Dio, la famiglia e la patria. Ricordo dello scrittore Giulio Carcano nel bicentenario della sua nascita di Archivio Iconografico del Verbano Cusio Ossola Sine macula et nive candidior, senza macchia e più candido della neve. Così recita il motto dello stemma di famiglia. Giulio Carcano, scrittore e gentiluomo dall'aria affabile e serena lo interpretò alla perfezione. In ogni aspetto della sua vita pubblica e privata diede esempio di mitezza e integrità. Nacque a Milano il 7 agosto 1812 alle sei del mattino, il primogenito di Vincenzo e Carolina Stagnoli e fu battezzato il giorno stesso nella chiesa di San Fedele. La sua vita è stata recentemente ricostruita da Vittorio Grassi, autore del libro di Giulio Carcano a Lesa, edito dal Comune di Lesa, in occasione del duecentesimo anniversario della nascita di Carcano, celebrato dal Sindaco Roberto Grignoli con la pubblicazione del libro, una giornata di ricordo il 14 maggio 2012 e con il convegno "Giulio Carcano sulle sponde del Verbano", organizzato dalla Società dei Verbanisti l'8 settembre 2012. Grazie alle estese ricerche di Grassi e al rocambolesco ritrovamento del diario di Giulia Fontana, moglie di Carcano, è facile ricostruire la vita di questo scrittore, conosciutissimo ai suoi tempi, ma oggi quasi dimenticato. I Carcano di Arzago, di antica origine patrizia, appartenevano alla nobiltà cittadina milanese. La loro fortuna si doveva a tale Giovan Pietro Carcano, un negoziante di seta e lana, che da Como si era stabilito nel 1594 a Milano. Con il commercio accumulò grandi ricchezze, tanto che alla sua morte, nel 1624, fece generosi lasciti all'Ospedale Maggiore e alla Fabbrica del Duomo. Destinò del denaro per la fondazione del monastero delle Celestine, che da allora furono dette "Le Carcanine". Il loro blasone nobiliare recava uno scudo con un cigno bianco su fondo rosso scuro e una scure. La nonna paterna del piccolo Giulio era Marianna Imbonati, sorella di quel Carlo che sarebbe diventato il compagno di Giulia Beccaria, madre del Manzoni e che Alessandro avrebbe ricordato nel 1806 con il carme In morte di Carlo Imbonati. Marianna Imbonati, che era nata nel 1749, sposò il poeta milanese Francesco Carcano di Lorenzo, che frequentava l'Accademia letteraria dei Trasformati, istituita dal padre Giuseppe Maria Imbonati e frequentata anche dal Parini. Marianna e Francesco ebbero molti figli, tra i quali Vincenzo, che sposò Carolina Stagnoli. Giulio fu il primogenito dei figli. Dopo di lui la prolifica Carolina mise al mondo dodici neonati. Alcuni morirono presto, ma sopravvissero, oltre a Giulio, Marianna che fu suora, Luigi, divenuto ecclesiastico, poi Giuseppe, Francesca, Giacomo, Paolo, Antonietta, Clementina, Carolina e Irene. Il piccolo Giulio, di salute delicata, trascorse i primi tre anni della sua esistenza a balia, nel villaggio di Cassina Amata, vicino a Paderno Dugnano, a casa del nonno materno Giulio Stagnoli. Dalle lettere famigliari traspare un carattere "insolentello e cattivello". Dal 1834 studiò al Liceo di Porta Nuova. Tra i suoi compagni c’era Cesare Correnti, con cui strinse un'amicizia che durò per tutta la sua vita. A diciotto anni il Carcano aveva già scritto alcune poesie e una tragedia in versi, La morte di Saulle, che mise in scena in vacanza insieme ai cugini, e i Versi alla madre. Il 27 agosto 1834 conseguì, con il massimo dei voti, la laurea in Diritto Civile e Canonico all’Università di Pavia, dove viveva nel prestigioso Collegio Ghislieri. Grazie alla nonna Imbonati, Carcano ebbe stretti rapporti con il Manzoni, soprattutto durante i soggiorni sul Lago Maggiore. Manzoni era il suo modello letterario nella ricerca del vero e nella predilezione per temi legati al mondo degli umili. Nel 1827 Manzoni stesso gli aveva inviato in dono una copia dei Promessi Sposi con dedica di suo pugno: “Al caro e promettente giovinetto”. Carcano ne fu fierissimo: "ricordo ancora la gioia e il vanto con che nel 1827 io portai nel Collegio un esemplare dei Promessi Sposi, che il grand’uomo aveva mandato per me a mia madre; la serbo ancora come un tesoro domestico". Il prezioso cimelio passò poi nella mani di un altro grande poeta: Giuseppe Verdi, che lo ricevette dalla figlia di Carcano, Maria, come ricordo del padre appena scomparso. Dal letto di morte, Carcano si era raccomandato di far avere a Verdi quel volume a lui così caro. Il compositore ne fu profondamente commosso. Manzoni e Carcano sarebbero diventati amici condividendo una reciproca stima e gli ideali di libertà e la passioni civili dell'età risorgimentale. Carcano scrisse anche una biografia del Manzoni e conservava una sinistra reliquia dell’angelica prima moglie di Don Alessandro. Si ricordava "benissimo di quella nobile ed eletta creatura che fu l’Enrichetta Manzoni. Io ero giovinetto, e la vedevo assai spesso, e serbo ancora uno spillone fatto de’ suoi capegli: dono delle sue figlie". Seguendo le orme del padre iniziò a lavorare per l’amministrazione austriaca e nel 1844 fu nominato vice bibliotecario alla Biblioteca Braidense; Carcano, che parlava bene francese, tedesco e inglese, aveva già iniziato il lavoro che avrebbe occupato, parallelamente all’attività letteraria, tutta la sua vita: la traduzione delle opere di Wiliam Shakespeare, di cui si era innamorato leggendo il Re Lear. Nel 1834 Carcano pubblicò il suo primo successo, la novella in ottava Ida della Torre. Episodio patrio, che narrava l’infelice amore tra Alfredo Visconti e Ida, ai tempi della discesa di Carlo VIII. La censura austriaca soppresse parecchie ottave, ma Carcano le sostituì coraggiosamente con delle linee punteggiate. a indicare i tagli imposti dalla Polizia. Frequentava il salotto di Tommaso Grossi, dove incontrò il poeta Giovanni Torti, il pittore, scrittore e politico Massimo D’Azeglio e Pietro Borsieri, l’intellettuale romantico del “Conciliatore”, che pagherà con la prigione le sue idee di libertà. Tra il 1836 e il 1837 collaborò con Cesare Correnti al "Presagio", una strenna con scopi patriottici, dove pubblicò le novelle Il giovane sconosciuto e Benedetta. La madre Carolina, indebolita dalle continue gravidanze, morì il 24 luglio 1839, a 47 anni, lasciando solo il marito e unidici orfani. Nello stesso anno pubblicò il romanzo Angiola Maria. Storia domestica, una commovente vicenda amorosa sullo sfondo del Lago di Como, ricca di analogie con i Promessi Sposi. Il libro assicurò a Carcano la celebrità: si contarono almeno 12 edizioni in Italia e fu tradotto in inglese, tedesco, russo e francese. Nel saggio Della poesia domestica (1839) Carcano illustrò la sua predilezione per i temi umili e famigliari, esempi morali, scelti per rappresentare una precisa epoca storica. Con la crescente industrializzazione e il trionfo del materialismo la famiglia restava per Carcano l’“unico rispettabile asilo della nostra pace e delle nostre affezioni … il legame più forte che ci unisca alla terra, l’ultima sacra cosa che forse a noi rimanga”. Spesso la sua opera letteraria fu considerata con pregiudizio, come un impasto melenso, romantico e sentimentale. Il Tenca lo accusava di una contraddizione insita nelle sue novelle, tra il soggetto umile e l'adozione di un linguaggio aulico, inaccessibile al popolo. Per Nievo Carcano era un "letterato allo stato fossile". Carlo Dossi, lo scapigliato autore delle Note Azzurre, non gli risparmiò il suo sarcasmo e il suo spietato giudizio. Annotava: "Giulio Carcano, è di quelli infelici scrittori che sopravvissero alle loro opere". Dossi, che stimava moltissimo Manzoni, scriveva nella sue note che il 16 ottobre 1877 aveva domandato al Carcano "se sapesse qualche tratto di spirito del Manzoni. Risposemi che Manzoni ne diceva ad ogni momento, ma li avea tutti scordati. Scommetto che Carcano non ne capì neanche uno". E ancora: "Il girometta Carcano traduce Shakspeare (sic)! È il nano che vuole andare a braccetto con il gigante. Carcano mangia cignale per ruttar lattemiele ... Il ruggito di Shakespeare in Carcano (suo traduttore) diventa belato". Il De Sanctis nella sua storia della letteratura italiano lo definì una caricatura di una caricatura: Carcano imitava Tommaso Grossi, che a sua volta, con Marco Visconti, aveva scimmiottato il Manzoni. Le sue novelle erano brevi romanzi articolati in parti diverse: l’introduzione in cui l’autore presentava il tema generale, la storia, talvolta divisa in capitoli e la conclusione moraleggiante. Le sue opere, ascrivibili alla corrente della letteratura rusticale o campagnola, nata in Lombardia verso la fine degli anni Trenta e diffusa in Veneto fino agli anni Sessanta, erano ispirate, come illustra Katia Titi, nella sua tesi di laurea Giulio Carcano e la letteratura campagnola, a una “volontà didattica, accompagnata da spirito filantropico e da fini spesso moralistici”, in cui la vita cittadina, “rappresentata come mondo viziato, corrotto e artificioso”, è contrapposta alla “vita di campagnola deformata dalla lente idealizzante del narratore, in cui i fini sociali prevalgono su quelli conoscitivi”. L'avverso destino dei contadini non è ascrivibile allo sfruttamento degli imprenditori, ma al destino, in una visione provvidenziale di manzoniana memoria. Al centro della narrativa di Carcano c'è la famiglia, dove si conservano la tradizione e la verità di pensiero. La giovane fanciulla rappresenta la purezza e la speranza, mentre l'anziana simboleggia la tradizione e la saggezza. La natura è spesso descritta con rimandi alla terra promessa, è fertile e feconda, tòpos del mondo incontaminato. L'origine della degradazione umana non dipende da Eva, ma discende dalla colpa di Caino, che ha assassinato il fratello per invidia e cupidigia. L'assassino di Abele è assimilabile ai cercatori di profitto, che saccheggiano la terra per vivere du rendita. L'idillio, l'archetipo dell'età aurea dell'uomo, viene turbato dalle sciagure naturali, dall'abbandono della fede e del diritto dei padri o dall'allontanamento dalla famiglia, spesso foriero di un'implacabile catena di sfortune. Il capostipite del racconto campagnolo in Italia fu Lorenzo Crico, autore nel 1817 del Contadino istruito dal suo parroco, da cui traspariva l’apprezzamento per la campagna e la sostanziale bontà dei villici. Un altro esempio fu Il curato di campagna di Carlo Ravizza, del 1841, dove veniva descritta la vita di una piccola comunità agricola sotto la guida spirituale di un prete, animato da un profondo spirito evangelico. Cesare Correnti, con Della letteratura rusticale. Lettera a Giulio Carcano del 1846, apparsa sulla “Rivista Europea” con la firma di O.Z., dedicò all'amico il manifesto del romanzo popolare. Era un incitamento a non rinuciare al tema degli umili, in seguito alla critica negativa ricevuta da Carcano per il racconto Rachele. Correnti auspicava la nascita di una letteratura lombarda che utilizzasse anche il dialetto. “Niuno meglio del povero operoso e infelice comprende la dignità del silenzio, e il pudore del dolor vero. Guidali all’ospitale, guidali al giaciglio dell’agricoltore moribondo; mostra loro, tu che il sai fare, la cupa e tranquilla concentrazione dell’uomo irreparabilmente perduto: e forse coteste animucce da pappagalli comprenderanno una volta lo stoicismo … s’altro non t’è concesso falli guaire e gemere innanzi a coloro, cui gioverebbe che il cuore umano non provasse più neppure l’incomodo turbamento della compassione … dipingi la povera tosa, l’Angiola Maria, la Rachele, le quali senza disamare si rassegnano al male che non hanno meritato”. I destinatari della produzione carcaniana non erano quegli umili protagonistio dei suoi romanzi, ma un pubblico colto e borghese, quei signori che leggevano la “Rivista europea”, dove venivano pubblicate le sue novelle. Negli anni Quaranta Carcano entrò in contatto con i gruppi di patrioti che si riunivano attorno a Cesare Correnti, come Carlo Tenca e i fratelli Porro, che diffondevano le loro idee di indipendenza dal dominio austriaco, attraverso pubblicazioni e strenne, come l'almanacco popolare “Il nipote del Vesta Verde”. Frequentò inoltre la casa di Manzoni in via del Morone, dove conobbe Niccolò Tommaseo e Giuseppe Giusti. Divenne amicissimo della contessa Clara Maffei, che nel suo salotto patriottico di via Bigli accolse per decenni intellettuali e artisti. Fu il testimone nel 1846, assieme a Giuseppe Verdi, della separazione di Clarina dal poeta Andrea Maffei e fu proprio grazie a Carcano che la donna conobbe e si innamorò di Carlo Tenca. Accanto all’attività letteraria Carcano lavorò per giornali di opposizione, come “Il Crepuscolo". A Giulio non mancava un certo fascino. Aveva una folta barba, occhi profondi e dei modi cortesi. Oltre ad essere famoso era anche uno squisito cavaliere, incline alle avventure galanti. Eppure aveva scritto dei versi in dialetto dal titolo Ona dichiarazion, in cui metteva alla berlina "quij che tra de lor ciamen leon, e che i alter ghe disen inglesaa; vun che dopo i congiuer, dopo l’esili, el fa andà tutt i donn in visibili". Nel 1848 si sposò con la sua seconda cugina Giulia Fontana. Era un giovane donna religiosa, dotata di una grande intelligenza e istruita in letteratura, filosofia, storia, musica e pittura. Oltre a queste doti era gentilie e affabile con tutti e fu per Carcano non solo l'amata compagna di tutta la vita, ma lo aiutò nei suoi scritti. Si era fatta notare dal bel Giulio, durante una vacanza in famiglia nel 1843, per aver dipinto nel un acquarello che aveva come soggetto una vecchia contadina di Crevenna presa dal vero. Il disegno fu corredato da una breve poesia del Carcano, che per la prima volta osservò la grazia di quella lontana parente. Il 30 agosto 1847, intinta la penna nel calamaio, Giulio prese coraggio e scrisse una lettera alla prozia Giuseppina Carcano Fontana, per chiedere la mano di Giulia. La risposta fu brevissima: "ti affido in mia figlia una gran parte della mia propria felicità". Dopo qualche mese, il 30 dicembre, furono celebrate le nozze festeggiate da una nevicata straordinaria. Giulia Fontana scrisse, nella sua autobiografia, che a causa del maltempo gli sposi non partirono per il consueto viaggio, ma "incominciammo una vita di pace intima e deliziosa, ed ogni cosa si dipingeva, nella mia nuova esistenza, di semplice e domestica poesia. A Milano abitavamo in un quartierino nel Palazzo Borromeo d’Adda, verso il giardino". In quel periodo il Carcano scrisse la poesia Il pensiero custode, forse dedicata alla diletta moglie: "Deh! Perché mai te non conobbi pria, quando negli occhi ti parlava il core?, Perché allor non balzò l’anima mia, alla promessa arcana dell’amore?". Il 18 Marzo 1848 scoppiò a Milano l’insurrezione delle Cinque Giornate. Giulio vi partecipò attivamente, a fianco dell’amico Correnti. La moglie Giulia partì per Lugano. Carcano ricordava come quel giorno, "invocato, aspettato, venne alla fine. La mattina del 18 marzo, per empissimo, il migliore e il più antico degli amici miei, Cesare Correnti, l’uomo che per tanti anni aveva tenuta vive nel mio animo e in quello de’ suoi compagni, la fiamma dell’amore per l’Italia e per la nostra libertà, il patriota intemerato, che alla causa dell’indipendenza nazionale aveva consacrato tutto sé stesso, apparve d’improvviso in casa mia, nelle prime ore del mattino". Il 23 Maggio 1848 il Governo Provvisorio di Lombardia gli affidò un incarico amministrativo, mentre il Correnti fu nominato segretario generale. Carcano scrisse l’Inno pei morti delle Cinque Giornate, che venne messo in musica dal maestro Ronchetti Monteviti. In seguito alla vittoria di Custoza, dove il maresciallo Radetzky vinse contro l'esercito piemontese schierato dal Re Carlo Alberto, gli austriaci rioccuparono Milano. Dalla città partirono in esilio circa 75.000 persone. Carcano era stato inviato a Parigi, insieme al Marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga, per chiedere aiuto militare alla Francia. Nella capitale si trovava anche Verdi, che si era stabilito a Passy in compagnia di Giuseppina Strepponi e che sottoscrisse l’appello. Costretto all’esilio, Carcano trovò rifugio a Lugano dalla consorte, che lo aspettava con una sorpresa: era incinta. Fermò sulla carta le preoccupazioni di una giovane moglie: "A Lugano passai dei giorni agitatissimi, finché una mattina all’alba mi recai alla Posta delle diligenze; una di queste era giunta da poco, e fra i molti bauli gettati a terra alla rinfusa, mi parve di riconoscere un certo sacco da viaggio, che Giulio aveva con sé. Il domestico, già spaventato, mi assicurava che certo non era il suo. Scrissi però di fretta un biglietto col mio indirizzo e lo lasciai fermo in posta. Sfiduciata mi posi a lavorare, ma dopo due ore, spinta da forza ignota aprii la finestra, Giulio era giunto, alzò gli occhi, mi vide e salìì le scale. Da quel giorno fummo riuniti per non dividerci mai più". Nella novella Nunziata il Carcano evocava con rammarico la sua condizione di esiliato. Un giorno, seduto sotto il tetto del montanaro svizzero, povero e libero, all’ombra gigantesca di un pino silvestre, "mentre intorno a noi alcune giovenche e capre pascolavano l’erba dell’alpe, mi ricordo che, ripensando nel cuore le magnifiche nostre città e i fiumi maestosi e le rovine superbe inutilmente, e i templi famosi, io mi sentiva inferiore e più sventurato di quest’umile montanaro; e ne invidiavo la sorte poverissima, ma consolata almeno dalla certezza di un diritto e di una fede che ebbero i suoi padri e che manterranno i suoi figliuoli". Da Lugano valicarono il passo del Monte Ceneri e giunsero a Locarno. "Da là, annotò Giulia, "con una barca a remi, proseguimmo fino ad Intra, la piccola cittadella piemontese amena ed industriale. Quivi Giulio s’ispirò a sentiti versi, e scrisse la novella La Nunziata". Il 30 Ottobre 1848 nacque a Intra Maria Ester Carolina Carcano, la loro unica figlia. Il Carcano aveva adottato un nome fittizio: Damiano Bianchi, e ironizzava che era "mio amicissimo, un altro me stesso". Maria era allevata anche dallo zio Corrado, che era arrivato dalla Svizzera attraverso il passo del Gottardo, dove aveva evitato la morte per un colpo di fortuna, quando la slitta su cui viaggiava era stata travolta da una gigantesca valanga di neve. Corrado cullava la piccola Maria, le dava il latte con il poppatoio e si faceva chiamare la sua balia. Maria, scrivendo in versi i suoi ricordi, avrebbe evocato la sua nascita: siede la terra dove nata fui , in riva del Verbano, Intra chiamata; lombardi i genitor furo ambidui, di nobil stirpe antica ed onorata; nacqui il trentesimo dì del mese in cui, la via del sole è da Scorpion segnata, del secol gli anni eran quaranta ed otto, dopo Cristo e secoli diciotto. In questo periodo i Carcano visitarono il Manzoni, che si era rifugiato nella villa del figliastro Stefano Stampa a Lesa, ritrovo delle tante personalità che frequentavano l’autore de I Promessi Sposi, come Ruggiero Bonghi, l'abate Antonio Rosmini, Giovanni Berchet, Tommaso Grossi e il D’Azeglio. Dopo un viaggio a Torino, Carcano fece ritorno a Intra dove restò fino al marzo del '49. Da lì ripartì con la famiglia alla fine del mese per Locarno, sapendo che ormai gli austriaci erano tornati vincitori in Lombardia. Soggiornarono in una torre nel territorio di Muralto in una vigna, vicino a un torrente. Lì abitavano dei loro lontani parenti, i Rusca, che li aiutarono a sistemarsi. Dopo qualche tempo si spostarono a Balerna, ospiti dei Greppi. Nel 1850, per ordine dell'autorità austriaca, Carcano fu rimpatriato a Milano, ma dovette rinunciare al lavoro nella Biblioteca Braidense e, dopo aver tentato inutilmente di accedere ad altre cariche pubbliche, fu costretto a insegnare privatamente nell’Istituto Robbiati, "con scarsa retribuzione e poco compenso morale", fino al 1859. Malgrado uan costante nevragia intercostale che gli impediva di dormire, il Carcano lavorava con energia instancabile. Annotava la moglie Giulia che "al mattino usciva per un breve e rapido passeggio, poi si recava quasi ogni giorno alla chiesa, poi continuava il lavoro intenso delle traduzione di Shakespeare, l’unico nostro sollievo era il soggiorno di due o tre mesi in campagna". Nello stesso anno pubblicò Damiano: storia di una povera famiglia, romanzo con intenti sociali, seguito nel 1852 dalla novella Nunziata, che annuncia una nuova direzione verista, e, nel ’53, dal racconto Selmo e Fiorenza e Dodici novelle. La Nunziata è la storia, “umile e oscura”, di una fanciulla della montagna, "vittima della nostra civiltà così orgogliosa di sé e così stolta”, che illustra la crescente industrializzazione e le conseguenti trasformazioni sociali.Si svolge sul Lago Maggiore, a Intra, dove il Carcano aveva soggiornato, e contiene acute considerazioni sulla natura del capitalismo. La cittadina era una “grossa borgata, la quale in piccol giro d’anni diventò la più ricca e mercantile cittadella delle due sponde del lago Maggiore”. Una giovane ragazza originaria di Cossogno è costretta a lavorare tredici ore al giorno in una filanda e a sottostare alle richieste volgari dell’odioso capo assistente della fabbrica, il Signor Costante, “che si veste da signore e si figura di poter infinocchiar, come gli frulla, le nostre donne”. Il Vito di Cossogno, cugino della Nunziata affronta Costante e lo minaccia, ma l'uomo inizia a raccontare bugie sulla purezza della povera tessitrice, che si trova derisa e isolata dalle compagne. “Era la vendetta dell’uomo vile che schiaccia il debole, perché sente di non poter né vincerla, ne pattarla col forte”. La preoccupazione e la tristezza per l’ingiustizia subita indeboliscomo la Nunziata che, rifugiatasi alla sera nella sua misera e malsana stanza, dopo essere stata cacciata dalla fabbrica, si ammala. Il Vito si reca dalla famiglia e chiede al padre la mano delle sfortunata, che è ormai minata da un male incurabile. Al di là storia, quello che più colpisce nella Nunziata sono le acute osservazioni del Carcano rispetto all'industrializzazione e ai cambiamenti sociali: Da quel dì che l’Inghilterra, co’ suoi cento milionarii e co’ suoi tredici milioni di poveri, diventò il gran mercato del mondo; da quel dì che la Francia per moltiplicar l’oro, volle emulare la sua antica rivale nella febbre del traffico che la divora, il più fatale e spaventoso de’ tiranni pose il suo seggio sopra la terra. Questo tiranno si chiama il monopolio industriale; il quale sollevò in ogni parte d’Europa le più terribili quistioni che abbiano mai travagliato il cammino dell’umanità: esso rinnegò, per così dire, la fede e la religione del passato; tolse alla terra, loro madre e nudrice, i popoli agricoltori e pastori; creò nuove generazioni, divorate l’una dopo l’altra dalle macchine, e pur bisognose di vivere e di lavorare; alla lenta e progressiva vicenda della fecondità naturale, sostituì l’immenso e maraviglioso sforzo dell’arte; pose, in una parola, il più difficile problema che mai siasi offerto a sciogliere ai filosofi, ai legislatori, agli amici degli uomini e della giustizia. Guai, se Italia nostra vuol contendere anch’essa, con esagerate prove, in questa lotta che forse deve decidere il futuro dell’umanità! Ma intanto io veggo, in mezzo alle pingui e vaste pianure, lungo le rive feconde de’ fiumi, fin sotto al piede delle nostre Alpi, vedo i poveri abitatori del contado uscire a torme dalle native case per correre a stiparsi negli opifici; veggo una popolazione nuova succedere all’antica; ma più non trovo la libertà e la floridezza, né lo schietto costume di prima; l’avidità di un lucro, stimato più pronto e più certo, toglie il pensiero della famiglia, della vita; si lavora e si patisce, si maledice e si muore. E dovunque scorra un bel fiume, dove si apra una valle, vedi piantar chiuse alle acque correnti, e scavar canali, e sorgere nuovi edifici a molti piani, per ogni sorta di manifatture;e addensarsi un povero popolo d’innocenti, per cominciare colà una vita più difficile di quella dello schiavo attaccato alla gleba. O miseria! Quella gran ruota dalle larghe braccia che si volge al correre d’un rivoletto, e per cui s’agita e vive la compagine del vasto edificio, quella gran ruota instancabile, fatale, è come il simbolo del destino che vi mena, o poveri fanciulli! Voi languite, spossati e grami, voi cadete affranti, intisichiti, mietuti innanzi tempo; e la ruota gira, e gira! Altri vengono a limosinare il pane che voi non mangiaste intero; altri vengono a morire; e la ruota gira! Nel 1852 il Carcano fu sul Lago Maggiore, ospite nella villa di Ispra del conte Carlo di Castelbarco, per un vacanza di tre mesi. Il figlio del politico e compositore Cesare Pompeo Castelbarco aveva diversi possedimenti a Ispra ed era sposato con la nobildonna Antonietta di Castelbarco Litta Albani. Gli anni successivi i Carcano passarono un’estate a Gravedona e l’altra a Locarno, luogo che gli ispirò il racconto Cimalmotto. Nel 1853 andarono a Venezia per fare "la cura dei bagni di mare". Lì Giulio si dilettò disegnando una veduta del canale della Giudecca con la Chiesa della Salute e il campanile di San Marco. Carcano conobbe in questi anni Ruggiero Bonghi, un esule napoletano, traduttore di Platone, già amico del Rosmini e di Manzoni. Era molto diverso da Giulio, ma i due strinsero una grande amicizia. Il Bonghi si era invaghito nel ’54 dell'affascinante e bellissima Vittoria Cima, giunta con sua mamma a Villa Fontana a Belgirate, sul Lago Maggiore, presso il parenti Pino-Fontana. Domenico Pino era stato un valoroso generale per Napoleone, che lo aveva premiato con il titolo di conte. Sua sorella Teresa aveva sposato Giorgio Fontana e alla morte del militare i nipoti ereditarono le proprietà dello zio in Beglirate. Vittoria Cima rifiutò la proposta di matrimonio del Bonghi e i Fontana gli trovarono un’altra candidata: Carlotta Rusca, la figlia di Cristina Ceriani, lontana parente dei Carcano, che divenne la sposa del giovane napoletano emigrato, definito dal Carcano un "distinto ingegno". Impiegando i soldi della dote della moglie, il Bonghi acquistò alcuni fondi fuori Stresa dove costruì una villa che usò fino al 1857, quando mise in vendita la proprietà che fu acquistata da Riccardo Manca Amat, duca di Vallombrosa e di Asinara, sposato dal '57 con Geneviève de Pérusse des Cars. Con il ricavo fabbricò un’altra dimora nei pressi della precendente e nel 1862 la vendette al marchese Ludovico Pallavicino di Genova. Non contento, il Bonghi, verso la fine del 1857, edificò a Belgirate un’altra villa che avrebbe tenuto fino al 1873. I Carcano furono spesso suoi ospiti e ricordarono sempre i bei giorni passati a Stresa e a Belgirate. Giulio ne scriveva a Clarina Maffei: "Siamo qui da tre o quattro giorni, lieti davvero e ricevuti con la più cordiale ospitalità da questi nostri amici. La scena che abbiamo dinanzi tutto il dì, è una delle più belle e maestose che si possano immagnare: e la mia Maria si è già fatta amica di queste montagne e dell’acqua, e delle vecchie barche che stanno sulla riva e persino de’ sassi … la sua contentezza poi raddoppia la nostra. Abbiamo, a due miglia il bel mondo elegante; ma noi ne turberemo i trionfi; io non vidi ancora nessuno degli splendori di Belgirate, e però non ve ne so dire parola". Con Correnti, che aveva una acquistato una villa tra Meina e Solcio, fecero una visita all'Isola Bella. Carcano tornò a Milano per le lezioni, mentre la moglie e la figlia rimasero ospiti del Bonghi. Informava l’amico Jacopo Cabianca che avrebbe visto il Manzoni a Lesa, e che "il soggiorno di Stresa è bellissimo; un cielo splendido e vasto; il lago e le isole, e la pittoresca apertura della Val D’Ossola e la lontananza del Sempione. Anche questa riva comincia ad essere seminata di ville, come il Lago di Como; e il mio amico Bonghi sta fabbricandone una che riuscirà veramente bella". All’amica Clara Maffei, con un tono leggermente pettegolo e scherzoso: "Questa parte del lago non può essere più bella; la stagione fresca, amena, invitante; battelli a vapore che vanno e vengono quasi ad ogni ora, e le domeniche, corse di piacere di viaggiatori venuti da Genova e Torino, fino in capo al lago, per dodici franchi, andata e ritorno (!)… Qui a Stresa noi siamo tra due duchesse, nientemeno, la ex duchessa di Genova, ora signora Rapallo, e quella di Vallombrosa, ch’è una d’Escars del Faubourg St. Germain; noi rappresentiamo il terzo stato. Mi fermerò a Stresa fino a mezzo ottobre … Ho sentito che i signori Cavallini sono al Somarino … farò una corsa fin là per salutarli; sono così buoni e gentili. Bonghi, presso il quale mi trovo, come l’anno passato, fabbrica case e le vende; un’altra sua villetta, a mezzo edificata, la vendè ora allo stesso signore che comperò la prima che tu vedesti; e ci guadagnò di netto otto o diecimila lire; è un’affar più ghiotto che voltar Platone in italiano". Il 1859, anno di grandi cambiamenti per l’Italia, segnò una svolta anche nella vita di Carcano. Per l’instabilità e il pericolo si rifugiò con Giulia e Maria il 2 marzo a Belgirate, dal Bonghi. Da lì visitarono spesso il Manzoni a Lesa e si incontrano con gli amici Fontana. Il clima sulla riva piemontese era di trepidante attesa e di speranza: "qui noi siamo tutti nello stato ansioso di chi aspetta, e non so se l’avvenire imminente sarà migliore o più miserando del passato". Cesare Correnti sollecitò Carcano a trasferirsi a Torino, ma Giulio non ricevette in tempo la lettera, perché la posta veniva consegnata a intermittenza. Sul lago c’erano inquetanti vapori austriaci armati di cannoni e i Carcano cercarono di raggiungere Torino, ma deviarono per Varallo, in Valsesia: "venni dunque", scriveva all’amico Ettore Novelli il 14 aprile 1859, "in fondo a codesta valle silenziosa, alpestre, pittoresca e poetica". Aggiungeva parole di emozione: "Chi ci avrebbe detto pochi mesi fa che l’Italia sarebbe venuta in così breve tempo alla vigilia di quel giorno ch’essa ha aspettato da secoli? E a tale vigilia ci siamo. Tutto quello che succede intorno a noi ha qualcosa di stupendo e di miracoloso … con che cuore, con che angoscia noi siamo qui! Oh patria nostra!". Il 26 aprile l’Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna. Nell’alessandrino l’esercito piemontese era in attesa di Napoleone III. Nella notte tra il 22 e il 23 maggio Garibaldi giungeva a Sesto Calende e il 4 Luglio gli austriaci venivano sconfitti a Magenta. Su Milano, finalmente libera, sventolavano le bandiere tricolori. Il nuovo governo riconobbe a Carcano l'impegno patriottico e lo nominò consigliere comunale. L’Armistizio di Villafranca spense ben presto gli entusiasmi. La Lombardia fu annessa al Piemonte sabaudo: "codesto fatale e inseplicabile scioglimento della causa che ci ha fatto tanto sperare e soffrire". Carcano fu nominato segretario e professore di Estetica all’Accademia di Belle Arti e accompagnò il Re Vittorio Emanuele II in visita a Milano per le sale dell’esposizione di Brera. Il sovrano gli conferì la croce di cavaliere dei Ss. Maurizio e Lazzaro e gli furono assegnati numerosi e importanti incarichi nell’amministrazione scolastica e in istituzioni artistiche e culturali: fu Segretario dell’Accademia di Belle Arti di Brera, nel 1860 diventò il primo Provveditore agli Studi per la Lombardia. Nel ’61 uscirono le Poesie edite e inedite per Le Monnier. Nell’estate del ’62 si recò in vacanza di nuovo in Valsesia e poi a St Moritz per le cure termali, nel ’63 fu in Liguria a Sestri Ponente, mentre nel 1864 trascorsero un mese a Prese vicino a Poschiavo per i bagni solforosi e un altro mese a Pallanza. Sul Lago Maggiore Carcano stava bene: "godo di questo bel sole e questo cielo l’uno e l’altro così splendidi, così italiani e faccio quai ogni giorno lunghe passeggiate". Nel ’65 a causa del colera si spinse fino a Locarno e, "percorsa la paurosa e tetra Via Mala", giunsero al "lieto villaggio" di Thusis. Nel ’66, anno della morte del cugino Lodovico Carcano nella battaglia di Custoza, furono prima a Luino, a Bellagio e poi sopra Tremezzo, a Bolvedro, dove presero in affitto un casa in mezzo a un uliveto. Giulia era convalescente da una grave polmonite e fu costretta a passare l'inverno sul lago di Como, allietata delle visite del vicino di casa, don Alessandro Litta Modignani. Come ricorda Giulia, il Litta "era un gentiluomo colto e cortese, che nella sua gioventù aveva molto viaggiato in Europa e (cosa rara allora) anche nell'America del Sud. Leggeva molto e componeva in musica. e veniva spesso a trovarci col suo canotto grande (il Condor) o con una piccola barca (il Colibrì). La sua conversazione era sempre piacevole e imteressante". In Lombardia c’era, ancora una volta, l’epidemia di colera, e i Carcano tornarono, nella primavera del '67, a Thusis. Giulio fu richiamato a Firenze, nel consiglio dell’Istruzione, per sostituire un collega morto per il batterio. Nell'inverno del '68 e nei due anni successivi, i Carcano furono di nuovo a Bolvedro e a Tremezzo, ma nel settembre del 1870 si spostarono Locarno, in compagnia della cugina Giulietta e della contessa Teresa della Somaglia Vigoni, vedova del conte Carlo della Somaglia ed erede di una cospicua fortuna che donò in beneficenza. Il trasferimento della capitale a Roma trovò il Carcano entusiasta: "oggi è il gran giorno che chude codesta epopea di dodici anni, veramente meravigliosa per le grandi cose che si son fatte con sì modesti mezzi … non si può fare a meno di essere commossi". Nel luglio del 1871 i Carcano partitono per il sud: visitarono Firenze, Roma e Napoli. Nella capitale risiedevano nell'antica casa degli Zuccari. Oltre alle consuete visite al Campidoglio, alle Gallerie Vaticane, alle catacombe di San Callisto e alle Terme di Caracalla, i Carcano si recarono ad Albano, dove videro i solitari laghetti di Albano e Nemi e attraversarono il ponte di Ariccia. A Napoli trovarono un albergo pessimo, ma furono premiati dall'eruzione del Vesuvio e da una visita privata, a Ercolano e Pompei, organizzata dal Correnti che era allora Ministro dell'Istruzione. Alla fine del giro furono accolti nella scuola archeologica, che era stata trasformata per l'occasione in una sala da pranzo, dove era allestito un banchetto di "ostriche, vini di Capri e Salerno, pesci squisiti e altre ghiottonerie classiche". Come dessert c'era un'eccellente gelato inviato dal primo pasticcere di Napoli. All’apertura del nuovo Parlamento, Carcano si trovava a Roma con la sua famiglia e commentava il grande cambiamento in una lettera a De Gubernatis: "penso davvero essere questa vita nuova dell’Italia di cui non vediamo che il principio, una così grande e meravigliosa pagina della storia, che a noi deve bastare il dire ai nostri figli. Ci fui a quel tempo, e feci la parte mia!". Tra il '70 e il ’71 riunì in tre raccolte la sua produzione di novelle: Novelle campagnuole, Novelle domestiche, Racconti popolari. Il padre di Carcano, Vincenzo morì nel 1871 a 83 anni e Giulio diventò la figura di riferimento per tutta la numerosa famiglia, tra fratelli, cognate e nipoti. Da quell’anno il Natale si festeggiò sempre a casa di Carcano. L’impegno politico, che prevedeva frequenti viaggi, e quello letterario, indebolirono lo scrittore e i medici consigliarono di trascorrere più tempo in montagna o di provare le terme. Nell’estate del ’72 i Carcano trascorsero le loro vacanze a Recoaro per la cure delle acque. Le terapie non produssero miglioramenti, ma furono in gradita compagnia del poeta Andrea Maffei, già marito della contessa Chiara, del poeta Aleardo Aleardi, dell’abate Jacopo Zanella, del letterato Jacopo Cabianca e del marchese Francesco Cusani. L'autunno trascorso a Subaglio, vicino a Merate, non mutò le condizioni di salute dello scrittore che in Novembre decise di dimettersi dal lavoro di Consigliere a Roma. Il 30 dicembre i coniugi Carcano festeggiarono le nozze d'argento. Nel 1873 la notizia della morte di Manzoni giunse a Carcano mentre era a Pallanza e per questo anticipò il ritorno a Milano. Si muovevano quasi sempre insieme. Giulio, la moglie Giulia e la figlia Maria, uniti dal reciproco affetto e dalla curiosità per il paesaggio e l'arte. A Milano avevano molti amici, soprattutto Clara Maffei e la signora Saurina Viola. Alla domenica visitavano sempre la bellissima Guglielmina Durini, figlia del conte Pompeo Litta Biumi, lo storico delle famiglie celebri italiane, che avrebbe ritratto Carcano nel 1876. La contessa Guglielmina, che aveva sposato il conte Alessandro Durini, riceveva letterati, pittori e artisti. Nell’estate la famiglia Carcano, dopo un mese a Sestri Levante, in compagnia del signor Mylius, della moglie Eugenia e di Lodovico Melzi, tornò a Locarno. Restarono in Svizzera per due mesi, lontani da Milano, dove si stava diffondendo una nuova epidemia di colera. Giulio si ammalò e rimase quindici giorni a letto, come testimonia la lettera alla contessa Maffei. "Io mi svago un po’ col mio Shakespeare, un po’ mi arrabbio nella lunga e paziente fatica di correggere le prove di stampa del mio racconto, il Gabrio". Il racconto fu pubblicato nel 1874, come pure Camilla; nel 1882 uscì l’edizione definitiva in italiano delle opere di Shakespeare per Hoepli, un’impresa a cui Carcano lavorava da più di quarant’anni, per il quale, nel 1879, fu nominato vicepresidente onorario della Shakespeare Society di Londra, un riconoscimento che lo riempì di gioia. Nel '74 i medici prescrissero a Carcano le cure idroterapiche di Andorno, nel Biellese, dove i Carcano riallacciarono l’amicizia con la baronessa Luisa Castelli del Mayno, rivedono Carlo Tenca e Laura d'Adda. In autunno passarono qualche mese a Dongo sul lago di Como e poi rientrarono in città, dove scrisse al Correnti, "amico del cuore, il più antico che mi resti, il più buono di tutti". Nel 1875 furono a Cannobio e in agosto organizzarono con il medico militare Maffioretti una gita al Sempione e a Ginevra. "Mi rimase una profonda impressione della fermata all'ospizio", annotò Giulia sul suo diario. "È questo un edificio grande e massiccio che da tanti anni resiste alle valanghe ed alla tormenta. Vi abitano i frati Agostiniani, ma pochi vi resistono a lungo pel clima; si cambiano poi con altri del convento di Sion. Essi danno alloggio gratuito per tre giorni a tutti i passeggeri, ma le persone agiate danno un'elemosina nella cappella, che equivale al vitto e alloggio in un albergo di seconda classe. Vedemmo colà alcuni di quei bellissimi cani della razza di San Bernardo, tanto benemeriti per salvare chi è sorpreso dalla neve". Passarono una bella serata, grazie a una cena squisita e abbondante, innaffiata da uno squisito vino del Vallese e a un concerto al pianoforte, dove Giulia intrattenne gli ospiti suonando la Norma di Bellini, mentre fuori dalle spesse mura la bufera scendeva dal Monte Leone avvolgendo d'aria gelida l'antico edificio. Il Correnti propose la nomina di Carcano a senatore, che fu firmata il 15 Maggio 1876. Proprio in quell’anno i Carcano approdarono finalmente a Lesa. Su consiglio del senatore Gaspare Cavallini, che Carcano aveva affettuosamente soprannominato "l'ortolano" per la passione botanica, avevano infatti acquistato un’"umile casuccia" in paese, vicino alla parrocchiale di San Martino, "all’ombra del feroce campanile". Durante la ristrutturazione furono gentilmente ospitati da Stefano Stampa e divennero amici del solitario conte. Nell’estate del 1877 "cominciammo ad abitare la villetta di Lesa", scriveva la moglie, "ed in breve tempo si conobbero molte famiglie del paese ... Qui sul lago gli abitanti sono intelligenti, ma dedicati alla vita dei pescatori e dei boscaioli, e più ancora all’industria ed alle speculazioni e la campagna è molto trascurata". Il custode della villa, che si chiamava Giovanni Lanzetti, teneva in ordine il giardino e talvolta cucinava. Si avvelenò per errore disinfettando la sua uva con il solfato di rame. Nel volume Elvezia. Sul Verbano Carcano pubblicò i sonetti, sciarade, enigmi, indovinelli e logogrifi. Nel 1878 aveva scritto un sonetto dedicato a Lesa: Vedi, ove lento al sol della mattina, s’incurva il primo fianco del Verbano, l’umil casetta nostra, in su la china, siede quïeta e guarda il ciel lonteno. Qui l’anima riposa e pellegrina, nell’äere infinito il plauso insano, obblìa del mondo, e a Dio più s’avvicina; il cor qui sente che non batte invano. E, nella stanca età, d’una novella, stagion, d’un cielo più seren di questo, la fé risorge, come un casto fiore. O mia compagna, tu sarai mia stella, sino all’ultima sera, nel modesto asil che Dio concesse al nostro amore. Nell’estate del 1878 i Carcano andarono per quindici giorni in Svizzera, dove fecero un’escursione dalla Val Blenio al selvaggio passo del Lucomagno. Non mancò la tradizionale escursione al Rigi, la regina delle cime svizzere. Così Giulia ne femò il ricordo sul suo diario: "Arrivati all’albergo (Rigi Staffel Külm) ci trovammo avvolti in una nebbia bianca, fitta, senza spiragli di sereno. Ci coricammo un po' scoraggiati, quando, alle quattro del mattino, sentiamo bussare alla porta e ci avvertono che il tempo è bellissimo! Era l'alba di un giorno sereno e una splendida stella sfavillava verso oriente. Dalla più alta cima (Kulm) si vide il sole alzarsi sfolgorante: sempre nuovo e stupendo spettacolo. Solo guastavano alquanto la poesia di quel momento le figure esotiche o grottesche degli spettatori, le bottegucce di ninnoli di legno, e gli avvisi colossali della terra rotonda, appiccicati agli alberi, ed anche agi scogli lungo la via. Nel sonetto di Giulio “Sul Rigi” è descritta quest’alba incantevole (nel volumetto “Elvezia”)". Da Lucerna passarono nell'Oberland bernese. Giulia rammentava"l'impressione di terrore lasciatami dal ghiacciaio di Grindelwald, dove si passa sul ponte della Luschina e il vento s'ingolfa impetuoso in quei burroni e di entra in una galleria scavata nel ghiaccio, dove, stendendo le mani alle pareti, le sentii scivolare, e temevo che quell'azzurra grotta dovesse inghiottirmi!". Ai soggiorni di Lesa Carcano alternava le cure termali ai bagni arsenicali di Roncegno, in Tirolo. Nell’agosto del 1881 furono tutti e tre, per due settimane a Fusio, in Val Maggia, con la moglie e la figlia, che era in convalescenza per una bronchite. Gli piaceva la "solitudine maestosa" del luogo, "tra montagne e torrenti e boschi di larici, d’abeti e di superbi faggi". Da lì visitarono la nuova galleria del Gottardo, "che mostra quanto puà ardire l’umano ingegno, e che i miracoli della scienza sono quanto una sublime poesia". Tornarono a Lesa, nella quiete del suo "eremo", a ritoccare la traduzione del Libro di Tobia della Bibbia. In ottobre tornò a Milano per le elezioni, ma in città fu aggredito da tre mascalzoni che, avendolo visto con il cilindro in testa, gli diedero dei pugni sul copricapo. "Oh avessi potuto rompere sulle loro spalle la mia canna d’India"!, scrisse, arrabbiato, alla moglie. Nel ‘81 uscì la novella campagnola Dolinda di Montorfano. Furono a Roma in dicembre, ma la figlia Maria si ammalò di morbillo. In seguito a una malattia ai bronchi, i medici consigliarono a Maria di trascorrere la convalescenza in montagna e i Carcano scelsero il paese di Fusio in Val Maggia, dove la figlia restò con la madre, mentre Giulio era trattenuto a Milano. Maria "risanò come per incanto. Si passeggiava in una vicina foresta di abeti altissimi, traversando ogni tratto piccoli torrenti su ponticelli di legno. Un altro bosco dominava il paesello e lo riparava dalle valanghe; era perciò proibito di toccare neppure un virgulto di questo, che si chiamava "il bosco sacro". Entrandovi vi si vedevano, in mezzo ai tronchi dritti degli abeti, enormi ceppaie che avevano figure di mostri antidiluviani". La salute di Carcano era precaria e decise di trascorrere il tempo che gli rimaneva sul Lago Maggiore, con la moglie e la figlia. Nel 1883 Carcano fece le cure termali ai bagni di Vetriolo, ma il suo stato non migliorò. "Sono debole e fiaccato più che mai; e trascino a fatica la persona in un breve passeggio ogni giorno, scriveva alla sorella. È finita! Per quest'anno, addio Roma, addio la speranza di stringere la mano ai vecchi amici". La morte del fratello minore Giuseppe fu un altro duro colpo. L'anno dopo, a causa della quaratena per la diffusione del colera, i Carcano restarono in Piemonte e visitarono la Val Vigezzo, ma l'aria fredda e il viaggio lungo e faticoso indebolirono ancor di più lo scrittore. Si spostarono a Vocogno, in una vallata alpina bellissima e poco visitata, dove a Carcano venne voglia di dipingere, come vedeva fare alla figlia Maria. Il paese lo trovava molto bello, circondato di antichi e maestosi castagni, e poi faggi, pini e larici. Tornarono a Lesa dopo ferragosto e da lì Carcano scrisse all'amico fraterno Correnti, augurandosi di rivederlo presto sul lago. L'ultima lettera è da Lesa, datata 22 agosto. "Sono ancora affranto e assai debole, né so quando potrò riavermi". Il 24 ricevette la visita di Stefano Stampa che gli lesse parti del suo manoscritto Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici. Poi si mise a letto alla quattro e non si rialzò più. Venne il Correnti, che gli portava, oltre al suo affetto, i saluti del re. Carcano morì il 30 agosto. I funerali si celebrarono nell'amata chiesa di San Martino il primo settembre, al tramonto. Accanto alla bara coperta di fiori camminavano, verso il cimitero, il Correnti e il Cairoli. Sulla sua tomba pregarono insieme la moglie, "stella fino all'ultima sera" e la figlia Maria, "dell'arida sua landa unico fiore". La vedova ricevette il 2 settembre una lettera da Verdi: "L'improvvisa notizia che mi viene comunicata mi spezza il cuore! Uno degli amici più antichi e sinceri è partito da noi! ... Piangiamo insieme la morte di questo sant'uomo che fu non soltanto egregio poeta ma modello di virtà cittadine e domestiche. In un primo momento si pensava di trasferire le spoglie dello scrittore nel Cimitero Momunentale, accanto al Manzoni, poi il Comune di Lesa donò un sarcofago in granito e marmo bianco. Accanto all'entrata della Biblioteca Braidense a Milano fu posta, il 7 gennaio 1886, un'erma commemorativa, dedicata al Carcano con un'epigrafe dettata per l'occasione dal Correnti: A Giulio Carcano, intelletto d’amore, poeta intemerato, pittore efficace della vita popolana, degno interprete di Shakspeare (sic), nato in Milano il 7 Agosto 1812, di casa illustre, morto a Lesa il 30 agosto 1884 nelle sue speranze invitto. Ruggiero Bonghi, nel ricordare l’amico scrisse: "Egli visse, come tant’altri ingegni, grandi e soprattutto buoni, dei tempi suoi, in una sperata armonia di ogni cosa; e non disperò mai. Coll’ala pura dell’’anima toccava terra appena, e la raggentiliva col suo sorriso; tanta e così dolce era l’idealità d’ogni suo sentimento. e parola! Non seppe odio che fosse; e niente amò, che non fosse degno di amore. L’ingegno non gli parve scusa e nessuna esorbitanza di pensiero, di atto; gli parve e gli fu ragione di virtù modesta e costanta, nel seno della famiglia, davanti a Dio, alla Patria!". Dopo la sua morte il Comune di Lesa dedicò una via allo scrittore, murò una targa sul muro esterno della casa e, nel 2005, gli intitolò la bibioteca. A Lesa rimasero la moglie Giulia e la figlia Maria, che si dedicarono a ordinare la corrispondenza di Carcano. "Ci dedicammo ad onorare la memoria del nostro carissimo e farlo quasi rivivere far noi", scrisse Giulia sul diario. L'epistolario uscì nel 1887 pubblicato da Hoepli. Alla loro morte la vedova Giulia, nel 1906, e anche Maria, che morì nel '28, vennero sepolte nella tomba di famiglia. I discendenti di Carcano donarono al Comune documenti, ricordi personali e familiari e l’arredo dello studio con i volumi della biblioteca. Questi preziosi materiali sono attualmente “ospitati” nella Sala Manzoniana di Palazzo Stampa, che fu allestita nel 1979 con lo studio di Carcano, oltre a cimeli e documenti del Centro Nazionale di Studi Manzoniani a Milano e dal Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa.