Che ne è della Ego Psychology?
GIUSEPPE SABUCCO
Alla fine degli anni ’50 del secolo scorso, psicoanalisti ispirati al pensiero della Ego
Psychology erano alla guida della quasi totalità delle istituzioni psichiatriche (oltre che degli istituti
psicoanalitici) degli Stati Uniti. Un cinquantennio dopo, durante una lettura al Centro Milanese di
Psicoanalisi nello scorso settembre 2011, il dottor Edward R. Shapiro ci ha informato che, con il
suo recente ritiro dalla direzione medica dell’Austen Riggs Center di Stockbridge, Mariland,
nessuno psicoanalista è più alla guida di alcuna istituzione psichiatrica di quel vasto Paese. C’è da
chiedersi come sia potuta avvenire una simile eclissi.
Qualche anno fa’, durante un soggiorno di studio in Nord America, Giovanni Foresti, attuale
Segretario scientifico della Società psicoanalitica italiana, pose un’analoga domanda ad un collega
analista appartenente allo staff di Chestnut Lodge 1: come ha potuto l’intellighenzia psicoanalitica
nordamericana perdere un’influenza così vasta? La risposta fu: they got grandiose, furono troppo
ambiziosi.
Si era trattato, tuttavia, di un’ambizione seducente, che poteva vantare prestigiose e radicate
ragioni. Questo scritto intende raccontare succintamente la storia e il destino di quella ambizione.
Il nuovo mondo
In fuga dalla tragedia del nazismo e della seconda guerra mondiale un gruppo di analisti
europei, per lo più provenienti da Vienna, si rifugiò negli Stati Uniti adattandosi al clima scientifico e
culturale locale. Con poche eccezioni andarono a lavorare e ad insegnare all’Istituto psicoanalitico di New
York. Si trattava dei coniugi Eissler, di Fenichel, Hartmann, Kris, Jacobson, Loewenstein, Mahler, di Annie
Reich, Spitz e Waelder.
Essi portarono con sé, essenzialmente, l’eredità di due fondamentali lavori di Freud: L’Io e
l’Es (1922), che faceva dell’organizzazione tripartita del modello strutturale dell’apparato psichico
(Es, Io e Super-Io) la base per la comprensione e la spiegazione del comportamento umano, e
Inibizione, Sintomo e Angoscia (1925), che faceva dell’angoscia non più solo un fenomeno di
oppressione dell’Io, ma anche, attraverso il concetto di «segnale d’angoscia», una fonte di stimolo
alle funzioni sintetiche ed esecutive dell’Io stesso. Quelle funzioni che consentono all’Io di mediare
tra le tre grandi forze che gravano su di lui, spesso in modo conflittuale e lacerante (le spinte
1
Chestnut Lodge Sanitarium è il nome di una piccola istituzione psichiatrica di Rockville, nel Maryland, uno degli stati
della costa atlantica degli Stati Uniti. Da quando, nel 1935, Frieda Fromm-Reichmann vi fu nominata responsabile
dell’attività psicoterapeutica, fino al tramonto economico alla fine degli anni ’90, questo ospedale privato è stato «uno
dei modelli di integrazione “forte” fra psicoanalisi e psichiatria» (Foresti, 1990). È un triste epilogo che nella notte tra il
6 e il 7 giugno 2009 l’ottocentesca residenza estiva sia andata anche fisicamente distrutta in un incendio.
1
pulsionali dell’inconscio, i veti e le prescrizioni morali della coscienza e le pretese di adattamento
della realtà esterna).
L’edificio concettuale
Una descrizione efficace dell’impresa intellettuale tentata da quel manipolo di psicoanalisti si
trova in una serie di contributi celebrativi per il settantesimo compleanno del capofila riconosciuto
del gruppo, Heinz Hartmann.
Anna Freud (1966) riconosceva che lei ed Hartmann erano entrati insieme nel campo di una
psicologia dell’Io già negli anni trenta, ancora prima dell’ondata migratoria negli Stati Uniti: «Io vi
pervenni in modo più convenzionale, dal lato delle attività difensive dell’Io contro le pulsioni;
Hartmann, in modo più rivoluzionario, dalla nuova angolatura dell’autonomia dell’Io, che fin allora
era rimasta al di fuori degli studi analitici» (Freud A., 1966, 18).
La concezione centrale di Hartmann, espressa in Psicologia dell’Io e problema
dell’adattamento (1939) era quella di una sfera dell’Io libera da conflitti, nella quale primitive
funzioni autonome (per esempio percezione, motilità, linguaggio e pensiero) non traevano origine
dal conflitto tra l’Es ed il mondo esterno, ma si sviluppavano piuttosto separatamente dal conflitto,
su un percorso di maturazione personale che seguiva un’innata tabella di marcia. Queste funzioni
potevano naturalmente essere invase secondariamente dal conflitto, come testimoniavano le paralisi
isteriche, i disturbi del linguaggio e via dicendo. La psicoanalisi, originariamente una psicologia
dell’inconscio focalizzata sulle vicissitudini delle pulsioni istintuali (principalmente la libidica e
l’aggressiva), metteva ora al centro l’Io, accreditandogli un’importanza pari, quale primo formatore
e modulatore del comportamento.
La piena fioritura di questa trasformazione si ebbe in America, e le fu dato il nome di
psicologia dell’Io (Wallerstein, 2002, 136).
Nel suo tributo per il settantennio, Rangell (1965) guardava all’opera di Hartmann come uno
sforzo erculeo per sistematizzare la psicologia dell’Io 2, così da farne il coronamento del sogno di
Freud: che la psicoanalisi, nata dallo studio e dalla cura della malattia nevrotica, cioè dalla
psicopatologia, divenisse una vera psicologia generale, spiegazione esauriente del funzionamento
mentale sia normale che patologico. Freud si era effettivamente incamminato in tal senso con i suoi
studi sui sogni, i motti di spirito, gli atti mancati e le altre manifestazioni psicopatologiche della vita
quotidiana. Quella di Hartmann non era solo un’operazione inferenziale e teoretica, lontana da una
dimensione sperimentale. Rangell sottolinea, infatti, anche l’attenzione e l’interesse dedicati da
Hartmann agli sviluppi contemporanei dell’osservazione diretta dell’infanzia: gli studi longitudinali
dello sviluppo di René Spitz, e quelli di Margaret Mahler, Ernst e Marianne Kris, e di John
Benjamin.
2
Per correttezza occorre dire che lo sforzo di organizzare in modo sistematico i concetti e i principi della Psicologia
dell’Io è stato condiviso con David Rapaport. Anche Rapaport, nella sua monografia del 1960 sulla Struttura della
teoria psicoanalitica, pensa ad una psicologia generale, evolutivamente dedotta, ancorata al biologico, capace di
spiegare l’intero comportamento umano, da quello certamente normale a quello più vistosamente patologico. La
convinzione è così ferma che Rapaport riconosce una sola lacuna nel costrutto: «Se dovessimo scegliere un chiaro
limite alla rivendicazione di completezza di questa teoria, allora dovremmo scegliere la sua mancanza di una specifica
teoria dell’apprendimento» (Rapaport, 1960, 34; Wallerstein, citato, 139).
2
La rassegna di Roy Schafer (1970) riguardo ai contributi di Hartmann alla psicoanalisi
metteva piuttosto l’accento sui suoi sforzi per inserire la psicoanalisi nella cornice della scienza
naturale. A Schafer ciò sembrava il compimento di un altro aspetto dell’originale visione di Freud:
la psicoanalisi quale spiegazione e descrizione, attraverso gli apparati e le funzioni dell’Io,
dell’adattamento biologico evolutivo dell’Uomo come animale sociale prospero in un ambiente
esterno indifferente e difficile (Wallerstein, cit., 138-139). «Heinz Hartmann fu il genio guida della
teoria freudiana moderna. Egli tentò di sviluppare al punto più eccelso possibile il modello
scientifico naturale della mente proprio di Freud. Con rara coerenza egli formulò i suoi contributi
metapsicologici dallo specifico punto di forza dell’adattamento biologico» (Schafer, 1970, 445).
Implicazioni cliniche
Toccò a Kurt Eissler dare espressione alle conseguenze sul lavoro clinico della struttura di
quell’edificio concettuale. Il suo famoso lavoro sui «parametri» (1953, 110) servì per almeno due
decenni come punto di riferimento rispetto al quale la tecnica analitica degli allievi della psicologia
dell’Io americana sarebbe stata valutata. Vale la pena richiamarne il modello austero: «Il o la
paziente in analisi mostrava, attraverso le libere associazioni, ed in modo sempre più regressivo,
l’intera parata dei suoi transfert, l’iscrizione delle relazioni d’oggetto (o delle interazioni con
oggetti-Sé) rilevanti nel suo passato infantile sull’analista, neutrale e oggettivo. Questi, da una
posizione esterna al dispiegamento dei transfert poteva, attraverso interpretazioni appropriate,
portare alla luce ed alla discussione comune le rappresentazioni intrise di transfert e perciò distorte
dell’analista. Ogni scostamento dall’interpretazione adeguatamente dosata e tempestiva, considerata
come la sola vera strada verso l’insight e il cambiamento finale, era etichettata come un
“parametro”, una deviazione dalla tecnica, necessaria forse in relazione alle esigenze cliniche di
pazienti con un Io meno che “normale”, ma che doveva essere risolta (cioè totalmente dissolta) per
via interpretativa all’interno della situazione analitica, nell’interesse della completezza dell’analisi»
(Wallerstein, 2002, 140-141).
È in genere a questa impostazione, centrata sostanzialmente sulla psiche del solo paziente, che
ci si riferisce quando si parla di one-person psychology (Gill & Hoffman, 1982; Ghent, 1989; Gill,
1991) 3. In America, questa visione si affermava nell’ambito di una comunità largamente dominata
da immigrati, prevalentemente tedeschi. Chodorow (2004, 215) ricorda una propria indagine dei
primi anni ’80, nella quale aveva intervistato psicoanaliste di seconda e terza generazione, una delle
quali aveva raccontato come i colleghi americani avessero coniato il termine bei-unsers per riferirsi,
nelle conversazioni private, agli analisti emigrati, poiché questi erano soliti ripetere «bei uns 4 era
così; bei uns facevamo cosà». Nonostante la tendenza americana – alcuni personaggi dei romanzi di
Henry James sono eloquenti – a credere che tutto ciò che è europeo debba essere migliore, sarebbe
tuttavia erroneo pensare che la prospettiva one-person sia stata l’intrusione di un pensiero
d’importazione. Sempre Chodorow (citato, 217) fa notare che la one-person psychology, con la sua
metapsicologia centrata sulla vita ed il conflitto intrapsichici e la propensione a pensare che la
3
Anche se Ghent (cit., 172) fa osservare che la questione della psicologia one-person o two-person era già stata
discussa in vario modo da Balint (1950), Rickman (1957), Modell (1984) e altri.
4
«Da noi», in tedesco.
3
psiche nasca principalmente dal di dentro piuttosto che all’interno di relazioni, andava a nozze con
l’individualismo americano, ed una prospettiva nella quale la realtà esisteva solo in quanto creata
dall’Io era individualismo puro.
Parametri e psicoterapie
Paradossalmente, il rigore eissleriano finì per fornire una distinta identità anche alle varianti
che nascevano dall’applicazione dei «parametri». La psicoanalisi si smarcava sia rispetto alla così
detta psicoterapia «espressiva», che mantiene lo scopo di rivelare e risolvere il conflitto
intrapsichico (sia pure in un ambito più circoscritto e concentrato rispetto all’esplorazione senza
vincoli che caratterizza la psicoanalisi), sia rispetto alla psicoterapia «supportiva», che attraverso
tecniche diverse mira a rinforzare la capacità dell’Io malato di affrontare, e spesso anche solo di
nascondere, il conflitto interiore (Wallerstein, 1995). Con questa demarcazione, tuttavia, la
psicoanalisi definiva in qualche modo anche l’ambito e la specificità delle sue pratiche «ancelle»,
ed in tal senso si può affermare che le psicoterapie psicoanalitiche siano nate sostanzialmente negli
Stati Uniti, come un adattamento della psicoanalisi europea «adeguato alle condizioni americane»
(Wallerstein, 2002, 142).
L’establishment psicoanalitico nordamericano non dismise queste pratiche derivate.
Ricordava quanto l’ostilità dell’ambiente medico e psichiatrico, accademico e non, avesse influito
nel tenere la psicoanalisi in Europa ai margini della pratica sanitaria accreditata, e si rendeva conto
di quanto le psicoterapie potessero tornare utili per far conoscere, nella clinica e nell’insegnamento
psichiatrico, i principi della psicoanalisi.
Una lettera che un medico americano scrisse durante un soggiorno di studio in Europa dà un
esempio efficace dell’ostilità verso la psicoanalisi della Psichiatria ufficiale al di qua dell’Atlantico.
L’annuale congresso degli psichiatri tedeschi, che nel 1913 si tenne a Breslavia (l’attuale Wroclaw,
in Polonia, capitale storica della Slesia), ebbe come tema d’apertura dichiarato il valore da attribuire
alla psicoanalisi, ed Eugen Bleuler, vicino al pensiero psicoanalitico, fu chiamato a tenere la
relazione d’apertura. Tuttavia, il dottor Sweasey Powers – l’autore della lettera – riferisce che
Kræpelin in persona gli spiegò che lo scopo del congresso «non era di intavolare la discussione. Lo
scopo era di dare a Bleuler l’opportunità di recedere pubblicamente dalla scuola freudiana, poiché si
pensava che il suo nome avesse avuto una grande influenza nel mantenere in vita le teorie di Freud»
(Falzeder e Burnham, 2007, 1238). Sweasey Powers annota infatti che, lungi dal discutere
seriamente il tema, il controrelatore di Bleuler, Alfred Erich Hoche, «Dedicò la maggior parte del
suo tempo a distorcere le espressioni usate nello spiegare le teorie sessuali così che provocassero il
riso, e fece ridere i membri del congresso in continuazione» (ibid.).
Memori del passato, gli analisti americani furono perciò determinati nell’impadronirsi dei
dipartimenti psichiatrici delle scuole di Medicina o delle cliniche universitarie. «La loro meta non
era nient’altro che di imporre le concezioni psicoanalitiche quale psicologia predominante e
principale terapeutica nel trattare tutta la gamma delle malattie e dei disturbi mentali» (Wallerstein,
2002, ibid.) 5.
5
Lo sforzo d’essere pienamente accettati nell’establishment medico ha probabilmente giocato un ruolo decisivo nella
fiera opposizione della psicoanalisi nordamericana al training di analisti non medici, opposizione superata solo per
4
Tuttavia, pur utilizzando le psicoterapie psicoanalitiche come strumento di penetrazione nella
pratica clinica e nell’insegnamento, l’establishment psicoanalitico era infastidito dall’evolvere di un
pensiero autonomo dal campo delle psicoterapie.
Si ha un preciso e precoce sentore di tale ostilità in un’altra corrispondenza a tre voci, a
cavallo dell’Atlantico, che coinvolse August Aichhorn, a Vienna, il suo ex analista Paul Kramer,
emigrato a Chicago, e Kurt Eissler stesso. Il 19 settembre 1946 Aichorn scrive: «È con sicuro
rammarico che la tua lettera giunge a confermare ciò che avevo già da oggi appreso da quella di
Kurt [Eissler], cioè che la psicoanalisi in America comincia ad allontanarsi da Freud. Trovo che
tutta questa evoluzione assomigli alle lotte dei figli che crescono ed entrano nella pubertà e non se
la cavano bene col padre, e, se mi permetti di fare un’osservazione critica, direi che non può esserci
all’origine di quell’evoluzione che l’essere mal analizzati. La missione di cui mi sento investito qui
acquista così un nuovo tenore, quello di mantenere, nella città dove la psicoanalisi ha visto la luce,
lo spirito nel quale Freud l’aveva creata. Ciò non significa che per noi i dodici tomi di Freud
rimpiazzeranno la bibbia e che abbandoneremo ogni nostro lavoro di ricerca, significa tuttavia che
ci sono stati chiaramente fissati grandi orientamenti ed un obiettivo. Forse verrà allora un’epoca,
[…] in cui persino dall’America degli ‘psicoterapeuti’ verranno fino a Vienna, per apprendervi ciò
che Freud ha veramente insegnato» (Aichhorn T., 2008, 125, corsivo mio).
Sul versante dell’aggiornamento e dell’insegnamento, la diffidenza dell’establishment
psicoanalitico si manifestava in un atteggiamento più o meno apertamente censorio. Nel 1941 la
New York Psychoanalytic Society, sotto la presidenza dell'ortodosso Lawrence Kubie, aveva
interdetto a Karen Horney gran parte dell'insegnamento, costringendola praticamente a lasciare
l’istituto (Quinn, 1987; Chodorow, 2004, 214). Poche erano, inoltre, le riviste di cui si consigliava
la lettura agli allievi, perché considerate affidabili: Psychoanalytic Quarterly, Psychoanalytic Study
of the Child, Journal of the American Psychoanalytic Association. Già l’International Journal, che
conteneva articoli importanti da leggere, era considerato un campo minato disseminato di articoli
kleiniani, «da evitare meticolosamente», e cosparso di lavori ispirati alla relazione d’oggetto del
Middle Group inglese (più tardi Gruppo Indipendente), ugualmente sconsigliati salvo poche
eccezioni quali L’odio nel controtransfert e Oggetti transizionali e fenomeni transizionali di
Winnicott (Wallerstein, 2002, 144). In particolare, i punti di vista kleiniani, allora in rapido
sviluppo in Inghilterra e America Latina, erano perentoriamente banditi. Lapidaria, in proposito, è
una nota a piè di pagina di Rapaport in una sua personale rassegna della ego psychology: «La
“teoria” delle relazioni oggettuali sviluppata da Melanie Klein e dai suoi seguaci non è una
psicologia dell’Io ma una mitologia dell’Es» (Rapaport, 1959, 11).
Sempre Wallerstein (2002, ibidem) ricorda che, nei quattro anni del programma di studi degli
allievi psicoanalisti, non più di una decina di lezioni complessivamente erano dedicate agli autori
estranei alla ego psychology, che perciò accatastavano Jung, Adler, Rank, i kleiniani, gli
interpersonalisti e culturalisti americani come Sullivan, «e chiunque altro l’insegnante desiderasse
farci entrare».
comporre una famosa causa civile intentata dalle organizzazioni di psicologi mezzo secolo più tardi (Wallerstein, 1998;
2002, 142)
5
Crepe nell’edificio
Per la verità, la psichiatria interpersonale di ascendenza sullivaniana (Sullivan, 1940), che
aveva qualche affinità con le concezioni inglesi sulla relazione d’oggetto, non era mai
completamente scomparsa, tenuta in vita nell’area di Washington al Chestnut Lodge Sanitarium ed
allo Sheppard and Enoch Pratt Hospital, e addirittura fiorente al William Alanson White Institute di
New York per i contributi di Edgar Levenson e dei suoi colleghi. Tuttavia, fu solo all’inizio degli
anni ’70 che il monolite concettuale della ego psychology cominciò a mostrare i primi segni
intrinseci di usura. Essi comparvero nella cerchia dei collaboratori più stretti di Rapaport, in
particolare Roy Schafer e Merton Gill.
Nella sua già citata rassegna, scritta a cinque anni dall’incondizionato omaggio di Rangell,
Schafer (1970), dopo avere pagato tributo al coraggio ed alla coerenza della visione di Hartmann,
introduce l’osservazione che quello dell’adattamento evolutivo ed evoluzionistico di un Io
autonomo non è l’unico vertice possibile dalla prospettiva del quale costruire una teorizzazione
psicoanalitica. «In verità lo stesso modello della scienza naturale è un’opzione teoretica: piuttosto
che derivare da “i dati”, esso è un a priori che determina la definizione, la selezione e la
sistemazione dei dati. Altri modelli a priori, quali lo storico e l’esistenziale, benché la loro
adeguatezza di fronte all’intera gamma di fenomeni definiti nella psicoanalisi di Freud non sia stata
ancora determinata, sono disponibili quali opzioni per l’investigatore psicoanalitico e devono
ancora essere elaborati e valutati per un confronto» (Schafer, 1970, 445, corsivi dell’autore).
Il vincolo che la ego psychology condivide con Hartmann, a concettualizzare secondo
l’approccio della scienza naturale, è il cuore del problema secondo Schafer. «Tale approccio
esclude il significato dal centro della teoria psicoanalitica. Esso si occupa del significato solo
cambiandolo in qualcos’altro (funzioni, energie, “principi”, eccetera). Ma significato (ed
intenzione) sono la stessa cosa che “realtà psichica” – ciò che è al centro del lavoro clinico
psicoanalitico» (ibid., corsivo mio). In questo modo, per aderire al modello della scienza naturale, la
ego psychology crea uno scarto fondamentale tra il modo (scientifico-naturale) in cui si teorizza ed
il perno (il significato clinico) attorno al quale ruota l’indagine psicoanalitica. Una conseguenza
importante è che porre l’accento – come fa Hartmann – sulle funzioni e le varietà dell’energia
psichica, invece che sui significati personali, storici ed esistenziali di ciò che si sta analizzando, può
facilmente condurre a posizioni di sapore comportamentista, più o meno vagamente normative,
invece che ad un ascolto autenticamente psicoanalitico. Forse il campo in cui ciò si è potuto
osservare più chiaramente e drammaticamente è stato quello che Mitchell (1981) ha definito
«l’approccio direttivo-suggestivo» nelle terapie dell’omosessualità.
Curiosamente, un’espressione che riassume con efficacia il problema appartiene allo stesso
Hartmann: «ciò che appare “patologico” in una sezione trasversale dello sviluppo può, visto nella
sua dimensione longitudinale, rappresentare la miglior soluzione possibile di un determinato
conflitto infantile» (in Kris et al., 1954, 33-34). La valutazione longitudinale di una vicenda umana
può smentire quella strutturale, patologica, di cui può essere gravato il suo protagonista. Purtroppo,
Hartmann limita la portata della sua affermazione allo sviluppo infantile, alle «reazioni nevrotiche
adeguate alla fase» (ibid.) che sono la miglior soluzione possibile del momento, ma che
6
successivamente devono dissolversi perché ci sia normalità. Verrebbe da commentare: come un
parametro.
Schafer conclude il suo discorso sottolineando gli sforzi di Hartmann, tesi a dare maggior
ordine, sottigliezza e completezza alla teoria psicoanalitica, la loro aspirazione all’organizzazione,
l’equilibrio e l’armonia, ma li bilancia con il monito a «restare consapevoli che quella di Hartmann
non è la teoria generale della psicoanalisi; essa è, come deve essere la teoria di chiunque (compresa
quella di Freud), una teoria generale della psicoanalisi», in modo che rimanga «possibile
considerare approcci concettuali alternativi, altri a priori con le loro conseguenze, e farlo senza
dover ignorare metodi e conoscenze cliniche basilari della psicoanalisi freudiana» (Schafer, 1970,
445, corsivi dell’autore).
Più drammatica – anche personalmente – è la svolta di Merton Gill, che volge le spalle ad un
quarto di secolo di partecipazione attiva nelle file della ego psychology con il suo Metapsychology
Is Not Psychology (1976). In una comunicazione personale, Gill arriverà a dire a Wallerstein (2002,
146) che avrebbe desiderato di non avere scritto alcuno dei lavori precedenti, dei quali disconosceva
ogni singola parola.
Gill è consapevole dell’obiezione che ogni sistema di pensiero deve avere un principio
organizzatore «meta», e che in qualche modo una meta-teoria è inevitabile, più che necessaria. Il
suo rigetto riguarda proprio la metapsicologia in corso legale. Per esprimere in estrema sintesi la
sua obiezione, Gill (1983, 525) indica di avere dato un significato fondamentale ad un’osservazione
che lo stesso Freud avanza in Pulsioni e loro destini: «… gli atteggiamenti di amore e di odio non
sono utilizzabili per i rapporti delle pulsioni con i rispettivi oggetti, ma vanno riservati alla relazione
che l’Io nella sua totalità ha con gli oggetti» (Freud S., 1915, 32). Si relazionano le persone, non le
loro pulsioni. Come Schafer, di fronte al quesito (prima di tutto clinico) se il punto di vista più
appropriato per la psicoanalisi sia quello che centra l’attenzione sul fattore energetico-economico
(necessario, se si vuole preservare il modello della scienza naturale) o quello che si rivolge alla
persona, Gill opta con semplicità per il secondo: «La mia posizione è che il punto di vista unificante
basilare della psicoanalisi dovrebbero essere le relazioni tra le persone, non la scarica di energia 6.
Mi permetto di ripetere quest’asserzione banale – e [che] è un luogo comune» (Gill, 1983, ibid.).
Gill nega che la distinzione che ha in mente sia tra relazioni interpersonali e pulsioni, o, a maggior
ragione, tra non corporeo e corporeo, e specifica: «Ritengo che le relazioni interpersonali possano
essere tanto corporee che non corporee. L’opposizione è piuttosto tra relazioni corporee che sono
significative in termini interpersonali e relazioni corporee che sono concettualizzate come scarica
d’energia. Se la pulsione è concepita come una spinta biologica innata invece che più ristrettamente
come una scarica energetica, non c’è ragione che non si possa postulare una pulsione innata verso
relazioni interpersonali – che siano corporee o no. Questo è proprio il postulato per il quale siamo
debitori a John Bowlby (1960) e prima di lui a I. Hermann (1936), e [agli] Harlows (1965). Questo
postulato è in contrasto con la concezione freudiana del legame interpersonale come secondario alla
gratificazione della pulsione somatica – ciò che Bowlby chiama teoria dell’amore interessato» (Gill,
cit., 526).
6
Forse è opportuno ricordare che «Il concetto freudiano di energia psichica non è destinato a spiegare fenomeni come la
stanchezza mentale, le differenze di vitalità, eccetera, ma a delucidare i problemi di spostamento dell’attenzione,
dell’interesse e dell’attaccamento da un soggetto all’altro e da un’attività all’altra» (Rycroft, 1981, 48, corsivo
dell’autore).
7
Gill mette anche in guardia dai fraintendimenti che potrebbero sorgere affrontando la
dicotomia come se riguardasse la sessualità: «per alcuni [sessualità] significa relazioni corporee
interpersonali mentre per altri indica scarica energetica. È davvero facile scivolare da un significato
all’altro. È per questa ragione che il rifiuto del punto di vista energetico è così spesso frainteso
come un rifiuto della centralità della sessualità nella psicologia umana» (cit., 526-527). La twoperson psychology non ha bisogno di, né implica, un simile rifiuto.
«La frammentazione del consenso»
Il segnale della fine dell’egemonia della ego psicology, tuttavia, fu dato soprattutto dal rapido
diffondersi del pensiero di Heinz Kohut, non solo nel suo istituto di psicoanalisi – quello di Chicago
–, ma in altri istituti psicoanalitici quali quelli di Cincinnati, St. Louis, Los Angeles, Washington e
Boston. La psicologia del Sé rappresentava un paradigma psicoanalitico diverso, «edificato non sul
conflitto e la sua risoluzione, ma sul deficit e la sua riparazione – non sull’Uomo Colpevole,
epitome del dramma edipico, ma sull’Uomo Tragico, portatore di un Sé non integrato, soggetto
sottoposto alla morsa di pressioni disorganizzanti e frammentanti» (Wallerstein, 2002, 146). Per la
prima volta l’egemonia della ego psychology in Nord America si confrontava con un pensiero
alternativo, di scala pari per sistematicità e potenziale diffusione.
Le tappe di quella che Wallerstein (1995) ha poi chiamato «la frammentazione del consenso»
sono state sostanzialmente scandite da fenomeni editoriali, e dall’emergere di figure di autori
rappresentativi del pluralismo di elaborazioni cui il pensiero psicoanalitico è andato incontro con la
fine del monopolio della ego psychology.
Nel 1981, sotto la direzione di Joseph Lichtenberg, viene fondata la Psychoanalytic Inquiry,
vicina alle prospettive della psicologia del Sé e come questa sensibile e disponibile ad intrecci con il
composito movimento della relazione d’oggetto. Nel 1983 Greenberg e Mitchell pubblicano Object
Relations in Psychoanalytic Theory, uno dei testi di maggior impatto sul pensiero psicoanalitico
nordamericano. Nel 1991, con la direzione di Mitchell, viene varata Psychoanalytic Dialogues, il
giornale delle «prospettive relazionali», come recita il sottotitolo della rivista.
La quota maggiore della fioritura pluralista è stata rappresentata dalle diverse prospettive
relazionali, ciascuna con le sue particolarità, che si sono sviluppate sotto molte etichette: l’interpersonale,
l’interattiva, l’intersoggettiva, la socio-costruttivista eccetera. Con tali qualificazioni sono emersi autori
importanti, dei quali citerò solo quelli che conosco per fama, compiendo perciò rilevanti, inevitabili
omissioni: Neil Altman (Psychoanalytic Dialogues), Lewis Aron, Adrienne Harris, Irwin Hoffman
(«costruttivismo dialettico»), Donna Orange, Charles Spezzano, Donnel Stern (Contemporary
Psychoanalysis) e Robert Stolorow (che rappresenta con i suoi collaboratori un’area di contatto tra la
psicologia del Sé e i diversi rami della psicoanalisi relazionale). Una prospettiva più attenta ai temi del
femminismo è quella di Jessica Benjamin, mentre Thomas Ogden, che merita un posto a sé, è più vicino
all’influenza del pensiero britannico di Bion e Winnicott.
Abbandonerò tuttavia il rigoglio delle prospettive primitivamente two-person per tornare a concentrare
l’attenzione sulle vicende della psicologia dell’Io.
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Breve storia di una Psicologia Intersoggettiva dell’Io
Pensando ad una psicologia dell’Io «relazionale», Wallerstein (2002, 153) indica tra i primi
autori che meritano un discorso esteso 7 Leo Stone e John Gedo.
Stone (1961) aveva fatto a suo tempo notare che «l’ideale schematico della deprivazione
cognitiva ed emozionale» (Stone, 1967, 5), proprio del modello di Eissler, trovava obiezioni in
Freud stesso, in alcuni caveat clinico-teorici esposti, senza peraltro approfondirli, nel Compendio di
psicoanalisi. Due in particolare collimano con le attitudini cliniche promosse da Stone.
Scrive Freud: «È un po’ come in una guerra civile, che deve essere decisa con l’aiuto di un
alleato che viene dal di fuori. Il medico analitico e l’Io indebolito del paziente, tenendosi ancorati al
mondo esterno, devono formare un partito comune contro i nemici, le pretese pulsionali dell’Es e le
pretese di coscienza del Super-Io. Concludiamo insieme un patto. L’Io del malato ci promette la più
completa sincerità […], noi gli assicuriamo la più rigorosa discrezione e mettiamo al suo servizio la
nostra esperienza nell’interpretazione del materiale influenzato dall’inconscio» (Freud, 1938, 600).
In un secondo passaggio, poche pagine più avanti, Freud osserva: «Pur prodigandosi in ogni
modo per migliorare ed educare il paziente, l’analista dovrebbe invece rispettarne il carattere
peculiare. La misura dell’influsso di cui può legittimamente avvalersi sarà determinata dal grado di
inibizione evolutiva riscontrata nel paziente. Alcuni nevrotici sono rimasti talmente infantili che
anche nell’analisi non si può fare a meno di trattarli come se fossero dei bambini» (cit., 602,
corsivo mio).
Da una parte, l’evocazione de «l’aiuto di un alleato che viene dal di fuori» e della necessità di
«formare un partito comune contro i nemici» fa un po’ a pugni con l’idea di una neutralità
imperturbabile, e sostanzia l’attitudine ad esprimere chiaramente l’impegno terapeutico – attitudine
che Stone propugna e che definisce physicianly, propria di un medico. Si tratta di un’assunzione
esplicita di responsabilità per i sentimenti ed il benessere psichico del paziente, inserita nello sfondo
naturale di cortesia che ci si attenderebbe da ogni altro discorso che sia insieme civile e
professionale (Wallerstein, 2002, 153) 8. Con ciò, tuttavia, Stone non intende disconoscere affatto
l’indispensabilità di un principio generale d’astinenza, e di una salda struttura della tecnica
analitica.
Dall’altra parte, il richiamato rispetto per «il carattere peculiare» e per il «grado di inibizione
evolutiva» dei pazienti autorizzano il concetto di legitimate gratifications, le concessioni che,
secondo Stone, sono giustificate dalle peculiari condizioni dei diversi pazienti. Per dirla in maniera
semplice, mentre per Eissler possono rendersi necessarie nel corso del trattamento concessioni
transitorie al paziente che esulano dai rigorosi confini della tecnica analitica (i «parametri»), Stone
7
Le radici del versante intersoggettivo della ego psychology (Wallerstein, 2002, 152) sarebbero da ricercare
nell’importanza attribuita alla collaborazione attiva del paziente implicata da concetti quali la «alleanza terapeutica» di
Zetzel (1956; Lingiardi, 2002, 40-43) o la «alleanza di lavoro» di Greenson (1965; Lingiardi, cit., 45-48).
8
Tale concezione di Stone mi ha fatto pensare che, a proposito di neutralità, possa essersi creato un equivoco tra Freud
ed i suoi seguaci. Lo sfondo di neutralità che Freud ci raccomanda tanto potrebbe non prescrivere alterazioni in senso
inibitorio della postura, della parola e della mimica fino al punto di renderle innaturali, ma piuttosto lo sfondo neutro,
perché diffuso ed abituale, di un comportamento mediamente ben educato e cortese. Ciò potrebbe rendere ragione
dell’apparente paradosso per cui Freud, con i suoi pazienti, era particolarmente poco «freudiano» (Nissim Momigliano
L., 1987).
9
sembra pensare che ogni paziente possa avere bisogno, per la sua peculiarità individuale, di qualche
concessione specifica, adeguata al trattamento – una sorta di parametro strutturale.
Gedo (1979) affronta lo stesso problema da un vertice più congetturale. Utilizzando le
concezioni evolutive di Freud e di Kohut, egli fa notare che i pazienti si potrebbero dividere in
quattro livelli (a parte quelli considerati psicologicamente «sani»): quelli fermi ad un narcisismo
primario e funzionanti sul modello dell’arco riflesso; quelli più differenziati, ma che richiedono
ancora la presenza di un oggetto-Sé; quelli del secondo stadio dell’oggetto-Sé, con la sua angoscia
di castrazione e la conseguente centralità del narcisismo fallico; infine i nevrotici, descritti dal
modello strutturale tripartito, condizione cui sarebbero giunti in seguito alla formazione del SuperIo come classicamente inteso.
Lo schema interpretativo di Gedo è un buon esempio di come la neutralità, così essenziale
all’edificio concettuale della ego psychology, possa avere senso solo con i pazienti nevrotici del
quarto livello. Con gli altri pazienti (sofferenti di psicosi, disorganizzazione traumatica o disturbo
narcisistico della personalità), la centralità assoluta della diade neutralità-interpretazione appare
assai meno convincente.
Dall’interno del movimento, Stone e Gedo mettono a fuoco i problemi sollevati, in particolare
in relazione alla tecnica clinica, dal rigore delle opzioni di principio postulate dalla psicologia
dell’Io, cui pure soggettivamente appartengono senza riserve.
Invece Erikson e Loewald, secondo Chodorow (2004), avrebbero costituito una vera e propria
tradizione americana indipendente – analoga in tal senso al Middle Group o Gruppo indipendente
inglese –, nutrita tanto dalla ego psychology, quanto dalla lezione interpersonale sullivaniana. La
stessa autrice (citato, 216) testimonia tuttavia che anche Erikson e Loewald si sarebbero collocati
sicuramente dentro la tradizione della ego psychology, saldamente legati al suo pensiero ed alla sua
tecnica, pur teorizzando, senza arrivare ad identificarli come interpersonali o relazionali,
l’importanza pervasiva delle relazioni d’oggetto o dei fenomeni di interazione inerenti al processo
analitico.
Loewald pensa che all’inizio non ci siano Io e realtà, Io ed oggetto, dentro e fuori. A
differenza di Melanie Klein e di Fairbairn, che credono che un Io differenziato esista già alla
nascita, e di Freud, per il quale «realtà» è sempre la realtà esterna che dall’Io pretende adattamento,
Loewald propone che Io e realtà vengano «creati» nello stesso momento, a partire da una matrice
indifferenziata. L’autore naturalmente non si riferisce al problema filosofico di Berkeley 9,
l’esistenza o meno di una realtà materiale al di là della nostra percezione, ma cerca una
formulazione convincente circa il modo in cui il nostro mondo viene «costituito psicologicamente»
(Loewald, 1980, 11).
L’iniziale partizione tra Io e realtà mette in moto un processo di continua e mutevole
ricostituzione di rapporti tra mondo interno e realtà esterna, che durerà tutta la vita. È questo
processo, per Loewald, a definire benessere psichico e malattia. In quest’ultima, Io, oggetto e realtà
regrediscono e si disintegrano insieme, nella stessa misura in cui recede la loro differenziazione. In
uno stato di salute «le persone cambiano considerevolmente, di giorno in giorno, in differenti
periodi della loro vita, tra differenti stati d’animo e situazioni, da un dato livello ad altri livelli. In
9
Filosofo irlandese (1685-1753), teorico dell’immaterialismo.
10
effetti, parrebbe che più le persone sono vive (benché non necessariamente più stabili), più è ampia
l’estensione dei loro livelli di Io-realtà» (Loewald, 1980, 20; Chodorow, 2004, 217).
Con la concezione di un’originaria matrice indifferenziata, a partire dalla quale si genera
l’iniziale partizione di soggetto e oggetto, Loewald recupera l’ambiente – componente dell’impasto
originario e culla dell’intero processo – nel cuore della psicologia dell’Io. La sua idea della cura
psicoanalitica istituisce un’analogia esplicita con le interazioni precoci tra madre e bambino, che
devono essere sperimentate di nuovo e nel modo migliore possibile nel presente terapeutico, alla
ricerca di soluzioni meno patogene e più adattive. A buon diritto Pier Luigi Rossi (2001, 353), nella
sua recensione all’edizione italiana dell’opera di Loewald, indica il legame, implicito, con il
pensiero di Balint.
Pur mantenendo nei suoi scritti il linguaggio della psicologia dell’Io classica, Loewald si
muove dunque decisamente in direzione della two-person psychology. La collezione dei suoi lavori
(Loewald, 1980), che copre tre decenni di riflessione, sarebbe stato uno degli impulsi principali per
il graduale muoversi di molti analisti dotati, cresciuti dentro la tradizione della psicologia dell’Io,
verso un sodalizio intellettuale con gli eredi di Sullivan e Horney (Wallerstein, 2002, 154). Sia
Chodorow che Wallerstein richiamano, all’interno di questo movimento, le figure di James
McLaughlin, Dale Boesky, Warren Poland, Judith Chused, Theodore Jacobs ed Owen Renik.
Merton Gill (nella sua collaborazione con Irwin Hoffman) rappresenterebbe piuttosto un esempio di
completo cambio di campo dalla ego psychology alla psicoanalisi relazionale.
Come Loewald, che fece il suo training psicoanalitico presso l’istituto di BaltimoraWashington, un centro sullivaniano, anche Erikson fu attento agli sviluppi delle scuole
interpersonale e culturale, fiorite insieme alle rispettive antropologie negli anni ’30 e ’40. Erikson
collaborò con antropologi anche sul campo durante gli anni ’30, e mantenne sempre interesse e
dedizione agli studi di natura culturale ed antropologica. Pur essendo stato, molto probabilmente, lo
psicoanalista americano più influente del ventesimo secolo agli occhi dell’opinione pubblica ed
intellettuale, per via di questi suoi interessi non sarebbe stato riconosciuto quasi affatto come uno
psicoanalista (Chodorow, 2004, 221-222). Anna Freud riteneva che le teorie e la pratica di Erikson
(al pari di quelle di Bowlby) s’allontanassero troppo dal campo della classica ego psychology,
poiché la sua concezione dello sviluppo relativizzava l’importanza della psicosessualità infantile a
favore dei fattori psico-sociali e delle vicende dell’intero ciclo vitale. In generale, era diventato un
po’ troppo un intellettuale ed un divulgatore pubblico per i gusti dell’ortodossia psicoanalitica degli
anni ’50 (ibid.).
Anche il pensiero di Erikson attribuisce un valore fondamentale alla matrice relazionale
madre-bambino, in particolare nell’instaurarsi del primo stadio dello sviluppo, quello in cui si
costituisce la «fiducia di base». Un elemento di natura interpersonale compare anche nella
definizione di identità, che per Erikson è più di una somma di identificazioni, bensì uno stato
dinamico e funzionale di equilibrio, che tuttavia richiede la conferma di un altro. È anche vero che
Erikson si spinge lontano, proponendo per primo che la psicoanalisi si occupi, come elemento
centrale della vita psichica ed alla pari con le questioni legate alla sessualità, delle questioni
connesse all’appartenenza etnica. Erikson era appassionato al tema dell’identità, in particolare alle
questioni, assai sensibili in nord America, dell’identità razziale e culturale, ma anche delle identità
disturbate, emarginate e di quelle frammentate, che richiedono in qualche modo di essere
ricomposte in un insieme psicologicamente funzionante.
11
Il contributo di Erikson è teso alla comprensione di come «storia e cultura assumano una
concretezza decisiva nello sviluppo individuale» (1959, 18), e come «si rendano evidenti in
transfert e resistenze specifici» (citato, 29). Più di chiunque altro egli guarda «con attenzione
ugualmente fluttuante a psiche, cultura e società, ed alle loro reciproche interazioni» (Chodorow,
2004, 222). Tuttavia, queste inclinazioni fanno di lui un ibrido, poiché non ne riconosce
esplicitamente la natura relazionale, ed anzi, durante «la guerra fredda psicoanalitica» – come
Chodorow definisce il periodo del predominio della psicologia dell’Io più ortodossa –, egli non
esita ad identificarsi come un ego psychologist a pieno titolo, con il rilevante avallo di Rapaport
(1959).
Alcune caratteristiche peculiari dell’intersoggettivismo nella psicologia dell’Io
L’arruolamento volontario di Loewald ed Erikson nella ego psychology non era dovuto – o
non era dovuto soltanto – all’inevitabilità, più che alla necessità, di prendere partito in un periodo di
aperti conflitti tra le istituzioni della psicoanalisi nordamericana, e tra questa e gran parte del resto
del mondo analitico. Il segno più convincente di quell’appartenenza sta nel fatto che la loro visione
bi-personale dell’incontro analitico eredita una caratteristica distintiva della psicologia dell’Io
originaria: se oggetto dell’indagine analitica è la psicologia individuale, con l’ingresso della persona
dell’analista nel campo d’indagine ciò che si andrà ad esaminare sarà l’incontro di due psicologie
individuali. Gli elementi che avranno peso e che daranno forma al gioco della diade analitica
proverranno principalmente dall’inconscio e dal passato di ciascun partecipante.
Ciò non riguarda solo Loewald ed Erikson, ma la maggior parte di coloro che aderiranno alla
nuova prospettiva (con la significativa eccezione di Ogden, tra i contemporanei). A differenza dei
relazionalisti, l’essere analisti two-person per gli psicologi intersoggettivi dell’Io non va molto al di
là del concepire ogni incontro analitico come la somma di due parti, senza molta propensione verso
elaborazioni quali lo spazio potenziale, il terzo analitico (che è appunto l’elaborazione di Ogden) e
la co-creazione (Chodorow, 2004, 216). Viene spontaneo il gioco di parole: una two one-person
psychology.
Queste considerazioni riguardano anche il modo in cui la nuova prospettiva relazionale della
ego psychology concepisce le dinamiche di transfert e controtransfert. Inizialmente, l’enfasi sulla
sola individualità del paziente aveva fatto sì che gli psicologi dell’Io fossero tra i critici maggiori di
una concezione anche solo parzialmente positiva del controtransfert. Seguendo Freud, era per loro
più naturale concepirlo come un marchio di patologia o d’insufficiente analisi a carico dell’analista,
piuttosto che valorizzarlo come avevano fatto per primi gli interpersonalisti americani ed alcuni
kleiniani (a partire da Paula Heimann). Al pari della persona dell’analista, la psicologia
intersoggettiva dell’Io considera anche la relazione tra questi ed il paziente alla luce della sua
specifica soggettività: «Anche quando si pensa che il controtransfert dell’analista o, più in generale,
i sentimenti dell’analista siano suscitati da ciò che il paziente dice o fa o da ciò che sta succedendo
tra paziente e analista, essi vengono descritti come espressione e derivazione delle emozioni, della
storia e della personalità dell’analista stesso, piuttosto che il risultato prevalente di una
identificazione proiettiva» (Chodorow, 2004, 218-219).
Una tale concezione del controtransfert – che sgorghi più dal di dentro dell’analista che dal
paziente o da una loro co-creazione – dà risalto all’immagine della relazione analitica come
12
incontro di due persone, ciascuna delle quali contribuisce con la propria individualità. Chodorow fa
notare come questo si sposi con la filosofia civile più caratteristicamente americana.
Concepire l’analista come una persona con emozioni proprie, una propria storia, reazioni
idiosincratiche, oltre ad un allenamento a comprendere le comunicazioni dei pazienti, porta ad una
particolare attitudine tecnica, quella di valorizzare ciò che non si sa, ciò che potrebbe essere
equivocato, rispetto a ciò che si sa. Da tale punto di vista, l’analista è qualcuno che lavora insieme
al paziente in vista di una comprensione che sia d’aiuto a questi, anziché essere l’esperto già
informato della faccende della psiche. Ciò che l’analista possiede, oltre alla propria soggettività, è il
training, l’allenamento. Ciò che il paziente possiede è l’accesso privilegiato alla propria esperienza
interiore. Ora questa posizione è ampiamente condivisa in campo analitico, ma al tempo della
gestazione della psicologia intersoggettiva dell’Io essa aveva contro sia le concezioni della ego
psychology classica, sia l’insegnamento kleiniano, per i quali la soggettività dell’analista era solo
un impiccio: uno psicoanalista, grazie alla sua comprensione teorica, avrebbe dovuto vedere meglio
del paziente nel mondo psichico di quest’ultimo.
Per parte mia farei notare che, anche se nessuno degli autori citati fra i pionieri della
psicologia intersoggettiva dell’Io, né fra i loro studiosi, parla esplicitamente del tema, questa
originale concezione interpersonale introduce naturalmente al problema assai moderno del transfert
dell’analista, delle interferenze sulla relazione analitica che non dipendono primitivamente da un
portato del paziente. Eagle (2000, 24) fa notare, per esempio, che concepire il controtransfert
esclusivamente come una «guida virtualmente infallibile ai contenuti mentali del paziente»
costituisce «una nuova e più sottile versione dell’analista schermo vuoto, o almeno dell’analista
specchio neutro». Un atteggiamento parziale che non assume tutta la responsabilità di ciò che
accade in una stanza d’analisi 10.
D’altra parte, Greenberg ha sottolineato, in un recente seminario al Centro Milanese di
Psicoanalisi, come i teorici nordamericani della psicologia intersoggettiva dell’Io siano tuttora legati
a ciò che accade sul piano verbale nell’incontro interpersonale, valorizzando solo ciò di cui si può
parlare perché già simbolizzato, mostrando invece disagio e diffidenza verso le dimensioni attive
del processo analitico e verso gli enactment, sentiti come potenziali errori tecnici.
«Si fa quel che si può, momento per momento»
Il principale portavoce della necessità di rinunciare alla visione della psicoanalisi come
psicologia generale, valida per l’intera gamma dei comportamenti umani, inserita tra le scienze
naturali d’indirizzo biologico, sarebbe stato Brenner. È Brenner ad elaborare una concezione in
qualche modo già espressa da Ernst Kris negli anni ’40, che la psicoanalisi non sia altro che il
comportamento umano considerato da punto di vista del conflitto (Wallerstein, 2002, 157). In
Brenner è il conflitto psichico ad assumere la centralità precedentemente posseduta dalla concezione
dell’Io propria alla ego psychology. Con una presa di posizione insieme «radicale e semplice»,
Brenner abolisce l’idea che vi siano particolari meccanismi di difesa o, per dirla con le sue parole,
«nessun aspetto del funzionamento egoico, nessuna funzione dell’Io è un “meccanismo di difesa”.
10
Devo al dottor Claudio Cassardo la segnalazione bibliografica del tema, che è stato esplicitamente trattato di recente
anche da Renik (2006) e Wallin (2007).
13
Tutti gli aspetti della funzione egoica sono polivalenti» (Brenner, 1982, 80; Wallerstein, 2002, 158).
Ogni aspetto del funzionamento dell’Io può servire, beninteso, ad uno scopo difensivo, ma può
altrimenti – e nello stesso tempo – servire da mediatore per una gratificazione pulsionale, essere
l’espressione di spinte superegoiche, fornire una risposta alle richieste della realtà esterna, dare voce
e/o modulazione all’ansia o al sentimento depressivo. Naturalmente, nella maggior parte dei casi
uno di questi scopi sarà prevalente sugli altri.
Se il conflitto diventa l’elemento centrale dello psichismo, la formazione di compromesso sarà
il fenomeno centrale del funzionamento della mente umana. Infatti Brenner ne fa una caratteristica
universale del comportamento umano, sia nelle condizioni in cui esso è alterato in senso
psicopatologico, sia nei casi in cui viene comunemente definito «normale»: «conflitto e formazione
di compromesso non sono le caratteristiche del funzionamento mentale patologico. Essi sono
ugualmente importanti nel funzionamento normale» (Brenner, 1982, 115; Wallerstein, 2002, 159).
Brenner è convinto che in ogni pensiero, sogno, fantasia, desiderio, in ogni comportamento,
sintomo nevrotico, facezia o atto mancato si possano proficuamente ricercare gli elementi del
conflitto 11, e delle formazioni di compromesso che lo esprimono e lo regolano insieme. Questa
struttura concorrerebbe pure alla fondazione di ogni produzione intellettuale, artistica, religiosa,
sportiva, di gioco eccetera.
Ciò che merita di essere sottolineato è che, in questo quadro d’insieme, tutte le relazioni
d’oggetto, incluse quelle che si dispiegano nella relazione analitica e nel contesto transfertcontrotransfert, non sono null’altro che formazioni di compromesso.
Osservazioni alla fine del viaggio
Una volta rotto il terreno, la recettività della ego psychology verso le prospettive relazionali
ha potuto dispiegarsi in modo sempre più ampio, non solo nel campo del trattamento degli adulti,
ma anche, per esempio, nel campo dell’analisi infantile, o in quello degli sviluppi teorici connessi
all’osservazione del bambino. È all’interno della tradizione della psicologia dell’Io che Daniel Stern
avrebbe concettualizzato l’importanza della ricerca di sintonia tra madre e bambino fin dal principio
della vita extrauterina (Stern, 1985, 207-214; Wallerstein, 2002, 155).
Hutson (2002, 108-109) e Wallerstein (2002, 160) fanno notare che le istanze psichiche e
molti dei principi della ego psychology delle origini «sono ancora qui», e sono ancora «cruciali»
nella psicologia intersoggettiva dell’Io contemporanea. Lo sono l’idea di un apparato strutturale
(pulsioni, Io, Super-Io, realtà), quella di un determinismo psichico ed il valore di segnale attribuito
all’affetto. Lo sono persino le funzioni sintetiche dell’Io, se le si intende come partecipanti
necessarie alla formazione di compromesso. Tuttavia, qualcosa è radicalmente cambiato e, se
11
Freud enumera tra i fattori in campo pulsione, Super-Io e realtà esterna, con l’Io che deve imparare a giostrare tra
queste forze, e l’ansia, che, secondo l’evoluzione del suo pensiero, è il segnale di un pericolo da cui fuggire (Freud,
1922) o il richiamo alla mobilitazione delle risorse per farvi fronte (Freud, 1926). Brenner introduce nel quadro anche la
necessità per l’Io di difendersi dai sentimenti disforici, che Freud non prende in considerazione quali sintomi-segnale,
ma come espressione di una particolare vicenda degli investimenti pulsionali tra Io ed oggetto, in Lutto e Melanconia.
14
dovessi scegliere un elemento esemplare del cambiamento – oltre all’ingresso della persona
dell’analista nella stanza d’analisi –, indicherei proprio la deriva un po’ malinconica del concetto di
Io. Wallerstein (2002, 151) sottolinea che quando ci si indirizza verso la two-person psychology è
più naturale concepire la relazione in termini di incontro di «personalità» o «soggettività», piuttosto
che di «Egos». Chodorow (2004, 227) ricorda la concezione che Erikson formula circa il giudizio
sull’integrità dell’Io, che richiede l’accettazione della propria vita come l’unica che si sarebbe
potuta vivere. Mi pare che, con la richiesta di questo «mesto riconoscimento», Erikson riprenda
l’intuizione che Hartmann aveva confinato alla sola valutazione dei bambini. Lungi dal ricoprire il
ruolo di una istanza centrale, il cui compito è di diventare energeticamente autonoma nel governare
una salubre interiorità, l’Io è qualcosa che si può realmente valutare e definire soltanto ex post.
I primi ego psychologists erano convinti di perseguire e proseguire il sogno di Freud.
Intendevano dimostrare come l’Io del singolo essere umano potesse stare alla sommità dei percorsi
dello sviluppo psicologico individuale e dell’evoluzione biologica naturale. Proponevano alla cura
psicoanalitica il compito essenziale di cercare di riportarlo là, in caso che conflitti interni al singolo
avessero impedito tale acquisizione. Credevano che questo fosse l’unico vero compimento del
cammino.
Quel sogno è definitivamente tramontato. Tuttavia, mi pare giusto riconoscere che la
psicologia intersoggettiva dell’Io ha conservato dentro la propria evoluzione qualcosa di
genuinamente ed euristicamente freudiano. Nel momento in cui le teorie psicoanalitiche relazionali
ricevono un doveroso riconoscimento ed un crescente consenso, occorre che qualcuno ricordi che
tutto è cominciato con la scoperta di un nuovo mondo, quello intra-psichico. Quella scoperta ha a
lungo accecato, ma non sarebbe ugualmente bene che ora si dissolvesse del tutto. Tuttora i pazienti
non nascono con i loro psicoanalisti: essi arrivano da noi. Persino nel momento in cui lo zigote
entra nell’utero materno esso porta con sé qualcosa che prescinde dalla relazione tra i due corpi:
metà del patrimonio genetico del futuro bambino viene da altrove, e da un altrove le cui radici si
perdono nel passato. Warren Poland (Poland, 1996, 33; Chodorow, 2004, 225) esprime con
chiarezza ed eleganza i termini di questo paradosso, cui in fondo dobbiamo la ricchezza infinita di
possibilità (oltre che di drammi e tragedie) dei percorsi esistenziali dei singoli, e delle indagini
psicoanalitiche che li possono riguardare. Alludendo ad un famoso passaggio di John Donne 12,
Poland accosta e trattiene, insieme alla consapevolezza della nostra ineluttabile socialità, il
memento della ego psychology: se nessun essere umano può essere un’isola, in qualche modo non
può non essere anche «un universo privato di esperienza interiore».
SINTESI
Sulla base di articoli recenti di autori nordamericani, l’autore descrive la parabola del movimento detto
Psicologia dell’Io, dalla sua origine con la diaspora di rifugiati europei in fuga dal nazismo, alle prime
fratture interne al movimento, all’evoluzione spontanea in esso di un nuovo paradigma, che ha recepito
12
«Nessun uomo è un’isola, intera in se stessa; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte dell’insieme. Se una
zolla è trascinata via dal mare, l’Europa è diminuita, come se fosse strappato un promontorio, come se lo fosse il
maniero del tuo amico o il tuo stesso. Ogni morte d’uomo mi diminuisce, poiché sono coinvolto nell’umanità; e perciò
non mandare mai a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te» (John Donne, 1624).
15
elementi fondamentali delle psicologie centrate sulla relazione. Vengono brevemente considerate le aporie, i
vantaggi, i limiti e le prospettive di questa vicenda psicoanalitica.
PAROLE CHIAVE: Psicologia dell’Io, Psicoanalisi nordamericana, One-person psychology, Two-person
psychology, Parametri, Interpersonale, Intersoggettivo, Conflitto psichico.
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