Badia Calavena Feudo monastico 1 Premessa Oggi Badia Calavena è il nome proprio di un modesto comune della provincia di Verona nella val d’Illasi. Badia è sinonimo di Abbazia e Calavena indicava un tempo questa zona dell’alta Val d’Illasi (1111). Il comune ha preso il suo nome dall’Abbazia di Calavena perché proprio da questa Abbazia ha tratto le sue origini e la sua fisionomia. L’Abbazia dei santi Pietro e Vito di Calavena ha avuto una storia pressochè millenaria: dal mille al milleottocento, mantenendo durante tutti questi secoli la struttura del feudo medievale. Il feudo era un ente locale autonomo e per quanto territorialmente limitato, con un ambito di potere praticamente dispotico. Signore e principe di questo piccolo stato era l’Abate con la sua comunità e cioè il monastero abbaziale. L’argomento della presente ricerca è suddiviso in tre parti: I fondatori (1046-1177) Gli abati autonomi (1177-1360) Gli abati commendatari e claustrali (1360-1530) Congeniale con la vecchiaia è lo studio della storia locale. Una spanna di storia umana fatta su documenti inediti di quei tempi quando una pezza di terra faceva storia. Questa modesta narrazione diventa un giusto riconoscimento di quanto nel nostro passato hanno quotidianamente seminato i monaci di san Benedetto, i grandi araldi della vita consacrata. Nato a Badia Calavena, credo in questo modo di rendere un doveroso omaggio al paese nativo. Mantovani Pietro 2 I I Fondatori 1046 – 1177 3 Il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena nacque nel periodo della grande rinascita alle soglie del secondo millennio cristiano. I suoi fondatori furono due Vescovi di Verona: Valterio da Ulma (10371055) e Bernardo da Brescia (1119-1135). Il primo - Valterio– di origine tedesca, di elezione imperiale, visse ed operò nel periodo del massimo asservimento della Chiesa all’Impero; il secondo – Bernardo – bresciano di nascita, eletto dal Capitolo della Cattedrale, fu l’energico difensore dell’autonomia gregoriana della Chiesa. Il Vescovo Valterio d’Ulma 1037 – 1055 Intorno all’anno mille, per iniziativa del Sacro Romano Impero di nazione germanica, si verificò in tutta l’Europa un vasto rinnovamento religioso, politico e culturale. Anche se questo è il periodo del totale asservimento della Chiesa al potere imperiale (1049), la Chiesa stessa conobbe un risveglio che la portò lentamente a diventare la guida morale della storia d’Europa. Fu l’Impero germanico di Ottone il Grande a ridare il respiro universale alla Chiesa romana che aveva immiserito il Papato in ripicche di famiglia. Gli imperatori di Germania (962-1250) infatti erano tutti profondamente cristiani ed impostarono la loro attività politica con la coscienza, divinamente illuminata, di essere i veri responsabili della storia dell’intera umanità. Essi per realizzare questa nobile politica puntarono sulla Chiesa, particolarmente sui Vescovi, che essi stessi si premuravano di scegliere tra coloro che ritenevano più adatti. D’accordo poi con i Vescovi, che spesso erano di estrazione monastica, intrapresero una vasta riforma religiosa ricorrendo in modo particolare alle energie sempre nuove del mondo, raccolte per l’appunto nella vita monastica riformata. C’è in questa affermazione una fede incondizionata nella creatività dello Spirito che sempre rinnova profeticamente l’umanità. In questo modo pensavano di salvare indirettamente anche la Chiesa gerarchica, umanamente molto decaduta. Così la vita monastica, favorita dai Vescovi e dall’Imperatore, conobbe il suo momento migliore: il periodo d’oro del monachesimo benedettino occidentale. Gli Imperatori di Germania, incominciando dal primo, da Ottone I il Grande (962 – 973), ed i Vescovi da loro eletti per attuare la tanto auspicata riforma della Chiesa, nella gerarchia e nel popolo, appoggiarono il cosiddetto movimento riformatore di Gorze, detto anche della Lorena, che era stato iniziato 4 nel 933 dall’abate Giovanni in quell’antico monastero, fondato nel 748 da Crodegango Vescovo di Metz. Il movimento riformatore di Gorze fu storicamente quello più importante di tutte le riforme monastiche parallele a quella di Cluny. Il grande Papa Leone IX, che uscì dall’ambiente di questa riforma, è il degno precursore di Gregorio VII, che è invece l’incarnazione dello spirito di Cluny. Così favorita dall’autorità imperiale ed episcopale, la riforma di Gorze si estese per tutto l’Impero e contribuì con il suo successo a limitarvi l’influenza della riforma di Cluny. In particolare fu accolto nel Ducato di Baviera, da cui l’Imperatore Corrado II il Salico (1027 – 1039) inviò il monaco Richerio (1038- 1055) a Montecassino, la casa madre dei Benedettini, quale abate riformatore. I monasteri benedettini legati alla riforma di Gorze erano costituzionalmente dipendenti dal Vescovo diocesano, conservando però la loro piena autonomia amministrativa e direzionale, e si obbligavano alla severa osservanza della regola di sanBenedetto. Mentre i monasteri della riforma di Cluny erano legati giuridicamente al papato ed erano dipendenti, in forma di priorati, dall’autorità centrale dell’abate di Cluny. I monaci cluniacensi si distinguevano per i grandiosi e splendidi cerimoniali liturgici. Il movimento riformatore di Gorze, oltre all’austerità ascetica, si proponeva una formazione dei preti per un’attività pastorale all’altezza dei tempi. Faceva perno sulla creazione di una nuova categoria di ministri della Chiesa: ferventi comunità monastiche di tradizione benedettina direttamente dipendenti dal Vescovo diocesano. Questi monaci, in maggioranza anche sacerdoti, venivano distribuiti a gruppi in diverse zone della diocesi per il ministero al popolo, nelle numerose cappelle o chiese, chiamate priorati. Queste comunità rispondevano meglio del clero diocesano all’ansia pastorale e missionaria dei Vescovi. Inoltre in queste comunità si sperimentavano soluzioni pratiche al grave problema della coabitazione con donne dei monaci sacerdoti dediti al ministero pastorale, essendo però escluso in modo assoluto per principio il matrimonio dei preti. Questi monaci riformati di Gorze potevano esercitare nell’ambito diocesano una forte influenza anche sul clero secolare, con il quale erano in continuo contatto attraverso la presenza del Vescovo. 5 IL DUCATO DI BAVIERA CON LE MARCHE DIPENDENTI (955) Dopo questo sguardo generale sul rinnovamento religioso promosso dagli Imperatori tedeschi nell’area germanica, si può vedere quanto venne realizzato in questa linea nella Diocesi di Verona. La città di Verona nell’anno 952 fu dichiarata dall’Imperatore Ottone I il Grande Marca meridionale del Regno di Germania, e come tale fu incorporata al Ducato di Baviera. Il primo Marchese della città fu Milone di san Bonifacio che era il conte di Verona. Da questo tempo la città imperiale di Verona con il suo territorio, staccata definitivamente dal Regno d’Italia, aumentò di prestigio e d’importanza. In posizione strategica essa doveva garantire agli Imperatori di Germania il sicuro passaggio per l’Italia e per Roma: la porta d’Italia per tutti gli Imperatori tedeschi. 6 Nonostante questo, nella città di Verona l’Impero Germanico, che dominò per tre secoli sull’Europa (950 – 1250) non lasciò grandi tracce della sua presenza. Mentre i secoli dell’Impero Romano avevano costruito l’Arena, il Teatro, il Ponte Pietra e le mura con i Portoni Borsari. Di questo tempo però sono due grandi monumenti cittadini: la Cattedrale di santa Maria Matricolare (il Duomo) e il monastero Benedettino di san Zeno Maggiore. I migliori Imperatori di Germania favorirono ampiamente e sostennero economicamente i vescovi imperiali ed i monaci benedettini, i quali per loro merito poterono compiere queste due opere grandiose ed imperiture. I Vescovi di Verona in questo primo periodo dell’Impero furono tutti di nomina imperiale e quasi sempre tedeschi. E proprio per questo si ebbe in Verona e nel suo territorio, tra le svariate iniziative di rinnovamento, la terza ondata di fondazioni monastiche dell’Ordine Benedettino. Undici nuovi monasteri benedettini furono costituiti tra il 1000 e il 1150: nove maschili e due femminili. (1) Di questi monasteri, almeno i più prestigiosi, nacquero nell’ambito dell’autorità dei Vescovi di Verona: furono monasteri di istituzione diocesana secondo il movimento di riforma di Gorze. In particolare durante l’episcopato di Giovanni (1015 – 1037) figlio di Giadone signore di Garda, ebbe inizio e si costituì (1037) il monastero benedettino dei santi Nazaro e Celso. E durante l’episcopato del suo successore Valterio d’Ulma (1037-1055) fu fondato dal vescovo di Parma Càdalo degli Erzoni di Lendinara il monastero di san Giorgio in Braida (1046). È da questo monastero che intorno al 1130 dovette formarsi definitivamente il monastero benedettino dei santi Pietro e Vito di Calavena, in seguito al drastico intervento riformatore del Vescovo di Verona Bernardo da Brescia (1119 – 1135). ___________________________________________ (1)Miller, pag.108 7 La storia delle origini del monastero di Badia Calavena è legata strettamente al monastero cittadino di san Giorgio in Braida. Quello di san Giorgio in Braida fu l’ultimo grande monastero benedettino fondato nella città di Verona nel tardo medioevo. La sua fondazione fa parte essenziale del vasto programma di riforma morale e religiosa del clero veronese iniziata dal Vescovo Giovanni (1015 – 1037) e puntigliosamente portata avanti dal suo successore Valterio da Ulma (1037 – 1055). La riforma del clero veronese era stata iniziata in modo rivoluzionario qualche tempo prima dal grande Vescovo di Verona Raterio di Liegi (932 – 968). Egli da buon Vescovo e primo responsabile del suo clero pretendeva di cambiarne la condotta attaccandolo direttamente nei suoi vizi. Impulsivo questo Vescovo! Nell’alto clero veronese, raccolto particolarmente nel Capitolo della Cattedrale, erano ormai radicati per “consuetudine” due gravi vizi: il concubinato dei preti e l’accumulo personale dei beni ecclesiastici. Le due cose si implicavano in modo inestricabile come in un nodo gordiano. Sulla Chiesa alta e su quella bassa da essa dipendente si era distesa tutta una rete di interessi economici e politici che nessuno sarebbe riuscito a districare. Il tentativo di riforma del vescovo Raterio purtroppo fu un vero fallimento. Il grande Capitolo della Cattedrale incontrastato detentore di tutto il potere clericale, si era dimostrato un sospettoso ed oculato nemico di ogni forma di rinnovamento religioso. I canonici della Cattedrale, dipendenti direttamente dal Patriarca di Aquileia, erano i principali rivali del Vescovo di Verona. Quindi se il Vescovo voleva ottenere qualcosa, doveva scegliere un’altra via. Lasciare in pace l’alto clero nelle sue “male consuetudini” e rivolgersi a forze nuove: quelle delle istituzioni monastiche. Il mite e conciliante vescovo Valterio da Ulma scelse questa seconda via. 8 Valterio, svevo di origine e nativo da Ulma, fu fatto Vescovo di Verona dall’imperatore Corrado II di Franconia, detto il Salico (1027 – 1039). La Franconia, la Svevia e la Baviera, terre imperiali, erano state unificate da Ottone I il Grande. Cresciuto ed educato alla corte imperiale, come altri grandi personaggi del tempo, fu Vescovo stimato anche al di fuori della sua diocesi di Verona. Favorito dagli imperatori Corrado II e dal successore Enrico III detto il Nero (1039 – 1056) ottenne estesi privilegi e possedimenti per il monastero benedettino di san Zeno Maggiore in Verona. Tenuto in grande stima nell’alta Gerarchia Ecclesiastica, nel Sinodo di Pavia del 1046 ottenne il primo posto a destra del Patriarca di Aquileia assicurando così una posizione di prestigio alla sede Veronese rispetto ad altri concorrenti. Nel Natale del 1050 accolse con grande onore ed ospitò il Papa Leone IX (1049 – 1054) di passaggio per Verona. Leone IX fu il migliore Papa germanico del medioevo, per l’armoniosa cooperazione tra la Chiesa e l’Impero. Era un monaco benedettino della riforma di Gorze ed era stato eletto papa dall’imperatore Enrico III nel 1049. Negli ultimi anni dell’episcopato di Valterio avvenne la traslazione delle reliquie di sant’Anastasia dal monastero di Santa Maria in Organo di Verona al monastero benedettino di Bure in Baviera. Dalla cronaca contemporanea di questa traslazione così ci appare il buon Valterio sul finire del suo episcopato. “Originario dalla Svevia nella Baviera occidentale, era stato fatto Vescovo di Verona un tal di nome Valterio, che nella medesima città s’era sempre dimostrato generoso nella beneficenza, particolarmente efficace nella predicazione ed assiduo in tutte quelle buone opere con le quali si guadagna il paradiso. Della sua fama di bontà venne a conoscenza anche il venerando Gotelmo, abate del monastero benedettino di Bure nella Baviera meridionale, lui pure altrettanto degno della sua abbazia: era infatti dedito alle buone opere, assiduo notte e giorno ai digiuni, alle veglie e alle preghiere. Tutti i suoi concittadini lo amavano con grande affetto. Tra questi suoi affezionati ammiratori c’era anche il soprannominato Vescovo di Verona Valterio che in diverse circostanze gli aveva inviato consistenti aiuti caritativi. Proprio in quel tempo il soprannominato abate Gotelmo mandò un suo monaco sacerdote di nome Gotescalco nella città di Verona al medesimo Vescovo con alcuni compagni, per chiedere degli aiuti alimentari, perché in Baviera la carestia durava ormai da dieci anni e moltissimi soffrivano la fame. Venendo dunque Gotescalco nella città di Verona non vi trovò il Vescovo, ed allora si diresse al vicino monastero di Santa Maria in Organo dall’abate Engelberone, che era anche lui della famiglia di san Benedetto. 9 Lo accolse benevolmente e lo fece riposare quel giorno e la notte, perché gli aveva detto che sarebbe ripartito la mattina dopo per raggiungere il luogo dove era diretto. E così fece. - Ma durante la notte, invece di dormire, architettò il modo di trafugare le reliquie di sant’Anastasia che si trovavano nella Chiesa del monastero -. Il giorno dopo, che era domenica, Gotescalco celebrò i divini uffici ed ottenne dallo stesso abate il permesso di ripartire. Riprese il cammino dopo aver pranzato e raggiunse il vescovo Valterio all’imbrunire di quella domenica e fu da lui benevolmente accolto nel castello di Peschiera (1) sul lago di Garda. Gotescalco rimase con il Vescovo tre giorni e tre notti. Gli manifestò il motivo del suo viaggio e gli domandò degli aiuti alimentari. Ricevuta una buona offerta, se ne andò contento ed in pace. Ritornato in città, venne al monastero di Santa Maria in Organo, ma non trovò l’abate Engelberone. - Durante la notte il monaco e prete Gotescalco in parte con l’astuzia e in parte con il denaro avuto dal vescovo Valterio, riuscì a portarsi via le reliquie di sant’Anastasia -. Questa traslazione fu portata a termine il 5 Luglio 1053, sotto l’impero di Enrico III, il papato di Leone IX e l’episcopato della diocesi di Augusta di Enrico. Testimoni furono questi monaci: Gotehalmus abbas huius loci, Regimpertus Hercampertus Walterus presbyteri, Richboldus diaconus, Dietricus et Dieterus diaconi, Gotschalcus presbiter, traslator corporis eiusdem. Esaminando in particolare l’attività pastorale del vescovo Valterio, emerge con evidenza quanto si sia servito delle istituzioni monastiche della sua diocesi. Proprio per una esigenza di radicale rinnovamento del clero diocesano e per un’espansione più sicura dell’attività missionaria, in particolare nelle zone limitrofe della diocesi, il vescovo Valterio puntò decisamente su comunità di monaci benedettini che fossero anche sacerdoti. ____________________________________________________ (1) Il suo castello “firmato” era quello di Badia Calavena, ma forse ne aveva uno anche sul lago, a seconda delle stagioni. 10 È da pensare che fin dall’inizio della sua missione episcopale (1037) lo zelo apostolico dell’intraprendente Vescovo Valterio gli abbia suggerito di rivolgersi ai monasteri benedettini già esistenti nella città, in particolare al più grande di essi, quello di san Zeno Maggiore, per il quale aveva ottenuto dall’imperatore Enrico III molti privilegi e possedimenti. Facilmente fu in questo tempo che i monaci benedettini di san Zeno Maggiore, su indicazione del vescovo Valterio, misero piede nella bassa Val d’Illasi, lasciando il nome al paese di sanZeno in quel di Colognola, e specialmente prendendo stabile possesso del paese di Cellore nel territorio d’Illasi. Cellore infatti rimase stabilmente legato al monastero cittadino di san Zeno dal 1163, da quando cioè l’Imperatore Federico Barbarossa (1150 – 1194) gli confermò questo possedimento. Ma se in linea di favore personale avrà anche ottenuto quanto chiedeva, il Vescovo come tale non aveva alcun potere sulla comunità dipendente solo dall’abate. Ecco allora l’idea di una comunità benedettina tradizionale (= monaci neri), ma “sotto la giurisdizione e la difesa del Vescovo della santa Chiesa di Verona”. Il movimento riformatore di Gorze, ampiamente diffuso nelle terre imperiali, suggeriva qualcosa di nuovo e di ideale. Quindi il vescovo Valterio, in evidente accordo con il suo vicario episcopale Cadalo degli Erzoni di Lendinara, aveva in un primo momento (1040) incastellato la zona della Calavena. La Calavena in questo tempo indicava tutta l’Alta Val d’Illasi dal paese di Cellore in su fino agli alti monti. Allora la Calavena, che si presenterà più tardi (1145) come corte episcopale era una zona indipendente ed autonoma dal resto della Val d’Illasi. Assieme all’Illasio e al Lavagno formava le tre zone antiche dell’intera Val Longazeria. La corte di Calavena infatti apparteneva totalmente al vescovo di Verona, mentre la corte o curia d’Illasi il vescovo di Verona la condivideva per metà con il Conte di Verona. (1) L’antica e vasta “curia” d’Illasi (874) non comprendeva i territori degli odierni comuni di Tregnago e di Badia Calavena. (2) L’incastellamento avveniva attraverso la costruzione di un luogo fortificato, il castello, che dava al legale costruttore e proprietario ampi diritti esclusivi sulla zona circostante. Il Castello della Calavena, eretto su terreno vergine – a solo, dal suolo – è il castello di san Pietro che si ergeva sull’omonima collina. (1)Biancolini pag.195 (2)SNC.perg.541 11 Il castello di san Pietro era anche la residenza estiva del Vescovo fino al 1202, quando questa sarà trasportata a Monteforte d’Alpone. La costruzione o ricostruzione di castelli in luoghi strategici nel periodo che segue alla feroce invasione degli Ungari (899 – 955) fa parte del progetto di difesa e di ricostruzione, voluto dai primi Imperatori di Germania contro altre eventuali invasioni barbariche. Una lapide, custodita nella casa dei nobili Cipolla in Via Stella e andata perduta nei bombardamenti di Verona del 1944, ricordava la costruzione di questo castello. Era anche il primo documento datato della Calavena. Così ne parla l’archivista veronese Lodovico Perini nel 1728. Nel luogo dell’Abadia di Calavena e nella Casa del Reverendo Curato, attaccata alla Clausura del monastero nel salir delle scale vi è una Pietra antichissima in cui sono incise le seguenti parole: + AN - DNI - MXL SUPTU WALTARII EPI HOC CASTELLO EREXIT A SOLO (1) Poco dopo l’incastellamento della Calavena, nel 1046 sempre il vescovo di Verona Valterio aveva disposto le cose in modo che lo stesso Cadalo, diventato vescovo di Parma (1045 – 1061), desse avvio al monastero benedettino di san Giorgio in Braida, dotandolo di tutti i suoi beni familiari. (1) Biblioteca civica di Verona. Fondo Perini (Lodovico) Carteggi. Busta 26. Monaci benedettini dei santi Pietro e Vito di Calavena. Anno 1728. Traduzione: Anno del Signore 1040 A spese del vescovo Valterio questo castello Eresse dal suolo. 12 Caratteristica giuridica di questa fondazione è la sua dipendenza dall’autorità episcopale e non da laici e neppure dal papa: l’abate sarà eletto per la parte maggiore dalla comunità del monastero stesso, ma per una parte dal Vescovo. Si deve notare che questo orientamento pastorale sostenuto dai Vescovi non è una prerogativa della diocesi di Verona, ma è presente chiaramente anche in altre diocesi dell’area germanica dell’Alta Italia: Genova, Milano, Brescia, Como. (1) Non doveva essere assente nella mente del buon Vescovo Valterio l’esempio del santo Vescovo e Martire Bonifacio (675 – 755). Questo santo, monaco e vescovo, indefesso missionario, aveva speso la sua lunga vita nelle terre di provenienza del nostro vescovo Valterio: la Germania sud occidentale. Il monastero di san Giorgio in Braida non può essere avvicinato a quelli della riforma di Cluny in Borgogna. Il principio dell’esenzione dal potere signorile e laicale e quello della dipendenza dall’autorità del Vescovo diocesano lo pongono nell’area del movimento riformatore di Gorze in Lorena. Per maggior conoscenza di questa forma giuridica di un monastero benedettino si riporta qui l’atto di fondazione. ATTO PUBBLICO di fondazione e di donazione del monastero di san Giorgio in Braida. Nel nome del Signore eterno Iddio. Amen. L’anno 1046 dopo l’incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo, 24 aprile, indizione 14a. Nel tempo che ciascun uomo trascorre in questa vita terrena, se riflette sullo stato transitorio di essa, deve custodire e dirigere se stesso ed inoltre ordinare e disporre delle sue cose in modo tale che, quando nostro Signore deciderà di chiamarlo da questo mondo, si trovi nella situazione di essere giudicato non per le sue negligenze, ma per le sue buone opere. Per questo io Cadalo per grazia di Dio Onnipotente, Vescovo di Parma, che mi dichiaro di vivere secondo la legge dei Romani, proprio riflettendo sulle cose sopraddette, per la salvezza dell’anima mia, di mio padre, di mia madre e dei miei fratelli, e per la provvidenziale circostanza di trovarmi unico erede della mia famiglia, dichiaro Lui, l’Onnipotente, erede universale di tutti i miei beni. (1) Pietro Zerli. Monasteri in Alta Italia nei secoli X – XII. 13 Pertanto è mia precisa volontà di fondare e di disporre con le mie proprietà un monastero che mantenga in perpetuo la Regola di San Benedetto in onore e nel nome di san Giorgio martire, sull’Adige appena fuori la città di Verona, nel luogo chiamato Prato Dominico. Con queste disposizioni: - che in questo monastero vi sia sempre un numero fisso e stabile di monaci secondo i redditi del monastero stesso. - che l’Abate venga scelto unicamente tra i membri della comunità del monastero - che l’Abate sia eletto per la parte maggiore dalla Comunità dei monaci e per l’altra terza parte dalla volontà del Vescovo - infine che l’Abate venga solennemente ordinato e mantenga stabile sede in questo monastero. Quindi offro e faccio atto di donazione al predetto monastero, che intendo fondare, di tutti gli edifici e di tutti i terreni che mi vennero per diretta e legittima successione e per eredità del defunto mio padre, da mia madre e dai miei fratelli. Proprietà che vengono a trovarsi nella contea di Verona e nella contea di Vicenza. Innanzi tutto la parte che spetta a me e cioè: *nella Contea di Verona 1. la metà del castello chiamato il Palù con tutte le sue pertinenze 2. il fondo in Valpolicella chiamato Negrar 3. il fondo in Val Posta (di Avesa) chiamato Borago e quello chiamato monte Bruso (Montecchio?) 4. il fondo in Val d’Illasi chiamato Cologna (Sant’Ambrogio sul Vago)con i territori che vi appartengono *e nella Contea di Vicenza 5. la corte e il castello chiamato Sabbion con gli edifici, le cappelle e tutte le proprietà che appartengono alla corte stessa e al castello. 6. il fondo chiamato Cologna Veneta 7. il fondo di Baldaria 8. il fondo chiamato Lonigo dentro e fuori il castello 9. il fondo di Brendola tanto dentro come fuori del castello 10. la corte di Corlanzone con le sue pertinenze. Inoltre tutti i diritti legati ai territori soprannominati delle due contee di Verona e di Vicenza che già appartengono o che saranno trovati appartenere per successione paterna materna e fraterna allo stesso signor vescovo Cadalo, io li mantengo per diritto di prelazione in mio unico potere. 14 Oltre alla mia eredità, faccio donazione di quella che per successione è diventata la parte di eredità di mia sorella Orizone sposata e che si trova nella contea di Vicenza e precisamente in Calvene (Vinario = zona del vino), Caldogno, Magré vicentino e Velo d’Astico; ed ancora quanto si trova dentro la città di Vicenza e al di fuori di essa e quanto si trova in Arzignano, in Aufero, alla Torre, in Corrado ed in altre località venute in eredità a lei per successione da parenti. Ed infine quanto a lei è toccato in eredità dal defunto marito Valingo e dal figlio: terreni ed edifici che si trovano entro la città di Verona e fuori di essa, cioè le terre coltivabili che si trovano in località Salingello nel fondo detto Sagenello (= il Saval dove oggi esiste ancora la corte dei Lendenara) e quelle che si trovano in località Bionde (oltre Chievo) con gli edifici ed altre appartenenze. Come ho detto sopra e lo ripeto, quanto mi è venuto in eredità per successione paterna materna e fraterna, io lo cedo, lo offro e lo dono in questo giorno, in quest’ora sotto riportati al predetto monastero di san Giorgio in Braida. Con la sola limitazione della riserva dell’usufrutto vita natural durante, e cioè che io Cadalo vescovo finché vivrò mi riservo quale usufruttuario, il potere di fare dei frutti dei terreni, dei guadagni e dei redditi degli edifici e terreni che il Signore ogni anno mi avrà dato, quello che a me meglio piacerà. Dopo la mia morte (1072) la proprietà si estende anche agli usufrutti dei predetti edifici, castelli e cappelle di cui si è parlato sopra per lo stesso monastero di san Giorgio, che ne diventa unico e totale proprietario. Di modo che il priore maggiore (= decano maggiore del monastero) preposto allo stesso monastero disponga come vorrà senza limitazione alcuna di tutte quelle proprietà sopraddette, insieme con gli ingressi superiori e inferiori, per l’uso, le spese e gli stipendi di tutti i monaci che per qualche tempo avranno servito Dio nello stesso monastero. Ed inoltre io Cadalo Vescovo voglio ed ordino e attraverso questo atto scritto di fondazione e di donazione confermo di persona che dopo la mia morte il predetto monastero di san Giorgio in Braida con gli edifici, i castelli, le cappelle e le altre cose che ad esso ho donato, e insieme con tutti gli altri diritti e proprietà che ancora allo stesso monastero potranno capitare in sorte, sia sotto la giurisdizione e la difesa del Vescovo della Santa Chiesa di Verona, in modo che il predetto monastero sia governato e difeso dal Vescovo del medesimo Episcopato di Verona. E l’abate vi sia eletto e consacrato secondo le disposizioni da me volute in quest’atto di fondazione; e nessun’altra autorità intervenga nello stesso monastero né possa vendere le proprietà, né donarle o concederle ad alcuno in affitto, in comodato o in beneficio. Ma che in eterno lo stesso monastero rimanga e continui nel medesimo stato sotto la regola di san Benedetto, perché così ha voluto la mia santa volontà per la ricompensa dell’anima mia e di mio padre e di mia madre e dei miei fratelli. E se vi sarà qualcuno dei miei parenti o cognati o altra piccola o grande persona che per caso tenterà di andare contro questa mia fondazione e 15 donazione o avrà cercato di renderla nulla con qualche ingegnosa astuzia, sia colpevole del peccato di anatema ed abbia quella maledizione che ebbero Giuda traditore del Signore ed Anania e Saffira e tutti gli altri malfattori. Io in persona ho consegnato in Prato Dominico questo atto di fondazione e di donazione da me steso ad Ambrogio notaio e giudice del sacro palazzo e l’ho pregato di trascriverlo; ed egli lo rese con i testimoni da lui presentati, più sicuro in onore del mio episcopato e del mio sacerdozio. Così non mi sia lecito in nessun tempo e in nessun modo non volere ciò che ho voluto, ma prometto di osservare in modo inviolabile ciò che da me è stato fatto e scritto con l’apporre la mia firma. L’atto di fondazione e di donazione fu scritto in due copie autentiche. Atto stipulato nel sopraddetto luogo chiamato Prato Dominico. Elenco delle firme Io, Cadalo per grazia di Dio vescovo di Parma sottoscrissi l’atto di fondazione e di donazione da me fatta Io, Fondizio giudice del signor Imperatore fui presente + + + Croci fatte di propria mano dai tre testimoni analfabeti Giovanni, Bruncardo e Martino che vivono secondo la legge romana + + Croci fatte di propria mano da Mascolo ed Erissote Io, Santio giudice del signor Imperatore fui presente Io, Tendolo giudice del Sacro Palazzo fui presente Io, Ambrogio notaio e giudice del Sacro Palazzo che su richiesta scrissi e completai questo atto di fondazione e di donazione (1). In calce a questo testamento pubblico si deve mettere in rilievo che, quantunque si parli continuamente di donazione, esso non è un atto di vera e propria donazione, ma per l’unica ed importante clausola giuridica postasi, si tratta di un vero e proprio lascito condizionato. Donata viene solo la pura e semplice proprietà, ma l’usufrutto appartiene ancora al donatore, fino alla sua morte che avverrà nel 1072. Nell’intenzione del fondatore, il vescovo di Parma Cadalo degli Erzoni, e del vescovo di Verona Valterio di Ulma, questi monaci dovevano essere autentici monaci Benedettini, di quelli riformati dall’abate Richerio di Montecassino con l’abito nero tradizionale, monaci neri. ____________________________________________________________________ (1) Ughelli – Italia Sacra – V, pag.758 16 Ciò era possibile in quegli anni (1046 – 1057) data l’armonia politica e religiosa che intercorreva nei rapporti tra l’imperatore Enrico III detto il Nero (1039 – 1056) ed il papa tedesco di elezione imperiale Leone IX (1045 – 1054); tra il vescovo di Verona Valterio (1037 – 1055) nativo di Ulma (Svevia) e l’abate di Montecassino Richerio (1038 – 1057) di origine Bavarese, entrambi di elezione imperiale. Ed è molto probabile che sul finire dell’episcopato del vescovo Valterio, morto nel 1055, comunque prima della morte dell’abate Richerio avvenuta nel 1057, una colonia di monaci e sacerdoti sia partita da Montecassino e sia giunta nella Diocesi di Verona. Il buon abate Richerio non poteva morire prima di esaudire il desiderio del suo caro corregionale ed amico Valterio! A parte i sogni e le esigenze del cuore, questa colonia di monaci poteva venire da molto più vicino. E cioè dalll’antico monastero di san Pietro di Villanova (Sambonifacio) fondato nel 763, ed ora assalito da pressioni matildine e papali. Qesta ipotesi viene suggerita specialmente dalla vicinanza di questo mpnastero alla val d’Illasi, la val Longazeria. A suo sostegno confluiscono altri piccoli indizi: lo stesso titolo dell’apostolo Pietro con il santo aggiunto, san Vito, che era una cappella del monastero di Villanova nelle campagne paludose di Lobia (a nord della Postumia); la qualifica dei firmatari del documento del 1068 – prete e monaco – che si ripete identica in lapidi tombali nel monastero di Villanova e più tardi ancora per il monastero di Calavena; (1) e non ultimo la vicinanza, non del tutto casuale, dei priorati che i due monasteri avranno in città: san Tomaso Cantuariense, il monastero di Villanova e l’adiacente santa Maria Roccamaggiore quello di Calavena. Con questo non si vuol dire che la comunità dell’abate Bono si fosse staccata dall’unico monastero di san Pietro di Villanova. È più facile pensare che in seguito alla condanna (1064) dell’antipapa Onorio II, Cadalo degli Erzoni, fondatore di san Giorgio in Braida, si fosse costituita su indicazione del capitolo dei canonici della cattedrale di Verona, una Comunità spontanea ed indipendente dalle pressioni papali e matildine, di elementi provenienti da diverse istituzioni monastiche – tra cui non ultima quella originaria di Nonantola – ma animati tutti da un nuovo ideale di vita sacerdotale e monastica. Dovevano essere acerdoti per la missione pastorale tra gli abitanti delle campagne e dovevano essere monaci per la radicale rinuncia al matrimonio. Una comunità nuova, veramentew riformata, che preluderà a quella futura dei canonici di san Giorgio in Braida attuata in Verona dal vescovo Bernardo da Brescia (1127). ___________________________________________________________________ (1)S.NC. perg.190 17 Queste probabilità sono avvalorate da un documento di un decennio posteriore e precisamente del 1068 che parla di una comunità benedettina che si chiamava “del monastero dei santi Pietro e Vito, sito in valle Longazeria”, la Val d’Illasi. Questa Comunità monastica di Benedettini, che portava il tradizionale abito nero, era composta da otto membri: l’abate Bono e sette monaci, di cui sei sacerdoti ed uno suddiacono. Ecco il documento che indirettamente ci presenta la prima comunità benedettina del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Nel nome del Signore Eterno Iddio. L’anno 1068 dopo l’incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo, nel mese di giugno, indizione nona. Piacque e si convenne tra il signor Bono, venerabile abate del monastero dei santi Pietro e Vito sito in val Longazeria (val d’Illasi) ed i coniugi Bernardo e Vivalda figlia del fu Martino del paese di Bionde, di origine longobarda, di stipulare di comune accordo un pubblico contratto di permuta e così fecero. Il signor abate Bono diede e consegnò da parte del monastero, per contratto di permuta, ai coniugi Bernardo e Vivalda perché l’avessero in loro proprietà quanto segue: -un terreno arativo coltivabile in località Baliata, terreno sito nella contea di Verona, molto vasto, confinante con i diritti del monastero di santa Maria in Organo e di altri proprietari, e sul lato più corto con un alto argine (= arzero). Il signor abate Bono poi a nome del monastero ricevette per contratto di permuta dagli stessi coniugi Bernardo e Vivalda in proprietà del monastero quanto segue: - un terreno coltivato a vigneto in val d’Illasi nella contea di Verona, nel paese di Colognola in località Zubiago. Terreno relativamente piccolo, confinante sul lato più lungo con la via principale (percurrente), e sul resto con altri proprietari. - un secondo terreno coltivato pure a vigneto, sempre nello stesso paese in località Sorago, confinante sul lato più corto con la via (principale) e sui due lati più lunghi con i diritti di san Zeno e di san Tommaso. - un terzo terreno arativo che si trova nella contea di Verona nel paese di Bionde di Belfiore (zona ad est di Belfiore). Terreno abbastanza vasto che confina su due lati con proprietà della sopraddetta signora Vivalda moglie di Bernardo. 18 Si fece anche l’ispezione sul posto per controllare le misure e le case esistenti sui terreni oggetto di permuta. Si riservarono solo la via comune d’ingresso. Questa visita di controllo e di stima del valore fu fatta da persone fidate di entrambe le parti; tra costoro Giovanni monaco e prete del paese di Bionde di Belfiore, dal monaco e prete Martino, dal gastaldo dei Canonici di Verona Zeno e dal notaio Tenzo. Tutti costoro giudicarono che la parte migliore nello scambio era quella per il monastero, come voleva la legge. Promisero entrambe le parti di difendere questo loro contratto di permuta contro chiunque; chi poi venisse meno ai patti paghi il doppio del valore, in modo che i terreni rimangano di proprietà dei rispettivi successori ed eredi. E perché questo contratto di permuta avesse tutte le garanzie pubbliche e private di validità, fu concordemente confermato dalle firme dell’intera comunità del suddetto monastero dei santi Pietro e Vito. Io Bono abate firmo questa permuta da me fatta. (1) Io Giovanni prete e monaco convocato e mandato dal monastero per questa permuta fui presente e la firmai. Io Auvencio prete e monaco firmai questa permuta. Io Lazaro prete e monaco (2) firmai questa permuta. Io Domenico prete e monaco firmai questa permuta. Io Gisolfo prete e monaco convocato e mandato dal monastero per questa permuta fui presente e firmai. Io Martino(3) prete e monaco firmai questa permuta. Io Domenico suddiacono e monaco firmai questa permuta. Io Dodo giudice del Sacro Palazzo scrissi questo contratto di permuta e lo legalizzai. Io Alberico detto anche Bonifacio notaio vidi e lessi l’originale di questo contratto di permuta e ne feci questa copia legalizzandola. ____________________________________________________________________ (1)Bono è nome veronese o perlomeno veneto (2)La sua lapide tombale in Villanova (3)Il futuro abate (1113) di san Giorgio in Braida 19 Si può facilmente osservare che questa prima comunità dei santi Pietro e Vito più che una comunità di monaci era una comunità di sacerdoti. Sono tutti monaci, ma tutti sacerdoti chiaramente appartenenti al clero, compreso il suddiacono. Era quanto chiedeva il vescovo Valterio. Una splendida comunità di monaci: sacerdoti e missionari, con una fedeltà cristallina all’autorità del pontefice. Anche l’archivista veronese Lodovico Perini, che intorno al 1730 faceva l’elenco di tutti gli abati dei santi Pietro e Vito di Calavena, conosceva l’abate Bono e quindi con lui l’unico documento che lo nomina, ma non ne affrontava la problematica conseguente. In un primo momento, interpretandone la lettura della data, lo poneva nell’anno 1168: mense iunii indictione 1a – Bon abate di sanPietro e Vito; ma alla fine non convinto cancellava tutta la riga. (1) Dunque sembra proprio che la comunità benedettina destinata al monastero cittadino di san Giorgio in Braida, abbia preferito restare per intanto nella vasta valle Longazeria. E questo facilmente su precisa indicazione del Capitolo della Cattedrale, unica autorità ecclesiastica in Verona nel caos dell’autorità episcopale. In questa valle i luoghi in cui poteva fermarsi temporaneamente in attesa di una stabile dimora erano diversi: a Gusperino nella chiesa di san Pietro dove pare vi fosse un monastero fin dai tempi di Carlomagno (806); (2) nel paese di Colognola alla cappella di san Nicolò dove nel 1133 l’abate Pellegrino dei santi Pietro e Vito in persona stipulò un atto notarile di affitto; (3) o alla cappella di san Martino di Tregnago dove nel 1147 viene stipulato finalmente il primo atto notarile del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. (4) In attesa di raggiungere stabile dimora nel monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, dove solo nel 1171 fu stipulato il primo contratto notarile. E questa comunità prese il nome non dal monastero di san Giorgio in Braida, ma il nome di monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Questo viene confermato dal fatto che, deludendo forse le attese del vescovo Valterio, una stabile comunità benedettina maschile nel monastero di san Giorgio in Braida non ci fu mai. ____________________________________________________________________ (1)Biblioteca civica di Verona – Fondo Perini – Carteggio - Busta 26 Monaci benedettini dei santi Pietro e Vito di Calavena (2)S.NC. perg.1242 (3)S.NC. perg.318 (4)S.NC. perg.182 20 Quali motivi indussero la nuova comunità benedettina, guidata dal venerabile abate Bono, a questa scelta? Il primo motivo era il timore per il futuro economico della recente fondazione cittadina. I monaci benedettini potevano iniziare a prendere effettivo possesso del monastero di san Giorgio in Braida solo dopo la morte del fondatore Cadalo degli Erzoni di Lendinara, l’antipapa Onorio II. Così fa capire l’atto pubblico di fondazione: “Solo dopo la mia morte la proprietà si estenderà anche agli usufrutti degli immobili di modo che il monastero di san Giorgio in Braida ne diverrà unico e totale proprietario”. L’antipapa Onorio II era morto nel 1072, ma il monastero di san Giorgio si presentava allora occupato da una comunità monastica guidata da un’abbadessa, suor Riccarda (1075 – 1096). Qualche appiglio giuridico aveva dato la precedenza al loro insediamento. Non si deve dimenticare inoltre le ricorrenti contestazioni fatte dai parenti (cugini) contro il testamento del munifico fondatore del patrimonio di san Giorgio. (1) Secondo motivo era l’incertezza della confusa situazione religiosa e politica alla vigilia della lotta per le investiture (1074). L’antipapa imperiale Onorio II (1061 – 1072), il fondatore della proprietà del monastero, voleva giustamente che la sua opera rimanesse nella linea degli orientamenti politici tradizionali e cioè nella politica imperiale. Invece nel frattempo l’equilibrio tra il Papato e l’Impero stava deteriorandosi per portare la Chiesa, sotto la guida del grande papa Gregorio VII, alla sua piena autonomia giuridica. Anche l’atmosfera della casa madre dei benedettini, Montecassino, era cambiata. Il successore del bavarese Richerio, l’Abate Desiderio (1057 – 1086) collaborava decisamente con il Papato per la difesa dei diritti della Chiesa. Non poteva la piccola comunità dell’abate Bono prendere pacificamente dimora nella proprietà di un antipapa. Anzi questo poteva apparire una provocazione del potere papale e della contessa Matilde di Canossa. Un ultimo motivo d’insicurezza nasceva dal fatto che il nuovo monastero dei monaci benedettini, che doveva essere sede abbaziale, veniva a sorgere nelle adiacenze d’un preesistente monastero femminile. E questo facilmente faceva parte del programma del vescovo Valterio che intendeva avere un monastero benedettino “moderno”, un luogo privilegiato della formazione dei futuri ministri sacri disposti ad andare in gruppo nei luoghi più bisognosi della Diocesi per portarvi la loro opera missionaria. Ed una oculata presenza femminile poteva costituire nell’attività pastorale un dato positivo di reciproca integrazione. ___________________________________________________________________ (1)Miller pag.110 21 E questo gruppo di monaci benedettini tradizionali poteva non sentirsi preparato ad un impegno così delicato. Questi ed altri motivi consigliarono, almeno per intanto, come sede preferenziale la Calavena, l’Alta Val d’Illasi, terra vergine dipendente giuridicamente solo dal Vescovo di Verona. E non condizionata da tanti idealismi religiosi e complicazioni politiche. E così avvenne. Quello era il posto ideale per vivere, anche se dalla parte meridionale della valle iniziava la sua penetrazione il monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. È da aggiungere che, come s’è già visto, anche prima che vi giungesse la comunità benedettina dell’abate Bono, il vescovo Valterio di Ulma aveva dimostrato una particolare attenzione per la Val d’Illasi, da quando specialmente nel 1040 aveva incastellato la Calavena, la parte più a Nord della valle. Sembra inoltre che questa lunga valle, sul confine orientale della diocesi di Verona, sia stata molto a cuore a questo Vescovo divenendo oggetto preferito delle sue cure pastorali. Ne era ben bisognosa. Infatti, benché un secolo più tardi, nel 1145 vengano elencate ben tre pievi – la pieve di Colognola, la pieve d’Illasi, la pieve di Calavena – nei secoli precedenti (920) si parla solo della pieve d’Illasi che forse era a Cazzano in Val Tramegna. (1) Così per iniziativa del vescovo Valterio – e non solo sua – in tempi diversi presero vita in tutta la vasta zona della valle alcune cappelle, o piccole chiese, affidate a piccoli gruppi di monaci, i cosiddetti priorati, dipendenti da qualche monastero centrale legato al vescovo stesso. Il pensiero va naturalmente al “monastero dei santi Pietro e Vito nella val d’Illasi”. (2) Con questo non si vuol dire che l’organizzazione ecclesiastica non fosse già da molto tempo prima penetrata nella valle: certamente sul finire del dominio longobardo (770) e all’inizio di quello dei Franchi. Ma l’invasione degli Ungari nel primo novecento dovette se non proprio aver spazzato via questa organizzazione, per lo meno averla sconquassata e gravemente compromessa. Da qui l’esigenza d’una necessaria riorganizzazione da parte dell’autorità vescovile di Verona. (1)Codice dipl. veronese II, n.163 (2)Bibl. Capitolare. Prima Pergamena 22 Queste cappelle appartenevano alla categoria delle “chiese private”. Le chiese private erano di proprietà esclusiva del signore o dell’ente che le aveva erette: era questa una prassi giuridica del medioevo. Le chiese con cura d’anime alle origini dipendevano unicamente dal vescovo, ma nel periodo delle invasioni dei popoli germanici, incominciarono a diventare private. Il gran signore feudale laico od ecclesiastico costruiva nella sua proprietà terriera una Chiesa, per la quale otteneva dall’autorità costituita diritti ed impegni fino a farne un ente autonomo, per il quale lo stesso signore, padrone della Chiesa e dei relativi diritti, eleggeva un sacerdote pienamente autorizzato a compiere tutti i ministeri sacri per la cura delle anime. Anche i monasteri in Italia settentrionale, particolarmente quelli dell’area germanica, cercavano di aumentare il più possibile le chiese private o monastiche, le cappelle. Sicché il monastero di san Pietro di Calavena in epoche posteriori poteva contare diverse cappelle o chiese proprie dislocate in punti chiave della Val d’Illasi. Le cappelle più importanti della Val d’Illasi furono confermate con la Bolla papale di Lucio III del 1185, come proprietà esclusiva del monastero autonomo dei santi Pietro e Vito di Calavena. La cappella di Sant’Ambrogio nel territorio di Mezzane, la cappella di san Nicolò a Colognola, la cappella di sant’Andrea ad Illasi, la cappella di san Vitale a Cogollo. Oltre a queste quattro cappelle sono nominati altri priorati: quello di san Mauro sito sul monte San Moro e quello di san Salvatore a Castelvero (1). Così pure nella Chiesa di san Pietro del castello di Valterio sul monte San Piero di Badia Calavena poteva vivere già nel 1078 una comunità di monaci benedettini (2). Anche la vicina Chiesa di san Vito doveva essere agli inizi una cappella del monastero di san Pietro, se fu aggregata addirittura nel nome del monastero stesso. Così pure la Chiesa di san Martino di Calavena (Tregnago) era una cappella del monastero, se ancora nel 1147 nel suo atrio si firmavano atti pubblici riguardanti il monastero stesso (3). E la Chiesa di san Pietro di Gravena nell’antico comune di Gusperino fu facilmente la prima dimora del Monastero benedettino di Calavena, se nel 1263, dopo la temporanea confisca di Ezzelino da Romano, fu restituita solennemente al signor Porcilano, abate del monastero di Calavena (4). ____________________________________________________________________ (1)Biancolini III pag.320 (2)Archivio Capit. Vr.I,5,5 (3)SNC perg.183 (4)Biancolini V,II pag.125 23 Nella Val d’Illasi (Longazeria) era presente anche il monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. Il primo documento che ne attesti la presenza a Colognola è dell’anno 1062. La nobildonna Munda detta Minuda offre a titolo di donazione all’abate Gisemperto (1052-1063) una sua terra con casa paladicia, posta nel paese di Colognola nella località detta Lago (1). All’esistenza di un lago (la Bassa di Caldiero?) si richiamano anche le altre località di Colognola come Subiago, Sorago, Zugiago. Un documento poi del 1099 parla di una seconda donazione di un’altra nobildonna Richarda, che si trova nel territorio di Colognola e precisamente nella località Biondella, Settimo e Movezo. (2) Ma la sua presenza specialmente verso l’alta valle (la Calavena), fu sempre marginale e poco significativa. Anche se le cospicue donazioni fatte in questo periodo (1080-1120) in numero straordinario nei territori di Mezzane (3), di Lavagno (4), di Colognola(5), esclusivamente a favore del monastero cittadino di san Nazaro, dovettero costituire per il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena una seria minaccia d’invasione del suo territorio. Ma a conti fatti delle molte cappelle di san Nazaro, elencate nella Bolla pontificia di Adriano IV del 1158, nessuna si trovava in questa valle. Le cappelle sotto la giurisdizione del monastero dei santi Nazaro e Celso erano queste: la Chiesa di santa Maria di Marcellise, la Chiesa di san Martino di Lavagno, la Chiesa di san Cassiano a Mezzane, la Chiesa di santa Maria di Soave, la Chiesa di san Sebastiano di Pressana, la Chiesa di Coriano, la Chiesa di sanVitale e Santo Sepolcro in città (6). Questo confronto fa pensare che il predominio religioso, lentamente conquistato e tenacemente mantenuto, nella Val d’Illasi era del locale monastero dei santi Pietro e Vito. E questo anche con il favore dei Vescovi di Verona. (1)SNC. perg. 313 (2)SNC. perg. 314 (3)SNC. perg.914, 915 (4)SNC. perg. 627, 628, 629 (5)SNC. perg.313, 314, 315, 317 (6)Ughelli V, pag. 798 e Biancolini I, pag. 272. 24 Quasi una linea di demarcazione religiosa divideva in due parti l’antica valle Longazeria: la parte più a settentrione, la Calavena, era territorio esclusivo del monastero dei santi Pietro e Vito; ma anche nella parte più bassa, da Cellore in giù, dove il territorio era conteso tra diversi enti monastici, la cappella di sant’Andrea d’Illasi, quella antica di san Pietro a Gusperino, quella di san Nicolò a Colognola e quella di sant’Ambrogio a Cologna (Mezzane) stavano ad indicare il potere preminente del monastero della Calavena. In questa parte meridionale della valle i grandi centri di culto, con le rispettive proprietà e diritti, erano le pievi di Calavena (Tregnago), di Illasi e di Colognola con le rispettive cappelle dipendenti; faceva parte a sé stante il paese di Cellore che era totalmente del monastero cittadino di san Zeno Maggiore, per la concessione confermata dall’imperatore Federico Barbarossa nel 1163. Nella Val d’Illasi e nelle due valli collaterali di Lavagno e di Soave si trovano talvolta nominati “diritti di san Pietro” – iura sancti Petri – riferiti a terreni o a confinanti; (1) una volta anche “i diritti del beatissimo Pietro di Gravena” (2). Credo che non necessariamente si tratti sempre di “diritti del monastero di san Pietro di Calavena”, data la facilità con cui intitolavano chiese e cappelle private al Principe degli Apostoli, come era avvenuto della Chiesa di san Pietro del comune di Gusperino (3). Per non parlare dell’antica pieve di San Pietro di Zevio (1135). Altra Chiesa dedicata a San Pietro era sul colle omonimo nella Corte di Caldiero (1145). Il monastero benedettino di Villanova di San Bonifacio (Vicenza) era intitolato a san Pietro. Che cosa era avvenuto nel frattempo del monastero di San Giorgio in Braida, senza una comunità stabile di monaci benedettini? E’ giusto saperne qualcosa, perché la neonata comunità dei santi Pietro e Vito di Calavena non dovette dimenticare che quella di san Giorgio era la sede a cui era stata inizialmente destinata, con i rispettivi diritti. Si può dire che gli inizi del monastero di san Giorgio erano stati molto promettenti. (1)SNC perg. 315 del 17 feb. 1102 e pag. 631 del 28 luglio 1103 (2)SNC perg. 319 del 24 dic. 1133 (3)Biancolini V, 2 pag. 125 25 Questo monastero, ancora in via di costruzione, nel 1052, su richiesta dello stesso vescovo Valterio, come aveva già fatto nel 1038 per il monastero dei santi Nazaro e Celso (1), era già sotto la giurisdizione personale e diretta (=mundeburdio) dell’imperatore Enrico III di Franconia detto il Nero (10391056). (2) E per indicare i favori ricevuti dalle autorità pubbliche dell’Impero, dieci anni dopo, nell’ottobre del 1062, il nobile Milone, figlio di Ugo, conte di Verona, donò allo stesso monastero la vasta corte di Orti nella pianura di Legnago(3). Ma la storia successiva di San Giorgio si fa sempre più imbrogliata e travagliata a causa del precipitare degli eventi storici in cui si trovarono implicati il fondatore Cadalo ed i Vescovi di Verona. Così accadde che nel 1061 il munifico fondatore di san Giorgio in Braida, Cadalo degli Erzoni, diventato Vescovo di Parma (1045), nel periodo della reggenza imperiale (1056-1065) fosse eletto dalla Corte Imperiale antipapa col nome di Onorio II (1061-1072) in opposizione al papa legittimo Alessandro II (1061-1073). In Verona poi l’autorità episcopale doveva essere ancor più insicura: e l’autorità abbaziale del monastero era legata, come s’è visto, al Vescovo con tutte le conseguenze disciplinari e giuridiche. Si ebbero Vescovi di elezione imperiale e propensi a seguire almeno in parte l’antipapa Onorio II, e Vescovi più autonomi vicini a Gregorio VII, nemico dell’imperatore Enrico IV. Straordinaria in questo senso fu la vicenda del vescovo di Verona Brunone (1073-1083) di elezione imperiale, stimato ed onorato dal papa Gregorio VII, ma fieramente filo imperiale (4). ____________________________________________________________________ (1)Miller pag. 209 (2)Ughelli V pag. 758 (3)Ughelli V, pag. 765 (4) Pighi vol. I pag.284 26 E diversi e spesso contradditori saranno stati gli interventi e le direttive imposte a questo monastero benedettino appena nato, dall’autorità episcopale e dal fondatore Cadalo. L’ingerirsi nella lotta imperversante tra l’Impero ed il Papato seminò la confusione in tutte le iniziative di riforma, già precedentemente avviate. Tempi difficili per nascere e crescere sani, anche per i monasteri. Appena fu legalmente possibile e cioè dopo la morte del fondatore Cadalo, avvenuta nel 1072, il monastero di san Giorgio in Braida fu occupato da una comunità benedettina femminile guidata dalla badessa Richarda. Richarda governò il monastero certamente dal 1075 al 1096. (1) Vent’un anni! Nel 1077 la badessa Richarda mise il suo monastero con i relativi beni sotto la protezione imperiale, quella di Enrico IV, e si mantenne decisamente sulla linea politica filo imperiale, come doveva essere anche nelle intenzioni del fondatore (2). Lo stesso vescovo di Verona Brunone (1073-1083) era in pieno accordo con questi orientamenti politici ed ecclesiastici filo imperiali. Durante il governo della badessa Richarda il complesso monastico di san Giorgio in Braida prese la forma di un monastero “doppio”, e cioè una comunità di monache benedettine ed una adiacente comunità di ecclesiastici, guidate entrambe dalla stessa badessa Richarda. Si ebbe cioè in san Giorgio in Braida un monastero doppio o misto. Questa prassi poteva essere suggerita anche come un metodo pratico per educare alla difficile coabitazione con donne coloro che un domani sarebbero stati impegnati nel ministero pastorale nelle chiese o cappelle sparse nelle campagne della diocesi. Si poteva così ovviare al diffuso e tanto deprecato concubinato dei preti costretti altrimenti ad un sistema di vita solitaria umanamente inconciliabile con l’attività pastorale. Si può ricordare anche che è questo il periodo della storica vicenda sentimentale di Abelardo ed Eloisa (1113-1118). I monasteri misti o doppi furono di istituzione orientale. In Europa occidentale furono osteggiati e soppressi per i vari inconvenienti che ne seguivano. Riapparvero intorno all’anno Mille. Nei secoli XII e XIII l’autorità ecclesiastica li tollerò, purché peraltro la separazione tra monaci e monache fosse ben assicurata. (1) M. Miller. Chiesa e società pag.114 (pag.134) (2) Monaresi Placiti II, n. 440 27 Il papa Callisto II (1119 – 1124) nel 1119 approvò persino la Costituzione del monastero doppio di Fontevrault (Francia) sottoposto all’autorità di una badessa. Lo scopo di questa forma monastica era eminentemente pratico: perché le monache avessero l’assistenza spirituale e fossero protette da aggressioni e i monaci fossero aiutati nei servizi domestici. L’abbazia di Fontevrault nella diocesi di Poitiers nella Francia sud occidentale fu fondata verso la fine del secolo Mille da Roberto di Arbrisselle, primo predicatore ambulante di Francia. Egli raccolse attorno a sé donne e uomini da lui convertiti, i quali presero a base della loro vita la Regola di San Benedetto con statuti propri. Una particolarità degli statuti di questo Ordine furono i monasteri doppi, di uomini e di donne, governati da una badessa, quella di Fontevrault che in onore della Madonna (nostra Signora) presiedeva anche ai monasteri maschili. Si estese in Francia ed Inghilterra e si mantenne un Ordine monastico per la nobiltà. L’opposizione posteriore a tali monasteri venne soprattutto dai monaci benedettini stessi, i quali nel 1300 non avevano più monasteri doppi. Ma qualche anno prima (1054) della fondazione di Fontevrault, lo stesso grande abate di Cluny Ugo di Lemur (1049 – 1109) aveva avuto l’idea di istituzionalizzare un serio collegamento con le Donne dell’aristocrazia che avevano contribuito in modo determinante alla fortuna della riforma cluniacense. A questo scopo l’abate Ugo di Cluny aveva fondato nel 1054, poco lontano da Cluny, l’abbazia femminile di Martigny perché vi potessero trovare “un rifugio le donne che schifavano le licenziosità maritali”. Con le dovute cautele: per esservi ammesse occorreva avere almeno vent’anni; il che poteva significare una vigorosa vocazione alla vita monastica o un’onorevole alternativa all’impossibilità di contrarre un conveniente matrimonio. La cosa si presentava evidentemente come una sperimentazione non senza rischi. E sorprende il fatto che il papa Callisto II avesse dato la sua approvazione proprio quando il vescovo di Verona Bernardo da Brescia senza tanti scrupoli interveniva sul monastero benedettino di san Giorgio in Braida. Dopo la morte (1096) della badessa Richarda, che aveva guidato per vent’anni senza difficoltà il monastero doppio di San Giorgio, badesse deboli e volubili sembra non siano state capaci di controllare e custodire la complessa situazione monastica: così si presentano le due badesse Amarda (1101) e poi Armengarda (1109 –1111). (1) ___________________________________________________________ (1)Miller – Chiesa e società a Verona pag.115 28 Nello stesso anno della morte della badessa Richarda, nel 1096, la Chiesa di san Giorgio in Braida con il monastero annesso viene presentata con la struttura di una pieve rurale con la sua scuola di sacerdoti guidati da un Arciprete. Ma al di sopra di tutti restava l’autorità della badessa. (1) Non è improbabile che in questa situazione di emergenza si sia mossa anche la comunità benedettina dei santi Pietro e Vito di Calavena, destinata in origine a San Giorgio in Braida. Questa ipotesi viene suggerita dal fatto che il prete e monaco Martino, membro della prima comunità dell’abate Bono, è chiamato ad assumere l’incarico di abate di San Giorgio: in tal veste è in un documento del 1113. (2) Così accadde che, dopo la morte del venerando e primo abate Bono, da collocare verso l’anno 1110, il monaco Martino della originaria comunità dei santi Pietro e Vito di Calavena venisse eletto abate di san Giorgio in Braida, mantenendo anche l’incarico di priore dei santi Pietro e Vito di Calavena. La documentazione al riguardo è insufficiente, e perciò si tratta solo di ipotesi da dimostrare. Il prete e monaco Martino poteva avere allora 65 anni d’età. Per un decennio abbondante (1110 – 1122), e cioè fino all’intervento di riforma del vescovo Bernardo, Martino unificò nella sua persona il titolo di abate di san Giorgio in Braida (1113) e quello di priore dei santi Pietro e Vito di Calavena. Ma a san Giorgio comandava la badessa o l’abate? Questo tentativo di pacificazione tra le due comunità, femminile e maschile, di san Giorgio in Braida dovette creare una tale tensione di interessi economici ed un conseguente disordine di comportamenti, dovuti anche a forze esterne al monastero, da richiedere al vescovo Bernardo addirittura d’intervenire d’autorità per chiarificare una volta per tutte l’incresciosa situazione. A fare e a sostenere questa richiesta fu il venerabile sacerdote Pellegrino della stessa Chiesa di san Giorgio in Braida, che divenne poi il braccio forte del vescovo Bernardo in questa riforma. È questo il periodo in cui anche nella Chiesa veronese (1110 – 1130) incomincia a prender piede con fatica ma decisamente la riforma “gregoriana” della Chiesa. E si chiude il lungo periodo di innovazioni e sperimentazioni monastiche favorite dagli Imperatori di Germania attraverso i Vescovi di loro elezione (960 – 1122). Si respira nell’aria il desiderio di riordino delle istituzioni ecclesiastiche sotto la suprema autorità del Pontefice romano, e rifacendosi alle tradizioni che potevano risalire addirittura a sant’Eusebio vescovo di Vercelli (300-371). (1)cfr. Castagnetti – La Valpolicella Arch. Segreto Vaticano – fondo veneto perg.6873 (2)Miller – Chiesa e società a Verona pag.115 29 Il Vescovo Bernardo di Brescia 1119 – 1135 Il vescovo di Verona Bernardo di nobile famiglia bresciana, a differenza dei suoi predecessori di origine tedesca e di elezione imperiale, fu eletto dal Capitolo della Cattedrale di Verona. La lunga lotta delle investiture (1074 – 1122) si era conclusa il 23 settembre 1122 con il concordato di Worms tra il papa Callisto II (1119 – 1124) e l’imperatore Enrico V (1106 – 1125). Il grande vescovo Bernardo si può chiamare il secondo fondatore del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Egli si presenta subito con l’energica tempra del riformatore, come già si era dimostrato con coraggiose iniziative nella sua città di Brescia. Come responsabile della Chiesa di Verona, si sentì in dovere d’intervenire d’autorità nella confusa situazione del monastero misto di san Giorgio in Braida, che si era protratta troppo a lungo e che ancora resisteva sotto i suoi occhi appena aldilà dell’Adige e per di più in un monastero che dipendeva dalla sua autorità. È da questo intervento riformatore che prese decisamente il via il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Egli dunque impose ufficialmente il sacerdote Pellegrino quale “preposito” al monastero di san Giorgio in Braida per riformarlo e riordinarlo. Pellegrino era un eminente sacerdote della stessa Chiesa di san Giorgio molto stimato dal Vescovo per le sue idee chiare e concrete. Un Pellegrino di questa indole, figlio di Tenzo, di legge longobarda, è presente in un documento del 1116. (1) Egli abitava allora in città fuori porta santo Stefano vicino a san Giorgio in Braida, ma era proveniente con tutta probabilità dal paese di Colognola dove, intorno alla cappella di san Nicolò si sono formati i primi monaci del monastero dei santi Pietro e Vito sito nella val d’Illasi. Pellegrino combina con l’abate Benedetto del monastero dei santi Nazaro e Celso di Verona uno scambio vantaggioso per chi era in cerca di una buona casa da abitare: egli acquista per contratto di permuta un terreno con la casa abitativa (terra casaliva) a Colognola in località detta Vallene vicino alla chiesetta di san Nicolò, dando in cambio all’abate Benedetto una sua terra aratoria sempre a Colognola in località Calle san Zeno. In questa casa di Colognola ci piace pensare che sia stato stipulato storicamente il primo atto notarile dell’abate Pellegrino con i suoi cari frati del monastero dei santi Pietro e Vito. Felicemente il primo giorno di primavera dell’anno 1133! (2) ____________________________________________________________________ (1)SNC perg. 316 (2)SNC perg.318 30 Il “preposito” nella Regola di san Benedetto (n.65) è una figura giuridica ben precisa. È quella persona che viene incaricata dall’autorità ecclesiastica superiore ad intervenire in un monastero benedettino autonomo per riformarlo, assieme ed anche contro l’abate stesso. E così il vescovo Bernardo in collaborazione con il preposito Pellegrino trasformò l’irriconoscibile monastero benedettino di san Giorgio in Braida in una comunità di sacerdoti regolari secondo la Regola dei Canonici dissociandoli dalla Regola monastica di san Benedetto. (1) Per simili ragioni a suo tempo (966) anche il vescovo di Verona Raterio di Liegi (932 – 968) aveva riformato allo stesso modo il monastero di Maguzzano. Da monastero misto a canonicato di Chierici Regolari. In quegli anni, dopo la riforma gregoriana, venivano fondati in Francia (1120) da San Norberto i Canonici Premostratensi che furono approvati nel 1126 da papa Onorio III. Quest’Ordine nuovo derivato dalla Regola di sant’Agostino, univa la vita monastica all’attività apostolica, specialmente nelle chiese rurali e nel lavoro agricolo. Ad accelerare i tempi di questa riforma e della ricostruzione morale e materiale contribuì il recente e disastroso terremoto del 1117 che distrusse edifici e disperse comunità religiose. Ecco il documento che descrive l’intervento del vescovo Bernardo da Brescia sul monastero misto di san Giorgio in Braida. ATTO PUBBLICO DI RIFORMA DELLA CHIESA DI SAN GIORGIO IN BRAIDA. Nel nome della santa ed unica Trinità Bernardo per grazia di Dio vescovo di Verona. È dovere di quanti per grazia divina sono stati elevati alla dignità e alla responsabilità episcopale di attendere principalmente a vigilare sulla Chiesa di Dio: a promuovere con le parole e con i fatti ciò che si riferisce alla vera religione e a riportare sulla retta via con la correzione e con la forza dell’autorità ciò che si è allontanato; e così a prestare ascolto volentieri ai pii desideri e alle richieste suggerite da Dio, di modo che siano proprio i Vescovi a favorire con il loro amore paterno quanto è di sostegno alla religione e a provvedere che sia sradicato con la forza della loro autorità quanto è contrario ad essa. (1)cfr. Documento del 1127 31 Per questi sacrosanti motivi io Bernardo, benché indegnamente, vescovo di Verona, mi sono proposto ed impegnato a riformare e a riordinare per amore di Dio e per la salvezza dell’anima mia, la Chiesa di san Giorgio in Braida, che purtroppo in questi ultimi anni si trova spiritualmente e materialmente devastata. Infatti questa Chiesa era stata una volta in un primo tempo un monastero di vergini e in un secondo tempo di monaci, in entrambi i tempi però risultava un diabolico postribolo di lussuria più che un luogo sacro a Dio. Cacciati perciò dal monastero tutti i bestemmiatori di Dio, vi fondai una Comunità di Ecclesiastici, i quali con l’aiuto di Dio vi conducessero una vita celibe secondo i canoni e che osservassero le Regole dei Canonici. In seguito a ciò, per amore del mio diletto figlio Pellegrino, venerando sacerdote della stessa Chiesa di san Giorgio e superiore della Comunità di questi ecclesiastici, ed assecondando le giuste richieste di tutti i miei sudditi, al fine che costoro possano servire Dio più serenamente, di mia autorità rinuncio ad ogni potere che mi spetta in questa Chiesa a riguardo dei suoi beni materiali, e metto ogni potere nelle mani di tutti coloro che d’ora in poi serviranno Dio secondo la Regola dei Canonici in questa Chiesa; di modo che né a me né ad alcun vescovo mio successore o arcidiacono o a qualsiasi altra persona sia lecito sottrarre ad essa qualsiasi cosa contro la volontà dei sacerdoti che vi sono a servizio. Il Vescovo si riserva solo di avere nell’annuale festa di san Giorgio un simbolico cero di due chilogrammi. Inoltre do a costoro la piena libertà di eleggersi il loro superiore secondo la Regola, e di suonare le campane alla recita notturna del Mattutino e delle altre Ore liturgiche secondo la Regola e le usanze dei Canonici. Ed ancora alla stessa Chiesa restituisco e dono per sempre il mulino un tempo proprietà del Vescovo, ma contiguo e pressoché necessario alla predetta Chiesa e dato in concessione dal mio predecessore il vescovo Teobaldo. Offro e faccio donazione alla Chiesa di san Giorgio delle decime delle terre che al presente possiedo o che in seguito potrò possedere nella Braida, in modo che, chiunque le lavori, la predetta Chiesa ne abbia le decime dei prodotti. Allo scopo che il presente atto di concessione e di donazione risulti più stabile ed inviolabile l’ho firmato di mia mano ed ho chiesto che lo firmassero anche alcuni sacerdoti della Chiesa di Verona; infine vi ho posto il mio timbro. Chi agirà contro quest’atto sia anatema. Io Bernardo umile vescovo della santa Chiesa di Verona che ho fatto questa concessione e la firmai Io Teobaldo, indegno arciprete della cattedrale presente e di mio pugno firmai Io, il Diacono responsabile del canto firmai Io Boso diacono firmai Io Teodosio firmai Io Enrico firmai Io Prando firmai Io Arciprete della Congregazione cittadina 32 Io Everardo sacerdote Io Assalonne parroco della Chiesa di san Pietro in monastero Io Prando priore di santo Stefano (1127-1145) Io Giovanni sacerdote e primicerio della Congregazione Io Rodolfo parroco della Chiesa di san Sebastiano Io Bianco sacerdote Io Olderico parroco di san Tommaso. Atto pubblico stipulato alle Porte della Chiesa di san Zeno confessore (portoni Borsari), nell’anno 1127 dall’incarnazione del Signore, indizione V. Alla presenza dei testimoni qui sotto riportati: Il signor Teobaldo arciprete della Chiesa Cattedrale Teodosio ed Enrico diaconi della stessa cattedrale Adelardo avvocato Zenifer Alberico di Lendinara Gerardo di Nogarole Enrico di Bonavigo Teobaldo di Capodiponte e suo figlio Ottone Enrico di Faro e Ugo suo figlio Benso e suo figlio Amenardo Mondella di Lonigo Aldegerio di Oppeano figlio di Basofolia Alberico e suo cugino Drago Enrico dalla Spada Bernardo Pecora. (1) L’abate Pellegrino 1127 – 1159 Dunque nel 1122 il vescovo di Verona Bernardo da Brescia disperse tutte le monache del monastero di san Giorgio in Braida assieme alla loro ultima badessa suor Albergarda. Trattamento più mite invece il Vescovo usò con la comunità maschile dello stesso monastero nominandovi quale “preposito” vescovile il sacerdote Pellegrino della stessa Chiesa per favorire una riforma più che mai necessaria. Il sacerdote Pellegrino con la piena autorità di preposito si prestò ad aiutare l’anziano abate Martino nella sua opera di riordino monastico. Il preposito Pellegrino e l’abate Martino di comune accordo fecero una doverosa ed oculata selezione dei sacerdoti e monaci componenti la comunità: alcuni sacerdoti vi rimasero ad iniziare la comunità dei Sacerdoti che osservassero almeno il celibato canonico e la Regola dei Canonici, per formare il canonicato di san Giorgio in Braida; (1)Ughelli V, pag.773 33 gli altri che si sentivano legati alla Regola di San Benedetto furono nuovamente uniti al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Il preposito Pellegrino, che aveva condotto a buon esito la riforma voluta dal suo Vescovo, divenne il primo priore della nuova comunità dei Canonici Regolari di san Giorgio in Braida. Il Vescovo inoltre gli conferì giustamente quale preposito (= aiuto abate) il titolo di abate per salvaguardare le intenzioni monastiche volute dal fondatore economico Cadalo degli Erzoni nella carta di fondazione, ma anziché abate di san Giorgio in Braida, risulto abate di san Pietro di Calavena, dando finalmente l’avvio ad un vero monastero di soli monaci benedettini, anche se fuori città, nella Val d’Illasi. Quello di san Pietro di Calavena tra i molti monasteri allora esistenti nella diocesi si presentava come il più promettente per un futuro sviluppo, anche economico. Oltretutto c’era stato agli inizi di queste vicende monastiche la permanenza dell’abate Bono e della sua Comunità. Non è da escludere che nella mente del vescovo Bernardo e di coloro che partecipavano a questa azione di riforma monastica sia stata del tutto assente l’idea di unire i monaci benedettini di san Giorgio in Braida a quelli del monastero benedettino della città dei santi Nazaro e Celso, che stava ricostruendo il suo patrimonio. Infatti questi due monasteri cittadini, quello dei santi Nazaro e Celso e quello di san Giorgio in Braida, avevano la stessa fisionomia: erano nati quasi contemporaneamente (negli anni 1030 – 1050), con il favore della stessa autorità, quella del vescovo Giovanni e del suo successore Valterio, ed avevano lo stesso scopo quello di una precisa attività pastorale nelle campagne. Non ci sono documenti al riguardo, ma qualche tentativo dovette essere proposto e forse auspicato, perché la storia successiva dei due monasteri, quello cittadino e quello periferico della Calavena, spesso sembra intersecarsi e alla fine (1529) diventa unica, quella del monastero dei santi Nazaro e Celso. Questa delicata operazione di risanamento monastico durò cinque anni e si concluse nel 1127. Quindi il sacerdote Pellegrino, chiamato dal vescovo Bernardo “nostro diletto figlio”, quale preposito (= aiuto abate) della Chiesa di san Giorgio in Braida conserva tutta la sua potestà sui beni temporali della comunità riformata; inoltre può essere contemporaneamente abate del monastero di sanPietro di Calavena. L’abate Pellegrino del Monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena ed il priore Pellegrino, preposito della Comunità di Canonici regolari di san Giorgio in Braida, sono la stessa persona. 34 Se non si tratta di una eccezionale omonimia, uguaglianza di nomi, questa ipotesi è piuttosto seducente. E spiega con precisione la storia originaria del monastero di san Pietro di Calavena. Infatti Pellegrino è preposito di san Giorgio in Braida nel 1127 (1), lo è ancora nel 1132 (2), di nuovo viene nominato quale preposito (priore) di san Giorgio in un elenco di autorità religiose cittadine nel 1140 (3); dovette morire poco prima del 1159 perché nel 1159 priore di san Giorgio in Braida è un certo Viviano. (4) Pellegrino è nominato quale abate dei santi Pietro e Vito di Calavena nel 1133 (5), sempre come abate di san Pietro di Calavena nel 1143 (6), e dovette morire nell’anno 1159 perché nel 1160 abate dei santi Pietro e Vito di Calavena è Rodolfo. (7) In seguito alla riforma del complesso monastico di san Giorgio in Braida, operata dal vescovo Bernardo, ne risultarono due ben distinte istituzioni ecclesiastiche: una comunità tradizionale di monaci Benedettini che prese definitiva dimora nel monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, ed una “comunità nuova di ecclesiastici”, guidata da un priore, che prese possesso della Chiesa monastica di san Giorgio in Braida. La prima, quella di Calavena, mantenne la sua fisionomia di vero e proprio monastero secondo la regola di san Benedetto; la seconda il canonicato di san Giorgio, risultò alla fine una istituzione nuova del clero veronese, più vicina forse alle mire programmatiche dei fondatori, il vescovo Valterio e il suo vicario Cadalo degli Erzoni. Le due istituzioni di carattere ben diverso, divennero sempre più indipendenti ed autonome, con una loro storia particolare. In conclusione l’originario ed incerto priorato benedettino dei santi Pietro e Vito sito nella val Longazeria (1068) diventa monastero della Calavena di istituzione diocesana nel 1127 con l’abate Pellegrino. Il titolo e la sede abbaziali di san Giorgio in Braida furono portati definitivamente al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Il movimento di riforma iniziato dal vescovo Bernardo non si limitò all’energico intervento chiarificatore sulla Chiesa cittadina di san Giorgio in Braida, ma si estese anche a tutta la vasta Diocesi di Verona consolidando ed imponendo le competenze giuridiche ed amministrative dell’autorità episcopale nei confronti delle altre istituzioni religiose. Con il grande vescovo Bernardo da Brescia e con il suo successore Teobaldo andava sempre più estendendosi anche nella Chiesa veronese la riforma di Gregorio VII. (1) Ughelli – Italia Sacra V pag. 773 (2) Storia di D. Cervato pag. 144 (3) Ughelli - V pag. 779 (4) Bincolini II pag. 574 (5) S. NC. pag. 318 (6) S. NC. pag. 544 (7) Biancolini V, 2 pag. 111 35 Si può constatare che i vescovi di Verona, in sintonia con le linee papali, operarono una precisa svolta nell’organizzazione pastorale della loro diocesi con l’istituzione di nuove pievi rurali e con la loro rivalutazione giuridica. La pieve era un istituzione ecclesiastica di origine longobarda. Mentre i loro predecessori che erano di elezione imperiale, si appoggiavano, come s’è visto, per la loro azione pastorale su comunità monastiche benedettine opportunamente dislocate nel territorio diocesano, ora il vescovo Bernardo ed ancora più il suo successore Teobaldo, preferiscono rivolgersi al clero secolare diocesano imponendo decisamente il sistema delle pievi, dipendenti direttamente dal Vescovo. Così mentre per quasi un secolo (1030-1120) nel territorio della Diocesi i centri religiosi e di culto erano le cappelle dipendenti e di proprietà dei molteplici monasteri benedettini, ora al loro posto si venivano formando le numerose pievi con le molte cappelle da esse dipendenti. Ad una Chiesa veronese fino ad allora (1122) marcatamente imperiale subentrò una Chiesa locale strettamente legata al Papato. Anche precedentemente esistevano le pievi; una ventina in tutta la diocesi e solo quattro nella zona collinare: san Floriano (905), Arbizzano (968), Grezzana (893) e Illasi (920). Ora invece il sistema delle pievi si estende in modo capillare in tutto il territorio diocesano controllato dal Vescovo. Nel 1145 le pievi erano più di cinquanta, di cui tre nella Val d’Illasi. Di conseguenza passono in secondo ordine i monasteri con le loro cappelle private, che vengono trascurate e spesso abbandonate. In questo modo nella Val d’Illasi dove aveva dominato per quasi un secolo il potere monastico, in particolare quello dell’abbazia di san Pietro di Calavena con le sue cappelle, nella bolla del papa Eugenio III del 1145 appaiono costituite con precisione la pieve della Vergine Maria nascente a Colognola, la pieve di santa Maria Assunta nella corte di Calavena (Tregnago) e si trasferisce in modo definitivo la sede dell’antica pieve di san Giorgio di Cazzano nella chiesa di san Bartolomeo del paese di Illasi. In questo estendersi del potere episcopale, a scapito di quello monastico, appare evidente l’intervento del papato in seguito alla riforma gregoriana. Il nuovo sistema pastorale, quello del Vescovo con il suo clero, schiacciava in certo qual modo il vecchio sistema monastico, quello delle cappelle private. E questo giustamente, perché è il Vescovo con il suo clero il responsabile della conduzione pastorale d’una diocesi e non le istituzioni religiose con le loro rischiose autonomie. Ma proprio dal movimento di riforma gregoriana, sostenuta dai Vescovi, prese grande vigore e vitalità anche il monastero di san Pietro di Calavena. 36 Sembra giungere in tale circostanza alla scoperta della sua vera identità: un compito umano e religioso ben preciso da svolgere in un altrettanto preciso territorio della diocesi, la Calavena. A nord dei territori amministrati dalle tre pievi della Val di Illasi – Colognola, Illasi, Tregnago – si consolida l’indipendente struttura giuridica di un monastero benedettino, quello di san Pietro di Calavena. C’erano buone ragioni per stabilirsi definitivamente in questo luogo, a continuare la vita monastica benedettina. La Calavena rimaneva sempre un territorio appartenente all’esclusiva giurisdizione del vescovo di Verona. Pur nella corte episcopale della Calavena con la pieve, le cappelle, le decime, le famiglie ed ogni altra pertinenza, il monastero di san Pietro manteneva una sua precisa identificazione giuridica. La bolla di Eugenio III del 1145 dice espressamente: “La corte di Calavena con la pieve e le cappelle e le decime e le famiglie ed ogni altra pertinenza; il monastero di san Pietro di Calavena”. Inoltre la leggenda che a suo tempo il santo vescovo di Verona Mauro (615-622) si fosse ritirato su quei monti a condurvi vita eremitica aggiungeva prestigio al luogo. Là già esisteva qualche piccola comunità di monaci. Anche il vescovo Valterio (1035-1055) originario di Ulma, doveva aver nutrito grande simpatia per questa terra tanto simile alla sua della lontana e boscosa Baviera occidentale. Tanto da farne la sua residenza estiva; e poi dei suoi successori fino a quando nel 1206 si preferirà Monteforte. Il castello di san Pietro fu fatto erigere dal suolo a sue spese sull’omonimo Monte nel 1040. Il fatto che la pietra di fondazione del castello di san Pietro con relativa iscrizione sia giunta fino a noi sta ad indicare più che un caso fortuito, la cura gelosa di chi da qual documento poteva trarre diritti , gloria e vanto: i monaci benedettini della Calavena. Anche in seguito alla distruzione causata dal terremoto nel 1117, il Castello fu in qualche modo mantenuto come sede dell’originaria comunità; con l’arrivo di nuovi monaci si pensò tuttavia alla sottostante chiesa di san Vito per rendere più spaziosi ed adatti gli ambienti monastici. Come s’è visto, il primo documento storico che parla del monastero benedettino dei santi Pietro e Vito in Val d’Illasi è dal 1068. Il signor Bono venerabile abate del monastero dei santiPietro e Vito, sito in Val d’Illasi (1), è a capo di una comunità di sette monaci. Con ogni probabilità a lui successe verso l’anno 1110, il monaco Martino, sacerdote e monaco della prima comunità. Egli fu insieme priore di Calavena ed abate del monastero di san Giorgio in Braida (1113); e poi; per decisione del vescovo riformatore Bernardo da Brescia, fu solo priore e riordinatore della sua comunità, come viene chiaramente indicato in un documento del 1136. (2) __________________________________________________________________ (1)Da osservare l’assenza del toponimo Calavena (2)S.NC. perg. 320 37 Mentre a sua volta, per decisione del vescovo Bernardo, Pellegrino divenne abate di san Pietro di Calavena e priore preposto al canonicato di san Giorgio in Braida. Pellegrino perciò è il primo solamente della serie ininterrotta degli abati del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Ma prima di lui c’è Bono e molto facilmente, almeno in parte, Martino. Il primo documento che parla dell’abate Pellegrino è il 20 marzo 1133. Eccolo in lingua italiana. Mercoledì , 20 marzo 1133 Alla presenza dei nobili signori sotto indicati, i cui nomi sono Guariento, Giovanni, Enrico, un secondo Guariento e Alberico. Alla loro presenza venne in persona lo stesso signor Pellegrino abate del monastero dei santi Pietro e Vito. Egli affittò ad Enrico figlio del fu Bono, abitante nel paese di Colognola un terreno con l’obbligo di piantarlo e coltivarlo a vigneto. Questo terreno si trova nella Val d’Illasi, nel paese di Colognola, in località Cambrago. Enrico e i suoi eredi maschi e femmine lo hanno e lo devono tenere per sempre dal signor abate Pellegrino, dai suoi frati e successori. Enrico e i suoi eredi maschi e femmine si obbligano nei riguardi dell’Abate e dei suoi frati a piantare e a coltivare quella terra a vigneto. Per otto anni non devono nulla di affitto, dopo gli otto anni devono la terza parte dell’uva che è da portare nel paese di Colognola; inoltre durante la vendemmia devono dar da mangiare ogni giorno ad una persona; ogni anno arare e zappare due volte il vigneto e ogni quattro anni sistemarlo di nuovo. Il sopraddetto Enrico e i suoi eredi non devono cambiare destinazione a quella terra, né il signor abate Pellegrino, i suoi frati e successori venderla ad altri, sotto pena di multa di dieci lire, garante per entrambe le parti il signor Guariento. Nessun’altra condizione, tranne quella di una multa di 20 denari veronesi da parte di chi si ritira dal contratto, al fine di renderlo più sicuro. Furono scritte due copie dello stesso contratto. Questo fu fatto nell’anno 1133 dall’incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo, il 20 marzo, indizione XI. Stipulato nel paese di Colognola. Io notaio Arnaldo su richiesta fui presente, stesi e legalizzai l’atto. (1) _________________________________________________________ (1) S.NC. perg.318 38 Nel primo periodo della sua vita il monastero benedettino ebbe la sua sede nel castello di Valterio e nelle adiacenze della chiesetta dedicati entrambi a san Pietro. Anche la cappella di san Vito giù ai piedi del monte, destinata via via ad entrare nella sua orbita, dava modo di accogliere alcuni monaci, in ambienti più spaziosi. Di certo il terremoto del 1117, disastroso per tutta la zona di Verona, aveva prodotto gravi danni alla costruzione del vescovo Valterio: si ha l’impressione che il castello non sia stato più ricostruito, almeno interamente. Sul luogo del castello e delle sue rovine si formò col tempo la contrada del Castello (1583), poi chiamata dei Dal Colle (1771) ed oggi Contrada Campanari. Questa contrada, posta sul monte san Piero, dà proprio l’impressione che si sia sviluppata sul luogo dell’antico castello del vescovo Valterio. Se osservata da una certa distanza a tramontana, balza subito all’occhio la linea spezzata del monte come se sul crinale fosse stato fatto un ampio scasso per collocarvi sulla solidità del “suolo” una grandiosa costruzione, quella d’un castello. L’abate era Pellegrino, il quale era anche preposito di san Giorgio in Braida, e sembra che per questo motivo abbia preferito risiedere in città nella sua Chiesa o in quella di san Faustino, cappella cittadina del monastero di san Pietro. Gli affari economici in questo periodo sono trattati o dall’abate stesso o più di frequente, dal monaco Martino che i documenti chiamano col titolo di “ordinatore e sindaco” del monastero di san Pietro e Vito di Calavena. Questo monaco talvolta agiva insieme al suo avvocato Inglemario. (1) Il monaco Martino, non più abate di san Giorgio in Braida, mantenne l’autorità di priore del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. (2) Egli uomo di fiducia dell’abate Pellegrino doveva risiedere stabilmente nel monastero di san Pietro di Calavena. Alla morte di Martino, avvenuta verso il 1140, l’abate Pellegrino dovette nominare un vero e proprio priore, il signor Bernardo monaco e sacerdote. L’attività di questo priore è indicata in un documento del 1155 (3) negli ultimi anni dell’abbaziato di Pellegrino e si protrae per tutto l’abbaziato del successore Rodolfo (4), fino a raggiungere quello dell’abate Simeone in un documento del 1182 per un affare combinato al tempo del podestà di Verona Turrisendo. (5) ___________________________________________________________________ (1)S.NC. perg. 320 (2)S.NC. perg. 320 e busta 36 n. 26 (3)S. NC. b. 36 n. 26 (4)Biancolini V, 2 pag.114 (5)Biancolini V, 2 pag. 115 e 117 39 Dopo Bernardo fu priore Gennaro dal 1205 (1) al 1224 con l’abate Guariento. (2) Ma in seguito questo titolo sembra scomparire. La situazione sotto il profilo economico si presentava piuttosto precaria specialmente se messa a confronto con il Canonicato di san Giorgio in Braida a cui pare siano rimasti quasi tutti i suoi cospicui beni. Fortunatamente i Vescovi, incominciando da Bernardo, furono grandemente benevoli nei riguardi del monastero: si trattava di costituire la sua autonomia economica dotandolo del necessario patrimonio. Alla comunità monastica fu destinato dal Vescovo di Verona il luogo in cui sorgeva lo stesso monastero con tutte le sue pertinenze. Questo luogo è costituito principalmente dal monte del Castello del vescovo Valterio, che diventerà il cuore dell’allodio del monastero. Il monastero pur appartenendo alla giurisdizione vescovile, era un ente economicamente indipendente. A nord del territorio della pieve di Calavena (Tregnago) si stendeva il territorio allodiale del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Questo territorio di proprietà esclusiva del Monastero era costituito complessivamente da queste montagne: 1- il monte san Piero con la zona pianeggiante sulla sinistra del Progno, l’Alpesino. 2- i tre monti ad occidente della valle, il Gamella (monte Ronco), il Gamellino (monte Naute), il monte della Scandolara. 3- i due monti ad oriente della valle, il monte Asino (quello di Sprea) e il monte Romagnago (degli Zocchi). Oltre a ciò la documentazione del tempo dell’abate Pellegrino (1127 – 1159) è ricca di contratti di investiture e di permute in diverse località del territorio veronese: in città, a Belfiore, a Colognola, a Mezzane e a Marcemigo. Queste terre fanno pensare in gran parte a proprietà marginali del monastero di san Giorgio in Braida passate dal 1127 al monastero di Calavena. Ed anche a proprietà e diritti acquisiti qua e là nella Diocesi dalla Congregazione del clero della città di Verona, passati in seguito al monastero. Così da questi documenti amministrativi si viene a sapere che il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena possedeva già dai primi tempi: a) La cappella cittadina di san Faustino. Doveva essere agli inizi la sede ufficiosa dell’abate di san Pietro di Calavena. (3) È la prima cappella dell’elenco ufficiale della Bolla di Lucio III. Questa cappella facilmente apparteneva alla famiglia degli Erzoni di Lendinara. ___________________________________________________________________ (1)SNC perg. 551 e perg. 188 (2)SNC perg. 555 (3) SNC perg.365 (dell’anno 1183) 40 b) Ancora in città: cinque pezze di terra ortiva con casa in Verona fuori porta san Silvestro. (1) c) La vasta tenuta di Cologna nell’Alta val di Mezzane, che viene nominata già nel 1137. Era costituita principalmente da un casamento con mulino; ma c’erano campi, prati e vigneto, distribuiti in diverse località (Pualo, Orsara, Villa, Lamanta…). (2) In questa estesa zona monastica verrà costruita in seguito la cappella di sant’Ambrogio, nominata come seconda nell’elenco della Bolla di Lucio III del 1185. Questa tenuta apparteneva a suo tempo (1046) al monastero cittadino di san Giorgio in Braida. d)La cappella di san Nicolò a Colognola, alla quale facevano capo diversi vigneti, uno in località Cambrago, un altro in località Gulago (3), ed ancora in località Zubiago ed ultimo in località Serago. (4) e) La Chiesa di san Martino di Calavena dovette nascere come cappella privata del monastero dei santi Pietro e Vito. Lo era ancora nel 1147, perché in quest’anno proprio nel suo atrio viene stipulato un atto pubblico riguardante il monastero. “Fatto nell’atrio di san Martino di Calavena”.(5) Lodovico Perini osserva che in questo documento per la prima volta viene nominato il “monastero dei santi Pietro e Vito”. Ma non è vero: la stessa dicitura è del 1133 e del 1068. (6) Questa cappella diventerà per qualche decennio la Chiesa della pieve di Calavena (Tregnago), fino a quando cioè intorno al 1180 sarà costruita la grande chiesa di santa Maria Assunta, sede definitiva della pieve. “Fatto nella chiesa di Santa Maria pieve di Calavena”.(7) La chiesetta di san Martino, oggi chiamata della Disciplina, resterà in seguito nell’ambito della vicina Chiesa pievana. f) Un terreno a Belfiore in località Sendraro(8) ed un altro nella Val d’Illasi al ponte di Marcemigo. (9) (1)Biancolini V pag. 114 (2)SNC. Busta 37, n. 32 del 1137 (3)SNC perg.320 del 1136 (4)B.C. Vr primo doc. del 1068 (5)S.NC. perg.182 (6) B. C. Vr Carteggi Perini, busta 26 (7) S.NC. perg. 126 (8) S.NC. perg. 544 (9) S.NC. busta 36, rot. 26, n.1 41 Oltre alle proprietà terriere vere e proprie, i Vescovi di Verona tendevano a concedere al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena molti diritti, tra i quali principalmente quello della decima sui frutti dei campi in diverse zone della Val d’Illasi. Questo risulta già dagli inizi, quando il vescovo Bernardo in una lite giudiziaria tra il monastero e la nascente pieve di Tregnago per le decime su quindici casali della Calavena, decideva in favore del monastero. (1) Questa decisione episcopale però non fa solo pensare ad una preferenza personale per il monastero: fa pensare che il monastero di Calavena sia anteriore in ordine di tempo alla pieve di Calavena. Se le cose infatti stavano così, i pretesi diritti della Pieve sui terreni incolti dei quindici casali della Calavena appartenevano al primo occupante e cioè al monastero. Morto il 1 Dicembre 1135 il vescovo Bernardo, gli successe il grande Tebaldo (1135 – 1157). Era il presidente dei Canonici della Cattedrale e con ogni probabilità fu il primo Vescovo veronese (e nativo di Verona) ad essere eletto secondo i canoni della riforma gregoriana e cioè dalle tre congregazioni del clero veronese: i canonici della Cattedrale, il clero intrinseco e quello estrinseco alla città. In questo senso è il frutto più evidente della riforma gregoriana entrata pienamente anche in Verona, città tradizionalmente imperiale. Nel suo lungo episcopato di 22 anni Tebaldo si prodigò in piena autonomia a dare stabilità giuridica ed economica alle diverse strutture diocesane. (2) Si fece stimare e ben volere dal papa Eugenio III (1145 – 1153) che gli concesse all’inizio del suo pontificato nel 1145 il celebre privilegio chiamato “Piae postulatio voluntatis”. Questo privilegio, oltre al valore giuridico, è anche una precisa descrizione di tutti gli enti ecclesiastici che formavano la Diocesi di Verona. In questa carta geografica viene espressamente nominato nell’Alta Val d’Illasi, il monastero di san Pietro di Calavena. “La corte di Calavena con la pieve, le cappelle, le decime, le famiglie e tutte le sue pertinenze; il monastero di san Pietro di Calavena”. Nella Val d’Illasi, oltre alle tre grandi pievi (3), c’era il monastero di san Pietro di Calavena: esso è ben costituito come entità ecclesiastica ed è giuridicamente dipendente dall’autorità episcopale. E’ questo il dato ufficiale più importante del periodo di governo dell’abate Pellegrino, durato circa 32 anni. ___________________________________________________________ (1)S.NC. busta 36, rot.26, n.3 (2)Ughelli – Italia Sacra, V pag777,797 (3) Biancolini I pag. 195 42 L’abate Rodolfo 1159 –1178 Dopo la morte di Pellegrino divenne abate del monastero dei santi Pietro e Vito di C alavena il sacerdote Rodolfo. Fu eletto abate dalla comunità monastica nel 1159. Un sacerdote di nome Rodolfo è nominato in un documento datato 16 aprile 1140 assieme al levita Ottone e a Martino ultranovantenne, priore di san Pietro di Calavena. Il documento è il regesto (riassunto) di un atto notarile di permuta di terreni, che si può integrare così: “Permuta di terreni fatta tra il sacerdote Rodolfo, il levita Ottone e Martino priore di san Pietro di Calavena da una parte; e Carlo figlio di Onesto del paese di Marcemigo dall’altra. Permuta di una terra con viti di proprietà della Chiesa di SanPietro che si trova in Val d’Illasi nella località il Ponte (di Marcemigo) sulla destra del Progno; con un’altra terra aratoria di proprietà di Carlo , sempre nella Val d’Illasi in località Marano (il Meiaro di Tregnago) sulla sinistra del Progno.” (1) Elemento di facile constatazione del periodo dell’abate Rodolfo è il fatto che si passa, in campo economico, dai pochi contratti di normali investiture a quelli di permute e a quelli di grandi compere. In questo movimento di affari si ha l’impressione che si voglia realizzare un preciso programma: quello di puntare decisamente sul monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena come proprietà principale e centrale, ed acquistare di conseguenza posizioni economiche nelle vicinanze, permutando con queste, terre e località lontane ed estranee, quasi irraggiungibili. All’impegno dell’abate Rodolfo il monastero di san Pietro di Calavena deve riconoscere: la compera di Scorgnano (1160); la compera di Cogollo (1162); la costruzione dell’edificio monastico (1170); e nel campo giuridico l’inizio della pratica per ottenere l’approvazione e la protezione papale del suo monastero (1177). Dopo la morte dell’abate Pellegrino(1159), è evidente l’estendersi del territorio del monastero verso la parte meridionale della Val d’Illasi. Il territorio allodiale del monastero confinava a sud con quello di Cogollo e con quello di Scorgnano. Nel 1160 il monastero di san Pietro attraverso l’abate Rodolfo acquistò gran parte del territorio di Scorgnano. ___________________________________________________________ (1) S. NC. busta 36 n. 26 43 Con atto pubblico del 13 dicembre 1160 stipulato nella città di Verona, presso la chiesa di sant’Andrea, Guido Rozone di Montorio “per 100 lire veronesi consegna in mano a Rodolfo, per grazia di Dio abate del monastero di Calavena, presente il signor Bernardo priore dello stesso monastero, i due casali che “formano il paese di Scorgnano”.(1) Nel 1162 ancora Rodolfo abate del monastero di san Pietro di Calavena “presente e consenziente il signor Bernardo priore dello stesso monastero, afferma di aver speso 60 lire veronesi nella compera del castello di Cogollo, compera fatta per lo stesso monastero”. L’atto venne stipulato a Verona nel salone dell’episcopio alla presenza del vescovo Ognibene. (2) Questa compera ebbe un piccolo strascico che si concluse nel 1169 con una decisione del Vescovo Ognibene a pro del monastero, perché il venditore Gisalbertino di Chiavica pretendeva di conservare anche dopo la vendita qualche diritto sul castello e villa di Cogollo. (3) Le due compere, quella del territorio di Scorgnano e quella del territorio di Cogollo, furono le maggiori. Ve ne furono molte altre e non solo a Cogollo (4) : esse si estendono anche al territorio di Tregnago, di Marcemigo, di Illasi e di Colognola dove il monastero possedeva altre piccole proprietà. Questo movimento di affari economici ha certamente una sua grande ragione. Ed è quella di aver stabilito definitivamente la sede del monastero nella Calavena e precisamente giù sul piano ai piedi del monte san Pietro e di avervi costruito il nuovo edificio monastico. La Chiesa di san Pietro su sul monte con i resti del castello diverrà solo l’antico nido del monastero di san Pietro. Non vi sono documenti che attestino questo cambiamento, ma dal periodo dell’abate Rodolfo iniziano i contratti stipulati nei diversi locali del monastero dei santi Pietro e Vito: nello scaldario (1171+1178), nel chiostro (1174), sotto il porticato (1174).(5) Quello del 1171 – 12 maggio - è anche il primo atto notarile eseguito nella sede del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena.(6) L’abate Rodolfo aumentò e consolidò certamente il patrimonio economico del suo monastero. D’accordo con i suoi monaci dovette decidere la costruzione del nuovo monastero giù ai piedi del monte san Piero, abbandonando a malincuore il caro nido lassù sul colle in mezzo al bosco. Intorno a quegli stessi anni (1180) si stava costruendo anche la nuova grande Chiesa della Pieve di santa Maria di Tregnago. E se guardiamo un po’ più lontano, solo da poco tempo l’abate Uberto dei Sambonifacio aveva portato a termine la ricostruzione dell’abbazia di Villanova (1145). ____________________________________________________________________ (1)S.N.C. – perg.183 (2)Biancolini V, II, pag.114 (3)S.N.C. perg.362 (4)S.N.C. perg.363 (5)S.NC. perg.363 (6)S.NC. perg.184 44 La costruzione del monastero dell’abate Rodolfo dovette avvenire in due momenti distinti. In un primo momento si rese necessaria la ricostruzione della Chiesa di san Vito con gli edifici annessi resi pericolanti dal terremoto del 1117. In un secondo momento si dovette procedere alla costruzione di una parte nuova di ingrandimento. Che l’abate sia stato costretto a mettere mano alla ricostruzione della Chiesa di san Vito lo si deduce dalla strana posizione del campanile antico, che, rispetto alla primitiva abside, sembra costruito dentro il perimetro della Chiesa. Da ciò che resta dell’abside originaria e le absidi sono generalmente le parti che più resistono all’usura del tempo, essa era di figura rettangolare, ed era suddivisa in tre absidiole, di cui la centrale era doppia delle due laterali. Così doveva essere anche il resto della Chiesa. Perciò la primitiva Chiesa, di un quarto più ampia dell’attuale, era a tre navate: pilastri intercalati a colonne con architrave ad archi uguali. Il terremoto del 1117, o forse anche qualche smottamento del terreno sovrastante, dovette distruggere completamente il campanile e lesionare in modo irreparabile la parte anteriore della vicina navata di sinistra; forse la mole del campanile crollò in direzione sud-ovest. Nella ricostruzione la navata di sinistra è stata ostruita in pieno dalla struttura quadrata dell’attuale antico campanile: di questa navata rimane una stanzetta addossata al di là del campanile, adibita più tardi a camera mortuaria con un’unica porta posteriore che dava sul vicino cimitero. (1) La Chiesa fu ricostruita ad una sola navata, costituita dalla navata centrale e da quella laterale di destra, con il tetto ad un’unica capriata e un po’ più basso. Per mettere poi sulla giusta posizione l’altare si ristrutturò l’abside, senza alterarne le forme originarie: si mantenne l’absidiola di destra e si suddivise quella doppia di centro in due arcate, cosicché il fronte dell’abside risultò di tre arcate uguali - sostenute da due colonne - che nascondevano la struttura diventata asimmetrica del precedente abside. Alla fine il nuovo abside risulta un ciborio a tre colonne attorno all’altare. Una quarta colonna si trova ancora al suo posto originario immurata nella parete interna dell’absidiola di sinistra. (1)Cieno Parrocchia pag. 9 45 Adiacenti all’abside della Chiesa sul lato a mezzogiorno c’erano tre locali a volta che, per la loro robusta struttura, facilmente non furono molto lesionati e quindi si mantennero sulla forma primitiva. Perciò questi tre locali e l’abside a tre absidiole della Chiesa restano la parte più antica di questa costruzione: essa nelle sue forme è anteriore al 46 monastero dell’abate Rodolfo; può appartenere all’epoca dell’abate Bono (1068); l’abate Rodolfo dovette casomai riparare le pareti più lesionate. La parte nuova di ingrandimento fu iniziata dall’abate Rodolfo e portata a termine dal suo grande successore, l’abate Simeone. Quest’opera è costituita dalla grande ala di mezzogiorno, che si presenta ancor oggi con le linee ben precise d’un antico edificio monastico. Tolte le aggiunte fatte più tardi (1430-1500) dagli abati Maffei, la sede monastica era formata da un salone centrale (chiostro o sala del capitolo), da due salette intermedie (scaldario) e da altre due ampie sale laterali (biblioteca e refettorio). Cantine e magazzini nel sotterraneo; camere da letto di sopra. Ci è stato tramandato il nome del sovrintendente ai lavori di ricostruzione ed ampliamento del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. È il signor Corrado, nominato nel 1204 come semplice laico, maestro muratore; e nel 1215 signor Corrado come monaco maestro muratore (=cementario). (1) E’ da pensare inoltre che molto materiale per la costruzione del monastero sia stato recuperato dal castello di san Pietro del vescovo Valterio, che si ergeva sulla cima del monte. La lapide che attesta la costruzione del castello vescovile era stata posta su una parete dell’odierna canonica e cioè dell’antico monastero. Dopo il terremoto del 1117 questo castello non fu più ricostruito. Ed oggi non si sa dove si trovasse; se vicino alla Chiesa di san Pietro in monte o nella contrada Campanari. Il luogo sul crinale del monte, dov’era il castello, nel 1381 era chiamato semplicemente il Pian di san Pietro. L’ultimo grande merito dell’abate Rodolfo, fu quello di aver portato il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena alla piena autonomia giuridica sottraendolo alla giurisdizione del Vescovo di Verona. Egli ottenne che da monastero di diritto diocesano diventasse monastero di diritto pontificio. Il pontefice che concesse questo privilegio fu Alessandro III (1159-1181) intorno all’anno 1177. Qualche anno prima nel 1158, aveva ottenuto lo stesso privilegio il monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso dal papa Adriano IV, con l’abate Clemente. (2) La pace di Venezia del luglio 1177 pose termine alle continue controversie tra il papa Alessandro III (1159-1181) e l’imperatore Federico Barbarossa (1155-1190); anche il vescovo di Verona Ognibene (1157-1185) sarà d’ora in poi legato al Papato. In questo clima di armonia tra le autorità pubbliche ecclesiastiche e civili il papa Alessandro III prese sotto la sua giurisdizione il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. (1)S.N.C. perg.372, 375 (2)Bolla in Biancolini I, pag.272; Ughelli V, pag.798 47 Questo è detto chiaramente nella bolla del papa Lucio III, successore di Alessandro III, la quale è quindi semplicemente la conferma scritta di quanto aveva già fatto Alessandro III. “Ricevo sotto la protezione di san Pietro e mia personale il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Come fece il mio predecessore papa Alessandro III di felice memoria”. Siamo di fronte ad una dichiarazione che conferisce al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena la piena libertà di un monastero antico. Dopo più d’un secolo, il monastero di giurisdizione episcopale – secondo la riforma di Gorze - passava direttamente sotto la giurisdizione papale, come il monastero di Cluny. E di questo il Vescovo stesso doveva essere il garante. (1) Anche a Verona il potere imperiale germanico cedeva il posto a quello papale. Credo si debba attribuire all’abate Rodolfo sul finire della sua vita questo passaggio di giurisdizione. La data dovrebbe essere il 1177, l’anno di pace di Venezia, che corrisponde a quella della conferma imperiale per le proprietà del Canonicato di san Giorgio in Braida (8 Settembre 1177). La bolla di Lucio III del 13 Giugno 1185 è la dichiarazione scritta che il monastero benedettino dei santi Pietro e Vito di Calavena aveva raggiunto la sua piena maturità. Ora inizia la sua vita autonoma. LA PREISTORIA del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena Quello che è stato fin qui scritto è la storia delle origini del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. È la storia, perché basata sui pochi documenti scritti e su ragionevoli ipotesi. Ma prima della storia questo monastero sembra abbia avuto la sua preistoria. Essa è costituita da innegabili reperti che risulta ancora difficile coordinare tra loro. - Il primo a suggerire l’esistenza di una preistoria del monastero di san Pietro di Calavena è il grande repertorio delle Abbazie del Cottineau, il quale dice semplicemente che l’abbazia benedettina di Calavena esisteva già prima dell’anno 1040. (2) Il 1040 è la data di costruzione del castello di san Pietro, il cosiddetto castello del vescovo Valterio. (1)Biancolini V,2 pag.119 (2) Dom L. H. Cottineau Repertorio delle Abbazie Calavena 48 In effetti il documento epigrafico dice solo che il castello fu costruito a spese, “sumptu”, del vescovo Valterio, ma non dice chi volle e fece la costruzione. Risulta quindi possibile che sia stata la comunità monastica, che in seguito vi abitò. Questa comunità di benedettini che doveva esistere prima della costruzione del castello, per sua maggior sicurezza e tranquilità propose ed ottenne dal vescovo stesso la sovvenzione dell’opera. L’antica epigrafe della costruzione fu sempre custodita gelosamente dalla comunità benedettina della Calavena come un documento giuridico di proprietà. - L’esigenza di rifarsi alla preistoria nasce inoltre dal carattere del primo sporadico documento, che parla del monastero dei “santi Pietro e Vito sito in valle Longazeria”, quello del 1068. (1) Anche se presenta una comunità monastica con il suo abate, questo documento è casuale: è un atto notarile di permuta di terreni. Questa comunità scambia un esteso terreno aratorio, la Baliata, che possedeva nel paese (vico) di Bionde di Belfiore, con altri tre appezzamenti: due coltivati a viti a Colognola e uno aratorio ancora a Bionde di Belfiore. La permuta dei terreni dall’abate Bono viene stipulato nel suo monastero dei santi Pietro e Vito sito in Val Longazeria. E non è nominata la calavena. Come mai? Il toponimo Calavena si trova una prima volta nell’anno 1111 in un atto notarile estraneo al nostro monastero (2) e in un altro del 1115. (3) Riferito al monastero di san Pietro è per la prima volta in un documento dell’anno 1143: Peregrinum abbateus monasterii sancti Petri de Calavena. (4) E cioè: Pellegrino abate del monastero di san Pietro di Calavena. Inoltre si può osservare che i luoghi dei primi atti notarili, che riguardano il monastero di Calavena, vengono così disttribuiti lungo la valle: il primo fu stipulato nella chiesa di san martino di Tregnago nel 1147 (5), il secondo nel paese di Colognola nel 1149 (6), il terzo a Cologna di Mezzane nel 1165 (7), e solo nel 1171 – è il primo – sarà stipulato “nel chiostro del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena” (8). (1) Biblioteca Capitolare di Verona, I, 5, 5r (2)A.S. Vr. Santo Stefano perg. (3)A.S.Vr. S.NC. perg. (4)S.NC. perg.544 (5) S.NC. perg.182 (6) S.NC. perg.322 (7) S.NC. perg.442 (8) S.NC. perg.184 49 Premesso che un monastero prendeva più facilmente il titolo da una chiesa che da un castello, si può tentare una soluzione del problema sulla sede originaria del monastero sito in val Longazeria, ricordando che in questa valle l’unica chiesa intitolata a san Pietro era quella dell’antico comune di Gusperino, comune che , si vedrà in seguito apparteneva totalmente al monastero di Calavena (1). Questa chiesa di san Pietro non è improbabile che si identifichi con la chiesa – e monastero – del beatissimo Pietro di Gravena, nominata nel 1133, dieci anni prima della denominazione di san Pietro di Calavena. Dice esattamente il documento che “un terreno sito in val Tromegna in località Burgano confina sul lato più in alto con una terra di proprietà del beatissimo Pietro di Gravena”. (2) Nella val Tromegna ve ne sono tre di san Pietro e ciascuno ha il suo nome: san Pietro al Zovo (=giogo) di Colognola, san Pietro di Villanova vicino a san Bonifacio, e san Pietro in Briano nel comune di Cazzano. Poiché la parola “gravena” indica una zona ghiaiosa e sabbiosa lungo un torrente – terreno di gravena (4)– san Pietro di gravena può identificarsi solo con la chiesa di Gusperino e Sorcè, il cui territorio si estende a destra e addirittura dentro il letto del Progno. Il catastico del Progno tratto dal Disegno di Francesco Cuman (1689) riporta in questa zona diversi campi nominati Grava per indicare superfici di nessun valore produttivo perché ricoperti di ghiaia e sabbia (3) Seguendo questo ragionamento, la prima sede del monastero dei santi Pietro e Vito, sito in val Longazeria, sarebbe stato l’antico capoluogo (curia) di Gusperino nella chiesa e monastero di san Pietro di Gravena. La zona di Gusperino con le pertinenze di Cesolino e di Sorcè è quella che ha dato maggiori reperti archeologici dell’età romana: il più prestigioso è il monumento dei Sertori dell’età claudia (45 dopo C.). E agli inizi dell’età cristiana, ai tempidel grande Costantino (intorno al 330) le tre pietre miliari rinvenute nella chiesa di santa Giustina. A fermare l’attenzione su queste terre di sicura occupazione e civilizzazione romana è un terzo documento riguardante il monastero di Calavena: il grosso processo svoltosi addirittura nel palazzo del comune di Verona il 15 novembre 1210. ____________________________________________________________________ (1) S.NC. perg.556 (2) S.NC. perg.319 (3)A.S.Vr. Pompei processo 350, 297.1 n.209 (4)Dizionario Etimologico Veneto 50 Il notaio Rodolfino dovette difendere in tale occasione i diritti del monastero di Calavena contro le pretese del cittadino d’Illasi Vitaclino figlio del fu Datore. Il signor Vitaclino credeva di essere il padrone di un vigneto in località Sorcè perché suo padre Datore l’aveva acquistato nel 1170 come terreno incolto, dal comune d’Illasi e l’aveva poi trasformato in uno spendido vigneto: ed erano passati più di trent’anni. Il legale del monastero, il notaio Rodolfino negava che quel terreno appartenesse al comune d’Illasi – era un’appropriazione indebita – e che quindi potesse essere venduto a Datore padre di Vitaclino. Il motivo addotto – documenti alla mano – era che al tempo di Carlomagno (742 – 814) imperatore (800) e del re d’Italia (781) il figlio Pipino (777 – 810), un certo Gauperto aveva dato in proprietà allodiale al monastero di san Pietro di Calavena non solo la terra di quel vigneto, ma l’intera zona che si stendeva tra la strada principale della vallata e il corso del Progno d’Illasi, e cioè tutto il sortedo di Gusperino. Il giudice del comune di Verona il signor console Nicola da Bionde di Belfiore, davanti a queste prove documentate, sentenziò in favore del vetusto monastero, che risaliva quindi almeno agli inizi del regno franco in Italia (800). (1) Questo signor Gauperto era in quegli anni (806) il castaldo generale del conte di Verona Ademaro. A lui sembra sia stata affidata da parte del re Pipino, attraverso il conte diVerona Ademaro, la sistemazione del territorio veronese in seguito alla caduta del regno longobardo (774) e all’inizio di quello franco. (2) Così il monastero dei santi Pietro eVito della val d’Illasi affonda le sue radici nel glorioso periodo della rinascita carolingia della chiesa veronese (800 – 850). È il tempo del vescovo Rotaldo (802 – 840) e del grande arcidiacono Pacifico (776 – 844). Secondo una tradizione locale, corroborata da una lapide di difficile lettura, attribuiva la fondazione del monastero di Gusperino con la rispettiva chiesa di san Pietro di Gravena agli Astori, i futuri conti Pompei d’Illasi. (3) La loro antica abitazione sarebbe stata da loro stessi trasformata in monastero benedettino, dove una Pompei, la nobile signorina Fasteria degli Astori sarebbe stata badessa negli anni dell’invasione ungarica (900). ____________________________________________________________________ (1)S.NC. perg.1242 (2)Bibl. Cap. Vr. Perg.46 n.3 n.10 (Fainelli 71) (3)Arch. St. Vr. Processi Pompei n. 859 51 Questo terzo documento del 1210 riportandoci ai tempi delle numerose fondazioni longobarde e franche, ci fa pensare al grande sant’Anselmo (720 – 803), fondatore e primo abate del monastero di Nonantola (Modena). Questo attivissimo abate – l’unico grande santo dei longobardi – dopo la fondazione di san Silvestro a Nonantola (750), dovette estendere anche di persona il suo operoso movimento monastico nei territori di Verona e Vicenza, dove sembra possedesse i suoi beni di famiglia. È evidente in questa zona di confine tra i due centri cittadini il diffondersi rigoroso del monachesimo fedele al Principe degli Apostoli: sorgono ovunque chiese dedicate a san Pietro. Così sembra accertato che verso il 763 sorgesse l’originaria chiesa di san Pietro del futuro monastero di Villanova (1) nel paese di san Bonifacio (=vicus Domnani?) nella sculdascia del fiume. (2) Ed una seconda di queste “chiese papali” poteva essere benissimo quella di san Pietro di Gusperino. Essa veniva a trovarsi nella vicina sculdascia della Susonia. ___________________________________________________________________ (1)Giuseppe Dalla Tomba – L’abbazia di Villanova pag.39 (2)Fainelli : doc.66 del 905, doc.71 del 905,e doc.153 del 917. 52 Se in origine – lo ripeto ancora come ipotesi – il colonello delle Montagne si chiamava sculdascia della Susonia – in esatta corrispondenza della Zosana – il monastero di san Pietro di Gusperino poteva essere stato fondato dallo stesso sant’Anselmo, primo abate di Nonantola (751 – 803). È scritto infatti nella sua vita più antica (intorno al 1000): “Il venerabile abate Anselmo, dopo il monastero di Nonantola, fece moltissime altre opere buone, costruendo ospizi con chiesa annessa per i poveri e per i pellegrini: e li dotò dei beni necessari. Dispose, poco prima della sua morte(collapsionem), che dai suoi beni che aveva nel territorio di Vicenza si facesse un ospizio per pellegrini: nella località detta Vico Domnani (Sambonifacio?) con le due chiese annesse di santa Maria e di san Pietro. Istituì ancora dai suoi possedimenti (rebus), che aveva nella località detta Susonia, un secondo ospizio con l’annessa chiesa di santa Giustina”. (1) La località Susonia non è stata ancora identificata, ma l’antica chiesetta di santa Giustina (anno 1011) di Illasi non è molto lontana da Gusperino. Il santo abate Anselmo che con la sua prima fondazione monastica aveva iniziato il ricupero all’agricoltura del vasto territorio di Nonantola, a suo tempo (140 a.C.) sottratto dai veterani di Roma alle ricorrenti inondazioni del Po, ma poi purtroppo riportato dalle invasioni barbariche all’originario stato di palude boscosa ed incolta, ora ai suoi numerosi monaci – più di un migliaio – lasciava in eredità di fare lo stesso in questi suoi poderi della val d’Illasi, tanto floridi al tempo dei Romani, ma ormai diventati per l’incuria degli uomini, terreni aridi, incolti pieni di ghiaia e di pietrame depositati dalle acque incontrollate del rovinoso torrente Progno. Così il grande sant’Anselmo che fu duca del Friuli e cognato del re dei Longobardi Astolfo, morì povero lasciando tutti i suoi beni ai poveri e ai pellegrini e insegnando alla schiera dei suoi 1144 monaci ad accoglierli e ad assisterli con i frutti dei suoi campi e del loro lavoro. ____________________________________________________________________ (1)Ughelli – Italia Sacra vol. II pag. 83 P. Bortolotti – Vita di sant’Anselmo pag. 128 53 Che Gusperino con le sue pertinenze – Cesolino e Sorcè – fosse qualcosa di più di una generica indicazione geografica, emerge dal fatto che viene chiamata fin d’allora “contrada” di Gusperino. La parola contrada, riferita a quel tempo, aveva un preciso valore giuridico: era il capoluogo (curia) di un comune rurale. Quando il comune di Verona al suo sorgere (1130) incominciò ad occupare pacificamente il territorio della contea di Verona, lo trovò suddiviso in sette “contrade”, alle quali impose alcune limitazioni di ordine pubblico. (1) Le contrade nominate nel 1184 sono le seguenti: Fiumenuovo, Montagne, Valpantena, Valpolicella, Gardesana, Tione e Zosana. Questa divisone territoriale proveniva e ricalcava la precedente suddivisione del periodo longobardo in sculdascie che era una divisione censuaria del territorio. Infatti lo sculdascio – ufficiale longobardo dipendente dal gastaldo regio (duca o conte) – aveva in particolare la funzione di stabilire il censo reale e personale (estimo) degli abitanti della sua circoscrizione e riscuoterne le tasse pubbliche per erario dello stato. E guarda caso nella contrada o circoscrizione di Gusperino – che comprendeva tutto il territorio di Gusperino fino a Samonte con al centro Cellore – e precisamente in località Linte Clare – nel 977 doveva avere le sue terre e la sua dimora lo sculdascio Guglielmo, l’unico purtroppo che finora si conosca.(2) Cellore, che diventerà a sua volta comune autonomo, e il paese che ha dato la maggior quantità di reperti archeologici longobardi. La sculdascia delle Montagne – che diventerà più tardi (1230) il Colonello delle Montagne – comprendeva 25 paesi collinari: da Montorio a Monteforte. (3) Il monastero di san Pietro di Gravena era l’unico monastero in questa estesa sculdascia. Eso quindi agli inizi potè prosperare da Lavagno a san Vito di Monteforte, da sant’Ambrogio di Mezzane a san Nicolò di Colognola e a Burgano di Soave, dai confini settentrionali di Caldiero all’estrema Calavena; con qualche terra anche nella sculdascia del Fiumenuovo, Bionede e Belfiore. Così come poco lontano, nella sculdascia Fiume s’imponeva il monastero benedettino di san Pietro di Villanova. ___________________________________________________________________ (1)Cfr. Egidio Rossini in Verona e il suo territorio vol.III tomo 1 pag.404 (2)Biblioteca Capitolare di Verona. Dionisi. Diplomi e carte (3)cfr. carta illustrativa 54 Tutto viene sconvolto e disperso con i cinquant’anni d’invasioni degli Ungheri: dal 900 al 952. Feroci razziatori più che invasori! Anche i signori di Gusperino i nobili d’Astori, i futuri Conti Pompei d’Illasi dovranno correre al riparo delle mura di Verona, nella contrada dell’Isolo. Di Gusperino e della sua “villa floridissima” non rimase che la chiesa di san Pietro di Gravena. Anzi forse neppure tanto. Nella restituzione del 1263, della chiesa di san Pietro di Gusperino non c’erano che le rovine. Si dice nel documento che, mentre della chiesa di sant’Andrea d’Illasi in quella occasione “vengono restituiti i paramenti dell’altare della chiesa e la chiave di ferro della porta della chiesa stessa”, la presa di possesso della chiesa di san Pietro di Gusperino “viene fatta dando in mano al signor abate Porzilano di Calavena dei sassi della chiesa”. (1) Segno questo che durante l’occupazione di Ezzelino (1240 – 1260), o già da prima, era fatiscente e abbandonata assieme all’antico palazzo monastico.(2) I monaci di san Pietro di Gravena ormai da un secolo – nel 1170 – avevano preso stabile dimora nel monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena.(3) Di questa zona originaria ai monaci ormai non interessavano che gli antichi possessi terrieri. Anche la sede amministrativa fu portata nel nuovo paese d’Illasi nella chiesa di sant’Andrea. Ottone I il Grande, sconfitti nel 952 gli Ungari, li costrinse a stabilirsi definitivamente nella loro tera, l’Ungheria. In seguito, pacificata l’Europa, fondò il sacro romano impero di nazione germanica (962). Inizia così sotto la sua sovrana responsabilità il vasto movimento di rinascita dell’anno Mille. Nel territorio di Verona diventata Marca del regno di Germania annessa al ducato di Baviera, la ricostruzione monastica riprende sotto la spinta di un’altra grande fondazione monastica padana, quella benedettina di san Benedetto Polirone. L’abbazia di san Benedetto Polirone nell’Oltrepò mantovano, fu fondata nel 984 da Tedaldo di Canossa, primo conte di Mantova (970). Essa è dedicata a san Floriano e a san Benedetto. ____________________________________________________________________ (1)S.NC. perg.556 (2)AS.V. Processi Pompei n.859 (3) S.NC. perg.184 55 Fu in seguito arricchita da altre donazioni dei Canossa (1050) e divenne in Italia il monastero cluniacense per eccellenza. L’influso cluniacense e papale di san Benedetto Polirone tentò di estendersi anche ai precedenti monasteri di fondazione longobarda e franca del territorio veronese. Questo avvenne certamente per il monastero di tradizione guelfa di san Pietro di Villanova. Forse qualche tentativo si fece anche per quello della vicina valle Longazeria, il monastero di san Pietro di Gravena. Di questo periodo cluniacense e matildino colpisce la pioggia di donazioni fatte a favore del monastero dei santi Nazaro e Celso, a confronto di quello di Calavena, che non ne ebbe una. Quindi è solo con il Vescovo di Verona Valterio di Ulma (1037 – 1055) che si prende sul serio la rifondazione di questo antico monastero Nonantolano, e solo secondo lo spirito di Gorze:becco nel 1068 farsi viva finalmente una comunità benedettina indipendente, dislocata in val Longazeria con il nome dei santi Pietro e Vito, guidata dal venerabile abate Bono. Con l’altro grande vescovo veronese Bernardo da Brescia (1119 – 1137), che metterà ordine nella complicata situazione del recente monastero cittadino di san Giorgio in Braida, questa comunità avrà come abate Pellegrino che nel 1143 stabilirà la sua sede principale nel monastero di san Pietro di Calavena. E nel 1171 con l’abate Rodolfo ci sarà la prima stipulazione d’un atto notarile nel chiostro del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Questo è come lo splendido apparire del sole del mattino della storia del monastero di calavena.(1) Ora la sede del monastero si è spostata dalla media all’alta val d’Illasi: san Pietro di Gravena diventa san Pietro di Calavena. Secondo lo spirito del grande san Benedetto, i suoi monaci lasciavano dietro di sé un terreno ormai ben dissodato e ricuperato all’agricoltura per impiegare, da pionieri di Dio (2), le loro energie lavorative nel ricupero e nello sfruttamento di terreni rupestri allo stato vergine, la Calavena, la terra dele pietre, nell'’stremo settentrione della valle Longazeria. Calavena era ancora un nome che indicava genericamente la natura e la configurazione del suolo di una determinata zona o località. Come si diceva “terreno di gravena” così si doveva dire terreno di “calavena” – terreno sassoso-. ____________________________________________________________________ (1)S.NC. perg.184 (2)cf. Dt. 8,2-3,14-16 56 Secondo il grande glottologo trentino Carlo Battisti, il nome calavena è il diminutivo di calava che contiene la radice cala – parola di un linguaggio precedente al latino – che significa roccia, pietra e simili. Calavena indica quindi un luogo occupato in gran parte da pietre vive e da depositi di pietrame. Nella valle Longazeria – l’odierna val d’Illasi la Calavena indicava l’estesa superfice di terreno più o meno cosparso di pietre e di massi (maròcoli e rebòtani) depositati lungo i secoli dal grande torrente Progno: questa superfice si stendeva da Tregnago a sant’Andrea per la lunghezza di circa 10 Km. Il primo documento che nomina questa Calavena è del 1111 e parla di un appezzamento di terra con orto e casa “che si trova nel territorio e contea di Verona, nella valle Longazeria, nella Calavena, nel paese di Tregnago”. (1) Il secondo è di poco posteriore del 1115 e parla pure di terreni “nella kalavena e precisamente nel paese di Marcemigo” (2) È solo nel 1143 che appare il signor Pellegrino abate del monastero di san Pietro di Calavena”. (3) Dal 1145 la parola calavena diventa il nome proprio di una circoscrizione ecclesiastica: la corte di calavena con la pieve, le cappelle, le decime, le famiglie e tutte le sue pertinenze, il monastero di san Pietro di Calavena. (4) Il toponimo calavena, che indicava la configurazione del luogo era abbastanza comune nelle zone montane e pedemontane. Nel vicentino pedemontano, ad Arzignano, la porta orientale del suo antico castello è chiamata Calavena perché la strada che ne usciva – e ne esce tuttora – conduceva giù dal bosco del monte san Matteo, alla sottostante calavena formata dalla confluenza dei torrenti Chiampo ed Agno. Così Calvéne, terra longobarda dell’alto vicentino, deve il suo nome – più che ad un imprenditore edile romano – ai depositi di grosse pietre del torrente Chiavona nella sua confluenza con il fiume Astico. Il paese di Calvene con il suo circondario (villa) è testimoniato da un documento del 1071. (5) Calvene apparteneva in origine alla corte longobarda della valle dell’Astico, nel ducato di Vicenza. (1)AS Vr. Santo Stefano perg.25 (2) AS Vr. S.NC. perg.805 (3) S.NC. perg.544 (4)Bolla di Eugenio IV (5)Opuscolo su Calvene pag.12 57 Nel Trentino c’è il comune di Calavino (mt.409), un insediamento preistorico con diverse migrazioni di popoli. Il paese si stende su un terrazzo pensile nel fondovalle ed è attraversato dal torrente La Ròga, che significa canale artificiale. Tutta la valle – quella di Cavedine – è cosparsa di balòti e brozzi, grosse pietre calcaree, da cui facilmente il nome. I brozzi sono grosse pietre dovute a frana (=marocche). È nominato probabilmente già nel 993, certamente nel 1185 con Guglielmo di Calavino. La pieve di santa Maria Assunta è documentata nel 1236. Anche nel medioevo Calavino era rinomato per il suo vin santo. Ancora nel Trentino, in val Sugana, c’è il comune di Roncegno (m.450). Sulla sinistra del fiume la Brenta S’innalza il monte Foravort (m.2340): all’altitudine di 1600 metri, al di sopra dei boschi, la zona si allarga in pascoli un tempo intensamente sfruttati nel periodo estivo, oggi semplicemente occupati dai vecchi masi restanti.. Una contrada di questi masi è chiamata Calavino: non si sa il perché, anche se le grosse pietre non mancano nei suoi prati. Il torrente principale è la Larganza che convoglia le acque piovane e sorgive del monte nella Brenta sottostante. Infine allo sbocco della val Monastero nella val Venosta, poco sotto il paese di Tubre (mt.1100) si trova la località di Calvene: ponte di Calvene, bosco di Calvenee la val Calavinella (1303). Calvén, documentato nel 1117 come Calavaina e nel 1258 come Calavena, fu luogo di battaglie per l’indipendenza svizzera (1499). Da Tubre – che significa gola – la val Monastero scende stretta nella zona della Cha lavaina (mt.100) per la lunghezza di Km.10 ed una larghezza media di Km.2, per aprirsi nel piano della val Venosta. Il torrente che scende dagli alti monti si chiama il Rom e confluisce nell’Adige a Glorenza. Questa Calavena è molto simile a quella dell’antica val Longazeria, la val d’Illasi. Anche la storia sembra confermare questo significato di calavena: Calavena da calava, che significa pietra. Calava è il calcare dolomitico, il locale sasso frassine! A questo riguardo si può vedere che nell’economia del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena aveva la sua importanza l’industria della calcina: rendeva al monastero un carro di calcina per ogni “calcara” che si faceva. Il materiale sfruttato era evidentemente il calcare dolomitico del posto, che riempiva il corso del Progno ed affiorava ovunque: il cosiddetto sasso frassinel. 58 All’inizio del 1200 il grande abate Simeone aveva stipulato un buon contratto con quattro imprenditori edili d’Illasi. Aveva affittato ad essi per 32 anni rinnovabili il bosco dell’Arìsaro al prezzo di lire 21 annue per ognuno di essi, per farvi calcare. Di questo bosco il monastero si riservava il completo diritto di pascolo – erba, ghiande e faggiole – e quindi lasciava ai quattro imprenditori d’Illasi, assieme ad un controllato sfruttamento del legname, solo il pienodiritto, di far “calcare” per la produzione della calcina: i sassi da calcina, il legname per cuocerli ed il libero movimento nel bosco degli animali da tiro per il trasporto del legname e della calcina. (1) Ancora nel 1300 a Vicenza la parola Calavena richiamava alla mente quella di pietra. L’abate del monastero vicentino di san Felice, don Francesco da Calavena (1381-1400), aveva ingrandito la costruzione del suo monastero. Una lapide del 1398 ricordava questa sua opera dicendo poeticamente in latino: “Marmoreis genitus Franciscus moenibus abbas promeruit clari nominis orbe decus. Nunc octavis calavena probus decoravit, et istum ipse locum qui dat, fudit ut edis opes. Tunc noviesque decem simul octo, et mille trecentos sol dabat, egregium quando pregit opus”. (2) …che tradotto significa: L’abate don Francesco nato nel paese dela Pietra (calavena) di calavena (pietra) decorò in onore degli avi questo edificio monastico. Correva l’anno 1398. Tra i cognomi ancora presenti nel 1600 nel comune di Boscochiesanuova, c’è quello di Calavezo, che sta all’origine del cognome Tagliapietra che abitavano nella Valbusa. (3) Così Badia Calavena potrebbe chiamarsi in modo più comprensibile l’Abbazia della Pietraia, o meglio Badia Petraia. ___________________________________________________________________ (1)S.NC. perg.187 (2)Castellini – Descrizione della città di Vicenza. (3)A.S. Vr. Processo n.169 59 IIa Gli abati autonomi 1178 – 1360 60 L’abate Simeone 1178 –1210 All’infaticabile Rodolfo succede nel 1178 il grande abate Simeone. Simeone doveva essere uno dei più stimati componenti della comunità monastica. È presente nel 1169 quale sacerdote della chiesa d’Illasi – la cappella di sant’Andrea – tra i testimoni nella lite giudiziaria per i diritti sul paese di Cogollo portata dall’abate Rodolfo davanti al vescovo Ognibene contro Gisalbertino di Chiavica.(1) Grandi avvenimenti intanto si svolgevano nella città di Verona tra il papato e l’impero: lo scisma (1159-1177) tra il papa legittimo Alessandro III e gli antipapi imperiali di Federico Barbarossa; il periodo eroico del Comune di Verona (1155-1177) con le sue interferenze tra autorità imperiale e papale; il Sinodo di Verona dell’inverno del 1184 che vedeva uniti il papa Lucio III e l’imperatore Federico Barbarossa. La città di Verona per tre anni – dall’estate del 1184 all’estate del 1187- ebbe l’onore di essere la sede del Papato ed il centro della cristianità occidentale. Due papi con tutta la loro Curia cardinalizia presero stabile dimora nel palazzo vescovile: Lucio III e Urbano III. Il 22 luglio 1184 il papa Lucio III con la Curia pontificia fu accolto con grande gioia nella città imperiale di Verona e vi rimase ininterrottamente fino alla morte, avvenuta il 24 novembre 1185, all’età di 87 anni. Fu questa l’occasione anche per il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena per chiedere ed ottenere la concessione e la conferma di molti suoi privilegi. ____________________________________________________________________ (1) AS Vr. SNC. Perg.362 61 Ottenuta nel 1177 dall’abate Rodolfo la protezione pontificia da parte di Alessandro III (1159-1181), restava al nuovo abate Simeone il grandissimo impegno di applicare questo privilegio nelle sue particolari conseguenze giuridiche. Fondamentale per l’autonomia doveva essere: - l’esenzione totale da ogni obbligo nei confronti delle strutture ecclesiastiche della diocesi veronese, - una dichiarazione scritta ed ufficiale da parte del Papa e dei suoi cardinali che assicurasse in perpetuo tutti i diritti dell’autonomia promessa. All’inizio del governo dell’abate Simeone si impose la necessità di regolare una volta per sempre i rapporti giuridici ed amministrativi tra il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena e la pieve di Santa Maria di Calavena, la pieve di Tregnago. Si trattava specialmente di regolamentare i diritti alle decime sui prodotti del territorio dei due enti ecclesiastici. Le tensioni tra i due enti si erano fatte sentire già durante l’episcopato di Bernardo da Brescia (1119-1135) Alle pretese di Benedetto, arciprete della nascente pieve di Calavena, di estendere i diritti di decima sui quindici casali della Calavena il vescovo Bernardo, intorno all’anno 1130, aveva sentenziato in favore del monastero di Calavena. Questo sta ad indicare non tanto la simpatia del Vescovo verso il monastero, quanto invece i suoi diritti acquisiti da tempo su un territorio destinato a diventare solo più tardi circondario della pieve (plebato) di Santa Maria. Questo fa pensare anche che nella Calavena l’istituzione della Pieve sia posteriore alla fondazione del Monastero. Il primo atto pubblico stilato nella “chiesa di Santa Maria della pieve di Calavena” è del 4 maggio 1180.(1) Mentre nel 1147 nell’atrio di san Martino di Calavena (Tregnago) era stato stilato un atto notarile in favore del monastero dei santi Pietro e Vito. (2) La sentenza del vescovo Bernardo viene confermata in pieno dalla bolla di Lucio III: le decime dei Quindici casali di Calavena appartengono al monastero. Altre particolari determinazioni a riguardo delle decime tra Pieve e Monastero di Calavena sono indicate da due documenti del 1180. Il primo è del 4 maggio 1180. __________________________________________________________________ (1) SN.C. perg. 126 (2) S.NC. perg. 182 62 Nella lite per decime tra Cimbrio, arciprete della pieve di Calavena, e Simeone, abate del monastero di Calavena, quattro uomini qualificati – Baldovino Muzio, Viviano di Pagano, Corrado da Lavagnolo e Viviano Callegari- impongono all’arciprete Cimbrio e ai suoi curati (fratres) - i sacerdoti Benedetto Brazolino e Girardo Ferro, il diacono Morando, i due suddiaconi Bennato e Filippo ed il chierico Uboldo - quanto essi avevano deciso a favore del monastero di Calavena. (1) Ancora nell’anno 1180 in data imprecisata ci si accorda genericamente fra i responsabili della Pieve e l’abate Simeone sulle decime della zona dei Zenari a sud del sortedo del monastero – tra i Tessari e Scorgnano- in questo modo: in questo casale (un tempo dei Zenari) i dipendenti del monastero, anche se lavorano terre di proprietà della pieve, pagano le decime al monastero; come i dipendenti della Pieve, anche se lavorano terre di proprietà del monastero, pagano le decime alla Pieve. E tutto questo secondo l’uso antico. (2). Con ogni probabilità si indica questo nella bolla di Lucio III quando si parla “dell’accordo su alcune decime stipulato tra il monastero e la pieve di Santa Maria di Tregnago e pubblicamente registrato”. Un grosso processo l’abate Simeone dovette intentare contro il cittadino di Verona Mozocane il 14 aprile 1182. Il processo si tenne nel tribunale (casa) del Comune di Verona davanti al podestà di Verona conte Sauro assistito dai suoi giudici Cozone, Guidona di Regaste e Bonzenone. L’abate Simeone accusava il signor Mozocane d’aver accupato una terra del monastero a Mezzane vicino al Canale (rio) nel territorio di Cologna, e di averne rubato il raccolto dell’anno precedente. Il signor Mozocane non seppe difendersi che in base ad accordi e promesse orali fatte secondo lui dal priore di Calavena Bernardo e dall’abate stesso, ma in realtà da lui inventate di sana pianta. Cozone, il grande giudice di corte di Federico Barbarossa, d’accordo con gli altri due Guidone e Bonzenone, sentenziò in favore dell’abate Simeone e condannò Mozocane a risarcire il danno e a pagare le spese del processo. (3) La lunga vicenda sulle decime e qualche lite giudiziaria ebbero il loro glorioso epilogo durante la permanenza a Verona del papa Lucio III. ___________________________________________________________________ (1) SN.C. Perg. 126 (2) SNC. Busta 39 n.356 (3) Biancolini V, 2, pag.116 63 L’abate Simeone dovette rivolgersi direttamente al Pontefice, che gli rilasciò il Breve pontificio (lettera con sigillo papale) del 16 novembre 1184. Questo Breve fu presentato e letto, un mese dopo, con solenne formalità giuridica al vescovo di Verona Ognibene (1157-1185). In questo privilegio papale risultano principalmente due concessioni: - l’esenzione totale dalle decime su ogni tipo di reddito dei monaci del monastero di san Pietro di Calavena - l’ingiunzione fatta al Vescovo di Verona di condannare con la scomunica coloro che non pagassero le decime dovute al monastero, od anche soltanto ricorressero per questo a tribunali laici. (1) Il privilegio più importante tuttavia è la Bolla di Lucio III del 13 giugno 1185, con la quale egli ed i suoi cardinali confermano direttamente e per iscritto le proprietà e i diritti del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, già concessi indirettamente dal predecessore Alessandro III (1159-1181). Con questa Bolla papale il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena che ebbe l’onore di ospitare felicemente per qualche tempo l’anziano Vicario di Cristo, veniva dichiarato ufficialmente di diritto pontificio. Questo fatto segnò il momento culminante e caratterizzò il lungo periodo, più di trent’anni, in cui il monastero fu guidato dall’abate Simeone. Nonostante questa solenne dichiarazione di autonomia, i monaci benedettini della Calavena conservarono tuttavia il carattere di monaci diocesani che operavano cioè nell’ambito dell’autorità vescovile e del territorio di Verona.(2) Con questa dichiarazione pontificia si conclude definitivamente il processo di riforma del monastero di san Giorgio in Braida, iniziato dal vescovo Bernardo, che portò alla formazione di due distinti organismi ecclesiastici: il canonicato di san Giorgio in Braida in città e il Monastero o Abbazia dei santi Pietro e Vito di Calavena. La gran parte delle proprietà donate al monastero di san Giorgio dal suo fondatore, il vescovo di Parma Cadalo di Lendinara, rimasero alla chiesa di san Giorgio in Braida, ma nel frattempo gli intraprendenti abati del monastero di san Pietro di Calavena, con il favore dei diversi successori del vescovo Bernardo, costruirono il nuovo patrimonio monastico. L’assetto finale dei due enti ecclesiastici è quello indicato dai rispettivi documenti che elencano le loro proprietà. Il documento di san Giorgio in Braida è la conferma che l’imperatore Federico Barbarossa nel 1177 fece dei suoi beni siti in Verona e Vicenza. Per il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena è la Bolla di Lucio III del 1185. ___________________________________________________________________ (1) Biancolini V, 2, pag.118 (2)S.NC. perg.86 64 Ecco qui riportati di seguito i due documenti tradotti in lingua italiana. Conferma imperiale dei possedimenti della chiesa di San Giorgio in Braida 8 Settembre 1177. In nome della santa ed unica Trinità, Federico Barbarossa per divina clemenza augusto Imperatore dei Romani. Su richiesta dei nobili signori Gisalberto, superiore della chiesa di san Giorgio in Braida, e del mio amato segretario Searito e del mio fedelissimo Garzipane di Verona, emetto quest’ordine di tutela, di concessione e di conferma dei possedimenti della chiesa di san Giorgio in Braida. Elenco nominativi dei beni Nella contea di Vicenza: La corte di Sabbion(1) di diritto della chiesa di san Giorgio con tutte le pertinenze, le cappelle, il castello con i boschi, le paludi, i pascoli, i prati, i luoghi di pesca, con le acque, i canali, i mulini, i luoghi di caccia, con i permessi, le restrizioni, le giurisdizioni, i diritti di sosta. Dodici Casali con il mulino – compresi i diritti di onore, di giurisdizione e di altre pubbliche funzioni – siti nella corte di Cologna Veneta lungo il fiume Guà. Un Casale presso Baldaria(2) Sette Casali e due mulini a Lonigo; sempre nella corte di Lonigo tutti i diritti dentro e fuori il castello. Tre Casali nella corte di Corlanzone(3) Nella contea di Verona Quattordici Casali siti nella corte di Orti (4) lungo il fiume Adige con tutte le sue pertinenze. Metà della corticella chiamata Palù con i boschi e tutte le sue pertinenze. Sei Casali nel paese di Vigo sull’Adige (5) con tutto ciò che vi appartiene. Atto di conferma stipulato nell’anno 1177, indizione X. Dato a Venezia l’8 settembre sotto l’imperatore Federico Barbarossa(6). ___________________________________________________________ (1) Vicino a Cologna Veneta (2) Vicino a Cologna Veneta (3) Vicino a Lonigo (4) Vicino a Minerbe (5) Vigo sull’Adige vicino a Legnago (6) Biancolini V, 2, pag. 155 65 Bolla del Papa Lucio III che conferma al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena la giurisdizione pontificia e le sue proprietà. “Il papa Lucio III, servo dei servi di Dio, ai diletti figli Simeone, abate del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, ed ai suoi frati presenti e futuri professi perpetui di vita religiosa. Ogni richiesta suggerita da un santo desiderio deve essere accolta e portata subito a compimento, affinchè lodevolmente risplenda la sincerità della devozione e perché, con sicurezza, acquisti vigore la richiesta utilità. Perciò, miei cari figli nel Signore, ho accolto con piacere le vostre giuste richieste e ricevo sotto la protezione di san Pietro e mia personale il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, nel quale vi siete dedicati al servizio di Dio, dotandolo del privilegio della presente bolla pontificia. Come fece il mio predecessore papa Alessandro III di felice memoria. In primo luogo raccomando che la vita monastica, che si sa essere stata istituita in questo monastero secondo Dio e la Regola di san Benedetto, venga osservata per sempre in modo perfetto. Comando poi che tutti i possedimenti e tutti i beni che questo monastero di diritto e giustamente possiede al presente o che per bontà divina potrà avere in futuro da concessioni di Papi o da donazioni di Re o Principi o da offerte di fedeli ed in altri giusti modi, rimangano confermati ed intatti a voi ed ai vostri successori. In particolare queste proprietà, che voglio indicare con il loro nome proprio: - il luogo dove si trova il soprannominato monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena con le adiacenze; - la cappella di san Faustino nel castello della città di Verona - la cappella di sant’Ambrogio nel territorio di Mezzane con il canale d’acqua, - i mulini ed i suoi diritti; - la cappella di san Nicolò a Colognola ai Colli con i suoi diritti, - la cappella di sant’Andrea a Illasi con i suoi diritti; - la cappella di san Vitale sita a Cogollo con i suoi diritti; - il paese di Cogollo con i diritti sul territorio; - la contrada di Gusperino con le decime ed altri diritti; - la chiesa di Santa Maria dell’Isolo della città di Verona. Inoltre altre proprietà senza denominazione insieme a diritti di vario genere che si trovano nei paesi di Tregnago, di Marcemigo, di Centro, di Scorgnano e Casale; nei paesi di Illasi, di Colognola ai Colli, di Caldiero, di Belfiore, di Albaredo all’Adige, di San Giovanni Ilarione, di Mezzane, di Trezzolano, di Mezzane di Sopra e Cavalone. Con autorità pontificia confermo a voi e al vostro monastero le decime sottoindicate, che già possedete: - le decime di Gusperino, di Sorcè e Cesolino; 66 - le decime di Caldiero; - le decime dei Quindici casali che si trovano in zone limitrofe e periferiche del territorio di Tregnago, dei Càsseri e di Scorgnano, - le decime di Cogollo; - le decime del sortedo di Calavena; - le decime di tutta la proprietà allodiale del monastero; - le decime di tutti i dipendenti del vostro monastero. A sua volta nessuno in modo assoluto ardisca sacrilegamente esigere od estorcere con la forza da voi le decime delle vostre terre incolte e che avete cominciato a coltivare con le vostre mani o a vostre spese, e anche quelle dei foraggi del vostro bestiame. Così pure nessuno del clero diocesano ardisca pretendere e neppure accettare le decime dei vostri lavori e nemmeno dei redditi. Una conferma a parte dò all’accordo su alcune decime stipulato (1180) tra voi e la Pieve di Santa Maria di Tregnago in quei termini già stabiliti e pubblicamente registrati (1). E’ permesso anche a voi accogliere e tenere tranquillamente quei chierici o laici che, fuggendo dal mondo e liberi da impegni, entrano tra voi per dedicarsi alla vita religiosa. Proibisco inoltre che qualcuno dei vostri frati, dopo la professione perpetua, possa lasciare il luogo dove ha emesso la sua professione senza il permesso dell’abate, purché non sia per entrare in una vita religiosa più austera. E nessuno a sua volta ardisca accogliere il fuggitivo senza la cauzione di attestati ufficiali. Qualora fosse inflitto a tutto il territorio l’interdetto generale, a voi è permesso di celebrare a bassa voce i divini uffici, però a porte chiuse e senza il suono delle campane e sempre restando escluse le persone scomunicate e le interdette. Concedo inoltre la possibilità di venir sepolti nel vostro monastero di modo che nessuno si opponga alla devozione o alle ultime volontà di coloro che avessero deciso di farsi seppellire in questo luogo, purché non siano scomunicati o interdetti e salvi sempre i diritti di quelle chiese donde provengano questi defunti. Alla morte di te, Simeone, abate al presente di questo monastero e alla morte di ognuno dei tuoi successori, nessuno gli succeda in questo monastero in modo fraudolento o violento, ma sia abate colui che sarà eletto dal consenso di tutti i frati o perlomeno dalla parte dei frati appartenenti al Consiglio degli anziani. Secondo il timore di Dio e la Regola di san Benedetto. __________________________________________________________________ (1)A.S.V. S.N. b 39 doc.356 67 Ordunque, a conclusione di tutto, dichiaro che a nessuno assolutamente è permesso turbare da temerario questo monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, o sottrarre ad esso i suoi possedimenti e trattenere anche solamente in parte ciò che gli fosse stato sottratto o molestarlo con qualsiasi altro genere di tormenti. Ma tutte le sue cose si conservino nella loro integrità a vantaggio di coloro per il cui sostentamento ed attività furono concesse. Rimanendo evidentemente intatta l’autorità della santa sede ed i diritti di legge del Vescovo diocesano. Se quindi in futuro qualche persona ecclesiastica o secolare, conoscendo la presente bolla pontificia, avrà tentato in modo temerario di andare contro di essa e se dopo essere stata per due, tre volte severamente ammonita, non si sarà pentita del suo reato con una congrua riparazione, essa venga subito privata della sua dignità di potere e di onore, ed inoltre si riconosca d’essere diventata rea del giudizio divino per l’ingiustizia compiuta e venga esclusa dalla comunione del Corpo e del Sangue di Dio e del Signore nostro Gesù Cristo Redentore. E così nel giudizio finale sia sottoposta alla severa punizione divina. Su tutti coloro invece che riconosceranno su questo luogo i suoi diritti sia la pace del Signore nostro Gesù Cristo. Ed ancora qui sulla terra ricevano il premio del loro buon comportamento e davanti al Giudice divino il premio della vita eterna. I sottoscritti Io Lucio, Vescovo della chiesa universale. Io Teodino, Vescovo della sede Portuense e di Santa Rufina. Io Enrico, Vescovo di Albano. Io Teobaldo, Vescovo di Ostia e Velletri. Io Giovanni, sacerdote Cardinale di san Marco. Io Lavorante, sacerdote Cardinale di Santa Maria in Trastevere e Callisto. Io Pandolfo, sacerdote Cardinale dei Dodici Apostoli. Io Albino, sacerdote Cardinale di Santa Croce in Gerusalemme. Io Melchiorre, sacerdote Cardinale dei Santi Giovanni e Paolo. Io Adelardo, sacerdote Cardinale di San Marcello. Io Ardicio, diacono Cardinale di san Teodoro. Io Goffredo, diacono Cardinale di Santa Maria in via Lata. Io Rolando, diacono Cardinale di Santa Maria in Portico. Io Pietro, diacono Cardinale di San Nicolò alle Carceri. Io Pandolfo, diacono Cardinale di San Giorgio al Vello d’oro. Atto stipulato a Verona per mano di Alberto cancelliere e sacerdote Cardinale di Santa Romana Chiesa. Il 13 Giugno. Indizione terza. L’anno 1185 dell’Incarnazione del Signore. Ed anno quarto del pontificato del papa Lucio III. Io sottoscritto Bonaventura, figlio del defunto signor Rolando da Mezzane notaio ed io pure notaio di nomina imperiale, ho visto di persona il documento 68 originale della presente copia, l’ho letto e come in esso era scritto, così si legge in questa copia, senza che nulla sia stato da me aggiunto o tolto che ne cambi in qualche modo il senso o il pensiero. Ma in coscienza e senza inganni lo copiai fedelmente e per dare al documento maggiore forza e valore pubblico, vi ho posto in fondo il mio timbro di registro dell’ordine dei notai. (1) Ritengo cosa molto utile esaminare ampiamente questa pontificia “carta costituzionale” dell’Abbazia dei santi Pietro e Vito di Calavena. I motivi che mi convincono di ciò sono due: mettere in evidenza la consistenza patrimoniale del monastero; dare i nomi propri odierni, identificare le località elencate nella Bolla. Nel documento il patrimonio economico dell’abbazia, su cui esercita i suoi diritti feudali, è suddiviso in due settori: possedimenti e decime. I possedimenti sono: - Il luogo, nella Calavena, in cui si trova l’edificio monastico con l’allodio circostante. - Due cappelle in città e quattro “cappelle proprie” nella val d’Illasi. - Il paese di Cogollo e il suo territorio. - Il comune di Gusperino con le adiacenze. I diritti di decima sono in gran parte inerenti ai possedimenti, ma ve ne sono anche altri. - Le decime di Caldiero. - Le decime del comune di Gusperino. - Le decime dei Quindici casali di Calavena. - Le decime del paese di Cogollo. - Le decime del Sortedo di Calavena. - Le decime della proprietà allodiale del monastero. - Le decime di tutti i dipendenti che occupano e lavorano le proprietà del monastero. Si propongono poi, senza pretesa di essere esaurienti, alcune notizie per l’identificazione dei toponimi, l’indicazione cioè dei nomi propri odierni, delle località elencate. E precisamente: - Il luogo dove si trova il monastero dei santi Pietro e Vito. - La cappella di san Faustino nel castello della città di Verona. ___________________________________________________________________ (1) ASV. SN.C. perg. 3 69 - La chiesa cittadina di santa Maria nell’Isolo. - La cappella di sant’Ambrogio a Mezzane. - La cappella di san Nicolò a Colognola ai Colli. - La cappella di sant’Andrea ad Illasi. - La cappella di san Vitale a Cogollo. - Il paese di Cogollo - Il comune di Gusperino con Sorcè e Cesolino. - Scorgnano e Casale - Il Sortedo di Calavena - Cavalone - Caldiero I Quindici casali di Calavena - La proprietà allodiale del monastero. Badia Calavena – Il luogo del monastero IL LUOGO DEL MONASTERO DEI SANTI PIETRO E VITO L’area dove si trovava il monastero era l’ameno pianoro a pié del monte San Piero confinante a mezzogiorno con la Val Damati, a nord con la strada che costeggia ancor oggi il Monte, a mattina e a sera con proprietà di privati (1). Aveva una superficie complessiva di circa 15 campi veronesi. (1)A.S.V. SNC. Busta 48 stampa 443 70 Non era molto grande, se si considera che il maso, proprietà allora a misura familiare, andava dai 25 ai 30 campi veronesi. Su questa superficie erano dislocati: il monastero, chiamato abbazia, l’orto recintato della superficie di un campo, detto il brolo; alcune terre aratorie ed il resto a prato. Il monastero comprendeva l’attigua chiesa di san Vito con il campanile e le altre costruzioni come la stalla, la caneva, il fienile e i vari depositi. Tutta questa area evidentemente era la parte centrale dell’allodio del monastero. La chiesa di san Faustino in Verona A Verona vicino a piazza Isolo, c’è ancora il toponimo “Corte san Faustino” e quivi è facile individuare un antico muro che apparteneva alla chiesa di san Faustino. Questa chiesa è nominata la prima volta nell’anno 922 nel testamento del vescovo di Verona Notkero (912-928); egli impone agli eredi che la sua casa, sita nelle vicinanze della corte del duca e non lontano dalla chiesa di san Faustino, venga trasformata in un ospizio. (1) In epoca carolingia la chiesa di san Faustino dipendeva dal vicino monastero di santa Maria in Organo. (2) Il famoso Càdalo degli Erzoni di Lendinara, fondatore nel 1046 del monastero benedettino di san Giorgio in Braida, facilmente di famiglia oriunda dalla Germania e forse nato a Sabbion nel Vicentino, è certo che nei primi tempi aveva la sua dimora in Verona nella contrada della chiesa di san Faustino nella corte del Duca. (3) Nell’anno 1122 il papa Callisto II dichiara che questa chiesa appartiene ai Canonici della Cattedrale di Verona. (4) E nel 1177 il papa Alessandro III conferma questa appartenenza. (5) Nel 1185 il papa Lucio III annovera tra i beni del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena la chiesa di san Faustino in Verona. (6) Questa chiesa da allora rimase sempre di proprietà di questo monastero. L’abate di Calavena vi nominava un sacerdote quale priore, con qualche chierico o monaco. ____________________________________________________________________ 1)Ughelli V, pag.727 2)Pighi I, pag.281 3)Pighi I, pag.302 4)Ughelli V, pag.772 5)Biancolini II, pag.540 6)SNC. 1,3 71 Verona - Corte san Faustino Verona - Chiesa di santa Maria Rocca maggiore 72 All’inizio quando il monastero, su desiderio dei vescovi di Verona, costruiva la sua autonomia dal clero canonico della città, doveva essere anche la sede ufficiosa dell’abate. Quando infine con la bolla di Lucio III il monastero divenne di giurisdizione pontificia, la chiesa di san Faustino passò definitivamente dai canonici della Cattedrale al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, per dare una sede cittadina ad un monastero così lontano dalla città. Ci sono atti pubblici riguardanti proprietà del monastero di Calavena stipulati sotto i porticati di san Faustino. (1) Anche per questo facilmente è la prima Cappella dell’elenco nella bolla di Lucio III. Nel 1325 l’abate Galvano di Calavena conferisce la cappellania di questa chiesa a Bonamico monaco professo di Calavena col titolo di Rettore. Fu uno di questi rettori, don Callisto Montagna, che nel 1488 nel periodo oscuro delle commende, cedette la chiesa e l’ospizio a sette monache di Santo Spirito per fondarvi una loro congregazione. (2). E cosi’ questa importante cappella cittadina esce per sempre dall’orbita del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Era commendatario il canonico veronese Agostino Maffei (1479-1495), ma vero padrone della commenda dell’abbazia di Calavena era un laico, il nobile signore di Verona Gianantonio Gafforini, contro le ruberie del quale sarà chiamato ad indagare anche don Callisto Montagna. (3) LA CHIESA CITTADINA DI SANTA MARIA NELL’ISOLO Giambattista Biancolini la chiama Santa Maria Rocca Maggiore, com’è detta anche oggi. Dicono gli storici essere stata chiamata così perché fu edificata nel sito dove anticamente c’era la Rocca maggiore della città. Comunque sia la chiesa con tale nome è molto antica. Fu confermata dal pontefice Lucio III alla giurisdizione dell’abbazia dei santi Pietro e Vito di Calavena con la bolla del 13 giugno 1185. Nel 1498 essendo stato unito il monastero di Calavena a quello cittadino dei santi Nazaro e Celso, la chiesa di Santa Maria ne divenne suddita e trovandosi nell’ambito della parrocchia veniva governata da uno dei suoi monaci.(4) ____________________________________________________________________ 1) S.NC. perg.365 (del 1183) (2) Biancolini I pag. 372 (3) SNC. Perg. 32 (4) Biancolini III pag. 53 73 La chiesa di sant’Ambrogio di Mezzane La cappella di sant’Ambrogio è la prima nominata fuori città nella campagna: ciò ne indica l’importanza e l’antico possesso. Questa cappella insieme con le pertinenze, costituiva una zona unica e compatta: iniziava a nord del paese di Mezzane con una amena conca, la Villa, per espandersi poi verso l’alto lungo le coste dei monti fino a raggiungere i confini di Centro, di Trezzolano e di Marcemigo. Oggi in questa zona il centro più in vista è la contrada sul Vago. (1) Una più antica denominazione di questo gruppo di case, conservata ancora sul muro di una di esse, è Vago sant’Ambrogio. Qui, o più facilmente poco più in basso dove sgorga la sorgente del rivo Dugàl, doveva essere la cappella di sant’Ambrogio, oggi scomparsa. Ne parla, forse per la prima volta una pergamena del 1377, nella quale è detto che il reverendo signor don Francesco abate del monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena “concede in affitto con scadenza decennale al Comune di Mezzane ed ai suoi abitanti la sorgente d’acqua chiamata Fonte d’acqua che nasce vicino alla chiesa di sant’Ambrogio di Mezzane, cappella del monastero stesso”. (2) Questa cappella esisteva ancora nel 1527. Nella visita pastorale compiutavi per ordine del vescovo di Verona Giammatteo Giberti nel gennaio di quell’anno, si dice che questa antichissima cappella apparteneva un tempo all’Abbazia dei santi Pietro e Vito di Calavena, e che si trovava ora nel territorio della chiesa parrocchiale di santa Maria di Mezzane di sotto. Si aggiunge anche che questa chiesa era stata voluta ed iniziata dagli abitanti del posto in corrispondenza di un’amenissima sorgente, che ancora sgorgava proprio dal di sotto di essa. Per contrasti con i monaci dell’Abbazia non era stata portata a termine ed ora si trovava pressoché abbandonata: spoglia e senza porte. Nella visita del 1541, quando ormai da tempo (1500) l’abbazia dei santi Pietro e Vito di Calavena era stata unita al monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso la chiesetta si presenta chiusa ed in ordine. (3) Poi la chiesa entra nella leggenda popolare: essa è sprofondata in modo lento e misterioso nel terreno paludoso della sua amena sorgente. Le proprietà del monastero che facevano capo alla cappella di sant’Ambrogio sono elencate in un documento risalente al 1137, nel quale appunto si dice che esse vengono affittate per 29 anni ai fratelli Giustino, Gilberto e Bianco di Cologna di Mezzane. (4) _____________________________________________________________ (1)cfr. Carta militare (2) S.NC. perg. 934 (3) Riforma petridentina a cura di Antonio Fasani Vol. I pag. 127, 233s, 445; Vol. II pag. 686,1025; Vol.III pag. 1342 (4)S.NC. busta 37, 332 74 Mezzane di sotto - Lla Fonte di sant’Ambrogio Mezzane di sotto - La portata d’acqua della Fonte 75 Si tratta di un “casamento” con corte e orto sito proprio in Cologna; di un mulino ad acqua corrente (rivo) pure in Cologna (il mulino Sartori); un vigneto sito nella Villa della val Pretoriense (di Mezzane); di due prati che si stendono in alto sulle colline, uno in località Pùalo (l’odierno Zòvolo), l’altro in località Orsara (monte Marcòn ); di due tenute di terra coltivata a grano in pianura nella valle di Lavagno e precisamente una in località alla Lamanta e l’altra al Platano. (1) Il documento fatto risalire per la data ai primi tempi del monastero, può riportarci una parte marginale della proprietà del monastero di san Giorgio in Braida e precisamente: “il fondo in valle Longazeria ( la val d’Illasi ) chiamato Cologna”. (2) Infatti esso manca nell’elenco delle proprietà di san Giorgio in Braida del 1177. E la val d’Illasi ( Longazeria ) confinava allora verso occidente con il torrente Vago (la Prognela di Mezzane ). (3) La parte prativa e boschiva di questa zona, chiamata più genericamente la Summolena, si trovava tra i territori di Mezzane, di Centro e di Marcemigo. Così pare voglia far intendere anche la bolla di Lucio III quando dice ad integrazione di queste località: “altre proprietà e diritti che avete nei paesi di Mezzane, di Trezzolano, di Cologna e Cavalone”. La chiesa di san Nicolò a Colognola Un atto di locazione da parte del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena del 1137 obbliga l’affittuario di portare il terzo dell’uva concordato nel paese di Colognola giù a san Nicolò. (4) Ancora più esplicitamente una locazione da parte dello stesso monastero viene stipulata nell’anno 1166 nella contrada di san Nicolò di Colognola. Inoltre i conduttori vengono obbligati a portare i prodotti convenuti nella chiesa di san Nicolò di Colognola. (5) Nella contrada di san Nicolò si reca nel 1170 Enrigeto detto Butorto a reclamare inutilmente i suoi diritti. (6) _______________________________________________________________ (1)S.NC. b 37, n. 32 (2) Ughelli V pag.758 (3) S.NC. perg. 633 del 1129. (4)S.NC. perg.320 (5) S.NC. perg.323 (6) S.NC. perg.327 76 Colognola ai Colli – Capitello di san Nicolò sulla via san Nicolò. 77 E’ dunque fuor di dubbio che la chiesa di san Nicolò si trovava a Colognola ai Colli (e non a Cologna). Oggi non più esistente, è ubicabile nei pressi dell’attuale contrada di san Nicolò. Costituiva il cuore della proprietà del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Era chiamato il Brolo degli ulivi.(1) Forse in essa abitava il castaldo (nunzio e villico) del monastero stesso.(2) Il culto di san Nicolò s’è diffuso in Italia in seguito alla traslazione del suo corpo da Mira (Turchia) a Bari nel 1087. L’atto stipulato nel 1136, nel paese di Colognola davanti alla chiesa di san Nicolò, è il primo atto pubblico compiuto nella val d’Illasi, e la cappella di san Nicolò è la prima dell’elenco che viene nominata in questa valle. Poiché san Nicolò è un santo di culto idrologico (mare, fiumi, laghi) si può pensare che questa prima cappella sia stata costruita dalla prima comunità del monastero dei santi Pietro e Vito sito nella val d’Illasi: quella dell’abate Bono, che proveniva facilmente da zone rivierasche e paludose. La proprietà monastica di Colognola era costituita da diverse fattorie: Cambrago, Gulago, Sarago, Zubiago, Spaze, Fistòlle (canali), Gualferuni. Facevano capo alla chiesa e contrada di san Nicolò sul monte. Dopo il 1200 non troviamo più menzione della chiesa di san Nicolò. I contratti del secolo XIII concernenti terreni siti in Colognola vengono stipulati o direttamente nel monastero di Badia Calavena oppure ad Illasi nell’analogo centro del monastero di sant’Andrea.(3) Ma la chiesa di san Nicolò di Colognola ai Colli continuò ad essere per molto tempo il centro religioso di quella popolazione al monte. Sotto gli Scaligeri (1340) il comune di Colognola ai Colli con le sue pertinenze diventa vicariato civile ereditario della nobile famiglia cittadina dei Nogarola. La sua rapida decadenza iniziò intorno al 1470 quando l’antica pieve di santa Maria al Piano dovette cedere il titolo parrocchiale all’odierna chiesa dei santi Fermo e Rustico al Monte. La chiesa di san Nicolò sempre più trascurata dai monaci dei santi Pietro e Vito di Calavena, divenne un semplice oratorio sussidiario della vicina nuova chiesa parrocchiale. Nella prima metà del 1500, le visite pastorali dei vescovi di Verona devono constatare che questa chiesetta è ormai diventata proprietà privata dei nobili signori Cavalli per i molteplici restauri che di loro iniziativa vi avevano eseguito.(4) Oggi della chiesa di san Nicolò resta solo la contrada ed un capitello di san Nicolò ad oriente della chiesa parrocchiale sul crinale del monte. Negli scavi per le recenti costruzioni lungo la via san Nicolò (della famiglia Gozzi) furono trovati resti di costruzioni antiche ed ossa umane che indicano luoghi sacri. ___________________________________________________________________ (1)SNC. Perg.331 (2)SNC. perg. 328 del 11 (3) SNC. perg. 332 del 1201 (4)Riforma pretridentina. Antonio Fasani Vol. I pag. 390; Vol. II pag. 677, 1001; Vol. III pag. 1332 78 La chiesa di sant’Andrea ad Illasi Il primo dato anteriore alla bolla di Lucio III (1185) è del 1170. Si nomina una proprietà del monastero dei santi Pietro e Vito a Illasi vicina alla chiesa di sant’Andrea.(1) Poco prima nel 1169 un certo Simeone, forse il futuro abate del monastero, è detto semplicemente “sacerdote della chiesa d’Illasi”: non poteva essere che la chiesa di sant’Andrea. (2) Un documento del 1172 ci fa sapere anche di un lago di sant’Andrea ad Illasi, che si trovava nelle vicinanze della località Fani.(3) Nel 1198 l’abate Simeone conclude la permuta di due terreni ad Illasi sotto il porticato di sant’Andrea.(4) E tre anni dopo affitta un terreno stando nella nuova Casa della chiesa di sant’Andrea d’Illasi. (5) Ancora, nel 1222 alla presenza dell’abate Guariento un negozio viene concluso ad Illasi sotto il porticato della casa di sant’Andrea.(6) La stessa chiesa viene restituita allo stesso monastero nel 1263 dopo la confusa burrasca provocata da Ezzelino da Romano. (7) In un documento del 1348 si parla della contrada (ora) di sant’Andrea.(8) La contrada di sant’Andrea in un documento del 1425 si identifica con la contrada Serravalle di recente nomina : viene nominata una terra nel territorio d’Illasi nella contrada Serravalle od anche di sant’Andrea. (9) Oggi la contrada Serravalle si trova in un’ampia ed amena conca sulla parte meridionale del Castel d’Illasi, ma nei secoli passati era adiacente alla zona dell’attuale chiesa parrocchiale di san Bartolomeo e talvolta la comprendeva. Con il dominio di Venezia sul territorio veronese (1405) si dovette procedere anche ad un riordino, per quanto lento, dell’ordinamento ecclesiastico. Verona con le sue strutture civili ed ecclesiastiche, entrava nell’orbita di una più vasta organizzazione statale, quella veneziana. Proprio in questo periodo ad Illasi riprende decisamente il suo cammino una nuova struttura ecclesiastica, quella della pieve di san Giorgio e di san Bartolomeo (1427), governata per un secolo dalla nobile famiglia degli Emilèi (1460 – 1568). La Pieve si trovava molto vicina alla chiesa di sant’Andrea: questo fatto segnò il lento declino della plurisecolare chiesetta monastica. _________________________________________________________________ (1)S.NC. perg.545 (2)Biancolini V, II pag.115 (3) S.NC. perg.546 (4) S.NC. perg.550 (5) S.NC. perg.332 (6)doc.70! (7) Biancolini V, II, pag.125 (8)S.NC. b.37 doc.29 (9) S.NC. b.37 doc.29 79 Dalle visite pastorali del vescovo di Verona Giammatteo Giberti, iniziate verso il 1525, si viene a sapere che la chiesa di sant’Andrea esisteva ancora e che conservava ancora la sua proprietà con molte rendite d’affitto in frumento, olio e denaro.(1) Ma si metteva in dubbio la sua appartenenza al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Tant’è vero che nella visita del 1530 è fatta richiesta al monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso, da poco (1500) subentrato in tutto al monastero di Badia Calavena, di dimostrare con documenti il possesso della chiesa di sant’Andrea. La richiesta è rinnovata nella visita successiva del 1532, benché il monastero dei santi Nazaro e Celso abbia provveduto a far rifare il tetto secondo lo stile dei Gesuati. La chiesa monastica è nominata ancora nell’ultima visita pastorale del grande Vescovo del 1541, ma già appare destinata ad essere assorbita totalmente dalla vicina Pieve: è un semplice oratorio, senza cura d’anime e senza un preciso resposabile. Il monastero dei santi Nazaro e Celso in un primo tempo aveva facilmente scorporato la struttura sacra della chiesa dalle sue rendite terriere, e in un secondo tempo l’aveva rinunziata a favore della Pieve e scopi caritativi; mentre la ricca proprietà terriera costituita da oltre 10 campi con casa e casale nella contrada Serravalle passò in affitto nelle mani di qualche signore di Verona. Nel 1739 apparteneva al cittadino di Verona Francesco Roccabianca(2). La chiesa di sant’Andrea, utilizzata come struttura della Pieve, dopo il 1570 riappare come sede della confraternita della Disciplina. Probabile in questo cambio di uso la presenza dei Gesuati, congregazione laicale che si dedicava specialmente all’assistenza degli infermi: da allora forse divenne la chiesa dell’ospedale annesso, l’antica Casa del monastero benedettino di Calavena. Alla fine risultò la chiesa dedicata a san Rocco, il patrono degli appestati. L’antica chiesa monastica di sant’Andrea divenne dunque nei secoli successivi fino ai nostri giorni la chiesetta di san Rocco, in piazza Bonifacio Sprea n. 17. Il complesso di hospitale e chiesa di san Rocco dovette in un primo tempo affiancarsi a quello analogo e più antico di santa Maria al Lago e più tardi sostituirlo totalmente. Oggi della chiesa di santa Maria al Lago con l’annesso hospitale a due piani, gestito da una compagnia mariana , non resta che la struttura di un edificio civile a forma di chiesa in via Ungheria n. 9. (1) Fasani Visite pastorali pag. 679, 680, 1003, 1339. (2)Arch. Parroc. D’Illasi. Censimento del 1739 80 Illasi - L’antica chiesa di sant’Andrea Illasi - L’antica chiesa di santa Maria al lago. 81 Anche la chiesa di san Rocco, l’antica chiesa di sant’Andrea dei monaci benedettini di Badia Calavena, dismessa ed in parte ristrutturata, nel 1960 fu venduta dall’arciprete d’Illasi don Piero Schena: l’altare di san Rocco fu trasportato nella chiesa parrocchiale davanti alla grotta dell’Immacolata, al posto di quello di legno. Delle due statue una è quella di san Rocco e l’altra di san Carlo Borromeo (?). Della chiesa di sant’Andrea resta specialmente l’antico soffitto (1540) a pannelli quadrati di legno sullo stile dei Gesuati simile a quello della chiesa di san Girolamo nel teatro romano di Verona: segno decisivo di riconoscimento. La chiesa di san Vitale a Cogollo Questa chiesa è nominata la prima volta nella bolla di Lucio III del 1185. “Appartiene al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena la chiesa di san Vitale che si trova a Cogollo con tutte le sue pertinenze” (1). Prima di questa data: un atto pubblico notarile di un abitante di Cogollo è stipulato nel 1147 nell’atrio di san Martino di Tregnago (2); un altro nel 1169 a Cogollo vicino alla chiesa, ma san Vitale non è nominato (3). Negli anni intorno al 1160 l’abate Rodolfo del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena si stava impegnando nella compera di tutto il territorio di Cogollo. E’ probabile che proprio in quel tempo s’imponesse anche l’esigenza di una chiesa per la popolazione. E’ per questo che una chiesa a Cogollo appare solo in quegli anni. Dopo la bolla ponteficia di Lucio III (1185), il nome di san Vitale si trova nel 1211 con questa indicazione: nella “contrada (ora) della chiesa di san Vitale” (4); e diversi anni più tardi, nel 1226, nella stipulazione di un atto notarile, in questa forma: a Cogollo, al cimitero della chiesa di san Vitale (6). ________________________________________________________________ (1) S.NC. busta 1, perg. 3 (2) S.NC. perg. 182 (3) S.NC. perg. 361 (4) S.NC. perg.374 (5) S.NC. perg.883 82 Così pure un’importante adunanza pubblica degli abitanti di Cogollo (vicinia) nel 1253 si svolge al cimitero davanti alla chiesa di san Vitale di Cogollo;(1) ma anche nello stesso anno l’autorità del comune di Cogollo compie degli atti pubblici stando nella chiesa di san Vitale di Cogollo. (2) Questo cimitero fa pensare al cimitero cristiano antistante la chiesa di san Vitale : a Cogollo il posto del cimitero non era solo il luogo delle sepolture, ma anche la piazza per i raduni pubblici, con qualche edificio dove si potevano stipulare atti pubblici: la contrada della chiesa di san Vitale. La chiesa intitolata a san Vitale, sorta nell’ambito del castello di Cogollo, era diventata il centro religioso e sociale del paese, da quando Cogollo era passato sotto la giurisdizione del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena (1162). Quando più tardi nel 1450 fu eretta la parrocchia di Cogollo, la chiesa parrocchiale passò alle dipendenze della pieve di santa Maria di Calavena (Tregnago) e fu intitolata a san Biagio vescovo di Sebaste. La parrocchia di san Biagio di Cogollo veniva aiutata anche economicamente dalla pieve di Calavena (3). Nelle diverse visite pastorali del vescovo di Verona Giammatteo Giberti e dei suoi delegati (1525-1541) la chiesa di san Biagio di Cogollo si presenta come chiesa parrocchiale, benché dipendente dalla Pieve di Tregnago, che vi mandava a reggerla un suo cappellano. Non v’è cenno ad altre chiese. Ma intorno al 1730 l’archivista Lodovico Perini scrive: “Ora la chiesa di san Biagio di Cogollo è la parrocchiale; e la chiesa di san Giacomo di Cogollo è cappella ed é vicina alla suddetta parrocchiale, anticamente essa si nomava di san Vitale”. (4) Oggi la cappella di san Giacomo, l’antica chiesa di san Vitale, non esiste più. Ma doveva trovarsi nel broletto dove ora è la nuova canonica: negli scavi per le fondamenta si rinvennero antichi muretti ed ossa cimiteriali. L’odierna Crosara in piazza Chiesa un tempo si chiamava contrada Sacco, storpiatura di San Giacomo. (5) Tuttavia si deve osservare che la contrada (ora) Sachi è nominata già in una pergamena del 1328. (6) Già da allora l’antica chiesa di san Vitale aveva cambiato il titolo in san Giacomo. ______________________________________________________________ (1)S.NC. perg. 378 (2)S.NC. perg.379 (3) D. Nordera- La parrocchia di Cogollo pag. 87 (4) Biblioteca civica di Verona. Fondi Perini – Manoscritti, busta26. Monaci benedettini dei santi Pietro e Vito di Calavena (5) Nordera pag. 28 (6) S.NC. perg.1295 83 Il paese di Cogollo e il suo territorio Cogollo era un paese di origine romana e di stampo longobardo (1). Era costituito dal paese, dal castello, dalla chiesa di san Vitale con il cimitero, dalla sorte, dalla villa e dai monti comuni. Il paese, l’odierno centro sulla provinciale per Verona, era quanto restava dell’originario castro romano. Al paese o castro si aggiunse in epoca longobarda il castello costruito sull’omonino monte forse dagli abitanti stessi: diversi abitanti di Cogollo affermano nei documenti del tempo di vivere secondo la legge longobarda. (2) Una curiosità legittima può essere quella di sapere qualcosa sulla provenienza di questo gruppo di longobardi. Difficilmente si può farli risalire ai tempi della prima invasione (568) di questi barbari, i quali sembra che si siano fermati sull’altura centrale di Cellore, occupando la zona mediana di tutta la valle da Gusperino a samonte . Arano. È più semplice far risalire questo paese al tempo delle incursioni ungariche (900 – 950). Il paese di Cazzano di Tramigna, di antica origine longobarda, minacciato e saccheggiato da questi feroci razziatori, dovette arroccarsi sui monti della val Tramigna verso l’odierno Castelvero, costruendovi il castello di san Salvatore, che chiamarono Arce, la fortezza. Quando la minaccia ungarica sembrò allentarsi (950), alcuni di questi longobardi originari di Cazzano, superando il crinale del monte Foiardan e discendendo per il vaio dell’Arca (arce) si stanziarono a Cogollo, sui colli e in piano al di qua del Progno. Per il diritto del primo occupante divennero sotto l’autorità d’una famiglia emergente – emigrata più tardi in città, i Gisalberto – i padroni della zona e vi costruirono il loro castello, dimenticando il primovecchio castello. Solo molto più tardi (1162), anche per l’intervento diretto del vescovo di Verona Ognibene (1157-1185), tutto il paese di Cogollo fu comperato dall’abate Rodolfo del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Ai piedi del castello verso sud si sviluppò il centro religioso, parrocchiale di Cogollo con la primitiva chiesa di san Vitale e poi con l’odierna parrocchia di san Biagio . Nell’ambito della chiesa di san Vitale, nell’antistante cimitero, si svolgeva anche la vita sociale. ___________________________________________________________ (1)Domenico Nordera. La parrocchia di Cogollo pag.35 ss. (2)S.NC. perg.361 del1169 84 Il terreno coltivabile in pianura, quello verso il Progno, era dato in sorte alle famiglie bisognose: era il territorio della sorte di Cogollo, il suo Sortedo. E quello verso i monti costituiva la Villa, terreni dissodati e messi a coltivazione dai Signori del paese. Ancor più al largo, sù a nord, verso i monti detti Comuni, c’erano i boschi e i prati della comunità di Cogollo presieduta da un vicario o rettore imposto dal monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena.(1) Il paese e la villa di Cogollo infatti erano beni privati, un piccolo feudo, del monastero di Calavena per la compera fattane dall’abate Rodolfo nel 1160, (2) come è confermato dalla bolla di Lucio III nel 1185. Il fatto che gli abitanti di Cogollo si siano trovati per tanti anni alle dipendenze feudali di un unico signore, l’abate del monastero, ha contribuito a formarne una comunità civile. I medesimi interessi, le medesime rivendicazioni, le stesse difficoltà sociali le solite esigenze economiche hanno spinto i singoli cittadini ad unirsi e, bene o male, a vivere insieme. A motivare ciò non dovette mancare la coscienza di appartenere ad un unico ceppo originario, quello longobardo. Fatto sta che “i miserioni di Cogollo” formano un gruppo ben caratterizzato: una genialità spicciola, un nobile senso sociale, una spiccata tendenza alla vita festaiola. Già nella prima metà del 1200 il paese di Cogollo si era costituito a comune rurale, dipendente dal monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Durante il governo dell’abate Stefano (1237-1263) aveva queste autorità comunali: il vicario dell’abate era il signor Mancinessio, l’assessore aiutante il notaio Allegrino e le sei guardie comunali (saltari) erano Ventura Zenari, Giovanni Zenari, Pellegrino di Almenarda, Liaciaro di Tanissio, Zenone di Pietro e Bruno di Manfredino. (3) Il comune di Cogollo, legato per secoli al monastero di Calavena, alla fine fu aggregato stranamente a quello di Tregnago. ___________________________________________________________________ (1) S.NC. perg. 378 e 379 (2) Biancolini Chiese V,2 pag.114 (3) S.NC. perg. 378 e 379 85 Il comune di Gusperino Gusperino, che oggi è una piccola contrada del comune d’ Illasi, ancora nel 1740 aveva una sua giurisdizione comunale autonoma. Era il feudo del nobile conte Lelio Gualdo di Vicenza, erede della contessa Enrica Cosmi Marogna. La contrada di Gusperino si trova sulla sponda occidentale del Progno d’ Illasi, in un’amena conca ai piedi del monte Guala. Sul crinale del monte Guala transitava un’antica ed importante strada, la via Cara, e sul suo fianco orientale c’è un’abbondante sorgente d’acqua. Elementi questi, la strada e l’acqua, di primaria importanza nei tempi passati per una sicura economia e non solo agricola. La costruzione più in vista della piccola contrada è detta ancor oggi la “casa del Comune” di Gusperino. E vi si trovano anche alcune strutture murarie che vengono indicate come resti della chiesa di san Pietro, testimoniata già nel 1263. (1) Sempre sulla sponda occidentale del Progno sulla costa del monte Guaita a nord del Monte Guala, si estende, a continuazione del territorio dell’antico comune di Gusperino, la zona del Cisolino. Il Cisolino è un territorio abbastanza vasto tra l’incolto e il boschivo che confinava con l’antico comune di Marcemigo. Anche oggi si presenta quasi disabitato, senza nomi di vere e proprie contrade. A maggior ragione al tempo della bolla di Lucio III nel 1185 era un territorio di terre novali, delle quali cioè si stava iniziando la coltivazione, o il ricupero di precedenti terre già coltivate dai romani. In località Cisolino furono ritrovati nel 1789, dopo una piena del Progno, i tre cippi del prestigioso monumento funebre della famiglia dei Sertori, legionari romani dell’età Claudia (anni 41-54). Come Gusperino, anche la vicina contrada di Sorcè di sotto, nel 1740 godeva di giurisdizione amministrativa propria. Era una proprietà di 70 campi del monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso, già possedimento del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. ________________________________________________________________ (1)S.N.C. busta 37 n. 29 86 Ma nel 1299 anche Sorcè, pur trovandosi separata da Gusperino dall’ampio corso del Progno, viene indicata nell’ambito del comune di Gusperino come una sua contrada. (1) La parola Sorcè inoltre sta a richiamare l’antico Sortedo, o territorio della sorte, del comune di Gusperino. Era una zona a valle soggetta alle facili inondazioni del Progno ed allora poco sicura per le coltivazioni. Era inoltre un terreno di gravena, ghiaioso e sassoso. L’intera zona, Gusperino Cisolino e Sorcè, all’origine costituiva una unità giuridica autonoma: una curia, che più tardi sarà chiamata comune di Gusperino. (Ed apparteneva totalmente al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena). Il comune, o meglio la curia, di Gusperino era molto antico. Una tradizione, documentabile ancora nel 1210, faceva risalire i diritti di proprietà del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena su Sorcè e su molti altri terreni che si stendevano tra la strada Principale e il Progno ai re franchi Pipino e Carlo Magno. Infatti un certo Gauferto avrebbe consegnato allora proprio al monastero questa zona. Vicende successive nulla avrebbero tolto a questo originario diritto. (2) Questo può essere possibile passando attraverso la storia del primo monastero di san Giorgio in Braida, dal quale dopo il 1127 dovette staccarsi quello dei santi Pietro e Vito di Calavena. Infatti la chiesa di san Giorgio in Braida risale al 780, al tempo cioè dei re franchi Pipino e Carlomagno. Né si sbaglia di molto affermando che a Gusperino e precisamente nella chiesa di san Pietro di Gravena abbia avuto origine il futuro monastero dei santi Pietro e Vito della val Longazeria, che alla fine diventerà il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Per questi antichi diritti il vescovo di Verona Riprando nel 1188 confermava le decime sulle terre della curia di Gusperino e Sorcè al monastero di Calavena. Questo diritto evidentemente contestato dal vicino comune d’Illasi, fu di nuovo confermato dal suo successore il vescovo Norandino una prima volta nel 1215 e una seconda volta nel 1223. (3) Ezzelino da Romano, durante il suo dominio in Verona (1226-1260), aveva occupato il castello d’Illasi e confiscato in zona diversi beni del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Tra questi la chiesa di sant’Andrea d’Illasi, come s’è visto, ed anche Gusperino con la chiesa di san Pietro. Nel 1263, dopo la tragica fine del terribile tiranno, le due chiese vengono giustamente restituite dal papa Urbano IV al monastero. (4) Da queste antiche terre, che venivano chiamate pure contrada dell’Albara, sarebbero originari i conti d’Illasi, i nobili Pompei. (5) _________________________________________________________________ (1)SNC busta 37 n.29 (2) S.NC. perg. 1242 (3) S.NC. perg. 191 e 192 (4) Biancolini V, 2 pag. 125 (5) Albasini Attalo – Il castello d’Illasi (1905) 87 Questa famiglia militaresca, durante il dominio veneziano (1405-1509) dovette allargare il suo potere sul paese di Gusperino e sul territorio circostante, a scapito evidentemente del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. (1) La potenza della nobile famiglia Pompei si accrebbe nel secondo dominio veneziano (1517-1797) tanto che il conte Girolamo Pompei nell’autunno del 1595 poteva dare tranquillamente in dote alla sua seconda moglie la contessa Gualdo Lucrezia di Vicenza il comune di Gusperino, il quale resterà anche in seguito di questa nobile famiglia vicentina. Al monastero dei santi Pietro e Vito, ed in seguito (1529) a quello dei santi Nazaro e Celso di Verona, resteranno i 70 campi del comune di Sorcè di sotto, mentre Sorcè di sopra rimaneva di proprietà dei conti Pompei d’Illasi. 88 Scorgnano e Casale Nella bolla di Lucio III appare per due volte il toponimo Cusnani: prima parlando di proprietà del monastero ed è messo assieme ai tre grossi paesi di Tregnago, Marcemigo, Centro e al piccolo borgo di Casale; poi parlando del diritto di decime ed è assieme ai 15 casali del plebato di Calavena. Il documento del 1130 che elenca i nomi dei 15 casali del plebato di Calavena identifica Cusnano con Cusignano, specificando in calce che in Cusignano i casali erano due. (1) Ciò vien confermato da un documento del 1160, il quale riporta la conclusione definitiva sui diritti di due casali siti in Cusignano tra il proprietario di un tempo, Guido Rozone, e il monastero di san Pietro di Calavena: i due casali appartenevano in tutto al monastero qualora in essi abitassero “servi” (famuli) del monastero stesso. (2) I nomi dei due casali del monastero non possono essere che Casale e Cusnano della bolla di Lucio III del 1185. Casale si può identificare con una zona di campagna situata tra Capovilla di Marcemigo e Scorgnano. La parte bassa della valletta di Barchetto tra i promontori dei due colli Viacara e Senabio si chiama ancor oggi il Casale o i Casali. Busti Vittorio, abitante ai Battistini, dice che in questa valletta un tempo c’erano delle abitazioni che furono distrutte dal terremoto del 1891 e di cui oggi restano solo dei muretti appena riconoscibili. Il toponimo Cusnano del 1185, che veniva scritto qualche decennio prima Cusignano o anche Cisignano, diventa Cusgnano in un documento del 1204 (3) e tale resta fino al 1295. Nel 1427 e nel 1442 si parla di una terra aratoria con viti circondata da mura nella pertinenza di Scurgnano in località Casale. (4) Cusgnano è diventato durante il 1300 Scurgnano, facilmente per una tendenza articolatoria delle popolazioni nordiche (tausse) ivi emigrate. ____________________________________________________________________ (1)S.N.C. busta 36, n.26 (2)A.S.V. S.N.C. perg.183 (3) SNC. Busta 37, n.31 (4) S.N.C. perg. 372 (5) 89 In conclusione il primitivo toponimo Cisignano (scritto anche Cysignano) del 1130 diventa Cusnano e Cusgnano per tutto il 1200 fino a trasformarsi definitivamente in Scurgnano nel 1300. Cusnano della bolla di Lucio III (1185) è l’odierno Scorgnano. Scorgnano appartiene alla prima migrazione franca nella Calavena (800): lo si ricava dal titolo della chiesa a santa Brigida di Tours. Scorgnano ha una chiesetta, ben tenuta, un po’ fuori dalla contrada. La facciata è rivolta ad occidente, sulla destra c’è il cimitero ancora in funzione. In alto sul campanile la scritta “Contrate Scurniani 1781. MDCCLXXXI”. Sopra la porta un’edicola con la statua, graziosa, della Vergine Annunciata. È chiamato ora “santuario” della Madonna annunciata perché il 24 luglio 1612 fu istituita nella chiesetta intitolata ai santi Brigida e Severo di Scorgnano sotto la cura di Cogollo diocesi di Verona l’Arciconfraternita di Maria Annunciata, come leggesi in un quadretto della sacrestia. Il Sortedo di Calavena Nell’elenco delle decime indicate nella bolla di Lucio III il toponimo “sortedo” appare due volte, anche se con una grafia leggermente diversa: Sorceto e Cercedo. Si tratta di nomi simili, di località diverse. Uno è il sortedo di Gusperino, l’altro è il sortedo di Calavena. Il sortedo di Calavena è da collocare di fronte a Cogollo al di là del Progno, dal territorio di Scorgnano (Cusnano) fino al confine (il vaio dei Tessari) con l’allodio del monastero. Il toponimo Zerzedo si trova la prima volta in un accordo di decime del 1180 tra il monastero di Calavena e la pieve di Calavena: dal Zerzedo in giù (1) il diritto di decime era legato al rapporto di sudditanza (famuli) dei rispettivi enti ecclesiastici e non alla proprietà della terra degli enti stessi. Ci sono diversi documenti che parlano di un sortedo di Calavena. Nel 1344 è nominato un certo Anzolin del Sorcedo dell’abbazia di Calavena come affittavolo del monastero in località del Canale. (2) Nel 1358 a Tregnago, nella casa del monastero di Calavena, la signora Elice dalle Vacche Negre donò al monastero tra l’altro una terra aratoria e zappativa nella pertinenza del monastero di Calavena ed in località del Sortedo. (3) Un documento del 1408 parla del Sortedo di Badia Calavena, ma anche di un sortedo di Marcemigo. In questo documento, confermato con quasi identica forma da un altro del 1428, una terra “casaliva” con due clusigarie (portici), ara, orto e con un prato di 12 campi ed “una riva” di bosco viene indicato nella pertinenza dell’Abbazia di Calavena in località Sortedo. __________________________________________________________________ (1)e cioè nel casale dei Zenari (2)S.N.C. perg.213 (3)S.N.C. perg.214 90 Ma nello stesso documento si parla anche di una terra vegra e aratoria di circa 4 campi nella pertinenza di Marcemigo in località Sortedo. Ci sono quindi due Sortedi, uno di Badia Calavena e uno di Marcemigo e con ogni probabilità contigui e separati solo dalla linea di confine tra i due territori. Entrambi pagavano le decime al monastero. Come, secondo il documento del 1344, ci sono anche due località al di là del Progno chiamate del Canale, una di Badia Calavena detta anche Canale dei Gatuni ed un’altra di Marcemigo. Forse questo canale scorreva nel Sortedo da nord a sud parallelo al Progno. A conferma un documento del 1442, completato da un altro del 1505, dice che un certo Cristano Squassacultelli possedeva una terra nella pertinenza dell’Abbazia di Calavena, nel colonello dell’Alpesino (1505) in contrada dei Cuchi cioè dei Gatoni nella località Sortedo; forse l’odierno Cucìo. In conclusione il Sortedo di Badia e di Marcemigo è da collocarsi sulla sponda destra del Progno dal confine odierno di Tregnago (un tempo di Marcemigo) fino ad una linea immaginaria che congiunge la val Damati con la val dei Tessari: la zona esattamente di fronte a Cogollo al di là del Progno alle pendici del monte Corno. All’origine c’era un solo sortedo, quello di Calavena (Marcemigo e Tregnago), poi fu diviso dando la parte settentrionale al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Da questa linea in su, a nord cioè del Sortedo, iniziava il territorio privato, l’allodio del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Il monte Cavalone Il toponimo Cavalone è di difficile identificazione. Nonostante i molteplici atti di proprietà che costellano la storia economica del monastero di Badia Calavena, ancora non mi è capitato di trovarlo. Questo fa pensare ad una prematura perdita del toponimo. Una identificazione, a mio parere assai affrettata e senza vere motivazioni, ha visto in questo antico toponimo quello dell’odierno paese di Cavaion. Forse per l’assonanza, perché non sono reperibili documenti che attestino proprietà del monastero in questo paese o nelle vicinanze; oppure se n’è smarrito l’atto di vendita. Il fatto che sia nominato come ultimo dopo Mezzane, Trezzolano e Colonia (Mezzane di Sopra) mi fa pensare ad una località di questa zona piuttosto vasta e di poco valore, situata tra queste località. Stando a questa ipotesi, c’è un documento che parla di una zona detta Orsaria, la terra degli orsi, non coltivata, prati, pascoli e boschi. (1) ___________________________________________________________________ (1)ASV. SNC. Busta 37, n.31 91 In questa zona viene ceduta dal monastero di Calavena (il 5 luglio 1427) una terra a prato piuttosto estesa ad un certo Antonio de’ Dionisi, che ne può usufruire con altri anonimi in modo indiviso, in cambio di un piccolo terreno arativo nel Sortedo di Marcemigo. Questa zona è situata tra i comuni di Mezzane di sopra, Centro e Marcemigo e sembra ne costituisca il monte di confine. Cavalone, forse monte Cavolone, è una zona del crinale delle colline che si trovano tra i paesi di Mezzane di sopra, Centro e Marcemigo e ne segna in un determinato punto i rispettivi confini. (La chiesetta della strada). A porre il toponimo generico di Cavalone tra il monte Marcòn (m.486), che significa monte di confine (mar = confine), e il monte Tormine (m.689) che pure significa monte di confine (tormine = confine) non si dovrebbe sbagliare di molto. La zona è sterile ed incolta pascoli, qualche prato e poveri boschi. Proprio l’Orsaria, la zona degli orsi. Il crinale tra i monti indicati è di circa Km 4. La corte vescovile di Caldiero Caldiero è nominato nella bolla di Lucio III senza alcuna attribuzione, ma nel documento più importante di Eugenio III (1145) il luogo è indicato così “la corte di Caldiero con le chiese e le decime e le famiglie, e con tutte le sue pertinenze”. Ciò che colpisce subito in questa corte è la mancanza della pieve; forse anche per questa assenza della chiesa pievana le chiese non sono dette cappelle, ma chiese. Caldiero, malgrado il titolo della sua chiesa di san Giovanni Battista, non ebbe la sua Pieve forse perché la zona, molto paludosa e malarica, non fu mai molto abitata né ebbe nel tempo molti sviluppi. C’era anche la chiesa di san Pietro e la chiesa di san Mattia. Però aveva avuto fino al 1233 il suo antico castello sul monte Rocca vicino alle locali Terme. Degli abitanti sparsi qua e là nei casali di questa corte il vescovo di Verona aveva concesso al monastero il suo diritto di riscuotere tutte le decime. Si tratta di un diritto simile a quello sui 15 casali dispersi sui monti della corte di Calavena. A complemento del diritto delle decime di Caldiero il documento di Lucio III aggiunge: “quidquid iuris et proprietatis habetis in curia Calderii Porcili Capitis Alponis”. Si tratta in modo generico di limitate proprietà consistenti o in appezzamenti di terreni boschivi dispersi nelle paludi o in qualche chiesa rurale adibita al’assistenza religiosa degli abitanti. Queste proprietà non erano solo nella corte o territorio di Caldiero ma potevano trovarsi in zone (curie), limitrofe consimili, come quella di Porcile (Belfiore) e quella vicina allo sbocco (caput) dell’Alpone nell’Adige, una località cioè poco lontana forse dall’odierno Arcole, chiamata Cavalpone, nello Zerpano. 92 Le tre zone suindicate di Caldiero, Porcile e Cavalpone costituivano l’estrema propaggine meridionale della val Longazeria (la val d’Illasi), che si prolungava in pianura fino a raggiungere la riva sinistra dell’Adige. Proprio nella val Longazeria il monastero di Calavena aveva pressochè tutti i suoi diritti e proprietà. Qui di seguito nella bolla di Lucio III si parla anche di proprietà e diritti siti in San Giovanni Ilarione. Con ogni probabilità si tratta di diritti o di possessi di secondaria importanza che si trovano sul confine con Tregnago. Il pensiero va a qualche “casale” simile agli altri 15 di Tregnago, ma che si trovava ormai nel territorio di San Giovanni Ilarione. Non si possono indicare nomi, sapendo anche che il confine tra Tregnago e San Giovanni oggi si estende per quasi cinque chilometri, dalle tre Punte di Prealta alle Cenge sulla val Scarant (valle Scura). I Quindici casali della Calavena Questi piccoli centri abitati erano distribuiti nelle zone limitrofe e pressoché disabitate del plebato di Calavena, vale a dire nel territorio della Pieve di Calavena: in gran parte sulle coste elevate delle montagne ad est e ad ovest della valle. Un documento che ci riporta la situazione intorno al 1130 dà l’elenco nominativo di questi 15 casali, aggiungendo in calce che 12 si trovavano nel territorio di Tregnago, 3 invece nella pertinenza di Marcemigo e precisamente due nel territorio di Scorgnano e uno ai Càssari(1). Elenco nominativo dei 15 casali della Calavena Il casale di Pellegrino dal Sasso, o meglio dal Gonzo. Quello di suo fratello Signoretto. Altri due casali che i due fratelli possedevano insieme. Altro casale che possedeva Amazo, detto il Formica. Il casale che possedevano quelli della Rasora. Il casale che possedeva Gerardo Brendano. Il casale che possedeva Lanfranco dal Corrubio – questo ancor prima era stato dell’arciprete della pieve Corrado – Il casale che una volta possedeva Martino Gavàtola e dove ora stanno i figli di Adolfo Ferrari. Il casale che possedeva Benedetto Dottore. Il casale che è quel prato che ora possiede Martino d’Antioco. Il casale che possedeva Giustino dai Càssari. Il casale che possedeva il padre di Simeone. Il casale che possedeva Vuinizo il cosiddetto signore di Scorgnano. Un ultimo casale che possedeva un tempo uno sconosciuto. (2) _______________________________________________________________________________________________ (1)ASV. SN.C. busta 36 doc.26 (2)ASV. SN.C. busta 36 doc.26 Cipolla – Le popolazioni dei XIII comuni pag.14 93 I dodici casali di Tregnago 1 12 casali di Tregnago dovevano trovarsi in quei territori di Tregnago, che saranno chiamati più tardi i beni comunali di Tregnago. I beni di Tregnago erano molto vasti e si stendevano in gran parte sulle montagne orientali della Calavena - dal monte Gardon fino al Cucco di Sprea -, ma comprendevano anche un gruppo di colline ad occidente del paese di Tregnago. Un tardo documento, del 1623, ce ne dà questo elenco: 1) Il monte Gardon, che confina a sud con Cellore, campi 172 2) Un altro monte, parte vegro e parte a coltura, chiamato Precastio, Perolla e Zovo, campi 600 3) Un monte vegro, parte pascolivo e parte a coltura chiamato la Bellocha, Cerolia e Viselle, campi 600 4) Un monte, parte a pascolo, parte ad uso di bosco, e parte a coltura chiamato Tomba Ferrara, campi 200 5) Un altro monte di Comegnan, Rancani, Perdonega, Braganzolo, Zavelle, Salvàdeghe, Faiardàn, Sardenare, campi 550 6) Le montagne di Tregnago, quelle della Val dei Sàmbari (Gàmbari), campi 2450 7) Altri monti del Perlo, Ariole, Braggio, Arlan sul breve tratto di costa occidentale della valle, all'altezza di Tregnago: confinano a nord con Marcemigo e a sera con la strada Imperiale chiamata la «via Vachara», campi 362. (1) Abbiamo anche una bella mappa di questi beni di Tregnago risalente all’anno 1618. (2) Su questi monti, non ancora chiamati beni comunali, dovevano trovarsi i dodici casali di Tregnago. Se stiamo alle denominazioni riportate dal documento del 1130, si possono anche indicare alcune odierne contrade: dalla Croce del vento alla Collina (Col della Spina) c'erano i Dottori, i Simonetti, i Ferrari, i Rancani. Dalla Collina fino a Sprea c'erano le contrade dei Signoretti, della Gàttola e del Gonzo. È difficile immaginare quando e perché la gente si sia rifugiata in questi luoghi selvaggi. I tre casali di Marcemigo All'antico comune di Marcemigo appartenevano invece gli altri tre casali della Calavena, dei quali due erano nel territorio di Scorgnano e uno ai Càssari. Questi tre casali si estendevano dall'attuale paese di Scorgnano fino al confine settentrionale del comune di Marcemigo, e cioè fino alla zona del Taòso. _______________________________________________________________________________________________ (1)A.S.V. – S.N.C. b.60, doc.626 (2)Municipio di Tregnago 94 Questa zona periferica del comune di Marcemigo costituiva come un territorio a se stante: erano i suoi beni comunali. A pié del monte, in pianura lungo il Progno, c'era il Sortedo di Marcemigo con terreni portati a coltura – i due casali - e verso l'alto le montagne di Marcemigo con pascoli e boschi. Proprio in questa zona montana doveva trovarsi l'ultimo casale nei confini di Marcemigo, quello dei Càssari. Dov'erano i Càssari di Saline? Nel 1130 circa, si parla, forse per la prima volta, di un centro abitato chiamato i Càssari. È uno dei Quindici casali della Calavena sui quali il monastero dei santi Pietro e Vito aveva diritti di decime. Nel 1185 questa distribuzione dei quindici centri della casalia (concasali) viene confermata dalla bolla di Lucio III, che parla appunto del territorio di Tregnago, Càsseri e Cusnano (Scorgnano). Da questo tempo è pure presente il cognome Dai Càssari: Giustino Dai Càssari (1180) e Uberto Dai Càssari (1211). Questa località, per analogia ai casali di Tregnago, si doveva trovare nella zona limitrofa di Marcemigo, nei suoi beni comunali ed è da situare orientativamente sui monti verso le Saline. La zona delle Saline, il crinale del monte San Moro che si estende pressapoco lungo il tracciato della via Cara (Vaccara) detta la via Imperiale, dalla Bèttola di san Valentino alla Bèttola di Velo, è quella che per prima entra nella toponomastica locale. Una leggenda afferma che il vescovo di Verona san Mauro, morto nel 622, si era ritirato nell'ultimo periodo della sua vita proprio ai piedi del monte San Moro per condurvi vita eremitica: da lui avrebbe tratto il nome l'odierno paese di san Mauro di Saline. I Càssari, di cui resta ancor oggi qualche segno sul monte san Moro, dovrebbero risalire al tempo delle incursioni degli Ungheri (900-950). Possono essere stati costruiti, con la chiesa di san Leonardo, dagli abitanti dell’alta val di Mezzane per difendersi in caso di qualche loro barbara scorreria. Con gli Scaligeri (1260-1385) avvengono diversi cambiamenti nella vasta zona dei monti lungo la via Cara. In un documento scaligero del 1326 la zona delle Saline appartenente al monastero viene indicata con il nome di Castison con Cengie (Cengio) (1). Però subito dopo in un documento del monastero del 1328, si parla ancora dei Càssari: l'abate Galvano concedeva in locazione a Bonifacio di Marcemigo alcune terre, ed in particolare una di mezzo campo, in pertinenza di Marcemigo in località dei Casseri(2). Un documento del 1394 parla di una terra arativa, prativa con alberi, ai margini della quale c’erano due chiese: una di san Leonardo e l'altra di san Mauro, terra sita nella pertinenza di Saline in contrada dei Castri e cioè di san Mauro(3). ________________________________________________________________________________________________________________________ (1) Cipolla, pag. 77, La popolazione dei XIII C.V. (2)A.S.V. – S.N. b.37 doc.31 (3)Cieno. Il monastero di san Valentino, pag.5 95 Prima degli Scaligeri non si parlava di Castri in Saline. L'ipotesi più semplice è che le due parole siano sinonimi: Càssari significa Castri. Il nuovo termine potrebbe essere nato da un ritorno al latino (castrum) del termine Cassari, deformazione araba (Casr), dal bizantino castròn (fortezza di un castello). E l’uso dei due termini è rimasto anche nel tempo successivo. Infatti nel 1443 viene data in locazione, come già nel 1328, ad un certo Giacomo Franceschini di Marcemigo, tra le altre, una terra di mezzo campo sita nella pertinenza di Marcemigo, in località dei Càssari. (1) Ancora un documento del 1482. In esso vengono elencate le contrade delle Saline, appartenenti indirettamente al territorio di Marcemigo, le quali devono pagare la decima dei novali alla pieve di Calavena in quanto appartenenti al suo plebato. Esse sono: Vigignano, Narbísele e Càssari.(2) Cassari viene ad identificarsi, almeno in parte, con la sommità del monte san Moro. Nel 1494 si parla di un anziano signore, chiamato Gasparo, originario di Badia Calavena, che fungeva poveramente da «priore» nella chiesa di san Leonardo nel castro di Saline. (3) La carta topografica più diffusa della Lessima dei primi del 1600 riporta sul monte san Moro il toponimo di san Leonardo in castello. I Cassari quindi, il territorio dei castelli, indicano una precisa zona nella pertinenza di Marcemigo e precisamente alle Saline. È il monte san Moro ed in particolare la costa a mattina. Intorno a questa contrada, in seguito all'emigrazione cimbra durante la dominazione scaligera, iniziò la sua lenta autonomia la comunità del Cengio, chiamata più tardi dei Nar (4) ed infine di Pernigo. Il comune di Pernigo, e quindi anche gli antichi Càssari, alla fine entrarono a far parte del territorio di Badia Calavena, come l'analoga Val dei Sàmbari (Gambari) sul versante opposto della Valle. La proprietà allodiale del monastero Dal Sortedo di Marcemigo – vale a dire dalla valle dei Tessari in su – si estendeva il vasto allodio del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. L’allodio era una proprietà privata assolutamente esente da ogni obbligo pubblico, ecclesiastico e privato. Costituiva il territorio amministrato unicamente dal monastero, era il suo feudo, il suo stato. __________________________________________________________ (1)A.S.V. – S.N. b.37 n.51 (2)A.S.V. – S.N. b.67 n.759 (3)Carte Mattuzzi pag.6 (4)Nar, narut = matto, Mattuzi, colonello matto. Nar bisele = I prè dei matti. 96 Diventerà il territorio dell'antico comune della Badia di Calavena, detto comune di Spreaconprogno. Ai tempi di Lucio III (1185) questo territorio era formato: - dall'odierno monte San Piero, sul quale agli inizi (1040) era sita la chiesa col castello ed il monastero di san Pietro. La zona adiacente intorno al monte sarà chiamata più tardi 1'Alpesino. - dal monte chiamato ancor oggi Scandolara sul quale l'abate Rodolfo nel 1171 affittava ad un certo Corradino e ad altri capifamiglia di Mezzane un prato di diritto del monastero sito precisamente nella Conca di Scandolara (1). - dal monte Rumiago (o Romagnago), l'odierno monte degli Zocchi, dalla val Tanara e dal Progno in su. Esso nel 1203 fu dato in affitto dall'abate Simeone per 32 anni a nove capifamiglia della Val d'Illasi (2). - dall'esteso monte chiamato allora Arsísaro, o qualcosa di simile, che si estendeva lungo il Progno dall'odierna val dei Tessari a quella dei Pergari. Anch'esso nel 1203 dall'abate Simeone venne affittato solennemente a quattro capifamiglia della Val d'Illasi per 32 anni (3). - dal monte chiamato un tempo dell'Asino, costituito dall'insieme delle alture che si stendono dal vajo della val Tanara a quello dei Rugolotti. Nel 1211 questo territorio boschivo chiamato Tanaraconsprea fu dato in affitto a 21 capifamiglia della Val d'Illasi per 26 anni dall'abate Guariento (4). I quattro preziosi documenti di affitto ci hanno tramandato anche i nomi dei capifamiglia che vennero ad abitare su questi monti del monastero. Erano legati all'abate di san Pietro da un vincolo di sudditanza simile al vassallaggio. Piace ricordarli, non solo per pura curiosità: forse furono proprio i primi abitanti di questi luoghi selvaggi. Nella Conca di Scandolara c'erano Corradino e Ottolino fu Pelavite di Mezzane. Sul monte Rumiago vennero: Gerardo, Alidosio, Bonzeno dai Salici, Groto, Caolario di Arano, Giovanni di Lovezole, Gerardo di Illasi, Bertucio e Marcio. Nell'Arsísaro si stanziarono Englomarino di Colognola, Losco di Arduino, Zenario e Ottone di Bonzeno, Dautino, Gerardo di Zeno da Breca Carro. Il monte Asino, il più accogliente, fu occupato dai seguenti capifamiglia: Bernardo di Giovanna, Bonvisino di Aldraa, Zenone di Melda, Pigordo di Orlando, Altegero originario di Marzana, Rodolfo di Teo, Ventura il Longo, Uberto dei Càssari, Aquila di Naale, Bonaventura di Zambono, Mosto di __________________________________________________________________ (1) A.S.Vr.-S.NC. perg. 184 (2) A.S.Vr.-S.NC. perg. 186 (3) A.S.Vr.-S.NC. perg. 187 (4) A.S.Vr.-S.NC. perg. 190 97 Berardo, Persona di Bonifacio, Gennaro di Bonsignore, Leonardo di Tosa, Alberto di Copasora, il signor Bonaventura di Masara, Carlo di Gerardo, Giovanni di Adolino, Alberto Enrigeto di Carmenate, Lanfranco di Enrico. L'antica proprietà allodiale del monastero benedettino costituisce la parte maggiore e centrale, il cuore dell'attuale territorio del comune di Badia Calavena. Vista in modo approssimativo è circa la metà dell'intera superficie e cioè kmq 12. L'altra metà del suo territorio è costituita da zone confinanti con le proprietà allodiali del monastero: il comune di Pernigo e la valle dei Gàmbari. Storicamente l’allodio del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena è nominato la prima volta nella bolla di Lucio III, nel 1185. La Calavena era una corte che apparteneva interamente alla giurisdizione del Vescovo di Verona (1145), ma in essa vi erano anche altri allodi più o meno estesi. Questi terreni privati potevano essere stati dati in proprietà allodiale dall’autorità suprema della corte, il Vescovo; ma potevano anche essere preesistenti, perché concessi in proprietà allodiale da qualche altra autorità pubblica, prima che il Vescovo di Verona ne fosse il responsabile giuridico. Non esistono documenti al riguardo: si può però presumere che questo allodio sia stato concesso al monastero dal grande vescovo Valterio di Ulma (1036-1055), quando vi costruì il castello di san Pietro (1040). 98 Allodio del monastero 99 Durante il più che trentennale governo (1178 – 1210) dell’abate Simeone si ebbero altri fatti rilevanti. Nel 1188 il vescovo di Verona Riprando (1185-1188) alla vigilia della sua morte, di sua iniziativa per la salvezza della sua anima e di quella dei suoi antecessori, donò all’abate Simeone per il suo monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena due monti di pascolo posti in Lessinia: il monte Corno, che si trova tra il Cornesello e Castelberto e il monte Gaibana che si trova tra la valle di Ala (dei Ronchi) e il monte san Giorgio. Questa donazione era gravata da un piccolo impegno caritativo: un’abbondante distribuzione di pane e di fave cotte nei giovedì della santa Quaresima. Questi due monti nella Lessinia dovettero servire al monastero come pascoli estivi per il bestiame dei suoi dipendenti. (1) L’abate Simeone riservò una particolare attenzione al territorio d’Illasi. Egli sapeva certamente che il comune autonomo di Gusperino con la chiesa di san Pietro di Gravena, ora nel territorio d’Illasi, era stato nei secoli precedenti (800-1000) la sede principale del suo monastero. Poi i tempi erano cambiati. Ai Longobardi erano succeduti i Franchi (774). I Franchi non erano né barbari né invasori: avevano riportato per un secolo (800-900) in tutta l’Europa l’antica pace romana. Erano buoni cristiani e quando entrarono pacificamente nella val d’Illasi, si erano stanziati a settentrione, dove il clima era più adatto a popolazioni nordiche. Dedicarono le loro chiese ai loro santi patroni: san Martino di Tours e il santo ausiliatore Egidio (Zilio) abate a Tregnago, san Dionigio, primo vescovo di Parigi, a Marcemigo, santa Brigida di Tours a Scorgnano e san Vito a Badia Calavena (836 traslazione da Parigi in Germania). In compenso i vecchi coloni longobardi si erano ritirati ai piedi del monte Ullasio, abbandonando quasi completamente la fascia centrale della valle: Arano, Cellore e Gusperino. Questo gruppo si fece assai compatto scoprendo una sua propria identità: gli illasiesi. Tanto che nell’874 erano già in grado di chiedere all’imperatore Lodovico II (850-874) quali primi occupanti un generico riconoscimento dei loro antichi diritti nella valle. (2) Poco più tardi, durante le ripetute incursioni degli spietati razziatori Ungheri (900-950), si erano costruiti sul loro monte, l’Illasio (3), un grande castello, perché i luoghi sacri – chiese e monasteri – non erano più un rifugio sicuro contro questi feroci infedeli. ___________________________________________________________________ (1)Biancolini V, II pag.122 (2)SNC. Perg.541 (3)SNC. Perg.342 del 1250 100 Ormai era evidente che il centro della valle senza confronti era il paese d’Illasi. E su questo si doveva puntare, come fece con grande intelligenza l’abate Simeone. Così fu trascurato san Pietro di Gusperino. Già gli abati precedenti avevano acquistato proprietà terriere in questa vasta zona meridionale della vallata, ma l’abate Simeone volle trasformare la chiesa di sant’Andrea, di proprietà del monastero, in un centro monastico di più vaste proporzioni. Si scopre una particolare simpatia dell’abate Simeone per il paese d’Illasi, tanto da far pensare che egli fosse originario da quelle parti. In particolare all’inizio del nuovo secolo volle costruire una nuova Casa del monastero accanto alla chiesa di sant’Andrea. Nel 1201 due contratti di affitto perpetuo vengono stipulati proprio in questa casa nuova. (1) Intorno a questa costruzione si stendeva una campagna di oltre dieci campi coltivabili (l’odierna località Serravalle), poco meno del luogo dove sorgeva il monastero dei santi Pietro e Vito (15 campi), a Calavena. Nella pertinenza d’Illasi il monastero manteneva ancora evidentemente tutti i diritti dell’antico comune di Gusperino con la chiesa di san Pietro. A questo centro amministrativo e religioso, dove risiedeva un piccolo gruppo di monaci con un loro priore, facevano capo tutte le proprietà d’Illasi – Sorcé, Cesolino – ed anche quelle di Colognola. Tutto questo fa pensare anche ad un preciso programma dell’abate Simeone: arginare il più possibile la penetrazione nella valle del monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. Nel 1205 l’abate Simeone combinò una intelligente permuta con un importante vassallo del monastero, il giudice del comune di Verona Gabriele fu Giacomo di Rozone. Per liberare dagli ultimi diritti feudali due terreni che si trovavano nella proprietà allodiale del monastero, uno a Sant’Andrea e l’altro addirittura sul monte san Piero, investì il detto signor Gabriele Rozone con gli stessi diritti feudali su un altro terreno del monastero, che però si trovava fuori dal circondario del monastero stesso e precisamente nel territorio d’Illasi in località Arano. (2) __________________________________________________________________ (1) S.NC. perg.332 (2) S.NC. perg.188 e 188 bis 101 L’attività dell’abate Simeone nel campo dell’ordinaria amministrazione fu vastissima. Sono molti e svariati i documenti che ancor ci restano dei contratti agrari da lui stipulati, o dal suo delegato priore Gennaro. Ci sono compere e vendite, permute e cessioni, accettazioni di privilegi e di donazioni. Ci sono locazioni al fitto annuo in denaro a lunghe scadenze e rinnovabili. Ma ciò che dovette essere una novità nell’economia del monastero fu lo sfruttamento razionale dei boschi del monastero. Lo si fece attraverso un preciso contratto d’affitto. L’abate del monastero, che era il padrone dei boschi, dava in affitto per 32 anni ad un gruppo di conduttori della valle, un’intera montagna boschiva. A queste reciproche condizioni. I conduttori, e i loro eredi, erano obbligati sotto gravi pene a tenere il bosco per l’intero periodo dei 32 anni, tempo sufficiente per due tagli completi del legname. Inoltre erano obbligati ciascuno a pagare con precise modalità un fitto annuo in denaro piuttosto elevato nella festa di san Michele, il 29 settembre, prima del taglio della legna. I conduttori infine erano obbligati a mettere i guardiaboschi per custodire e sorvegliare il bosco, i quali imponevano grosse multe concordate (regole) con il diritto alla percentuale. Ai conduttori era data piena facoltà di accesso e di transito attraverso i boschi per tagliarne il legname o semplicemente per intestare le piante tagliandone solo i rami: della legna tagliata e raccolta potevano fare quello che volevano. Potevano pascolare gli animali da tiro quando venivano nel bosco per il trasporto del legname, o d’altro. Potevano anche subaffittare a terzi parte del bosco con gli stessi loro diritti. Il monastero si riservava tutti i diritti di pascolo e di foraggio nel bosco per il suo bestiame: pascolare ovunque e segare il fieno, raccogliere i frutti delle piante come le ghiande, le faggiole (frutti del faggio) ed altri frutti selvatici. Il monastero poi poteva tagliare tronchi e pali per costruirsi steccati e casare per il bestiame in alpeggio; inoltre poteva servirsi di legna da ardere – escluse le pianticelle giovani! – per i bisogni della casara dell’alpeggio. Finito l’alpeggio però il legname della casara e degli steccati restava ai conduttori. Il monastero era obbligato a mantenere l’accordo reciproco; a garantire e difendere anche giuridicamente il bosco da ogni ingerenza di estranei. 102 Anche il monastero metteva i suoi guardiani, con gli stessi impegni e diritti di quelli dei conduttori. Questi patti o accordi erano molto precisi e severi. I monti boschivi che furono affittati in questo modo furono il monte della Scandolara (1171), il monte Rumiago (degli Zocchi) e il bosco Arsisaro (il Gamella) sul monte san Moro nel 1203, e il monte Asino, quello di Sprea, nel 1211. Anche per merito dell’abate Simeone del monastero di Badia, questi boschi restano ancor oggi curati e belli. I conduttori che si mettevano alle dipendenze del monastero erano di preferenza, guarda caso, del paese d’Illasi. I boschi erano sfruttati evidentemente per le loro risorse naturali: legname e pascolo. Forse si aggiungeva talvolta la coltivazione di qualche albero da frutto, come il castagno, il noce e il nocciolo. Ma uno sfruttamento che è da mettere in risalto fu quello della produzione della calcina. (1) Questi boschi, specialmente nelle vicinanze del Progno, dovevano essere disseminati di grossi massi di pietra, il calcare dolomitico. La comodità del legname e la quantità di pietre rendevano relativamente facile questa attività produttiva. Il monastero inoltre ci guadagnava un carretto di calce per ogni calcara fatta: forse era la decima parte. A ricordo di ciò ancor oggi ci sono posti chiamati Calcara o Calcaretta: la principale è vicina a Cogollo e nel vaio dei Mulini c’è una valletta chiamata Calcara. Si pensa inoltre che da questa abbondanza di pietre e pietrame derivi il nome di Calavena: la zona delle pietre. L’abate Simeone, messo a confronto con tutti gli altri anteriori e posteriori, si presenta come il più prestigioso. Anche se di qualche tempo dopo, vien spontaneo metterlo vicino agli eminenti abati di altri monasteri, che formarono il periodo d’oro del monachesimo medievale. Per l’equilibrata osservanza delle tradizioni benedettine il pensiero va specialmente alla grande abbazia di Cluny con qualcuno dei suoi famosi abati, come Ugo di Lemur (1049 – 1109). Per lo slancio impresso alla sua opera vien di pensare a san Bruno di Colonia (1027 – 1101), padre delle nuove fondazioni monastiche. Resta solo un rammarico: che non sia rimasto nulla del suo pensiero e della sua azione strettamente religiosa, nessuna memoria scritta. ___________________________________________________________________ (1)SNC. Perg.187 103 Consistenza numerica della comunità monastica Durante il governo dell’abate Simeone, credo che la comunità del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena abbia anche raggiunto il massimo numero di componenti: dodici, come gli apostoli. Era il numero indicato anche nella regola di san Benedetto. In un contratto d’affitto perpetuo stipulato il 7 gennaio 1204, nello stanzone riscaldato (scaldario) del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena erano presenti questi membri della comunità: -il signor Simeone, abate del monastero -il signor Gennaro, priore dello stesso -il signor Giovanni da Monte, prete -il signor Galiciano, prete -il signor Alberto, monaco -il signor Geremia, monaco -il signor Cogollo, monaco -il signor Guariento, monaco (il futuro abate) -il signor Rodolfino, monaco (giudice) -il signor Lanfranco, chierico (notaio) -il signor Corrado, maestro muratore -il signor Lanfranco, monaco. (1) Un componente in meno – undici – aveva la comunità dieci anni più tardi durante il governo dell’abate Guariento. Il 4 gennaio 1215 nel chiostro – la sala capitolare – del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena viene stipulata una permuta agraria, alla quale sembra partecipare tutta la comunità. -il signor Guariento, abate del monastero -il signor Gennaro, priore dello stesso -il signor Musio, prete -il signor Cogollo, prete -il signor Galiciano, prete -il signor Giovanni da Monte, prete -il signor Rodolfo, diacono -il signor Stefano, monaco (il futuro abate) -il signor Giovanni da Mezzane, monaco -il signor Corrado, monaco maestro muratore (2) Queste cifre sono le più alte rilevate dai documenti. Le altre si aggirano sulla decina. La cifra minima di cinque componenti è solo dopo l’imprudente intervento di riforma del 1224 operato da parte dell’autorità romana. _________________________________________________________________ (1)AS.Vr. S.NC. perg.372 (2)AS. Vr. S.NC. perg.375 104 L’abate Guariento 1210-1237 Morto Simeone nel 1210, gli successe nel governo dell’Abbazia di Calavena l’abate Guariento. Nel lungo periodo di governo dell’abate Simeone il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena aveva raggiunto il massimo del suo splendore. Questo era avvenuto per l’instancabile attività dell’abate Simeone, ma anche per le varie circostanze che la favorirono. Durante la permanenza continuata in Verona dei due papi Lucio III e Urbano III, il monastero dei santi Pietro e Vito godette, come s’è visto, della benevolenza non solo dei Vescovi di Verona, ma anche dei Pastori supremi della Chiesa. Il potere civile, in gran parte nelle mani dell’autorità ecclesiastica, non aveva ancora fatto sentire la sua forza nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche. Con i primi anni del 1200 invece le cose incominciarono a cambiare, a diventare un po’ più difficili. Il primo intervento in questo senso fu quello del grande vescovo di Verona Adelardo II dei Cattanei (1188-1214), Cardinale di santa romana chiesa. Nel 1207 Adelardo II dovette vendere al comune di Verona tutti i diritti feudali (le regalìe) che ancora deteneva sulla corte di Calavena, riservandosi solo quelli ecclesiastici. Il merito di questo passaggio di poteri fu del grande podestà di Verona Azzone d’Este (1206-1212). Come conseguenza di questa alienazione di diritti, si estese l’autorità del potere civile su territori e competenze che in precedenza si ritenevavo del potere ecclesiastico. Anche nel campo delle decime, delle odierne tasse per intenderci, che sembrava ovvio appartenessero solo al potere ecclesiastico, il comune di Verona pose delle limitazioni: pretendeva che le decime dei terreni novali, quelli cioè che ancora incolti non erano proprietà di nessun signore od ente pubblico, fossero di suo diritto. La prima a premunirsi nei suoi diritti fu la Pieve di santa Maria di Tregnago. Esiste ancora il documento di questo accordo: è del 1209. “Due stimatori, deputati dal comune di Verona, approvarono l’accordo tra il vescovo di Verona Adelardo e il suddiacono Guidone sindaco e 105 massaro della Beata Vergine Maria della pieve di Calavena e Zenone e Pietro chierici della medesima”. (1) Il contratto riguardava “la decima e il diritto di decimare su tutte le terre novali della Calavena e del territorio della Pieve (plebato) di Calavena”. Così pure l’abate Guariento, poco dopo la sua elezione, dovette difendere i diritti del suo monastero su tutte le terre, tanto le già coltivate come le novali, del comune di Gusperino e Sorcè, pertinenza di Illasi, e dei comuni della Calavena, Tregnago, Marcemigo e Cogollo, già concessi dal vescovo Riprando nel 1188, e prima dal Papa Lucio III. Questi diritti, evidentemente contestati dal comune di Verona, furono confermati dal vescovo Norandino (1214-1224) una prima volta nel 1215 ed una seconda volta nel 1223.(2) E’ probabile inoltre che l’abate Guariento, per maggior precauzione contro ogni evenienza, abbia fatto costruire proprio a Tregnago la Casa del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Come l’abate Simeone poco prima (1200) aveva costruito una nuova Casa del monastero ad Illasi presso la cappella di sant’Andrea, così fece anche l’abate Guariento a Tregnago. Questa casa è nominata chiaramente solo più tardi.(3) Difficile è l’ubicazione di questa costruzione perché in questo tempo a Tregnago il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena non aveva più una sua cappella, come ad Illasi, Colognola, Cogollo, Mezzane e Gusperino. A suo tempo (prima del 1145) facilmente era di sua proprietà la cappella di san Martino, passata poi giuridicamente alla Pieve. Però questa Casa doveva essere in ogni modo nella proprietà del monastero; e queste si trovavano principalmente nella zona detta località Ortelli vicino al Rio. Questa zona era forse la migliore di Tregnago bassa. In località Ortelle l’abate Simeone nel 1180, 21 marzo, aveva già acquistato l’intera proprietà oratoria con casa , corte e orto del signor Zeno Murio (4), concedendogli però il diritto di tenerla in affitto.(5) Col tempo evidentemente il monastero di Calavena estese il suo diritto permettendosi di avere una Casa di sua completa proprietà proprio in quel luogo: la Casa appunto del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Queste case vicine alle rispettive cappelle erano magazzini e sedi amministrative (canipa) del monastero di Calavena; erano custodite con la chiesetta da un prete e qualche monaco aiutante. (6) ___________________________________________________________________ (1) S.NC. b.7 perg.189 del 1209 (2) S.NC. perg. 191 e 192 (3) S.NC. perg. 1288 e perg. 214 (4)AS. Vr. S.NC. perg. 1269 (5) S.NC. perg. 1270 (6) S.NC. perg. 1291 del 1312 106 Questa casa del monastero a Tregnago, da non confondersi con la Casa arcipretale, assai più importante, della Pieve di Santa Maria, si rendeva necessaria dall’estendersi delle proprietà e dei diritti che il monastero di Calavena veniva acquistando nel territorio di Tregnago. D’ora in poi infatti diversi atti amministrativi stipulati con abitanti di Tregnago vengono fatti nel paese di Tregnago, nella Casa del monastero, o dell’abate (più tardi), dei santi Pietro e Vito di Calavena. (1) Così pure viene loro data la comodità di portare alla stessa Casa, anziché al monastero, i frutti dei campi che spettavano al monastero stesso, le decime. (2) Caratteristica di questa Casa del monastero, sita in Tregnago, era il grande torcolo (torcular) del monastero per la spremitura delle uve e delle olive.(3) L’ultimo grande torcolo per le olive a Tregnago, a memoria d’uomo (primo ‘800), si trovava nella corte Corradini vicino al lago Nuovo (via san Martino, 5). Poco lontano ce n’era un secondo più piccolo. E’ probabile che la Casa del monastero con l’annesso torcolo si trovasse nel borgo antico intorno via Telle, dove passava la strada principale del paese, la via Pubblica. (4) Ai tentativi di limitare i diritti del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena fatti dal comune di Verona e fors’anche dai nuovi comuni rurali di Cogollo, Tregnago, Marcemigo e Gusperino, si aggiungono anche nuove disposizioni di tipo ecclesiastico provenienti da Roma. Il monastero, diventato di giurisdizione pontificia nel 1185 con il decreto ufficiale di Lucio III, usciva dall’ambito ristretto dell’autorità vescovile di Verona, trovandosi implicato in questioni di più vasto raggio. Il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena si presentava in quegli anni agli occhi di tutti nel suo massimo splendore di vitalità e di benessere economico. Una simile situazione era in sintonia con la storia di tanti altri monasteri benedettini, diventati grandi e potenti. Si ha anche l’impressione che l’abate Guariento, dal quale in quanto abate dipendeva il tenore di vita del suo monastero, fosse piuttosto indulgente con la sua comunità dato che le circostanze glielo permettevano. __________________________________________________________________ (1) S.NC. perg. 1275 del 1221; perg. 1288 perg. 214 del 22 aprile 1358 “In Tergnago. In domo mon. Calavene” (2) S.NC. perg. 1276 (3) S.NC. perg. 881 del 1215 e perg. 1243 del 1223. (4) S.NC. perg. 896 del 1348 107 Ma proprio in quegli anni sorgevano nella Chiesa tendenze religiose ben diverse. Alla potenza e grandezza si contrapponevano la povertà e l’umiltà degli Ordini mendicanti che stavano per nascere. E la Chiesa in un primo tempo approvò queste nuove istituzioni religiose ed in seguito ne fece motivo di rinnovamento per tutti i tipi di vita monastica, compresi quelli del passato. Fu il Concilio ecumenico Lateranense IV (1215), il dodicesimo nella serie degli ecumenici, che diede il maggior impulso al grande movimento di riforma della Chiesa e della vita monastica nel medioevo. Questo Concilio, radunato da Innocenzo III (1198-1216) in Laterano il 1 novembre 1215, fu il più grande di tutto il medioevo. Più di 400 vescovi e 800 abati, assieme ad autorevoli personalità laiche, emanarono 70 decreti importantissimi, tra cui alcuni sulla vita monastica. I due papi successivi Onorio III (1216-1227) e Gregorio IX (1227-1241), furono gli infaticabili sostenitori del Concilio per la rifondazione della vita monastica, favorendo i due Ordini mendicanti, Domenicani e Francescani. Il decreto conciliare XII istituiva per tutti gli Ordini religiosi il Capitolo generale o regionale. Gli abati dei monasteri di una determinata regione si dovevano radunare ogni tre anni per prendere decisioni comuni (statuti) per il rinnovamento della vita religiosa. Questo “nuovo regime”, agli inizi, doveva essere guidato da due esperti monaci Cistercensi. Inoltre in questi Capitoli generali venivano nominati dei Visitatori incaricati di ispezionare e correggere i singoli monasteri, tanto maschili come femminili, per assicurarsi una fervorosa osservanza dalla Regola. Nell’istituzione dei Capitoli generali triennali è presente indirettamente anche una tendenza federativa degli antichi monasteri autonomi della tradizione benedettina. Radunandosi ogni tre anni o poco più è naturale il confronto: perciò non solo si auspica una linea comune di condotta, ma si esige una fattiva collaborazione e si impone una equa distribuzione delle risorse economiche e del personale religioso. La tradizionale autonomia dei monasteri benedettini veniva seriamente compromessa da questo Concilio ecumenico. La spinta federativa fu favorita e talvolta imposta dai papi successivi al concilio, Onorio III e Gregario IX. Il movimento federativo fu osteggiato ovunque, dando origine in compenso a buone riforme locali dei monasteri tradizionali: Benedettini Silvestrini (1231), Benedettini Celestini (1240) e Benedettini Olivetani (1313). Queste nuove fondazioni benedettine si chiamavano Congregazioni ed erano controllate da Legati pontifici. In questi interventi di riforma da parte dell’autorità centrale della Chiesa non è da escludere anche un movente di ordine politico. Con il papa Innocenzo III e con il Concilio ecumenico Lateranense IV (1215) da lui voluto, il papato stava prendendo con evidenza il sopravvento sull’impero in ogni settore della vita pubblica. 108 Ed il grande imperatore Federico II (1220-1250) non era persona da lasciarsi facilmente sbalzare dal trono dei suoi predecessori germanici. Le mire politiche della Chiesa in questi tempi erano rivolte a conquistare diplomaticamente le istituzioni monastiche. I monasteri benedettini, per esigenza dei tempi, erano nati e cresciuti nel medioevo col favore di una chiesa imperiale ed ora a questa chiesa imperiale si contrapponeva una chiesa papale che pretendeva entrare capillarmente anche nelle istituzioni monastiche. Quando non si pensi che il rimuovere dal suo ufficio un abate ad un superiore religioso, poteva essere dettato anche da mire più umane, da intrighi suggeriti dall’ambizione, avidità ed invidia. Trattandosi specialmente di monasteri di una certa rilevanza economica. Il movimento di riforma monastica promosso dal Concilio ecumenico Lateranense raggiunse anche il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, che allora era guidato dall’abate Guariento (1210-1237). All’inizio del pontificato di Onorio III (1216-1227) si dovette tenere in Alta Italia (Lombardia) il Capitolo generale dei monasteri benedettini in applicazione della Costituzione XII del recente Concilio ecumenico. “In ogni regno o provincia si tenga ogni tre anni, salvo il diritto dei vescovi diocesani, un Capitolo Generale degli abati (benedettini) e dei priori senza abati propri che sinora non lo celebravano”. In tale Capitolo furono prese delle decisioni comuni (statuta) da osservarsi inviolabilmente da tutti i monasteri, maschili e femminili, dell’Ordine benedettino, senza alcuna scusa, opposizione o appello. Su indicazione di questo Capitolo il Legato apostolico della Santa Sede in Lombardia aveva mandato nel 1222 due dei suoi visitatori anche al rinomato monastero di Calavena per correggere e riformare, come dice il Concilio, ciò che aveva bisogno di correzione e di riforma. Il Legato della Santa Sede in Lombardia era nel 1221 il cardinale Ugolino, dei conti di Segni, vescovo di Ostia, nipote del Papa Innocenzo III, il futuro pontefice Gregorio IX (1227-1241). Di formazione cistercense il cardinale Ugolino fu il grande protettore di san Francesco e dei movimenti francescani. I due visitatori, da lui inviati al monastero di Calavena, erano fra Ugolino da Bologna e il Padre priore di Santa Croce di Padova. E proprio costoro, con l’autorizzazione del Legato pontificio, pretendevano temerariamente di introdurre nel monastero di loro iniziativa 109 alcune nuove norme (statuta) arbitrarie o per lo meno estranee alla Regola di san Benedetto. Contemporaneamente a questo intervento dell’autorità pontificia sul monastero di Calavena, ce ne furono anche altri nei confronti del clero di Verona; proprio all’inizio del 1224 il cardinal Ugolino vescovo di Ostia aveva scomunicato alcuni preti concubinari della città e della diocesi.(1) Guariento, l’abate del monastero di Calavena, unitamente ai suoi monaci, aveva giudicato queste nuove norme (statuta) non solo arbitrarie, ma addirittura chiaramente contrarie alla Regola di san Benedetto. (2) E si rifiutò di sottomettersi alle imposizioni dei due Visitatori, i quali prima si rivolsero al vescovo di Verona Norandino, ma vista anche la sua posizione favorevole all’abate, sottoposero la questione alla Santa Sede applicando senza tante esitazioni il canone XII del Concilio ecumenico al capoverso: “Se i visitatori ritenevano che il Superiore (abate o priore) di un luogo dev’essere assolutamente deposto, lo denunceranno al Vescovo perché questi lo allontani; se questi non lo fa, gli stessi Visitatori sottoporranno la questione alla Sede Apostolica”. E così fecero. Contemporaneamente anche l’abate Guariento sottopose al papa Onorio III la questione e fece richiesta che venisse prudentemente corretto quanto era stato avventatamente imposto dai due Visitatori. Poi si rivolse al suo vescovo Norandino (1214-21 settembre 1224). Il vescovo di Verona Norandino da parte sua per mettere in posizione sicura l’abate Guariento, suo protetto, in data 4 aprile 1223 gli rilasciò questo preciso e solenne decreto sull’autonomia amministrativa e religiosa dell’abate nel suo monastero. “Atto stipulato nel palazzo vescovile di Verona alla presenza dell’abate Riprando del monastero di San Zeno maggiore, del maestro Castellino cappellano del Vescovo, dell’arciprete della Congregazione dei sacerdoti della città di Verona, dell’arciprete della Pieve di Grezzana e di altri testimoni. Il vescovo Norandino su proposta e richiesta dell’abate Guariento del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, assieme al suo consiglio, confermò e rese ancor più stabile con la sua autorità “pontificale” la donazione delle Decine fatta all’abate Simeone dal vescovo Riprando nel 1188 e da Norandino stesso confermata nel 1215. _________________________________________________________________ (1) Storia del Pighi Vol. II pag. 75 (2) Biancolini V, 2, pag.124 110 E per di più lo stesso vescovo Norandino, in tale occasione, nominò ufficialmente l’abate Guariento quale suo rappresentante e procuratore con la stessa potestà del vescovo, nell’ambito della conduzione religiosa ed amministrativa del suo monastero. Atto scritto dal notaio Ognibene del Brolo l’anno del Signore 1223, 4 aprile.” (1) Un mese dopo questo atto pubblico del vescovo di Verona Norandino, da Roma in data 4 maggio 1223 è spedita dal papa Onorio III, la disposizione che istituiva una Commissione d’inchiesta sul monastero di Calavena formata dall’anziano vescovo emerito di Verona il cardinale Adelardo (morto nel 1225), dall’abate Vallombrosano della Santissima Trinità e dal priore Viviano II del Canonicato di san Giorgio in Braida. “Costoro dovevano recarsi di persona al detto monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena ed informarsi con discrezione per conoscere la verità intorno alle arbitrarie innovazioni introdotte e di decidere alla fine ciò che a loro sembrava giusto e regolare. Se non fossero riusciti a far ciò assieme, decidesse il vescovo cardinale Adelardo con uno degli altri due, ponendo così termine alla confusa situazione. Il papa li incaricava inoltre di sancire la loro finale decisione con la scomunica o censura ecclesiastica a coloro che si fossero ribellati.” (2) La commissione pontificia formata dai tre incaricati di Verona dovette lavorare a lungo per giungere ad una decisione finale e definitiva. Anche se non si conosce l’esito dell’inchiesta, le cose furono appianate in senso positivo, permettendo all’abate Guariento di uscire indenne dai guai in cui l’avevano messo la denuncia dei due Visitatori e del Legato pontificio. L’abate rimase costantemente al suo posto esercitando la sua piena autorità amministrativa. Ci sono atti pubblici da lui stipulati nell’ottobre del 1224 (3); nel marzo del 1226 (4); e nel marzo del 1229 (5). Ma ad essere colpita fu la comunità religiosa dell’abate Guariento. Resta fuori discussione che l’intervento dell’alta Gerarchia romana colpì gravemente la comunità benedettina del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. La consistenza numerica della comunità monastica si abbassò subito da dieci a cinque componenti, fu cioè dimezzata. Così si presenta nel 1229: con l’abate Guariento ci sono Giovanni da Monte prete, Stefano prete, Rodolfo diacono permanente e Discepolo monaco.(6) ___________________________________________________________________ (1) Biancolini V, 2, pag. 123 S.NC. perg. 191 del 1224 (2) Biancolini V, 2, pag. 124 (3)S.NC. Perg . 555, (4) perg . 883, (5) perg. 884 (6)S.NC. perg.884 111 Alla conclusione di questa vicenda di riforma, che mise per sempre in crisi la comunità monastica di Calavena, ci si domanda quale fosse il motivo principale dell’intervento pontificio, quale fosse cioè il contenuto delle nuove norme (statuta) imposte con forza dai due visitatori. All’abate Guariento e alla sua comunità non si può rimproverare certo qualche deviazione ereticale, forse neppure una certa rilassatezza nella vita monastica riguardo al cibo e ai digiuni, come l’astenersi dal lardo il mercoledì e il venerdì e dalle carni il sabato, oppure alla comodità del letto e del vestire di lana. Ma si trattava di fondamentali questioni di riforma, favorite dal pontefice stesso Onorio III (1216-1227) e portate avanti poi dal suo successore Gregorio IX (1227-1241). Si trattava in ultima analisi di aggiornare, con prudenza e con discrezione, come dice il papa Onorio III, l’antica e veneranda Regola dei monasteri di san Benedetto con la Regola dei santi Domenico e Francesco. E questo era veramente rivoluzionario. La Regola di san Benedetto era stata approvata fin dall’inizio (550) dai Pontefici come l’unica regola monastica della Chiesa, ed ora invece la chiesa sembrava misconoscere questa secolare priorità a favore di altre Regole più recenti e malsicure. Solo per un estraneo l’opporsi ad una riforma può sembrare questione di quieto vivere, ma in realtà è questione di coerenza di chi vuol essere monaco sul serio, secondo i voti emessi in una determinata Regola. Ciò che sconvolse la compagine benedettina fu la spinta federativa, originata dai Capitoli generali degli abati benedettini. Questa istituzione conciliare è presentata come l’unica novità in senso assoluto dal Concilio stesso. La nuova norma, che portava a scadenze precise i singoli monasteri autonomi ad un confronto reciproco per riformarsi, era oggettivamente la giusta via per rinnovare e riformare la vita religiosa tradizionale. Ma questo l’abate Guariento non lo intuì, anzi vi si oppose, legato alla tradizione secolare della piena autonomia dei singoli monasteri. Il suo errore fu quello di temere di perdere la sua posizione paterna, venendo meno alle sue responsabilità di abate e mettendo in pericolo l’integrità del grande patrimonio monastico. Si ha l’impressione che egli non abbia neppur voluto partecipare al Capitolo generale. Il movimento federativo fu osteggiato personalmente dall’abate Guariento anche per altre ragioni. Innanzi tutto quella politica. In una situazione politica quanto mai agitata a causa di Papi estremamente energici, di un imperatore come Federico II ed un vicario imperiale quale Ezzelino da Romano, l’abate Guariento, che non amava 112 certamente l’avventura, dovette rimanere ligio alla linea tradizionale di fedeltà all’Imperatore. L’abate Guariento temeva l’intromissione nel suo monastero di tendenze antimperiali attraverso la presenza di monaci di altre città autonome con altri orientamenti politici. In particolare dovette guardare con diffidenza gli atteggiamenti guelfi della vicina città di Vicenza sobillata da Padova. Il più antico monastero di quella città, il monastero benedettino dei santi Felice e Fortunato, si fa presente in un documento del 1224 riguardante il monastero di Calavena nientemeno che con un monaco, Rainaldo, che diventerà poco dopo l’abate di quel monastero (1227-1249). (1) E guarda caso proprio in quel periodo il monastero benedettino di san Felice di Vicenza conosce, a differenza di quello dei santi Pietro e Vito di Calavena, una crescita numerica ed economica. Col pretesto della riforma religiosa quanti altri accomodamenti si potevano fare! Qui non si può dimenticare un certo accanimento di controllo da parte del papa Onorio III sulla città imperiale di Verona. Morto il vescovo Norandino il 21 sett. 1224, questo pontefice impose di sua autorità quale vescovo il vicentino Jacopo di Breganze (Vi) – 1225-1252-, deponendo subito il filo imperiale Alberto, già arciprete dei canonici della cattedrale di Verona.(2) Altre ragioni di carattere più immediato potevano preoccupare l’abate Guariento, in particolare il futuro impoverimento della sua comunità. I rischi di una riforma affrettata sono sempre imprevedibili. Questo intervento che rientrava pienamente nelle direttive di riforma monastica del grande Concilio ecumenico Lateranense IV (1215) non favorì nella comunità la crescita numerica di sacerdoti monaci, anzi le inflisse una brutta ferita. Parlando genericamente bisogna dire che altri ideali monastici attiravano la gioventù: il santo dottore Domenico e il fascino di Francesco, il poverello di Assisi. Un calo naturale quindi di vocazioni sacerdotali benedettine. ___________________________________________________________________ (1) S.NC. perg.555 (2) Pighi vol. II pag. 76 113 Si può pensare anche a qualche defezione causata dal Concilio ecumenico. Ma queste motivazioni non sono sufficienti. Nella comunità monastica dei santi Pietro e Vito di Calavena si constata dopo il 1224 specialmente un’improvvisa diminuzione di sacerdoti. La prima comunità del 1068 era composta di otto membri: con l’abate Bono, che era per regola sacerdote, c’erano altri sei sacerdoti e un suddiacono. Tutti erano anche monaci: quindi preti e monaci. Nella comunità storicamente più numerosa, quella del 1204, composta di dodici membri, c’erano quattro preti, sei monaci, un chierico e un maestro muratore. (1) Oltre a ciò si constata che dopo l’intervento del 1224 nessun monaco venne più ordinato né prete né diacono. L’ultimo monaco ordinato fu il futuro abate Stefano, nelle ordinazioni della Pasqua del 1224. Forse il Concilio ecumenico, imponendo un ritorno allo spirito benedettino delle origini, limitò le ordinazioni sacerdotali al minimo necessario, in modo che le comunità monastiche, diventate col tempo comunità clericali, ritornassero ad essere comunità composte prevalentemente di monaci benedettini. I sacerdoti poi che già erano stati ordinati - erano in cinque - dopo il 1224 furono distribuiti in altri monasteri benedettini, secondo le esigenze pastorali. Tempi nuovi danno origine ad istituzioni nuove. E se le vecchie istituzioni religiose credono di rinnovarsi ritornando alle loro origini, in realtà in questo modo accelerano la loro morte. Dovette essere questa la convinzione dell’abate Guariento che scomparve dalla scena di un mondo religioso e politico ormai incomprensibili per lui. Un papa energico, Gregorio IX (1227-1242), poco attento ai problemi concreti; un’imperatore idealista Federico II (1220-1250), abile e spregiudicato; un tiranno in Verona, Ezzelino da Romano (1226-1259), efferato sanguinario senza scrupoli: c’era solo da sperare tristemente in un mondo del tutto nuovo, che egli auspicava per il suo successore, il giovane monaco e sacerdote Stefano. ___________________________________________________________________ (1) S.NC. perg. 372 114 NOTA 1 L’abate Clemente (1224-1237) con ogni probabilità non è mai esistito. E’ nato da un’erronea lettura della pergamena n°. 555: Clemens invece di Dominus. Lettura iniziata dall’archivista veronese Lodovico Perini e seguita da Giambattista Biancolini. Perciò viene tolto dalla serie degli abati del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Abate resta il signor Guariento (1210-1237), il quale oltre che nella pergamena 555 del 1224 viene nominato certamente in una del 1229 (perg. n°. 884) e forse anche in un’altra del 1226 (perg. n. 883). NOTA 2 Osservazioni sulle comunità 1) Dopo l’intervento di Roma dell’estate 1224 nessuno più dei monaci è ordinato sacerdote. Stefano ordinato nella Pasqua del 1224 è l’ultimo dei monaci ordinati. Dopo la morte di Guariento (1236) egli sarà eletto abate e avrà in comunità solo un sacerdote Giovanni da Monte che era già sacerdote nel 1200, e poteva quindi avere circa 60 anni. Giovanni da Monte, chiamato prete converso, potrebbe essere il primo cappellano ufficiale della chiesa di san Vito. 2) Alla morte dell’abate Stefano, 1263, il sacerdote Giovanni da Monte, se era ancora vivo(!), poteva avere 88 anni e quindi non poteva essere eletto abate (troppo vecchio!), anche se era un sacerdote. Venne eletto Porcilano, un sacerdote monaco di altro monastero, se almeno l’abate doveva essere prete. 3) Rodolfo, monaco nel 1203 e 1206, è diacono nel 1211, 1215 (bis), 1229. Si presenta come un monaco diacono permanente. 4) Per oltre 20 anni, dal 1225 – 1247, nella comunità dei monaci non fu ordinato nessun prete. Non solo, ma vi rimasero come preti l’abate Stefano ed uno che era stato ordinato già nel 1200, Giovanni da Monte, che nel 1244 è detto “converso”. Gli altri cinque preti dov’erano andati a finire? Galiciano prete, Murio prete, Cogollo prete (ordinato nel 1211), Alberto prete e il priore Gennaro! 115 NOTA 3 Prospetti delle comunità dal 1068 al 1285 Prima comunità 1068 Bono abate Giovanni prete e monaco Auvenzio prete e monaco Lazaro prete e monaco Domenico prete e monaco Gisolfo prete e monaco Martino prete e monaco Domenico suddiacono e monaco B:C:Vr. Perg.1,5 Comunità dell’abate Rodolfo 1174 febbraio Rodolfo abate Martino Romano Gilberto Zeno Rainaldo Boninsegna Pellegrino S.NC. perg.548 Comunità dell’abate Simeone 1200 aprile Simeone abate Giovanni prete Gennaro prete Guariento prete (?) Cogollo monaco Geremia monaco Alberto prete S.NC. perg.185 1203 febbraio Simeone abate Gennaro priore Giovanni prete Cogollo diacono Lanfranco monaco 116 Rodolfo monaco Guariento monaco Geremia monaco Enrigeto monaco S.NC. perg.371 1204 gennaio Simeone abate Gennaro priore Galiciano prete Alberto prete Geremia monaco Cogollo diacono Guariento monaco Rodolfino monaco Lanfranco chierico Corrado muratore Lanfranco monaco Giovanni prete S.NC. perg.372 1205 agosto Simeone abate Gennaro priore Giovanni prete Galiciano prete Guariento diacono Cogollo diacono Murio Geremia monaco Liaciaro chierico S.NC. perg.551 1206 maggio Simeone abate Murio prete Giovanni prete Cogollino diacono Guariento diacono Rodolfo monaco Geremia monaco S.NC. perg.373 117 Comunità dell’abate Guariento 1211 aprile Guariento abate Gennaro priore Galiciano prete Murio prete Cogollo prete Rodolfo diacono Discipulo monaco Liaciaro monaco chierico S.NC. perg.190 1211 novembre Guariento abate Gennaro priore Murio prete Cogollo prete Galiciano prete Rodolfo monaco Discipulo monaco S.NC. perg.374 1212 febbraio Guariento abate Gennaro priore Murio prete Galiciano prete Cogollino prete Rodolfo monaco Rimello monaco Discipulo monaco Corrado converso Lorenzo converso Morando converso Pietro converso S.NC. Perg.553 1215 gennaio Guariento abate Gennaro priore Murio prete Cogollo prete 118 Galiciano prete Giovanni da Monte prete Rodolfo diacono Stefano monaco Giovanni da Mezzane monaco Discipulo monaco Corrado monaco S.NC. perg.375 1215 settembre Guariento abate Cogollo prete Galiciano prete Giovanni da Monte prete Rodolfo diacono Giovanni da Mezzane monaco Discipulo monaco Corrado monaco cementario S.NC. perg.881 1220 gennaio Guariento abate Gennaro priore Galiciano prete Giovanni da Mezzane monaco Stefano monaco Magrino monaco Corrado monaco muratore Giovanni da Monte prete S.NC. perg.1273 Lodovico Perini scrive: 1220 – Wariento abate con otto tra monaci e conversi, ut in documentis apud moniales sancti Spiritus Veronae. 1221 giugno Guariento abate Gennaro priore Galiciano prete Giovanni da Monte prete Stefano monaco 119 Giovanni da Mezzane monaco Corrado monaco Discipulo monaco S.NC. perg.1274 1224 febbraio Guariento abate Gennaro priore Galiciano prete Giovanni da Monte prete Rodolfo monaco Giovanni da Mezzane monaco Stefano monaco S.NC. perg.1276 1224 ottobre Guariento abate Gennaro priore Galiciano prete Giovanni da Monte prete Stefano prete Giovanni da Mezzane monaco Dumreolo monaco Viacardo monaco S.NC. perg.555 1229 marzo Guariento abate Giovanni da Monte prete Stefano prete Rodolfo diacono Discipulo S.NC. perg.884 Comunità dell’abate Stefano 1244 luglio Stefano abate Giovanni da Monte prete Giovanni da Mezzane monaco Salvadio monaco Costantino monaco perg.377 120 1244 novembre Stefano abate Giovanni da Mezzane Costantino Salvadio Discipulo Giovanni da Monte converso 1247 marzo Stefano abate Giovanni prete Giovanni da Mezzane monaco Discipulo monaco Salvadio monaco Costantino monaco 1250 febbraio Stefano abate Salvadio monaco Giovanni monaco Costantino monaco perg.341 perg.885 perg.342 Comunità dell’abate Porcilano 1280 marzo Porcilano abate Diodato prete Bonaventurino monaco Bonaventura monaco Giacomo monaco perg.345 data incompleta Porcilano abate Teio Bonaventura di Berardo Giovanni dei Trufaldi Bonaventura Banterii Perg.340 121 L’ABATE STEFANO 1237-1263 Nel 1237 fu eletto abate del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena il signor Stefano sacerdote. (1) Il monaco Stefano era stato membro della sua comunità benedettina fin dal 1215. (2) Nella Pasqua del 1224 era stato ordinato sacerdote (3) ed ora la sua comunità l’aveva eletto abate, secondo le norme della Regola di san Benedetto. All’età di quarant’anni era forse il più giovane componente della sua comunità. Tempo di grandi sconvolgimenti politici quello dell’abate Stefano, ma anche di grandi santi! Il Papato con Innocenzo III stava prendendo il sopravvento, anche in Verona, sull’Impero. E i grandi santi erano: - san Domenico (1170-1221), - sant’Alberto magno (1206-1280), - san Tommaso d’Aquino (1221-1274), - san Francesco d’Assisi (1182-1226), - santa Chiara d’Assisi (1193-1253), - san Bonaventura (1221-1274), - sant’Antonio di Padova (morto nel 1231), - san Luigi di Francia (1214-1270) - santa Elisabetta d’Ungheria (1207-1231), - san Pietro da Verona (1205-1252), - san Facio di Verona (1196-1272). ____________________________________________________________________ (1)Biancolini V, II, pag.112 (2)SNC. Perg.375 (3)SNC. Perg.555 122 Il primo problema che dovette affrontare il giovane abate Stefano fu quello del rinnovamento della vita monastica, che aveva amareggiato gli ultimi anni di vita del suo predecessore, l’abate Guariento. La grande riforma della vita monastica benedettina, secondo le direttive conciliari, era chiaramente favorita e promossa dalla Chiesa: dai pontefici Onorio III e Gregorio IX, ed in Verona specialmente dal vescovo Jacopo di Breganze (Vicenza) di sicura elezione pontificia (1225-1252). Gli interventi pontifici, iniziati nel 1224, sul monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, avevano ridotto stabilmente di metà il numero dei suoi componenti: da dieci a cinque componenti. La spinta principale al rinnovamento della Regola benedettina proveniva dalla città: specialmente dal monastero benedettino dei santi Nazaro e Celso. Il monastero dei santi Nazaro e Celso doveva trovarsi in grave crisi vocazionale: nessuno più in città si faceva monaco. (1) Anche l’economia non navigava in buone acque. Ed allora questo monastero per non morire si mosse su due direzioni: un rinnovamento secondo lo spirito degli Ordini mendicanti alla luce del grande Cassiano (360-435), ed una esigenza federativa con altri monasteri benedettini locali, caldeggiata dal Concilio ecumenico (1215), per prendere da essi energie nuove di persone e di mezzi economici. L’iniziativa di rinnovamento del monastero dei santi Nazaro e Celso era già partita dal suo abate Obizone (1196-1207) ancor prima del Concilio ecumenico. Quest’abate benedettino nel 1206 aveva dato in concessione ad un certo fra Dalegno di Pressana (Verona) dei minimi di san Francesco, la chiesa di san Cassiano di Mezzane, con l’annesso conventino allo scopo di istituirvi una comunità mista di undici persone tra frati e suore: un vivaio vocazionale fuori città. (2) In questa chiesa, sorta sui colli, doveva come aleggiare lo spirito del grande Cassiano (360-435). Giovanni Cassiano, originario dall’Oriente (Romania), giunse nel territorio di Marsiglia (Francia) nel 415 e fu detto anche Marsigliese. Carico d’una vasta esperienza monastica d’Oriente, quivi incominciò la sua attività fondando due monasteri, uno maschile ed uno femminile. Solo più tardi, su richiesta del vescovo di Valchiusa (Francia) Castore, egli scrive le Istituzioni sulla vita dei cenobiti e le Conferenze dei padri del deserto. Queste due opere lo resero famosissimo in tutta la storia del monachesimo occidentale. ___________________________________________________________________ (1) Biancolini V, 2, pag. 58 (2) Biancolini V, 2, pag. 141 123 Non si poteva pensare ad un rinnovamento dei Benedettini senza rivolgersi alle sue idee ascetiche e mistiche, perché anche san Benedetto da Norcia (480-547) aveva attinto ad esse. La nuova e moderna comunità di san Cassiano di Mezzane, come era prevedibile, si trovò ben presto costituita in prevalenza da donne, da suore. I pochi frati evidentemente non si trovavano a loro agio, anche perché si potevano creare situazioni simili a quelle descritte poi in qualche novella del Decamerone di Giovanni Boccaccio. L’abate Stefano del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, all’inizio del suo incarico abbaziale, si adoperò per chiarificare la situazione ed assieme al suo collega l’abate Bonifacio (1224-1260) dei santi Nazaro e Celso, fece in modo di separare l’abitazione delle due comunità, maschile e femminile. Così sappiamo che nel 1240, proprio davanti alla chiesa di san Cassiano di Mezzane, venne deciso di costruire non lontano una seconda chiesa dedicata a san Gregorio Magno con un annesso romitorio per dare spazio ai tre frati che vivevano con le nove suore a san Cassiano: al sacerdote Enrico monaco e ai due conversi Massario e Avanzio. L’abate Stefano del monastero di Calavena, con licenza del venerabile signor Jacopo di Breganze, vescovo di Verona, pose la prima pietra di questa costruzione e cioè piantò una croce su un monte a pascolo di proprietà un tempo della chiesa cittadina di san Paolo in Campo Marzio, chiesa legata al monastero dei santi Nazaro e Celso. Questo monte a campo erboso, con tutta probabilità è il monte Guala. (1) Di questo progetto di rinnovamento monastico dell’abate Stefano assieme al collega Bonifacio oggi non è rimasto che il ricordo nella Croce del Guala. E ancora poco dopo, il 13 aprile 1241, l’abate del monastero dei santi Nazaro e Celso Bonifacio, prima di venir esiliato da Ezzelino da Romano (1243), con l’approvazione del vescovo di Verona Jacopo di Breganze, affidò in perpetuo la comunità religiosa di san Cassiano di Mezzane, prevalentemente femminile, non ad un frate ma ad una Donna, alla celebre badessa Sofia eremita di san Massimo di Verona, con tutti i poteri spirituali e giuridici che prima spettavano a lui. (2) Suor Sofia, che proveniva da un’esperienza di vita eremitica, era persona di stimata spiritualità: ad una donna così si poteva anche voler bene. In pieno accordo con l’abate Stefano, la comunità di san Cassiano, femminile e maschile, prese la Regola e l’abito di san Benedetto. (3) Se frate Francesco aveva vicina suor Chiara, anche suor Scolastica sapeva parlare confidenzialmente con il fratello san Benedetto. ____________________________________________________________________ (1) Biancolini III pag. 281 (2) Biancolini V, 2 pag. 143 (3) Biancolini II, pag. 734 e V, 2, pag.143 124 Par di respirare le prime dolci aure stilnoviste. Per il servizio liturgico vi rimase il sacerdote Enrico monaco. (1) E per gli affari pubblici un priore. (2) L’abate Stefano sembra che abbia fatto in modo che la comunità femminile e maschile di san Benedetto, guidata dalla badessa Sofia, potesse avere un ambiente adatto alla sua vita monastica, togliendo a tutti l’occasione a malevoli dicerie. Qualche anno dopo, nel 1247, furono accolti dalla badessa Sofia, come componenti della comunità, due sposati di Centro, Vicardo e Peura marito e moglie. (3) L’abate Stefano si trovò implicato anche in vicende politiche del suo tempo. La scena contemporanea al periodo di governo dell’abate Stefano era quanto mai turbolenta. Tempi di capovolgimenti politici e di gravi disordini morali e istituzionali. Verona alla fine rimase scomunicata per undici anni: dal 1267 al 1278. Verona, città e provincia, era ormai totalmente caduta sotto il dominio del prepotente Ezzelino da Romano (1201-1259). Questo primo Signore della città di Verona era uomo di pochi scrupoli morali e religiosi. Nel 1221 Ezzelino, sconfitto il partito guelfo dei conti di San Bonifacio, veniva proclamato duce, capitano supremo e podestà di Verona. Opera geniale di questo periodo è il Primo statuto veronese (1228), carta fondamentale delle leggi del Comune di Verona. Dichiarato nel 1230 Vicario imperiale in Italia da Federico II, Ezzelino sconfisse tutti i suoi avversari guelfi. E’ del 1233 la distruzione del castello di Caldiero sul monte Rocca. Nuovamente dichiarato Vicario perpetuo dell’Impero nel 1237 dall’imperatore Federico II (1220-1250), Ezzelino, sulle orme empie e sacrileghe del suo grande protettore, si mise a conquistare con la violenza e con la guerra città e paesi dell’Alta Italia per crearsi, col favor dell’Imperatore, uno stato su cui dominare a modo suo. Così nel 1243 occupò anche il castello d’Illasi e ne fece sua dimora. Ancora nel 1243 mandò in esilio l’abate del monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso, Bonifacio, espropriandolo di tutti i suoi beni. Fu in questi anni che un bel giorno il buon abate Stefano si vide recapitare un plico di lettere con l’intestazione, il timbro e la firma niente meno che del venerabile padre signor Ottoboni per grazia di Dio diacono Cardinale di santa romana Chiesa. __________________________________________________________________ (1) Biancolini V, 2, pag. 144 (2) S. Maria in Organo perg. 832 (3) Biancolini V, 2, pag. 144 125 Con queste lettere ufficiali il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena veniva spogliato dei cospicui beni che possedeva nel territorio d’Illasi: la chiesa di sant’Andrea d’Illasi con la casa monastica e gli altri possedimenti annessi; il grande Mulino che aveva nel territorio d’Illasi a Cazzano di Tramigna; la chiesa di san Pietro nel comune di Gusperino con le terre e i vigneti e le possessioni del detto comune e della detta chiesa. (1) La cosa dovette sembrare credibile a quei tempi in cui i nuovi Ordini mendicanti, Francescani e Domenicani sempre più numerosi, venivano autorizzati dall’autorità della Chiesa ad occupare i vecchi monasteri ormai vuoti dai monaci benedettini. Come avvenne nel 1261 della chiesa e monastero di san Fermo Maggiore in città, che i Benedettini dovettero cedere ai Frati minori di san Francesco. Non c’è nessuna protesta immediata contro questo sopruso. Ma a chi si poteva fare ricorso e con quali rischi? Si voleva la fine del monastero di Calavena? In compenso l’abate Stefano dovette premunirsi in tutti i modi per salvaguardare con precisione giuridica tutto il patrimonio del suo monastero. Quest’azione di difesa appare evidente nei riguardi del comune di Cogollo, che per la compera dal 1162 faceva ormai parte integrante del territorio allodiale del monastero. E’ quanto si può rilevare in due documenti notarili dell’anno 1253. In quell’anno l’abate Stefano impose e portò a termine, a scanso di ogni rischio, la completa struttura amministrativa sul comune e sugli abitanti di Cogollo. Cogollo viene nominato già nel 1207 assieme a Tregnago e a Marcemigo come uno dei primi comuni rurali della Calavena che si erano affrancati dal potere ecclesiastico: questo era avvenuto per l’accordo tra il vescovo Adelardo e il podestà di Verona Azzone d’Este. Ma mentre l’applicazione di questo accordo poteva essere semplice per i comuni di Tregnago e di Marcemigo, perché erano in tutto dipendenti dall’autorità ecclesiastica della Pieve di Tregnago, per Cogollo le cose erano più complicate. Il castello ed il paese di Cogollo, assieme alla chiesa di san Vitale, erano stati comperati ancora nel 1162 da parte dell’abate Rodolfo. Compera dichiarata totale dal vescovo Ognibene nel 1169. Perciò il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena aveva sul comune rurale di Cogollo tutti i diritti civili: quelli di giurisdizione e quelli dell’onore dovuto all’autorità. In forza di questi principi il Vicario civile della Calavena, che il comune cittadino mandava nei comuni rurali, aveva autorità su Tregnago e su Marcemigo, ma non su Cogollo. _______________________________________________________________ (1) Biancolini V, 2 pag: 125 126 Certamente anche Cogollo aveva il suo vicario o podestà, ma esso veniva eletto dall’abate, dal suo capitolo e dalla comunità monastica del monastero di Calavena. In un documente notarile del 1253 il vicario del comune di Cogollo, già eletto dal signor abate Stefano e dai suoi frati del monastero di Calavena per i diritti di giurisdizione e di onore che essi detenevano nel comune di Cogollo, era il signor Mancinessio fu Salneto di Mezzane. “Dunque il signor vicario Mancinessio alla presenza e per ordine verbale dell’abate Stefano, costituì il notaio Allegrino quale suo aiutante (assessore) nell’incarico vicariale.” (1) Qualche mese dopo il 31 agosto 1253 lo stesso Mancinessio fu Salneto di Mezzane in qualità di vicario del comune di Cogollo, elegge con atto notarile per conto dell’abate Stefano del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, alla presenza del signor Giovanni monaco converso (il futuro abate Giovanni), i sei saltari (=guardie) del comune di Cogollo: Ventura di Zenaro, Pellegrino di Almenarda, Giovanni di Zenaro, Liaciaro di Tanissio, Zenone di Pietro e Bruno di Manfredino. Ad essi è fatto obbligo, su giuramento, di sorvegliare, controllare e denunciare al Vicario tutto ciò che può accadere contro gli statuti suoi e del “monastero di Calavena”. (2) Con l’abate Stefano quindi il comune di Cogollo si presenta totalmente dipendente dal potere del monastero di Calavena: è una parte integrante del suo feudo monastico. In questo modo nessun appiglio giuridico permetteva al potere civile d’intromettersi negli affari di Cogollo. Intanto il feroce ghibellino Ezzelino da Romano sul finire del 1259 veniva sconfitto dalla Lega dei suoi nemici Guelfi. Morì di rabbia e scomunicato. Ed allora l’abate Stefano dovette darsi le mani d’attorno per recuperare, per quanto si poteva, i beni del monastero usurpati nel comune di Gusperino e di Illasi. Questo paziente lavoro di domande, di dichiarazioni, di ricerca di documenti avrà il suo pieno successo solo qualche mese dopo la sua morte, avvenuta all’inizio del 1263. Sarà il suo successore, l’abate Porcilano, ad essere integrato, il 10 maggio 1263, nel possesso di tutti i beni usurpati ad Illasi e a Gusperino. Così si chiude il periodo di governo tanto travagliato dell’abate Stefano. ____________________________________________________________ (1) SNC. perg. 378 (2) SNC. perg. 379 127 Sono 26 anni di intelligente e cauta azione religiosa e politica, che salvò dalle acque burrascose di quei tempi (1230-1270) il suo caro monastero. Dopo il grande abate Simeone, l’abate Stefano si presenta come il più umano e simpatico. Sua caratteristica doveva essere la mitezza d’animo unita alla fortezza di carattere. Nel cuore dei giusti splende la carità di Dio. Piace ricordarlo assieme alla sua affezionata comunità degli anni migliori: il signor abate Stefano con i suoi cinque fratelli monaci e cioè il signor Giovanni da Monte, il signor Giovanni da Mezzane, il signor Discipulo, il signor Salvadeo, il signor Costantino.(1) ___________________________________________________________________ (1) SNC. perg. 377 e perg. 341 128 L’ABATE PORCILANO ( 1263-1281) A Stefano succede come abate del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena il signor don Porcilano. Questa successione non appare del tutto regolare, perché il signor Porcilano non è presente in nessun dei diversi documenti come membro della comunità. Purtroppo alla morte dell’abate Stefano nella comunità dei suoi monaci c’era un solo monaco prete, Giovanni da Monte, vecchissimo, se era ancora vivo, perché era già sacerdote nell’anno 1200. (1) La Regola imponeva che l’abate fosse prete e quindi la comunità monastica si trovò nella necessità di scegliere come suo abate un prete estraneo alla comunità: il signor Porcilano sacerdote, che era probabilmente un prete diocesano. L’abate Porcilano, all’inizio del suo incarico abbaziale, ebbe la consolazione di vedersi restituiti tutti i suoi beni d’Illasi usurpati con false scritture. Questo fu facilitato certamente dalla morte di Ezzelino da Romano, avvenuta alla fine del 1259. La restituzione con consegna, anche nel documento notarile, è descritta in modo solenne. “L’anno del Signore 1263, martedì 10 maggio, nella chiesa di Sant’Andrea d’Illasi del monastero di Calavena, alla presenza di cinque testimoni qualificati, il signor Guido della Scala, arciprete della Congregazione del clero cittadino di Verona, rimise il signor Porcilano, per grazia divina abate del monastero di Calavena, in possesso della chiesa di Sant’Andrea d’Illasi e delle Case della stessa, che appartenevano al monastero di Calavena e delle quali il monastero era stato spogliato con false scritture. Gli fece questa restituzione in modo solenne: ricoprendo l’altare della chiesa di Sant’Andrea con le sue tovaglie di lino, ed aprendo e chiudendo con la chiave di ferro la porta della chiesa e così pure la porta della Casa del priore della stessa. Indicando con questo rito anche la restituzione delle altre case e possedimenti che erano ad Illasi, appartenenti al monastero di Calavena. ____________________________________________________________ (1) SNC. perg. 184 129 Poi nello stesso giorno, alla presenza degli stessi testimoni, il detto signor Guido della Scala rimise il detto signor Porcilano in possesso dei Mulini siti ad Illasi ed appartenenti al monastero di Calavena: con la cerimonia di aprire e di chiudere con la chiave di ferro la porta della casa di questo grande Mulino. Sempre nello stesso giorno, alla presenza degli stessi testimoni, il suddetto signor Guido della Scala rimise l’abate Porcilano in possesso della chiesa di San Pietro di Gusperino, contrada che si trova nel territorio d’Illasi, delle terre, dei vigneti e dei possedimenti che si trovano in detta contrada ed intorno alla detta chiesa: con il semplice rito di mettere nelle mani del signor Porcilano pezzi di pietra della chiesa, una manciata di terra e delle foglie delle vigne.” (1) Questa restituzione è segno della situazione politica cambiata in Verona. Nel 1262 ha inizio storicamente la signoria Scaligera, a cui l’arciprete Guido della Scala doveva in qualche modo appartenere. Durante il governo del signor abate don Porcilano, al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena viene espressamente conferita la qualifica giuridica di “abbazia di san Vito di Calavena”. Due atti amministrativi del 3 dicembre 1273 sono stipulati dal signor don Porcilano, abate del monastero di Calavena, “nel monastero dell’abbazia di san Vito di Calavena”. (2) E’ la prima volta che ricorre questa distinzione tra monastero ed abbazia con le rispettive denominazioni. Questo fa capire che l’abate Porcilano s’impegnò a salvaguardare l’autonomia completa del suo monastero e del suo territorio dal potere civile e laico. Nel tempo in cui in Verona si stava imponendo una stabile sistemazione politica con l’inizio della signoria Scaligera (1262) e dovunque nascevano diversi stati autonomi, grandi o piccoli che fossero, legati all’autorità di un signore, anche i monasteri di antica tradizione rivendicarono la loro piena autonomia signorile. Non è da escludere che si trattasse anche dell’applicazione di qualche decreto del Concilio Ecumenico di Lione (1245). L’abate era il signore (dominus) del suo monastero. E questo in grazia del concetto di “abbazia”, intesa come autorità signorile. L’abbazia indica fondamentalmente il potere personale dell’abate. Ed è il potere religioso, amministrativo e giurisdizionale che l’abate ha sui monaci, sul monastero e su tutto il territorio con i rispettivi abitanti. _________________________________________________________________ (1) Biancolini V, II, pag. 125; perg. 556 (2) SNC. perg. 1278 e perg. 1279 130 Il potere signorile di un abate – l’abbazia – gli veniva conferito dalla sua comunità con la regolare elezione. Il signor don Porcilano nei documenti continuerà ad essere chiamato abate per grazia di Dio, del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena (1) o semplicemente di Calavena (2). Però il monastero è solo l’edificio monastico con le adiacenze, abitato dai monaci, mentre l’abbazia indica il dominio che l’abate ha sul territorio del monastero. Colpisce un po’ il fatto che il monastero è intitolato ai santiPietro e Vito, mentre il potere abbaziale ha come titolare solo san Vito, titolare della chiesa monastica. Il feudo monastico legato agli inizi all’idea di monastero ora passa a quella di abbazia. Il potere signorile dell’abbazia di Calavena raggiungerà la sua maturazione giuridica nel 1333 con il patto sancito solennemente tra le famiglie cimbre e il signor abate don Castellano. L’abate Porcilano dovette avere l’occasione di continuare l’opera già iniziata dal suo predecessore Stefano nei riguardi del vicino monastero di san Cassiano di Mezzane. Questo monastero di recente fondazione si trovava appena aldilà del monte Guala, confinante con le tenute della contrada Gusperino, restituite all’abate Porcilano nel 1263. Le notizie che ci restano non sono molte. Ma il vescovo di Verona Bartolomeo della Scala (1278-1290) nel 1278 unì la comunità di questo monastero benedettino doppio, e cioè di vita mista femminile e maschile, a quella, pure di frati e suore, del monastero francescano delle Maddalene in campo Marzio (in città). (3) Questa unione era stata richiesta dalla prioressa Agnese, succeduta alla badessa Sofia, in pieno accordo con il priore Antonio, a causa dello stato di deperimento del monastero di san Cassiano, a cui fu ridotto dalle guerre e da altre disgrazie e a causa del numero esiguo dei componenti: tre suore Benvenuta, Anna e Vincenzina, e due conversi Montebello e Domenico. Così nel 1284 troviamo un certo fra Bellebono priore di san Cassiano di Mezzane, che ricevette in affitto dall’abate Nicolò di santa Maria in Organo un monte a pascolo in Lessinia chiamato il Pezzo, confinante su un lato con i diritti del monastero di Calavena. (4) A questo non doveva essere del tutto estraneo l’abate Porcilano del monastero dei santi Pietro e Vito. Un aiuto economico, per quanto limitato, richiesto dal monastero di Calavena per quello più povero di san Cassiano, ora solo maschile. __________________________________________________________ (1) SNC perg. 1281 del 1279 aprile, perg. 340 (2) SNC perg. 1280 del 1279 marzo, perg. 556 maggio (3) Biancolini V, II pag. 145 (4) S. Maria in Organo perg. 832 cf. Cipolla pag. 27 131 Verso il 1290, dopo 28 anni di tranquilla conduzione del suo monastero, l’abate Porcilano esce di scena per lasciare il posto al suo successore. Con lui si conclude anche il lungo periodo d’un secolo di trasformazioni: i monasteri dell’Ordine benedettino subirono una profonda crisi, causata specialmente dalla nascita dei nuovi Ordini mendicanti, Domenicani e Francescani. Qualche monastero benedettino, specialmente femminile, non sopravvisse alla prova; altri si trasformarono accogliendo, su precise indicazioni dell’autorità ecclesiastica, necessarie innovazioni della vita religiosa; tutti subirono un calo di monaci fino a ridursi ad esigue comunità. Il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena si ha l’impressione che abbia superato in modo positivo questa crisi. Lo fa pensare l’assenza di documenti che attestino fatti deplorevoli, accaduti invece in altri monasteri, specialmente cittadini. Il numero dei componenti la comunità che si mantenne costantemente sulla cifra di cinque monaci: l’abate Porcilano con Teio da Cogollo, Bonaventura di Berardo, Giovanni Trufaldi e Bonaventura dei Barateri. (1) _________________________________________________________________ (1) SNC. perg. 340 132 L’ABATE GIOVANNI (1291-1315) A Porcilano nel 1291 successe l’abate Giovanni, che troviamo come giovane fiduciario dell’abate Stefano in un atto notarile del 1253 e poi monaco con l’abate Porcilano. (1) Il suo governo abbaziale si svolse durante un periodo di relativa stabilità politica ed ecclesiastica. E’ il periodo iniziale della signoria scaligera sulla città di Verona e sulla sua provincia (1261-1387). Gli Scaligeri adottarono una politica moderata e così si erano avvicinati, nel periodo migliore della loro potenza (1304-1351), alle linee politiche del Papato, entrando anche nelle simpatie dell’episcopato veronese. Si sa che il vescovo di Verona Teobaldo (1298-1331) fu sempre in ottime relazioni con Alberto e Cangrande della Scala. Gli Scaligeri si mostrarono attenti alle nuove fondazioni religiose: quella dei Francescani e quella dei Domenicani. Ma anche con gli antichi monasteri, di tradizione benedettina, vollero agire nella legalità e nella giustizia; raramente s’imposero con la forza e contro la legge. Proprio sotto gli Scaligeri il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena raggiunge un preciso assetto economico e politico. Anche nella vita della diocesi di Verona l’abate Giovanni ebbe la sua parte. All’inizio del suo governo, nell’anno 1295, fu chiamato a partecipare alla elezione pubblica del vescovo di Verona Bonincontro (1295-1298). Bonincontro, di formazione francescana e incaricato della raccolta delle decine per la santa Sede, divenne più tardi canonico ed arciprete del Capitolo della Cattedrale. Fu eletto vescovo (1295) nella cattedrale di Verona dall’uno e dall’altro clero - della città e della diocesi sì secolare che regolare -, godendo allora gli Ecclesiastici la prerogativa della elezione dei loro vescovi, i quali ricevevano poi la conferma pontificia. (2) L’abate Giovanni vi partecipò evidentemente quale rappresentante del clero regolare (religioso) della Diocesi. Appartiene al periodo dell’abate Giovanni (1291-1315) la delimitazione della proprietà allodiale dell’abbazia e l’incremento demografico del suo territorio attraverso l’immigrazione di popolazioni cimbre. ____________________________________________________________ (1) SNC. perg. 379 e perg. 340 (2) Perini Manoscritti Biblioteca civica di Vr – busta 26 133 Agli inizi del 1300 gli Scaligeri diventati vicari imperiali (marzo 1311) estesero il loro dominio economico e politico dal comune di Verona all’intera provincia di Verona. Lo fecero creando nelle terre demaniali della provincia vaste fattorie di loro competenza giuridica. Una di queste fu la Fattoria scaligera dell’Alta Val d’Illasi. E’ così denominata: “Le terre di Selva di Progno, delle Coste sopra Mezzane, del Cengio e dei Taioli”. E così vengono indicati i diritti degli Scaligeri: “Su queste terre i signori della Scala hanno tutti i diritti: gli onori, le decime, i dazi e la giurisdizione”. Si tratta di piena ed esclusiva proprietà degli Scaligeri.(1) Gli Scaligeri avevano ottenuto dall’autorità episcopale di Verona il diritto sopra le decime delle loro fattorie: ciò veniva concesso dalla Chiesa per ottenere dai Signori, diventati vicari imperiali, le conferme dei possessi e delle giurisdizioni del Vescovado. (2) Di conseguenza anche il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, che occupava un territorio senza precise delimitazioni verso settentrione e sui fianchi montani della Valle, dovette dimostrare con documenti scritti i confini della sua proprietà allodiale. Il confine meridionale era segnato dal comune di Cogollo, che dal 1253 era certamente feudo del monastero e quindi sua parte integrante. Il confine invece sugli altri tre lati – nord, est ed ovest – restavano ancora imprecisi. Gli Scaligeri occuparono quindi i terreni che circondavano il territorio del monastero e che potevano dirsi ancora beni demaniali. Innanzitutto l’illimitata Selva (disabitata) a nord del monastero: la Selva del Progno. Un documento infatti del 22 febbraio 1331 ci fa sapere che una terra del monastero sul lato settentrionale confina con i diritti dei Signori della Scala. In questa data l’abate Castellano dà in affitto per dieci anni ad Ancio di Bertoldo dalle Vacche Negre di Sprea un terreno boschivo e zappativo di 25 campi (un maso) situato sulla montagna di Sprea (il monte Asino). Questi i confinanti: a sera, Corrado fratello di Ancio anche lui conduttore sotto il monastero; a mattina Cristiano di Corrado pure conduttore del monastero; a mezzogiorno Bertoldo dalle Vacche Negre; dall’altra parte verso il monte (a tramontana) i diritti dei signori Alberto e Mastino della Scala (1329-1351). (3) ____________________________________________________________ (1) Cipolla pag.77 (2) Biancolini I pag.214 (3) SNC. perg. 209 (guasta) e busta 39, doc. 355 134 Più preciso ancora è questo documento. “Il 7 febbraio del 1343 sempre lo stesso abate Castellano, quale sindaco del monastero, affitta nella zona di Progno (Sant’Andrea) due terreni con questi confini: il torrente Progno in mezzo, la fattoria (iura) Scaligera a tramontana, e sulle altre tre parti il monastero di Calavena. (1) Più complessa dovette essere la determinazione dei confini sui fianchi montani della Valle. Questo avvenne intorno al 1311, durante il periodo appunto dell’abate Giovanni. Ecco i fatti. Il 10 luglio 1310 l’abate del monastero di Calavena, Giovanni, affitta a Bonifacio da Grepa la decima di Gamella con Gamellino, di Scandolara e di Spreacontregnago, decime appartenenti al monastero (2). Nell’anno successivo questo atto deve ottenere anche l’approvazione dei Signori Alboino e Cangrande della Scala, perché erano stati dichiarati nel frattempo (marzo 1311) Vicari imperiali da Enrico VII. Essi da Vicari imperiali quali erano, sembra che si siano autorizzati a cambiare la prassi tradizionale sulle decime. Richiedono infatti all’abate Giovanni di fornire attraverso i documenti pubblici l’elenco delle locazioni risalenti ad oltre un secolo, tempo minimo per la prescrizione di proprietà, e cioè a partire dal 10 luglio 1210 (3). Questa imposizione sottintende da parte dei due Scaligeri il principio di concedere il diritto di decima solo sulle proprietà del monastero. Ma questo diritto di proprietà il monastero non poteva provarlo per l’intera zona di Spreacontregnago. Infatti viene fatto il rilievo delle locazioni dall’anno 1210 (10 luglio) dalle scritture ufficiali e loro imbreviature. Ma il documento approvato dai Vicari imperiali a fors’anche ad essi presentato dal monastero, riporta queste località: Gamella con Gamellino, Scandolara e Spreaconromagnago (4). Come si vede, il primo elenco delle località è parzialmente corretto dal secondo: Spreacontregnago viene sostituito da Spreaconromagnago (il monte Asino e quello degli Zocchi). Segno evidente che Spreacontregnago non era mai stata proprietà del monastero, anche se da sempre a lui pagava le decime. Il territorio di Sprea sui fianchi del monte Asino era quindi proprietà del monastero e diventerà più tardi Spreaconprogno; ma il territorio che si estende lungo il crinale dei monti da Sprea fino a Tregnago diventerà proprietà degli Scaligeri o per lo meno di loro competenza giuridica. __________________________________________________________ (1) SNC. e busta 48, doc. 442 (2) A.S.V. – S.N., b. 39, doc. 355. Cfr. Carrara. Gli Scaligeri, pag. 26. (3) Cieno. I due monasteri di Badia Calavena, pag. 17. (4) Cipolla. Le popolazioni dei XIII Comuni Veronesi, pag. 65, n. 6. perg. 198 135 Questo avveniva sul fianco orientale della valle, ma lo stesso dovette avvenire anche sul fianco occidentale, dove gli Scaligeri possedevano certamente il territorio che sulle laite (coste) dei monti, univa le due contrade dal Cengio ai Taioli. (1) Dopo la definitiva caduta della Signoria di Verona - Scaligeri, Visconti e i Carraresi - sotto il dominio di Venezia (1405), i due territori periferici del feudo monastico di Calavena passarono nell’ambito dei rispettivi comuni di Marcemigo (Pernigo) e di Tregnago (la val dei Sambari). I diritti di decima su questi territori andrà evidentemente alla Pieve di santa Maria di Tregnago. Negli ultimi anni del 1200 avveniva nelle zone montane dell’Alta Val d’Illasi un fatto assai importante ed unico: l’immigrazione di popolazioni nordiche, che saranno chiamate genericamente cimbre: i Tàussi. Esse provenivano dal Vicentino, ma originariamente erano con ogni probabilità emigrate dalle sconfinate selve della Germania meridionale. Zimbar in bavarese significa boscaiolo. Ad iniziare questo movimento migratorio fu il vescovo di Verona Bartolomeo della Scala (1278-1290) che nel 1287 accolse nel territorio di Roverè Veronese i teutonici (germanici) Olderico di Altissimo (Vicenza) ed un altro Olderico vicentino. Contemporaneamente o poco dopo anche gli Scaligeri, i Signori di Verona, dovettero approfittare per le loro fattorie montane dell’abbondanza di questa facile manodopera: ci resta ancora il diploma scaligero del paese di Montecchia (allora nel Vicentino) del 20 gennaio 1300. (2) Nel territorio del monastero di Calavena il primo ad accogliere queste popolazioni straniere fu l’abate Giovanni. Il 14 dicembre 1295 l’abate Giovanni ricevette come suoi sudditi i fratelli teutonici (germanici) Enrico e Corrado, e diede loro in affitto una terra oratoria, con casa, corte, ara, orto, bosco e prato nel paese di Sprea, a determinate condizioni. (tre lire annue). (3) In calce a questo documento già nel 1500 si poneva questa nota: initium incolatus teutonicorum in Calavena e cioè inizio della presenza dei cimbri nella Calavena, l’Alta Val d’Illasi. (4) ____________________________________________________________ (1) Cipolla pag. 77 (2) Cipolla pag. 61 (3) S.NC. b. 40 doc. 159 e Perini b. 26, perg. 192 (!) (4) S.NC. b. 40, doc. 159 136 Questa popolazione straniera era gente che cercava nel mondo un posto per vivere. E qui nella Calavena lo trovarono proprio per la buona accoglienza dei monaci benedettini. Avran ricordato questi bravi frati che anch’essi un tempo avevano trovato proprio in queste terre montane un posto per vivere? Così la Calavena si dimostrava ancora una volta un luogo di accoglienza per quelle genti costrette a lasciare la terra natia. Una bella caratteristica questa tradizionale apertura ad essere la terra di tutti. Si spera non si spenga questo spirito antico. Dopo questo inizio infatti, gli atti di affitto a famiglie straniere stipulati nel chiostro del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena dall’abate Giovanni diventano sempre più frequenti. Il 15 febbraio 1301 l’abate Giovanni diede in affitto ad un certo Bertoldo soprannominato Barbaro sulla montagna di Scandolara un maso, cioè un appezzamento di 25 campi con pascoli, prati da falciare, terre coltivate ed altro. (1) Nel 1305 si contano quattro atti d’affitto: il 6 gennaio sulla montagna del Gamella (2); il 10 marzo sulla montagna della Scandolara (3); il 27 maggio altre due sulla montagna di Sprea. (4) Altre otto affittanze nel 1313, di cui sette nello stesso giorno, la domenica 11 marzo: alcune sparse sulla montagna della Scandolara e di Sprea (5), una sulla montagna del Gamella (6); infine il 25 marzo un’affittanza nella zona degli Stizzoli confinante con la val Famaora. (7) Tutti questi singoli contratti raggiungeranno una formulazione unica con il contratto conclusivo di vassallaggio del 1333, imposto dall’abate Castellano. ____________________________________________________________________ (1) S.NC. perg. 193 (2) S.NC. perg.194 (3) S.NC. perg.195 (4) S.NC. perg.196, 197 (5) S.NC. perg.199, 203, 204, 205, 206. (6) S.NC. perg.200 (7) S.NC. perg.207 cfr. Cipolla pag.65 137 Le famiglie cimbre con l’andar degli anni aumentarono di numero e d’importanza. E dovettero porre ben presto all’attività religiosa dei monaci benedettini della Calavena un problema di una certa importanza: il problema della lingua. Non c’è come il piccolo gruppo di emigrati in terra straniera che ci tenga a mantenere, per sentirsi unito in mezzo a sconosciuti, il vincolo della lingua madre con le relative tradizioni religiose e culturali. È da pensare che i monaci di Calavena di origine italiana, non conoscessero, se non casualmente, qualcosa di quello strano parlare oscuro. Però non abbiamo documenti che facciano pensare a particolari interventi del monastero al riguardo. Le difficoltà c’erano, ma dovettero essere superate con relativa facilità. I cimbri, quando furono accolti nel territorio del monastero (1295) erano già da tempo cristiani. Anche se le popolazioni germaniche erano state convertite al cristianesimo in massa, si poteva partire da questa intesa di base, la stessa fede. Per quanto riguarda la lingua cimbra non è da escludere il fatto che qualche buon cimbro in un modo o nell’altro sia entrato nella comunità dei monaci; quando anche non sia diventato prete per dedicarsi con più facilità al ministero pastorale in mezzo alla sua gente. Per questo non fa meraviglia che nei secoli successivi la lingua cimbra fosse di casa nell’ambiente dell’abbazia dei santi Pietro e Vito di Calavena. È da aggiungere anche che il monastero di Calavena preferiva come conduttori delle sue terre proprio questi emigrati per la loro onestà e laboriosità. Negli atti di affitto stipulati con queste famiglie cimbre viene espressamente vietato di vendere i diritti sui beni affittati agli antichi sudditi (vassalli) del monastero, che con ogni probabilità non avrebbero osservato gli accordi stipulati. (1) Dal numero dei contratti stipulati dall’abate Giovanni – le pergamene sono oltre la trentina – si può costatare un concentrarsi degli interessi economici verso l’Alta val d’Illasi, lasciando spazio nella parte bassa della Valle ad altre istituzioni religiose, specialmente al monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. Senza contare che stavano prendendo piede le due pievi di Colognola e d’Illasi. Gli atti amministrativi dell’abate Giovanni nell’alta Calavena superano la diecina, a Tregnago sono pochi di meno, ad Illasi sono meno di cinque. L’abate Giovanni dovette mantenere costantemente buoni rapporti di vicinato con la famiglia Scaligera e i suoi rappresentanti locali per aver lasciato, alla sua morte, il monastero così ben consolidato nei suoi diritti territoriali ed altrettanto organizzato nello sfruttamento intensivo delle sue risorse naturali. ___________________________________________________________________ (1)S.NC. busta 39,doc.355 138 L’abate Galvano 1315 – 1330 Sul finire del 1315 a Giovanni succede l’abate Galvano. Un signor Galvano è nominato in un documento amministrativo stilato a Tregnago il 17 marzo 1308. “A nome e per incarico del signor Galvano fu Frisone di san Pietro Incarnario (Verona), il frate Rocio Dalaito converso del monastero di san Giuliano di Lépia, accetta il possesso di un frutteto che si trova al Pizzolo di Tregnago”. (1) Poiché l’affare è combinato a Tregnago è facile che questo signor Galvano, amministratore del monastero femminile di Lépia, avesse qualche legame anche col monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Galvano non è mai nominato tra i componenti la comunità del detto monastero di Calavena, che regolarmente è costituita da tre monaci: l’abate Giovanni con Bonaventurino e Prando monaci e talvolta Giacomo monaco. (2) Tres monaci faciunt capitulum: tre monaci compongono il capitolo della comunità, e ciò bastava per gli atti ufficiali e pubblici. Così questi monaci dovettero eleggere il loro abate Galvano scegliendolo tra i sacerdoti della diocesi di loro conoscenza. L’opera dell’abate Giovanni trovò un degno continuatore nell’abate Galvano, anche se la documentazione durante il periodo del suo governo è scarsa. C’è un documento importante che riguarda particolarmente il territorio di Cogollo. Poco dopo la sua elezione, nel marzo del 1316 l’abate Galvano rinnova a Bonomo fu Gerardo l’investitura dell’intero feudo di Cogollo. Vengono anche nominate zone particolari di questo feudo del monastero: la zona delle Zubiane (Preare?), la Fratta e il Lago. Appartiene al feudo di Cogollo anche una zona, quella di Spino, appartenente al confinante territorio di Tregnago. (3) Questo documento è prezioso perché ci conferma l’antica appartenenza –dal 1162 – dell’intero territorio di Cogollo quale feudo al monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. Cogollo non era una proprietà allodiale del monastero, ma un suo feudo sul quale l’abate di Calavena aveva tutti i diritti: e Cogollo come tale continuava ad essere docilmente e fedelmente sottomesso all’abbazia di Calavena. (4) (1)S.NC. perg.1290 del 1308 (2)S.NC. perg.1284 del 1292; perg.1291 del 1312; perg.1293 del 1313. (3)S.NC. perg.380 (4)Nordera. Parrocchia di Cog. Pag.67 139 Di ordinaria amministrazione sono altre due investiture di terre in quel di Cogollo, Marcemigo e di Tregnago. (1) Esse confermano che questo abate non usciva dal monastero di Calavena: tutti i suoi atti pubblici sono stipulati nel monastero dei santi Pietro e Vito assieme a due monaci Prando e Bartolomeo. Era forse impossibilitato da qualche infermità senile. È del tempo dell’abate Galvano l’intervento del Vicario imperiale Cangrande della Scala (1311 – 1329) a favore di alcuni comuni della Calavena riguardante l’obbligo imposto dal comune di Verona per l’acquisto del suo sale. Il comune di Verona non solo aveva il monopolio del sale sul suo territorio, ma imponeva ai singoli comuni l’acquisto di un quantitativo di sale superiore di molto al fabbisogno: risultava quindi come una tassa ingiusta. Cangrande, vicario imperiale di Verona e Vicenza, il 31 luglio 1326 emanò un decreto, contro il comune di Verona, che determinava il numero di minali di sale che ogni comune mensilmente doveva acquistare. Risultò quindi uno sgravio fiscale per questi comuni, ritenuti poveri, della Calavena. (2) Tra di essi c’è l’intera Fattoria scaligera di Selva di Progno: con due minali di sale al mese. Ma ci sono anche alcuni comuni del territorio del monastero di Calavena: Sprea, Progno (sant’Andrea), Calavena (le vicinanze del monastero), il monte Gamella (Massalonghi), la Scandolara (la Santissima Trinità) e il Castello di san Moro: pure con due minali di sale al mese. Ad ottenere questo favore non mancò certo l’abilità diplomatica dell’abate Galvano. La Famiglia scaligera a sua volta poteva contare sulla fedeltà di questi gruppi di popolazione dislocati sui monti di frontiera. Si può aggiungere inoltre che il monastero di Calavena complessivamente fu favorevole alla Signoria scaligera, che costituiva la legittima autorità vicaria dell’Imperatore. Anche i monaci poterono contare su questo clima di reciproca concordia e collaborazione per un maggior sviluppo economico e sociale. È di questo tempo (7 settembre 1326) un altro documento attribuito a Cangrande della Scala, ma stilato intorno al 1610 e perciò dichiarato più volte falso dal tribunale di Venezia. Questo falso documento traccia i confini del territorio che Cangrande della Scala avrebbe donato al comune di Badia Calavena. In questa donazione è inclusa la valle dei Gàmbari ed escluso l’intero comune di Pernigo, oggi parti integranti del comune di Badia Calavena. (3) ___________________________________________________________________ (1)S.NC. perg.1294 e 1295 (2)Cipolla, pag.76 (3)Cipolla pag.158 140 Si ha l’impressione che l’abate Galvano non si preoccupasse molto dell’avvenire della sua comunità monastica. O forse la situazione era ormai disperata. Erano già pochi i monaci che componevano la sua comunità. E non si capisce perché li disperdesse in tanti impegni secondari ed estranei al suo monastero. Forse non c’era che da rispondere giorno per giorno alle richieste immediate. Lo si dice questo perché nel 1326 su richiesta dell’abate Ognibene (1309-1367) del monastero di santa Maria in Organo in Verona, concedeva un monaco della sua comunità, fra Bonamico, quale priore della chiesa di san Lorenzo di Sezano in Valpantena. (1) E proveniva fra Bonamico dalla cappella cittadina di san Faustino di diritto del monastero di Calavena, dove l’anno precedente, il 23 maggio 1325, lo stesso abate Galvano lo aveva nominato priore con pieni poteri. (2) (1)ASV. MSMO perg.1328 (2)Biblioteca Civica di Verona – Carteggio Perini: Benedettini di S. Faustino 141 L’ABATE CASTELLANO (1331 – 1359) Dopo la morte di Galvano fu eletto abate il signor don Castellano, che fu l’ultimo abate ad essere eletto dalla comunità dei suoi monaci secondo la Regola di san Benedetto, come è detto nel documento di fondazione del papa Lucio III. Lo si scrive questo con tono di amarezza, perché sembra segnare una grave disgrazia capitata all’ancor giovane e robusto monastero di Calavena. Infatti al termine del periodo di governo dell’abate Castellano, uno dei più lunghi durato quasi trent’anni, ci si ritrova in una situazione senza scampo: la fine della comunità dei monaci e il dissesto dell’edificio monastico. All’inizio del suo mandato l’abate Castellano si trovò nella situazione di dover cambiare il nome del suo monastero. Infatti nel primo documento che di lui possediamo, del 20 febbraio1331, egli viene detto il signor don Castellano, per grazia di Dio, abate del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, come i suoi predecessori. (1) In un secondo documento di un anno dopo, del 22 febbraio 1332, il signor Castellano è chiamato abate per grazia di Dio del monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena. (2) Come si vede, vien tolto il nome di san Pietro, ed aggiunto quello di san Modesto, il maestro di san Vito. E questo in tutti i documenti successivi fino al 1348, l’anno disastroso del terremoto e della peste. In seguito si riprenderà san Pietro ed allora il signor don Castellano ritorna ad essere l’abate per grazia di Dio e della sede apostolica del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena. (3) Il fatto può avere questa spiegazione. San Pietro era il nome del castello costruito nel 1040 dal vescovo di Verona Valterio (1037 – 1055) che divenne la dimora della prima comunità monastica benedettina della Calavena: il monastero di san Pietro di Calavena.(4) San Pietro viene tolto dalla denominazione del monastero perché è il nome del castello vescovile. I sedici anni dal 1332 al 1348 appartengono al periodo della signoria dell’impetuoso e sospettoso scaligero Mastino II (1329 – 1351). Mastino, assieme al fratello Alberto, aveva strutturato la Fattoria scaligera di Selva di Progno, dove gli Scaligeri avevano ottenuto tutti i poteri. (1) S.NC. perg.209 (2) S.NC. perg.570 (3) S.NC. perg.579 (4) Bolla di Eugenio III del 1145 142 143 Il Pian del monte san Pietro dal catasto austriaco (1830): i numeri catastali 58, 59, 60, 61 sommano mq.10.000, un ettaro. Forse l’ambizione e la paura spinsero i due fratelli scaligeri a consigliare l’abate Castellano di togliere, oltre alle rovine, anche il nome dell’antico castello, perché il castello di san Pietro restava pur sempre l’originario fondamento giuridico del potere temporale dell’abate. Ironia della sorte! L’abate di nome Castellano dovette rinunciare perfino al nome del suo castello! Si accontentò della lapide di fondazione, che volle salvare portandola giù nel monastero vicino alla chiesa dei santi Vito e Modesto. Solo con le disgrazie del’anno1348 che piombarono dal cielo anche sulla nobile famiglia dei signori Scaligeri, Mastino si ridusse a più miti consigli e san Pietro ritornò nel titolo del monastero della Calavena assieme ai santi Vito e Modesto: il monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena. In seguito a questo intervento del signor Mastino della Scala, dell’antico castello di san Pietro non rimase che la chiesetta di san Pietro. Così è scritto con nostalgia e con rammarico in un documento del 1381: il maso dei Còsari di 30 campi confina a tramontana con “la sommità del monte del fu castello di san Pietro o meglio con l’area del castello di san Pietro o della chiesa di san Pietro, che si chiama il Pian del monte san Piero”. (1) La stessa sorte toccò più o meno ad altri castelli della Calavena. Al castello di Cogollo, di proprietà del monastero dei santi Pietro e Vito, dove rimase soltanto la chiesa monastica di san Vitale, o meglio di san Giacomo; al vecchio castello di Castelvero, dove rimase la chiesa longobarda di san Salvatore; al castello di Marcemigo, che apparteneva al comune di Marcemigo, e qui si salvò la chiesa di san Dionigi; ai castelli o càssari del monte di san Moro, nella pertinenza di Marcemigo, dove invece fu ricostruita la chiesa di san Leonardo (1383). In compenso pare che Tregnago abbia avuto il privilegio di conservare e di rinnovare il suo primitivo castello, che diventò proprietà degli Scaligeri e che resterà l’unico castello della Calavena. Intorno al castello di Tregnago si formò la contrada detta del castello, come si ricava da una pergamena del 1325: in pertinentia Tregnaci in hora castelli. (2) Così gli Scaligeri si comportarono nella Calavena come tanti altri grandi signori del tempo. Costoro quando occupavano con la guerra o per vie diplomatiche una determinata zona, si impossessavano dei castelli che parevano necessari per mantenervi il loro dominio ed eliminavano quelli che ritenevano pericolosi o solo inutili. ________________________________________________________ (1)S.NC. perg.215 (2)S.NC. perg.1294 144 In questo modo il potere abbaziale ora dipendeva unicamente dal titolo della chiesa monastica dei santi Vito e Modesto. Questo fatto giuridico lo si era rilevato già nel 1273 con l’abate Porcilano. (1) Così vien chiaramente ripetuto in una pergamena del 1333 che descrive un rito solenne di donazione celebrato in questa chiesa. “Il signor Aleardo del fu Ventura di Marcemigo e la signora Margherita Angela sua moglie, stando in piedi e tenendo le loro mani sopra l’altare della chiesa dei santi Vito e Modesto del monastero di Calavena e con il libretto dell’oblazione tra le mani, i detti coniugi Aleardo e Margherita offrirono in perpetuo se stessi e i loro beni a Dio onnipotente e alla chiesa dei santi Vito e Modesto del monastero di Calavena, nominando singolarmente il tipo e il posto delle sei pezze di terra offerte”. (2) Per questo forse anche l’aggiunta al titolo abbaziale “per grazia di Dio”, cambiò in “abate per grazia di Dio e della sede apostolica”: ormai dalla sede pontificia dipendeva tutto il potere della Chiesa cattolica. Fu questo il motivo che spinse l’abate Castellano, per non correre il rischio di trovarsi totalmente privato del suo potere temporale, ad escogitare un nuovo fondamento giuridico che assicurasse ancora in futuro tutti i diritti sacrosanti del monastero di Calavena. Questo nuovo fondamento è il patto di reciproca appartenenza tra l’abate e i suoi sudditi: la pubblica Dichiarazione della domenica 10 Gennaio 1333 anno giubilare della morte di Cristo. (3) Questa Dichiarazione diede anche una definitiva e chiara posizione giuridica alla popolazione straniera che da trent’anni ormai entrava nel territorio del monastero: i Cimbri. Si può facilmente costatare come questa popolazione a poco a poco dal 1295 abbia popolato i monti intorno al convento, occupando stabilmente con precisi contratti, pascoli boschi e terreni coltivabili: Sprea, Progno (sant’Andrea), la Scandolara, la Gamella (monte san Moro). Con l’accordo del 1333 il territorio allodiale del monastero di Calavena divenne uno stato esclusivamente dipendente dal monastero benedettino: un feudo monastico. È stato conservato fino ad oggi il prezioso documento. Per la sua importanza lo riporto integralmente, tradotto, in lingua italiana. Lo si può definire la Carta costituzionale del feudo di Badia Calavena. (1)S.NC. perg.1278 e perg.1279 (2)S.NC. perg.381 (3)S.NC. perg.210 145 PUBBLICA DICHIARAZIONE con la quale alcuni capifamiglia di Calavena riconoscono che le terre che hanno, sono di proprietà del monastero di Calavena. “La domenìca 10 gennaio 1333 nel monastero dei Santi Vito c Modesto di Calavena. Sono presenti come testimoni: Boanio fu Guglielmo di Tregnago, Tebaldo fu Bonifacio pure di Tregnago, Bìagio fu Guascona e Giacomo Piazzoli di Cogollo, Giovanni figlio di Antonio di Marcemigo, Alessandro figlio di Vermiglio di Marcemigo, Benedetto Bonmassari e suo figlio di Castagné. Furono quivi convocati contemporaneamente i seguenti 64 capifamiglia: Corrado fu Bertoldo Dalle Vacche Negre, Preco dei Viandanti, Cristano figlio di Corrado Dalle Vacche Negre, Enrico detto il Vestenella, Bertoldo fu Bertoldo Dalle Vacche Negre e suo fratello Anzo, Lovato figlio di Enrico, le sorelle Ilmegarda e Zena, Enrico di Pressanorio, Enrico fratello di Anzolino, Corrado Carbonaro, Alfredo fu Cichèro, Corrado Lanzatore, Federico fu Tomaso, Marco fu Enrico dei Magatelli, Boltrua vedova di Corrado, Pietro fu Bertoldo Dalle Vacche Negre, Corrado della signora Buona, Enrico dalla Sponda, i fratelli Geroldo ed Enrico, Geroldo del monte Gamella, Enrico fu Enrico, Stefano fu Gualtiero, Stefano fu Litoldo, la signora Agnese vedova di Enrico, Enrico fu Alfredo, Alberto del monte Gamella, Bertoldo Gropo, Pietro fu Nicola, i fratelli Marco e Anzolino figli del fu Voseglio, Enrico fu Enrico, Orico fu Barbero, Fasolo fu Ebele, Simone e i suoi fratelli Dalle Vacche Negre, Siricio fu Battilana, Enrico fu Barbero, Bartolomeo da Venosta, Orico fu Orico, Anzo genero di Punzilorsi, Anzo che abita nel maso che era di Valente, Bertoldo Bonincontri, Rodolfo fu Ferigeto, Simone da Venosta, gli eredi di Rossimorto, Cichero Rubeo e Nicola suo genero, Giacomo figlio di Cichero, Corrado di Valcava, Negro Giovanni, Cichero Tessaro, Federico fu Alfredo e suo nipote Nicola, Lovato fu Cichero, Bertoldo che abita vicino a Lovato, Alfredo dei Pellicari, e suo fratello Pietro, Enrico da Recoaro, Corrado genero di Ferigeto, Anzo fu Anzo, Cristano fu Alfredo, Cichero Longo, la signora Gisla vedova dì Corrado, Cichero fu Anzo. Tutti questi capifamiglia uniti insieme in qualità di masàri che abitavano in terre e su monti del monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena, alla presenza del Reverendo Signor Castellano, per grazia di Dio e della Sede Apostolica, abate del detto monastero di Calavena, dissero e dichiararono pubblicamente e ciascuno con sicura conoscenza quanto segue: - che essi sono masàri, che abitano nel territorio del detto monastero - che tutti e ciascuno di essi hanno i loro masi sul monte Gamella e Gamellino, a Sprea, a Progno di Sant'Andrea, agli Stizzoli, e sul monte Scandolara - che quindi riconoscono le terre ed i possessi, che essi abitano e lavorano, essere del monastero in modo pieno e totale: vale a dire come proprietà e possesso, come sovranità e giurisdizione civile e penale 146 - che di conseguenza essi sono consapevoli, avendo questi masi e terre del monastero, di averli a vantaggio dello stesso abate e del suo monastero. Perciò, come logica conclusione, tutti e singoli questi capifamiglia furono d'accordo di stipulare, per sé e per i propri discendenti, questo patto di sudditanza o di vassallaggio con il signor abate Castellano. - I sopraddetti capifamiglia si obbligano a rinnovare ogni dieci anni questa dichiarazione, dando ciascuno in tale occasione, al signor Abate e al monastero un buon agnello castrato. - Essi tengono presente d'aver questi masi, queste terre e possessioni dal signor Abate e dal monastero, perché vengano ben coltivate secondo i sistemi tradizionali della contrada dove abitano. - A pagare ogni anno all'Abate e al suo monastero, come affitto del maso, tre o quattro lire veronesi per ciascun maso come è indicato nei singoli contratti di investitura, già stipulati con il suddetto signor Abate. - A dare la decima dei raccolti e dei guadagni ricavati per bontà divina dalle stesse terre e possessioni. - Inoltre la decima di tutti gli animali di piccola taglia che nascono nei detti masi e luoghi. - E pure le decime per quelle terre che lavorano anche fuori del territorio del monastero. A portare infine tutte queste cose nei magazzini del monastero. - I predetti capifamiglia e loro discendenti devono sottostare al signor Abate e al monastero nelle questioni civili e penali; e perciò chiedere il parere e stare alle decisioni dell'Abate, senza rivolgersi altrove e neppure decidere fra loro, se non alla presenza dell'Abate. Pene e bando dal territorio del monastero sono di competenza del signor Abate e suoi successori, per loro e per chiunque. - Gli stessi, e chiunque di loro, senza il permesso dell'Abate non possono portare armi, nè in presenza dell'Abate e neppure nel monastero. Pene e bando dal monastero a giudizio del signor Abate. - I predetti capifamiglia e loro discendenti devono aiutare, difendere e custodire con ogni loro possibilità il signor Abate ed il monastero stesso. In tempo di guerra poi - che Dio ce ne liberi - devono accorrere in aiuto al monastero per custodirlo e difenderlo. E ogniqualvolta fossero richiesti di venire dall'Abate con armi o senza armi a seconda degli ordini. - Il signor Abate può porre fra loro un suo Castaldo o rettore o amministratore, uno o anche più, per trattare e risolvere le loro questioni. - Che l'Abate e il suo castaldo possano imporre pene, multe e condanne ed esigerne l'esecuzione; e che siano tenuti a rispondere al castaldo e al monastero allo stesso modo che al signor Abate, riconoscendo tra essi lo stesso libero e pieno potere sulle cose e sulle persone. - Infine nessuno di essi può vendere i suoi diritti senza prima avvertire il signorAbate ed averne ottenuto il libero consenso, cercando di vendere o donare solo a chi potrà osservare bene i patti sopraddetti. 147 In contraccambio il signor abate Castellano promette solennemente per sé e per conto del monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena di proteggere e di difendere nei luoghi sopraddetti del monastero questi capifamiglia come suoi masàri, conduttori agricoli e libere persone. Alla fine i capifamiglia giurarono fedeltà di sudditanza al detto signor Abate come persone libere e come masàri, conduttori agricoli e abitanti del monastero; di osservare tutto ciò che riguarda il dovuto onore al signor Abate e al venerabile monastero. Per sentirsi obbligati ad una maggiore osservanza di questi accordi di vassallaggio, le due parti sopraddette impegnarono tutti i loro beni presenti e futuri e, nella parola del signor Abate, di possederli quasi in comune. Anno del Signore 1333 Indizione I Io Bonacorso figlio del maestro Ognibene di santo Stefano di Verona, notaio imperiale, intervenni e scrissi l’atto pubblico. Nel nome di Cristo. Amen. lo sottoscritto notaio Benedetto del fu Signor Mafeo di Floriale di Gavardo insieme al sopraddetto notaio Bonacorso fui presente e vi posi il mio timbro e, richiesto, aggiunsi la mia firma”. (1) ************** Questi patti di sudditanza, o meglio di signoria, con i quali l’abate Castellano in qualità di Principe e Signore sanciva tutti i suoi poteri sulle persone e sulle cose, provocarono una profonda spaccatura tra i sudditi del monastero. Coloro che già da molto tempo erano nel territorio del monastero e che ormai mal sopportavano l'autorità dei monaci, ora si vedono vicino questo gruppo di forestieri più laboriosi e ritenuti più fidati. Di più appare evidente da parte del monastero una preferenza per questi nuovi arrivati. In molti atti di affitto stipulati con queste famiglie cimbre (tausse) viene espressamente vietato di vendere i diritti sui beni affittati agli antichi vassalli (sudditi) del monastero, che con ogni probabilità non avrebbero osservato gli accordi stipulati. Proprio questa dichiarazione di signoria segna il momento più alto della sovranità del monastero nel suo territorio: nella persona del suo Abate. Siamo di fronte ad uno statuto che fonda un vero e proprio stato autonomo, un feudo monastico per quanto piccolo. Con la parola feudo si indicava nel medioevo l’ambito giuridico in cui una autorità pubblica esercitava un dominio assoluto ed esclusivo. Era costituito da un possedimento terriero con tutto ciò che vi apparteneva, compresi gli abitanti. L’abate è il signore del territorio del monastero, con tutti i poteri pubblici. L’abate è il proprietario di tutti i terreni del monastero: coloro che li abitano e li lavorano devono pagargli l’affitto come semplici affittuali. ___________________________________________________________________ (1)ASV. S.NC. b.39, doc.355 perg.310 148 L’abate su questi sudditi detiene il potere legislativo, l’amministrazione civile e militare, l’autorità giudiziaria e penale. A questi poteri civili si aggiungono evidentemente quelli religiosi con i rispettivi diritti. L’abate può scegliersi liberamente un suo Vicario con pieni poteri, chiamati nella dichiarazione castaldo, rettore o amministratore. Lodovico Perini nel 1730 forse in riferimento a questo scrisse del’abate Castellano: “Visse con dignità con ogni saviezza amministrativa”. Dopo questo importantissimo documento statutario del 1333 stipulato nel monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena, ve ne sono diversi altri di ordinaria amministrazione – locazioni, rinunce, compere, permute – che si susseguono a scadenze regolaari fino alla morte dell’abate Castellano, avvenuta agli inizi del 1359. Sono più di una ventina di pergamene. Scorrendo date e luoghi di questi contratti amministrativi, colpisce subito il fatto che prima del 1348 essi vengono stipulati quasi tutti nel monastero di Badia Calavena, invece dal 1348 tutti – e sono la metà – hanno come luogo di stipulazione il paese di Tregnago, nella casa (domus) di proprietà del monastero di Calavena. Ricercando la causa di questo improvviso e grave cambiamento nella storia del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena, il pensiero va istintivamente a quel fatale anno 1348, l’anno della peste, vista e descritta da Giovanni Boccaccio, e l’anno d’un forte terremoto che colpì il territorio veronese. Due terribili calamità naturali che determinarono praticamente l’estinguersi della comunità dei monaci benedettini ed il trasferimento della sede monastica a Tregnago, nella casa del monastero. Facilmente Tregnago fu meno colpita di Badia Calavena dal terremoto. Questa casa (domus) a Tregnago, che già esisteva al tempo dell’abate Guariento (1215) (1), viene ora nominata in diversi modi: semplicemente la casa del monastero di Calavena (2), la casa di abitazione del monastero (3), la casa di abitazione dell’abate di Calavena (4), la casa detta la canìpa del monastero di Calavena (5). Forse non si tratta di un solo edificio: è probabile che si debba distinguere una casa di abitazione, ed una casa sede amministrativa, la canìpa. In tutti i modi la sede del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena con la chiesa di san Vito furono quasi totalmente abbandonati, resi inabitabili dal terremoto. ___________________________________________________________________ (1)S.NC. perg.881 e 1275 (2) S.NC. perg.890, 1300, 1306-1310 (3) S.NC. perg.1299 (4) S.NC. perg.1296 (5) S.NC. perg.580 149 Sarà solo l’abate commendatario Maffeo Maffei nel 1424 a tentare di riportarvi l’intera comunità. Per intanto ci dovette stare alla meno peggio qualche monaco sacerdote per il servizio religioso alla popolazione. Più tardi, nell’anno 1442, si parla di una abitazione del cappellano dell’abbazia dei santi Pietro, Vito e Modesto. (1) Così anche l’ultimo atto pubblico dell’abate Castellano, del 12 aprile 1358, è stipulato a Tregnago. Eppure si tratta d’un atto per tre terre tutte nel territorio del monastero. Dice il documento. La signora Elica fu Cristano Dalle Vacche Negre, rinuncia all’abate Castellano ogni diritto sopra il suo maso con casa in muratura coperta di paglia nella zona dell’Alpesino, circostante al monastero (maso dei Nicaloi e Còsari); così pure rinuncia ad una terra arativa e zappativa nel Sortedo del monastero (alla Riva); e ad un ultima terra arativa, zappativa e boschiva nella zona del castello di san Pietro. Con lo stesso atto l’abate Castellano dà in affitto a Guglielmo fu Pasio dell’Alpesino questa casa e terre del monastero. (2) Si vede che anche qualche famiglia colpita dal terremoto, se poteva, si trasferiva a Tregnago. La peste a sua volta lasciò le sue gravi conseguenze sulla comunità religiosa. Non sappiamo la consistenza della comunità prima del 1248, che viene indicata con la parola generica di Capitolo dei monaci convocato al solito modo dal suono della campana ,(3) ma sappiamo purtroppo che alla morte dell’abate Castellano avvenuta agli inizi del 1359, la comunità del monastero di Calavena era costituita da un solo monaco, Francesco Cavaleri. Quest’unico monaco superstite si trovava nell’impossibilità di eleggersi l’abate e fu costretto a chiedere l’intervento dell’autorità papale. Il papa Innocenzo VI (1352-1362) da Avignone con bolla del 12 luglio 1359 designava come abate commendatario il monaco professo Michele da Mantova del monastero benedettino di santa Maria di Felònica (Mantova). (4) Così amaramente si chiude il periodo di governo dell’abate Castellano, il quale aveva perso non solo l’antico castello vescovile di san Pietro lassù sul monte nel bosco e il grande monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena, ma anche non aveva lasciato eredi per la sua comunità. (1) S.NC. perg. 220 (2) S.NC. perg.214 cfr. perg.676 (3) S.NC. perg.570 (4) S.NC. perg.75 150 Ma viene anche da pensare che la comunità monastica di Calavena si sia spenta nell’eroica assistenza religiosa e materiale degli abitanti del suo monastero durante la pestilenza. Per farsi un’idea del disastro demografico causato dalla peste in questa zona, si possono mettere a confronto la Pubblica dichiarazione fatta dalle famiglie cimbre all’abate Castellano il 10 gennaio 1333 con un successivo rinnovo della stessa. È il rinnovo del 28 Aprile 1381 compiuto dall’abate commendatario Francesco Cavaleri già monaco dal monastero di Calavena; “questo abate – dice il documento - rinnova la locazione decennale del 1333 ad un certo Avanzo fu Rossimorto, massaro del comune cimbro di Spreaconprogno (Badia Calavena cimbra) unitamente ad altri 32 capifamiglia dello stesso comune”. Le famiglie cimbre interessate a questo accordo nel 1333 erano in numero di 64, ora dopo 50 anni, sono soltanto 32: esattamente la metà. Pur facendo le debite osservazioni, si deve ammettere che la peste portò via più della metà della popolazione adulta. L’abate Castellano dovette assistere impotente anche alla lenta fine della comunità femminile di santa Giustina di Illasi, da lui assistita. Benchè fosse un monastero di recente fondazione, non superò la dura prova naturale della peste. Diamo una breve storia di questo monastero misto della val d’Illasi. Verso la metà del 1200, durante la turbolenta signoria di Ezzelino da Romano (1230 – 1260) nacquero nel territorio veronese, nonostante le limitazioni del Concilio ecumenico Lateranense IV (1215), piccole comunità religiose che si ispiravano alle nuove direttive dei grandi Ordini mendicanti, francescani e domenicani. Si impegnavano con promesse solenni a vivere secondo la Regola di san Benedetto e secondo quell’Ordine mendicante, che il Signore stesso avesse loro indicato. (1) Erano comunità benedettine aperte ad un’ampia accoglienza, fino ad essere comunità miste, di suore e di frati. Benedettine riformate secondo la tradizione del grande Giovanni Cassiano. Ad Illasi vicino all’antichissima chiesa di santa Giustina, nei poveri edifici adiacenti, dovette prendere il via verso il 1250 una di queste nuove comunità spontanee. (1)Biancolini VI pag.69 151 Quivi alcune persone di Verona, uomini e donne, sazie delle cose del mondo e specialmente della vita di città, presero stabile dimora per dedicarsi alla penitenza come in una vita monastica, vestendo liberamente abiti dimessi. Si chiamavano reciprocamente suore e frati, fratelli e sorelle. Uno dei frati, sacerdote, teneva la sovrintendenza di tutti, frati e suore, portando il titolo di priore a vita. Fra Alberto dalla Riva fu Leonardo, ultimo priore, ormai vecchio e malato, nel 1354, dopo la peste ed il terremoto, rinunzò al suo incarico. Dal vescovo di Verona Pietro della Scala (1350 – 1388) fu affidato all’abate Castellano (1331 – 1359) del monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena il compito di trovargli un successore. Come ai loro tempi l’abate Stefano (1240), l’abate Porcilano (1278) e l’abate Galvano (1326) avevano risolto al meglio analoghe situazioni per i monasteri benedettini a san Cassiano di Mezzane e a san Lorenzo di Sezano di Valpantena, così fece l’abate Castellano nel 1354. Egli però non riuscì a trovare un suo prete che vi facesse da priore. Allora si rivolse al monastero di suore Benedettine di san Michele in Campagna ed ottenne suor Francesca, che fu eletta prima prioressa e poi badessa dello stesso monastero di santa Giustina. Sperava la badessa suor Francesca che, applicando la Regola originaria di san Benedetto, il monastero crescesse di numero e di serietà. Invece solo sei anni dopo nel 1360 per la difficoltà, in un luogo così fuori mano, di trovare un sacerdote idoneo per la direzione spirituale e l’amministrazione dei sacramenti, la badessa Francesca con le altre tre componenti la comunità – suor Dionore, suor Alena e suor Floridilia – chiese ed ottenne dal vescovo Pietro della Scala di unirsi alla grande comunità domenicana del monastero di santa Maria Mater Domini vicino a san Giorgio in Braida. Così, poco dopo la morte dell’abate Castellano, si chiude anche la breve storia del monastero misto di santa Giustina d’Illasi, durata circa un secolo (1250 – 1360). (1) Il terremoto del 1348 e la peste avevano segnato anche l’inizio della rovina economica e politica della Signoria degli Scaligeri. (2) Così pure la chiesa di Verona conosce un periodo molto agitato: nel 1348, l’anno della peste, muore il vescovo Matteo de’ Ribaldi. (1)Biancolini VI pag.127 s. (2)Solinas. Storia di Verona pag.307 152 Spesso di fronte ad evidenti cambiamenti storici si ricorre a motivazioni di tipo morale e sociale. Così la decadenza e la fine di antiche istituzioni viene attribuita all’esaurirsi della forza vitale che le aveva suscitate. E si parla, specialmente a riguardo delle istituzioni religiose e monastiche, del venir meno dell’autentico spirito delle origini, di abitudini malsane entrate lentamente nel cuore dei monasteri, di disordini creati da persone inesperte o malintenzionate. In realtà molte volte le cause che determinano il nuovo corso degli eventi o la fine di secolari istituzioni sono le calamità naturali, improvvise ed ineluttabili. Così avvenne per il grande monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena: la comunità era stata distrutta in poco tempo dal flagello della peste nera, e l’edificio monastico gravemente lesionato dal terremoto. Alla morte dell’abate Castellano, l’ultimo eletto dalla sua comunità, il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena passò in commenda pontificia, per mancanza di una comunità che potesse eleggere il suo abate: dal 1360 gli abati saranno commendatari e cioè eletti direttamente dal Pontefice. È la fine della vita autonoma del monastero benedettino di san Pietro di Calavena: 12 luglio 1359. D’ora in poi l’abate diventa un estraneo al monastero; spesso non sapeva nemmeno dove fosse, nei casi migliori poteva farvi una visita fugace. A lui interessavano i proventi del patrimonio monastico, che venivano esattamente calcolati al momento dell’accettazione. C’era perciò una corsa ai benefici migliori. Il commendatario non era sempre un religioso, anzi spesso era un ecclesiastico dell’alta gerarchia, e talvolta non era neppure sacerdote. All’abate commendatario era affidato l’impegno pastorale della popolazione, impegno che veniva sempre delegato a rappresentanti da lui scelti e stipendiati. Questo significa la fine della comunità monastica. 153 III Abati commendatari e Padri cassinesi 1360 – 1771 154 Gli abati commendatari La terribile peste nera, che nella primavera dell’anno 1348 desolò l’Italia e buona parte dell’Europa, colpì soprattutto gli adulti. La conseguente crisi demografica cambiò tanti ordinamenti del vivere civile e religioso per il venir meno dei loro incaricati: gli adulti. L’inesorabile contagio aveva distrutto la comunità dei monaci del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena, riducendola a soli due componenti. Nello stesso anno 1348 il terremoto aveva facilmente reso inabitabile l’intero edificio monastico. Questa desolante situazione cambiò profondamente la storia successiva del glorioso monastero di Calavena. Di questo si prese coscienza alla morte dell’abate Castellano. Alla sua morte, avvenuta sul finire dell’anno 1358, il monaco Francesco Cavaleri rimase solo. Egli fu costretto a chiedere – postulare – al papa Innocenzo VI (1352-1362) di affidare – commendare – il monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena ad un abate di sua scelta. Ebbe la grande accortezza di non affidarlo né al Vescovo docesano, né all’Imperatore o suo Vicario, ma all’autorità massima della chiesa, al Papa. Questo valeva almeno come principio. A tutte le disgrazie accadute al monastero nel funesto anno1348, si aggiunge, dopo dieci anni, anche quella della commenda. La commenda segna la fine dell’autonomia costitutiva d’un monastero benedettino. Un monastero benedettino nasce normalmente per il formarsi di un gruppo spontaneo di persone, la comunità monastica, intorno ad un personaggio di prestigio che ne diventa il responsabile, l’abate della comunità. L’abate è come il padre (abbà) della comunità: del padre ha le prerogative e le responsabilità. Quando l’abate viene a mancare è la comunità che se ne sceglie in modo autonomo un altro, a cui viene affidata l’armoniosa continuazione della vita monastica. Quando invece l’abate, per necessità o per altri motivi, viene imposto ala comunità da una autorità esterna, si dice che quel monastero – patrimonio e comunità – è stato dato in commenda (affidamento) a quell’abate, che si definisce perciò abate commendatario. Dal momento che un monastero diventa una commenda, papale o imperiale, resta tale anche in seguito, benché siano state eliminate le circostanze che provocarono il cambiamento. Il più delle volte questa prassi ecclesiastica ha segnato nella storia la lenta estinzione della vita di quel monastero. L’abate commendatario infatti era un estraneo alla comunità e perciò inadatto o incapace a guidarla e animarla. 155 Spesso queste comunità erano insignificanti per numero e per attività, ed allora l’abate commendatario diventava semplicemente il beneficiario e l’amministratore del patrimonio del monastero. In questo modo un solo abate poteva avere anche più commende con un accumulo invidiabile di rendite, che il più delle volte non venivano utilizzate per il bene del monastero, e andavano a beneficio di persone o di altri enti. I beni dei monasteri spesso finivano presso le famiglie nobili dei commendatari. Lo storico della chiesa Jedin ha scritto: “Gli abati commendatari potevano essere cardinali, vescovi e perfino laici. Costoro incassavano le rendite delle abbazie, senza minimamente preoccuparsi della loro vita interna”. La prassi ecclesiastica della commenda, praticata anche prima, ebbe la sua più alta applicazione nella prima metà del 1300, quando i papi trasferirono la sede pontificia da Roma ad Avignone in Francia (1305-1378). Così il monastero di Calavena divenne una commenda pontificia. Questo tipo di vita monastica nella Calavena iniziò nel 1359, quando, dopo la morte dell’abate Castellano, su richiesta – per postulacionem – e su precisa indicazione dell’unico monaco superstite Francesco Cavaleri, il papa Innocenzo VI (1352-1362) con bolla da Avignone del 12 luglio 1359 incaricava l’arcivescovo di Milano Roberto Visconti (1354-1361) di confermare, trovandolo idoneo, quale abate del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena Michele da Mantova, monaco benedettino del monastero di santa Maria Assunta di Felonica, piccolo paese del mantovano. (1) Dall’anno 1360, dopo la morte dell’abate autonomo Castellano, fino all’anno 1498, tutti gli abati dell’abbazia di Calavena saranno designati in questo modo dal pontefice e chiamati Abati commendatari, vale a dire non eletti dalla comunità monastica: solo amministratori più o meno onesti, del patrimonio monastico. Il papa Innocenzo VI fu rigidamente severo con tutto il clero, intervenne particolarmente sugli ordini religiosi reprimendo abusi che si erano introdotti e talvolta imponendo nuove regole sull’obbligo della residenza monastica e sul conferimento dei benefici vacanti. Così anche tutto il vasto patrimonio (beneficio) del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena, costruito pazientemente in anni di lavoro, passò nelle mani del Pontefice che lo conferiva ad un Abate da lui stesso scelto. (1)S.NC. perg.75 156 L’abate Michele da Mantova 1360 – 1375 Alla morte del reverendo signor abate don Castellano, regolarmente eletto a suo tempo (1331) dalla sua comunità, la nomina di abate del monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena fu dunque conferita dal papa Innocenzo VI al monaco professo Michele da Mantova del monastero benedettino di santa Maria di Felonica (Mantova). (1) Del lungo periodo di oltre quindici anni in cui Michele da Mantova fu abate commendatario di questo monastero non vi è nessun documento di nessun genere. Segno questo, posto proprio all’inizio del periodo degli abati commndatari, del loro disinteresse per questo monastero dal glorioso passato. Il papa Innocenzo VI, che gli aveva dato il titolo, per commenda gli ingiungeva anche l’obbligo della residenza. L’abate Michele però con facilità l’esenzione da tale obbligo a causa del cattivo stato in cui si trovava l’edificio del monastero di Calavena; e fors’anche per gli impegni con il suo monastero di Felonica. Non si sa se in quindici anni abbia avuto l’occasione o la volontà di andare da quelle parti montane almeno una volta. In questo modo l’antico convento dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena per intanto fu abbandonato allo sfacelo. Alle calamità naturali – temporum malignitas – si unì l’incuria dei monaci – hominum incuria – quand’anche non si aggiunsero le ingiuste imposizioni degli abati commendatari – prelatorum iniuria -. Di fronte all’effettivo disinteresse di questo primo abate commendatario ci si domanda come mai proprio un monaco del monastero di Calavena, Francesco Cavaleri, l’abbia espressamente richiesto al Pontefice Innocenzo VI. La risposta più semplice potrebbe essere quella che di là, dal monastero di santa Maria di Felonica, sia uscita la prima comunità che venne ad occupare verso il 1060 il monastero dei santi Pietro e Vito sito in val Longazeria, la val d’Illasi. In caso di necessità è alla casa madre che ci si rivolge per ogni richiesta di aiuto. Nella mente del monaco Francesco forse dovette giocare anche la somiglianza di vicende storiche, di abitudini religiose e di modeste condizioni umane che univa i monaci dell’una e dell’altra abbazia, quella di Badia Calavena e quella di Felonica. (1)S.NC. perg.75 157 Infatti Felonica, paese di confine in provincia di Mantova, ha una storia più o meno simile a quella di Badia Calavena. Conta intorno ai 2000 abitanti. Nel 1360 v’era un’abbazia benedettina, quella di santa Maria, risalente almeno all’anno 1053, nata e cresciuta nell’area d’influenza dei famosi Conti di Canossa. Fu considerato certamente un luogo strategico da Matilde di Canossa, la gran contessa, che lasciò un segno decisivo nella storia d’Italia e d’Europa durante la lotta per le investiture (1077). Questa abbazia era costituita da una piccola comunità – nel 1188 era formata dall’abate Domenico assieme a sette monaci – assottigliata dall’impegno pastorale di reggere alcune chiese dipendenti dal monastero e situate spesso molto lontane. Proprio in quegli anni (1360) l’unico residente nel monastero era l’abate, eletto dai membri della sua comunità, dislocati e impegnati nella diverse cappelle. Anche l’edificio monastico era molto limitato: un chiostro (camera teustra) con, da un lato la chiesa di santa Maria, e dagli altri la sala capitolare (camera sacerdotum), il refettorio (camera revolti), la cucina (coquina); inoltre, nello scantinato un ripostiglio e la cantina (canepa). L’abbazia di Felonica solo nel 1467 diventerà definitivamente commenda pontificia, assegnata a prelati romani o, più spesso, mantovani di casa Gonzaga. Il pontefice che maggiormente s’interessò di questa commenda fu – guarda caso – il veneziano Eugenio IV (1431-1447). (1) Pergamena dell’abate Francesco Cavaleri Anno 1377 – luglio 26 perg.934 Anno 1381 – marzo 24 perg.1247 - aprile 17 perg.215 - aprile 28 cfr. Cieno pag.22 (1) Giovanni Freddi – Felonica 1996 158 L’abate Francesco Cavaleri 1375 – 1386 Dopo Michele da Mantova è l’abate commendatario del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena Francesco Cavaleri, quell’unico monaco della comunità superstite alla morte dell’abate Castellano. La commenda del suo monastero gli dovette essere conferita dal papa Gregorio XI (1370-1378), di recente rientrato a Roma dopo il lungo esilio dei papi ad Avignone (Francia). Il monaco Francesco Cavaleri aveva mantenuto in qualche modo la sua dimora nel monastero di Calavena per le necessità religiose di quella popolazione ed anche per restare fedele ai luoghi cari della sua vita monastica. Nel monastero dell’abbazia di Calavena infatti viene stipulato il primo documento che presenta il reverendo signore don Francesco, per grazia di Dio e della sede apostolica, abate del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena: 26 luglio 1377. (1) Dell’abate Francesco ci sono attualmente solo quattro pergamene, insufficienti a dare una precisa fisionomia alla sua attività. Al di là della sua ordinaria azione pastorale e religiosa si sente tuttavia che andava sempre più emergendo un nuovo problema sociale ed amministrativo: il rapporto giuridico del monastero con i comuni rurali sempre più forti. La lunga assenza e il disinteresse del suo predecessore, l’abate Michele da Mantova, aveva permesso ai comuni, legati in qualche modo al monastero di Calavena, di alzare la testa e di avanzare richieste e pretese, sorte ed alimentate durante la Signoria Scaligera. I due comuni che si presentano al monastero come enti autonomi in grado di stipulare veri e propri contratti sono il comune di Mezzane ed il comune di spreaconprogno (Badia Calavena antica), entrambi confinanti a nord con il territorio dell’ormai decaduta Fattoria scaligera di Selva di Progno e della Corte sopra Mezzane. Nel 1377 dunque il monastero di Calavena si trova nella condizione di dover affittare al comune di Mezzane e ai suoi abitanti l’acqua della Fonte che sgorga vicino alla chiesa di sant’Ambrogio nella valletta di Vago sant’Ambrogio. S.NC. perg.934 159 Ecco il documento. “Nel nome di Cristo. Il giorno 26 luglio, nel monastero dell’abbazia di Calavena. Quivi il reverendo signor don Francesco per grazia di Dio e della sede apostolica abate del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena, per sé e per la comunità del suo monastero affitta con contratto da rinnovare ogni dieci anni a Giovanni fu ser Bonaventura Donati ed al comune ed abitanti di Mezzane l’acqua o meglio la sorgente d’acqua chiamata la Fonte, che incomincia e scaturisce dalla chiesa di sant’Ambrogio di Mezzane, con tutte le sue pertinenze di diritto del monastero dell’abbazia di Calavena. Detti affittuali e i loro eredi prendono il possesso della detta Fonte d’acqua del monastero allo scopo di migliorarla e con l’obbligo di pagare l’affitto ogni anno nella festa di san Michele di aprile”. Anno del Signore 1377, indizione 14a. Atto scritto dal notaio imperiale Berton di Tregnago. (1) Più delicata si presentava la situazione per il comune di Spreaconprogno. Si ha l’impressione che nel vecchio territorio – precedente all’occupazione scaligera (1310) – del monastero si siano formate due comunità che erano spesso in contrasto, come due partiti: il comune di Spreaconprogno con il quale il monastero facilmente si accordava e la comunità degli abitanti della val dei Gambari sostenuti e sobillati dal comune di Tregnago (Calavena). Questa rivalità, che si era vivacemente manifestata già in occasione del primo rinnovo della pubblica Dichiarazione nel 1343 – febbraio 7, riemerge anche con l’abate Francesco. (2) L’abate Francesco ricordando con quanta diplomazia il suo caro abate Castellano aveva concluso il patto di vassallaggio (sudditanza) tra il monastero ed il comune di Spreaconprogno che stava nascendo nel territorio allodiale del monastero stesso, riuscì ad ottenere il rinnovo della Dichiarazione il 28 aprile 1381. Il documento dice: “Contro le pretese del comune di Calavena (Tregnago) e dei suoi abitanti nella val dei Gambari, l’abate Francesco affittò per altri dieci anni al signor Vanzo fu Rossimorto, il massaro del comune cimbro di Spreaconprogno, unitamente ad altri 32 capifamiglia dello stesso comune, i diritti daziali sulle vendite all’ingrosso del bestiame su tutto il territorio del monastero. Il prezzo dell’affitto del dazio è stabilito a lire 100 amoni di denari veronesi ed un buon capretto alla scadenza del rinnovo. Invece resta ancora invariato il divieto allo stesso comune di aprire e permettere di aprire l’osteria e di vendere vino al minuto in tutto il territorio comunale”. (3) (1)S.NC. perg.934 (2)cfr. Cieno pag.21 (3)cfr. Cieno pag.22 160 Gli altri due documenti possono rientrare nell’ordinaria amministrazione del patrimonio monastico. Il primo di essi, stipulato sempre nel monastero dell’abbazia di Calavena il 24 marzo 1381, si riferisce alla località Sorcé d’Illasi. “Il signor Giovanni detto di Peraga, figlio di Ottobono, rinunciò nelle mani del reverendo signor Francesco, per grazia di Dio e della sede apostolica abate del monastero di Calavena, tutti i suoi diritti su una terra che si trova nella pertinenza d’Illasi in località Sorcé. Il detto abate Francesco è obbligato a sua volta ad affittare la detta terra al signor Lanzone d'’llasi. E perciò l'affittò al detto Lanzone”. (1) È un semplice scambio di affittavoli con l’obbligo però, forse comunale, di affittare questa terra d’Illasi ad un abitante del comune d’Illasi. Il secondo documento di affitto è del 17 aprile 1381, stipulato sotto il portico del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena. Quivi il reverendo signore don Francesco abate del detto monastero per sé e per i suoi frati diede in affitto a Tommaso figlio di Nicola dal Castello un maso di 30 campi con case in muratura coperte di paglia, terra aratoria e zappativa, prato e bosco. Questo maso, nella pertinenza del monastero, si trovava nella zona del castello (i Còsari); ed aveva per confini settentrionali questa nostalgica dicitura: “La sommità del monte detto un tempo del castello di san Pietro, o meglio il territorio del detto castello o della detta chiesa, ormai il luogo è chiamato semplicemente il Pian del monte san Piero”.(2) Questo ci fa capire con chiarezza che sul monte san Piero già da tempo non c’era più il castello e tanto meno c’era stato a lungo un vero e proprio monastero. Il periodo di governo dell’abate Francesco Cavaleri durò circa 15 anni; nei documenti riferiti si può sentire ancora il forte amore per il suo monastero di questo abate che, quantunque commendatario, possiamo veramente dire l’ultimo di una tradizione plurisecolare (1130-1390) di dieci abati. (1)S.NC. perg.1247 (2)S.NC. perg.215 161 L’abate Benedetto de’ Pasti 1387 – 1393 Dopo Francesco Cavaleri è abate commendatario del monastero dei Santi Pietro Vito e Modesto di Calavena Benedetto de’ Pasti monaco benedettino. Non si conosce storicamente donde sia stato preso né da chi gli sia stata conferita la commenda. Il Papa allora era Urbano VI (1378-1389) e tutto il clero veronese stata per cadere sotto la forte signoria del duca di Milano Galeazzo Visconti prepotente Vicario imperiale (1388-1402). Facilmente proveniva dal monastero cittadino di San Zeno maggiore. La nobile famiglia veronese de’ Pasti era molto legata agli Scaligeri. Il vescovo di Verona Pietro II Scaligero (1350-1387) aveva eletto di sua iniziativa nel 1363 il monaco Ottonello de’ Pasti quale abate di San Zeno maggiore (1363-1387) e lo stesso vescovo Pietro II aveva facilmente nominato abate di San Zeno anche il successore di Ottonello, il monaco Jacopo de’ Pasti (1387-1394). E non è improbabile che prima di essere costretto ad abbandonare la sede episcopale di Verona nel 1387, nell’imminenza della fine della signoria scaligera, abbia anche conferito la commenda abbaziale di Calavena e Benedetto de’ Pasti, già monaco in San Zeno maggiore. Fu abate sfortunato e per pochi anni, dal 1387 al 1393, quando morì lontano dalla sua abbazia; ma abate effettivo lo fu ancor meno perché il 20 aprile 1391 fu destituito dal vicario imperiale il duca di Milano Giangaleazzo Visconti. Dovette essere uomo autoritario e di poca diplomazia. Già nei primi anni del suo governo si era inimicato l’intera popolazione dell’abbazia che gli era stata data in commenda. Il 30 dicembre 1390 aveva rinnovato la decennale investitura del monastero a qual Comune, in particolare dei quattro boschi dal Gamale, Scandolara, Carpene e Rumiago. Ma dovette in certo qual modo ………., senza diplomazia ed in modo autoritario. Mentre all’inizio nel 1333 questa investitura era stata fatta dall’abate Castellano a 64 capifamiglia consenzienti, e nel 1381 dal suo predecessore, l’abate Francesco Cavaleri, era stata rinnovata al mazzino (sindaco) dal comune cimbro di Spreaconprogno Avanzo Rossimorto unitamente al altre 32 famiglie, l’abate Benedetto de’ Pasti investì di sua autorità soltanto undici capifamiglia da lui scelti dalle diverse località. E precisamente: • Ser Belpo fu Anzio dal Carpene • Bertoldello fu Martino • Ponzio fu ser Berto • Lorenzo fu Andrea • Enrico fu Nicolò • Berto fu Nicolò tutti di Sant’Andrea di Progno • Ser Nicolò fu ser Bertoldo dalle Vacche negre di Scandolara 162 • Ser Pietro fu Enrico da Canterio di Scandolara • Matteo detto Anastasio fu Enrico Bacareto • Pietro fu Guglielmo entrambi dell’Alpesino • Enrico fu Nicolò dagli Stizzoli e pochi altri, che si obbligavano insieme alla presente locazione. Ma c’erano parecchi altri padroni di masi in questi siti, osserva lo storico Cipolla. Infatti il documento di investitura continua e mette in risalto la prepotenza dell’abate. “Che se i molti altri monaci di cui non s’è fatta menzione e quei pochi di cui s’è fatta, non vorranno accettare questa investitura né vorranno sottostare si sopraddetti accordi, soltanto gli undici sopraddetti e nominati diventeranno i soli ed unici padroni di tutta le contrade del territorio monastico”. (1) Sembra una sentenza di morte dell’autonomia comunale. Questo irritò fortemente quelle popolazioni, anche se l’abate ammette che questo controllo debba avere la conferma del vescovo di Verona. In questo modo l’abate Benedetto de’ Prati dovette inimicarsi talmente gli animi dei sui sudditi che quando, non più di un mese dopo, si presentò l’occasione, essi riservarono al prepotente loro abate un’amara sorpresa. Nell’ottobre del 1388 Galeazzo Visconti, duca di Milano, aveva esteso il suo dominio signorile anche su Verona, allontanando ed eliminando via via i vari pretendenti dalla Famiglia scaligera. Due anni dopo però, nella primavera del 1390, Verona città e provincia si sollevò contro il potere del Visconte, che si era imposto come unico vicario generale dell’Imperatore in Alta Italia. La ribellione della città fu subito repressa nel sangue nel giugno dello stesso anno 1390. In provincia invece le cose andarono più a rilento. Così l’abate Benedetto de’ Pasti, tacitamente sempre legato agli Scaligeri, ebbe modo di manifestarsi apertamente un focoso avversario dei Visconti e si legò politicamente a Francesco Carrara signore di Padova ed imparentato con la Famiglia scaligera. I signori Carrara, nemici dichiarati dei Visconti, avevano occupato la Val d’Illasi e si erano arroccati con facilità nell’inespugnabile castello scaligero d’Illasi (13 luglio 1390). __________________________________________________________________ (1) SNC pag. 216 cf. Cipolla pag. 100 163 Quando poi i soldati milanesi nei primi giorni del 1391 ripresero le loro azioni militari nella Val d’Illasi, la popolazione cimbra delle montagne del monastero di Calavena – armata come si può immaginare – contro le attese del loro abate che avrebbero dovuto aiutare anche con le armi, resistette coraggiosamente e sconfisse a Sant’Andrea di Progno un gruppo di soldati di Francesco Carrara che, saliti dalla Val d’Alpone, stavano scendendo dalla Val Tanara. Il bottino è rimasto proverbiale nella storia di questa gente: 100 prigionieri e 73 cavalli. Con questa imboscata partigiana i Cimbri della Calavena con altri della Lessinia favorirono apertamente il nuovo vicario imperiale il duca Galeazzo Visconti, ma specialmente si liberarono dell’abate Benedetto de’ Pasti che dovette andarsene per sempre sotto la protezione di Francesco Carrara anche lui fuggito da Padova. Questi invasori Carraresi erano stati favoriti ed accolti dallo stesso abate Benedetto de’ Prati: dovevano facilmente occupare porzioni strategiche dell’Alta Val d’Illasi e della Lessinia. Infatti subito dopo la sconfitta dei Carraresi e la fuga dell’abate stesso, Giangaleazzo Visconti lo destituì come ribelle e traditore, conferendo il 20 aprile 1391 di sua iniziativa, con la sola riserva della conferma popoli, la commenda del monastero di Calavena ad un suo sostenitore il sacerdote Antonio figlio di Giovanni da Padova, arciprete della Pieve di Sambruson (Padova) da poco postovi dal Visconte (1388). (1) ____________________________________________________________________ __ (1) SNC pag. 49 164 Anche se l’abate Antonio non fu mai confermato dal Pontefice, l’abate Benedetto de’ Pasti pagò così il suo essere politico: se ne andò dal suo monastero con il bel titolo di ribelle e di traditore. L’abate Antonio, che nella serie degli abati di Calavena fu sempre considerato come un “intruso” (1), mantenne il suo titolo abbaziale anche dopo che il papa Bonifacio IX (1389-1404), alla morte dell’abate legittimo Benedetto de’ Pasti, aveva nominato il 10 febbraio 1393 come successore il monaco benedettino Giovanni di Frassinedo del monastero dei Santi Nazaro e Celso di Verona. (2) A conferma di questo ci sta un atto pubblico di ordinaria amministrazione dell’abate Antonio fu Giovanni stipulato nella chiesa di Sant’Andrea d’Illasi il 10 febbraio 1394; inoltre si può osservare che l’abate legittimo Giovanni di Frassinodo iniziò la sua attività amministrativa più di 10 anni dopo la sua nomina, nel 1406 quando Venezia stava imponendo il suo pacifico dominio anche sul territorio veronese, in seguito alla totale ritirata dei Visconti dai territori Veneti. All’abate Benedetto de’ Pasti vengono mosse anche altre pesanti accuse dal suo avversario il duca Giangaleazzo Visconti: le ingiuste alienazioni di beni dell’abbazia di Calavena. “Voglio inoltre che se l’abate di Calavena Benedetto de’ Pasti, che mi risulta essere stato durante la ribellione della mia città di Verona (primavera 1390) e quando il signore di Padova Francesco …………. da Carrara tentò di occupare il mio territorio di Verona, a me ribelle e traditore della fiducia accordatagli, avesse alienato beni della detta Abbazia, essi siano restituiti al sacerdote Antonio di Padova arciprete della pieve di San Bruson. (3) L’abate Benedetto de’ Pasti rispecchia con evidenza il clima di incertezza dal primo dominio visconteo in Verona. Convinto fautore politico della signoria scaligera e uomo rispettoso dell’autorità religiosa e politica dominata da Giangaleazzo Visconti, quando il malcontento popolare esplose contro il dominatore straniero, anche l’abate di Calavena si ribellò gettandosi dalla parte della maggioranza dei suoi concittadini e pagò unicamente la coerenza dei sui sentimenti. Non gli si può però perdonare il fatto d’aver portato forse per la prima volta il flagello della guerra in quelle pacifiche contrade della Calavena. E d’aver indirettamente favorito invasione nel monastero di Calavena – e forse anche in altri – della famiglia filoviscontea dei Peraga-Badoero di Padova. Per un secolo (1393-1498) il ricchissimo patrimonio abbaziale (più di 500 fiorini annui) dell’abbazia di Calavena sarà conteso tra le due famiglie Peraga-Badoero di Padova e dei Maffei di Verona, fino a diventare poi (14981771) all’interno della Congregazione cassinese, un feudo del monastero cittadino dei Santi Nazaro e Celso. ____________________________________________________________________ (1) Biancolini V, 2 pag. 112 (2) SNC pag. 80 (3) SNC pag. 49 165 L’abate Giovanni di Frassinedo 1393 - 1424 Morto il legittimo abate commendatario Benedetto de’ Pasti, il papa napoletano Bonifacio IX (1389-1404) con bolla del 10 febbraio 1393 nominò abate commendatario del monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena il monaco professo e sacerdote Giovanni di Frassinedo.(1) Giovanni di Frassinedo, di nobile famiglia padovana, era monaco del monastero benedettino dei santi Nazaro e Celso di Verona. Apparteneva all’antica famiglia dei Peroga di Padova (2) tradizionalmente legata agli ambienti ecclesiastici padovani (3) questa nobile famiglia si era imparentata del 1250 con quella altrettanto nobile dei Badoero di Venezia. (4) Durante la signoria padovana dei Carraresi (1318-1405) la famiglia emergente e più terribile in Padova era quella dei Peraga, celatamente sempre avversa a quella dominante. Tra i giovani della famiglia padovana c’era stato il cardinal Bonaventura dei Peraga, monaco agostiniano ed amico del poeta Francesco Petrarca, il quale era stato barbaramente assassinato (1385) per mano di sicari del tiranno signore di Padova Francesco il Vecchio da Carrara suo lontano parente. Questo abate commendatario di Calavena, proveniente dal monastero veronese dei santi Nazaro e Celso e di origine padovana (5) si presenta nei documenti con diversi nomi: nella bolla popoli dal 1393 è chiamato Antonio da Frassenedo; (6) dal 1406 il nome più frequente è Giovanni da Frassinedo di Padova; ma ricorre anche quello di Giovanni da Peraga di Padova; (7) anche negli ultimi atti del suo governo abbaziale (1418-1424) appare solo Giovanni da Peraga tanto da indurre qualche storico frettoloso nell’errore di vedere in lui due abati Giovanni, uno di Frassinedo (1393-1418) e uno di Peraga (8). In realtà può trattarsi sempre della stessa persona , chiamata dai diversi notai con nomi leggermente diversi. O se si tratta di persone diverse appartenenti tutte alla stessa grande famiglia padovana, quella dei Peraga. Baduero per l’appunto, è da pensare che la commenda venisse affidata non alla persona, ma alla famiglia, perlomeno come amministrazione economica che è l’unica che a noi risulta attraverso i documenti. Infatti l’abate Maffeo Maffei, che ha seguito e questa varietà di nomi, chiama tranquillamente il suo predecessore Giovanni da Frassinedo; (9) e in una pergamena il qualche anno più tardi si parla di vecchie (1420-1427) locazioni fatte dal signor Antonio Giovanni Badoero. (10) ____________________________________________________________________ (1) SNC pag. 80 (2) SNC pag. 1321 del 1407 (3) cf. Mimmo Benetti. Storia del ……………. pag. 63 (4) SNC pag. 901 (5) SNC pag. 1250 dal 1407 (6) SNC pag. 80 (7) SNC pag. 1321 dal 1407 e pag. 1325 dal 1409 (8) cf. L. Perini (1730) e G.B. Biancolini (1750) (9) SNC pag. 1341 (10) SNC pag. 901 166 Antonio Giovanni da Frassinedo poteva essere discendente da un ramo femminile della nobile famiglia dei Peroga – Badoero di Padova. Si sa poi che i Peroga furono sempre orgogliosi del loro antico nome e che da incalliti diplomatici sapevano usarne a seconda dei tempi e delle circostanze. Un’altra possibile spiegazione di questa varietà di nomi ci viene suggerita dal fatto che negli ambienti delle commende benedettine del Veneto doveva farsi già sentire proprio in questo tempo di disordine politico ed ecclesiastico – a cavallo tra il 1300 e il 1400 – quell’idea che avrà la sua realizzazione a Padova nell’antico monastero di santa Giustina per opera del suo abate commandatario Lodovico Barbo (1381-1443) a partire dal 1408. Un’idea rivoluzionaria nella storia benedettina, che voleva unificare gli ormai estinti monasteri di San Benedetto in un'unica congregazione di benedettini: la Congregazione dell’unità. Parlando in particolare dell’ambiente veronese, sembra ci fossero dei precisi legami tra il monastero cittadino di santa Maria in Organo e il monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena. L’abate di Calavena dimorava e agiva talvolta nel monastero di santa Maria in Organo.(1) E’ documentato inoltre che il papa concilianista Giovanni XXIII (14101415) aveva autorizzato l’abate commendatario dei santi Pietro e Vito di Calavena Giovanni de Frassinedo ad alienare addirittura la terza parte dei beni del monastero di Calavena in favore principalmente del monastero cittadino di santa Maria in Organo per salvarlo dei debiti dai creditori. (2) Terre queste probabilmente comperate dal sagace Bartolomeo Massetti dati al monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. Inoltre la serie degli abati dei due monasteri s’intrecciarono stranamente. (3) Il monaco dei santi Nazaro e Celso Antonio di Frassinedo da Padova, che nel 1393 viene nominato dal papa Bonifacio IX abate commendatario di Calavena – e che in seguito non appare in nessun altro documento del monastero di Calavena – è presente dal 1390 al 1405 quale abate di Santa Maria in Organo col nome di Antonio da Frassinedo (4) e Antonio da Peraga (5). Quando poi dal 1406 nel monastero di Calavena si fa presente l’abate Giovanni de Frassinedo – e non Antonio di Frassinedo – che continuerà ad essere chiamato con i due nomi di Giovanni di Frassinedo e Giovanni da Peraga fino al 1423, un Antonio (II) da Peraga continuerà ad essere abate di santa Maria in Organo fino al 1423, anno della sua morte, e gli succederà nello stesso monastero di santa Maria in Organo Giovanni da Peraga come economo. (6) ____________________________________________________________________ (1) SNC pag. 892 e 111 (2) A.S. Vr Santa Maria in Organo. Rotolo 6 (3) Biancolini V, 1 pag. 8 e 2 pag. 112 (4) Luciano Rognini – Manoscritti inediti (5) Biancolini V, 1 pag. 8 (6) Luciano Rognini – Manoscritti inediti 167 Nel monastero di Calavena dal 28 giugno 1424 sarà decisamente abate Maffeo Maffei di Verona monaco dal monastero cittadino di san Zeno maggiore. (1) Da abate commendatario qual era Giovanni da Frassinedo (2) nel lungo periodo del suo incarico volle applicare con chiarezza giuridica l’istituzione tradizionale della commenda ecclesiastica. (1) SNC pag. 81 (2) Lodovico Perini – Carteggio di Calavena n°26 168 Nei secoli precedenti, fin dalle origini il monastero dei Santi Pietro Vito e Modesto di Calavena era chiamato abbazia perché si trattava di una comunità di monaci presieduta da un abate che veniva eletto dalla comunità e che doveva in tutto prendersi cura di essa. Monastero era sinonimo di abbazia. Quando invece il monastero …….. sui possessi e le sue rendite, venne dato in commenda ad un abate estraneo alla comunità, alla si distinse abbazia da monastero: l’abbazia infatti è un incarico ecclesiastico che dà diritto a tutte le rendite economiche del monastero; e il monastero è un entità produttiva costituita dalla proprietà dello stesso. L’abate commendatario quindi, in forza della sua carica, entra in possesso di tutte le rendite del complesso monastico, libero di provvedere ai monaci del suo monastero nel modo e nella maniera che crede. Le rendite diventano un beneficio dell’abate commendatario, e non della sua comunità monastica. Per questa distinzione giuridica, l’abate Giovanni da Frassinedo non si preoccupò di risiedere nell’antico monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena, ma portò e stabilì la sua dimora, come più comoda alla città e degna del suo rango, nella casa che il monastero già da tempo possedeva nella cittadina di Tregnago. Anzi, senza per questo trascurare del tutto l’originario monastero di Calavena , chiamò questa casa la Casa dell’abate, la sua abitazione, costituendola anche sede amministrativa – canipa – dalla sue entrate che si riscuotevano dall’intera proprietà monastica. (1) Infatti dei molti atti amministrativi – una trentina – solo uno è stipulato nel vecchio monastero di Calavena; gli altri, nella stragrande maggioranza, a Tregnago e spesso nella casa dell’abate, o addirittura nelle case dell’abate. Le rendite poi di tutte la località, vicine o lontane che fossero, dovevano essere portate per contratto nella sede amministrativa di Tregnago, alla canipa dell’abate. Queste rendite consistevano, lo ripetiamo nel canone d’affitto generalmente in denaro, ma anche in buon grano e in spalle di porco salate (2), nelle decime dei prodotti dei campi e nei doni d’anno al padrone (le regalie). In questo modo all’aria cittadina che il paese di Tregnago già respirare da quando il comune di Verona (1207) aveva dato vita al comune rurale di Tregnago, si aggiunge questa presenza religiosa di alta qualità. Però si deve amaramente rilevare che il legame tra il monastero benedettino di provincia dei santi Pietro Vito Modesto di Calavena e i due monasteri di città, quello dei santi Nazaro e Celso – da cui proveniva il monaco professo Antonio da Frassinedo – e quello di santa Maria in Organo – a cui ____________________________________________________________________ (1) SNC pag. 1316, 1317 (2) SNC pag. 1323 169 sembra far spesso riferimento l’abate di Calavena – avviò quella relazione che nella storia successiva diventerà sempre più intensa fino ad arrivare al lento assorbimento del monastero di provincia in quello cittadino (1498), che sarà per intervento diretto dei papi Eugenio IV (1432) e Alessandro VI (1498), solo il monastero dei santi Nazaro e Celso aggregato (1444) alla Congregazione Cassinese. L’abate Giovanni di Frassinedo benchè gli fosse stata conferita la commenda nel 1393, potè iniziare la sua attività amministrativa solo nel 1406, quando cioè la situazione politica a Verona ritornava alla normalità per merito dalla serenissima repubblica di Venezia (1405). Il più che decennale vuoto amministrativo, preceduto da altri momenti di disordine, aveva prodotto un grave dissesto specialmente nei rapporti di affittanza – o di locazione, come si diceva allora – che avevano precise scadenze decennali di rinnovo. Ne avevano approfittato lungamente le autonomie famigliari e di gruppo. Il primo impegno quindi fu quello di arginare la dispersione, purtroppo ormai avanzata dei beni monastici e di recuperare quelli già caduti in abitudini e facilitazioni fiscali. Nei primi tre anni di questo lavoro amministrativo (1406-1408) gli atti di rinnovo delle locazioni sono più di una decina per un complessivo di una quarantina di terre affittate. Il primo intervento fu nella contrada di Sorcè nel territorio d’Illasi: questa contrada appare già suddivisa in Sorcè di sopra e in Sorcè di sotto. (1) Sembra che solo Sorcè di sotto resti decisamente nell’ambito del monastero di Calavena, mentre Sorcè di sopra, assieme a Gusperino, stia costruendo la sua autonomia per cadere col tempo entrambi nell’ambito dei Conti Pompei d’Illasi. (2) L’atto di affittanza è stato stipulato ad Illasi di San Bartolomeo nell’abitazione dell’affittuario, con l’obbligo di portare il fitto e le decime alla sede amministrativa di Tregnago. Meno semplice dovette essere il contratto di affittanza stipulato dal comune di Cogollo. Il comune di Cogollo era totalmente un fondo del monastero di Calavena per l’acquisto fattone nel 1162 dall’abate Rodolfo; inoltre questo paese era già da tempo (1250) costituito in comune rurale con le sue strutture amministrative. L’atto pubblico di affittanza viene stilupato in un venerdì imprecisato del 1407 a Verona nel monastero più antico della città, quello di santa Maria in Organo. ____________________________________________________________________ (1)SNC pag. 1249 (2)Schema pag. 158 e 159 170 Il contratto è fatto tra l’abate don Giovanni di Frassinedo ed il sig. Zenato massaro (sindaco) e difensore del comune di Cogollo. Il signor Zenato in qualità di rappresentante del suo comune riconosce che le otto terre elencate nel contratto erano da sempre state date in affitto dal monastero di Calavena.(1) Talvolta le cose si presentavano molto più complicate ed allora si richiedeva il giudizio del Vicario di Tregnago. Il Vicario di Tregnago era dal 1207 un cittadino della nobiltà veronese che il comune di Verona mandava nei sui vicariati della provincia con svariati poteri, tra i quali anche quello di amministrare la giustizia. Il Vicario era la più alta autorità nella circoscrizione dei comuni che formavano il suo vicariato. Così avvenne che nell’aprile del 1407 il nobile signor Silvestro a Seta del fu Gabrieli di San Salvanio di Verona, quale vicario della terra di Tregnago, dovette intervenire in una questione tra l’abate don Giovanni Frassinedo di Padova e il cittadino di Tregnago Antonio detto Bevilacqua del fu Bonifacio per il rinnovo d’un affittanza. (2) Il Vicario teneva queste udienze giudiziarie nella sua casa a piè del castello (3),ed anche in piazza di sant’Egidio nel palazzo del comune di Tregnago. Così facevano nel 1414 il prudente signor Ionico die Gardolfi del fu Giovanni (4), e nel 1418 il signore Daniele dal fu Teoldo dei Trivelli di Verona. (5) Ed ancora nel 1421 il notaio Agostino dé Carnoli di San Paolo di Verona. Nel 1424 era vicario Bartolomè dé (6) Guastevere. (7) Per quanto riguarda il paese di Tregnago si può osservare che in questo tempo di riprese, l’abbazia di Calavena per iniziativa del suo intraprendente abate commendatario Giovanni Frassinedo di Padova, abbia allargato il suo potere economico estendendolo anche su terreni che passavano come beni comunali. In particolare si deve accennare almeno alla vasta zona pianeggiante al di là del Progno ai piedi del monte Biaggio e Montecchio località chiamate Castaldè: si trattava di terre arative con viti, di prati e di boschi. ____________________________________________________________________ (1) SNC pag. 892 (2) SNC pag. 1320 e 1321 (3) SNC pag. 1335 (4) SNC pag. 1329 (5) SNC pag. 1331 (6) SNC pag. 1252 (7) SNC pag. 1335 171 E sui monti comunali (1) a levante di Tregnago è nominata una vasta estensione di prati chiamata il Camoledo, nella val dei Gambari tra i Cuneghi di sotto e i Cuneghi di sopra. Il Camoledo è l’odierno monte Pegora. (2) Nonostante questo interesse preponderante per il paese di Tregnago, l’abate Giovanni di Frassinedo non trascurò la sede originaria del monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena, dove almeno qualche monaco esperto di lingua cimbra doveva continuare a mantenere dei sacrosanti impegni religiosi nei confronti di quella popolazione. Così appare dall’atto pubblico del 16 settembre 1408, l’unico stipulato nel chiostro dell’abbazia di Calavena da questo abate commendatario. “Con la presenza del signor Gutifredo di Germania – questo monaco era certamente esperto della lingua locale cimbra – del venerabile signor padre Giovanni Frassinedo di Padova, per grazia di Dio e dalla sede apostolica abate del monastero, del capitolo e della comunità dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena si concluse l’atto di affitto di quattro terre appartenenti, sia pure in modo diverso, al monastero con Matteo fu Rigo del comune di Spreaconprogno (Badia Calavena) abitante nella contrada dell’Alpesino. (3) La casa dell’abate del monastero dei santi Pietro Vito e Modesto a Tregnago, per la sua ampiezza ed accoglienza, veniva usata anche come sala civica per importanti atti pubblici. Come avvenne in parte nel giugno del 1409, quando di comuni di Marcemigo e di Tregnago stipularono l’accordo sui confini dei rispettivi territori. Nella casa dell’abate il giovedì 13 giugno alla presenza del vicario di Tregnago Cristoto dei Crisostoti dei san Sebastiano Verona, dei notaio Bartolomeo dei Bendefici di Tregnago e dal venerabile singor fra Giovanni di Frassinedo di Padova abate del monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena distretto di Verona, furono messi a confronto i due rappresentanti dal comune di Marcemigo – Franceschino Galvani e Pietro Girardini – e i due rappresentanti del comune di Tregnago – Pietro fu Bartolomeo dei Zorcei e Alberto di Pietro dei Fontani – e nella pieve di santa Maria di Tregnago il giorno successivo 14 giugno si giunse alla conclusione arbitrale fatta dai due esperti cittadini di Verona il signor Pietro Paolo Maffei fu Antonio della contrada di San Benedetto ed il notaio Guglielmino fu Giacomo della contrada dei san Sebastiano. (4) La casa dell’abate a Tregnago forse talvolta costituita non da una sola costruzione, ma da più e diverse costruzioni: in dominbus nella case di abitazione dell’abate; tanto da costituire come una corte recintata da mura. (5) ____________________________________________________________________ (1)SNC pag. 1318 a 1322 (2)SNC pag. 1319 (3)SNC pag. 217 (4)SNC busta 85 finc. 1109 (5)SNC pag. 1316, 1317 172 L’attività dell’abate commendatario Giovanni di Frassinedo dovette rimanere veramente intensa fino al termine della sua vita che si concluse sul finire dell’anno 1423. Tuttavia, stando alle designazioni delle località nominate nei documenti, alla fine ci si vide costretti a ridisegnare una nuova mappa dei possedimenti del monastero dei Calavena a confronto di quella originaria di fondazione del papa Lucio III del 1185. Pur rilevando l’allargamento del territorio intorno al monastero nell’alta Calavena e intensificazione capillare delle presenze nel territorio di Tregnago, si deve lamentare il diradarsi delle località nella parte meridionale dalla valle – ad Illasi ed ancor più a Colognola. – la totale scomparsa della corte di Caldiero e del Comune di Gusperino, senza contare località più periferiche. Si può così storicamente osservare che la burrasca di Ezzelino da Romano (1230-1260) e quella della Famiglia Scaligera (1268-1388) era passata anche per questo antico monastero di provincia: come per tutti i monasteri veronesi che lamentavano gravi perdite, quando non furono addirittura costretti a scomparire. Ma la tempesta più grave in questo campo fu la prassi ecclesiastica della commenda. Gli abati commendatari, incaricati dall’autorità pontificia di amministrare i beni degli antichi monasteri, erano spesso costretti dalle circostanze e talvolta dalla stessa autorià centrale a vendere ed alienare i beni a loro affidati. Durante l’ultimo periodo dallo scisma di occidente (1409-1416) e precisamente sotto il pontificato dal papa concilianista (pisano) Giovanni XXIII (1410-1415) all’abate di Calavena fu richiesto di alienare la terza parte dei beni del monastero di Calavena a favore dei monasteri cittadini di San Fermo e di Santa Maria in Organo. Nella bolla di papa Eugenio IV (1431-1447) del 3 dicembre 1434 si parla espressamente dei questo permesso dell’antipapa Giovanni XXIII (1410-1415) il napoletano Baldassare Cossa, concesso all’omonimo abate di Calavena: gli doveva prima informarsi sulla reale sistemazione di questi monasteri e in caso di necessità vendere beni dal suo monastero di Calavena per saldare con il suo ricavato i debiti e tacitare i creditori. Ma forse in questa operazione l’innominato abate di Calavena – ma non poteva essere che Giovanni di Frassinedo o di Peraga – fosse andato oltre i limiti concessi dal Pontefice: una generosità non permessa dalle leggi e rimproverata più tardi appunto dal papa Eugenio IV. Si sa che l’antipapa Giovanni XXIII era particolarmente avido di denaro e dissipatore dei beni ecclesiastici. (1) L’attività di carattere amministrativo dell’abate Giovanni di Frassinedo che lo mostra come uno dei grandi tra gli abati del monastero di Calavena. ____________________________________________________________________ (1)A.S. Vr Santa Maria in Organo. rotolo 6 173 Un interesse assiduo per il bene sia pur materiale della sua abbazia fa intravedere in lui anche l’impegno spirituale per mantenere la disciplina monastica secondo le Regole del padre san Benedetto, benché il numero dei monaci rimanesse veramente esiguo. (1) Fu un abate benedettino all’altezza dell’impegno assunto e della stima popolare già manifestata nel decreto di nomina. In questo monaco benedettino, professo perpetuo e ordinato sacerdote spiccano “lo zelo per la vita monastica, l’elevata cultura, la purezza di vita, l’onestà dei costumi, la prudenza nelle cose spirituali e la competenza in quelle temporali.” (2) Un elogio invidiabile, anche se appartiene al formulario curiale. ____________________________________________________________________ (1)SNC pag. 1251 (2)SNC pag. 80 174 L’abate Maffeo Maffei 1424-1433 Maffeo Maffei di Verona, giovanissimo monaco dell’abbazia cittadina di san Zeno maggiore fu curato abate commentario dell’abbazia di Calavena dal pontefice Martino V con bolla del 28 giugno 1424. Il conferimento della commenda al ventiduenne monaco, professo perpetuo ma non ancora sacerdote, dell’ordine benedettino è giuridicamente quanto mai solenne. E’ fatto con quattro bolle ponteficie: una all’interessato Maffeo dove è evidente la stima papale per questo diletto figlio; (1) la seconda ai monaci della comunità del monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena; (2) la terza è rivolta a tutti i vassalli o dipendenti, che abitano nel territorio e lavorano la proprietà del monastero; (3) la quarta bolla al venerabile fratello il vescovo di Verona, il veneziano Guido Memo (1409-1438) già di obbedienza pisana perché lo favorisca nel suo gravoso incarico. (4) Nominato abate a soli ventidue anni, egli non potè entrare subito nel suo incarico, ma dovette prolungare la sua permanenza a Roma per completare la sua formazione ecclesiastica. Nel frattempo aveva costituito come personale rappresentante e procuratore per ogni affare economico suo padre, il nobile signor Doniali del fu Maffeo Maffei, che come tali assisteva talvolta il figlio anche in seguito. (5) Laureatosi egregiamente in diritto ecclesiastico (6), ed ordinato sacerdote, nell’agostro del 1427 entrò in pieno nella sua attività amministrativa, che si presenta come la continuazione di quella del suo predecessore l’abate Giovanni di Frassinedo. (7) Anche l’abate Maffeo Maffei di Verona stabilì la sua dimora a Tregnago nella sede amministrativa del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena. (8) ____________________________________________________________________ _ (1)S.NC. perg.83 (2)S.NC. perg.81 (3)perg.82 (4)perg 84 (5)perg. 595 e perg. 600 (6)S.NC. perg. 739 (7)S.NC. perg. 1341 (8) S.NC. perg. 1337-1345 175 Più di 15 atti notarili a Tregnago solo nell’agosto-settembre del 1427 indicano il ritmo quasi febbrile della sua attività. Urgeva in questo giovane monaco lo spirito riformatore dell’Ordine di san Benedetto. E’ questa la caratteristica più attraente della fisionomia spirituale dell’abate Maffei: riportare in un periodo di rinascita culturale anche il monachesimo agli antichi splendori dello spirito. Sotto il pontificato di Martino V (1417-1431), il papa che pose fine allo scisma d’occidente (1378-1418), ebbe inizio e si promosse in tutti i modi una grande riforma della vita monastica dei Benedettini. Questo papa nel 1419 aveva approvato la riforma benedettina della Congregazione di Santa Giustina di Padova, iniziata in quel monastero ancora nel 1408 dall’abate commendatario Lodovico Barbo (1381-1443), nominatosi dal papa Gregorio XII. Anche a Verona nel grande e vetusto monastero di san Zeno maggiore, dove lo stesso pontefice Martino V nel 1421 aveva compiuto la commenda abbaziale allabate Marco Emilix si stava portando a termine (1425) un’altra grande riforma benedettina, Marco Emilei di nobile famiglia bresciana, quella germanica di Bursfeld (1420) sostenuta con un massiccio apporto di monaci alemanni. Così il giovane Maffeo Maffei di Verona, monaco di questo monastero riformato, ancora il papa Martino V aveva conferito nel 1424 la commenda dell’abbazia di Calavena nella grande riforma benedettina germanica o italiana che fosse. La riforma - rinascita dell’abbazia di Calavena richiedeva comunque due grandiosi interventi: uno materiale e cioè la quasi totale ricostruzione dell’edificio monastico, ed uno spirituale e cioè il ritorno all’antico modo di vivere benedettino. L’abate Maffei dovette innanzitutto pensare a rimettere a posto gli edifici monastici, che da un secolo ormai (1348) erano stati più o meno abbandonati. Gli abati commendatari (1360), come s’è visto, avevano portato la loro sede a Tregnago nella così detta Casa del monastero o dell’abate. Nell’antico monastero dei santi Pietro e Vito, per lo spazio di circa ottant’anni, c’era qualche monaco per il servizio pastorale della popolazione, ma non una vera e propria comunità monastica come un tempo. Mancando l’abate, il vero padre d’una famiglia religiosa, non c’è più vita comunitaria, non c’è più il “convento”. Ecco perché il Maffei incominciò dall’edificio: per rendere possibile anche la rinascita della disciplina monastica, d’una comunità benedettina. Infatti il monastrero dei santi Pietro e Vito di Calavena era stato fondato affinché dei Monaci assieme al loro Abate fosse abitato. 176 In un edificio ben articolato che comprendesse la chiesa, il monastero e la Casa dell’abate, si poteva iniziare la formazione di una comunità religiosa come nei tempi passati. Anche esternamente questi edifici dovevano essere all’altezza dell’originario monastero che appariva fin dagli inizi una “solenne costruzione”. Inoltre era dotato di rendite sufficienti per l’abate e i suoi numerosi monaci. (1) La rendita del monastero dei santi Pietro e Vito si riteneva comunemente che ammontassero a quattrocento fiorini d’oro all’anno: una bella cifra, non di molto inferiore a quella del monastero cittadino più grande, di san Zeno maggiore (quasi seicento fiorini). Che il vecchio edificio monastico dei santi Pietro e Vito e Modesto di Calavena fosse in uno stato pietoso ne fa testimonianza un contratto amministrativo del 1427 che si dovette stipulare non nel monastero, ma “in un posto vicino agli edifici del monastero stesso verso mattina”. (2) Ed è questo uno dei pochissimi atti stipulati qui dal Maffei. Così pure è detto qualche anno dopo, nel settembre del 1433 quando, a lavori iniziati dal Maffei il papa Eugenio IV decideva d’autorità di unire il monastero di Calavena alla Congregazione di Santa Giustina di Padova. Nel decreto di unione è detto. “Questo monastero che era fin dagli inizi maestoso nelle forme e ricco di rendite, allo stato attuale per colpa della malignità dei tempi e dell’incuria di abati commendatari, ma è stato tentato in esso da molti anni in qua, sicchè oggi non viene osservata la Regola benedettina e si vedono andare in grave deperimento edifici e rendite.” (3) Con questi buoni intendimenti e sull’esempio del papa Martino V, che stava ricostruendo Roma, l’intrapendente abate Maffeo Maffei, iniziò alacremente nel 1427 l’opera di ricostruzione dell’abbazia di Calavena. Certo aveva davanti l’esempio dell’abate di Villanova Giovanni Guglielmo (13701420), nativo di Modena, la terra della grande abbazia di Nonantala. A questa ricostruzione non era assente l’atmosfera creata anche dalla grande riforma dell’ordine benedettino di santa Giustina di Padova, la riforma italiana. Il Maffei non pensò certo ad un restauro archeologico dell’antico monastero, ma ad una vera e propria ricostruzione imposta ormai dalla nuove esigenze della vita monastica e dai criteri architettonici del Rinascimento. L’innovazione rivoluzionaria dell’edilizia monastica eseguita dalla nuova spiritualità fu quella delle celle individuali che permettevano la libera intimità religiosa ai singoli monaci: le celle sostituirono l’antico dormitorio comune che fu abolito. Esse vennero distribuite nel piano superiore dell’edificio. ____________________________________________________________________ (1)Biancolini V, 2 pag.127 (2)S.NC. perg.385 (3) Biancolini V, 2 pag.127 177 Con la riforma monastica italiana l’abate doveva riprendere la sua funzione primaria di guida spirituale ed amministrativa del monastero: per questo fu necessaria una Casa dell’abate, annessa al monastero, adatta anche ai molteplici rapporti con il pubblico. Si osservò infine più severamente la clausura per evitare il pericolo di distrazione dei monaci. Così si dovette affidare ad un sacerdote non legato alla vita monastica, il cappellano il ministero pastorale per la cura dei fedeli: per il cappellano si stabilì un ambiente esclusivamente riservato a lui. E come strutture ambientali per conservare la clausura dei monaci si dovette specialmente creare il chiostro moderno. Il chiostro doveva essere uno spazio ampio ed almeno all’aperto riservato ai soli monaci, dove essi potessero trascorrere nel silenzio e nel raccoglimento i tempi lasciati liberi dalla preghiera liturgica e dalla meditazione in cella. È Lodovico Perini che attribuisce con chiarezza all’abate commendatario Maffeo Maffei di Verona la ricostruzione dell’Abbazia di Calavena nelle forme attuali. “Questo abate - dice di lui - intraprese ad edificare appresso la chiesa parrocchiale di Calavena il nuovo monastero che oggidì si vede “ed aggiunge” il Maffei bramava di ristabilire il monastero nel suo antico splendore… con l’idea di coadiuvare la Congregazione di santa Giustina di Padova “giacchè” moltissimi monaci ancorché Abbati commendatari sommamente amavano per mezzo suo di riformare i loro monasteri”.(1) E credo proprio che nel progetto generale dell’abate Maffeo Maffei di Verona si intendesse distribuire tutto il complesso degli edifici monastici di Badia Calavena nella disposizione che mantengono ancor oggi. Questo si può affermare dal fatto che dopo di lui non si richiese e non ci furono storicamente altri grandi rifacimenti. Anche la costruzione della nuova chiesa nel 1832 interessò l’abbazia solo marginalmente. Quindi tenendo sottomano la pianta dell’attuale pianoterra, si possono fare ipotesi attendibili sui lavori ampiamente progettati e programmati, ma solo in parte eseguiti, su precise indicazioni dell’abate Maffeo Maffei. Oggi gli edifici monastici si dispongono sui quattro lati di un cortile pressoché quadrato. Si tratta di quadrilatero di oltre mt. 25 per ciascun lato. E’ da pensare che il problema di partenza più difficile da risolvere per il maestro costruttore possa proprio di ricavare quell’ampio spazio centrale che sarebbe diventato il chiostro. ____________________________________________________________________ (1)Lodovico Perini. Dell’antichità ed origine del monastero e della Badia di Calavena. Biblioteca civica b.26 178 E’ evidente che prima del Maffei gli ambienti del monastero si erano moltiplicati, secolo dopo secolo e a seconda delle esigenze, in modo non ben ordinato. Perciò il Maffei dovette ridimensionare un po’ tutto e disporre gli ambienti caratteristici di una abbazia in forma nuova e in modo che risultassero disposti con arte quattro lati del chiostro. L’ala totalmente nuova fu quella rivolta a sera: la casa dell’abate. Un ambiente riservato all’abate non esisteva di regola nei primi tempi: fu soltanto nel periodo degli abati commendatari che si richiese un’abitazione degna di questi alti prelati. Perciò si dovette liberare da precedenti costruzioni che di certo non mancavano, tutto questo lato verso sera dal chiostro. Quali costruzioni furono sacrificate? Secondo alcuni addirittura l’antico castello del vescovo Valterio di Ulma (1040). Questa costruzione ad arcate, in corrispondenza ad in simmetria con quella di fronte si univa ad angolo retto con il lato meridionale antico: era molto grande con una porta che dava sull’esterno. Al piano terra della Casa dell’abate c’era la cosiddetta Camera dell’abate, un accogliente locale dove egli si incontrava con le persone esterne per trattare ogni tipo di affari. (1) Questa casa dell’abate era perlomeno grande come quella di Tregnago. Al piano superiore, che non fu portato a termine, dovevano essere collocati gli appartamenti privati dell’abate. La chiesa dei santi Vito e Modesto sul lato a tramontana fu ristrutturata e disposta com’è allo stato attuale. Essa non doveva trovarsi totalmente in quella posizione perché i muri laterali nostrani evidenti segui di rimaneggiamenti su precedenti costruzioni. Inoltre pare che la chiesa avesse il campanile sul lato destro di chi la guarda di fronte. (1) Tenendo per fermo che il campanile sia rimasto nella posizione originaria, la chiesa venne ricostruita cambiandone l’orientamento, perché oggi il campanile è sul lato sinistro della chiesa. Forse la chiesetta dei santi Vito e Modesto, che prima era orientata nord-sud ed era in parte appoggiata con l’abside al campanile, fu orientata regolarmente est-ovest, lasciando il campanile sul lato sinistro. Questo evidentemente comportava anche una nuova disposizione degli spazi all’interno della chiesa: la porta d’entrata che era unica(3), le finestre per la luce e l’altare principale. ____________________________________________________________________ (1)SNC perg. 739 e 1253 (2)Cfr. mappe Almangià e Vaticano (Danti) (3)Visite pastorali di Ermolao Barbaro pag. 182 179 La parte sul lato a mattina del complesso monastico fu mantenuto allo stato originario. La parte principale dell’antico monastero, quella sul lato meridionale del chiostro, doveva essere l’ambiente claustrale per eccellenza dell’intera comunità monastica. Essa venne adottata nel giorno superiore per ricavare dal dormitorio comune alcune celle individuali per i monaci. Il piano terra fu lasciato come era prima dei lavori. E dato che i monaci allora erano pochissimi (1) questo ambiente divenne la comoda e signorile abitazione del cappellano che era di solito un sacerdote secolare. Dell’abate Maffeo Maffei di Verona è il doppio porticato che adorna la facciata di questo lato del monastero e che doveva proseguire dall’edificio a mattina ma che fu solo iniziato. E’ quanto di più bello abbia potuto pensare e costruire questo geniale monaco benedettino, proveniente dal magnifico monastero cittadino di San Zeno Maggiore. Però il pensiero va al chiostro di Monte Oliveto Maggiore dei benedettini Olivetani (1313). A parte l’aspetto funzionale di questo raccolto ambientale religioso, i monaci senza uscire dalla clausura potevano godere all’aria aperta tutta la bellezza del creato in ogni stagione dell’anno. Essi potevano passeggiare silenziosi assaporare le parole famose d’un monaco come loro: “Il chiostro rappresenta la contemplazione, nella quale l’anima si piega su se stessa, dove si posa dopo essersi separata dai pensieri materiali e dove medita sui beni spirituali. Nel chiostro vi sono quattro lati che sino : l’amore di Dio, l’amore fraterno, il disprezzo di sé e il disprezzo del mondo.” Un vero gioiellino quattrocentesco doveva essere quell’abbazia che resterà per sempre la bella Incompiuta dell’abate Maffeo Maffei di Verona! Le cose andavano a gonfie vele quando all’inizio dell’anno 1433 tutta l’attività dell’abate Maffeo Maffei di Verona viene bruscamente interrotta. Il prestigioso abate che era nel fior dei suoi trent’anni, sigla in quell’anno il suo ultimo documento rimastoci della sua abbazia di Calavena. Eccolo. “Atto stipulato dal notaio di Tregnago Filippo figlio di Pietro Moscardini, il 18 Gennaio 1433. Nel paese di Spreaconprogno (Badia Calavena), nel monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena, nella camera terrena dell’abate dello stesso monastero. ____________________________________________________________________ (1) S.NC. 180 Il reverendo padre ed egregio dottore don Maffeo Maffei di Verona, per grazia di Dio abate del detto monastero, conferma l’affitto di quattro appezzamenti di terra nel territorio di Lavagno nella contrada delle Marangiole.(1) Che cosa era successo? Nel febbraio del 1431 era morto il pontefice della famiglia romana dei Colonne Martino V, che certamente aveva favorito il nostro cittadino, e solo dieci giorni dopo era stato eletto papa Eugenio IV dalla famiglia veneziana dei Condulmer. Anche Eugenio IV (1431-1447) caldeggiava la riforma dei monasteri benedettini, ma voleva a tutti i costi che ciò avvenisse secondo le norme già collaudate nell’abbazia di santa Giustina di Padova. Il pontefice stesso, nel 1432 aveva istituzionalizzato questa Riforma padovana come l’unica che in Italia dovesse creare una Congregazione di tutti i monasteri benedettini i cui monaci portavano ancora l’abito nero secondo la tradizione di Montecassino. (2) L’abateMaffei però proveniente da San Zeno Maggiore dove si praticava da poco (1425) un’altra riforma benedettina, quella germanica di Bursfeld, non dovette mostrarsi del tutto consenziente e queste autoritarie direttive papali. Per questo il papa Eugenio IV attendeva diplomaticamente l’occasione per imporre le sue disposizioni pastorali. Sul finire del 1432 era morto l’abate di san Fermo minore di Verona, don Giovanni Scardovara. Questo monastero cittadino era legato storicamente a san Zeno maggiore. Il papa fece in modo che la comunità di questo piccolo monastero cittadino eleggesse a maggioranza (3) nei primi mesi del 1433 a proprio abate Maffeo Maffei, che era già abate di Calavena. E in questa situazione ebbe buon gioco il papa. Egli consigliò con lettere l’egregio dottore in diretto don Maffeo Maffei ad accettare il nuovo incarico, si trattava di un monastero cittadino e legasto ai suoi monaci d’un tempo, rinunciando alla commenda del monastero di Calavena. Facevano certo difficoltà per il grande Maffeo Maffei la povertà e l’insignificanza di questo monastero cittadino. Meglio primi nella Calavena che ultimi in Verona! Il giovane abate si vedeva stroncata la sua carriera e contro altre pesanti lettere papali sembra abbia potuto solo fare ricorso all’autorità civile di Venezia, al battagliero Doge Francesco Foscari (1423-1457). ____________________________________________________________________ (1)S.NC. perg. 739 (2)S.NC. perg. 17 (3)Biancolini V 2, pag. 127 181 Il papa in questa circostanza si era rifatto volentieri alla tradizionale norma dell’alta diplomazia curiale “promoveatur ut amoveatur - si pronunciava ad un incarico apparentemente più prestigioso per toglierlo da quello realmente più importante. Così fece Eugenio IV disapprovando apertamente l’atteggiamento filoimperiale e l’operato del suo immediato predecessore Martino V. Fatto sta che il papa Eugenio IV irremovibile nei suoi programmi, sul finire di quello stesso anno 1433, il giorno 18 settembre, di propria iniziativa aggregò il monastero di Calavena con tutte le sue rendite a quello di Santa Giustina di Padova. Si trattava di una aggregazione temporanea e condizionata dall’attesa di una definitiva e geniale pianificazione dei monasteri benedettini in Verona, quando cioè anche il grande monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso, favorito dal papa Eugenio IV, si fosse reso in qualche modo vacante. Ecco alcune disposizioni del documento di aggregazione. “Io Eugenio IV vescovo di Roma servo dei sensi di Dio, a ricordo dei poteri. Dunque, come ho saputo, il diletto figlio Maffeo Maffei ha ottenuto l’amministrazione dei beni del monastero benedettino sdi San Fermo minore di Verona; ora si spera, anche in forza di altra mia lettera, che si renda vacante, per sua rinuncia, quella del monastero pure benedettino dei santi Vito e Modesto, di cui il Maffei era prima abate. Io come responsabile dei monasteri desidero ardentemente che i monaci della congregazione di santa Giustina di Padova prendano a governare quello stesso monastero dei santi Vito e Modesto. Da queste premesse e da altre cause a me note, di mia iniziativa – motu proprio - senza alcuna richiesta fattami al riguardo, da in proprietà, sottometto e dono alla Congregazione benedettina di Santa Giustina di Padova il monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena ordinando che appena esso si renderà vacante, sia lecito alla suddetta Congregazione prendere possesso dell’amministrazione dei beni del monastero dei santi Vito e Modesto” (1) L’anno dopo, il 20 ottobre 1434, per facilitare questa aggregazione, liberò da ogni debito il monastero di Calavena (2). E diede il via ad una azione di recupero dei possedimenti venduti ed alienati in modo illegale negli anni trascorsi. Più o meno allo stesso modo qualche anno dopo, dopo nel 1436, lo stesso papa Eugenio IV riuscirà ad aggregare alla Congregazione di Santa Giustina di Padova anche il grande monastero di San Paolo fuori le mura della città di Roma. ___________________________________________________________________ (1)SNC perg. 15. cf. Biancolini V, 2, pag. 127 (2)SNC perg. 19. (3)S. Maria in Organo. Rotolo n.6 182 Tutto questo rientrava in un preciso e vasto programma del pontefice Eugenio IV che voleva in tutti i modi la Congregazione dei monaci benedettini intorno alla riforma di Santa Giustina di Padova. Nella bolla del 23 febbraio 1434, dove viene ufficialmente confermata la riforma di santa Giustina, sono elencati diversi monasteri benedettini già aggregati o in via di aggregazione, tra cui quello di Calavena. Sono dodici monasteri e due privati “Monastero di santa Giustina di Padova, da cui trasse origine (1408) la Congregazione monastero di San Paolo fuori le mura di Roma con la cappella di san Clemente al tiburtino. Monastero di san Giorgio maggiore a Venezia diocesi di Monastero di san Sisto a Piacenza. Monastero di san Pietro di Rosaccio nella diocesi di Aquileia. Monastero dei santi Nabore e Felice a Bologna con la cappella di santa Maria in Monte vicino a Bologna. Monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena diocesi di Verona. Monastero di san Giuliano di Lepia della medesima diocesi di Verona. Monastero di san Pietro a Modena. Monastero di santa Maria in Monte vicino a Cesena. Monastero di san Severino a Napoli. Monastero di sant’Angelo a Gaeta con la cappella di san Teodoro. Primato di san Nicolò del Baschetto diocesi di Priorato di san Fortunato vicino a Bassano diocesi di Vicenza. (1) Purtroppo nel frattempo si sospesero inesorabilmente i lavori del monastero di Calavena progettati dal vivace abate Maffeo Maffei. Ed anche la sua attività amministrativa non appare più dalla documentazione. In seguito all’autoritario intervento papale si accese inutilmente una lunga lite giudiziaria (1433-1443) tra il Doge e il Papa, che si protrasse fino a quando anche il vecchio Doge Francesco Foscari, diventato pacifista per le complicazioni famigliari e pubbliche, con ducali del 27 agosto 1443 cedette alle direttive papali. (2) E così l’abate Maffeo Maffei si vide costretto a rinunciare definitivamente alla commenda abbaziale di Calavena, rimanendo abate di San Fermo minore fino al 1447, quando assieme al suo avversario EugenioIV, scompare dalla scena di questo mondo. ____________________________________________________________________ (1)Bullarium Cassinense Vol. I pag. 59 (2)cfr. Cipolla pag. 128 183 Nonostante tutte le sue buone intenzioni di riforma, il papa Eugenio IV, con il suo intervento autoritario ed inopportuno, aveva stroncato per sempre sul nascere il geniale tentativo di riformare sul serio il monastero di Calavena. Con il suo insistente e puntiglioso allontanamento dell’abate Maffeo Maffei non solo resterà incompiuto l’edificio monastico, ma specialmente si spegnerà per sempre quella vitalità religiosa benedettina che aveva animato per secoli la val d’Illasi. Il pontefice non favorì, ma rifiutò questo giovane: c’è ancora nell’aria il gesto di ribellione. L’abate Maffeo, che sognava di trascorrere e portare a compimento la sua vita nella Calavena, terra da lui tanto amata, finì i suoi giorni “con acre animo” nell’oscuro monastero cittadino di san Fermo minore. (1 ) Come si può spigare questo irremovibile comportamento papale? Forse si tratta unicamente di certa rivalità tra famiglie: in oltro a Venezia, tra i Condulmier, la famiglia del papa, e i Foscari, la famiglia del Doge; in mezzo nella città di Verona, tra i due monasteri benedettini di San Zeno maggiore - con una riforma già ben avviata ma di carattere tedesco - e quello dei santi Nazaro e Celso che pareva rifiutare con l’abate commendatario Bartolomeo Massetti (1406-1442) ogni impegno di riforma; in basso, nella Calavena, tra i signori Guarienti radicati a Tregnago e i Maffei pretendenti al territorio dell’abbazia di Calavena. All’inizio del 1400 infatti la famiglia veronese dei nobili Maffei originari della contrada cittadina di sant’Eufemia, si stava radicando ed imponendo con il favore di Venezia in tutti i settori amministrativi della Calavena, l’altra val d’Illasi. A contrastarla forse c’erano a Tregnago solo i nibili Guarienti, che erano da sempre i detentori di metà delle decine di tutto il territorio della Pieve di Santa Maria. (2) ____________________________________________________________________ (1) cf. Gf. Cieno pag. 28 (2)SNC busta 60 doc. 626 anno 1469 184 Situazione anni 1442-1444 Anno 1442 Febbraio: morte dell’abate Massetti di san Nazaro, sede vacante 3 marzo: Eugenio IV unisce subito san Nazaro e Santa Giustina primavera ’42 : Giuliano da Ferrara abate di Calavena e assieme al monaco di Calavena Girolamo di Bassano si fa il censimento economico dei beni di Calavena fino al gennaio 1443. Anno 1443 Primavera ‘43: Capitolo generale di santa Giustina con aggregazione di san Nazaro e rifiuto di Calavena. 19 luglio: commenda di Calavena compiuta da Eugenio IV a Pietro Avogaro. Anno 1444 Primavera ’44: Capitolo generale di santa Giustina con nomina dell’abate di san Nazaro: Marziale da Soave. Abati di santa Giustina 1433-1443 Il monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena del 1433 al 1443 fu temporaneamente aggregato alla congregazione di santa Giustina di Padova. E come tali fu amministrato da abati desegnati, più o meno direttamente, da questa congregazione. Questi abati amministratori erano incaricati dalla Congregazione stessa specialmente di calcolare l’esatto ammontare del patrimonio economico del monastero di Calavena, e ciò in vista di giungere ad una aggregazione definitiva e perpetua. Questo primo passo di tipo economico era d’obbligo per ogni atto di aggregazione. (1) Questi dieci anni (1433-1443) perciò costituiscono un periodo di transazione, specialmente sotto l’aspetto spirituale e pastorale, nella storia del monastero di Calavena. Un periodo in cui si accrebbe la rovina materiale e spirituale dell’antica abbazia. E venendo al concreto, sotto l’aspetto materiale, il monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena perse tutti i possedimenti che aveva fin dall’inizio nelle terre di Colognola. ____________________________________________________________________ (1) Biancolini V, 2 pag. 130 185 Questo consistente ed antico patrimonio passò quasi totalmente, era prevedibile, al monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. Mentre si attendeva la morte del vecchio ma sano abate di questo monastero Bartolomeo Massetti (1406-1442) per unire finalmente il suo monastero, diventato vacante, alla Congregazione di santa Giustina di Padova, molti si diedero le mani d’attorno ai danni dell’abbazia di Calavena: primo il papa che non vedeva più in là di san Nazaro e Celso, poi il vescovo di Verona Guido Memo (1409-1438) ed anche il vicario del vescovo Antonio Malaspina, ma specialmente l’arzillo vecchietto Bartolomeo Massetti. Fu lui che andò di persona il martedì 10 maggio 1435 a prendere “possesso fisico” di ben 22 pezzi di terra in quel di Colognola, che in un modo o nell’altro erano state dichiarate di sua proprietà. Par di vederlo, carte antiche alla mano, assieme ad un corteo di testimoni e al notaio Paolo Tomasini in mezzo alle vigne in fiore, che pesta insistentemente col piede le zolle di terra e perfino le pietre per dire che sono sue, che stringe a lungo i sassi sporgenti delle capanne e i loro vecchi attrezzi perché sono roba sua, ripetendo di continuo che tutte quelle cose non le possedeva solo materialmente ma anche con il cuore. E questo per ordine del caro vicario vescovile, come dovrà scrivere il notaio. (1) Quanta soddisfazione dà la campagna anche da vecchi, quando la si prende in possesso come una giovane sposa da tanto desiderata! E così l’abate Dalle Mazzette che da sempre (1099) (2) aveva la Biondella di Colognola, si prese facilmente anche la Bionda di Belfiore. (3) Con questo solenne rito di presa di possesso, chiamata Tenuta, terminano, una quarantina, le pergamene che scrissero la storia dei monaci di Calavena a Colognola, la terra dove nel lontano 1068 erano apparsi la prima volta. I documenti fanno il nome di tre “amministratori abbaziali” legati a santa Giustina di Padova: Biagio di Monteverde, Giuliano da Ferrara, e Girolamo da Bassano. Dei tre amministratori abbaziali solo Giuliano da Ferrara è chiamato, dall’estate del 1442, espressamente abate. “Il reverendo padre in Cristo il signor don Giuliano da Ferrara per grazia di Dio e a nome (fra) della Congregazione di Santa Giustina abate del monastero di Calavena”. (4) Biagio da Monteverde appare solo una volta, nell’anno 1440 quale “abate del monastero dei santi Vito e Modesto”. (5) ____________________________________________________________________ (1)N.SC. perg.355 (2)N.SC. perg.314 (3)Prima pergamena del 1068 (4) N.SC. perg.220 (5) N.SC. perg.219 186 Facilmente non era neppure monaco benedettino e va di pensare che fosse stato nominato dal papa Eugenio IV per non lasciare nel frattempo del tutto sprovvisto il monastero di Calavena di un responsabile giuridico. E che abbia preferito dimorare in città, nella chiesa di san Faustino di proprietà del monastero di Calavena. Poiché l’unico suo atto amministrativo che ci resta, è stipulato “nelle case della chiesa di san Faustino poste in contrada san Giovanni in Valle”. (1) L’abate don Biagio per gli affari amministrativi si serviva di un monaco di santa Giustina, Giuliano da Ferrara che allora era solo priore del monastero femminile di san Giacomo al Vago di Lavagno. (2) Più tardi questo reverendo don Biagio figlio di Francesco di Monteverde riappare come cappellano nel monastero dei santi Nazaro e Celso. (3) Girolamo da Bassano, monaco appartenente alla comunità dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena, è l’abile ed esperto amministratore delegato dell’abate Giuliano da Ferrara. (4) Di costoro la personalità di maggior interesse è certamente quella dell’abate Giuliano da Ferrara. Monaco della riforma di Santa Giustina di Padova, fu nominato abate dall’autorità della Congregazione stessa nell’estate del 1442, in seguito all’unione a questa Congregazione del monastero di Verona dei santi Nazaro e Celso ( 3 marzo 1442 ) voluta dal papa Eugenio IV. La sua fisionomia resta indubbiamente quella dell’esperto amministratore, ma si può vedere in lui anche una certa simpatia per l’antico monastero di Calavena. Ne presentiva prossima la fine e ne soffriva, ma contro l’inesorabile congiura degli eventi non c’è nulla da fare. I suoi atti amministrativi vengono tutti stipulati “ nel monastero dell’abbazia dei Santi Pietro Vito e Modesto di Calavena, Spreaconprogno nel caminetto terreno dello stesso monastero risultato dal fuoco acceso”. (5) Questo abate incominciò la sua attività rinnovando tutti i contratti di affitto decennali o meno, che assicuravano le rendite del monastero di Calavena. ____________________________________________________________________ (1)N.SC. perg.219 (2)N.SC. perg.219 (3)N.SC. perg.740 (4)N.SC. perg.740 (5)N.SC. perg. 387, 390 187 Il più importante di questi contratti è quello con Domenico fu Stefano di Scandolara. Massaro (sindaco) del comune di Spreaconprogno ( Badia Calavena ). “Il reverendo signore don Giuliano da Ferrara abate del monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena nell’assemblea comunale (vicinia) composto da più di due terzi dalla famiglia assieme al loro massaro Domenico fu Stefano, il 16 novembre 1442 diede in affitto per dieci anni il dazio su tutte le vendite degli animali, detto il dazio grosso; inoltre il dazio sulle vendite al minuto delle carni alla Beccheria, ed del vino all’Osteria detto questo il dazio dei minuti; ed infine diede in affitto tutti i boschi delle montagne circostanti , consegnata un tempo al detto comune”. (1) E’ un accordo generale sul territorio allodiale del monastero tra il comune e l’autorità abbaziale. Anche con il paese di Cogollo dovette in poco tempo concludere dei grossi contratti di affitto. Il giorno 20 Novembre del 1442 affittò a Giovanni detto Gatiga di Cogollo 11 pezze di terra quasi tutte nel territorio di Cogollo (2); a Zenanino fu Gabriele cantero altri 16 appezzamenti (3); E al signor Biagio detto Caprone 20 pezze di terra nel territorio pure di Cogollo e in parte di Marcemigo (4) ed infine il giorno 23 dello stesso mese 13 appezzamenti a Pietro figlio di Cichero di Cogollo. (5) Il territorio di Cogollo, dopo allodiale dell’Abbazia, era quello maggiormente legato al monastero: oltre che confinante, Cogollo era il feudo del monastero comperato nel lontano 1160 dall’abate Rodolfo. Dopo questi contratti fondamentali con il comune dell’abbazia (Spreaconprogno) ed il feudo di Cogollo l’attività amministrativa dell’abate di Calavena Giuliano da Ferrara s’interrompe bruscamente. Dal dicembre dello stesso anno 1442 egli affida stabilmente gli affari economici ed amministrativi del suo monastero di Calavena ad un monaco della sua comunità, “al venerabile signor don Giuliano da Bassano monaco del monastero dell’abbazia dei santi Pietro Vito e Modesto di CalavenaSpreaconprogno”. (6) Segno evidente questo che in quei pochi anni (1440-1443) nel monastero di Calavena se era costituita per quanto ristretto e vana, una comunità di monaci con il loro abate, per vivere la riforma benedettina di santa Giustina di Padova. E questo ci fa pensare che, su iniziativa della Congregazione padovana, anche i lavori di ristrutturazione del monastero, iniziati dall’abate don Maffeo Maffei di Verona, siano stati ripresi e in qualche modo portati a compimento, almeno per rendere adatto quell’ambiente ad accogliere una comunità benedettina riformata. ____________________________________________________________________ (1)Confronta Cipolla pag. 127 index summularium (2)SNC perg. 387 (3)388 (4)389; (5)SNC perg. 390 (6)SNC perg. 392 188 Il monaco don Girolamo di Bassano, costituito ufficialmente amministratore delegato dell’abate, si dimostrò altrettanto competente ed attivo come il suo superiore. In poco più d’un mese, nonostante le feste natalizie, concluse il programma amministrativo di ricongiunzione delle rendite che gli era stato affidato dal suo abate don Giuliano. Ci restano quattordici pergamene della sua attività, il triplo di quelle del suo abate. La sede da lui preferita per la stipulazione dei suoi atti fu il paese di Tregnago, presso l’abitazione del notaio (1) o nella sede amministrativa (canipa) che il monastero di Calavena aveva nel paese di Tregnago. (2) Lui che doveva avere la sua dimora nel monastero di Calavena in clausura con i suoi monaci, si recava per affrettare le pratiche, a Tregnago: infatti i contratti riguardano quasi unicamente abitanti dei paesi più vicini a Tregnago che all’abbazia di Calavena: Tregnago, Marcemigo, Illasi. Questa urgenza evidentemente era dettata dall’impegno di fissare con precisione l’ammontare del patrimonio del chiostro monastero di Calavena per la definitiva o meno aggregazione alla Congregazione di Santa Giustina di Padova che doveva essere esaminata e decisa nella primavera di quell’anno 1443. Il carteggio doveva essere formato per il capitale generale ordinario degli abati federati. Infatti all’inizio dell’anno precedente il 1442, era morto il vecchio abate del monastero dei santi Nazaro e Celso di Verona, don Bartolomeo Massetti (1406-1442). Questo monastero cittadino era una commenda di diritto pontificio fin dal 1333 ed ora il papa Eugenio IV approfittò della buona occasione per unirlo di sua iniziativa proprio - alla Congregazione di santa Giustina di Padova. Lo fece con bolla data a Firenze il 3 marzo 1442. (3) Ora era prevedibile che la Congregazione di santa Giustina non poteva assumersi con leggerezza la questione di due monasteri antichi e per di più con difficoltà economica e scarsità di monaci. Si trattava di ristrutturare vecchi edifici per adattarli alle nuove esigenze religiose d’una consistente comunità di monaci, clone si costituirà fin dall’inizio (1444) quella preferita di san Nazaro di Verona, di cui ecco la prima composizione. ____________________________________________________________________ (1)SNC perg. 1356 (2)SNC perg. 1363 (3)cf. Biancolini V,2, pag. 102 189 “Radunato il capitolo al suono della campana come al solito e nel solito luogo, erano presenti: - il venerabile padre don Marziale di Soave, per grazia di Dio abate del monastero, - don Simone di Pavia, priore claustrale dello stesso monastero, - don Epifanio di Germania, - don Girolamo da Bassano - don Mansueto da Tessino - don Severino da Napoli - don Francesco da Padova - don Timoteo da Milano - don Paolo di Germania Costoro erano infatti professi perpetui con voce in capitolo”. (1) Era dunque evidente che si dovesse giungere ad una scelta, con abati e proposte alla mano. Nella primavera dell’anno 1443 si tenne il capitolo generale dei monasteri federati della Congregazione di santa Giustina di Padova. La decisione presa nei riguardi dei due monasteri benedettini di Verona, quella dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena e quello dei santi Nazaro e Celso di Verona, fra semplice e chiara. Il monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso veniva accettato ed aggregato alla Congregazione, quello periferico dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena si tenne conveniente riconsegnarlo al pontefice Eugenio IV. Dopo dieci anni di attesa esso veniva rifiutato e così ricadeva nella commenda pontificia. Che la preferenza del Capitolo Generale per il monastero cittadino era materiale: alla maggior comodità di trovarsi in un centro urbano si aggiungeva la prospettiva che col tempo il monastero periferico di Calavena, con le cospicue rendite, sarebbe caduto nell’ambito del monastero cittadino. Come era nelle intrusioni del papa Eugenio IV di fatto più tardi (1498) avvenne. ____________________________________________________________________ (1)SNC. Perg. 740 190 L’abate del monastero di Calavena, il reverendo don Giuliano da Ferrara, prima di lasciare definitivamente il suo incarico abbaziale, il 26 giugno 1443, nel comune di Verona presso il podestà Andrea Bernardo, fece un atto pubblico di procura: quale economico e rappresentante legale del monastero dei santi Nazaro e Celso e a nome della Congregazione di Santa Giustina di Padova “costituì e nominò due prudenti e egregi signori, il notaio Vitaliano da Venezia e il notaio Agostino da Padova, quali procuratori in solido dell’amministrazione e delle cause giudiziarie “ del monastero di Calavena”. (1) Furono facilmente questi due egregi notai a rimettere subito nelle mani del pontefice Eugenio IV la commenda di Calavena che la conferì a Pietro Avogaro, monaco dei santi Nazaro e Celso. (2) L’abate Giuliano da Ferrara quindi con la sua comunità veniva ritirato dal monastero dell’abbazia di Calavena ed indirizzato al monastero dei santi Nazaro e Celso di Verona dove dopo qualche anno nel 1452 diventerà abate, il quaro cassinese. (3) In questo modo si chiuse l’ultimo tentativo di riformare sul serio l’antico monastero di Calavena. E l’abbazia di Calavena rimase per sempre la bella Incompiuta del geniale abate Maffeo Maffei di Verona. ____________________________________________________________________ _ (1)A.S. Verona Rettori veneti b. 10, pag.147r (2)SNC. Perg. 85 e 86 (3)Biancolini V, 2 pag. 61 191 Documentazione 1424-1479 santi Vito e Modesto di Calavena Archivio segreto Vaticano Obbligationes et Salutines Registro 60, carta 109 r 24.8.1424 Maffeo abate Registro 64, carta354r. 24.6.1443 Pietro De Uppeis abate Registro 71, carta 62 v. 19.3.1446 Giacomo Turlono commendatario poi vescovo di Trani (Ba) Registro 84 A, carta 69 v. 23.12.1479 Agostino Maffei chiesa di Verona, scriptor apostolico, commendatario per San Vito con bolla di Sesto IV, valore 100 fiorini. Perg. 85 del 1443 luglio, 19 nomina. Perg. 86 del 1443 luglio, 19 benedizione. 192 L’abate Pietro Avogaro 1443 – 1446 Il monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena, che era stato in qualche modo unito alla congregazione di santa Giustina di Padova, dal Capitolo generale della stessa Congregazione nella primavera del 1443 era stato rifiutato e rimesso nelle mani del pontefice Eugenio IV. Il pontefice si trovò nella necessità di darlo nuovamente in commenda. Ed egli con bolla del 19 luglio 1443 lo diede, senza onorario, a Pietro Avogaro stimato sacerdote e monaco professo del monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. (1) Pietro Avogaro è di fatto l’ultimo vero e proprio abate del monastero di Calavena. Benché commendatario, egli è monaco benedettino, sacerdote, padre in Cristo della sua comunità. Ci sono ancora le due bolle papali che lo riguardano: quella di nomina e quella di consacrazione. La sua persona è messa in particolare risalto nella bolla di nomina. “Eugenio vescovo di Roma servo dei servi di Dio al diletto figlio Pietro Avogaro abate del monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena nella diocesi di Verona. Questo monastero benedettino, di cui fino a poco fa (1424-1433) era abate Maffeo Maffei e che poi era stato in certo qual modo aggregato alla Congregazione di santa Giustina di Padova (1433-1443), alla fine venne a trovarsi del tutto vacante, senza abate. Ora io ho posto i miei occhi su di te, monaco benedettino e sacerdote del monastero dei santi Nazaro e Celso di Verona, per nominarti abate del detto monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena, affidandotene la piena amministrazione spirituale ed economica. Sono inoltre fiducioso che tu abbia ad accettare quest’onere di Dio e che, per le tue buone doti e per la speranza del premio eterno, il monastero stesso dei santi Vito e Modesto abbia a rifiorire e a produrre i suoi buoni frutti. Dato a Siena l’anno del Signore 1443 – 19 luglio”. (2) Nello stesso giorno, con altra bolla, il papa dava il permesso all’abate Pietro Avogaro di ricevere la consacrazione abbaziale dal vescovo che gli pareva meglio, purché cattolico. “Senza però assolutamente pregiudicare i diritti del vescovo di Verona – il nipote del papa cardinale Francesco Condulmier – al quale il detto monastero era soggetto per diritto ordinario”. (3) (1)S.NC.perg.85; Archivio s. Vaticano – Obbligationes et Solutiones Reg.64, c354r (2)S.NC. perg.85 (3)S.NC. perg.86 193 Così si concludeva, anche se in modo umanamente poco corretto, la lunga vicenda dell’abate Maffeo Maffei di Verona. Il nuovo abate commendatario Pietro Avogaro dovette con alcuni monaci da lui scelti ricostituire la comunità monastica. Era un obbligo statutario di questo antico monastero: era stato fondato affinché dei monaci assieme col loro Abate fosse abitato, si diceva. L’abbazia incompiuta, che conserverà per sempre il nome di Maffeo Maffei, con qualche adattamento era certamente sufficiente ad accogliere in modo decoroso questo gruppo di monaci con il loro abate. Anzi permetteva, volendo, a questa comunità una vita monastica sullo stile della riforma di santa Giustina di Padova. In questo modo il monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena poteva dirsi rinato a nuova vita. C’erano tutte le migliori condizioni: un abate benedettino con monaci da lui scelti e ben animati, autonomia sulla conduzione della vita monastica, grandi ambienti raccolti e confortevoli, rendite cospicue. Anche la casa dell’abate che si trovava a Tregnago, così importante negli anni trascorsi, era ritornata ad essere semplicemente una casa del monastero adibita a sede dell’amministrazione locale (canipa). Gli ambienti abbaziali furono distribuiti secondo le nuove norme monastiche e convenientemente ammobiliati e forniti del necessario per la convivenza claustrale. Lo sdi deduce questo dal grande trasloco che pochi anni dopo (1460) sarà fatto dolosamente dal nobile commendatario Marino Badoaro canonico di Padova. (1) Purtroppo l’abate commendatario Pietro Avogaro, l’ultimo, restò in carica solo tre anni. Forse per imitare le consuetudini della congregazione di santa Giustina di Padova, a cui si sentiva unito. O meglio, più semplicemente ci si trovò nell’impossibilità concreta di prospettare anche in questo monastero una completa comunità come quella cittadina dei santi Nazaro e Celso, che risulterà qualche anno dopo (1464) composta da ben 17 monaci, professi aventi voce in capitolo! (2) Ecco la sua composizione “In Verona nel monastero di san Nazaro l’anno del Signore 1464. Come il solito al suono della campana e nel solito luogo, al Capitolo intervennero questi capitolari: primo il reverendo padre in Cristo don Guglielmo da Milano, l’abate del monastero; don Paolo Magno da Venezia, il priore don Celso dalle Falci di (1)Visita di Ermolao Barbaro. (2)S.NC. perg.60 194 Verona; il decano don Agostino, il maestro dei novizi don Nicola da Prusia, don Rosario da Crema, don Donato da Verona, don Giacomo da Zevio, don Isacco da Trento, don Colombano da Soave, don Gianmaria da Treviglio, don arsenio da Montagnana, don Giovanni dalla Germania, don Tomasino da Cremona, don Baldassare Fontanelli da Verona, don ilarione Fontanelli da Verona, don Girolamo da Bassano, assente giustificato per motivi familiari. Costoro erano tutti professi perpetui con voce in capitolo”. (1) Perciò alla fine, dopo consigli, informazioni, ripensamenti ci si persuase tutti – papa compreso – che una riforma del genere non era possibile. E perciò lo stesso Pietro Avogaro dovette rimettere definitivamente nelle mani del vecchio pontefice Eugenio IV (1431-1447) la commenda di Calavena, il quale nominò il 17 marzo 1446 quale commendatario di Calavena, un alto prelato della gerarchia ecclesiastica, Giacomo Turbono. A rendere ancor più precaria la situazione del monastero di Calavena concorse anche una nuova ondata di peste nera (1447) che decimò la popolazione dei territori veneti. Quand’anche non abbia portato via qualche suo monaco con l’abate Pietro Avogaro, che non ricompare più in seguito, neppure nella comunità dei santi Nazaro e Celso. Poco dopo (1450) questo prelato sarà trasferito a Trani (Bari) quale successore del vescovo Giovanni Corsini (1439-1450). (2) Giacomo Turbono non era né monaco né benedettino: era un semplice ecclesiastico. E come tale non poteva essere l’abate di una comunità di monaci. Era la prima volta che succedeva nella storia dell’abbazia di Calavena. D’ora in poi (1446)la commenda del monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena per cinquant’anni sarà conferità a semplici canonici che non erano né monaci né benedettini: Giacomo Turbono, Marino Badoaro, Agostino Maffei, Girolamo Maffei. Anche dopo il 1500, quando l’abbazia di Calavena cade nell’ambito della Congregazione di santa Giustina e del monastero riformato dei santi Nazaro e Celso di Verona, non vi saranno più nominati veri e propri abati. Perciò il remissivo abate commendatario Pietro Avogaro, professo perpetuo e sacerdote di san Nazaro, è l’ultimo vero abate del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena. Questa è la fine della gloriosa abbazia di Calavena! 17 marzo 1446. Par di assistere alla lunga agonia d’una persona cara che quando si spegne neanche te n’accorgi. (1)S.NC. perg.606 (2)Arch. Segreto Vaticano – Obbligationes et solutiones Registro 71, carta 62v 195 Il commendatario Marino Badoaro 1451 - 1479 Nel 1451 è commendatario del monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena il nobile veneziano Marino Badoaro, canonico di Padova. Fu il successore di Eugenio IV, il papa Niccolò V (1447-1455) che dovette nominarlo, dopo aver promosso Giacomo Turbono a Vescovo commendatario di Trani (Bari) nel 1450. Niccolò V originario di Sarzana (La Spezia) era stato a suo tempo favorito e protetto dal papa Eugenio IV e gli successe nel pontificato grazie alla sua abilità diplomatica. Poiché i Badoaro di Padova erano abili diplomatici, il papa Niccolò V doveva averlo conosciuto in quegli ambienti. La famiglia Badoaro dei conti di Peraga di Padova, era una delle più prestigiose e ricche famiglie veneziane. Anche il papa Alessandro VI definisce il canonico Marino Badoaro nobil uomo – vir nobilis -. Tra gli ascendenti prossimi si deve ricordare specialmente un importante abate di Calavena, Giovanni di Frassinedo dei conti di Peraga (13931424). E in quel periodo era tenuto in particolar conto nell’ambiente veneziano il nobile Sebastiano Badoaro (1424-1489) più volte ambasciatore della Serenissima: presso il re d'Ungheria Mattia Corvino (1474), presso l’imperatore Federico III (1484) e ancora presso Innocenzo VIII (1487). Per quanto riguarda Marino Badoaro, che fu per quasi trent’anni (1451-1479) il responsabile – factor – del monastero di Calavena, c’è un fatto innegabile: le rendite annue si abbassarono da 400 fiorini d’oro a 100. (1) Un disastro economico! E a motivare questo fatto c’è la contemporanea (1460) visita pastorale del vescovo di Verona Ermolao Barbaro (1453-1471). Di questa visita ecco i brani più interessanti. Visita pastorale dell’abbazia dei santi Vito e Modesto di Calavena, fatta dal reverendissimo vescovo di Tripoli Matteo Conato, vicario di sua Eccellenza il vescovo di Verona Ermolao Barbaro, il mercoledì 27 agosto 1460. La chiesa a causa dell’acqua che entra dall’alto e dal basso, è in cattive condizioni e in poco tempo, se non si ricorre ai ripari, andrà in rovina; anche gli altri edifici della stessa abbazia cadono ovunque: è una cosa assai vergognosa, date le solide strutture e le buone rendite dell’abbazia, che essa si trovi in queste condizioni e che se non si interviene, tutto vada in malora. (1) Bolla di Eugenio IV (1433): Biancolini V,2 pag.128 e Bolla di Sisto II (1479) 196 …constatato questo di persona, gli fu inoltre riferito dallo stesso don Cristano, il cappellano dell’abbazia, e da altri parrocchiani che un certo Marino Baduero, l’amministratore dell’abbazia, aveva portato via tutta la biancheria di lino e moltissimi altri oggetti e le suppellettili facendoseli suoi, con grandissimo danno dell’abbazia. Don Cristano, monaco benedettino e cappellano salariato del’abbazia, interrogato su giuramento dello stato e condizione dell’abbazia, rispose che l’abbazia economicamente era proprio governata male, affermando che un certo Marino Baduero, che è l’amministratore dell’abbazia, si era portato via moltissimi mobili ed oggetti di proprietà dell’abbazia, come letti e sedie, biancheria di lino e tovaglie, secchi pentole e recipienti, tavole e tavolini; mai assolutamente disposto a qualche riparazione e a far qualcosa per l’abbazia; anzi sempre intento a saccheggiarla e a fare molte altre ruberie che non stanno nascoste e che si possono vedere apertamente, come per esempio la povera e malandata chiesa. Interrogato se era al corrente che qualcuno usurpasse i diritti dell’abbazia o non mantenesse gli obblighi verso di essa, rispose di no. …Alla fine il sindaco Giacomo, figlio di Simone, ed altri quattro parrocchiani del paese furono anch’essi interrogati con giuramento sullo stato e la condizione dell’abbazia. “Male!”, risposero, assicurando che l’abbazia era mal tenuta perché, come tutti possono vedere, sta cadendo, aggiungendo che ciò era una cosa gravissima per loro e chiedendo con insistenza che il signor Vescovo di persona vi mettesse mano per la salvezza dell’abbazia, perché ciò sarebbe stata una cosa buonissima per lui e per loro una grande grazia. Richiesti poi se erano al corrente di qualche ingiustizia nei riguardi dell’abbazia, risposero che sapevano solo questo: che un certo Marino Baduero, amministratore della stessa abbazia, aveva portato via molti oggetti e mobili dell’abbazia e l’aveva spogliata delle seguenti cose: biancheria di lino, letti, tovaglie, tavoli ed altre suppellettili con gran danno e rovina dell’abbazia; e chiesero ufficialmente che queste cose venissero ricuperate. Dopo queste informazioni il vescovo ausiliare in persona dispose di denunciare il signor Marino e poi di procedere secondo le regole del caso. (1) Oltre a queste concordi testimonianze c’è il sincero lamento d’un odierno (1905) esperto di storia locale. È forse solo un’amara intuizione, ma non si dice nera una mucca se non ha neanche un pelo. “I mali spirituali e temporali d’ora in poi (1450) congiurano a trarre il rinomato monastero di Calavena in balia di santa Giustina e di san Nazaro”. (2) ____________________________________________________________________ (1)Silvio Tonolli. Visite Pastorali di Ermolao Barbaro pag.181 (2)Cieno I due monasteri pag.29 197 Credo che questa accusa si debba rivolgere specialmente al monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso, che, dal 1442 unito alla Congregazione di santa Giustina di Padova, poté liberamente sfruttare le risorse economiche del monastero di Calavena. C’è al riguardo una data tragicamente indicativa, il 1465: ricostruzione totale del monastero e della chiesa dei santi Nazaro e Celso in Verona. (1) L’abate claustrale preposto al detto monastero dei santi Nazaro e Celso della Congregazione di santa Giustina, il reverendo padre don Guglielmo da Milano (1462-1468) dovette spendere dei bei fiorini per costruire questo grandioso edificio e per comperare orti, broli e diritti, tutt’intorno al vecchio monastero! Le acque del fiumicello chiamato Muse, furono deviate per attraversare la grande tenuta monastica: negli orti a nord del corso d’acqua fu edificato il chiostro superiore con le celle dei monaci, e gli orticelli al di sotto del fiumicello erano stati acquistati dai fratelli Arduini (1456) per coltivazioni varie. Facilmente in buona fede parte delle risorse di Calavena furono convogliate qui. E per quanto riguarda santa Giustina di Padova si può ricordare questo. Il papa in quel tempo era l’inetto Paolo II (1464-1471), il veneziano Pietro Barbo, della famiglia del fondatore di santa Giustina Lodovico Barbo e parente del cardinale Marco Barbo. Proprio questo pontefice nel 1446 era abate commendatario del monastero di Lepia di Lavagno, soggetto al monastero dei santi Nazaro e Celso. (2) Negli ambienti della Congregazione di santa Giustina, dove i Barbo potevano per diritti antichi porre sicuramente piede, non si può non dubitare che l’abate Guglielmo di Milano, e anche qualcun altro, abbia ottenuto favorevoli scambi diplomatici con il nobile collega abate Marino Badoero! C’erano tutte le buone condizioni per starsene al sicuro. Ed il Badoero era un nobil uomo ed un rispettabile canonico di Padova! Così tra una cosa e l’altra i tre quarti del patrimonio produttivo della abbazia di Calavena erano stati alienati. Con ogni probabilità il commendatario Marino Badoaro non pose mai piede nelle terre della sua abbazia di Calavena. L’obbligo della cura pastorale legato alla chiesa monastica dei santi Vito e Modesto era demandata a due sacerdoti monaci da lui stipendiati, ma in realtà si riduceva ad assicurare la presenza, assolutamente insufficiente, d’un solo sacerdote. (3) ____________________________________________________________________ (1)Biancolini V, 2 pag.62 (2)Lodovico Perini. Manoscritti n.26 (3)cfr. Visita pastorale del Barbaro pag.182 198 In strutturata. compenso l’amministrazione economica era perfettamente Dalle pergamene che ci restano sembra essere stata sostenuta addirittura da un Consiglio di amministrazione. L’abate commendatario perpetuo Marino Badoaro, che era il padrone – fattore – (1) dell’azienda abbaziale – fattoria – delegava direttamente tutte le sue funzioni amministrative ad un suo legale rappresentante generale – il procuratore. Il procuratore generale delegava a sua volta la conduzione diretta dell’azienda abbaziale ad un amministratore locale – il conduttore-. Il conduttore era assistito da due avvocati – dottori – a lui vicini. In una pergamena del 1461 il procuratore generale era il fratello dell’abate Marino, il nobile patrizio Rainero Baduario, residente a Venezia; il conduttore locale era l’egregio cittadino veronese Giannantonio Gattorini domiciliato a Verona;(2) in un’altra pergamena del 1455 gli avvocati personali del conduttore erano due canonici di Verona, gli egregi dottori in legge Giovanni Maffei e Giacomo da Badia. (3) Giovanni Maffei accompagnava in quegli anni il vescovo Ermolao Barbaro nelle sue visite pastorali. (4) Tutti questi altolocati personaggi, anche se potevano vivere di volontariato, non disdegnavano certo la giusta mercede del loro qualificato lavoro. Dalle pergamene inoltre saltano fuori qua e là anche altri personaggi più o meno legati alla famiglia del commendatario Marino Baduaro come il prudente signore Ziliorso figlio dell’egregio signore Mario Baduario veneziano residente a Padova. (5) E l’omonimo nipote Marino figlio di Giovanni Baduario di Venezia e residente a Padova. (6) Ed il cittadino veronese, suo uomo di fiducia per alcuni anni, l’egregio signor Gianfrancesco dei Patriciani. (7) ____________________________________________________________________ (1)Visite pastorali pag.76 e pag.746 (2)S.NC. perg.227 e 394 (3)perg.393 e 225 (4)Visite pastorali pag..76 (5)S.NC. perg.228 (6)S.NC. perg.507 (7)S.NC. perg.1370 199 Dall’esame della documentazione tuttavia non pare possibile intuire l’errore amministrativo che stava portando la grande azienda abbaziale di Calavena sull’orlo del fallimento. Nulla trapela di illegale, almeno da ciò che rimane scritto sulla cartapecora. Qualche sospetto suscita la presenza del “conduttore” universale il signor Gianantonio Gafforini, che nel 1461 si era intromesso nell’amministrazione della commenda del monastero di Calavena per messo del nobile padovano Rainero Baduario, fratello di Marino titolare della commenda. (1) Per fortuna a tanta rovina pose fine nel 1479 la morte del nobiluomo Marino Baduario discendente dei conti di Peraga di Padova. (2) Il papa Sisto IV (12-12-1479) designa il card. Pietro Foscari abate commendatario di Badia Calavena in seguito al decesso di Marino Badoero padovano, ma il 23-12-1479 nomina con sorpresa di Venezia Agostino Maffei. ___________________________________________________________________ (1)S.NC. perg.227 (2)Arch. Segreto Vaticano 200 Il commendatario Agostino Maffei 1479 – 1495 Con bolla del 23 Dicembre 1479 papa Sisto IV, evadendo le attese del cardinale Pietro Foscari, conferì la commenda dell’abbazia dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena ad un cittadino veronese, al canonico Agostino Maffei. Le autorità veneziane non risparmiarono le lamentele per questa inaspettata decisione pontificia. (1) Agostino Maffei, dell’illustre famiglia veronese, doveva essere il nipote dell’abate commendatario di Calavena Maffeo Maffei. Come canonico dovette intraprendere la carriera ecclesiastica e doveva essere conosciuto negli ambienti pontifici quale scrivano di curia – scriptor apostolicus-. Dala Bolla di Sisto IV (1471-1484) si viene a sapere che le rendite annue della povera abbazia erano ridotte a soli 100 fiorini d’oro. Questo fatto determinò il programma economico del nuovo commendatario: una buona ed oculata amministrazione per recuperare qualcosa almeno dell’antico prestigio economico del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto dell’abbazia di Calavena. Ed in parte ci riuscì, perché nel 1498, dopo quasi vent’anni di minuzioso lavoro, le rendite dell’abbazia di Calavena erano riportate a 150 fiorini d’oro annui. Tuttavia questo canonico commendatario non aveva né gli ideali né la tempra per realizzarli dello zio l’abate commendatario Maffeo Maffei. Questo dipendeva forse dal suo carattere, ma specialmente dai tempi che erano cambiati: la riforma dell’Ordine benedettino ormai aveva preso decisamente le sue direttive di sviluppo e l’abbazia di Calavena aveva perso per colpa di un papa testardo la sua buona occasione, restando tagliata fuori per sempre. Nell’azione di ricupero del patrimonio della sua abbazia dovette essere anche sostenuto ed aiutato tecnicamente dal suo giovane nipote il canonico Angelo Maffei, che viveva con lui a Roma per conseguire i titoli accademici di diritto canonico. Angelo Maffei come esperto di diritto ecclesiastico aveva scritto un opuscoletto – forse la sua tesi di dottorato – con una lunga dissertazione sulle decime, specialmente sulle decime dei terreni portati a coltura da vegri e da boschi – i terreni novali -. “A parer suo, secondo l’autentica dottrina cattolica, appartengono alla chiesa tutte e singole le decime del suo territorio, in particolare le decime sui terreni novali. Chi afferma il contrario è eretico”. (1)Arc. Segreto Vaticano. Obbligationes et solutiones Reg.84A, carta 69r 201 Con queste precise idee egli si mostrerà particolarmente abile ed energico più tardi, nel 1514, quando – quale arciprete commendatario della pieve di santa Maria di Tregnago – costringerà con metodi leciti ed illeciti il comune di Tregnago a rinunciare inesorabilmente ad ogni diritto di decima (tasse) su tutto il territorio della Pieve di Tregnago. Della lunga attività amministrativa (1480-14895) di Agostino Maffei, sembrerà strano, non ci resta che una sola pergamena; anche Lodovico Perini (1730) così preciso nelle sue registrazioni, ci riporta solo la pergamena del 5 maggio 1488. (1) Devono essere andate perdute, perché in quindici anni quante altre locazioni con scadenza decennale devono essere state rinnovate! (2) L’atto del notaio Giacomo Blandi di Tregnago dice che “il nobile Signore Gianantonio Gafforini in qualità di procuratore del reverendo signor Agostino Maffei degnissimo commendatario dell’abbazia di Calavena, rinnovò a Michele fu Giovanni Tessari di Cogollo il podere dei suoi antenati consistente in cinque terre con l’abitazione”. Il notaio ci ha lasciato per iscritto una bella nota di merito del reverendo signor don Agostino Maffei: “degnissimo” commendatario – il che non è poco con i tempi che correvano al riguardo. Inoltre in questo breve scritto si può constatare che Agostino Maffei dovette mantenere il sistema amministrativo del suo predecessore Marino Badoario, riducendo però all’essenziale gli incaricati: qui il conduttore diretto Gianantonio Gafforini appare l’unico rappresentante legale del signor commendatario. E va di pensare anche che don Agostino non fosse riuscito nonostante i tentativi giuridici, di liberarsi proprio di lui, che con gli anni aveva accentrato nelle sue mani e in quelle dei suoi futuri eredi l’amministrazione di tutte le rendite della commenda abbaziale di Calavena. Con il conduttore Gianantonio Gafforini –chiamato anche Governatore - (3) il monastero di Calavena era diventato praticamente una commenda laica ereditaria. (4) Questa situazione divenne ad un certo momento insostenibile e fu per l’onesto canonico il motivo, aggiunto all’età, che gli fece progettare la rinuncia alla commenda affidandola ai suoi due giovani nipoti Girolamo ed Angelo Maffei con il compito di Sbloccare la situazione. Una bella eredità! (1)S.NC. perg.396 (2)S.NC. perg.32 (3)S.NC. perg.1259 del 1500 (4)S.NC. perg.227 202 In questa circostanza Angelo Maffei fu la mente che organizzò le cose ed il fratello Girolamo l’energico esecutore. Il progetto dei tre Maffei implicava il totale allontanamento dall’amministrazione abbaziale dei nobili signori Gafforini diventati i padroni dell’abbazia di Calavena. Allo stesso modo che nella pieve di Tregnago si erano insediati i nobili Guarienti. (1) (1)S.NC. busta 60 doc.626 203 Il commendatario Girolamo Maffei 1495-1502 Per concessione del pontefice Alessandro VI (1492-1503) la commenda dei santi Vito e Modesto di Calavena intorno all’anno 1495 dal canonico Agostino passava al nipote, il canonico Girolamo Maffei. Il papa gliela aveva concessa col beneficio della dispensa apostolica. (1) Questa dispensa riguardava facilmente il fatto che don Girolamo Maffei era già titolare di un’altra commenda, quella della chiesa di sat’Egidio di Tregnago, ma non si esclude che riguardasse anche qualche impedimento di natura fisica – egli oltre che Girolamo il vecchio (senior) era chiamato volgarmente Guzzonio (donnaiolo). (2) Il grande merito del commendatario Girolamo Maffei fu quello di riprendere e portare a termine, dopo circa sessant’anni, il programma del suo illustre predecessore l’abate commendatario Maffeo Maffei di Verona. Sembra sia stato il suo punto d’onore famigliare! Questa nobile famiglia di Verona, di origine emiliana, aveva iniziato la sua ascesa proprio al tempo dell’abate Maffeo (1424). Sfruttando le facili concessioni dell’imperatore Sigismondo (1361-1437) i Maffei si erano acquistati molti diritti di giurisdizione di origine ecclesiastica su diversi paesi della provincia di Verona (1423). Da allora la ramificazione dei Maffei si era molto sviluppata e Girolamo a confronto dello sfortunato suo avo Maffeo, poteva contare su migliori possibilità e su più sicuri appoggi: il papa Alessandro VI ed il fratello Angelo che lavorava alla corte pontificia come segretario personale ed amico del papa stesso. In campo laico il vicariato civile di Tregnago era spesso nelle mani di qualcuno della famiglia Maffei. Per dar lustro alla famiglia dei Maffei nella Calavena il commendatario dell’abbazia Girolamo Maffei si proponeva di riportare il vetusto monastero dei santi Pietro e Vito di Calavena all’antico splendore della sua piena autonomia; ed in seguito di estenderne il potere fino ad assorbire giuridicamente anche la Pieve di Calavena (Tregnago). Era un programma impegnativo, nel quale gli fu di insostituibile aiuto il fratello Angelo dottere in diritto canonico. Questo implicava innanzitutto liberare la commenda abbaziale da ogni ingerenza del governatore laico, il nobile signor di Verona Gianantonio Gafforini. In un secondo momento di portare a termine l’edificio monastico per crearvi la dimora di una comunità stabile di monaci. (3) (1)Bolla cf. Biancolini V, 2, pag.129 (2)Cieno Due monasteri pag.36 e perg.247 e 1259 (3)Cieno Due Monasteri pag.33 204 Tutto questo lo poteva ottenere solo appoggiandosi alla Congregazione di santa Giustina di Padova. Il primo passo fu quello di rimettere nelle mani del papa Alessandro VI la commenda, che solo da pochi anni (nuper) don Girolamo aveva accettato. Con la Clausola però che la commenda fosse affidata alla Congregazione di santa Giustina di Padova. La qual cosa risultò molto facile per la presenza alla corte pontificia del fratello Angelo Maffei, che Girolamo nel frattempo aveva nominato suo speciale procuratore. Quindi il commendatario perpetuo Girolamo Maffei nel marzo del 1498 rimetteva liberamente e spontaneamente nelle mani del papa Alessandro VI la commenda abbaziale di Calavena. Ed il papa Alessandro VI, accettata la rinuncia, subito con bolla del 2 aprile 1498, tornò ad unire in perpetuo il monastero dei santi Vito e Modesto di Calavena alla Congregazione di santa Giustina di Padova. Con la sola riserva della preventiva verifica delle rendite, dichiarate ammontare allora a 150 fiorini d’oro annui. La Congregazione di santa Giustina prese in considerazione questa offerta, la esaminò a lungo. Il 15 novembre 1498 decise di accettare il monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena, ma solo allo scopo di poterlo destinare a “sussidio ed ampliazione dell’abbazia di san Nazaro di Verona”. (2) Così dopo il lungo periodo di quasi 150 anni (1359-1498) si poneva termine per l’abbazia dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena all’incurabile piaga della commenda. La presa di possesso della chiesa e dell’Abbazia vien fatta in forma ufficiale il giovedì 15 novembre 1498 con un rito assai suggestivo. In piazza, alla presenza di molte persone del paese, tra le quali Antonio Scavogia, Cristano Roussule, Giovanni Bertoldi, Giacomo Merzari, Urbano Pellicari, Domenico Guerra e Simone Bertoldi e di Antonio Gaspari di Tregnago ed inoltre di don Giorgio Tedesco, il cappellano della chiesa, monaco di san Bernardo, il reverendo signor don Celso Dalle Falci di Verona, “abate nominale”, di nome della detta abbazia, benedettino della Congregazione di santa Giustina di Padova con dimora al presente nel monastero di san Nazaro di Verona, assieme al monaco don Benedetto da Carmagnola economo dello stesso monastero di san Nazaro, costituiti entrambi quali procuratori dal reverendo padre in Cristo don Geminiano da Modena, abate per grazia di Dio del monastero di san Nazaro, che a sua volta agiva a nome della Congregazione di santa Giustina, aprono la lettera sigillata del pontefice Alessandro VI che viene pubblicamente letta dal notaio Bartolomeo Castellani con traduzione parola per parola nella lingua del popolo. (1)Biancolini vol.V, 2, pag.129 e pag.62 (2)Biancolini vol.I, pag.279 e Perini pag.26 205 Poi i due reverendi monaci di san Nazaro, don Celso abate e don Benedetto economo, ne prendono fisicamente possesso entrando in chiesa, pregando in ginocchio davanti all’altare maggiore e baciandolo al centro e poi ai due lati; ed ancora andando avanti e indietro per la chiesa, chiudendo e riaprendone la porta, e poi suonando liberamente con le loro mani la campana della chiesa. Così pure fecero entrando nel monastero e nei locali dell’abbazia e della chiesa, andando dentro e fuori a loro piacimento, chiudendo e aprendo le porte in segno di fisico ed autentico possesso dell’abbazia e dei suoi beni dicendo e ripetendo che essi la possedevano non solo con il corpo ma anche con l’anima, proprio come volevano le lettere papali. Ed infine dando essi stessi in consegna le chiavi della chiesa al detto cappellano don Giorgio Tedesco che dichiarava di avere quella chiesa a sua disposizione e di celebrarvi i divini uffici a nome dela Congregazione di santa Giustina di Padova. Si passò quindi nel caminato dell’abbazia dove con molta calma fu steso, firmato ed innaffiato con vino generoso l’atto notarile dal notaio Bartolomeo Castellani. L’anno millecinquecento si apriva nella gioia del grande Giubileo dell’Incarnazione di Cristo indetto dal papa Alessandro VI. Nel monastero dei santi Nazaro e Celso di Verona di recente messo a nuovo, c’era anche un altro motivo di esultanza: l’Abbazia di Calavena, unita in perpetuo alla Congregazione di santa Giustina di Padova, veniva da essa destinata al monastero dei santi Nazaro e Celso, che da più di cinquant’anni (3 marzo 1442) apparteneva alla stessa congregazione. L’impegno più urgente per il monastero dei santi Nazaro e Celso era la compilazione dell’inventario di tutti i beni del monastero di Calavena. Era particolarmente urgente perché si trattava di una clausola che condizionava l’offerta fatta dal pontefice Alessandro VI alla Congregazione di santa Giustina di Padova. “Voglio – dice la bolla papale – che coloro che chiedono l’unione d’un beneficio ecclesiastico ad un altro, facciano prima una stima della vera ed attuale consistenza economica del beneficio stesso: altrimenti l’unione è nulla”. La pratica per l’inventario, iniziata presto, si concluse solo alla fine dell’anno 1502, quando il commendatario perpetuo Girolamo Maffei, che mantenne il suo titolo fino a quella ata, per la consegna ufficiale del monastero di Calavena ai monaci di san Nazaro e Celso. Il canonico Girolamo Maffei dovette essere di grande aiuto ai monaci di san Nazaro e Celso in questo lavoro di ricerca, valutazione e compilazione del documento finale di stima. (1)S.NC. perg.231 206 Ci sono diversi documenti che confermano questi interventi insostituibili di Girolamo Maffei. Nel giugno del 1502 il reverendo signore Girolamo Maffei del fu Rolandino Maffei della contrada Mercatonovo di Verona, canonico veronese, quale commendatario perpetuo del monastero dei santi Vito e Modesto d Calavena, che aveva il permesso da parte della santa Sede di permutare tutti i fondi del detto monastero, fece una permuta di terreni con i Conti Pompei d’Illasi. (1) C’è anche una sua donazione un po’ tardiva, del 1508. (2) Ma specialmente i monaci di san Nazaro devono all’iniziativa del canonico Girolamo Maffei il suo intervento presso il pontefice Alessandro VI per facilitare l’allontanamento definitivo del “governatore” del monastero di Calavena, il nobile signor Gianantonio Gafforini (1460-1503) (3) che manteneva ancora nel 1500 la gestione del monastero, e diventava il vero ostacolo di tutta questa operazione amministrativa. (4) Girolamo Maffei, data la sua posizione presso la curia romana, ottenne nel dicembre del 1502 la scomunica generale contro chiunque osasse opporsi o rifiutare di riconoscere tutti i diritti del monastero di Calavena, da chiunque usurpati, qualificandoli come figli d’iniquità. (5) La bolla papale è indirizzata al vescovo di Belluno, al canonico lateranense Giuliano Cesio e al canonico veronese Callisto Montagna e dice: “Ci ha fatto sapere il diletto figlio nostro Girolamo Maffei, commendatario del monastero dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena che “alcuni figli d’iniquità” pretendono di tenere come propri e di nascondere maliziosamente beni di ogni genere che sono di proprietà del detto monastero. Perciò vi comandiamo di porre un termine di tempo per la restituzione, oltre il quale dovete pronunciare contro di essi la scomunica generale”. (6) Il decreto che indica il termine perentorio è del 23 dicembre 1503. (7) Dopo quell’anno 1502 il nobile Gianantonio Gafforini non appare più negli atti amministrativi del monastero di Calavena: ciò fa pensare al buon esito della contesa. Alla fine dell’anno 1502 quindi il notaio Bartolomeo Castellani della contrada di san Paolo di Verona poté finalmente stendere l’atto pubblico che descrive i beni del monastero di Calavena e che servirà per l’atto formale di consegna. (1)Perg.609 (2)S.NC. perg.247 (3)Perg.227, perg.232 (4)S.NC. perg.1259 (5)perg.32 (6) S.NC. perg.32 (7)perg.31 207 Eccolo: (1) Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Aman. Descrizione dei possedimenti dell’abbazia di Calavena fatta l’anno del Signore 1502 indizione V. Con la descrizione delle terre che pagano l’affitto a detta abbazia. Questa descrizione è stata consegnata ed accettata dal Signor Abate Piermaria da Piacenza e dai suoi monaci del monastero dei santi Nazaro e Celso di Verona, in ottemperanza a lettere pontificie, in seguito alla rinuncia alla commenda del reverendo padre Girolamo Maffei (1498). A – Proprietà esclusive Nel vasto allodio del monastero (Km2 12 circa) c’erano alcune proprietà – poche a dire il vero – che la comunità dei monaci riservava in modo totale ed esclusivo per sé stessa. Di queste proprietà aveva il diritto di farne quello che voleva. Ed erano: 1 – Il monastero, quale abitazione con i caseggiati e il circostante terreno brolivo, arativo e prativo: una superficie complessiva di 15 campi veronesi. 2 – Il bosco di castagni della Fietta ai piedi della Scandolara, della superficie di 50 campi. Per la produzione dei caratteristici marroni. 3 – Il piccolo bosco di roveri (2) sotto la chiesetta di san Pietro della superficie di 4 campi (poco più di un ettaro) con la vicina sorgente d’acqua (la fontana dei Cosari), che dal castello discende al monastero. Delle tre proprietà quella che più incuriosisce per questo attaccamento esclusivo è il Busko di san Pietro sul monte omonimo. È quasi un amore sacro per ciò che si ha di più caro per la sua antichità: è come il luogo dell’antica casa degli avi. Per questo motivo sembra evidente che quella superficie di un ettaro di bosco antico fosse proprio il territorio del castello di san Pietro costruito a sue spese dal vescovo Valterio e poi donato ai primi monaci. Al tempo del vescovo Valterio la superficie richiesta per la costruzione di un castello era proprio di un ettaro. (3) 4 – Il locale pubblico (ospizio) (4) dell’osteria e della pubblica beccheria annesso alla casa pubblica del comune sulla piazza, è totalmente del monastero. Questo edificio si trovava dove ora sta il municipio. (1)Cieno. Due cimiteri pag.35-37 (2)Catasto austriaco: mappa 333, foglio 3, mappali 58, 59, 60, 61 (3)cfr. Aldo Settia. Castelli e villaggi nell’Italia padana Napoli 1984 (4)S.NC. perg.228, perg..395 208 B – Affitti perpetui 1 – Affitto del dazio grosso. Il comune della Badia di Calavena è tenuto a dare ogni anno £.100 d’affitto per le vendite degli animali. 2 – Affitto del dazio minuto. Il comune di Badia Calavena è tenuto a dare ogni anno secondo il parere del monastero, più o meno £.100 d’affitto per le vendite al minuto del vino all’osteria e delle carni alla beccheria. 3 – Affitto del Bosco grande (il Gambaron) del monte san Piero. Il comune della Badia di Calavena è tenuto a dare ogni anno £.3,60 d’affitto per il Busko del monte san Piero (1) 4 - Affitto del bosco di Sprea. Gli abitanti di Sprea sono tenuti a pagare ogni anno £.6 per il bosco del monte Asino. 5 – Affitto dei boschi del Gamella, di Scandolara, di Rumiago e del Carpene. Gli abitanti di questi quattro boschi sono tenuti a pagare ogni anno £.20 d’affitto per questi boschi. Totale dell’affitto dei boschi £.30,6 iniziando dall’anno 1390 (abate Pasti). C – Le decime 1 – La decima grande delle biade, dei grani minuti, spetta totalmente al monastero dell’abbazia. Viene affittata ogni anno mettendola all’asta. Sono più o meno 580 minali di frumento ed altrettanti di spelta. 2 – La decima degli agnelli, dei capretti e dei maiali è totalmente del monastero. Sono più o meno 40 agnelli e 30 capretti. Viene richiesta in agnelli e capretti. (1)Busko (nome proprio) dal tedesco Busk=bosco grande (Gambaron). 209 Il padre Dionizio da Verona 1503 – 1530 L’anno 1503 segna un’evidente ripresa della vita monastica benedettina. Morto il papa Alessandro VI nell’agosto del 1503, l’antichissimo monastero di Montecassino (Frosinone) che era la culla di tutti i figli di san Benedetto, si unì in perpetuo alla Congregazione di santa Giustina di Padova, sottraendosi finalmente alla vergogna della commenda laica che durava dal 1454. Questa unione, aggregazione e incorporazione avvenne il 23 agosto 1503 durante il battesimo pontificato di Pio III (settembre-ottobre 1503). E il pontefice Giulio II delle Rovere (1503-1513) per rispetto e venerazione alla storia del monachesimo italiano ed occidentale dispose che la congregazione dei benedettini tradizionali (neri) cambiasse nome e si chiamasse Congregazione Cassinese (o di santa Giustina). (1) Da quell’anno 1503 i monaci benedettini della Congregazione di santa Giustina si chiameranno Monaci Cassinesi. L’elezione dell’abate generale avveniva ogni sei anni: l’abate eletto rimaneva nel suo monastero che diventava quindi per quel periodo la sede centrale della Congregazione Cassinese. Anche il monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena era stato liberato da una simile situazione di governo laico quando fu abbandonata definitivamente dall’amministrazione il nobile signor Gianantonio Gafforini, che l’aveva tenuta in modo continuo dal lontano 1461. (2) In questo modo i Monaci Cassinesi dei santi Nazzaro e Celso di Verona poterono prendere effettivo possesso non solo della chiesa e del monastero di Calavena, ma anche di tutto il patrimonio monastico e dei suoi diritti giuridici ed ecumenici. E’ in questo momento che entra in scena il monaco cassinese don Dionizio da Verona. (3) Il reverendo padre in Cristo don Dionizio da Verona era monaco professo della comunità monastica dei santi Nazaro e Celso di Verona (4), alla quale unicamente per la volontà della Congregazione cassinese, spettava la totale amministrazione spirituale ed economica del monastero di Calavena.(5) A lui dal 1503 fu affidato dell’autorità monastica l’incarico giuridico di rappresentante legale –sindacus- e di amministratore generale – procurator- del monastero ed abbazia dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena. (1)cfr. SNC. perg. 247 (2)SNC. perg. 227 (3)SNC. perg. 902 (4) SNC. perg. 901 (5) SNC. perg. 91 e 101 210 Dal 1518 anche quello di economo –cellerarius- del monastero dei Santi Nazzaro e Celso. (1) Non e mai chiamato abate di Calavena. Doveva avere però nel monastero di Calavena stabile dimora: una sua camera da letto (cella),(2) una specie di amministrazione (quadam celleraria) (3) ed una segreteria (camera scriptoria)(4). Egli seppe espletare il suo ufficio per quasi trent’anni (1503-1530) con vera energia e competenza mirabile. Di lui ci sono più di una quarantina di atti amministrativi stipulati da diversi notai. Si impone come programma una vasta e capillare operazione di recupero e ricostruzione patrimonio del monastero e delle sue vendite: proprietà, affitti perpetui, decime ed altri diritti. Questo era necessario dopo tanti anni di amministrazione commendataria, spesso fallimentare. Il primo passo fu quello di regolare personalmente i conti con i conduttori diretti dalle singole proprietà monastiche ripristinando gli antichi diritti ed esigendo il pagamento dei debiti anche costringendo a complicate vendite (5) e a donazioni forzate (6) in favore del monastero. Il primo intervento amministrativo, del maggio 1503, è una vendita di questo tipo. Il signor Pietro Sguassacoltelli di Calavena fu costretto a cedere parte della tenuta che aveva in località del Cucho (Cucìo) nel colonello dell’Alpesino: l’abitazione con i campi ed i prati. E così saldò il suo debito. D’accordo poi con il reverendo padre don Dionizio da Verona, esso fu dato in affitto ad un montanaro di Saline, Giorgio dalle Falci, che più facilmente avrebbe rispettato i diritti del monastero.(7) Questi cambi di conduttori diretti in seguito andranno sempre più moltiplicandosi. Qualche conduttore si dichiarava apertamente debitore nei confronti del monastero e nell’impossibilità di pagare se non cedendo quanto possedeva. (1)SNC. perg. 621, perg.264, perg.428 e perg.426 (2)SNC perg. 612 (3)SNC. perg 422 (4)SNC. perg 904,905,910 (5) SNC. perg 233,246,400 (6) SNC. perg 399 (7) perg. 233 211 A Cogollo c’era un grosso nucleo famigliare, quello degli Arduini, che si era indebitato con il monastero di Calavena per oltre novantaquattro minali di frumento. Alla resa dei conti uno degli Arduini, Antonio figlio di Bonaventura, per la sua parte dovette “donare” al Padre don Dionizio per fitti e decime residue ,due torce del costo di venti ducati equivalente a quaranta minali di frumento.(1) Alcuni che avevano pendenze debitorie nei riguardi del monastero furono costretti anche a complete donazioni per saldare i debiti: forse i loro terreni non valevano quanto i debiti. (2) Questi poveri debitori il più delle volte erano costretti a chiedere prestiti in denaro rimborsabili con prodotti di natura, il grano.(3) Non avendo cioè che questo modo di saldare i loro debiti con il monastero erano costretti a finte vendite dei loro terreni affiancabili con il grano prodottovi, il qui prezzo era calcolato, mezzo ducato al minale. Una prassi di vendita rurale (4) che poteva prestarsi ad usure e strozzinaggi.(5) Esemplare e particolarmente significativa fu la restituzione dell’ultimo commendatario dell’abbazia, l’eminente canonico don Girolamo Maffei il vecchio. Nel 1508, un po’ tanti a dire il vero, forse in seguito alla sorte del nobile Gianantonio Gafforini, che tanto aveva sfruttato le due ultime commende quelle di Agostino e Girolamo Maffei, egli volle per scrupolo di coscienza riparare il danno che forse senza loro colpa, era stato arrecato all’abbazia di Calavena. Girolamo Maffei davanti ai sacerdoti della città, di sua spontanea volontà e in piena coscienza a titolo di donazione liberale, consegnò nelle mani del monaco benedettino della Congregazione Cassinese Padre Dionizio da Verona tutti i diritti che ancora gli spettavano come commendatario dell’abbazia, specialmente quelli passati agli eredi del signor Gianantonio Gafforini. Questi diritti usurpati fin dal lontano 1482 e tuttora (1508), con i rispettivi frutti e redditi siano recuperati per compiere i lavori urgenti nell’edificio dell’abbazia di Calavena e per i monaci Cassinesi che in essa vi abitano. Il grande amministratore Gafforini viene accusato di aver trasformato il suo incarico di “fattore salariato” in quello molto più ampio di governatore generale della commenda.(6) (1) SNC. perg 400 (2)SNC. perg 399,253,902 (3)cfr. Gipi Corazzo/Fitti e livelli a grano. Angoli Ed. Milano 1979 (4) SNC. perg 399 (5) perg 1432 (6)SNC. perg 247 212 Nella sua azione di recupero dei diritti dell’abbazia il deciso amministratore Cassinese don Dionizio da Verona dovette ricorrere alle autorità pubbliche per legittimare i confini giuridici del territorio (curia) dell’abbazia. In effetti, i confini originari dell’abbazia erano stati variamente ridimensionati al tempo delle signorie scaligere per mani la grande fattoria scaligera di Selva di Progno con le adiacenze nella Calavena(1333). Ed anche nel periodo della commenda non ci si preoccupo’ più di tanto di buttar regolarmente i termini così rimasero qua e la incolti ed in balia ad interessi privati e collettivi. A questa operazione per tanto lunga e complessa, doveva intervenire anche il vicario locale del podestà di Verona: il vicario delle Montagne o il vicario di Tregnago a seconda dei casi. Così furono tracciati un lunedì di maggio del 1505 i confini dell’abbazia con il comune di Gardon appartenente al circondario di Mezzane di Sotto con la presenza del Vicario delle Montagne il nobile signor Antonio delle Fontanelle. Si portarono sul posto, al passo Spin del Poiero, il vicario Antonio delle Fontanelle, don Dionizio da Verona ed il notaio bastioni; si scelsero tre testimoni giurati, Giovanni Bertoldi da Scandolara, Marco Facci da Cogollo e Michele Colderio dal corno. Poi, documenti alla mano, si traccio con croci su pietra fissa la linea di confine dal passo Spin fino sotto al paese di Gardon: un tracciato piuttosto lungo e complicato.(1) Dal dosso Spin del Poiero scendeva fino al dosso Tomezi, nel vaio dei Pergari sotto ai Taioli; poi risalendo verso settentrione, attraversava tutto l’altopiano, fino a raggiungere il confine con Selva di Progo, ad una grossa pietra vicino al paese del Gardon. Anche i confini con il comune di Tregnago e precisamente con le montagne di Tregnago- la val dei Gamberi che si incurvava nel cuore della proprietà del monastero- erano causa di contese. Così il 10 giugno 1504 il tribunale di Verona sentenzio, a favore del monastero di Calavena, che il confine a nord del monte S. Pietro era l’odierno vaio dei Perini.(2) E dalla biforcazione del vaio dei Cuneghi e quella dei Gambari, sotto il bosco di S. Giorgio, si stabilì dallo stesso tribunale nel 1506 che fosse l’antico sentiero del coalo e non quello nuovo fraudolentemente tracciato. (3) Un’altra questione confinaria con Tregnago nella val dei Gambari è del 1518: questa volta pero’ nel clima del nuovo dominio di Venezia, si concluse a favore del comune di Tregnago e contro il monastero. (4) (1)SNC. perg 234 (2)Cieno pag. 38 (3)SNC. busta 91 del 1223 (4)SNC. busta 91 doc. 1239 213 Infine il buon ed imperterrito amministratore don Dionizio da Verona penso’ di far giungere, direttamente o indirettamente una supplica addirittura al serenissimo Principe l’imperatore Massimiliano (1508-1519), perché gli concedesse di poter recuperare anche quei beni del monastero ormai caduti in prescrizione giuridica. Questa supplica è anche una chiara motivazione di quanto egli stava facendo per il monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena, per risollevarlo dalla triste mediazione in cui storicamente s’era venuto a trovare e per renderlo idoneo ad accogliere decorosamente una comunità locale di monaci cassinesi. Serenissimo Imperatore nostro questa è l’umile supplica dell’Abate e dei Monaci dell’abbazia dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena delle Montagne in diocesi e distretto di Verona. Questo monastero, che è anche abbazia, è rimasto per molti anni (dal 1360) senza monaci e senza abati che vi dimorassero stabilmente, divenendo di conseguenza commenda pontificia. Così l’edificio, anche a causa di guerre, andò in grave deperimento, le sue possessioni furono illegalmente occupate e i suoi diritti indebitamente usurpati da molti. Qualche anno fa (1498) l’ultimo commendatario, il monaco veronese Girolamo Maffei, ricominciò, con il consenso pontificio, al suo incarico in favore della Congregazione di santa Giustina di Padova. Perciò l’abate che vi fu mandato incominciò a ricostruire il monastero per riportarlo al suo stato originario e per farne la stabile dimora dell’unica comunità dei monaci quivi destinati anche per l’assistenza religiosa degli abitanti del paese e di tutto il territorio della badia. Con un notevole sforzo economico. Ora nonostante siano trascorsi purtroppo i tempi della prescrizione giuridica riteniamo sia giusto che il monastero venga riportato al suo stato d’origine con tutti i suoi privilegi e diritti autentici, come anche è stabilito nello statuto del comune di Verona. Perciò’ presentiamo fiduciosi a vostra Maestà la supplica che aldilà delle prescrizioni giuridiche questo monastero venga reintegrato in tutti i suoi diritti antichi. (1) Poté essere considerata una risposta indiretta a questa supplica il grande privilegio dell’Imperatore Massimiliano ( 1508-1519 ) dell’anno 1516, rilasciato in favore della Congregazione Cassinese ed in particolare del monastero di san Nazaro in Verona. (1) Cieno pag. 33 214 In quella circostanza, provocata da un malinteso tentativo di unione alla Congregazione cassinese di quella subbacense, l’Imperatore non solo confermò tutti i privilegi e i possedimenti al monastero di san Nazaro, ma anche raccomandò alle autorità competenti di riportare questo monastero “ al suo stato originario con l’integrazione di tutti i suoi diritti”. (1) Questa generica espressione era dato il destino ai bravi monaci cassinesi di ricercare fin dalle origini tutti i documenti che poterono “ integrare “ i loro diritti e possessi. E chissà, fors’anche ad inventare qualche copia autentica di quelle perduti: qui il pensiero va specialmente alle due copie del grande Privilegio del Pontefice Lucio III del 1185. In compenso per la ricerca storica ci sono ancora rimasti lunghi Sommari di molte pergamene con relativo registro (riassunto del contenuto) che attestano i diritti dell’abbazia di Calavena al di fuori del suo territorio allodiale. Questi elenchi minuziosi e precisi stillati forse da esperti notai, suddividono le proprietà e relativi diritti secondo i luoghi dove si trovano e i documenti sono disposti in ordine di tempo. (2) Diritti dell’abbazia di Calavena 1- Colognola (3) La prima pergamena è quella del 21 marzo 1133 nella quale viene nominato l’abate Pellegrino. (4) A Colognola c’era la cappella di san Nicolo’. La documentazione di Colognola si chiude con l’anno 1430. (5) 2- Mezzane (6) La prima pergamena è del 2 dicembre 1137 e tratta del territorio di Colognola dove è sito un mulino e più’ tardi la cappella di sant’Ambrogio. 3- Tregnago (7) La prima pergamena è del 16 aprile 1140 e parla di una terra sita nel Marano (meiaro) della Calavena al ponte di Marcemigo. La cappella poteva essere quella di san Martino. (8) (1)SNC. Perg. 54 (2)SNC. Busta 36 e 37 (3)SNC. B. 37 d. 28 (4)SNC. perg. 318 (5)Perg. 320 (6)SNC. B. 37 d. 32 (7) SNC. B 36 d. 26 (8) SNC. perg. 182 215 4- Cogollo (1) La prima pergamena è del 7 dicembre 1147. (2) La cappella era quella di San Vitale. (3) 5- Marcemigo (4) La prima pergamena che nomina questo paese è del 1148, 10 novembre. 6- Illasi (5) La prima pergamena del 7 aprile 1170 tratta dell’affitto di una terra vicina alla chiesa di sant’Andrea di proprietà del monastero. (6) 7- Sorcè e Cellore (7) La prima pergamena è del dicembre 1210. La cappella di san Pietro è nominata (8) molto più tardi ed era nel comune di Gusperino. (9) Gusperino poteva essere il piccolo feudo autonomo dal longobardo Gaufert ( 770 ). È facile constatare che manca l’elenco dei diritti dell’abbazia di Calavena nel comune di Gusperino che doveva essere indicato con il doc. Della busta 37. Il comune di Gusperino in questi anni (prima del 1564 ) fu venduto ai Conti Pompei D’Illasi che passò – documenti compresi – sotto la loro giurisdizione. (10) Stando a questi Elenchi di diritti, la consistenza patrimoniale dell’ abbazia di Calavena doveva apparire molto elevata e più sufficiente a mantenere in modo discreto una buona comunità di monaci che volgevano la loro attività religiosa al servizio degli abitanti della zona. Queste rendite si aggiungevano evidentemente a quelle del territorio allodiale dell’abbazia, che raggiungeva i 150 fiorini annui. (11) (1)SNC. B. 37 d. 27 (2)SNC. Perg. 182 (3)SNC. Perg. 361, perg. 374 e perg. 3 (4)SNC. b 37 d. 31 (5)SNC. b. 37 d. 29 (6)SNC. perg 545 (7)SNC. b. 37 d. 33 (8)SNC. perg. 1242 (9)SNC. perg. 556 e Biancolini V, 2 pag. 125 (10)Don P. Schena – Pieve d’Illasi pag. 85 (11) SNC. perg. 231 216 Una vera e propria comunità benedettina cassinese nell’abbazia di Calavena ebbe inizio solo nei primi anni del 1500. Era composta di sacerdoti e da qualche semplice monaco. All’espressione usuale del periodo degli abati commendatari che asserivano non esservi ne monastero “nessun monaco avente voce in capitolo” (1) fa seguito ora negli atti pubblici quest’altra “ a nome del monastero e dei monaci che vi dimoravano “. (2) Anche le visite pastorali dei vescovi rilevano questa presenza. (3) Essa si presentava come una comunità locale, dipendente dal monastero cittadino dei Santi Nazaro e Celso, al quale apparteneva totalmente. (4) Era una comunità poco numerosa, sufficiente ad assicurare l’assistenza religiosa degli abitanti della zona. Se stiamo ai nomi dei monaci che appaiono dai documenti ecumenici il numero non doveva essere superiore ai cinque. C’era il cappellano, nominato in un documento del 1503 e in un altro del 1515. (5) Era sacerdote e come cappellano era estraneo alla comunità religiosa: era il responsabile della sua personale parrocchia. Si chiamava don Girolamo Bonaldo fu Francesco di Montecchio Maggiore vicentino. (6) Con lui pare ci fosse anche un suo parente che l’aiutava (fameio), un certo Tomaso Bonaldo che era incaricato della chiesetta di san Pietro al monte. C’erano due bravi monaci cassinesi che all’occorrenza potevano prendersi la responsabilità dell’ amministrazione del monastero, don Paolo da prima e don Girolamo da Verona. Ad essi facilmente erano affidate le chiese di sant’Andrea di Progno e forse di sant’Antonio di Sprea, ma andarono anche al paese di Tregnago nel “ vecchio abitacolo di proprietà del monastero chiamato Abbazia. (7) C’era infine il grande amministratore e governatore generale, il reverendo padre in Cristo don Dionizio da Verona, che doveva avere non solo le funzioni dell’economia locale ma anche la responsabilità dell’abate: abate temporale e rappresentante legale, il Rettore. Il reverendo don Dionizio da Verona fu membro della comunità locale dell’abbazia di Calavena ininterrottamente dal 1503 al 1530. (8) Morì facilmente nel periodo pasquale del 1530, poco prima della visita del grande vescovo Gianmatteo Giberti. (9) (1)SNC. perg. 1257 (2)SNC. perg. 424, 247 (3)Gelati pag. 56, 400, 659 (4)SNC. perg. 101 (5)SNC. perg. 398 e perg. 422 (6)Cf. Visite pastorali Gilberti pag. 656 (7)SNC. perg. 1433 (8)SNC. perg 233 e perg. 1440 (9)Cfr. Visite Giberti pag. 660 217 Dopo di lui, dal 1532 questo incarico di “superiore locale” sarà affidato al reverendo padre don Timoteo da Brescia. Nel 1562 è rettore dell’abbazia di Calavena il reverendo decano don Celso da Verona: egli partecipo ai riti di aggregazione della Pieve di Tregnago al monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. (1) Nel 1565 troviamo il reverendo padre don Giuliano. (2) Don Giuliano ci viene presentato nel documento citato come procuratore e rappresentante del monastero di san Nazaro e insieme all’abbazia di Calavena. Già il padre don Dionizio aveva unito nella sua persona l’incarico di economo di san Nazaro – cellerario – e quello di rappresentante locale del monastero dell’abbazia di Calavena (1518). Don Timoteo da Brescia questa unione sembra diventare stabile (1532 ). Così don Giuliano in qualità di amministratore di san Nazaro rappresentava anche l’abbazia dipendente di Calavena. Lo stesso reverendo don Giuliano è presente nel marzo del 1568, quale rettore della chiesa e del monastero dei santi Vito e Modesto di Badia Calavena, alla prima visita pastorale che l’abate di san Nazaro e Celso Bernardo da Zara compie alla Pieve di santa Maria di Tregnago. (3) RETTORI: Dionigio 1503-1530 Timoteo 1531-1564 Giuliano 1565 Remo 1569 Girolamo 1570 Girolamo Troiani 1574 Agostino Maffei 1588 In monasterio Calavene 1442 – sub patico habitionis cappellani 1505 – in conventus in cognina 1428 – in camera 1514 – in quadam loco dicto (?) celeraria 1515 – in scriptoria 1520 – in tostrina (barbieria) 1503 – in celeraria quandam tereno 1506 – in caminata terena 1506 – in caminata terena 1520 – in revolto tereno ubi dicitur tonstrina 1515 – in quodam loco tereno nominato celeraria perg.220 perg.610 perg.1253 perg.420 perg.421 perg.427 perg.250, perg.398 perg.238, perg.399 perg.240, perg.400 perg.428 perg.422 (1)SNC. perg. 1462 (2)SNC. perg. 304 (3)SNC. Busta XIX, pr.79 218 1520 – in tonstrina (barb. o farmacia) perg.274, perg.426 1520 – in tonstrina perg.273, perg.429 1516 – in quadam camera terena perg.423 1520 – in tonstrina perg.272, perg.425 1520 – in tonstrina perg.275, perg,424 1477 – in domibus Abbatie Calavene perg.229 1477 – in domibus monasterii Abbatie Calav. perg.230 1503 – sub quadam nogaria perg.233 1505 – penes moenia monasterii in quadam loco aperto versus nonam perg.237 1511 – in quadam eius celeraria terena perg.250 1511 – in monasterio in eius celeraria perg.249 1515 – in scriptoria quadam terrena perg.254, perg.1428 1515 – in scriptoria perg.255, perg.1427 1519 – in camera superiori perg.264 1522 – in camera dormitorii perg.622 1509 – in quadam camera celeraria perg.619 1506 – in camera dormitorii don Dionizii perg.612 1505 – in claustro (in clostro) perg.251, perg.902 1515 – in scriptoria Rev.di Dionizii perg.904 1517 – in quadam scriptoria perg.910 1515 – in scriptoria R. Dionizii perg.905 1506 – in camera superiori D. Dionizii posita in dormitorio perg.242 1506 – in camera Dionizii posita in dormitorio superiori perg.243 Tregnago 1508 – in curtivo domus canipe monast. Ab. C. in villa Tregn. Perg.1414 1507 – in quadam caminata superiori domus canipe perg.245 1523 – in canipa in loco inferiori perg.299 1517 – in quadam abitaculo vocato Abbatia In villa Tregn. Badia Calavena perg.1433 1507 – in ospitio Jacobi Pacixxii in strata perg.244 1510 – in quadam curtis ante ianuam mon. S.tus Petrus V. M. perg.248 1514 – in monasteri Abbatie non longe a Fonte perg.252 1519 – in quadam camera superiori spectant versus ortum perg.256260 1519 – in camera alta versus ortum perg.267 1520 – ante portam sive coperturam versus aram perg.281 1520 – in revolto qui dicitur tonstrina perg.289, 290 1521 – in celleraria perg.293 219 Le comunità locali di monaci cassinesi prese stabile dimora nel monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena. Anche la vecchia dimora di Tregnago nella contrada delle Ortelle, che durante il periodo della commenda era diventata la sede amministrativa – canipa- di tutto il patrimonio abbaziale, ora proprio questa casa degli abati commendatari era diventata un semplice “ abitacolo “ benché continuasse ad essere chiamata abbazia. (1) Qualche atto notarile veniva stipulata in essa e talvolta si concedeva di portarvi gli affitti più scomodi. Ma l’abbazia era quella antica del monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena. Tutto il complesso abbaziale –compreso il piccolo beolo- era circondato da robuste mura: l’abbazia a prima vista doveva presentarsi come un castello. (2) All’interno l’edificio –le case (stanze) dell’abbazia- si configurava secondo la diverse esigenze della vita della comunità. Sul lato settentrionale c’era la chiesa dei santi Vito e Modesto con l’attigua abitazione del cappellano. Su gli altri tre lati al piano terra vengono nominati nei documenti notarili alcuni particolari ambienti. - Il chiostro con la cucina della comunità è nominato una sola volta: questi locali erano riservati rigorosamente alla vita religiosa della comunità erano la clausura e nessun estraneo vi poteva entrare. (3) - Assai più frequentata dai notai la camminata terrena. Un locale accogliete, con il suo caminetto a legna, acceso a seconda delle stagioni. (4) - C’era, sotto un volto sul lato a mattino, una stanza con un nome caratteristico la Tonstrina che potrebbe significare il locale della tosatura: negli anni è il luogo preferito dal notaio per i suoi atti. (5) - C’era un locale chiamato espressamente l’Amministrazione – celleraria- al piano terra, dove lavorava abitualmente l’ecumenico della comunità e vi teneva i suoi registri amministrativi. (6) - Simile all’amministrazione –se non la stessa casa- doveva essere lo scrittoio che è chiamato anche scrittorio del reverendo don Dionizio. Qui si trovava il necessario per scrivere. (7) (1)SNC. perg. 1433, 245,1414,299 (2)S. NC. perg. 237,232 (3)SNC. perg. 902, 610 (4)Perg. 399 e 400 (5)perg. 424-429 (6)perg. 398, 422, 250 220 -Al piano superiore c’erano tutte le stanze personali dei monaci; è nominata talvolta la camera superiore del dormitorio del reverendo don Dionizio come luogo dove venivano stipulati atti notarili: forse si trattava di atti urgenti durante qualche malattia dell’attivo economo. (1) E va anche di pensare alla camera da letto dell’inutile appartamento personale dell’abate. C’era una camera alta rivolta verso l’orto. (2)La comunità Cassinese ha avuto l’onore d’aver dato l’ultima impennata monastica all’abbazia di Calavena. La comunità monastica dell’abbazia di Calavena dovette affrontare anche il problema linguistico della popolazione cosiddetta dei Cimbri, ai quali doveva dedicarsi nel suo lavoro apostolico. Questo problema si era certamente presentato a suo tempo nel 1295, quando l’abate Giovanni accolse le prime famiglie cimbre o tedesche. Ma allora il problema fu di più facile soluzione come s’è visto perché con ogni probabilità diversi monaci del monastero erano di origine locale con lingua e tradizioni religiose del posto. Ora invece la comunità di Calavena era costituita da un gruppo di monaci che, radunati e formati nella congregazione cassinese, non potevano conoscere la lingua dei Cimbri. Di questo si lamentava anche la gente. Nella visita pastorale del Vescovo fatta nel 1527 alla chiesa o monastero di san Pietro e Vito di Badia Calavena la cronaca annota: Ci si lamentò del parroco (cappellano) messovi di recente (2 settembre 1525) don Cristiano Giovanni dei Cestori, sacerdote cittadino di Verona (3) “italiano che parlava solo la lingua italiana, mentre la sua chiesa era frequentata da molte donne e da giovani di ambo i sessi che non sapevano la lingua italiana, ma solo quella cimbra”.(4) Si dovette provvedere ad una formazione linguistica almeno di coloro che si dedicavano al ministero: catechesi, predicazione, amministrazione dei sacramenti, specialmente della confessione senza pensare ad una vera e propria scuola linguistica all’interno del monastero, qualche anziana e spigliata signora delle montagne avrà fatto da maestra ai più giovani, in modo che la comunità dell’abbazia avesse diversi monaci pratici di questo “ parlare oscuro “. Infatti la vicina Pieve di santa Maria di Tregnago più tardi (2 giugno 1534) si rivolse ai monaci rimasti ancora nell’abbazia per chiedere l’assistenza religiosa di alcune zone del suo territorio abitato da Cimbri, tra cui c’era la Val dei Gambari. (1)SNC. perg. 904 e 905 (2)Perg. 264, 622, 612 (3)SNC. perg. 267 e 256 (4)Visite pastorali del Giberti pag. 56 e pag. 254 221 Dice il documento: “Nel territorio della Pieve di Tregnago vi sono molte famiglie che parlano in lingua tedesca ed ignorano, specialmente le donne, la lingua italiana. Poiché i cappellani della Pieve di Tregnago non capiscono questo parlare oscuro, chiedono che ad aver cura di queste persone siano i Cappellani monaci dell’abbazia di Calavena i quali conoscono bene questa lingua straniera. I monaci si prendono volentieri quest’incarico, anche per sollevare la coscienza dell’Arciprete della Pieve di Tregnago. Questo impegno di ministero sarà ricompensato dalla Pieve con 15 minali di frumento all’anno.” (1) Oltre all’apprendimento della lingua, è da pensare che questi monaci cassinesi abbiano cercato di conoscere meglio anche gli aspetti culturali e religiosi dei Cimbri. I Cimbri erano cristiani convertiti al Cristianesimo in massa e conservavano gelosamente, anche dopo tanti anni dalla loro prima migrazione (1295), la proprie tradizioni che potevano essere talvolta superstizioni. Fu in questo periodo che i contenuti religiosi della popolazione cimbra ebbero una maggior chiarificazione cristiana. Il resto lo farà in modo discreto gettato dalla direttiva del Concilio di Trento sulle loro cupe credenze. Molte figure mitiche e certi fenomeni strani, radicati da secoli nella psiche infantile, si trasformeranno nostalgicamente nelle “ strie “ da raccontare ai bambini per spaventarli e tenerli buoni. (2) Conclusione Dopo le feste pasquali dell’anno 1530, il grande vescovo di Verona Gianmatteo Giberti intraprese di persona una solenne visita pastorale a tutti i paesi della Lessinia. Nel mese di giugno si trovava nella Lessinia orientale e la domenica 26 visito’ la chiesa parrocchiale di Badia Calavena.(3) A quel tempo anche l’annessione dell’antica abbazia dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena al monastero dei santi Nazaro e Celso di Verona poteva dirsi conclusa. L’abbazia di Calavena ed il monastero cittadino erano uniti come in un sol organismo: unita ed incorporata per volontà della Congregazione dei benedettini d’Italia, la Cassinese. Perciò d’ora in poi la storia del monastero di Calavena si identifica con quella del monastero di Verona. (1)SNC. busta 92, doc. 1240 (2)Domenico L. Nordera. Contenuti religiosi dei Cimbri 1981 (3)Giberti. Visite pastorali pag. 659 222 Per questo motivo ci piace concludere questa breve storia del feudo monastico di Badia Calavena con la visione che ne ebbe ieri quell’occasione l’augusto visitatore con i suoi collaboratori. E’ come la fotografia d’un volto che rimarrà tale fino alla morte (1771). La chiesa dei santi Vito e Modesto di Calavena era una parrocchia rurale a tutti gli effetti. Aveva il battistero e cioè il diritto di battezzare tutti i suoi fedeli. Dipendevano dalla sua giurisdizione altre due chiese periferiche esistenti nel suo territorio: l’antico oratorio di san Pietro del bosco sul monte e sant’Andrea sul Progno nella parte settentrionale. Non ci dovevano essere ancora la altre due chiese secondarie di sant’Antonio (oggi san Rocco) a Sprea e della santissima Trinità alla Scandolara.(1) Ne si fa cenno alle antiche cappelle dell’abbazia di Calavena –san Nicolo’ di Colognola, sant’Andrea d’Illasi san Vitale di Cogollo, san Pietro di Gusperino, sant’Ambrogio di Mezzane, san Faustino e santa Maria in città- che si erano a suo tempo staccate e dipendevano direttamente dal monastero dei santi Nazaro e Celso.(2) Come parrocchia aveva il suo parroco, il cappellano che era un sacerdote della diocesi, amovibile a volontà dell’abate di San Nazaro.(3) Strutturalmente poi la chiesa parrocchiale dei santi Vito e Modesto faceva un tutt’uno con l’abbazia dei santi Pietro, Vito e Modesto di Calavena. E tutto il territorio abbaziale, comprese la chiesa apparteneva quale beneficio ecclesiastico al monastero dei santi Nazaro e Celso di Verona al quale era stato unito ed incorporato per decreto del papa Alessandro VI nel 1498. Nell’abbazia legata ormai al nome della famiglia Maffei di Verona, vi dimorava una comunità locale di alcuni monaci, col tradizionale abito nero dell’ordine di san Benedetto, chiamati padri Cassinesi. Per dare solennità alla visita pastorale era presente anche l’abate del monastero dei santi Nazaro e Celso il padre in Cristo don Marco da Pontremali; ma l’abate risiedeva normalmente in città nel suo grande monastero. Questa comunità locale, che osservava la sua vita monastica con tutti i suoi impegni religiosi e comunitari per quanto riguardava l’attività pastorale faceva al cappellano della parrocchia, il parroco. Il cappellano era don Domenico Vicentini, che era presente nella precedente visita (1529) e che lo sarà ancora nella successiva (1532). Dal vescovo viene dichiarato all’altezza del suo compito per condotta di vita e per cultura personale. (1)Appariranno tutte nel 1738 S. N.C. busta XX, pr .88 (2)Visite Giberti pag. 677, 396, 686 e 1025 (3)Visite abbaziali busta 19, pr.79 (1570). 223 Vi era stato messo da poco al posto di don Cristiano Giovanni dei Cestori, prete veronese, rimosso perché non conosceva la lingua cimbra. Il cappellano in quanto tale non era un monaco benedettino e neppure un membro effettivo della comunità monastica cassinese. Era generalmente un sacerdote diocesano, assunto e stipendiato dall’autorità monastica: si parla di uno stipendio annuo di 20 ducati. A lui era affidata la responsabilità pastorale della parrocchia. Lavorava in armonia con i religiosi della comunità che a seconda delle loro capacità la aiutavano nelle sue molteplici mansioni pastorali. Don Domenico Vicentini, quale cappellano della parrocchia dei santi Vito e Modesto di Calavena, doveva prendersi cura anche della chiesa di sant’Andrea di Progno. Egli sapendo che alla parrocchiale potevano badare all’occorrenza anche i monaci, indulgeva alla buona richiesta degli abitanti di sant’Andrea che lo volevano vedere più spesso, ma i monaci ovviamente di questo non erano contenti. Perciò’ gli abitanti di sant’Andrea fecero espressamente richiesta al Vescovo di potersi prendere liberamente un sacerdote per la celebrazione più frequente della messa nella loro chiesa. Sembra, a dire il vero, che il paese di sant’Andrea, il quale nel territorio abbaziale era la borgata più importante dopo il entro, non fosse tenuto nelle dovute attenzioni. La chiesa, piuttosto trascurata necessitava di restauri, di tinteggiature e di rifacimenti. Era fornita d’una pregevole pala d’altare dietro il tabernacolo, di due candelabri di ferro e di tre tovaglie; ma il misero paliotto di tela era da sostituire al più presto con uno di legno assieme alla predella di rinforzo. Era custodita, non proprio alla perfezione, da un certo Antonio Guerra fu Tomaso, il quale talvolta si dimenticava di chiudere tutte le porte e non aveva sempre il tempo di venire a suonare l’Ave Maria anche a mezzogiorno. Tutto questo dipendeva facilmente dal fatto che non si riusciva a sapere niente intorno alle rendite di questa chiesa. Nell’oratorio poi o chiesetta di san Pietro del bosco sul monte, più comoda alla chiesa parrocchiale, le cose non andavano molto meglio. Venendo da Castelvero per la strada detta la Gessada, il Vescovo era passato di lì e vi aveva trovato un certo fratel Antonio Perini da Cogollo, professo cassinese anche lui del monastero di san Nazaro. Non era prete, faceva semplicemente il custode e viveva come eremita industriandosi alla meglio e con qualche offerta della gente. Nella chiesa vi era solo l’altare portatile, due candelieri di ferro e quattro tovaglie per l’altare, calice e paramenti per la messa - che vi faceva solo nelle domeniche di quaresima –si portavano di volta in volta dalla chiesa principale. Il campanile e la chiesa erano facile bersaglio dei fulmini. 224 Ben diversa era invece la situazione nella chiesa del centro quella parrocchiale dei santi Vito e Modesto, anche perché vi risiedevano stabilmente il monaco o cappellano don Domenico Vicentini e la comunità locale dei monaci cassinesi. Anche se questa non era mai stata numerosa, almeno in quell’occasione della visita pastorale dovevano essere presenti don Paolo da Parma e don Girolamo da Verona;(1) facilmente il futuro amministratore don Timoteo da Brescia ed un religioso laico fra Antonio Perini da Cogollo; per qualche giorno vi rimase di sicuro l'abate di san Nazaro padre Marco da Pontremali, quale massima autorità monastica.(2) Quando bene i monaci stabili, si poteva organizzare la parrocchia in modo da farne un modello da proporre all’imitazione. La gente era molta, esattamente un totale di 1056 anime, di cui 650 di adulti buoni cristiani che avevano assolto tutti il precetto pasquale. In verità la chiesa per tanta gente doveva essere piccola, in compenso era un gioiello, ornatissima per l’abbondanza e la ricchezza dei paramenti, degli arredi sacri, dei dipinti e degli altari (tre) che il Vescovo dovette non solo vedere ma anche ammirare. L’unico affronto fatto dal buon Presule: spostare un po’ in avanti il tabernacolo per renderlo più visibile e rifare il coperchio del fonte battesimale. Dovette essere un piacere per il predicatore ufficiale del Vescovo monsignor Filippo Stridonio austero scrittore di libri, rivolgere la sua parola infuocata al popolo alla messa solenne della visita pastorale. E per lo stesso vescovo Gianmatteo Giberti conferisce le cresime a tanti ragazzini e giovanotti, benedire più volte il popolo, aspergere ed incensare le tombe dei cari defunti sepolti in chiesa e nel vicino cimitero. Il tutto doveva dare l’idea di un certo benessere, anche se nei giorni di festa l’orgoglio di quei montanari faceva sfoggio dei vestiti più belli. È interessante a questo riguardo il fatto, casuale che il monastero concluda la vita pastorale con le curiosità del Vescovo di sapere la consistenza delle entrate parrocchiali: ma la “cedola” ufficiale dal precedente abate era già stata consegnata per conoscenza al vicario generale di sua eccellenza reverendissima, monsignor Callisto Amadei, commendatario tra l’altro della pieve di Tregnago. In realtà gli introiti annui erano veramente consistenti: certamente oltre i quattrocento ducati, pari a quelli di Tregnago ed Illasi messi assieme. La gestione economica di questo patrimonio, giacché i monaci cassinesi erano esenti dall’autorità episcopale, era totalmente nella mani del monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. (1)S.N.C. perg. 1433 (2)Visite pastorali (Volier 1568), Calavena 225 Ad esso spettava la gestione delle entrate: decime, affitti dassi ed annessi. Solo per certi affari straordinari, come le alienasioni, si doveva dipendere dai superiori generali della Congregazione cassinese.(1) Responsabile diretto di questa amministrazione era il rappresentante legale del monastero cittadino che spesso era anche l’economo (cellerario) dello stesso monastero: è chiamato Rettore. Con tale precisione era conveniente che gli dimorasse con la comunità locale di Calavena. Era un sacerdote e per le sue buone capacità gestionali doveva essere anche la guida naturale della piccola comunità. Nella comunità locale della Calavena non appare mai l’incarico di priore, tanto meno quello di abate; tutti erano ugualmente fratelli monaci: i padri cassinesi. Questo incarico di guida della comunità era affidato quindi allora al padre Dionizio da Verona, che amministro’ ininterrottamente il beneficio abbaziale dall’inizio (1503) fino alla sua morte che dovette avvenire proprio durante pasqua precedente la visita pastorale (1530). Il parroco don Domenico si scusava con il Vescovo di non poter sapere il numero esatto di coloro che si erano confessati per il precetto pasquale perché proprio sotto Pasqua era mancato un fratello monaco che confessava moltissimo. Era facilmente il reverendo don Dionizio da Verona che oltre all’economo dedicava il suo tempo anche ai suoi fratelli nel confessionale. (2) a conferma di ciò’ nel 1582 appare come rappresentate legale e successore di padre Dionizio da Verona il reverendo in Cristo don Timoteo da Brescia. (3) Che il monastero dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena fosse ricco lo sapeva anche la gente. Molto si spendeva per la comunità dei monaci e per il decoro della chiesa, la casa di Dio, ma la gran parte di quel denaro partiva per altre destinazioni. Ancora non si faceva sentire il malessere di questo sistema, anche se la carestia negli anni precedenti (1526) era stata grave. Almeno così si può rilevare dall’incontro del Vescovo con i rappresentanti del comune, che sono solo nominati: nessuna richiesta, nessuna lamentela. il comune di popolazione cimbra era da tempo(1381) già ben costituito ed ebbe l’onore di essere invitato ad un incontro con il Vescovo, come già si faceva dai tempi del vescovo Ermolao Barboro (1460); e si farà dal 1534.(4) (1)SNC. perg. 91 e 101 (2)cf. Visite Giberti pag.660 (3)S.NC perg 912,913 e 623 (4)Nelle periodiche visite abbaziali 226 Il comune degli uomini dell’abbazia -un territorio di circa 12 chilometri quadrati d’estensione- si chiamava Spreaconprogno ed era uno dei tredici comuni cimbri della Lessinia: questi formavano insieme il vicariato delle montagne dei Cimbri, la qui sede centrale si trovava a Velo(dal1461). L’autorità comunale nell’anno della visita pastorale (1530) era costituita dal massaro (sindaco) Giacomo Guerra figlio di Benedetto e dai suoi tre consiglieri Martino Trettene figlio di Matteo, Biagio Colombari figlio di Andrea e Andrea Rugolotto figlio di Rigo. Essi non dissero nulla dei problemi della popolazione, ma già doveva essere presente anche in loro il senso di ingiustizia suscitato dalle decime(tasse) sulle terre novali, terre cioè recuperate di recente all’agricoltura. “Non era da cristiani cavare il sangue da quei poveracci che con sudore e fatiche inaudite si erano tirati fuori un campetto per vivere dai vegri a dai boschi pieni di cengi e di pietre vive.” Ma questo sarà scritto più tardi (1583).(1) Questa è l’immagine verosimile della situazione del feudo monastico dell’abbazia di Calavena nel 1530, l’anno della visita pastorale del vescovo Gianmatteo Giberti(1525-1542) (2) E così dovettero rimanere le cose più o meno negli anni successivi fino al giorno in cui il grande monastero cittadino dei santi Nazzaro e Celso fu soppresso dalle autorità venete. E con esso evidentemente anche l’Abbazia di Calavena. Era l’anno 1771. La parrocchia di Badia Calavena e quella della pieve di Tregnago passarono totalmente sotto la giurisdizione del Vescovo di Verona. Segno pubblico ed ufficiale di questo passaggio di potere è lo stemma dell’allora vescovo di Verona Nicolo’ Antonio Giustiniani (17591772),benedettino cassinese, che fù dipinto nelle canoniche delle due parrocchie e che Gianfrancesco Cieno (1905) vide di persona ritenendolo erroneamente lo stemma dell’abbazia di Calavena.(3) È invece il timbro d’occupazione da parte della Diocesi di Verona dell’antica Abbazia di Calavena. Il monastero cittadino era diventato economicamente un gigante: il suo patrimonio fu calcolato a ducati 187.016, lire 1, soldi 15. (1)SNC. busta 48 doc.433 (2)Gf. Cieno. I due monasteri pag.64. (3)Giberti. Visite pastorali pag. 56,254,400,659, 1007, 1013 227 Una somma enorme.(1) Di cui la parte di Badia Calavena era di ducati 4128, una somma modestissima pari al valore dei settanta campi di Sorcè di sotto giarrosi e soggetti al progno che li maltratta e interseca. (2) A pensare che Sorcè era stata solo una delle tante terre della val d’Illasi appartenenti all’antico monastero di Calavena! Si può dire che prima della soppressione veneta, il feudo monastico della Calavena era stato soppresso dal monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso con vendite e permute di terreni più comodi e utili, iniziate già dai primi anni dell’annessione. (3) Molto dovette influire su questa rapida ed incessante distruzione del patrimonio dell’antico monastero di Calavena il fatto che, in seguito alle disposizioni del concilio ecumenico di Trento (1545-1563) sulle commende nell’anno 1561-12-marzo anche la vicina pieve di santa Maria di Tregnago veniva dal pontefice PioIV (1559-1565) incorporata al monastero cittadino dei santi Nazaro e Celso. La maggiore importanza della pieve di Tregnago lascio’ in secondo ordine il monastero di Calavena, con il conseguente dirottamento delle sue risorse di ogni tipo sulla pieve, oggetto preferenziale delle attenzioni del monastero cittadino. (4) così sarà anche per le visite pastorali che dal 1568 gli abati dei santi Nazaro e Celso periodicamente facevano all’intera Calavena, anziché al solo monastero e chiesa dei santi Pietro Vito e Modesto di Calavena (5) Ma lo spirito non può essere ne soppresso ne alienato. Resta scritto a caratteri indelebili nell’anima e nel volto. A perenne ricordo di questa preziosa e millenaria eredità spirituale resta al comune il nome proprio di Badia Calavena derivato dal feudo monastico dell’abbazia di Calavena. (1)Bonelli. Monasteri e chiese di Verona pag 150-153 (2)don Schena. La pieve di Illasi pag 159 (3)SNC. perg 91, 94, 101 (4)Cf. Visite abbaziali del 1646 S.NC b. L II, pr. 509 (5)SNC. busta XIX proc. 79 228