Piero Mioli La musica e le muse 1. Corollari e altro - 2. Sulle scene musicali - 3. Aria di canto e di vita - 4. Sulle scene di parola - 5. Da ballo - 6. Figurativamente - 7. Al cinema - 8. Romanzi illustrati - 9. Fotografia e verità - 10. I libri 1. Corollari e altro Quando s’apre il suo ideal sipario, Senso comincia con una scena del Trovatore. Ma non si tratta solo di un magnifico pezzo d’opera inserito in un gran bel film: attorno alla pellicola girata da Visconti nel 1954 e ambientata nel Veneto durante il 1866, infatti, ruota tutt’un pullulante mondo d’arte e di vita, che è prima cinematografico, poi musicale e anzi operistico, quindi figurativo e quanto meno pittorico, infine e forse soprattutto storico, civile e largamente umano. Immancabile, la vicenda privata, amorosa e disperata della contessa Livia Serpieri e del tenente austriaco Franz Mahler s’intreccia con una vera storia pubblica e nazionale, che rappresenta il destino di una certa società, ovvero il crollo della parte più conservatrice dell’aristocrazia italiana, e in particolare dà spazio alla battaglia di Custoza, famoso episodio della terza guerra d’indipendenza e cocentissima sconfitta italiana. Intanto, se alla Fenice di Venezia un tenore cantava «Di quella pira» (e finiva squillando sulla parola «Allarmi» con il chiacchieratissimo e doppio Do di petto), un patriota gettava dei volantini antiaustriaci dall’alto dei palchi del teatro. E la famosa battaglia, concepita sulla falsariga della famosissima battaglia di Waterloo descritta da Stendhal nella Chartreuse de Parme, era poi realizzata nello stile di sensibili pittori macchiaioli come Silvestro Lega e Giovanni Fattori, e anche avvalorata da una fotografia eccellente. Nella colonna sonora compare anche, e piange sconsolata, la musica di Bruckner, dalla sinfonia n. 4 detta Romantica; il soggetto deriva, molto liberamente, da un lungo racconto di Camillo Boito, l’ultimo della serie di Nuove storielle vane del 1883; alla sceneggiatura avevano contribuito, con Suso Cecchi D’Amico, Giorgio Bassani, Tennessee Williams e Paul Bowles. E il teatro ripreso, non è quella smagliante Fenice di Giannantonio Selva che sorse nel 1792, poco prima della fine della Serenissima, e fatta e rifatta nel tempo è ancora un esemplare della maggior architettura teatrale d’Europa? Ce n’è abbastanza, insomma, per poter decorare il monumento storico dell’anno 1861, fra il lungo Risorgimento italiano e l’adolescenza dell’Unità d’Italia, con i numerosi elementi della musica e dell’opera, del teatro e del ballo, delle arti figurative, del cinema, di alcuni altri fenomeni tra i tanti possibili come l’illustrazione editoriale e la fotografia. Dunque in un percorso che intenda celebrare l’unità del paese muovendo da più angolazioni storico-bibliografiche, accanto a un settore meno noto ma non meno robusto come quello della scienza è sembrato opportuno raccogliere altri e disparati settori. Si tratta spesso di appendici, di corollari, appunto di decorazioni, secondo quel principio di uso o funzione che impegna molte arti, discipline, materie, esperienze a supporto pressoché esclusivo della civiltà e dell’umanità. Nondimeno, si tratta spesso anche di arte vera e propria, di un’estetica della più bell’acqua che si lascia comprendere dalle chiose dei dati storici ma anche apprezzare, e in fondo comprendere ancora meglio, dall’assolutezza dei suoi valori. Una sola riserva: così ampia e sfaccettata, la trattazione non sembri troppo ambiziosa, ché anzi, a parte il settore della musicologia che è quello nel quale lo scrivente usa esprimersi, alle sue origini sta una semplice e forse anche disarmante forma di dilettantismo. E appena due le segnalazioni bibliografiche di portata generale: pubblicato nel 1992, Risorgimento. Mito e realtà è un agile catalogo di mostra che ha cercato di superare le consuete barriere tematiche; invece L’Unità d’Italia nell’occhio dell’Europa è il singolare quaderno-guida dell’omonimo congresso internazionale tenuto a Torino e Moncalieri dal 15 al 19 settembre 2011 che, organizzato dal C.I.R.V.I. (Centro Interuniversitario di Ricerche sul Viaggio in Italia), agli atti consegnerà i testi di 63 relazioni. 2. Sulle scene musicali Così incisiva da far conoscere ai pubblici più svariati e anche meno alfabetizzati l’arte complessa e straniera di titani come Shakespeare e Goethe, la musica drammatica, quell’unica che meriterebbe tale definizione e invece deve accontentarsi di esser musica “lirica”, a quel centro storico dell’Ottocento italiano che è il Risorgimento non può non aver dato un contributo di immediato rilievo; e da sempre lo sa la bibliografia, che nemmeno volendo, nemmeno puntando fieramente sugli aspetti estetici potrebbe perdere di vista quelli, per così dire, contingenti. Nell’Ottocento, dunque, si mettevano in scena gli incontri, gli amori, le morti di Giulietta e Romeo o di Faust e Margherita, e non si potevano affiancare loro gli ardori, i gesti, le vincite o le perdite di Macbeth e di Amleto? o anche, per estendere il discorso ad altri scrittori come Schiller, Scott e Hugo, le analoghe passioni e azioni di Guglielmo Tell, Ivanhoe ed Ernani? Nel 1948, cent’anni esatti dopo il mitico Quarantotto, fu il giovanissimo Raffaello Monterosso, prossimo docente all’Università di Pavia (nella sede specifica di Cremona) e gregorianista d’alta specie, a pubblicare una pionieristica e voluminosa Musica nel Risorgimento, che ha rivisto la giusta luce della stampa a distanza di 63 anni, nel 2011 festeggiandosi l’Unità della nazione. Da questo libro, molto più che da ogni lavoro dedicato al melodramma italiano o ai singoli operisti (meglio dei quali, forse, potrebbero servire i diversi cataloghi nudi e crudi che almeno sciorinano tutti i titoli d’opera), è possibile trarre tutti gli spunti necessari a lumeggiare il rapporto intercorso fra la musica e il Risorgimento. Dei cinque capitoli il primo tratta della Filosofia della musica di Mazzini, il secondo dà notizia di varie manifestazioni musicali del Risorgimento, il terzo s’incentra sugli inni patriottici e sui canti popolari, il quarto trascrive e commenta i casi di patriottismo evidenti nell’opera, il quinto conclude con Verdi e il Ballo in maschera del 1859 cui applica una ricerca analoga. E a parte qualche ingenuità, come quella di credere che Mazzini sia stato il profeta di Verdi (il patriota sopravvisse 36 anni al suo scritto e al proposito non si pronunciò mai), la trattazione si può davvero dire completa, fra l’altro essendosi avvalsa di una revisione non sostanziale dell’antico testo e per questo non avendo voluto aggiornare la bibliografia. In fondo, per l’appunto, è da quando ha cominciato a diffidare della mitologia e della storia antica che il teatro d’opera, preparandosi al balzo dal Classicismo al Romanticismo, ha voluto far posto a vicende medievali e moderne, sempre appassionate d’amore ma spesso anche di lotta, riscossa, libertà. L’ultima opera seria di Mozart era stata La clemenza di Tito, dai Dodici Cesari di Svetonio, ma la prima importante di Rossini è Tancredi, da Voltaire, dalla Sicilia dell’XI secolo, dall’ostinato contrasto fra siracusani e saraceni (e anche due fazioni di siracusani). Così quel Rossini che si definì sempre all’antica, e che tutto sommato rimase sempre un convinto classicista, non si limitò a ridere e sorridere con una cambiale di matrimonio, un barbiere andaluso, una pupilla di tutore e una maledetta gazza ladra, ma nell’ambito del genere serio seppe raccontare vicende di oppressi e oppressori, gli ebrei e gli egiziani di Mosè, gli scozzesi e gli inglesi della Donna del lago, i greci e i mussulmani dell’Assedio di Corinto (nel 1826, proprio durante l’infuriare della guerra d’indipendenza greca), gli svizzeri e gli imperiali di Guglielmo Tell; e anche a Isabella, la protagonista della comica Italiana in Algeri, Rossini aveva fatto cantare «Pensa alla patria, e intrepido / il tuo dover adempi». Una patria ideale o letteraria, d’accordo, alla maniera di Petrarca e Leopardi, ma nel 1813, a campagna di Russia terminata e fallita, anche questo significava parecchio: in tedesco se ne occupa Martina Grempler (1996), quasi rinfacciando alla musicologia italiana, pure abbastanza attiva sull’arte dell’autore, poca solerzia specifica. Certi spunti di Rossini, dei suoi librettisti spesso ispirati a notevoli fonti straniere, si moltiplicarono nei successori cosiddetti rossinisti, che pur alimentandosi a limpide forme più o meno classicistiche insistettero regolarmente con gli eterni popoli vinti e vincitori levati ad altezze vertiginose dall’Adelchi di Manzoni, anche grazie a una coralità che per un paio di secoli era stata brutalmente emarginata dal dramma per musica. Ecco dunque, fra l’altro (e sarebbe tanto, quest’altro) andare in scena i galli e i romani della Norma di Bellini, i portoghesi e gli spagnoli del Dom Sébastien di Donizetti, i vecchi latini e romani degli Orazi e Curiazi di Mercadante, e con Verdi gli ebrei e i babilonesi di Nabucco, i cristiani e i saraceni dei Lombardi alla prima crociata, i francesi e gli inglesi di Giovanna d’Arco, i peruviani e gli spagnoli di Alzira, i romani e gli unni di Attila e così via. Per tacere, circa Bellini e Donizetti, dei titolari dei Capuleti e Montecchi o dei Lambertazzi e Geremei di Imelda de’ Lambertazzi, famosi nemici d’ambito cittadino ma non meno intriganti degli altri se non per altro perché già italianissimi. Bibliograficamente, ammesso a malincuore il silenzio ricaduto su Bellini, s’hanno da segnalare l’originale saggio di Antonio Caroccia su Donizetti e il Risorgimento, intitolato addirittura all’inno di Mameli (2009), e il prezioso volumetto sulla coralità patriottica di Verdi scritto da Roger Parker (1996) in un contesto effettivamente da sempre attento alla questione; sull’ambiente musicale italiano coevo al Risorgimento conta sempre il libro di John Rosselli (1992), che non a caso titola «Sull’ali dorate» (il secondo emistichio di «Va pensiero»). Non infrequente, infine, il coretto che Mercadante intonò nella peraltro innocua Caritea regina di Spagna di Paolo Pola, divenuto così popolare fra i patrioti che anche i poveri fratelli Bandiera lo cantarono prima di esser fucilati, a S. Giovanni in Fiore di Calabria nel 1844: Chi per la patria muor vissuto è assai; la foglia dell’allor non langue mai. Piuttosto che languir sotto i tiranni, è meglio di morir sul fior degli anni. Ma dunque Verdi. Era nelle stesse vicende scelte, pur spesso lontane nel tempo e nello spazio, che s’annidavano il senso della patria malconcia e l’anelito alla liberazione: espliciti nei cori, diventati spesso popolarissimi come «Va pensiero» (degli ebrei incatenati da Nabucodonosor) e «Patria oppressa» (dei profughi perseguitati da Macbeth), ma anche nelle arie e negli assiemi, come nel duetto fra il romano Ezio e il barbaro Attila («Avrai tu l’universo, / resti l’Italia a me») o nella cabaletta di un Foresto nemico di Attila («Cara patria, già madre e reina»). E lo stesso coro di Ernani, cantato dai congiurati contro Carlo I re di Spagna tosto Carlo V imperatore, prima sussurrando e poi rinforzando «Si ridesti il leon di Castiglia», era in grado di alludere a ben altro, dal 1844 della prima veneziana a tutti gli anni Quaranta e Cinquanta (a Bologna e nelle Romagne il finale del terzo atto cambiò sfacciatamente, da «A Carlo Quinto sia gloria e onor» a «A Pio Nono sia gloria e onor»). Ancora in tedesco, è stata Birgit Pauls a trattare del «mito politico» di Verdi nel processo della nascita d’Italia (1996), poco dopo un più analitico contributo in inglese di John Patrick Rindo (1984). Più recentemente Paola Ciarlantini ha chiuso un volume a diverse mani sull’identità nazionale e continentale fra Sette e Ottocento (a cura di Anna Ascenzi e Laura Melosi) con un saggio intitolato Viva V.E.R.D.I. (2008). Ma a ben vedere nessuna attendibile trattazione del teatro verdiano ha mai inteso sorvolare su questi fenomeni chiari come il sole, dalla profondità di Massimo Mila alla diligenza di Julian Budden, dall’acutezza di Gabriele Baldini all’edizione poetica curata dallo scrivente (ivi autore anche del lungo saggio Dramma e melodramma che perlustra tutti i libretti). Recente d’età e brillante di colore, infine, è l’ennesima fatica specifica di Gustavo Marchesi, VIVA V.E.R.D.I. Il suono del Risorgimento (2011), che s’avvale di una prefazione di Alberto Bevilacqua: un originale formato leggermente oblungo racconta e commenta quell’ulteriore verdianità con quaranta magnifiche illustrazioni a tutta pagina, che ha potuto trarre dal cospicuo patrimonio fotografico del Regio di Parma. E la censura? attentissima a evitare parole riguardanti chiese, preti e sesso, davanti a certi casi di personaggi d’opera cantanti l’amor di patria e libertà la censura lasciava correre, trattandosi di una passione certo forte ma applicata a datati e ormai innocui romani e barbari, guelfi e ghibellini, spagnoli e fiamminghi; e interveniva soltanto in casi clamorosi e a loro modo sfacciati. Circa Verdi, questi casi sono La battaglia di Legnano, dramma nato a Roma durante l’effimera Repubblica Romana del 1849 e altrove rimasto intatto di musica ma travestito di libretto, appellandosi per esempio L’assedio di Arlem (ma anche la francese Giovanna d’Arco divenne remota Orietta di Lesbo), e Les vêpres siciliennes di Parigi, che in Italia, prima di tradursi bene come I vespri siciliani, cambiarono assai in Giovanna di Gusman. Vicenda a parte, travasando i francesi oppressori dei siciliani in spagnoli oppressori dei portoghesi, parole o espressioni poi definitive come «vendetta», «morte», «urlo del cuore» e «patria adorata» si smussarono rispettivamente in «nuovo cimento», «odio», «grido del cuore» e «terra adorata». 3. Aria di canto e di vita Dal cavalleresco Tancredi di Rossini agli epici Vespri siciliani di Verdi, ecco dunque alcuni casi e aspetti del contributo dato dal teatro lirico alla causa nazionalistica, che ovviamente andrebbe illustrato anche con i contributi personali dei singoli responsabili del genere, di molti fra quelli citati e poi di numerosi altri, musicisti come Giuseppe Apolloni e Michele Novaro, librettisti come Carlo Pepoli e Temistocle Solera, cantanti come Maria Malibran, Giulia Grisi e Mario Matteo de Candia. Se i grandi cantanti godono di buona bibliografia, i librettisti anche migliori e i musicisti minori piangono assenze e lacune, invece, così come, relativamente al teatro d’opera, la maggioranza di quegli scrittori, narratori o drammaturghi, che hanno dato varia testimonianza del genere. Una gradita presenza, fra questi ultimi, è la famosa compagna di Chopin, personaggio notoriamente battagliero su molti fronti e quindi anche su quello della responsabilità sociale e civile. Lo dimostra un libro dal titolo lampante. George Sand, la musica e il Socialismo (2008) è una corposa raccolta di saggi che diventa una profonda indagine su buona parte della storia musicale, letteraria e politica d’Europa del primo e medio Ottocento, a cominciare proprio dalla protagonista. Donna spregiudicata, intellettuale a tutto campo, narratrice di successo, conoscitrice e scrittrice di musica, personalità romantica e democratica quant’altra mai, la Sand amò la musica colta come la musica popolare, il pianismo di Chopin come le anonime canzoni delle strade e delle campagne francesi e straniere. Il volume prende avvio da un lungo e documentatissimo saggio della curatrice Mariantonietta Caroprese che, già pubblicato su «Musica/Realtà» nel 2006 ma rivisto per l’occasione, studia le fasi dell’impegno politico di Aurore Dupin, specie nel momento di maggior intensità che fu proprio quello del rapporto con Chopin; e poi comprende fra l’altro diversi scritti musicali della signora ribattezzata a piacer suo come lettere, questioni varie, il celebre Contrebandier, ampi stralci dai romanzi d’argomento musicale (Le compagnon du tour de France, Consuelo e Les maîtres Sonneurs) che sono sempre specchi della società e spesso anche delle sue aspirazioni libertarie. Noto soprattutto come destinatario di un canto dell’amico Leopardi, Carlo Pepoli sembra riassumere parecchio dell’intricato rapporto fra opera e biografia d’ambito risorgimentale: patriota ed esule a Parigi, il conte bolognese fornì a Bellini il libretto dei Puritani che nel 1835 trionfarono a Parigi, certo non solo ma anche grazie al duettone dei bassi cantanti «Suoni la tromba, e intrepido / io pugnerò da forte, / bello è affrontar la morte / gridando libertà». Intanto una versione destinata al S. Carlo tagliava tutto il pezzo e la prima versione tradotta in italiano cantava piuttosto «gridando lealtà» (sempre per prevenire penne censorie); e poi l’opera, rappresentata insieme al Marino Faliero di Donizetti, doveva dare esca alla vena dell’esule per eccellenza, Giuseppe Mazzini, che l’anno dopo avrebbe pubblicato la fondamentale Filosofia della musica. Il futuro della musica, si chiese il primo dei patrioti italiani, e cioè del melodramma, qual era? impossibile superare l’arte di Rossini, possibile e anzi auspicabile aggiornare il genere facendolo più «religioso» e cioè responsabile, maturo, insomma sensibile agli ideali del Risorgimento. Notevole la bibliografia sul tema: già pubblicato sulla rivista «L’italiano», il trattatello scritto con grande padronanza della lingua e invero anche con qualche fumo storico-musicale (quello che esalta l’epopea dell’Anna Bolena di Donizetti e misconosce i detti Puritani) è stato ripetutamente ristampato con saggi e commenti, a cura di Adriano Lualdi (1954), Marcello De Angelis (1977), Stefano Ragni (1996); ed è a Ragni, pianista e divulgatore, che si deve la più frequente esegesi musical-mazziniana d’oggi, fino a un volume molto comprensivo del 2008. A Verdi Mazzini chiese la musica di un coro patriottico, non da scena e nemmeno da concerto ma proprio da battaglia, da azione popolare, da vita quotidiana, sul testo «Suona la tromba» scritto da Goffredo Mameli (Verdi obbedì, e spedì una musica che però non convinse e quindi non ebbe seguito). Era lo stesso Mameli del Canto degli italiani evocante «Fratelli d’Italia», musicato nel 1847 e destinato a immensa popolarità, fino a diventare, nel 1946, l’inno nazionale italiano (ancora ufficioso, tuttavia) immediatamente riconoscibile e riproducibile da chiunque. Buona o cattiva che sia, è musica funzionale, strumento di altro, elemento di propaganda, e rimane il pezzo di gran lunga più fortunato di una serie molto numerosa di inni che in tutta fretta si scrissero, musicarono, stamparono, diffusero e cantarono negli anni Cinquanta, poi in parte cancellati dagli austriaci di ritorno. Ma in parte anche rimasti e conservati, a rappresentare il versante non d’arte bensì d’uso della musica italiana di ispirazione risorgimentale. Agilmente ma efficacemente, se ne occupano Aldo Nicastro e Pier Giuseppe Arcangeli in un fascicoletto del 2011 intitolato Rataplan!, e certo non solo in ossequio al mezzosoprano della Forza del destino. Fatta l’unità, oltre ai soliti e faticosi italiani forse che bisognava fare anche una nuova musica italiana, nuova nel senso di tematiche adatte alla nuova nazione? Verdi fu deputato e senatore del regno, come del resto Pepoli e certi altri, perspicui fautori del Risorgimento nei diversi ranghi delle arti (solo Mazzini se ne rimase in sdegnosa disparte, repubblicano quant’altri mai, eterno sognatore e alla fine disilluso). Verdi stesso, che già dopo La battaglia di Legnano s’era dato una calmata intonando piuttosto vicende personali di buffoni, trovatori e cortigiane, dall’unitario 1861 non diede più prime operistiche in Italia fino al rifatto Simon Boccanegra di vent’anni dopo, e quando assai più tardi tornò alla Scala, preferì agitare un dramma ancora privato come quello di Otello e schizzare una burla colossale ma innocua come quella di Falstaff, mentre i suoi epigoni o successori, scapigliati o veristi o altro che fossero, ripiegavano su vicende personali o anche spettacolari ma senza troppo o alcun impegno civile. Costoro erano Ponchielli, Boito, Catalani, Leoncavallo, Puccini, Mascagni, eloquenti con La Gioconda, Mefistofele, Loreley, Pagliacci, Manon Lescaut e Cavalleria rusticana ed esultanti di pura o anche impura passione amorosa ma nient’altro. Insomma no, non si venne a formare una nuova musica d’opera d’impianto celebrativo e nazionalistico. In particolare ai Savoia non capitò quanto, nei tempi, era capitato a sovrani come i Tudor, gli Stuart, gli Asburgo, i Borboni, messi in musica con opere intitolate o allineate a Elisabetta d’Inghilterra, a Maria Stuarda, a Filippo di Spagna, a Luigi di Francia. All’uopo, in un contesto che invero è ancora da dissodare e almeno ha il vantaggio del dizionario biobibliografico di Andrea Sessa appunto esteso fra il 1861 e il 1900 (2003), si dà un caso curioso, quello di Emanuele Filiberto, melodramma tragico in tre atti di Temistocle Solera musicato da Angelo Villanis, rappresentato a Venezia nel 1859 e come libretto pubblicato a Torino nel 1863. Vi si celebra la figura del primo regnante che, vissuto fra il 1528 e il 1580, desse unità e gloria ai diversi feudi del ducato di Savoia disteso tra Francia e Italia, portando la capitale da Chambéry a Torino e soprattutto vincendo la battaglia di S. Quintino, decisiva alla vittoria di Carlo V su Francesco I. E l’amore? Amava Bianca di S. Remy, il reduce protagonista, ma nel corso dell’intreccio la lascia a un amico che ne è legittimo fidanzato, e pure a malincuore accetta le nozze con la principessina di Francia onorando appieno la ragion di stato e la ragion di storia. Nel bel mezzo dell’opera, un coro canta tutte le virtù del montanaro della Savoia, che all’occorrenza pianta in asso boschetti e pecorelle per andare a combattere e vincere. Ma se di guerra grido si effonde, ei la sua terra giura salvar. Sul muro appende la sua ghironda, il ferro prende, corre a pugnar. Popolare strumento a corda, la ghironda era appesa la muro? anche alla sua nobilissima arpa d’oro il coro di Nabucco chiedeva perché muta pendesse dal salice. 4. Sulle scene di parola Quante volte s’è detto e scritto che la letteratura italiana, perennemente affetta da Classicismo, al teatro non ha dato molto di più che Goldoni, Alfieri, Manzoni e Pirandello, almeno ai livelli, per esempio, di Molière, Schiller, Byron e Hofmannsthal; e quante volte s’è provato a rispondere che, non dovendo per forza il teatro coincidere con la letteratura, la patria di Monteverdi, Scarlatti, Rossini e Verdi e inventrice del melodramma aveva quest’altra forma e non certo inferiore di teatro. Nondimeno s’esagerava, facendo coincidere il tutto con una poesia alta alla stregua di Shakespeare, Racine, Goethe, Hugo. No, il teatro è anche spettacolo, costume, società, e anche senza lambire i vertici di Mirandolina, Saul, Adelchi, Amleto, Fedra, Faust, Manfred, Cromwell e colleghi di scena, durante l’Ottocento non ha mancato di dire una sua parola prossima o addirittura interna alla causa della riscossa se non proprio del Risorgimento. Semplice, tutto sommato, il percorso, dal Romanticismo alla Scapigliatura e dal Verismo al Naturalismo, con la tragedia che cade a picco e la commedia che diventa un dramma borghese quasi sempre sospeso fra serietà e comicità o quotidianità. Autori tragici, a prescindere dal Manzoni dell’Adelchi (il picco in sù), sono Carlo Tedaldi Flores, Carlo Marenco, Silvio Pellico, Giambattista Niccolini, Pietro Cossa (con l’appendice del dramma per così dire spettacoloso rappresentato da Paolo Giacometti), non di rado trapassati dagli stessi sentimenti generosi e libertari degli operisti. Nella nuova commedia, genere già di per sé indifferente a tanta tematica, si esprimono invece Alberto Nota, Tommaso Gherardi del Testa, Giovanni Giraud, Francesco Augusto Bon, Paolo Ferrari, Achille Torelli, Vittorio Bersezio, Luigi Capuana, Giovanni Verga, Nino Martoglio, Salvatore Di Giacomo, Carlo Bertolazzi, Giuseppe Giacosa, Giacinto Gallina, Marco Praga, Enrico Annibale Butti e Roberto Bracco. All’uopo, bibliograficamente, in tanta vastità manualistica non fa una grinza la sintesi di Brockett, che su parecchie centinaia di pagine (fin dall’antico Egitto, forse con un po’ di enfasi) al teatro italiano del secondo Ottocento dedica un paragrafetto di tre: affatto taciuta la tragedia, nell’ambito della commedia capita che al nuovo ordine, per così dire, indotto dall’unità del paese corrisponda un certo disordine dì organizzazione teatrale, onde alle disciolte compagnie stabili subentrano prima delle compagnie nomadi, semplicemente monofamigliari oppure d’ambito maggiore e impostate sopra tre o quattro prim’attori di vaglia, e poi delle compagnie altrettanto nomadi ma accentrate sulla figura di un prim’attore di personalità, capacità e autorità straordinaria. E sono i casi di Adelaide Ristori, Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi, che spopolano in Italia e anche all’estero, con tournées lunghe e trionfali. Il repertorio? quello nuovo consta in particolare di Ferrari, Giacometti e Bersezio, mentre quello vecchio vanta Dumas, invero più recente che antico, e due inguaribili despoti della scena come Goldoni e Shakespeare. Non sono poche, in Italia, le buone storie del teatro, a cominciare dai classici, capaci, ovviamente disinvolti manuali di Silvio D’Amico e Mario Apollonio per finire con robuste raccolte di saggi specialistici il Teatro e spettacolo di Laterza e la Storia del Teatro moderno e contemporaneo di Einaudi. Mentre quelli tendono molto a un teatro più letterario e artistico che spettacolare, contingente, materiale (com’è logico per studiosi antichi di formazione spesso crociana o comunque classicistica), queste scendono molto nei nuovi particolari solitamente ignorati o trascurati. Opera di Roberto Alonge e sesto dei dieci volumetti Laterza, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento (1988) è una trattazione vivacissima che non dimentica mai né la cornice social-civile né le contaminazioni con il teatro musicale: dei quattro capitoli, il primo titola Il grande attore è un tenore, il secondo passa all’avvento della regia, il terzo individua La nascita di una nazione, il quarto becca perfino i trafficanti e gli esattori delle tasse. A più mani, Il grande teatro borghese (2000) che costituisce il quarto degli otto volumi Einaudi ospita una cinquantina di pagine sul «grande attore» e «mattatore»: Gigi Livio prima definisce il tipo umano e professionale, poi descrive «il mercato del teatro e i gusti del pubblico», quindi si lancia nella selva dei nomi dividendoli in generazioni e divaricandosi fra la Ristori ed Eleonora Duse. Prima di Livio, Claudio Meldolesi s’era occupato di un teatro romantico adolescente, in rivalità con l’opera, tentato dalla miseria, sospeso fra l’umiltà dei pupi e l’aulicità del Niccolini, variamente rapportato alla sua epoca storica e sublimato da uno straordinario attore e patriota come Gustavo Modena. Devoto a Sofocle (Edipo re) e Alfieri (Saul) come a Mazzini, a un’idea di repubblica, a un’estetica di teatro realistico e civile, l’artista veneziano scomparso nel 1861 a 58 anni fu bravissimo anche a tener concioni, scriver lettere, schizzar memorie, pubblicar testi: risultato bibliografico e moderno, un paio di raccolte curate nel 1955 e ’57 dal romano istituto per la storia del Risorgimento. Provvido parallelo alla storia è sempre l’antologia, e sempre Einaudi è l’accorto responsabile delle sei grandi parti di un Teatro italiano che dalle origini quattrocentesche lambisce il primo Novecento: il Teatro dell’Ottocento comprende tre volumi, La tragedia, Il melodramma e La commedia, a loro volta divisi in tomi. I due tomi tragici (1981), a cura di Emilio Faccioli, pubblicano undici testi dalla Virginia bresciana di Francesco Saverio Salfi al Nerone di Pietro Cossa, che introducono singolarmente ma dopo un’introduzione critica del curatore che mentre registra il tramonto inarrestabile del genere si sofferma sulle tipiche vicende, storico-romanzate, romantiche e in più d’un caso destinate a mietere grandi successi proprio in ambiente ed epoca risorgimentale. È il caso del Manzoni, con i cori del Conte di Carmagnola (la Battaglia di Maclodio, «S’ode a destra uno squillo di tromba») e dell’Adelchi («Dagli atrii muscosi»), ma anche della Francesca da Rimini del Pellico, biasimata dal Foscolo perché troppo lacrimosa eppure altera di una notissima allocuzione patriottica di Paolo Malatesta che scatenò l’entusiasmo di tutti i teatri italiani: Per te, per te, che cittadini hai prodi, Italia mia, combatterò, se oltraggio ti moverà la invidia. E il più gentile terren non sei di quanti scalda il sole? D’ogni bell’arte non sei madre, o Italia? Polve d’eroi non è la polve tua? Agli avi miei tu valor desti e seggio; a tutto quanto ho di più caro alberghi! Oltre a quelle del Manzoni e quella del Pellico, i capisaldi della tragedia sono l’Arnaldo da Brescia di Niccolini e La Pia di Marenco, cui vanno aggiunti lo Spartaco e I capuani di Ippolito Nievo, mentre il Nerone di Cossa che agita materia tragica definendosi commedia è già prova della tendenza verso un ancipite dramma borghese (singolare il prologo recitato dal buffone Menecrate, indubbiamente noto al Leoncavallo dei Pagliacci). Tutto è modernamente leggibile nell’impresa della Einaudi, quanto mai meritoria; e quasi tutto, all’epoca, fu travasato nel melodramma, dalla Pia de’ Tolomei di Donizetti al Nerone di Mascagni. Non senza l’Adelchi di Apolloni che, non soffrendo di vedersi un protagonista eroico sì ma senz’amore, gli inventò una fidanzata primadonna soprano, certa Gisla fra l’altro sorella di Carlo Magno suo cognato. Articolati dall’Ajo nell’imbarazzo di Giovanni Giraud a Come le foglie di Giuseppe Giacosa, i tre tomi comici del 1979, che hanno tutti un’appendice su organizzazione, messinscena, recitazione e trattatistica, vantano la lunghissima introduzione del curatore Siro Ferrone che, prima di inoltrarsi nella disamina dei fenomeni, dei generi, delle compagnie e via dicendo, riesce a stringere in quattro pagine il senso del discorso, rendendolo provvidenziale ai fini delle tematiche risorgimentali e unitarie. Stante il fatto che il teatro è uno specchio della società molto più fedele della semplice letteratura, assoluta dalla vera contingenza, ecco dunque che a cadenzarne la storia ottocentesca in Europa furono il 1789 della rivoluzione francese, il 1848 della «primavera dei popoli», il 1871 del primo «fantasma della rivoluzione sociale». In Italia, solo dopo l’Unità nacque il diritto d’autore (1865) e sorse una società degli autori (1882), ma un felice «circuito fra autori, attori e pubblico» aveva già avuto una forma di «collaudo» negli anni Sessanta, disciplinando l’eterna realtà del teatro in una maniera prima aristocratico-borghese e poi anche sempre più piccolo-borghese che doveva diventare una regola della civiltà successiva (fino a comprendere il melodramma, il cinema, ogni tipologia spettacolare). Così la commedia e il dramma rinnovato non mandano sul palcoscenico mazziniani e garibaldini, ma la Cavalleria rusticana di Giovanni Verga e La moglie ideale di Marco Praga: poco o niente Risorgimento, come da copione, ma buon pane per i denti dei figli e dei nipoti del Risorgimento stesso. I mariti di Achille Torelli, che spopolarono al «Niccolini» di Firenze nel 1867 e quindi a lungo su molti palcoscenici, non sono poi granché, a confronto di un coetaneo dell’autore come Ibsen o di un successore come Pirandello? A illuminare il maggior teatro italiano basti, quell’anno a Parigi e a Bologna, il Don Carlos di Verdi. Dopo tanta storiografia di largo raggio, ecco un caso particolare. Mirtide Gavelli e Fiorenza Tarozzi hanno curato Risorgimento e teatro a Bologna. 1800-1849 (1998): comincia Marina Calore, che spazia Dalle premesse giacobine alla rivoluzione del 1868; segue la Tarozzi, che tratta di Agamennone Zappoli e del vivace avvocato mazziniano e drammaturgo pubblica il testo del dramma storico Le tre epoche; infine tocca alla Gavelli, che in Luigi Ploner segnala e poi pubblica un altro fervente patriota autore di una stramba Galleria di piccoli quadri appena abozzati (sic). A parte L’uffiziale di guardia o una Notte della Guardia civica, testo abbastanza esteso, sono solo degli abbozzi, delle tracce, dei canovacci che poi, dovutamente ampliati, potrebbero appunto diventare drammi regolari. Storici, però, come dimostrano titoli quali La ritirata de’ Corpi nazionali, Il ritorno della Deputazione, La notte del 7 agosto 1848 o la prima barricata, Le provocazioni del mattino o li 8 agosto, Li 9 agosto - Le donne bolognesi e Onore al Coraggio Cittadino. Se alla bisogna, insomma, manca la risposta del grande teatro di parola, quella del piccolo spettacolo d’occasione sembra assicurata. Né certo solo a Bologna. 5. Da ballo Non le «coreografie quintessenziate» ideali per l’autentica arte della danza ma un volgare dispendio di spettacolarità denuncia Alberto Testa (1970) nel prototipo del ballo postunitario italiano, quell’Excelsior che la Scala di Milano accolse nel 1881 con la coreografia di Luigi Manzotti, la musica di Romualdo Marenco e la scenografia di Alfredo Edel. Fu un trionfo senza precedenti, dovuto non solo all’attualità del celebrando traforo del Fréjus e all’impiego straordinario di 508 esecutori: il soggetto era vivo e moderno, cioè un inno ininterrotto alla Luce contro l’Oscurantismo, al Progresso contro il Regresso, alla civiltà contro la barbarie, all’uomo che inventa contro la natura che impone; la musica era sempre e tutta vivace, brillante, assolutamente chiara e orecchiabile, immediatamente percepibile di ritmo e melodia, saltellante e cantilenante, spesso veloce e un po’ più di rado lenta o largamente cantabile; e lo spettacolo, fondato sopra una scenografia lussureggiante e una coreografia ricchissima, era tanto ambizioso, ricco, costoso da proporsi come ulteriore, sicuro strumento di successo. Ma anche di inibizione, se si vuole, ché ben pochi teatri potevano disporre a lungo di macchine sceniche come quelle della Scala, per cui quello che parve la vetta, il vertice del ballo teatrale fu anche il lento inizio della fine. Valenti o superficiali che fossero, le musiche del Ballo excelsior non seppero dar luogo a un genere che si potesse paragonare alla novità, alla forza del contenuto; e sopravvissero per qualche tempo per scomparire presto, esse stesse con i frutti successivi della fantasia della coppia Manzotti-Marenco e le altre eventuali velleità di coreografi, ballerini e impresari. Manzotti s’era già espresso con altri balli di successo come il Rolla del 1875 e con i due perfetti collaboratori avrebbe continuato a far cassetta con l’Amor del 1886, lo Sport del 1897, la Luce del 1905. Giustamente la storiografia del balletto, che ammira romanticissimi capolavori come Giselle, Coppélia e Il lago dei cigni, si sdegna di fronte a balletti così materiali, inneggianti alla scienza, alla politica, alla fisicità, al tema coloniale o pseudo storico «o peggio patriottardo [zeppo] di retorica e cattivo gusto» (ancora Testa), magari salvando solo l’arte di Enrico Cecchetti ballerino e coreografo (all’uopo, nel 2006 lo scrivente ha pubblicato un articoletto dove segnala alcune fratellanze fra l’Excelsior e altri balli del momento); ma nella loro pur relativa mediocrità artistica si tratta sempre di prodotti di un’epoca e una sensibilità, a conforto di un’Unità recente e di una borghesia soddisfatta (forse eccessivamente). Caso particolare e quindi interessante, il Pietro Micca di Marenco, dato all’Apollo di Roma con la musica di Giovanni Chiti mentre il Comunale di Bologna faceva conoscere all’Italia il Lohengrin di Wagner, un significato civile l’aveva senza meno. Mettendo in scena l’eroismo del granatiere piemontese che nel 1706 s’era fatto esplodere con l’esercito nemico sotto la cittadella di Torino, il «balletto storico in otto quadri» finiva con l’apoteosi di Vittorio Amedeo II che annunciava l’erezione della Basilica del Superga. Era il 18 gennaio del 1871, due mesi dopo che un plebiscito aveva annesso Roma al Regno d’Italia e cinque mesi prima che la città eterna diventasse capitale. Pio IX s’era chiuso in Vaticano, come si sa, ma in fondo non gli era andata male: nel balletto l’avversario di Pietro Micca, il filofrancese conte Raffaele della Torre, saltava in aria anche lui. In Italia, intanto, il ballo continuava ad andare a braccetto con l’opera. Per i primi tre quarti del secolo, all’incirca, ne aveva intervallato gli atti: siccome un’opera in due atti usava comprendere anche uno o due balletti, la gran Norma di Bellini che nel 1831 nacque alla Scala si aprì all’eroica Merope e ai comici Pazzi per progetto di Antonio Cortesi. Ma poi, all’incirca dall’Aida scaligera del 1872 (nata al Cairo nel ’71 ma appena un mese e mezzo prima) e sulla suggestione del grand-opéra di Auber, Halévy e soprattutto Meyerbeer importato dalla Francia, il ballo cominciò a far parte diretta dell’opera, inserendosi fra una scena e l’altra del libretto e dell’intreccio fino a dar luogo a successive “opere-ballo” come Il figliuol prodigo di Ponchielli, il Guarany di Gomes, la Loreley di Catalani. In tal veste il balletto ebbe in comune con l’opera la trama, ovviamente, ma se fu poco sensibile ai paesaggi, alle fate e alle lune del nuovo balletto europeo, non fu poi tanto amico della passione romantica e della riscossa patria. È vero che la storia del Nabucco di Verdi pervenne al maestro e al Solera da un ballo di Cortesi dato nella stessa Scala quattro anni prima dell’opera, ma l’assai festeggiato Corsaro che Giovanni Galzerani aveva dato alla Scala nel 1826, traendolo dal poema di Byron come avrebbero più tardi sia di Pacini che Verdi con le loro opere (nonché Berlioz con un’ouverture e Adam con un altro balletto), non ha molti rivali a far danzare persecutori, vittime, tiranni e patrioti. 6. Figurativamente Al Teatro dell’Opera di Roma la stagione lirica del 2011 ha riportato la vecchia Battaglia di Legnano di Verdi che proprio a Roma, all’Argentina, era nata nel 1849, affidandone la regia a Ruggero Cappuccio e le scene e costumi a Carlo Savi. Una felice idea degli allestitori è stata quella di ricorrere a fondali ricalcati su dipinti d’epoca o di soggetto pertinente, come La battaglia di Anghiari di Rubens (che la disegnò da una pittura murale di Leonardo) per la scena iniziale, Il bacio di Hayez per il duetto d’amore, le Sette opere della misericordia di Caravaggio per la scena finale di vittoria e di morte. Tempestivo, intanto, era uscito il primo numero d’annata della rivista «Artedossier», con il suo caratteristico allegato che era Il Risorgimento nella pittura italiana di Fernando Mazzocca e si articolava in diversi capitoli effettivamente capaci di perlustrare buona parte della cronaca relativa: i nuovi orizzonti della pittura nelle rivoluzioni del 1848-49; la pittura militare dalla spedizione in Crimea alla seconda guerra d’indipendenza; la leggenda di Garibaldi da Quarto ad Aspromonte; il Risorgimento «nel cuore dei semplici»; l’amara cronaca del Risorgimento tradito. Belle e numerose, va da sé, le immagini a colori, da quelle arcinote ad altre più rare: di Girolamo Induno ecco la Trasteverina colpita da una bomba, La battaglia della Cernaja, La battaglia di Magenta; di Giovanni Fattori Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta; di Silvestro Lega Un’imboscata di bersaglieri in Lombardia; di Filippo Liardo la Sepoltura garibaldina; di Michele Cammarano la Carica dei bersaglieri a Porta Pia. Ultima, la Venezia che spera di Andrea Appiani corrisponde all’iniziale Meditazione di Hayez che ritrae L’Italia nel 1848. Ma Lega e Fattori sono anche gli scenografi ideali di alcune scene di Senso, per Visconti, e a dipinti, disegni, documenti d’epoca si sono ispirati Mario Garbuglia e Piero Tosi per le scene e i costumi del sempre viscontiano Gattopardo. Dunque, non c’è ricordo del Risorgimento senza richiamo alla pittura; e forse è proprio l’ipercaratterizzazione visiva pretesa dal fenomeno storico a far sì che difficilmente i ranghi dello spettacolo, dall’opera al cinema fino alla televisione, possano prescindere da un franco sodalizio con le arti figurative. Il che, sia detto per inciso, non giustifica ma fa capire come e quanto sbaglino questi ranghi allorché confondono e pasticciano tutto, per esempio inscenando un soggetto medievale con costumi rinascimentali, musiche barocche, suppellettili romantiche e così via: per tanto Gattopardo, invece, Visconti volle anche acconce musiche di un mimetista dell’arte dei suoni come Nino Rota e andò a scovare un valzer inedito di Verdi poi diventato abbastanza popolare. Non un valzer viennese di Johann Strauss, ben inteso. Dunque un cenno alle arti figurative. Sulla scorta di una bibliografia molto ricca, comprensiva degli stili generali come degli artisti particolari, che annovera diversi cataloghi di mostra (per esempio sui Macchiaioli nel 1976 e su Hayez nel 1983), risulta veramente che l’architettura, la scultura e la pittura siano state più sensibili alle tematiche risorgimentali delle altre arti (o muse che dir si voglia); o quanto meno più continuative, fra un Neoclassicismo fin troppo aulico nella poesia, per esempio, e un Verismo, per altro esempio, fin troppo plebeo nella musica. Del resto è evidente come tali arti possano diventare pronto e facile strumento di propaganda, esaltazione, memoria (sulla pittura valga il libro che Adriano Cera ha pubblicato nel 1987). Tutto l’Ottocento corse sui binari dei teatri d’opera, s’è detto e si sa, e anche delle loro architetture, dalla neoclassica e ancora settecentesca Scala del Piermarini ai diversi teatri di Parma, Roma, Catania e Palermo sorti poco prima o subito dopo l’Unità e a loro modo sempre classicheggianti. Quando poi comparve l’astro di Napoleone, ecco la pittura di Andrea Appiani dedicarsi a ritrarre l’imperatore e financo la sua apoteosi (a mo’ di pagano e svestitello iddio). Ma com’è noto fu il Romanticismo a rimare, meglio ad allitterare con il Risorgimento, interpretando i soggetti con forza, con movimento, con drammaticità. Se a Parigi comparve la marmorea e scatenata Marsigliese di François Rude, a Torino apparve un monumento equestre a Emanuele Filiberto di Savoia di Carlo Marocchetti che è tutto fuori che statico e impassibile. Cupa, disperata, romanticissima è La zattera della Medusa di Théodore Géricault, che non ha rapporti col Risorgimento italiano ma potrebbe facilmente rappresentare un tragico momento di battaglia navale (o anche di relativa scena d’opera): quando fu esposta, nel 1819 al Salon di Parigi, suscitò violente azioni e reazioni politiche e artistiche, ovviamente fra i conservatori sempre vaghi del bello ideale e i giovani romantici già protesi verso la verità e la veemenza dell’espressione a tutti i costi. Una decina d’anni, e poi Eugène Delacroix dipinse La libertà che guida il popolo, grande olio su tela di un anno battagliero come il 1830 che potrebbe rappresentare ogni caso di riscossa e lotta contro il tiranno (il ragazzino che impugna due pistole sarebbe il Gavroche dei Miserabili? chi mai fu più romantico e libertario di Hugo?). Ma ecco l’Italia, e con essa ecco il trionfante Hayez, noto ritrattista di Cavour e pittore dei Vespri siciliani come del Bacio: fermo e sornione lo statista, l’episodio del 1282 interpretato anche da Verdi fu trattato tre volte dal veneziano Francesco; e la scenetta dove il cappello piumato dell’uomo copre la faccia di lui e parte di quella di lei, la baciata baciante, pur nelle sembianze di un generico Medioevo allude certamente al topos del combattente sul piede di partenza, anche perché data al 1859 della seconda guerra d’indipendenza. Benissimo, negli stessi anni in cui anche Domenico Morelli e Giuseppe Bezzuoli usavano coltivare vivaci tematiche storiche. Col secondo Ottocento, fra la Scapigliatura e la divaricazione del Romanticismo in Realismo e Simbolismo, il panorama cominciò lentamente a cambiare: il quadro storico pian piano scemò d’attualità, oppure si volse a maniere diverse come accade nell’olio di Gioacchino Toma che, datato 1877, ritrae Luisa Sanfelice in carcere e della nobildonna napoletana amica della Repubblica Partenopea (1799) dà un’immagine dimessa, quotidiana, quasi realistica. La corrente dei Macchiaioli, avviata nel 1856, vanta l’arte di Giovanni Fattori: Maria Stuarda al campo di Crookstone si ispira a un romanzo di Scott e rende assai duramente l’episodio, certi poveri Soldati francesi del ’59 non figurano né belligeranti né allineati ma quasi disorientati sul da farsi, un movimentato Ritorno della cavalleria spicca per un certo geometrismo di concezione e per la forza quasi cinematografica della prospettiva. Fattori aveva dipinto anche il campo italiano dopo lo scontro di Magenta, ma la sua maturità doveva esser altra, nel complesso, e cioè sensibilmente rimessa a temi naturalistici, campestri, marini, umili, perfino contadini, certo in linea con un entusiasmo personale sempre minore verso la storia, la politica, la società dell’ultimo Ottocento e del primissimo Novecento italiano. Ferventi patrioti e spesso esuli, invece, erano stati compagni di pittura come i fratelli Domenico e Girolamo Induno, Silvestro Lega, Telemaco Signorini. Un ultimo sussulto di tematica sociale anima poi Giuseppe Pellizza da Volpedo, autore del celeberrimo Quarto stato (1901), un’enorme tela larga quasi tre metri e alta oltre cinque che rappresenta non l’immobile condizione ma l’avanzata compatta, non paurosa e anzi abbastanza armoniosa, del proletariato (e come tale interessò a Bertolucci quando diresse Novecento). Dopo il 1861 la pittura s’era scoraggiata, quanto meno demotivata? Non l’architettura, la scultura, l’urbanistica, che poco dopo l’Unità, mentre tante strade e piazze del Nord e del Sud s’intitolavano a Cavour, Garibaldi e Mazzini (invero un po’ bolsamente), alimentarono con tenacia il piccolo mito dei Savoia: a Vittorio Emanuele II, per esempio, si dedicarono in Milano la Galleria di Giuseppe Mengoni e in Roma il Vittoriano di Giuseppe Sacconi. Giuseppe Grandi, infine, scolpì un Monumento alle Cinque Giornate di Milano, a diversi decenni di distanza dall’eroico episodio. Mentre i pennelli puntavano altrove, dunque, gli scalpelli facevano già storia. In bibliografia generale: a molte ed egregie mani incaricate dall’Istituto per la Collaborazione Culturale di Roma e Venezia si deve la poderosa Enciclopedia universale dell’arte della Sansoni (1958-1972), in particolare a Giulio Romano Ansaldi per il Neoclassicismo e a Dario Durbè per il Romanticismo, il Realismo e i Macchiaioli. 7. Al cinema Musa decima e a lungo ritenuta infima (qui nel senso originario, e non dispregiativo, di quella più bassa rispetto alle altitudini, per esempio, della lirica e dell’epica), il cinema è una musa così capace di grandi messaggi e fortunati rapporti da rendersi immediatamente propizia alla causa della storia del mondo e quindi, nella fattispecie, a quella del Risorgimento italiano. Inventato muto quando l’Unità era ancora piuttosto recente, maturato sonoro quando il Fascismo sentiva la necessità di forti puntelli nazionalistici, in Italia si prestò subito a svolgere una cospicua funzione informativa ma non tardò a salire la scala dei valori artistici e per così dire (ma bisogna proprio dirlo?) assoluti. Dunque Senso e Il gattopardo, film che questa rassegna ha già incontrato o citato più volte, sono le punte di diamante di un fenomeno di scontata e amplissima estensione: lo dimostra anche la sola bibliografia attuale e disponibile sul mercato. Il Risorgimento nel cinema italiano (2011) è una filmografia che supera il secolo, fin dal titolo presentandosi lunga dal 1905 al 2010, e a firma di Giovanni Lasi e Giorgio Sangiorgi descrive una sessantina di film muti e 75 film sonori: complesso il primo settore, che si applica a opere spesso non più esistenti e dunque difficili, a volte impossibili da ritrarre esattamente; e facile, per fortuna, il secondo, che illustra materiale accessibile e per fortuna non di rado noto e arcinoto. Anche per questo la premessa si occupa soltanto della filmografia muta, lasciando l’altra, oltre che alla serie di schede, all’eloquente bibliografia consueta. La presa di Roma - 20 settembre 1870 che Filoteo Alberini firmò nel 1905 è il primo film italiano mai prodotto: la breccia di Porta Pia fu l’epilogo del Risorgimento? il film che la racconta è il prologo del cinema italiano. Il quale poi, in ambito risorgimentale, seppe articolarsi in quattro filoni: la ricostruzione storica più semplice e fedele possibile (ma disperatamente, com’è chiaro), alla maniera del capitolo di un libro; la biografia di un singolo eroe, Garibaldi sopra tutti ma ovviamente non solo lui; la storiella edificante e pedagogica, più o meno storica nella cornice e d’invenzione nel centro alla maniera per esempio del Cuore di De Amicis; il forte dramma storico, ancora misto di verità e fantasia ma tratto da drammi recitati e romanzi di genere appunto storico. Esempi rispettivi siano La fucilazione di Ugo Bassi e del garibaldino Giovanni Livraghi del 1911 (regista ignoto), Goffredo Mameli del 1911 (idem, ma nell’interpretazione del famoso Amleto Novelli) e Anita o il Romanzo d’amore dell’eroe dei due mondi del 1926 (regia di Aldo De Benedetti), Il racconto del nonno del 1910 (Giuseppe De Liguoro), O Roma o morte del 1913 (Aldo Molinari) con un Dottor Antonio del 1910 (Mario Caserini) e un omonimo del 1914 (Eleuterio Rodolfi) sempre tratto dal celebre romanzo di Giovanni Ruffini. Nel 1927, a muto morente, uscirono poi Un Balilla del ’48, I martiri d’Italia e ancora I martiri d’Italia o il Trionfo di Roma (avviati entrambi, questi due, da remoti episodi di Medioevo). Dopo l’avvento del sonoro, è un Villafranca del 1934 a confermare la dedizione del cinema alle tematiche risorgimentali, anche grazie a un regista come Giovacchino Forzano che, già librettista di Puccini, aveva sceneggiato il film da un dramma omonimo scritto a quattro mani con Benito Mussolini (e anche interpretato da tre attori già impegnati sul palcoscenico del dramma stesso). A chiudere la ricca rassegna, per pura forza cronologica, è Noi credevamo di Mario Martone, film che nel 2010 ha messo in scena la commovente, tragica, umile, sconosciuta storia di tre giovani meridionali decisi a tutto in un contesto drammatico, scomodo, problematico, assolutamente nemico della retorica. In mezzo ai due estremi, ecco tutta la storia del cinema italiano e molta storia dell’italico Risorgimento, a diverso nome di Visconti, Rossellini, Blasetti, Lattuada, Germi, Scola, Comencini, Taviani, Magni, Squittieri, Faenza, abbastanza spesso mediante fior d’attori fra cui Anna Magnani e Burt Lancaster. Il volume, costruito quasi tutto a schede e alla fine provvisto di parecchie illustrazioni fuori testo a colori, comprende anche indici di film in ordine cronologico e alfabetico, di registi e di interpreti, e anche un indice tematico che elenca i moti carbonari, la questione sociale, le cinque giornate di Milano, i garibaldini, le garibaldine, Carlo Pisacane e via dicendo. Repertorio folto e disciplinato come tutti gli altri numeri della collana della Longo di Ravenna, Gli ultimi avventurieri di Gianfranco Casadio è un libro che promette di estendersi dal Medioevo al Risorgimento, ma a questo giunge risicatello, dopo un profluvio di materiali perfino napoleonici. Appunto Da Napoleone alla breccia di Porta Pia titola l’ottavo capitolo, che all’ultima italianità approda con due soggetti molto appetibili: Fra’ Diavolo di Luigi Zampa, La leggenda di Fra’ Diavolo di Leopoldo Savona e Luisa San Felice di Leo Menardi; mentre la secentesca istoria di Masaniello, rivoltoso e popolano come pochi, trova La muta di Portici di Giorgio Nasoldi pochi anni dopo La fanciulla di Portici di Mario Bonnard. Ma la bibliografia sul cinema è sterminata, e ogni regesto, ogni catalogo è in grado di appagare il ricercatore di gesta e anime risorgimentali. Corollario del corollario, la televisione, che certe istante celebrative le coglie al balzo e le sfrutta a suo diverso piacere. All’uopo, il classico di Aldo Grasso variamente aggiornato, allungato e ristampato si sofferma alquanto sull’anno 1982 che ricordò la figura di Garibaldi: al punto, la scrupolosissima Storia della televisione cita diverse inchieste, una serie di incontri e interviste, una puntata di «Tribuna politica», la proiezione di tre vecchi film, due servizi intitolati Anita cerca Anita e L’America di Garibaldi, un Garibaldi fu ferito di Italo Moscati, perfino una puntata di «Giochi senza frontiere» dalle isole di Maddalena e Caprera. Ma ben cinque puntate, a cominciare dal 6 dicembre 1959, ebbe Ottocento, il buon romanzo storico di Salvator Gotta che raccontava le vicende accadute esattamente un secolo prima, dalla diversa attività filoitaliana svolta in Parigi da Costantino Nigra e dalla Contessa di Castiglione ai fatti personali di Napoleone III e dell’imperatrice Eugenia de Montijo. Sotto la fidata regia di Anton Giulio Majano, vi recitarono interpreti del valore di Sergio Fantoni, Virna Lisi, Mario Feliciani, Lea Padovani, Antonio Battistella (che era Cavour). In bianco e nero, certo, ma con una cura documentaria da far invidia a ogni storica filologia; e con un grande successo di pubblico. 8. Romanzi illustrati È letteratura, non di rado bassa letteratura, ma è anche costume, e a parte i diversi casi di coincidenza con la letteratura alta, con il teatro, con la musica, è anche con la pittura e il disegno che ha a che fare l’illustrazione dell’editoria popolare ottocentesca. In particolare interessa il romanzo, quell’antichissimo genere letterario (greco, certo, ma anche medievale, barocco e così via) che nel XIX secolo ingrossò talmente le sue fila da sembrare sempre quasi solo romantico-naturalistico, da Scott a Tolstòj con Manzoni e i francesi in mezzo. Esattamente Il romanzo popolare… s’intitola un volume del 1987 che rinuncia a ogni premessa o commento ed elenca i libri in ordine alfabetico d’autore chiosandone le caratteristiche editoriali e riproducendone spesso l’immagine di copertina. Che è proprio una scenetta di opera o dramma popolare, con figure scure e allampanate, cornici gotiche, gesti magniloquenti, spade e pugnali e pistole in aria. In tanto materiale che molto menziona Vittor Hugo (sic), Domenico Guerrazzi e Alessandro Dumas, alla causa della storia risorgimentale del paese possono servire i casi che seguono (posto che dai titoli si evincano soggetti sicuri e che certi cognomi possano rimanere senza nome o col nome appena siglato): Antonio Balbiani, Felice Orsini. Scene storiche delle cospirazioni italiane, «opera illustrata con incisioni in litografia eseguite da valenti artisti», Milano, 1862; Id. Il Messia dei popoli oppressi [Garibaldi], Milano, 187172; Id., I misteri del mondo [su Napoleone III], Milano, 1870; Id., Storia illustrata della vita di G. Garibaldi, Milano, 1861; Giorgio F. Born, Pio IX ossia Roma e i gesuiti, Milano, 1872; Paolo De Kock, L’uomo dai tre calzoni, ovvero la Repubblica, l’Impero e la Restaurazione, Roma, 1887; Giuseppe Garibaldi, Cantoni il volontario, Milano, 1873; G. Gozzoli, I giacobini di Roma, Milano, 1899; L. Herbert, 1866 ovvero Custoza e Sadowa [con specialissime «rivelazioni»], Milano, 1870; B.E. Maineri, Le stragi di Parigi nel 1871. Il Comune e il Comunismo in Francia, Milano, 1872; Ernesto Mezzabotta, I Vespri siciliani ovvero la Crociata dei Francesi, Roma, 1890; Franco Mistrali, Balilla ovvero la Cacciata degli Austriaci da Genova [su Giambattista Perasso, il quindicenne che nel 1746 lanciò il famoso sasso contro un ufficiale austriaco e causò la rivolta della città], Milano, 1862; Anna Radcliffe, I sotterranei di Mazzini, Milano, 1871; Carlo Rusconi e Nullo Amato, I tribuni [invero molti, da Masaniello a Balilla], Roma, 1890; L.A. Vassallo, La battaglia di Legnano, Genova, 1876; Anonimo, Memorie del Re Galantuomo, compilate sulla scorta di documenti editi e inediti, Milano, 1882. Da notare che l’attribuzione di genere va spesso al romanzo storico (come dire alla storia romanzata), che l’ombra di Parigi incombe sempre, che fra i titoli compaiono le due opere più nazionalistiche di Verdi, che fra i protagonisti del Risorgimento da raccontare effettivamente del’Eroe dei Due Mondi non ha rivali, che l’epoca della pubblicazione è quella di poco o anche di non poco successiva all’Unità. E anche altri romanzi dal titolo meno immediato, ove dimentichino pallide nobildonne e notti fatali (ma anche ladri patentati e curiosi uomini «cornuti»), abbondano di briganti, persecutori, popolani, scontri, prigioni, torri e misteri. 9. Fotografia e verità Quando a Napoleone III, a Vittorio Emanuele II, a Francesco Giuseppe d’Austria-Ungheria, a Massimiliano II di Baviera, a Pio IX che era il suo ospite e all’ex-re di Napoli che era suo marito l’ex-regina Maria Sofia di Borbone giunse in fotografia, nuda e sormontante non un cavallo ma un enorme membro maschile, fu scandalo internazionale. Era bella, la signora, forse non onestissima, ma al caso era anche vittima di un fotomontaggio, con la sua nobile testa piantata in corpore vili (quello di una prostituta, prezzolata come il montatore, lui arrestato e accusante un certo partito piemontese avverso al potere temporale della Chiesa). Correvano gli anni Sessanta, e in Italia la fotografia era già praticata con una certa frequenza: reduce da Parigi con la sua brava macchina fotografica il signor Antonio D’Alessandri, che ritrasse la bella testa e prima che si scoprisse l’inganno ebbe il suo daffare con la polizia, era divenuto il fotografo ufficiale del papa e degli spodestati sovrani di Napoli. Dunque riprese anche la battaglia di Mentana, fra i garibaldini perdenti e i vincenti franco-pontifici, mentre anche dei fotografi francesi appositamente venuti d’Oltralpe scattavano immagini su immagini. E già in precedenza, durante la Repubblica romana del 1849, un certo S. Lecchi aveva fatto parecchie fotografie degli episodi salienti, le aveva incollate, le aveva precisate meglio disegnando un po’ a mano e aveva costruito un enorme pannello che rappresentava la prima immagine non dipinta di uno scontro armato, prima ancora di quelle relative alla guerra di Crimea e scattate da Roger Fenton nel 1865. Ma già dall’incandescente 1859 data la ricerca specifica di Arturo C. Quintavalle, che ha illustrato questa quasi secolare Italia nel cassetto (fino al 1954) nel 1978, di un anno precedendo il fondamentale Risorgimento nella fotografia di Lamberto Vitali (dunque 1979). Meno mirata e più manualistica, ma per questo anche più snella, è la trattazione del tema da parte di Ando Gilardi (2003) e da parte di Wladimiro Settimelli in appendice al manualetto di Jean-A. Kein (1976). Dunque anche la fotografia, arte ulteriore e come tale forse non tanto pacifica, partecipò al Risorgimento, e dandone tutto sommato un quadro autentico, realistico, dicasi pur veritiero. Il 28 novembre del fatidico 1861 il dimagrito Stato Pontificio emanò un editto che poneva sotto controllo l’attività dei fotografi romani condannando la possibile “oscenità” della nuova tecnica. Intanto a Torino, Firenze, Livorno, Milano e Napoli s’erano messi al lavoro, rispettivamente, artisti della fotografia come Montabone, Alinari, Marzocchini, Duroni e Sommer. E come da Torino, nel maggio del 1829, era partito un divieto di fotografare gli stanziamenti delle milizie e soprattutto gli impopolari effetti dei bombardamenti, così pare che anche Napoleone III ordinasse di allontanare i nuovi mostri da quell’orripilante teatro di massacri che era stato Solferino: per «impedire la profanazione del campo di battaglia da parte di ladri, spogliatori di cadaveri e fotografi». Gli uni come gli altri, nevvero? Non poteva durare a lungo. Se i Mille furono ripresi sia in partenza da Quarto che in arrivo a Palermo, quelli erano pur sempre documenti di un successo e strumenti di un trionfo, ma la fotografia non tardò a riprendere anche i contadini del Sud che reclamavano la terra e venivano uccisi dai piemontesi come “banditi”, i primi lavoratori riuniti per chiedere aumenti di salario e prepararsi allo sciopero, i trafori alpini e le barricate di Milano, la strage di Bava Beccaris contro i milanesi protestanti il carovita (era il 7 maggio del 1898). Senza contare, come nella letteratura, nella pittura, nella scultura, nell’illustrazione e poi nel cinema la quantità di fotografie-ritratto dei padri della nazione, sovrani e statisti, generali e artisti, patrioti e soldati, in varia miscela di entusiasmo e retorica. Fine dei corollari, con il sicuro realismo e la certa creatività artistica della fotografia. A cominciare la rassegna, con la sua arte indubbiamente romantica e prossima alla realtà del costume, era stata la musica, disciplina per l’occasione graziata di uno spazio maggiore ma ancora degna di fare solo da umile corollario. Ché il teorema, la proposizione fonte di ogni corollario, dev’essere sempre quello della storia e della storiografia. 10. I libri AA . VV . I Macchiaioli, catalogo della mostra (Firenze, Forte del Belvedere, 23.V-22.VII.1976) A cura di Dario Durbè Firenze, Centro Di, 1976 ALONGE, ROBERTO Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento Bari, Laterza, 1988 ASCENZI, ANNA E LAURA MELOSI (a cura di) L’identità italiana ed europea tra Sette e Ottocento Firenze, Olschki, 2008 BROCKETT, OSCAR G. Storia del teatro. 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Mito e realtà, catalogo della mostra (Milano, Palazzo della Permanente, 8.II22.III.1992) Milano, Electa, 1992 FACCIOLI, EMILIO (a cura di) La tragedia dell’Ottocento, 2 tomi Torino, Einaudi, 1981 FERRONE, SIRO (a cura di) La commedia e il dramma borghese dell’Ottocento, 3 tomi Torino, Einaudi, 1979 GAVELLI, MIRTIDE E FIORENZA TAROZZI (a cura di) Risorgimento e teatro a Bologna. 1800-1849 Bologna, Pàtron, 2998 GILARDI, ANDO Storia sociale della fotografia Milano, Bruno Mondadori, 2003 GOZZOLI, MARIA CRISTINA E FERDINANDO MAZZOCCA (a cura di) Hayez, catalogo della mostra Milano, 1983 GRASSO, ALDO Storia della televisione Nuova edizione aggiornata Milano, Garzanti, 2004 (già 1992) GREMPLER, MARTINA Rossini e la patria: Studien zu Leben und Werk Gioacchino Rossinis vom dem Hintergrund des Risorgimento Kassel, Bosse, 1996 ISTITUTO PER LA COLLABORAZIONE CULTURALE (a cura dell’) Enciclopedia Universale dell’Arte Firenze, Sansoni, 1958-1972 KEIN, JEAN-A. Breve storia della fotografia. Con un’appendice sulla fotografia in Italia di Wladimiro Settimelli Torino, Einaudi, 1976 (già 1970) LASI, GIOVANNI E GIORGIO SANGIORGI Il Risorgimento nel cinema italiano. Filmografia a soggetto risorgimentale 1905-2010 Presentazione di Michele Canosa Faenza, EDIT, 2011 LIVIO, GIGI Il teatro del grande attore e mattatore In Storia del teatro moderno e contemporaneo. IV, Il grande teatro borghese, Dal secondo Romanticismo al Naturalismo Torino, Einaudi, 2000, pp. 611-675 MARCHESI. GUSTAVO VIVA V.E.R.D.I. Il suono del Risorgimento Prefazione di Alberto Bevilacqua Parma, Monte Università, 2011 MAZZINI, GIUSEPPE Filosofia della musica Con note di lettura di Stefano Ragni Pisa, Domus mazziniana, 1996 MAZZOCCA, FERDINANDO Il Risorgimento nella pittura italiana In «Artedossier», n. 273, allegato al n. di gennaio 2011 MELDOLESI, CLAUDIO L’età degli avventi romantici in Italia In Storia del teatro moderno e contemporaneo. 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