diagnosi all’RX torace ha un ritardo di 1-2 anni rispetto alla diagnosi fatta con una TC ad alta risoluzione (per la
minore risoluzione). Facile da confondere con qualcos’altro, spesso pazienti con UIP hanno una storia di bronchite cronica con
bronchiectasie e non si pensa che possano avere un’altra patologia, così continuano ad essere trattati con broncodilatatori.
Caratteristici i rantoli polmonari bibasilari, simili allo strappo del velcro, da non confondere con i rantoli “a marea montante”
dell’edema polmonare, ma possono trovarsi anche nell’asbestosi].
Progressione ed esito della malattia
I pazienti muoiono di insufficienza respiratoria, di tumore del polmone (particolarmente frequente per via della metaplasia
squamosa degli epiteli periferici), per infezioni polmonari, scompenso cardiovascolare e altre malattie. Lo scompenso respiratorio
(che porta a morte il 40% di questi pazienti) in genere si concretizza in quella che viene chiamata “accelerazione ed esacerbazione
della malattia”. La progressione porta a morte in modo acuto o subacuto. L’accelerazione è qualcosa che assomiglia all’ARDS
(una forma di insufficienza respiratoria acuta associata a sepsi, traumi ed altro, caratterizzata da essudazione intrapolmonare,
riduzione degli scambi in assenza di scompenso cardiaco sinistro). Quindi spesso l’esacerbazione è l’evento terminale. Si arriva
ad una fase in cui i pazienti respirano solo con O2 puro al 100%, cosa che produce danno ossidativo che instaura un circolo
vizioso con progressione più rapida della fibrosi.
La malattia progredisce per improvvise esacerbazioni e progressiva perdita di funzione respiratoria con riparazione fibrotica.
Nel polmone dei fibrotici fumatori può esserci anche enfisema, esistono quadri di fibrosi polmonare idiopatica associata ad un
quadro funzionale non ristretto. Può esserci sia enfisema e fibrosi, cosa che porta ad una progressione più grave, soprattutto se
associata a ipertensione polmonare.
Eziopatogenesi
Esistono diverse ipotesi che sono state formulate nel corso degli anni.
Ipotesi infiammatoria. Alla base c’è un’infiammazione. Questo è documentato da una condizione chiamata alveolite
(caratterizzata da un accumulo di cellule infiammatorie che producono fattori fibrogenici come il PDGF). Una reazione
infiammatoria cronica può complicarsi con una risposta autoimmune (in questi pazienti troviamo vari autoanticorpi contro vari
componenti cellulari che possono verosimilmente partecipare alla progressione della malattia). La malattia ha una componente
infiammatoria, composta e caratterizzata da un aumento delle cellule infiammatorie del polmone (aumento di macrofagi di 10
volte) e dalla presenza di autoanticorpi (anche se non si è trovato il bersaglio specifico). Avendo diversi laboratori dimostrato la
presenza e la persistenza di una componente infiammatoria, sono state sviluppate diverse terapie anti-infiammatorie. L’argomento
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maggiore contro la teoria infiammatoria è il fatto che nessun anti-infiammatorio usato si è dimostrato efficace (es. prednisone).
Però migliorano i pazienti con NSIP, contro-prova che nelle forme infiammatorie l’anti-infiammatorio funziona.
Ipotesi Th2. La malattia potrebbe essere causata da uno sbilanciamento della risposta immune a livello polmonare a favore dei
Th2. I Th1 producono interferon (che è antifibrotico), i Th2 IL-4 (che è profibrotico). Studi fatti su pazienti con fibrosi polmonare
idiopatica hanno dimostrato che in realtà esiste una polarizzazione Th2 nei polmoni di questi pazienti. Questo ha portato alla
proposta di trattare i pazienti con IFN-γ. Esiste anche uno sbilancio nel fenotipo dei macrofagi a favore dei macrofagi M2 che
producono fattori che sbilanciano il fenotipo linfocitico verso i Th2. Sulla base di queste informazioni un medico di Vienna
(Ziescke) mise su uno studio clinico controllato in cui reclutò 18 pazienti che divise in 2 bracci (uno con IFN-γ e dosi basse di
cortisone, l’altro con cortisone e basta). Pubblicò un articolo sul new england journal of medicine che dimostrava come l’IFN-γ
portava a un miglioramento della funzione polmonare dei pazienti con fibrosi polmonare idiopatica nel giro di un anno. Si
riduceva drasticamente la mortalità nel braccio trattato con IFN-γ. Questo portò l’industria farmaceutica a cavalcare questo nuovo
modello di terapia, la Genetec californiana si imbarcò nell’impresa di dimostrare che in effetti l’IFN-γ funzionava. Si fece uno
studio successivo su 300 persone che dimostrò una qualche differenza di sopravvivenza tra i trattati e i non trattati, ma molto
minore di quella dello studio di Ziescke. Infine fu lanciato uno studio su 800 pazienti con la stessa cura di Ziescke, dopo 2 anni il
comitato etico interruppe lo studio perché il braccio trattato con cortisone + IFN-γ andava peggio dell’altro. Ci si chiede oggi
cos’avessero in realtà i pazienti del professor Ziescke. Però per la prima volta sono stati studiati centinaia di pazienti non trattati,
cosa che ha insegnato molto sulla storia naturale e le caratteristiche della fibrosi polmonare idiopatica.
Ipotesi dello stress ossidativo. La malattia sarebbe causata da un esagerato stress ossidativo e da un’inabilità dei pazienti a
rispondere allo stress ossidativo. Le evidenze sono: associazione con l’esposizione a fumo di tabacco e con l’invecchiamento,
prove biologiche (maggior quantità di ossidanti prodotti dai macrofagi alveolari, ↑ perossidasi, presenza di citotossicità da ROI, ↓
antiossidanti nel polmone e in circolo, es. glutatione-perossidasi e superossido-dismutasi). Abbiamo due ordini di dimostrazioni
che sostengono l’idea che un danno da radicali dell’ossigeno o da stress ossidativo possa essere la causa delle alterazioni
epiteliali: ↑ ROI nel polmone dei pazienti e ↓ degli antiossidanti nel polmone e nel siero. Questo ha portato a diversi studi di
terapia, che hanno usato la N-acetil-cisteina (la Cys funziona come antiossidante ed è il componente principale del glutatione, la
N-acetil-Cys viene assorbita dalle cellule per produrre glutatione, funziona in sé e come precursore). Questa si è dimostrata
efficace per aumentare i livelli di glutatione nei pazienti e ridurre lo stress ossidativo. Uno studio condotto in Giappone ha
dimostrato che questi pazienti trattati con N-acetil-Cys aerosolizzata avevano un miglioramento della loro funzione polmonare e
delle lesioni dimostrabili con TC ad alta risoluzione. Un secondo studio fatto in Europa con N-acetil-Cys per bocca ha dimostrato
che c’è un miglioramento delle condizioni nei pazienti che prendono N-acetil-Cys + un immunosoppressore rispetto a quelli che
prendono solo l’immunosoppressore. In realtà lo studio giapponese è meno potente dal punto di vista numerico ma più potente dal
punto di vista concettuale (perché viene usato solo la N-acetil-Cys).
SARCOIDOSI
Malattia più tipica e frequente delle malattie granulomatose polmonari non infettive. Malattia granulomatosa cronica sistemica a
eziologia sconosciuta e localizzazione prevalentemente polmonare. Al contrario della fibrosi polmonare idiopatica, ci sono
granulomi in diversi organi (tutti gli organi possono potenzialmente essere colpiti). La pelle è più comunemente colpita dopo il
polmone. Anche la diagnosi di sarcoidosi è difficile: è una diagnosi morfologica, richiede la dimostrazione della lesione anatomopatologica (granuloma non caseificante).
Ha una prevalenza di 1-40 casi per 100000, maggior frequenza sotto i 40 anni. Negli USA la sarcoidosi è più frequente negli
afroamericani, in Europa ha un gradiente Nord-Sud (più frequente a Nord che a sud).
La caratteristica della malattia è una reazione granulomatosa polmonare (più frequente) accompagnata ad un’infiammazione degli
alveoli (alveolite = infiammazione dell’alveolo sia come interstizio che come spazio aereo). Al BAL si vedono macrofagi (in
genere larghi, vacuolati, simili a quelli della polmonite da ipersensibilità) e una grande quantità di linfociti attivati CD4 Th1 che
producono soprattutto IL-2 e IFN-γ. Nella persona sana per il BAL ci sono: 80% macrofagi, 10-12% linfociti, qualche neutrofilo e
mezzo eosinofilo. Nel paziente con sarcoidosi ci sono 80-90% linfociti, 2-5% eosinofili e pochi neutrofili. I pazienti con
sarcoidosi attiva esplosiva hanno 90% e passa di linfociti. Ci sono anche cellule giganti multinucleate (istiociti multinucleati),
visibili anche in malattie immuni polmonari. Si vedono lesioni polmonari nel contesto di una malattia sistemica. Se abbiamo più
del 60% di linfociti CD4, la presunzione che questa sia sarcoidosi è ragionevole. La diagnosi è morfologica, bisognerebbe avere
un quadro di malattia granulomatosa polmonare in corso di malattia sistemica con un’evidenza bioptica di granuloma non
caseificante.
Classificazione clinico-radiologica:
• I stadio: linfonodi polmonari visibili come ingrandimento degli ili polmonari. Linfoadenopatia che può essere sia
esclusivamente polmonare che sistemica (linfonodi del mediastino, ascellari, sopraclavicolari ingranditi) e può essere
caratterizzata da un eritema nodoso (area cutanea ingrossata, rilevata, che colpisce il tronco e la parte anteriore degli
arti), molto raro alle nostre latitudini, più frequente al Nord.
• II stadio: malattia che colpisce sia i linfonodi che il parenchima polmonare, si hanno lesioni micronodulari disposte
lungo i fasci bronco-vascolari, diffusa a entrambi i campi polmonari. Dal punto di vista anatomico, si ha accumulo di
granulomi nel parenchima polmonare e lungo i fasci bronco-vascolari + alveolite (ispessimento dei setti, ↑ numero di
cellule negli alveoli).
• III stadio: fibrosi in cui non si vedono più i linfonodi, c’è la tipica lesione fibrotica che colpisce prevalentemente i lobi
superiori con lesioni microcistiche e tralci fibrotici. Oltre alle masse di granulomi si hanno masse di tessuto fibrotico nei
polmoni.
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I pazienti con sarcoidosi acuta (linfonodale e cutanea) al I stadio possono guarire spontaneamente, i pazienti con fibrosi non
guariscono spontaneamente e necessitano di trattamento. Il trattamento con cortisonici si instaura a partire dal II stadio (al II
stadio si inizia la terapia previa osservazione di 6 mesi, al III stadio si inizia subito).
Si pensa che la sarcoidosi sia la somma di una serie di patologie ad eziologia nota, ad esempio la berilliosi (prevalentemente
polmonare, ma può essere sistemica; a parte l’eziologia è identica alla sarcoidosi). Bisogna fare un’anamnesi accurata per
l’esposizione a vari metalli o a micobatteri (i micobatteri possono causare lesioni molto simili a quelle della sarcoidosi). Un
numero variabile di pazienti con sarcoidosi ha antigeni contro M. tuberculosis o altri micobatteri. Chi viene da famiglie che hanno
sconfitto la tubercolosi e ha nel genoma dei geni di resistenza alla tubercolosi, ha più possibilità di sviluppare sarcoidosi per iperreattività immune ai micobatteri atipici (ambientali). La sarcoidosi si può pensare come malattia da ipersensibilità a componenti
biologiche (micobatteri) o inerti (polveri di metalli, come il berillio).
Insufficienza respiratoria
Prof. Pezzato, 17/03/09
Diagnostica e definizione
Diagnosi non clinica, ma sulla base dell’emogas. È stato definito il miglior esame per il rapporto costo-beneficio dall’OMS.
Bisogna valutare i gas del sangue arterioso (O2 e CO2) e il pH. Il limite per definire la presenza di insufficienza respiratoria si
basa sulla PaO2 (deve essere < 55mmHg), in presenza o no di ipercapnia (PaCO2 > 45mmHg) e di acidosi respiratoria (pH < 7,35
acidosi respiratoria). L’ipercapnia classifica ma non definisce l’insufficienza respiratoria (è determinata solo da un basso valore di
PaO2. Si sceglie 55mmHg come valore di PaO2 in base alla curva di dissociazione dell’emoglobina (a 55mmHg ancora si ha una
saturazione del 90%, riporta al tratto della curva di dissociazione dell’Hb che inizia a diventare piatta per valori superiori). Se si
scende sotto i 55mmHg, c’è un’importante caduta della saturazione. La PaO2 varia con l’età secondo la formula PaO2 = 109 (0,43 x età). Di solito la PaO2 è compresa tra 85 e 100mmHg e la PaCO2 tra 37 e 43mmHg. Si parla di insufficienza respiratoria
se la PaO2 si abbassa al di sotto di 55mmHg. L’ipercapnia si associa ad acidosi respiratoria, si trova sempre in ipoventilazione.
Durante l’esercizio fisico aumenta la ventilazione/minuto (tachipnea) e si tende ad avere ipocapnia, durante la notte invece si va
in bradipnea e in ipercapnia, con lieve acidosi respiratoria. La CO2 aumentata si trova solo in caso di ipoventilazione alveolare.
Quindi non si può fare diagnosi di ipoventilazione alveolare se non c’è riscontro all’emogas di un’ipercapnia.
Segni e sintomi dell’ipossiemia: cianosi (in relazione alla quantità di emoglobina ematica), tachicardia (per aumento
compensatorio della gittata cardiaca), tachipnea, turbe neurologiche (alterazioni dell’attenzione, dell’umore, della coordinazione
motoria, insonnia); ↑ P polmonare e poliglobulia (nell’ipossiemia cronica, oggi si riscontra raramente perché viene instaurata
ossigeno-terapia.).
Segni e sintomi dell’ipercapnia: encefalopatie ipercapnica (turbe della coscienza o turbe motorie fino al coma). I sintomi
respiratori e neurologici peggiorano col peggiorare dell’acidosi respiratoria (e quindi dell’ipercapnia).
• pH < 7,30: rallentamento mentale e tachipnea
• pH < 7,25: frequenza respiratoria che supera i 30 atti al minuto, alterazioni della coscienza
• pH < 7,15: tachipnea, affaticamento muscolare respiratorio, respiro paradosso, turbe della coscienza e alterazioni motorie
• pH < 7,10: riduzione della frequenza respiratoria, coma ipercapnico
Patogenesi e fisiopatologia
I meccanismi che portano all’insufficienza respiratoria sono: ipoventilazione alveolare, shunt destro-sinistro, alterazione della
diffusione alveolo-capillare, alterazione del rapporto ventilazione-perfusione. Questi 4 meccanismi daranno quadri emogasanalitici differenti. Quando c’è un alterazione del rapporto ventilazione perfusione, a livello dei gas arteriosi c’è ipossiemia con o
senza ipercapnia. L’ipoventilazione invece si accompagna sempre a ipercapnia. Nelle patologie caratterizzate da alterazioni della
diffusione alveolo-capillare si ha ipossiemia sempre senza ipercapnia (tranne nelle fasi finali della malattia, quando si instaura
fatica muscolare e quindi bradipnea). Nello shunt artero-venoso si ha ipossiemia e normocapnia.
Ipoventilazione alveolare. Situazione in cui l’aria inspirata (volume che arriva agli alveoli) al minuto risulta diminuita. La
riduzione della ventilazione alveolare determina ↓ pressione alveolare di O2 e ↑ pressione alveolare di CO2.
Contemporaneamente si ha riduzione del pH e riduzione della saturazione dell’Hb.
Bisogna riportarsi all’equazione dei gas alveolari:
PaO2
PAO2 = PiO2 −
R
PAO2 è la pressione alveolare dell’O2, PiO2 è la pressione di O2 nell’aria inspirata, R è il rapporto di scambio respiratorio. In
alta quota la pressione inspiratoria di O2, si riduce la PAO2. Se si dimezza la ventilazione, raddoppia la PaCO2.
La ventilazione/minuto è uguale al Vt (volume corrente) x frequenza respiratoria. Respirando più volte un volume più piccolo
abbiamo un’ipoventilazione alveolare a parità di volume-minuto, perché aumenta la percentuale di spazio morto (aria “sprecata”
per riempire le vie aeree di conduzione, circa 150ml a ogni atto respiratorio). La PaCO2 è uguale alla quantità di CO2 espirata /
ventilazione alveolare stessa, per una costante k:
VCO2
VCO2
PaCO2 =
k=
k
VA
(Vt − VD) × FR
Quando si ha una riduzione del volume alveolare, necessariamente si ha un incremento della PaCO2.
La ventilazione minuto (VE) è data dal volume corrente (Vt) per la frequenza respiratoria: VE = Vt × FR
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Il volume corrente è dato dalla ventilazione polmonare totale (VA) meno lo spazio morto anatomico (VD): Vt = VA − VD
Quindi la ventilazione polmonare totale è data dalla ventilazione/minuto meno lo spazio morto: VA = VE − VD = (Vt − VD) × FR
Quando si va in ipoventilazione, si ha ↓ eliminazione CO2 e ↓ introduzione di O2 e di conseguenza nel sangue arterioso si avrà
ipossiemia associata ad ipercapnia.
Alterazione della diffusione. In condizioni di normalità la PO2 dei capillari polmonari raggiunge quella degli alveoli dopo 1/3
del tempo di contatto (circa ¾ di secondo = 0,25s). Un globulo rosso riesce a saturarsi completamente in 1/3 del tempo che ha a
disposizione per farlo. In alcune patologie, essendoci un ispessimento della membrana alveolo-capillare c’è una difficoltà di
saturazione del globulo rosso stesso. In condizioni di riposo, avendo quella riserva di 0,50s il globulo rosso comunque ce la fa a
saturare, per cui in genere dove c’è un ispessimento della membrana alveolo-capillare ci sarà una condizione di leggera ipossia a
riposo ma importante desaturazione da esercizio. Quando il circolo polmonare è accelerato, non c’è più riserva e si slatentizza
un’ipossia da esercizio. In genere 0,25s sono sufficienti in condizioni di normalità alla saturazione dell’Hb nel sangue arterioso. Il
tempo residuo lo utilizziamo quando facciamo esercizio. Se si ha ispessimento della membrana alveolo-capillare, la PaO2 è
ancora a valori prossimi a quelli del sangue venoso (circa 50mmHg), per arrivare a 80mmHg il globulo rosso spreca tutto il tempo
che ha a disposizione e dissipa la sua riserva.
Presenza di shunt. Lo shunt corrisponde alla presenza di aree perfuse ma non ventilate, è la quota di sangue che raggiunge il
circolo arterioso dopo aver attraversato zone alveolari non ventilate. In queste zone non ci può essere scambio di gas. Quando si
miscela il sangue del distretto ventilato e perfuso con quello del distretto non ventilato ma perfuso (praticamente sangue venoso)
si ha caduta della PO2. La CO2 invece nello shunt non aumenta, anzi diminuisce per ↑ frequenza respiratoria di compenso.
Iperventilando si riesce ad eliminare la CO2, ma non si riesce a compensare l’ipossiemia, perché comunque non si riesce a
compensare la mancanza di ossigeno nel distretto venoso, perché l’ossigeno presente nel sangue arterioso è condizionato dalla
presenza di Hb. Una volta saturata al 100%, più di quella non si può trasportare. Una volta miscelato col sangue venoso, si ha
comunque un abbassamento della pressione di O2. Una delle caratteristiche dello shunt è quella di avere ipossiemia difficilmente
correggibile (in presenza di shunt di una certa importanza, almeno il 25-30% di shunt) associata a ipocapnia.
Si possono avere shunt intrapolmonari (dovuti alla presenza di alterazioni artero-venose all’interno del polmone, rare, o aree di
addensamento polmonare per polmoniti, più frequenti) o extrapolmonari (cardiopatie congenite per difetti del setto interatriale o
interventricolare).
Lo shunt si calcola con l’equazione dello shunt:
QS
C O − C A O2
= C 2
QTOT CC O2 − CV O2
Il rapporto fra la quota di shunt e la portata totale è uguale alla concentrazione di O2 alla fine del capillare (che supponiamo
uguale alla pressione alveolare dell’O2) meno la concentrazione di ossigeno arterioso fratto la concentrazione alla fine del
capillare polmonare meno la concentrazione di O2 nel sangue venoso. Si dovrebbe calcolare facendo respirare per 30 minuti al
paziente ossigeno al 100%. In genere non si fa, ci si riporta a un diagramma. All’aumentare dello shunt non si corregge l’ipossia
somministrando ossigeno puro.
Squilibrio ventilazione-perfusione. Fisiologicamente, nel polmone esistono differenze tra la ventilazione e la perfusione. Alcune
sono gravità-dipendenti (dall’apice alle basi il rapporto si riduce = agli apici si ha una ventilazione maggiore rispetto alla
perfusione e alle basi il contrario, visto che il sangue tende a scendere e l’aria a salire) e altre gravità-indipendenti (alterazioni
regionali del rapporto ventilazione-perfusione). In condizioni di patologia, l’alterazione fisiologica si accentua e aumenta la
disorganizzazione della distribuzione V/Q. La possibilità di scambiare in modo adeguato si riduce. Questo meccanismo è
responsabile della gran parte delle insufficienze respiratorie, giustifica molti quadri di insufficienza respiratoria nelle varia
patologie respiratorie (soprattutto malattie croniche ostruttive cioè BPCO, interstiziopatie, embolia polmonare). Per le
interstiziopatie, in condizioni di riposo è l’alterazione del rapporto V/Q che determina ipossiemia, durante l’esercizio
l’ispessimento della membrana alveolo-capillare non fa altro che aggravare l’ipossiemia stessa. Nel soggetto normale, la gran
parte delle zone del polmone hanno rapporto V/Q = 0,8 (vicino alla perfezione). Nel soggetto con una patologia ostruttiva
(BPCO), si possono avere 4 profili diversi. Il primo continua ad avere una distribuzione unimodale, ma aumenta l’area della zona
a minore o maggiore rapporto V/Q e si riduce l’area delle zone a rapporto V/Q vicino all’unità. Per gli altri, le curve non sono più
unimodali, il quadro peggiore: non c’è soltanto una distribuzione alterata tra ventilazione e perfusione, ma cominciano a
comparire aree di shunt che aggravano le condizioni di ipossiemia o aree di spazio morto (aree ventilate ma non perfuse).
In genere non si ha ipercapnia, sempre per tentativi di compenso in iperventilazione (per quanto riguarda le fasi iniziali, perché
successivamente subentra la fatica muscolare). Qualsiasi malattia che nasca ipossica e normocapnica, diventerà comunque
ipercapnica.
Classificazione
Classificazione per origine dell’insufficienza:
• IR da insufficienza polmonare: si ha ipossiemia per alterazione delle capacità di scambio, con o senza ipercapnia
(alterazione V/Q, alterazione della diffusione alveolo-capillare, shunt).
• IR da insufficienza di pompa: si ha ipercapnia per ipoventilazione. Riconducibili a problemi di comando del SNC (SLA,
traumi ecc.) o a problemi meccanici (irrigidimento della gabbia toracica) o a fatica respiratoria (nelle fasi finali delle
malattie respiratorie).
Classificazione per tempi di insorgenza:
• IR acuta: si instaura rapidamente e con quadri gravi. Se si ha ipercapnia, non si ha il tempo di compensare → acidosi
respiratoria.
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•
IR cronica: a lenta insorgenza, di lieve entità, si può avere ipossiemia con o senza ipercapnia, se si ha ipercapnia si ha pH
> 7,35 per compenso renale.
• IR cronica riacutizzata: soggetto normalmente ipossico che peggiora (riduzione della PaO2 di 10mmHg rispetto allo
stato di stabilità clinica). Si ha ipercapnia aggiunta, bicarbonato alti e abbassamento del pH (a metà strada tra l’acidosi
compensata e l’acidosi non compensata), ma una volta risolta la riacutizzazione si ripristina l’IR cronica compensata.
Classificazione eziologica:
• IR di tipo I (parziale): non associata a ipercapnia (per patologie del parenchima polmonare).
• IR di tipo II (globale): associata a ipercapnia (per patologie cerebrali, del MS, del sistema neuromuscolare, della pleura,
del torace, che intrappolano il polmone in una gabbia rigida). Comunque ci sono malattie che possono essere
caratterizzate da IR sia di tipo I che di tipo II, che possono avere ipossia e ipercapnia o solo ipossia, in relazione al
meccanismo fisiopatologico predominante.
Terapia
Bisogna trattare l’ipossiemia e l’ipercapnia. Innanzitutto bisogna trovare la causa che ha determinato l’insufficienza respiratoria
(la patologia di base, es. polmonite) e instaurare di conseguenza una terapia farmacologia.
Per correggere l’ipossiemia si somministra O2, che deve mirare a portare la PaO2 non a valori normali, ma al minimo di
saturazione necessaria (90% di saturazione, PaO2 intorno a 60mmHg). Se la terapia medica e l’ossigeno-terapia non bastano a
compensare le condizioni di ipossia, allora si passa alla ventilazione meccanica.
L’ossigeno si somministra tramite cannule nasali collegate a una sorgente di ossigeno (si regola il flusso di ossigeno al minuto). I
vantaggi sono: scarso fastidio al paziente. Gli svantaggi sono che non si riesce a correggere un’ipossia severa (perché garantisce
una percentuale di O2 comunque non più alta del 50% di arricchimento) e porta a rischiare un’ipercapnia (perché non si sa che
percentuale di O2 precisa si somministra al paziente, dipende da come respira il paziente (dalla sua respirazione/minuto, il volume
di ossigeno che somministro si diluirà in volumi differenti).
Il metodo sicuro per somministrare O2 ai pazienti è attraverso la maschera Venturi. Viene applicato il tubo dell’O2 con un flusso
determinato che incontra una resistenza (un buco più o meno largo, maggiore è la resistenza e maggiore sarà la caduta pressoria ai
lati del flusso di ossigeno). La caduta pressoria determina un richiamo di aria dall’esterno, l’O2 al 100% si miscela con l’aria
ambiente (al 21% di O2). La risultante sarà una miscela di aria con una percentuale nota di O2 che arriva al paziente. Maggiore è
la caduta pressoria, maggiore è l’aria che trascina dall’ambiente. La caduta di pressione sarà maggiore in relazione a quanto è
stretto il buco. Più stretto è il buco, meno ossigeno passa, maggiore è la depressione di aria e maggiore la percentuale di aria
ambiente risucchiata (quindi la miscela sarà più povera di ossigeno).
Invece la maschera al 100% con reservoir è l’unico sistema che garantisce una concentrazione di ossigeno quasi al 100%. Il
reservoir viene riempito dalla sorgente di O2 e garantisce una quantità di O2 aggiunto nelle fasi iniziali dell’inspirazione, quando
il flusso d’aria è maggiore.
Esiste una certa tossicità dell’ossigeno, quella centrale è precedente di quella a livello del polmone. Prima viene alterato il drive
centrale, poi subentrano danni da radicali a livello polmonare.
Per correggere l’ipercapnia si deve rimuovere la CO2 e correggere l’ipoventilazione. Non si ottiene mai con l’ossigeno, anzi
facendolo si porta il paziente a ipoventilare perché si toglie lo stimolo ipossico all’iperventilazione (l’organismo in presenza di
ossigeno si “impigrisce”). Fondamentalmente la terapia di supporto è la ventilazione meccanica.
La ventilazione meccanica è la terapia dell’insufficienza respiratoria da ipercapnia o quando non si riesce a correggere
l’ipossiemia con la terapia medica e l’ossigenoterapia. La ventilazione meccanica è l’utilizzo di un apparecchio che supporta (o
sostituisce completamente) l’attività dei muscoli respiratori. Supporta in un reparto di pneumologia (il paziente è cosciente e
comanda la respirazione), sostituisce completamente in terapia intensiva (paziente curarizzato, incosciente).
Gli obiettivi della respirazione meccanica sono: aumentare la ventilazione alveolare, migliorare gli scambi dei gas, scaricare
l’attività dei muscoli respiratori, prevenire e risolvere atelectasie (zone di polmone che non sono ventilate perché piene di liquido
o perché i muscoli respiratori non riescono a distendersi).
Viene messa a punto quando: la frequenza respiratoria supera i 35 atti/minuto, nelle forme croniche quando i muscoli respiratori
non sono in grado di sviluppare una sufficiente pressione inspiratoria (pressione massima inspiratoria < 25cmH2O) o la CV del
paziente è < 10-15ml/kg o quando si ha riscontro emogasanalitico di una PaO2 < 60mmHg (somministrando O2 al 60%) o
quando la PaCO2 supera i 60mmHg con pH acido, nonostante la terapia medica.
Può essere invasiva o non invasiva. Se si ha una continuità con le vie aeree (tracheotomia) si ha ventilazione meccanica invasiva
(terapia intensiva, fondamentalmente). Al contrario una ventilazione meccanica non invasiva si ha quando l’applicazione della
colonna d’aria è all’esterno delle vie aeree (naso-bocca). Quella non invasiva può essere effettuata applicando una pressione
negativa o positiva. La ventilazione a pressione negativa si ha applicando una depressione a livello del torace (generiamo una
depressione del torace che lo trascina sostituendo i muscoli respiratori). Viene effettuata attraverso il polmone d’acciaio e la
corazza (anche se ora come ora non la fa più nessuno). I vantaggi sono che è molto simile alla ventilazione normale e non crea
alterazioni emodinamiche (non determina un aumento della pressione all’interno del torace. Gli svantaggi sono che il paziente
non ha modo di interagire con l’apparecchio (la macchina fa tutto da sola): o si adatta completamente o si trova a disagio. Inoltre
non si riesce a valutare quanta aria entra e quanta esce. La ventilazione a pressione positiva si ha applicando una pressione
positiva all’esterno vie aeree (si spinge l’aria all’interno del polmone). Il ventilatore può controllare completamente tutti gli atti
del paziente o può essere completamente controllato dal paziente (da solo un supporto pressorio) o parzialmente controllato dal
paziente (inizia l’atto inspiratorio ma non può stabilire quanta aria deve entrare). Classificabili in controllate e assistitecontrollate. Sul ventilatore, oltre alla modalità di ventilazione, si può stabilire quando deve passare da una fase all’altra della
respirazione (dall’espirazione all’inspirazione, il passaggio è definito “trigger”). Una volta settato un ventilatore, va controllato in
che modalità funziona, le variabili di fase e quello che limita l’erogazione dell’aria che arriva al paziente.
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Polmoniti
Prof. Cazzola, 19/03/09
Generalità e classificazione
Fanno parte del gruppo delle infezioni respiratorie. Le 3 principali forme di infezione a carico delle vie aeree inferiori sono la
bronchite acuta-influenza, la bronchite cronica riacutizzata e la polmonite. La polmonite è un processo infiammatorio acuto del
tratto terminale delle vie aeree, degli spazi alveolari e dell'interstizio. Dà delle immagini radiologiche particolari. Classificazione
eziologica, istopatologica, epidemiologica e clinica.
La classificazione istopatologica guarda a dove il processo si è sviluppato. Abbiamo una forma alveolare, una interstiziale, una
alveolo-interstiziale e una necrotizzante.
Poi abbiamo la classificazione eziologica: polmoniti batteriche, virali, micotiche, protozoarie ed elmintiche (rarissime).
Poi esiste una classificazione epidemiologica, che distingue le polmoniti in comunitarie e nosocomiali. Ci sarebbe da aggiungere
una terza categoria: polmoniti acquisite in casa di riposo. A cavallo tra la comunità e l'ospedale.
Classificazione anatomo-patologica: forme alveolari (essudato infiammatorio nel lume alveolare), forme lobari, broncopolmonite
(contemporaneo interessamento dell'albero bronchiale e del parenchima polmonare), forme interstiziali (infiltrati infiammatori nei
setti inter-alveolari), forme alveolo-interstiziali, forme necrotizzanti (possono essere presenti estesi processi di necrosi che
possono sfociare nell'ascessualizzazione, evenienza piuttosto rara).
Classificazione epidemiologica riconosce due fondamentali forme di polmonite: CAP (comunity-acquired pneumonia, acquisita in
comunità, in casa di riposo, nell'immunodepresso, da aspirazione) e HAP (Hospital-acquired pneumonia, polmoniti nosocomiali, a
insorgenza precoce o tardiva, c'è una forma particolare che sono le polmoniti da ventilatore, grosso problema in anestesia per via
dell'alta incidenza e della difficoltà di trattamento).
Epidemiologia
C'è un calo di incidenza nelle polmoniti. La degenza media per polmoniti è di 11 giorni, al 90% sono CAP. La mortalità, secondo
dati del 1994, è di 12 casi per 1000 abitanti (dati USA). In Italia, per quanto riguarda i ricoveri, abbiamo una situazione migliore
(3 casi su 1000). A parte la mortalità, ci sono degli impatti socio-economici importanti, ad es. perdita di giornate lavorative,
ridotta produttività, disagi familiari. spesa sanitaria ecc.
Fattori di aumentato rischio infettivo: malnutrizione (soprattutto gli homeless), abitudine al fumo, alcolismo, diabete mellito,
malattie sistemiche, malattie neurologiche (le malattie neurologiche nell'anziano porta spesso ad aspirazione ad es. di secreto
gastrico o del contenuto delle alte vie aeree), procedure endoscopiche. La polmonite colpisce spesso le fasce estreme (pediatria e
geriatria).
CAP
La diagnosi clinica non è facile, perché c'è una grossa variabilità nell'interpretazione dei segni clinici. Molti segni sono comuni a
più patologie, quindi bisogna fare una diagnosi differenziale. I segni clinici possono essere variabili ma anche transitori. Se c'è
solo un piccolo focolaio, si può non percepire la sua presenza. I rantoli sono i segni più sensibili, ma sono presenti nelle
bronchiectasie, nelle riacutizzazioni di BPCO ecc). Anche se cerchiamo di semplificare il tutto con degli algoritmi, comunque
questi non permettono un reale miglioramento dell'approccio al paziente. Gli aspetti suggestivi per la presenza di polmonite sono:
esordio acuto, febbre e brividi (due segni abbastanza caratteristici di polmonite ma ad esempio nel paziente anziano, che è
anergico, la febbre più essere assente), dolore toracico (il polmone non fa male, il dolore toracico o è da gabbia toracica o è
cardiaco), tosse produttiva con espettorato purulento (non è un segno caratteristico, bisogna prenderlo in considerazione in
relazione agli altri), dispnea. Importante la concordanza tra il quadro obiettivo toracico, anamnestico e radiologico. Di fatto è la
radiologia che dà la conferma di un processo bronchitico o bronco-pneumonico. Sicuramente in laboratorio si avrà una leucocitosi
importante e un aumento degli indici di flogosi (PCR, VES) e il paziente può presentare un Herpes simplex. Herpes simplex +
febbre + tosse deve sempre far sospettare una polmonite.
Se c'è esordio subdolo e mucosite delle prime vie aeree, associata a febbre continua-remittente, tosse non produttiva, astenia e
cefalee, si ha una polmonite atipica. Non c'è correlazione col quadro radiologico, non c'è leucocitosi e il quadro può non essere
limitato al polmone. Nel 95% dei casi ambulatoriali e nel 50% dei casi ospedalieri l'agente eziologico non viene accertato. Spesso
identifichiamo nell'espettorato un batterio che non è stato responsabile della patologia che abbiamo trattato. Spesso il paziente ha
assunto precedentemente degli antibiotici.
Per poter fare una diagnosi, a volte bisogna utilizzare il siero e fare una valutazione retrospettiva. Però l'importante è che il
paziente sia curato, vale la pena farlo solo per indagini epidemiologiche.
La diagnosi eziologica si fa più semplicemente con l'esame microbiologico dell'espettorato. Ma questo, anche se viene dai
polmoni, passando per le alte vie aeree si "inquina". Per superare questo, soprattutto nelle forme che non riusciamo a trattare
subito con gli antibiotici che abbiamo prescritto, si potrà fare l'esame microbiologico del broncoaspirato. Ci sono alcune situazioni
in cui il processo può essere incarcerato e non ci si arriva col broncoscopio. In questi casi (molto rari) si fa una biopsia polmonare.
Ci può aiutare l'emocoltura, le indagini immunologiche e la ricerca degli antigeni nelle urine.
La valutazione di base è fondata sull'Rx. Poi si può fare una colorazione di Gram sull'espettorato e poi (se il Gram da qualche
positività) è utile l'esame colturale per vedere qual'è l'agente causale. L'Rx torace serve per vedere se ci sono degli infiltrati o delle
complicanze (es. versamento pleurico) e per vedere se il processo è localizzato o multilobare (prognosi peggiore). Primo esame da
fare dopo l'esame fisico. Si possono trovare vari tipi di pattern, alcuni li correlano col possibile agente causale anche se questo
tipo di correlazione è quasi impossibile. Se ci sono delle escavazioni, può essere una polmonite da S. aureus o una TBC, se ci
sono forme interstiziali penso a Legionella, Chlamydia o a forme virali. Ma è presuntuoso l'essere sicuro al 100% sull'agente
causale.
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Indicazioni per metodiche invasive: polmoniti gravi in cui la scelta dell'antibiotico può essere critica (se non scelgo l'antibiotico
mirato, il paziente muore, es. pseudomonas o stafilococco meticillino-resistente), polmoniti che non migliorano dopo un primo
approccio terapeutico in genere empirico (per microrganismi particolari e difficili da trattare, come i patogeni nosocomiali che
sono multiresistenti), quando ci sono infiltrati polmonari di cui non riesco a fare una diagnosi di natura.
Eziologia: pneumococco, C. pneumoniae, M. pneumoniae, Legionella, H. influenzae (è più importante nella riacutizzazione di
BPCO), S. aureus (soprattutto nella prima infanzia e nell'anziano), P. aeruginosa. Nel bambino prevalgono i virus, nell'anziano i
batteri (in genere). Nel bambino c'è un sovrautilizzo di antibiotici, il problema è che spesso diamo l'antibiotico ex iuvantibus.
Abbiamo una grossa difficoltà nell'interpretare i dati, perché in letteratura l'incidenza dei diversi batteri è molto diversa. Sta a
significare che è possibile che l'incidenza di alcuni batteri sia diversa da città a città o da ospedale a ospedale (per i microrganismi
nosocomiali).
Una volta identificato un paziente con CAP, per prima cosa devo decidere se trattarlo a casa o ospedalizzarlo. Se lo tratto a casa
devo tener conto se ha meno di 60 anni (65 anni in Italia). L'approccio e gli agenti eziologici sono diversi. Nel ricovero bisogna
decidere se tenerlo in reparto o mandarlo in terapia intensiva. Al sospetto clinico dobbiamo far seguire l'Rx torace (posteroanteriore + latero-laterale, in 2 proiezioni), poi dobbiamo valutare criticamente il quadro radiografico (tenendo conto
dell'epidemiologia locale) e poi, se non riusciamo ad avere un riscontro, facciamo un esame batteriologico delle secrezioni
bronchiali. Questo fa decidere se il paziente è candidato al ricovero oppure no. Per la gestione domiciliare diventa fondamentale
la valutazione del quadro clinico e riconoscere se ci sono segni di prognosi negativa. Bisogna orientarsi sul patogeno e decidere
immediatamente la terapia. Basta un ritardo di 8 ore per aumentare il tasso di mortalità. L'ospedalizzazione, se non necessaria,
incide in maniera sostanziale sul budget a disposizione per la gestione dei pazienti.
Criteri di ospedalizzazioni: tachipnea (paziente a rischio), ipotensione, malattie croniche debilitanti (es. diabete scompensato,
leucemia), disturbi del sensorio (significa che c'è uno stato di tossicosi), interessamento multilobare (criterio di ospedalizzazione
assoluto), se si pensa che il paziente ha una patologia da aspirazione (es. pazienti con alzheimer), se si hanno segni di infezione
extra-polmonare (es. a livello renale o epatico per emboli settici), se c'è una carenza di globuli bianchi o una contrazione della
diuresi, se il paziente non può essere assistito a domicilio.
Per decidere se ospedalizzare o no un paziente, ci sono alcune formule che portano un punteggio: se raggiunge certi limiti è
opportuno il ricovero. Indice di PORT (Pneumonia outcome research team). Se il soggetto è maschio, 0 punti, se è femmina si
tolgono 10 punti. Se il paziente risiede in casa di riposo, si aggiungono 10 punti. Altri parametri: alterazioni del sensorio (20
punti), tachipnea (20 punti), ipotensione arteriosa (20 punti), ipotermia o ipertermia (15 punti), tachicardia (più di 125, 15 punti),
versamento pleurico (10 punti). I punteggi vengono stabiliti al pronto soccorso per vedere se rimandarlo a casa. Un punteggio ce
l'ha anche ciascuna co-morbidità. Quando mettiamo i punteggi insieme abbiamo 5 classi. La mortalità fino alla classe 3 è
relativamente bassa (fino a un punteggio di 90), quindi in genere non si ospedalizza il paziente (gli americani dicono di
ospedalizzarlo, ma più per fatti medico-legali che per altro). Da oltre 90, il paziente deve essere ospedalizzato.
Segni tipici di paziente immunocompetente con CAP: frequentissima la tosse (più dell'80%), dispnea, espettorato purulento
(40%), rantoli, assenza del murmure vescicolare (se si è formato un addensamento o un versamento). Poi ci sono segni generali
non respiratori come febbre, mialgia, cefalea. Alcuni di questi sintomi (soprattutto la febbre) possono essere ridotti nei pazienti
anziani. Nei pazienti con più di 65-70 anni si può essere tratti in inganno. L'american thoracic society ha creato una scala che
permette di capire, a parte il PORT, come decidere la terapia. Primo gruppo: pazienti che si decide di non ospedalizzare (senza
co-morbidità, soprattutto a livello cardiaco). Secondo gruppo: presenza di malattie cardiopolmonari o altri fattori di rischio, vanno
ospedalizzati. Poi ci sono pazienti ospedalizzati ma non in terapia intensiva e alla fine pazienti trasferiti in terapia intensiva.
La terapia è sostanzialmente empirica e deve tenere conto dei batteri che verosimilmente possono aver causato la patologia. Un
batterio difficile è lo pneumococco, che a volte è resistente a molti antibiotici. Posso trovarlo in pazienti con età superiore ai 65
anni, trattati con beta-lattamici nei 3 mesi precedenti all'insorgenza della patologia, alcolisti, immunosoppressi, pazienti con comorbilità. Negli immunosoppressi si possono trovare enterobacteriaceae, così come nei pazienti cardiopatici, in case di riposo,
trattati precedentemente con terapie antibiotiche e in pazienti con co-morbidità. Più grave è lo Pseudomonas Aeruginosa. Lo
posso trovare in presenza di malattie strutturali del polmone (es. bronchiectasie, mucoviscidosi, portano riacutizzazioni continue
per cui il paziente viene trattato continuamente con antibiotici, questo porta da un lato alla comparsa di resistenze, dall'altro ad un
"vuoto ecologico" che viene riempito dallo Pseudomonas), in presenza di trattamento immunosoppressivo, in individui malnutriti
o precedentemente trattati con antibiotici a largo spettro.
HAP
Infezioni del parenchima polmonari non presenti clinicamente né in incubazione al momento del ricovero ospedaliero. Bisogna
aspettare almeno 48-72 ore per definire realmente una polmonite nosocomiale. O infezioni che insorgono 48-72h dopo la
dimissione del paziente. Le infezioni nosocomiali respiratorie sono tra le più gravi, accanto alle infezioni urinarie (ma è più facile
che si muoia per infezioni respiratorie che per infezioni urinarie). Abbiamo opacità toracica, rantoli e ottusità alla percussioni.
Criteri minori come espettorato purulento, titoli anticorpali elevati ed eventualmente un reperto istologico. Le infezioni si trovano
soprattutto nelle unità di chirurgia, terapia intensiva e nei reparti grandi ustionati. Questo perché sono sottoposti a manovre
invasive come l'intubazione. In genere nelle insufficienze respiratorie si tende ad adoperare una respirazione meccanica non
invasiva, proprio per evitare il rischio di polmoniti nosocomiali (18-60% di morbidità). Nei pazienti sottoposti a ventilazione
meccanica che sviluppano polmoniti nosocomiali, la mortalità si avvicina al 90%.
Fattori di rischio: fattori legati all'ospite, presenza di malattia respiratoria cronica (es. BPCO), età, sedazione (che aumenta il
rischio di aspirazione), malattie neuro-muscolari (es. SLA), uso inappropriato di antibiotici, intubazione endo-tracheale. Inoltre c'è
il problema delle infezioni ospedaliere crociate, cioè infezioni che passano da un paziente all'altro e da un reparto all'altro. In
genere però i numeri sulla polmonite nosocomiale sono sovrastimati.
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L'esito di una polmonite che si sta trattando si può predire, in genere si prospetta un esito negativo quando si ha a che fare con
batteri multiresistenti, un paziente intubato, un paziente nelle prime o nelle ultime fasce di età, con infiltrati bilaterali, con
patologie concomitanti severe (es. scompenso cardiaco congestizio, diabete mellito scompensato), con shock settico, in coma o
trattato per un certo periodo in maniera impropria con antibiotici. I batteri che più frequentemente si trovano in ospedale sono
soprattutto P. aeruginosa (60-65% mortalità), Enterobacteriaceae, S. aureus meticillino-resistente. Comunque sono patogeni
diversi da quelli che causano polmoniti comunitarie e vanno trattati con antibiotici diversi.
La diagnosi differenziale si fa con scompenso cardiaco, atelettasia, embolia polmonare, neoplasia polmonare.
Fonti di infezioni sono: apparecchiature (tubi endotracheali, cateteri, broncoscopi, ventilatori, sondini naso-gastrici), personale
sanitario (soprattutto per S. aureus e Pseudomonas, il rischio può essere ridotto mettendo guanti monouso o lavandosi le mani
passando da un paziente all'altro), fattori ambientali (es. legionella, facilmente isolabile negli scarichi dell'acqua calda e nei
condizionatori).
Tubercolosi polmonare
Prof. Saltini, 22-24/03/09
Generalità e definizione
Malattia respiratoria che uccide ancora più persone al mondo, nonostante nei paesi occidentali la mortalità sia minore rispetto a
quella da malattie connesse con l’inquinamento o il fumo di sigaretta. La TBC è una malattia infettiva causata dal Mycobacterium
Tuberculosis o da un complesso di micobatteri (M. Tuberculosis complex, che comprende il M. hominis e il M. africanum).
L’infezione si sviluppa in una percentuale di soggetti esposti, non in tutti i soggetti esposti. Se si prendono 50 persone e si
mettono in una stanza con un paziente affetto da TBC, probabilmente non tutti i soggetti esposti svilupperanno infezione. Quelli
che sviluppano infezione, sviluppano una reazione immune tradizionalmente identificata con la reazione tubercolinica di Mantoux
intradermica, segno dell’avvenuta sensibilizzazione immune (non è un segno di immunità). Di queste persone che dopo
l’esposizione sviluppano l’infezione, il 5-10% si ammala entro 2 anni (i soggetti più sensibili dopo aver sviluppato l’infezione e la
risposta immune non hanno una risposta immune sufficiente a contenere la proliferazione dei micobatteri, i quali invadono i
tessuti (polmone o altri). Dopo i primi 2 anni possono sviluppare malattia gli altri individui con una percentuale variabile,
soprattutto se colpiti da una condizione di immunodepressione (es. virus HIV, farmaci che deprimono la risposta immune). Anche
dopo 20-30 anni questi individui possono avere un numero sufficiente di batteri “dormienti” in un linfonodo o in una lesione
calcifica che possono riprendere a proliferare.
Patogenesi e fattori di rischio
L’infezione inizia con l’ingresso di un numero limitato di batteri negli spazi alveolari, dove vengono infettati i macrofagi che
diventano gli ospiti dell’infezione. I micobatteri virulenti proliferano e determinano malattia e diffusione dell’infezione a livello
alveolare. Monociti del sangue vengono attirati e infettati (non sono attivate) e contribuiscono allo sviluppo dell’infezione. In 15
giorni dovrebbe svilupparsi una risposta immune, caratterizzata dall’insorgenza di linfociti T attivati capaci di attivare i macrofagi
e gli istiociti in modo che possano contenere la proliferazione batterica. La fase iniziale si chiama di simbiosi (i micobatteri
proliferano tranquillamente all’interno dei macrofagi), segue la reazione immune (in cui i linfociti attivati producono IFN-γ che
attiva i macrofagi, i quali uccidono i micobatteri). In realtà le lesioni tubercolari sono in parte dovute al danno da reazione
immune. La necrosi caseosa da risposta immune è distruttiva e può essa stessa distruggere il polmone e organi come rene, SNC e
ossa.
Gli studi di 50 anni fa hanno permesso di sviluppare un modello in cui si distinguono animali suscettibili e resistenti. Gli animali
resistenti sono primariamente resistenti e tendono a limitare la crescita dei micobatteri nei macrofagi. Limitano lo sviluppo della
malattia alla lesione del focolaio di ingresso. Corrispondono al 90% di persone che non sviluppano la TBC primaria attiva, ma
sviluppano una risposta immune tale da limitare la crescita dei batteri a focolai che diventano non caseosi necrotici che si
rompono nei bronchi, ma che diventano fibrotici, calcifici e limitati. I micobatteri al loro interno acquisiscono la capacità di
proliferare in modo estremamente lento (è come se andassero in letargo, esprimono i “geni della dormienza” che gli permettono di
vivere in condizioni di nutrizione e ossigenazione sfavorevoli per lungo tempo). Il confinamento dei micobatteri fa si che entrino
in fase di dormienza e si sviluppi la condizione di “infezione latente” (c’è stato il contagio, l’infezione ma non lo sviluppo di
malattia primaria attiva). Gli animali non resistenti tendono ad avere disseminazione dei micobatteri e focolai diffusi.
Il contagio è determinato dall’esposizione, l’infezione dalla resistenza individuale. Un individuo resistente può andare incontro a
contagio ma non a infezione o andare incontro a infezione ma non a malattia. Lo sviluppo della malattia primaria è in gran parte
determinato dalla resistenza individuale. Lo sviluppo di latenza è la conseguenza dell’infezione che non esita in malattia. Lo
sviluppo di malattia da riattivazione a distanza è determinata da un cambiamento della resistenza individuale (immunodepressione
indotta da virus, farmaci o dall’invecchiamento). In Occidente, a parte i casi di importazione, possono trovarsi soggetti anziani
malati di tubercolosi in cui il contagio è avvenuto decine di anni prima.
La trasmissione avviene soprattutto per aerosol (goccioline di tosse). Anticamente la TBC, o “mal sottile”, era considerata una
malattia genetica, psicologico-sociale e ambientale e veniva curata con i bagni di sole (così fece anche Chopin e quando morì
venne ordinato di bruciare tutti i suoi oggetti personali per evitare il contagio). Laennec contrasse l’infezione eseguendo
un’autopsia a mani nude sul cadavere di un paziente morto di tubercolosi. Gli comparve un nodulo sulla mano e nella regione
ascellare e morì di TBC disseminata, dopo essersi convinto che la TBC non fosse una malattia psicosomatica.
A parte i rari casi di contagio da siringa (possono contagiarsi solo gli anatomo-patologi come Laennec) il contagio avviene per
inalazione di goccioline della tosse contenenti micobatteri. Sono stati descritti casi in cui un maestro delle elementari malato di
TBC infettava tutta la classe. Potevano vedersi tutte le possibili combinazioni dei quadri radiologici di TBC primaria. I contatti
stretti sono quelli più a rischio, la trasmissione avviene da persone con lesioni contagiose aperte (è la TBC cavitaria quella che
infetta, perché mette in contatto il focolaio infettivo con l’esterno). L’infezione latente non è contagiosa.
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La TBC contagia perché i micobatteri possono resistere a una drastica riduzione dell’umidità dell’ambiente. Per il fatto di avere
una capsula lipidica possono sopravvivere in forma essiccata. Gocce eliminate con l’aria espirata possono cadere per terra,
essiccarsi, diventare pulviscolo e rimanere nell’aria per lungo tempo. Questo è il motivo per cui la TBC è così contagiosa, i
micobatteri sono i meglio attrezzati per il contagio per via aerea.
Le cose importanti per la trasmissione sono:
• La contagiosità della persona (facendo il malato con TBC cavitaria e il polmone pieno di buchi il più contagioso)
• L’ambiente in cui avviene l’esposizione (i micobatteri sono uccisi dalla luce UV, in Africa le persone di ammalano di
tubercolosi perché le capanne sono buie all’interno)
• La durata dell’esposizione
• La virulenza del batterio
Le condizioni dell’ospite che facilitano l’acquisizione dell’infezione sono:
• L’immunodepressione di qualsiasi genere (l’immunodepressione grave determina il passaggio da TBC latente ad attiva)
• Fattori genetici
• Uso di stupefacenti (legato a condizioni di vita a rischio)
• Diabete, silicosi, terapie immunosoppressive
Classificazione
Classificazione dello stato di infezione:
• Stadio 0: non c’è contatto
• Stadio 1: c’è contatto ma non c’è l’infezione, non c’è risposta immune contro i micobatteri (potrebbe essere un errore del
test, visto che persone immunodepresse possono non avere il test positivo pur essendo infetti)
• Stadio 2: c’è infezione (PPD o test in vitro positivo, Rx torace negativa, non ci sono sintomi)
• Stadio 3: TBC attiva (PPD positivo, Rx torace anormale, batteriologia positiva, sintomi)
• Stadio 4: TBC inattiva (PPD positivo, Rx torace con lesioni stabili calcifichi o fibrotiche, batteriologia negativa)
• Stadio 5: TBC sospetta, tra 2 e 4
Classificazione della tubercolosi
• TBC primaria: malattia che insorge subito dopo l’infezione (nei primi 2 anni), si può manifestare come complesso
primario (un focolaio primario e il linfonodo satellite che si ingrossa → sindrome adeno-bronchiale con atelettasia)
• TBC sub-primaria: manifestazione della disseminazione tubercolare; focolaio tubercolare, miliare (disseminazione di
piccoli noduli in entrambi i polmoni), meningite tubercolare, pleurite
• TBC post-primaria: in individui che hanno già avuto la TBC primaria; si possono avere calcificazioni nel polmone e nei
linfonodi dell’ilo polmonare
o TBC areattiva: TBC nell’immunodeficienza grave, quadro della TBC miliare perché non c’è risposta immune
o TBC essudativa: grande produzione di TNF, essudazione, necrosi, essudato tisiogeno che dà la caverna
tubercolare, lobite, broncopolmonite tubercolare, pleurite
o TBC produttiva: limitazione dei focolai che diventano rapidamente fibrotici e calcifici
o Miliare tubercolare: quadro tipicamente presente nel soggetto con immunosoppressione, può associarsi a
pleurite
o TBC extrapolmonare: disseminazione a vari organi
Epidemiologia
Malattia molto diffusa nel mondo, poco nei paesi europei e nel nord America. Bisogna considerare la diffusione dell’infezione
tubercolare, considerando che ogni persona portatrice di TBC polmonare ha uno 0,1-0,5% di probabilità annua di sviluppare
tubercolosi. I numeri della diffusione dell’infezione sono: 30% della popolazione mondiale portatrice di infezione, 8-9 milioni di
casi per anno con 3 milioni di morti all’anno (dati del 2007). È una malattia che può essere curata con poca spesa, richiede solo un
servizio sanitario funzionante, farmaci che in Europa non sono nemmeno più prodotti (perché costano talmente poco che le case
farmaceutiche non ci guadagnano più). La cura della TBC con i protocolli sviluppati negli anni ’70 guarisce più del 90% degli
ammalati. In Europa occidentale la malattia ha un’incidenza inferiore ai 20 casi per 100000 abitanti annui, in Italia scende a 7-12
casi. Ma visto che l’incidenza viene misurata in base alle denunce per tubercolosi e non tutti i pazienti vengono denunciati
all’ISS, questi dati possono essere sottostimati. In Asia, Africa e America latina l’incidenza sale a 200 casi per 100000 abitanti
annui, in Somalia si arriva fino a 700-800 casi. L’incidenza della TBC più alta mai registrata è quella delle riserve indiane del
Canada alla fine dell’800, dove era di 10000 persone per 100000 annui, con mortalità superiore ai 5000 casi per 100000.
In Italia negli anni ’90 i residenti rappresentavano più del 90% dei casi di TBC, adesso gli immigrati rappresentano più del 50%
dei casi. C’è un declino costante dell’incidenza nei residenti e un aumento costante negli immigrati. L’età di incidenza è diversa:
nei residenti è superiore ai 65 anni, negli immigrati è intorno a 25-35 anni. L’andamento per quanto riguarda gli immigrati è
quello delle aree ad alta endemia (le persone si ammalano da giovani e il picco di malattia è tra 20 e 40 anni). Nelle popolazioni
dove il tasso di incidenza è basso, la malattia si sposta verso l’età avanzata: non c’è diffusione della malattia tale da determinare il
contagio in età infantile e si ammalano le persone che hanno avuto il contagio 30-50 anni prima quando la malattia era più
comune.
La TBC nell’anziano sta diventando un problema: secondo uno studio americano in un 5% dei casi la diagnosi viene fatta postmortem. Con l’avanzare dell’età la percentuale di pazienti in cui la malattia viene diagnosticata post-mortem è sempre più alta:
abbiamo il 18% dei casi diagnosticati in persone con più di 65 anni. In Italia sta succedendo la stessa cosa. L’aspetto tipico della
TBC è quello impresso dalla risposta immune, nell’anziano la risposta immune non è così efficiente e possono mancare i sintomi
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tipici, cioè la caverna tubercolare e l’emottisi. L’emottisi nel 1800 era sinonimo di TBC e i pazienti morivano per emottisi.
Adesso è sinonimo di molte altre cose. Nell’anziano la TBC si manifesta in maniera non tipica e più difficile da riconoscere.
L’altra cosa che rende la TBC oggi di difficile diagnosi è il fatto che esistono sempre di più pazienti che sono paucibacillari, cioè
che hanno un basso numero di batteri nell’espettorato e nelle secrezioni. Per fare diagnosi di TBC con un esame microscopico
bisogna avere 10000 batteri per ml di espettorato, per fare una diagnosi di TBC con un esame colturale ne servono 100-1000 per
ml, se ne abbiamo di meno abbiamo espettorato e coltura negativa. Per fare diagnosi con la PCR ne basta uno per ml di
espettorato ma si può far diagnosi anche in persone non malate ma che hanno qualche batterio in circolo. La percentuale di
persone con infezione paucibacillare è vicina al 40-50%. Questo avviene perché l’uso di antibiotici diffuso fa sì che una quantità
di persone abbia TBC ma un numero di bacilli basso perché molti antibiotici sono capaci di rallentare la crescita di micobatteri ma
non di ucciderli. Alcuni di antibiotici come le penicilline sono classicamente riconosciuti come non efficaci perché i micobatteri
hanno β-lattamasi molto potenti. I fluorochinoloni sono forti micobatterici, così come le penicilline protette con inibitori delle βlattamasi come l’acido clavulanico.
La TBC è una malattia epidemica. L’epidemia corrente inizia alla fine del 1600 in Inghilterra quando grandi masse di
popolazione vengono inurbate e vivono in caseggiati bui e affollati (alla Oliver Twist). Le curve di mortalità e morbidità
dimostrano che si ha un picco di TBC nei primi 50 anni di epidemia, uno di morbidità nei primi 100 anni, che poi declina. L’onda
epidemica della TBC dura 200-300 anni. La prima forma di prevenzione è l’eliminazione di tutti i soggetti suscettibili, perché
muoiono di TBC. La seconda è l’immunizzazione e il fatto che alcuni alleli di geni di resistenza non siano più reperibili in
Inghilterra e in Nord Europa, ma siano reperibili in centro America suggerisce che questo possa essere avvenuto. Noi non
abbiamo più alleli che sono scomparsi nel corso degli anni (geni di suscettibilità).
La prevenzione della tubercolosi si basa su:
• Prevenzione del contagio: non esporsi a pazienti con TBC attiva
o Facendo il triage con poche domande (tosse da più di 15 giorni, emoftoe, febbre da più di 15 giorni associata ad
altra sintomatologia respiratoria, provenienza da un’area ad alta endemia)
o Fare indossare una maschera chirurgica al paziente (intrappola le goccioline del respiro) e spiegargli perché
gliela si fa indossare
o Indossare una maschera filtrante facciale di classe II (hanno un sistema di sfiato per l’aria espirata e di filtro per
l’aria inalata)
o Isolare il paziente e avvertire i sanitari mentre si fanno gli esami microbiologici
• Identificazione dei soggetti che sono stati contagiati
o Test tubercolinico di Mantoux (inoculazione intradermica di 0,1ml di una soluzione di proteine con una certa
capacità di indurre una risposta = PPD e successiva misurazione del diametro del ponfo), positivo anche per
soggetti vaccinati o infettati con micobatteri atipici
o Test in vitro (si mette il sangue intero in una provetta, si aggiungono gli antigeni specifici e si misura la quantità
di IFN-γ prodotto), più specifico e rapido ma più costoso
• Vaccinazione
o Vaccino BCG prodotto 80 anni fa, strumento migliore all’epoca ma previene il 50% dei casi di TBC, più
efficace dove sono poco diffusi i micobatteri non tubercolari che danno un grado di immunità
o Il vaccino protegge il 70% dei soggetti contro la meningite tubercolare e previene una gran parte di morti
o Effetti collaterali: disseminazione BCG nell’immunocompromesso, rare manifestazioni neurologiche
• Chemioprofilassi
o Terapia preventiva della tubercolosi, inventata dal prof. Zorini negli anni ‘50
o Trattamento con isoniazide (anti-tubercolare più efficace) in monoterapia per 6-12 mesi, efficacia vicina al
100% se viene preso regolarmente tutti i giorni (oggi si usa il trattamento per 6 mesi, efficacia > 80%)
o Richiede una notevole aderenza alla prescrizione (il trattamento sarebbe protettivo al 100%, in realtà i pazienti
tendono a stufarsi presto e l’efficacia cala drasticamente)
o Protocolli: isoniazide per 12 mesi, isoniazide per 12 mesi, rifampicina + isoniazide per 3 mesi, pirazinamide +
rifampicina (protocolli più tossici rispetto all’isoniazide che di per sé è epatotossica)
Diagnosi
Per fare diagnosi abbiamo il test tubercolinico (sensibilità alta ma bassa specificità), test in vitro, esame microscopico
dell’espettorato con ziehl-neelsen (sensibilità dal 40 al 95%, è operatore-dipendente), coltura (sensibilità dall’83 al 92% e alta
specificità, gold-standard ma lento), test molecolari (rapidi, non espongono gli operatori al rischio di contagio. Usiamo per fare
diagnosi i test colturali, microbiologici e molecolari. Bisogna essere il più sicuri possibili della diagnosi, perché comporta una
terapia lunga con farmaci epatotossici. Il test tubercolinico serve a identificare i casi di contagio per fare chemioprofilassi (ma
immunizza, può essere usato solo una volta). Si fa il test alle persone ricoverate come primo approccio e aiuta a far diagnosi nei
malati paucibacillari.
Generalmente il paziente con TBC è proveniente da zone ad alta endemia (Asia, Africa, Est europeo in particolare la Romania).
Abbiamo una confluenza tra le aree ad alta endemia e le condizioni socio-economiche. È anche importante la convivenza con
persone malate o comunque a rischio. Esistono strutture della medicina pubblica che si occupano di tracciare i contatti. Abbiamo
un caso di tubercolosi, bisogna denunciarlo alla Asl per tracciare i contatti.
Il paziente si presenta con tosse (che dura da più di 2 settimane), tosse e calo ponderale. Sono le 3 caratteristiche cliniche
principali. Una volta la TBC veniva chiamata tisi o consunzione.
Abbiamo un sospetto paziente, può avere espettorato positivo o negativo. Se è positivo si ha la definizione di caso di tubercolosi.
Sulla base della storia clinica si definisce il caso come “nuovo caso” (se è batteriologicamente positivo e non è mai stato trattato)
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o “ritorno” (se è stato trattato ma il paziente ha sospeso il trattamento) o “recidiva” (se il paziente aveva compiuto un ciclo
completo di terapia ed era stato considerato dimesso) o “cronico”. La positività all’espettorato determina anche un’alta
contagiosità, perché vuol dire che ha almeno 10000 batteri per ml di espettorato. Se l’esame è negativo si può ripetere e fare l’Rx.
Possiamo trattare il paziente per 10 giorni con un antibiotico non-antitubercolare (es. penicillina), se non migliora si ripetono gli
esami. Se è diventato positivo all’esame microscopico per bacilli alcool-acido resistenti li trattiamo con anti-tubercolari, se
rimangono negativi, considerate le condizioni familiari, l’Rx e la presenza o meno di dimagrimento, si può continuare a trattare
con penicillina o iniziare la profilassi per la TBC, a discrezione del medico.
La TBC primaria si presenta nei giovani o nei bambini con un focolaio polmonare piccolo (spesso non visibile) ma con un
ingrandimento dei linfonodi ilari del polmone (si vede uno sfondo opaco con una striscia chiara corrispondente al bronco
principale). La pleurite è un’altra manifestazione della TBC sub-primaria (ottusità toracica, mancata trasmissione del fremito
vocale tattile). Abbiamo la pleurite tubercolare (tipicamente linfocitaria da iper-reattività, pazienti che spesso hanno una
linfopenia periferica e sono tubercolino-negativi perché i linfociti reattivi sono intrappolati nel versamento pleurico).
La TBC post-primaria è caratterizzata da infiltrati tisiogeni che evolve in genere nella cavitazione perché il tessuto di
essudazione è troppo “infiammato” per poter evolvere nella fibrosi, si ha necrosi colliquativa che viene scaricata nel bronco. Si
forma una cavità dove non c’è né tessuto polmonare né tessuto infiammato né tessuto colliquato, si crea il vuoto. Un ascesso
ossifluente dalla colonna in genere genera la presenza di raccolta purulenta nelle fasce muscolari che difficilmente si scarica
all’esterno. L’infiammazione dell’acino polmonare invece raggiunge l’esterno con più facilità ed è più contagiosa. La struttura
anatomica del polmone fa sì che la TBC polmonare sia altamente contagiosa, perché il materiale purulento viene rapidamente
espulso. La caverna prende il posto dell’infiltrato tubercolare, le caverne mantengono aperta la comunicazione tra tessuto
infiammato ed esterno. Questo porta a perdita di tessuto polmonare ed emorragia (che porta all’emoftoe, segno classico della
TBC). Dal punto di vista del batterio determina un enorme vantaggio ecologico: il tessuto colliquato è acido è senza ossigeno,
mentre la caverna è altamente ossigenata e i batteri vivono meglio e proliferano velocemente per poter essere espulsi.
La TBC negli immunodepressi in alcuni paesi è predominante su quella negli immunocompetenti. Nell’Africa subsahariana più
del 50% dei pazienti con TBC hanno l’Aids. La differenza è che l’immunodeficienza elimina o attenua una quantità di segni e
sintomi. C’è febbricola, sudorazione e calo ponderale insieme agli altri sintomi costituzionali, ma ci sono meno segni radiologici
(lesioni dei lobi superiori, soprattutto i segmenti apicali), meno caverne tubercolari, più versamento pleurico.
Per la tubercolosi extrapolmonare, possono essere usati diversi metodi diagnostici. Per la TBC pleurica si possono fare esami
batteriologici del liquido pleurico e le sue caratteristiche (essudatizio, con molte proteine e una prevalenza di linfociti).
Terapia
I farmaci per la tubercolosi si dividono in farmaci di prima e seconda linea. Quelli di prima linea sono isoniazide, rifampicina e
pirazinamide. Sono farmaci battericidi (isoniazide e rifampicina) e batteriostatici (pirazinamide). Con o senza streptomicina o
etambutolo nei primi 2 mesi di malattia (in relazione all’estensione dell’infezione) costituiscono il protocollo standard (terapia
breve, dura 6 mesi). L’aggiunta di rifampicina all’isoniazide ha determinato la maggior efficacia del trattamento. Se ben eseguito
cura più del 97% dei pazienti. Dopo 40 anni di uso generalizzato è ancora un trattamento di elevata efficacia. Si danno i 3 farmaci
insieme in una sola compressa (RiFaPer). Se avete un paziente senza complicazioni, i 3 farmaci da soli sono sufficienti a curare la
malattia.
Lo schema di terapia è: 3 o 4 farmaci (si aggiunge streptomicina o etambutolo) per 2 mesi (fase di induzione, in cui si uccide il
99% dei batteri), poi 4 mesi (fase di consolidamento) con isoniazide e rifampicina. La streptomicina si usa per 2 mesi, perché è il
primo antibiotico antitubercolare sperimentato negli anni ’40 e determina sordità e insufficienza renale, quindi non si può usare
troppo a lungo.
Gli effetti collaterali sono: neuropatie periferiche, epatite tossica e allergie con orticaria e febbre (isoniazide); epatite tossica,
anemia emolitica, piastrinopenia, insufficienza renale (rifampicina); epatite tossica e iperuricemia (pirazinamide); neurite ottica
(etambutolo); tossicità del nervo acustico e tossicità renale (streptomicina).
Se al paziente non viene prescritta la terapia giusta o non la assume correttamente, può instaurarsi resistenza agli antibiotici e
avere una recidiva sostenuta da batteri resistenti, per cui si devono trovare altri farmaci più tossici per trattarlo. Oppure il medico
può prescrivere la terapia in modo sbagliato (es. sbagliando le dosi o sostituendo un antibiotico). Se il paziente diventa resistente
all’isoniazide e alla rifampicina, la probabilità di curarlo si riduce di molto (si abbassa al 50-60%) e si possono avere epidemie di
TBC resistente ai farmaci. Multi-drug-resistence = resistenza all’isoniazide e alla rifampicina. Può avvenire anche se i farmaci
sono taroccati con una minor quantità di principio attivo. È stato causa di epidemie di TBC multiresistente in alcune aree della
Russia. Negli USA negli anni ’90 si verificò un’epidemia di TBC multiresistente nelle aree povere di NY che portò ad un
aumento di spese di milioni di dollari. La causa di questo fu la mancanza di assistenza medica gratuita per una larga fascia di
popolazione. La cura per la TBC deve essere gratuita, perché deve essere assicurata la continuità della terapia per 6 mesi. Dopo 2
mesi spesso l’Rx torace migliora così come i sintomi e a volte il paziente sentendosi meglio sospende il trattamento. Ma possono
rimanere ancora batteri capaci di far riattivare la malattia, i 4 mesi successivi servono a uccidere i batteri rimanenti.
Comunque è meglio non curare che curare male, perché così facendo la malattia progredisce, ma almeno non si instaurano multiresistenze. Ora come ora circolano batteri multi-resistenti (1-4% dei casi di TBC resistente) e batteri resistenti a 1 o 2 farmaci o
agli amminoglicosidi o ai fluorochinoloni. Quando il paziente è resistente a rifampicina o isoniazide, a un amminoglicoside e a un
fluorochinolone parliamo di XDR, cioè extended-multidrug-resistence. Questa è una nuova frontiera, anche se per fortuna i casi di
tubercolosi XDR sono pochi (meno dell’1%, intorno allo 0,4%). Un paziente con XDR ha una probabilità di guarire che va dal 30
al 50 %. Se la TBC non curata nel 1800 guariva nel 20-30% dei casi, portava a morte intorno al 40% dei casi in un paio d’anni e
diventava cronica in un altro 30% dei casi (diventava una malattia cronica e persisteva per anni), la TBC in epoca antibiotica
viene guarita nel 97% dei casi, diventa cronica e porta a morte in un numero limitato di casi. La tubercolosi XDR fa più o meno
quello che faceva la tubercolosi in era pre-antibiotica.
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Pleuriti
Prof. Cazzola, 24/03/09
Generalità e definizione
Accumulo di liquido in uno spazio virtuale tra i foglietti pleurici. Normalmente ci sono 8,4ml di liquido, in cui le proteine
plasmatiche sono concentrate al 15%. In questo spazio virtuale si possono trovare leucociti, soprattutto macrofagi e in parte
linfociti. Pleuriti o versamenti pleurici. Questo liquido aumenta quando c’è uno squilibrio tra quello che entra nello spazio virtuale
e quello che viene riassorbito. Quando c’è un eccesso di liquido in entrata o uno scarso recupero o entrambi andiamo incontro al
versamento pleurico. Origina dalla circolazione sistemica della pleura e viene assorbito dai vasi linfatici. Il tasso di formazione
del liquido è pari normalmente al tasso di assorbimento, ed è di circa 0,01-0,02 ml/Kg/h.
Pleurite significa infiammazione. Sarebbe meglio usare il termine “versamento” perché quando c’è liquido interno alla pleura,
questo può essere di natura essudatizia o trasudatizia. L’essudato è infiammatorio, il trasudato no. Parlare di –ite in presenza di un
trasudato è quindi sbagliato: è più corretto parlare di versamento pleurico. Per differenziare un essudato da un trasudato abbiamo
alcuni criteri. Il più semplice è quello di andare a misurare le albumine e confrontare i livelli di albumina del siero con quelli del
liquido. Il rapporto dovrebbe essere inferiore a 1,2mg/dl. Anche il colesterolo potrebbe essere un indicatore, soprattutto quando è
più di 60mg/dl, espressione di essudato. Poi abbiamo i criteri di Light, poco conosciuti. In genere si fa la reazione di Rivalta per
differenziare un essudato da un trasudato. Seguire i criteri di Light permette di capire scientificamente se siamo di fronte a un
trasudato o ad un essudato. Importante il rapporto tra l’LDH del liquido pleurico e l’LDH sierica. Per essere un essudato il
rapporto deve essere >0,6. A parte le albumine si possono guardare le proteine totali del liquido pleurico rispetto alle proteine
totali plasmatiche (il rapporto deve essere >0,5). L’LDH è molto importante per differenziare un essudato da un trasudato.
Versamenti pleurici trasudatizi. Sono quelli che accompagnano:
• Insufficienza cardiaca congestizia
• Cirrosi (legato al problema della produzione di albumina)
• Embolia polmonare
• Sindrome nefrotica; dialisi peritoneale
• Ostruzione della vena cava superiore (sindrome mediastinica)
• Mixedema (in alcuni casi); urinotorace (molto rari, descritti in letteratura).
Versamenti pleurici essudatizi. Sono quelli che accompagnano:
• Malattie infettive (batteriche come la TBC, fungine, virali, parassitarie)
• Malattie neoplastiche
o Malattia metastatica (frequenti a livello pleurico)
o Mesotelioma pleurico (tumore primitivo della pleura)
• Embolia polmonare (complicazione, viene deviato il flusso ematico con ↑ pressione nel circolo polmonare)
• Malattie gastro-intestinali (fistolizzazioni; perforazione esofagea; pancreatite acuta; ascesso intra-addominale; ernia
diaframmatica; post-chirurgia addominale, soprattutto trapianti di fegato)
• Malattie del collagene
o Pleurite reumatoide
o LES (quando compare, la malattia è in una fase aggressiva)
o Sindrome di Sjögren, granulomatosi di Wegener
o Sindrome di Chung-Strauss (condizione trovata quando sospendiamo rapidamente una terapia con steroidi →
reazione eosinofila)
• Sindrome delle unghie gialle (molto rara)
• Fase post-chirurgica del bypass aorto-coronarico (e in genere sindrome da danno post-cardiaco: ogni volta che si tocca il
cuore bene o male si sviluppa una pleurite)
• Sarcoidosi, asbestosi (per esposizione all’aminanto, la pleurite da asbesto è pericolosa perché l’entrata di aghi di asbesto
a lungo andare è un fattore critico per l’insorgenza di un mesotelioma)
• Polmone incarcerato (malformazioni o formazione di aderenze)
• Radioterapia al torace (a farte le fibrosi polmonari, dà anche reazioni pleuriche)
• Emotorace (soprattutto post-traumatico)
• Danno iatrogeno (una serie di farmaci possono indurre la comparsa di versamento pleurico, come l’amiodarone)
• Patologie del pericardio
• Chilotorace (scarso drenaggio linfatico)
Epidemiologia
In ordine decrescente di incidenza, abbiamo un versamento pleurico in caso di:
1. Insufficienza cardiaca congestizia
2. Polmonite
3. Cancro
4. Embolia polmonare
5. Malattia virale
6. Bypass aorto-coronarico
7. Cirrosi con ascite
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Diagnosi
Anamnesi. Bisogna tener conto della probabili cause che condizionano il versamento. La storia clinica e l’esame clinico è
fondamentale. Quando si raccoglie l’anamnesi bisogna ricercare le 7 patologie più comuni che danno versamento pleurico,
controllare se ci siano esposizioni professionali (o a farmaci o droghe, come la cocaina) o viaggi in zone endemiche di parassitosi
o problemi epatici occulti.
Esame fisico concentrato sulle vie respiratorie. Si trova:
• Ottusità alla percussione (per il versamento di liquido)
• Assenza di fremito vocale tattile
• Diminuzione o assenza di murmure vescicolare (e in genere di suoni respiratori).
Altri segni extra-respiratori:
• Vene del collo distese
• Ritmo di galoppo cardiaco
• Edemi declivi (segno di insufficienza cardiaca congestizia)
• Tromboflebiti, sollevamento del ventricolo destro che batte contro le coste e tachicardia sinusale (in caso di embolia
polmonare)
• Linfo-adenopatia o epato-splenomegalia (segno di neoplasie)
• Ascite (segno di patologia epatica, es. cirrosi)
• Consolidamento al di sopra del liquido e febbre (in questo caso c’è un processo infettivo, versamento para-pneumonico)
Diagnostica strumentale. All’Rx si osserva la disposizione del liquido e la mancanza di trasparenza. In genere il liquido va verso
il basso a riempire i seni costo-frenici (sia posteriormente che anteriormente), poi circonda tutto il polmone. Guardando un Rx in
genere si riesce a capire la quantità di liquido presente e quindi decidere se intervenire o meno. Se ci sono 75ml nello spazio
sotto-polmonare e rimane bloccato, si può avere un’occlusione del seno costo-frenico inferiore. Ma va via da solo, non merita un
intervento. Se sono 175ml, abbiamo il seno costo-frenico laterale interessato (ma per stabilire questo, c’è bisogno che l’Rx sia
fatto col paziente in piedi, non allettato → bisogna essere attenti a dare peso ad un Rx a letto). Se il versamento arriva a 500ml,
c’è un oscuramento di tutto il profilo diaframmatico quando il paziente è in piedi. Se arriva a 1000ml, sale fino alla IV costa
anteriore. La TC permette di individuare versamenti di 10ml o anche meno (anche 2ml), giusto per sapere se c’è stata reazione
pleurica. Se si è costretti a fare Rx in posizione di decubito, immagini di 1,5cm corrispondono a piccoli versamenti; tra 1,5 e
4,5cm a versamenti medi; più di 4,5 a versamenti massicci. Una TC andrebbe fatta a partire da versamenti moderati. Versamenti
con spessore di 1cm sono sufficienti per fare una toracentesi e prelevare un po’ di liquido da esaminare (versamento di almeno
200ml).
La TC permette di avere anche cosa c’è sotto al versamento pleurico. Fa capire qual è la ragione per cui si è formato il
versamento, cos’è che all’Rx viene oscurato dal versamento.
L’ecografia serve per capire se il versamento è libero nel cavo pleurico o se è saccato o una massa solida. Serve anche per guidare
la toracentesi.
La MRI serve per visualizzare versamenti pleurici, tumori della pleura e invasione della parete toracica (la TC non è così precisa),
per caratterizzare il contenuto del versamento pleurico e l’età dell’emorragia (dice se l’emorragia è recente o meno).
Toracentesi diagnostica. Pungere la pleura parietale, raccogliere il liquido e inviarlo per farlo analizzare. Serve per versamenti
clinicamente significativi senza cause note. Oppure in pazienti con insufficienza cardiaca congestizia per versamenti unilaterali
(soprattutto a sinistra) o bilaterali ma con dimensioni diverse. Si stimola la diuresi in modo da farlo “scaricare”. Se dopo 48h non
comincia a svuotarsi, è il momento giusto per fare una toracentesi. Si hanno controindicazioni relative: pazienti con terapia
anticoagulante, volume di liquido molto piccolo, pazienti in ventilazione meccanica anche se non ad aumentato rischio di
pneumotorace (un paziente in ventilazione meccanica con un enfisema polmonare ha i polmoni più espansi), se c’è una breccia
con perdita di aria, se la parete toracica è infettata (si rischia di far entrare i batteri). Dopo aver fatto la toracentesi faccio un Rx
torace se durante la procedura il paziente comincia a tossire o se c’è dolore o dispnea (posso avergli bucato il torace).
Complicanze: dolore (in genere si fa un anestetico locale, il paziente sente meno dolore se si ha mano ferma e si entra con
decisione), sanguinamento, pneumotorace, enfisema, infezione dei tessuti molli, puntura del fegato o della milza (se il versamento
è basso), riflesso vaso-vagale (il paziente sviene), reazioni allergiche alla lidocaina, rottura del catetere (si spezza e rimane
dentro).
Embolia polmonare
Prof. Pezzuto, 24/03/09
Generalità e classificazione
Ostruzione acuta, ricorrente o cronica di uno o più vasi arteriosi polmonari per la presenza di coaguli ematici nella circolazione
polmonare. I coaguli in genere originano da trombi del circolo venoso profondo (di solito è una trombo-embolia). Più raramente
possono avere origine da trombi presenti nelle cavità cardiache e ancora più raramente possono formarsi all’interno del circolo
polmonare stesso. Abbiamo anche embolie polmonari non di origine trombotica.
Classificazione. In base all’insorgenza: acuta e cronica. In base all’entità (percentuale dell’albero arterioso interessata) in massiva
e non massiva.
Epidemiologia e fattori di rischio
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Incidenza abbastanza elevata: negli USA è di 600000 casi/anno, in Italia di 65000 casi/anno, con una mortalità di 50000/anno
negli USA. Nonostante si sia messa a punto un miglioramento della terapia, rimane alta la mortalità. Questo perché rimane una
diagnosi misconosciuta, il clinico non ci pensa spesso. Abbiamo una diagnosi ante-mortem nel 30% dei casi. I pazienti con una
trombosi venosa profonda possono sviluppare embolia polmonare nel 30% dei casi.
Fattori di rischio: triade di Wirchow (ipercoagulabilità, stasi, danno endoteliale). Fattori primitivi legati a una trombofilia
(resistenza della PCR o deficit di proteine C ed S, deficit dell’antitrombina III e dell’attivatore tissutale del fibrinogeno,
iperomocisteinemia. Fattori secondari: tutto ciò che rallenta il circolo (immobilizzazione, interventi chirurgici, neoplasie, traumi,
fumo, flogosi croniche, obesità, ictus, gravidanza, lunghi viaggi in aereo).
Patogenesi e fisiopatologia
Nella maggior parte dei casi è una trombo-embolia, più raramente abbiamo bolle d’aria, emboli neoplastici, cateteri venosi
centrali (sede di embolizzazioni), emboli grassosi, talco (nei tossicodipendenti), liquido amniotico. La trombosi venosa profonda è
la sede di partenza più frequente dell’embolo. Sedi più interessate: distretto della vena cava inferiore (70-90%), in particolare
nelle vene femorali, iliache e pelviche (plessi periprostatici e periuterini). Solo nel 10-20% dei casi può originare dal distretto
della vena cava superiore. Le cavità cardiache destre rimangono un’origine rara.
Cosa determina la presenza di un embolo nell’albero polmonare? Abbiamo modificazioni dell’emodinamica polmonare con
aumento di pressione nell’arteria polmonare (ipertensione precapillare) → vasocostrizione reattiva → broncostenosi di compenso
(mirata a mantenere ottimale il rapporto ventilazione-perfusione) → dirottamento della ventilazione verso aree perfuse →
apertura di circoli collaterali → comparsa di shunt. Da una parte c’è alterazione del rapporto ventilazione/perfusione
(broncocostrizione indotta all’ipossia), dall’altra comparsa di shunt. Avremo anche ripercussioni sul cuore sinistro, soprattutto
quando l’embolo interessa grossi vasi polmonari. Quindi se l’embolia polmonare è massiva, può comparire riduzione del
precarico del ventricolo sinistro → ipotensione arteriosa e tachicardia di compenso → dilatazione del ventricolo destro → stasi
nel settore venoso → aumento della pressione venosa centrale e insufficienza miocardica per compressione sul cuore sinistro.
Diagnosi
Sintomi poco specifici. Dispnea (sintomo principale di tutte le malattie polmonari), tachipnea, sincope, ipotensione (embolia
polmonare massiva, poco frequente), dolore toracico, tosse ed emottisi (anche nell’ infarto polmonare).
Esame obiettivo. Spesso negativo. Segni comuni sono tachipnea e tachicardia. Può esserci febbricola (se c’è infarto polmonare).
All’auscultazione possono trovarsi sibili, rantoli e sfregamenti pleurici (non molto frequenti, in genere legati all’effetto broncocostrittore di compenso). Rinforzo della P2 del II tono. All’ispezione distensione delle giugulari. Interessamento degli arti
inferiori per trombosi venosa profonda (arrossamento, edema e dolorabilità dell’arto).
Diagnos differenziale. Con polmonite, asma, BPCO riacutizzata, infarto miocardico acuto, edema polmonare, crisi d’ansia,
fratture costali ecc.
Diagnostica strumentale. L’ECG è aspecifico, spesso si hanno alterazioni ma sempre aspecifiche (segni di sovraccarico
ventricolare destro = T negativa nelle precordiali V1-V4, blocco di branca destra di nuova insorgenza, deviazione assiale destra,
onda P polmonare, fibrillazione atriale di nuova insorgenza). Il fatto di trovare un ECG normale non esclude la diagnosi di
embolia polmonare. Sono tutti segni aspecifici la cui assenza non esclude la patologia. Però può escludere patologie in diagnosi
differenziale, come l’infarto miocardico acuto.
Emogasanalisi. Non sempre si hanno alterazioni tipiche a riposo. Quando è alterato si trova un’ipossia associata a ipocapnia
(tipica nell’embolia polmonare), con alcalosi respiratoria (perché ha insorgenza acuta), differenza alveolo-capillare di ossigeno
aumentata (80-85% dei casi, indice di alterazioni dello scambio dei gas), gravità dell’ipossia correlata all’entità dell’embolia.
Esami di laboratorio. D-dimero (prodotto di degradazione della fibrina) ha un valore predittivo negativo del 100% (se è nella
norma, si esclude l’embolia polmonare) e ha un’alta sensibilità (99%) ma una bassa specificità (può essere aumentato anche in
altre condizioni, dalla trombosi venosa profonda ai processi infiammatori, infettivi, neoplastici e nel versamento pleurico, nei
pazienti anziani e in gravidanza). Un D-dimero positivo va inquadrato in tutti gli altri esami. La troponina non fa fare diagnosi di
embolia polmonare, ma è aumentata anche nell’infarto del miocardio, nello scompenso cardiaco e nelle miocarditi (direttamente
correlata alla dilatazione del ventricolo destro). Il BNP (peptide natriuretico cerebrale) si può alzare nell’embolia polmonare, ma
non è patognomonico di patologia. È una risposta alla dilatazione del ventricolo destro, correla con la gravità dell’embolia.
Radiografia del torace. Difficile anche in questo caso fare diagnosi, si può avere un sospetto. Segni tipici: segno di Palla
(dilatazione dell’ilo polmonare) o di Westermarck (diversità di diafania tra l’emitorace destro e quello sinistro, a sinistra è più
iperdiafano perché è stato amputato il letto vascolare e il circolo viene dirottato verso destra → maggiore opacità). Segno di
Hampton (associato a infarto polmonare): addensamento a cuneo con base pleurica, versamento pleurico reattivo, sollevamento
dell’emidiaframma per riduzione del volume d’aria in quel distretto). Riscontri tipici ma poco frequenti.
Scintigrafia polmonare. Studia il circolo polmonare attraverso il Tecnezio 99. Fa vedere i distretti non perfusi. Sensibile ma poco
specifica (associate altre malattie polmonari tipo la BPCO che danno alterazioni del parenchima polmonare), andrebbe
confrontata con un esame radiologico o con una scintigrafia ventilatoria. Dove c’è una zona alla scintigrafia ventilatoria normale e
alla perfusoria alterata, vuol dire che c’è una serie di stop del circolo polmonare. In genere la scintigrafia ventilatoria non viene
fatto, il confronto è con una TC del torace. In genere quando refertano una scintigrafia polmonare, danno una alta o media o bassa
probabilità di embolia polmonare, non fanno diagnosi. È il clinico che poi deve confrontarlo con altri esami radiologici.
TC spirale. Esame più usato per la diagnosi di embolia polmonare. Permette di valutare i vasi del polmone, mette in evidenza
attraverso il passaggio del mezzo di contrasto dei deficit di perfusione come aree che non prendono contrasto. Ma non è sensibile
per i vasi sub-segmentali.
Angiografia polmonare. Esame di sicurezza ma invasivo, usato nelle diagnosi dubbie (ultima ratio) o nel pre-intervento.
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Ecocardiogramma. Può indirizzare ma non è diagnostico, ci sono segni indiretti di sovraccarico del ventricolo destro. Dà segni di
ipocinesia, può esserci sbandieramento del setto interventricolare se si dilata il ventricolo destro. Può dare un’idea del
sovraccarico pressorio attraverso la valutazione del rigurgito della tricuspide (misura indiretta della pressione in arteria
polmonare).
Nel momento in cui viene sospettata l’embolia polmonare e si hanno i segni della trombosi venosa profonda, l’esame diagnostico
dell’embolia polmonare va completato con la diagnosi della trombosi venosa profonda. Una volta avuto un doppler positivo per la
trombosi venosa profonda, va messa in atto una terapia anticoagulante perché nel 30% dei casi può comunque complicarsi con
un’embolia polmonare.
Lo score di Wells è un punteggio che indirizza verso la diagnosi di embolia polmonare. Ci dice se il sospetto di embolia
polmonare è da prendere in considerazione.
• Segni e sintomi clinici: punteggio di 3
• Diagnosi clinica alternativa: 3 punti
• Freq. Cardiaca maggiore di 100: 1,5 punti
• Immobilizzazione o intervento chirurgico recente: 1,5 punti
• Precedente embolia polmonare o trombosi venosa profonda: 1,5 punti
• Tumori o emottisi: 1 punto
Punteggio da 12,5 a 4. In base al valore ottenuto si ha un’alta, moderata o bassa probabilità di embolia polmonare.
Anamnesi ed esame obiettivo → ECG-RX del torace → D-dimero + → TC spirale + → terapia. Una TC spirale positiva basta
comunque per iniziare il trattamento. Se la TC è dubbia, si fa un’ecodoppler (o meglio una scintigrafia). Se tutto questo è dubbio,
si cerca l’origine dell’embolo (storia di trombosi venosa profonda, ricerca tramite ecodoppler del trombo). Se è negativo ma
rimane il sospetto, si dovrebbe fare un’angiografia del polmone prima di iniziare la terapia.
Ipertensione polmonare
Generalità e classificazione
Il ventricolo destro lavora a volume, non genera grandi pressioni. Lavora contro il circolo polmonare, che è un sistema a basse
pressioni. Le resistenze nel circolo polmonare sono decisamente più basse di quelle nel circolo sistemico. La pressione in arteria
polmonare è in sistole tra 18 e 25mmHg e in diastole tra 6 e 10mmHg, con una media di 12-16mmHg. L’ipertensione polmonare
(PH) è una condizione emodinamica e fisiopatologica che si ha quando aumenta la pressione nell’arteria polmonare (> 25mmHg),
misurate per cateterismo cardiaco destro. Si può riscontrare in molte condizioni cliniche, non è una diagnosi di malattia ma una
condizione emodinamica. Mentre l’ipertensione polmonare arteriosa (PAH) è una condizione clinica associata a ipertensione
polmonare. È caratteristica perché l’ipertensione è precapillare: il blocco che determina ipertensione capillare è a monte del letto
capillare.
Nelle linee guida l’ipertensione è classificata in precapillare e postcapillare a seconda della valutazione emodinamica.
Precapillare: la pressione di incuneamento (misura della pressione precapillare) è maggiore < 15mmHg. La pressione di
incuneamento si misura incuneando il catetere nel vaso del letto capillare polmonare. Bloccando il flusso si ha la misura della
pressione nel circolo sinistro. Se si blocca il catetere, non risente delle pressioni che ci sono a monte, ma solo delle pressioni che
vengono dalla sezione sinistra del cuore. Se le pressioni che si misurano sono < 15mmHg, tutte le resistenze sono a monte
dell’atrio sinistro. Se sono maggiori di 15mmHg, l’incremento pressorio in arteria polmonare è legato ad un aumento delle
pressioni nelle sezioni sinistre del cuore (nell’atrio sinistro). È importante perché l’ipertensione polmonare può essere legato ad
aumento di resistenze che stanno a valle del letto polmonare (patologie del cuore sinistro), quindi ipertensione post-capillare.
L’atteggiamento terapeutico sarà differente. In genere l’ipertensione precapillare si associa ad una portata cardiaca normale o
ridotta, nell’ipertensione post-capillare si ha una pressione di incuneamento > 15mmHg, portata cardiaca normale o ridotta ma si
può avere ipertensione da iperafflusso. Se la caduta pressoria tra la P in arteria polmonare e quella di incuneamento è < 12 è di
iperafflusso. Quindi precapillare se l’ostacolo è a monte del letto capillare, postcapillare se è a valle.
Classificazione del 2009. Ci sono 5 classi.
• Ipertensione arteriosa polmonare, patologia veno-occlusiva (più importante)
• Ipertensione polmonare legata a patologie del cuore sinistro
• Ipertensione polmonare secondaria a malattie polmonari (malattie ostruttive, interstiziopatie ecc)
• Ipertensione da malattie trombo-emboliche polmonari
• Ipertensione da patologie varie
Patogenesi e fisiopatologia
L’ipertensione arteriosa polmonare (PAH) è un insieme di patologie del I gruppo, caratterizzato da ↑ P in arteria polmonare di
tipo precapillare. Si caratterizza per un aumento progressivo delle resistenze vascolari polmonari, che porta inevitabilmente allo
scompenso cardiaco destro. I primi sintomi sono dispnea e affaticamento.
La PAH può essere idiopatica, ereditaria (carenza di enzimi), legata all’assunzione di farmaci (in genere gli anoressizzanti), a
malattie del connettivo, all’infezione da HIV, nelle cirrosi epatiche, nelle patologie cardiache congenite (grossi difetti interatriali e
interventricolari).
Danno vascolare polmonare → alterazioni della matrice, delle caratteristiche funzionali delle piastrine → aumento delle cellule
infiammatorie, che insieme alla disfunzione endoteliale con squilibrio tra vasodilatatori e vasocostrittori e insieme alla
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disfunzione della muscolatura liscia vasale porta a vasocostrizione con trombosi, infiammazione e alterazione delle pareti dei vasi
polmonari con il quadro tipico della lesione plessiforme.
Fase preclinica (minima dispnea da sforzo, pressione in arteria polmonare aumentata, aumentate le resistenze polmonari
precapillari, portata cardiaca ridotta) → Aumentano le resistenze, ↓ portata cardiaca, ↑ resistenze polmonari → la sintomatologia
peggiora drammaticamente (forte dispnea anche a riposo), resistenze molto aumentate, portata cardiaca molto ridotta, ridotta la
pressione in arteria polmonare (non è indicativo di miglioramento, ma legata a disfunzione del ventricolo destro non più in grado
di imprimere una giusta pressione).
Epidemiologia
L’ipertensione arteriosa polmonare è una patologia rara: ha una prevalenza di 15-25 casi per milione, con 2-4 casi per milione
all’anno. Ma è una malattia rapidamente progressiva, con sopravvivenza media di 2,8 anni. In genere colpisce soggetti molto
giovani. Nonostante ad oggi ci siano numerose terapie farmacologiche, la mortalità rimane alta. Comunque sia non si riesce a
rallentare la storia naturale della malattia. Terapie ad azione vasodilatatrice sui vasi polmonari.
Diagnosi
Ipertensione polmonare arteriosa sospettabile in un paziente dispnoico senza motivo apparente (senza alterazioni ventilatorie o
patologie cardiache importanti). Dispnea non giustificata, astenia, cianosi nelle fasi più avanzate. Anche episodi lipotimici e
sincopi, dolore toracico, sdoppiamento del II tono, soffio da insufficienza tricuspidalica, aumento del turgore delle giugulari,
epatomegalia, edemi periferici (in fasi avanzate di scompenso del cuore destro). Quello che fa sospettare di più nelle fasi precoci è
una dispnea non giustificata.
L’esame di screening è l’ecocardio, che fa sospettare con più probabilità la presenza di una malattia di tipo ipertensivo polmonare.
Sospetto clinico → ecocardio → identificazione della classe clinica (ecocardio, scintigrafia, angio-TC). Segni indiretti della
presenza di ipertensione polmonare: alterazione dei diametri del cuore destro (anche più grande del sinistro), rigurgito della
tricuspide (maggiore è il rigurgito, maggiore è la pressione in arteria polmonare), dilatazione della vena cava (ripercussioni
dell’aumento pressorio in atrio destro). Bisogna cercare motivi che giustificano l’aumentata pressione. L’ecocardio fa escludere
patologie del cuore sinistro. Comunque è una metodica di screening.
Altro passaggio: scintigrafia polmonare. Si esclude la presenza di trombi nel letto vascolare polmonare. Tecnica molto sensibile
ma poco specifica. Ha una risoluzione spaziale scarsa, è un’indagine di sommazione in antero-posteriore o latero-laterale.
L’angiografia polmonare è l’esame migliore, l’unico esame di certezza ma invasivo.
La TC ad alta risoluzione permette di valutare il parenchima polmonare, fa escludere patologie polmonari associate a ipertensione
polmonare (interstiziopatie, BPCO). Fa escludere la malattia veno-occlusiva, che non risponde ai farmaci vasodilatatori.
Caratterizzata da edema interstiziale e ispessimento dei setti interlobulari, associato a linfoadenopatie o versamento pleurico.
L’angio-TC permette con una buona sensibilità e specificità di escludere l’embolia polmonare.
Una volta fatta diagnosi di classe, va valutato il grado di ipertensione polmonare. Si fa valutando i test di funzionalità respiratoria
(soprattutto DLCO e test del cammino). Il test del cammino è anche un fattore prognostico: in relazione a quanti metri il paziente
riesce a percorrere, la prognosi è peggiore se non riesce a fare più di 320 metri.
Valutazione emodinamica tramite cateterismo cardiaco destro, una volta escluse altre diagnosi. Serve a valutare i valori in arteria
polmonare identificare se l’ipertensione è di tipo pre o postcapillare. Si valuta il profilo pressorio dell’atrio e ventricolo destro e
dell’arteria polmonare, valutando anche le resistenze polmonari. Permette di valutare la presenza di shunt con le misurazioni
saturimetriche delle varie camere. Tutti i pazienti con sospetta ipertensione polmonare devono essere sottoposti a cateterismo
cardiaco, altrimenti non si può iniziare la terapia (tra l’altro costosa al sistema sanitario e pericolosa). In corso di cateterismo si fa
il test di vasoreattività con vasodilatatori rapidi (es. NO). Alcuni pazienti con IP sono responder (vasodilatano il circolo
polmonare), test positivo per caduta di pressione media in alteria polmonare > 10mmHg e ritorno della pressione arteriosa media
a meno di 40mmHg. Pazienti responder possono essere curati con alte dosi di calcio-antagonisti (meno costosi, con meno effetti
collaterali), hanno una migliore sopravvivenza (5% dei pazienti). Il catetere è bloccato in un vaso, in modo da valutare le
pressioni dell’atrio sinistro (a valle del circolo polmonare) ed escludere le patologie del cuore sinistro.
Fattori prognostici negativi: classemia, test del cammino (limite: 322 metri), frazione di eiezione ridotta, pressione in arteria
polmonare, portata cardiaca, saturazione del sangue venoso misto.
Cuore polmonare
Ingrandimento del cuore destro (atrio e ventricolo) secondario a patologie polmonari o extrapolmonari o in assenza di cardiopatie
sinistre congenite. Ipertensione polmonare ed embolia polmonare portano al cuore polmonare. Le malattie del polmone possono
essere dei vasi o del parenchima. Extrapolmonari come dimorfismi della gabbia toracica, patologie del sistema neuromuscolare o
dei centri respiratori (effetto vasocostrittore ipossico → vasocostrizione, non c’è un vero e proprio ostacolo meccanico). Queste
malattie sono caratterizzate da riduzione del volume d’aria, più è disteso il parenchima e più dilata i vasi distendendo il
parenchima.
Il cuore polmonare secondario a patologie vascolari polmonari può essere acuto o cronico. L’embolia polmonare dà cuore
polmonare acuto, così l’ARDS e lo pneumotorace. Le vasculiti e l’ipertensione arteriosa polmonare danno un cuore polmonare
cronico, così come BPCO, asma, interstiziopatie e TBC. Acuto su cronico durante un’esacerbazione di BPCO.
L’aumento dell’acidosi si associa ad un aumento di pressione in arteria polmonare media.
Nel cuore polmonare si trovano i segni della patologia che l’ha determinato.
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malattie apparato respiratorio