LA PROVINCIA
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MERCOLEDÌ 7 MARZO 2012
[montagna]
a cura di Giorgio Spreafico - [email protected]
Se qualcuno l’avesse visto togliere quei
chiodi, non avrebbe creduto ai suoi occhi.
Si capisce: sono venticinque e rotti anni che
lui i chiodi in realtà li mette, e si deve in tanta parte al suo straordinario impegno se il
Lecchese - una delle storiche culle dell’alpinismo italiano - è diventato anche una terra promessa per gli appassionati dell’arrampicata di fondovalle, il climbing fatto di falesie e di vie brevi, spesso monotiri, così facilmente accessibili da poter essere catalogate come "palestre" più o meno naturali.
Delfino Formenti (nelle foto di Stefania Pasotto), 55 anni tra meno di un mese, casa a
Galbiate, lavoro in un’officina meccanica,
adesso però s’è scocciato. L’ha detto andando a schiodare (o meglio a "togliere piastrine") al Lariosauro, la parete ai piedi del San
Martino che è una delle più frequentate in
assoluto dai patiti del verticale sul "quel ramo" del Lario.
Che succede, Delfino?
«Mi sono stancato».
Di cosa?
«Di molte cose».
E cioè?
«Per esempio, di vedere i terrapieni alla base delle falesie devastati, rotti. Di fare lo spazzino, di dover raccogliere rifiuti di ogni genere lasciati in giro. Mi sono stancato di chi
accende un fuoco perché ha freddo e poi lascia lì tutta la cenere conciando da buttar
via le zone d’attacco».
Maleducazione, insomma.
«Sì, e anche tanta. Mi rendo sempre più conto che molti arrampicatori non sanno o non
capiscono quanta fatica sia necessaria per
attrezzare una falesia. Arrivano, trovano le
vie chiodate e non si pongono neanche il
problema».
Hai una spiegazione?
«Quelli della vecchia guardia vengono dalla montagna, dall’alpinismo, hanno un’attenzione diversa e rispetto per il lavoro di
chi ha tracciato. Nell’onda nuova degli arrampicatori invece manca quel tipo di cultura "di una volta". C’è chi va ad arrampicare come andrebbe al bar, in piazza, al campo di calcetto. Per qualcuno è solo un fatto
di moda, è un andar dietro al boom. E i comportamenti purtroppo sono conseguenti: superficiali, irrispettosi. Ecco, è per questo che
mi sono proprio stufato».
Il Lariosauro non è il Cerro Torre, schiodato a sua volta in questi giorni, ma il segnale è forte. Quanti ancoraggi hai tolto?
«Cinquanta piastrine su nove tiri».
E di tiri quanti ne hai attrezzati, nella tua
carriera di tracciatore?
«Cinquecento, dal 1986 a oggi».
Com’è che hai cominciato?
«Ho provato, mi è piaciuto. Alla montagna
sono arrivato tardi: la Ferrata del Cinquantenario al Passo del Fo, sul Resegone, a 22
anni. Ad arrampicare davvero ho cominciato in Medale e in Grigna, poi le prime linee aperte con Daniele Chiappa e Dario Valsecchi e anche la "via del Rifugio" in invernale al Croz dell’Altissimo con due amici
più esperti come Danilo Valsecchi e Luca
Borghetti».
E le falesie?
«In Italia le ho girate un po’ tutte, e sono stato spesso in Francia».
La voglia di attrezzare è nata dopo tutto
quel girovagare?
«Sì. Una passione matura. A chiodare davvero ho cominciato a 29 anni, in Val Dell’Oro a Valmadrera con Claudio Crepaldi. Poi
sono venute la Corna Rossa, il Corno Rat, la
Torre Marina, il Melgone, Versasio, la Pala
del Cammello, la Stoppani. E ancora il Lariosauro, il Cubano, l’Isola dei Gabbiani, lo
Strippopollo, il Branchiosauro».
Ultima creazione?
«La Discoteca, sul lago appena fuori Lecco,
a sinistra del Pilastro dell’Orsa Maggiore. Lasci la macchina e in un minuto ci sei. Se ci
vai nei weekend, sembra di essere al supermercato tanta gente gira. Sul piano tecnico
si trova di tutto: il facile e il complicato, un
buon posto per divertirsi in sicurezza».
Quello che la gente non sa è che hai fatto quasi tutto di tasca tua. Una follia, a
chiamarla col suo nome.
«Eh, qualche volta lo penso anch’io: devo
Molti arrampicatori non sanno o non
comprendono quanta fatica sia
necessaria per attrezzare una palestra.
Arrivano, trovano le vie chiodate, le
usano e non si pongono il problema
I Cai proprio non li capisco. Non
muovono un dito per dare una mano,
ma poi i corsi di arrampicata li fanno
in buona parte sulle pareti di fondovalle
che non hanno fatto nulla per attrezzare
In 25 anni ho sistemato 500 tiri quasi
solo a mie spese, salvo l’aiuto di pochi
buoni amici. Enti e aziende? Assenti.
Eppure c’è un esercito di praticanti,
anche stranieri, che alimenta il turismo
Falesie «Basta o tolgo i chiodi
Più rispetto per chi le attrezza»
Delfino Formenti, uno dei creatori del grande parco d’arrampicata lecchese,
denuncia i troppi comportamenti scorretti dei climber: rifiuti abbandonati, resti
di falò, terrapieni danneggiati. «Nessuno collabora e manca la cultura»
essere pazzo. È così: non ho sponsor, non
ho finanziatori. Ma chiodare è la mia passione, e le passioni rendono la vita più bella».
E com’è invece che ad Arco, per fare un
esempio, Comune ed enti turistici finanziano gli interventi di questo tipo?
«Arco? E’ un grande centro d’arrampicata,
un posto splendido dal punto di vista ambientale. Noi però non abbiamo niente da
invidiargli, se non appunto l’attenzione per
questo mondo del verticale. Non so come,
ma sembra che nel Lecchese nessuno si accorga del boom che le falesie hanno conosciuto. È gente che viene da fuori, anche dall’estero: girano climber spagnoli, svizzeri,
tedeschi, francesi. È turismo, porta anche
soldi naturalmente. Eppure si fa finta di niente. Se c’è bisogno di un campo di calcio, lo
si fa. Se c’è da rendere disponibili risorse
per le palestre d’arrampicata naturale, niente. E sì che nelle falesie si passano giornate
intere, mica i 90 minuti di una partita».
E i Cai, anche loro stanno a guardare?
«Per i campi
di calcio
tutti trovano
subito i soldi,
chi scala deve
arrangiarsi»
«A chi inizia
consiglio
Galbiate: lì ci
sono vie
un po’ di ogni
difficoltà»
«I Cai proprio non li capisco. Non muovono un dito per dare una mano, ma poi i corsi di arrampicata li fanno in buona parte sulle pareti di fondovalle che non hanno fatto
nulla per attrezzare»
Sei un socio del Cai Lecco?
«Di Lecco, sì: dal 1979».
E non ti hanno mai allungato qualche soldo per sostenerti nel tuo lavoro?
«Mai. Forse non sono uno che sa vendersi
bene, che va a chiedere. Sono vecchia maniera, io: mi aspetto che la gente si accorga
da sola delle cose che sono sotto gli occhi di
tutti».
E le aziende del settore?
«Con loro qualche volta ho parlato dei miei
progetti, ma quando va bene ti offrono materiale a prezzo di costo, il che evidentemente non risolve il problema. Solo molti anni
fa era nato un progetto "Montagna Sicura"
sostenuto dalla Cal, grazie ad Angelo Riva e a Pietro Corti. Da allora, in modo strutturato più niente. Per fortuna almeno Carlo Paglioli,
della Climbing Technology
di Cisano Bergamasco, capisce la situazione. Mi dà una
mano, se lo vado a trovare
mi regala della roba e gliene
sono grato con tutto il cuore,
ma ho il senso del limite: anche se lui è un "santo", mica posso rompergli le scatole in continuazione. Per il resto, posso contare sull’aiuto solo di pochi buoni amici».
Quanto costa attrezzare un monotiro?
«Cinquanta euro. Uso materiale inox. Per
ogni piastrina e tirante, dai 3 euro in su».
E quanto tempo serve per chiodare, in
media?
«Dipende dallo stato della parete: se è da
pulire da sassi instabili, terra, ciuffi d’erba,
la cosa va più per le lunghe. Grossomodo,
per un monotiro impiego tre ore compresa
la chiodatura e "spazzolatura" degli appigli».
E per attrezzare una falesia intera?
«Alla parete Stoppani ho lavorato per due
anni, sul lago un anno e mezzo, idem alla
Discoteca».
Mai pensato di farti aiutare da qualcuno?
«Preferisco non tirare di mezzo altri. La situazione è quella che è, si corrono anche dei
rischi».
Se dovessi fare i nomi di altri che hanno
fatto cose importanti sul fronte della chiodatura nel lecchese?
«Pietro Buzzoni in Valsassina. Paolo Vitali
e Sonja Brambati alle Torrette a Ballabio, alla pala del San Martino, a Campiano ai Resinelli».
Non ti preoccupa la responsabilità che ti
assumi tracciando vie destinate a essere molto frequentate?
«Cerco di fare le cose per bene, proprio tutto il possibile. Nei posti torno per tener dietro alla manutenzione. Nelle falesie vecchie
al massimo c’è qualche piastrina arrugginita, ma sono sicuro che tiene comunque
bene».
La parete alla quale sei più affezionato?
«La Stoppani, sulle pendici del Resegone»
Perché?
«Ho dei bellissimi ricordi legati a delle persone e ad alcuni fatti accaduti nel periodo
in cui attrezzavo. Quel lavoro mi è costato
un enorme fatica, ma ne è valsa la pena».
Il posto giusto per un climber alle prime armi nel Lecchese è…
«La falesia di Galbiate, dove ci sono monotiri con tutte le difficoltà».
La via più dura che hai attrezzato nel Lecchese?
«Cherubino alla parete Stoppani. Prima era
un 7c+, poi allungandola è diventata un 8a».
Quella che giudichi più bella? Perché?
«Sicuramente Eta Beta, una via di più tiri
sempre alla Stoppani. Per la qualità della
roccia, la bellezza della linea e dell’ambiente».
Le salite hanno spesso nomi strani. Tu come li scegli?
«Per me spesso hanno un significato particolare. Per esempio Cherubino (Stoppani) è l’angelo che penso di avere come protettore nei miei lavori di chiodatore solitario.
Ho corso diversi rischi e lui
mi ha sempre protetto. Lilli Bong (Isola dei Gabbiani)
è in ricordo di Lilli, il cane
(uno yorkshire terrier) che
mi è rimasto vicino per 14
anni. Disco Inferno (Discoteca) è il nome della canzone che
ballavo quando frequentavo appunto le discoteche».
Il tuo stile di tracciatore è cambiato nel
tempo?
«Con gli anni si è ammorbidito. Metto le protezioni un po’ più ravvicinate, non perché
sto invecchiando ma perché sono maturato. A mio parere la falesia deve offrire divertimento e non il rischio di farsi male».
Altri la pensano diversamente?
«Lo stile e il modo di mettere le protezioni
sono personali. Ogni chiodatore ha il suo.
Nel Lecchese ci sono alcune falesie con protezioni un po’ più distanti, a volte anche un
tantino pericolose. Ogni arrampicatore può
valutare da sé i rischi che vuole correre».
Ci sono posti fuori zona che sono un tuo
modello di riferimento?
«Ho girato molto sia in Italia sia in Francia. Non ho mai trovato una falesia da prendere come modello. Anzi, in qualche caso
ho notato vie con errori evidenti».
Tipo?
«Soste mal posizionate che creano attrito
sulla corda nelle calate, prime protezioni alte con rischio di cadute fino a terra, ancoraggi non in linea con la logica della via».
Chiudiamo tornando al punto di partenza, al tuo malumore. C’è un’altro comportamento dei climber che non ti va giù?
«Una buona abitudine che dovrebbero prendere tutti sarebbe quella di spazzolare le prese più sporche di magnesite. Io lo faccio sempre, e non costa nulla».
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