Focus Ambiente
Storie di soprusi, di ambiente devastato e di lotte
per preservare tutto quello che ci circonda: Italia,
mondo, multinazionali e comitati cittadini
www.firstlinepress.org
Per i rifiuti si sceglie la strada breve:
bruciarli nei cementifici
Redazione | 31 gennaio 2013
Cementifici e spazzatura: parola al
prossimo Parlamento. Cos’è “Legge
Zero Rifiuti”?
Lorenzo Giroffi | 12 febbraio 2013
Di certo non sono attesi slanci di onestà in campagna elettorale e
neanche una silenziosa consapevolezza a riguardo della salute dei
cittadini. Tuttavia il Decreto Presidenziale dello scorso 26
Ottobre, che regolamenta la combustione dei rifiuti negli impianti
adibiti a cementifici, andrebbe discussa pubblicamente, oltre ogni
retorica. Il campo è sempre il solito: gli interessi di chi nasconde
le soluzioni attaccando isterici ambientalismi. Un precedente
decreto del Ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera,
del Luglio 2012, aveva già liberalizzato la produzione di energia
prodotta da impianti a biomassa agricola. Ad Ottobre però si è
andato oltre l’utilizzazione energetica derivante dal combustibile
derivato rifiuti (C.D.R.), che ha trovato un nuova definizione
C.S.S. (combustibile solido secondario), che non ha più una
classificazione da rifiuto urbano, ma da rifiuto speciale, quindi
non è più obbligatorio smaltirlo all’interno dei confini regionali,
dove è stato prodotto, perché considerato vero e proprio prodotto
industriale, libero di circolare e pronto a sostituire i combustibili
che tradizionalmente finivano all’interno dei cementifici.
Tutto ciò sembra una tremenda scorciatoia, che da un lato limita
l’avvio industriale del riciclaggio e dall’altro dà ai cittadini
l’ennesima certezza di avvelenamento, con polveri sottili nell’aria
e patologie cancerogene già note a chi vive nei pressi di
cementifici, pronti a bruciare anche rifiuti. Non che gli
inceneritori siano rose prive di rischi, ma addirittura bruciare
rifiuti lì è meno dannoso che farlo nei cementifici, perché almeno
dotati di sistemi che eliminano in parte le polveri. Inoltre gli
inceneritori hanno anche limiti di emissioni più alti. Molti
cementifici in Italia sono a ridosso di centri abitati, come Barletta
e Taranto in Puglia, Rezzato in Lombardia, Maddaloni in
Campania, Coleferro nel Lazio e Monselice in Veneto, pronti a
far riesplodere nuove contaminazioni.
Centocinquanta associazioni locali, regionali e comitati cittadini
hanno indetto una campagna nazionale, “Legge Rifiuti Zero”, che
è pronta a lottare per bloccare il decreto, che deve passare
l’esame della Commissione Ambiente, con al vaglio anche il
Testo di Legge Iniziativa popolare che fino al 2020 prevede la
moratoria per inceneritori e cementifici che utilizzano rifiuti.
www.zerowastelazio.it è il sito web della campagna
Siamo in settimane dense di storicità, tra chi si dimette
anacronisticamente e chi è pronto a proporsi come salvatore dello
Stivale. Poco interessanti per le pagine di storia, ma decisive per
le vite umane, la quotidianità di decreti legge che mutano la
vivibilità del Paese. Nelle scorse settimane vi abbiamo scritto di
un decreto legge, passato al passo d’addio dei tecnici, che
potrebbe rendere protagonisti i cementifici italiani, oltre che dei
danni già prodotti al territorio, dello smaltimento dei rifiuti.
Affinché i membri della Commissione Ambiente del Parlamento
fossero sensibilizzati sono stati contattati, con un modello preformato, via e-mail, da tanti e forse decisivi liberi cittadini,
volenterosi di bloccare sul nascere questa possibilità. Lunedì 11
Febbraio il decreto è stato bloccato dalla Commissione, che
dunque ha negato la possibilità ai cementifici di incenerire rifiuti,
anche se, più che una bocciatura, è stato solo un rinvio. Infatti il
decreto dovrà essere discusso e vagliato dal Parlamento che si
insedierà dopo le elezioni del prossimo 24 e 25 Febbraio.
Dall’incapacità o dalla netta volontà di distanza di chi detiene il
potere decisionale è sempre più scontata la nascita di una rivalsa
popolare, fatta di proposte e scenari legislativi alternativi. È così
partita la campagna nazionale “Legge Zero Rifiuti”.
Incontriamo Massimo Piras di No Waste Lazio, per capire cosa
quest’iniziativa popolare proponga e per porre anche una lente
d’ingrandimento sugli scenari dei cementifici in supporto degli
inceneritori.
Cosa propone la campagna “Legge Zero Rifiuti”?
<<L’iniziativa è partita lo scorso giugno, dopo un lungo periodo
di elaborazione. Ci prefiggiamo un sentiero nuovo in Italia, che
possa raccogliere la risoluzione europea del 24 maggio, che ben
pochi conoscono, ma che in pratica pone fine, entro il 2020, a
tutte le discariche ed inceneritori. Questa risoluzione è stata
votata dal Parlamento Europeo, quindi anche dall’Italia. Tutto ciò
è il primo passo per il settimo piano d’azione proposto dalla
Comunità Europea, che fisserà le nuove linee di raccolta e riciclo,
perché la prospettiva futura è proprio indirizzata verso il recupero
di materia, che sostituirà quello di energia, divenuto secondario.
In Italia siamo ancora all’anno zero e per noi è importante
fermare subito tutti gli inceneritori presenti, perché quando si va a
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smaltire in questi tipi di impianti si brucia solo un terzo di tutto,
gli altri due li si porta in discarica, dunque l’operazione di
smaltimento, che è definita ultima operazione, diventa quella
decisiva, perché si salta il riuso ed il riciclo. Sostanzialmente si è
fatta dell’illegalità una legge>>.
Questa campagna però deve fare i conti con i tanti incentivi di
cui gode l’ingranaggio dei termovalorizzatori …
<<I certificati verdi e gli incentivi economici per questo tipo di
impianti, diramati lo scorso anno con un Decreto del Ministro allo
Sviluppo Economico, Corrado Passera, vengono abrogati dalla
nostra proposta di legge. Di contro proponiamo incentivi al
riciclo ed al recupero, basandoci su due capisaldi: è fondamentale
una moratoria per l’incenerimento, perché, come dice l’Europa,
se nel 2020 dovremo chiuderli, abbiamo a disposizione soli sette
anni e quest’impianti hanno bisogno di 15-20 anni di
ammortamento di capitale, quindi è irragionevole andare ad
autorizzare impianti che tra sette anni andranno chiusi;
proponiamo che il CONAI, il consorzio nazionale di imballaggi,
esca fuori dalla logica monopolistica. Ad oggi il CONAI sta
abbassando i costi delle materie prime, ma a nostro avviso questo
consorzio non può restare all’interno di un percorso chiuso. C’è la
necessità di una remunerazione, al pari della media europea, delle
materie prime e seconde riciclate. Dobbiamo creare le condizioni
per avere un mercato economico all’interno di questo settore:
chiudere agli incentivi alla distruzione ed aprire agli incentivi sui
recuperi>>.
restare avvinghiati a tali introiti. Sui motivi invece che hanno
spinto a tirare in ballo i cementifici, possono essere riconducibili
alle difficoltà di costruire nuovi inceneritori, perché molti
comitati cittadini stanno impedendo, con ricorsi anche ai vari
TAR, tali operazioni o comunque le rallentano. Questo
provvedimento invece avrebbe già cinquantasei impianti
funzionanti ed a disposizione, che con la solo comunicazione,
perché non c’è più bisogno dell’autorizzazione integrata
ambientale (la valutazione di impatto ambientale non è più
obbligatoria) potrebbero bruciare rifiuti. Così facendo i
cementifici guadagneranno ancora di più con i certificati verdi,
lucrando nel tempo previsto (quindici anni) e continuando a
contaminare l’ambiente con diossina ed altri composti
organici>>.
Eppur si brucia: cementifici e
spazzatura
Lorenzo Giroffi | 9 aprile 2013
Come si è arrivati a quella che appare una semplificazione
della gestione rifiuti in Italia: affidarsi ai cementifici?
<<Non ha alcun senso dare autorizzazioni ai cementifici per la
distruzione dei rifiuti, perché questi sono ancora più dannosi. Gli
inceneritori hanno una normativa più stringente per le emissioni
in atmosfera di ossidi di azoto, zolfo e diossina. I cementifici
invece non hanno dei sistemi filtranti. Questo è molto pericoloso,
perché su tutto il territorio abbiamo cinquantasei cementifici, di
cui molti inseriti nel tessuto urbano: è un attacco alla salute! Un
decreto dell’ex Ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo,
diede ai CSS, combustibili solidi secondari, una legittimazione a
circolare, essendo rifiuti speciali e non più urbani. I rifiuti, prima
di questa modifica, andavano gestiti nell’ambito regionale, perché
i CDR, combustibili derivati dai rifiuti, non potevano circolare
liberamente, vista la loro natura di rifiuti urbani selezionati.
Invece con questo marchingegno tecnologico, tramutando i CDR
in CSS, si è fatto in modo di creare un nuovo tipo di carbone o
petrolio sintetico, spendibile e bruciabile ovunque. Con la nostra
proposta di legge chiediamo che il CSS ridiventi rifiuto urbano,
quindi non libero di circolare e che sia vietata la combustione in
quanto tale. È stato dimostrato che compiere tutto ciò in
cementifici, inceneritori o centrali termoelettriche è un processo
economicamente svantaggioso e dannosissimo per l’ambiente.
Noi invece ci battiamo affinché si giunga alla chiusura ed al
blocco di tutti questi impianti, che dovranno subire una
riconversione impiantistica>>.
Perché si è intrapresa nuovamente una strada contraria ad
un ciclo di rifiuti proiettato verso il futuro e che è utile solo ad
un certo tipo d’industrializzazione del settore? Al di là degli
ovvi interessi economici, quali sono i motivi del ripescaggio
dei cementifici per risolvere l’emergenza rifiuti?
<<C’è una lobby industriale che guadagna solo dall’assistenza
pubblica dei contributi. Questi soggetti non possono perdere il
loro giro d’affari e chiaramente si studiano tutti i mezzi per
Video-reportage
disponibile
nel
canale
FirstLinePress al seguente link:
http://www.youtube.com/watch?v=MtFwA3aBk9I
Youtube
In Italia si discute sulla velocità dei tempi della politica, ma oltre
ogni dissertazione, i suoi provvedimenti scorrono. Un
decreto passato in sordina, perché a “fine” Legislatura
Monti, potrebbe dare ai cementifici presenti in Italia (Paese
europeo col più grande numero di impianti operativi) parte della
gestione dei rifiuti.
I cementifici potrebbero fungere da inceneritori, ma quali i
rischi? Perché si potrebbe adottare questa soluzione?
Il decreto ha ricevuto una valutazione negativa da parte della
Commissione Ambiente del Parlamento, ma il parere non è
vincolante e quindi tale decreto Clini dovrà essere perpetuato o
bloccato dal prossimo Esecutivo.
Il
video-reportage Eppur
si brucia:
cementifici
e
spazzatura viaggia in Italia tra pareri medici e proposte dalla
cittadinanza attiva, fino a fermarsi nel territorio della provincia di
Caserta, lì dove ci sono due cementifici, che possono rendere
chiara l’incidenza della loro attività, al di là del possibile impiego
nel ciclo dei rifiuti. Per non dimenticare mai quante
piccole Ilva ci siano in Italia e quanto le emergenze non scoppino
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casualmente od improvvisamente.
Di seguito sono disponibili i testi elaborati dalla Commissione
Ambiente inerente alla valutazione del provvedimento:
Commissione_Ambiente_-_Camera_-_Atto_529__Resoconti_11Febb2013
Commissione_Ambiente_-_Camera_-_Atto_529__Resoconti_22genn2013
Veolia: tra Palestina e boicottaggi a
Londra
Lorenzo Giroffi | 20 novembre 2012
collegare direttamente Gerusalemme ai territori occupati dagli
israeliani. In Cisgiordania Veolia gestisce già tre linee di autobus,
su cui però, e qui torna l’apartheid, i palestinesi non possono
viaggiare.
A parte la vicinanza umana, perché una campagna di
boicottaggio a Londra potrebbe influire sugli affari di Veolia
in Palestina?
Un gruppo di abitanti della capitale britannica fino al 6 Dicembre
ha organizzato una serie di appuntamenti, dinanzi a luoghi
strategici, per sensibilizzare le istituzioni dell’area nord della
città. Tutto questo perché il 6 Dicembre potrebbe siglarsi un
accordo tra le municipalità nord della città di Londra e per
l’appunto la multinazionale francese. L’appalto farebbe rientrare
nelle casse di Veolia 4,7 miliardi di sterline, quindi ecco che il
collegamento è ottenuto: Londra-Palestina (questi milioni
sarebbero utilizzati anche nella costruzione della metropolitana
menzionata precedentemente). I promotori della protesta vogliono
sensibilizzare i consiglieri della loro città affinché possano essere
consapevoli delle politiche adottate da questa compagnia in
Palestina e rendere così impossibili accordi con essa.
Le retoriche sulle multinazionali, sugli agenti invisibili che
lentamente stanno deteriorando gli Stati nazionali, sull’impunità
di chi ha affari in mezzo mondo, lasciando le sedi centrali delle
proprie imprese pulite nella parte ricca dell’emisfero, sono già
zeppe di cantori, quindi ogni precisazione sarebbe di troppo. È
certo però che l’apartheid ed i soprusi non possono fare a meno di
lotte congiunte tra politica e decisioni economiche. Per potersi
sentire detentori di democrazia, ammesso che questa abbia una
denotazione ben definita, bisogna compiere scelte democratiche.
Servizio video disponibile all’interno del canale Youtube
FirstLinePress:
http://www.youtube.com/watch?v=ebocZQBLH94
(nei sottotitoli del video compare “accordo per 4,7 milioni di
sterline” è un refuso perché sono 4,7 miliardi di sterline)
Ci sono attori economici che esagerano e coi loro affari toccano
sia il sud che il nord del mondo, sia i ricchi che i poveri,
trascinando su di loro i proventi e le perdite del mercato
mondiale, la soddisfazione dei suoi manager e le sofferenze di chi
subisce e forse denuncia.
Veolia, la spazzatura di Londra ed i
diritti umani in Palestina
Lorenzo Giroffi | 29 gennaio 2013
Impossibile tracciare un profilo dettagliato su tutti gli affari
compiuti da Veolia, che apre il suo raggio alla depurazione di
acqua, alla gestione di spazzatura, ma che si occupa anche del
trasporto pubblico e di opere infrastrutturali, come fognature,
insomma una multinazionale che ha molti multi e che magari
ottiene ottimi risultati, tenendosi al passo con le misure
ambientali, ma che, come se non fossero passati anni di lotte e di
diritti civili consolidati, continua a elaborare piani aziendali in
sintonia con l’apartheid. Non è un articolo datato, proveniente
magari dal Sudafrica, ma è purtroppo specchio di quanto succede
ad oggi in Palestina.
La Veolia in quella terra tormentata controlla i servizi idrici per
gli abitanti israeliani ed importa spazzatura, prodotta da questi
ultimi, nei campi occupati dai palestinesi nella Valle del
Giordano. La francese Veolia, che a dire il vero in questo
momento finanziariamente non se la passa proprio bene, in
Palestina dirige anche il sistema dei trasporti pubblici. Sta
pianificando la costruzione di una linea metropolitana leggera per
Il servizio video è disponibile nel canale Youtube
FirstLinePress al seguente indirizzo:
http://www.youtube.com/watch?v=I77ONWdVM48
Inevitabilmente le campagne di boicottaggio verso colossi
aziendali, per i possessori di concretezza, si portano dietro sempre
un peso d’inconsistenza, fatto di poca lucidità, troppi ideali e
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mancanza di consapevolezza degli interessi da smuovere. È
impossibile elencare tutti gli affari che la francese Veolia compie
in giro per il mondo (opera in 77 Paesi), con un giro largo di tutto
quello che è il servizio pubblico, lì dove il privato può metterci le
mani: servizi idrici, trasporti pubblici e gestione dei rifiuti.
Non è un periodo felice per questa multinazionale tutto fare, che
economicamente ha dovuto fare i conti con un collasso, frutto di
sanzioni e di ammanchi di alcune filiali statunitensi. In particolare
per Veolia il Regno Unito in questi ultimi anni, dopo essere stato
terreno di conquista e di diversificazioni d’affari (per le varie
sfere in cui opera), non è stato proprio un campo agevole: è stata
inseguita eticamente già a seguito dell’ustione di un proprio
lavoratore all’interno di un impianto presente a Deptford (nel sud
di Londra); ha dovuto svendere tre aziende idriche per crisi
economica; si è vista contro una campagna mediatica che ha visto
coinvolti anche esponenti di spicco delle Nazioni Unite.
Perché liberi cittadini di Londra ad un certo punto hanno
trovato la forza di unirsi e di opporsi a Veolia?
Ritornando all’incipit iniziale, le campagne di boicottaggio per
essere efficaci devono dotarsi di strumenti di comprensione per la
comunità che abita il territorio. First Line Press nei mesi scorsi
ha seguito alcune delle manifestazioni di questa campagna,
svoltesi dinanzi le municipalità di Londra. Qui vi abbiamo già
scritto dei motivi per i quali il comitato londinese si oppone agli
affari di Veolia nella propria città, che sono legati alle violazioni
dei diritti umani che questa compie verso il popolo palestinese,
prevedendo, in società con il consorzio Citypass, una linea di
metropolita leggera, Gerusalemme Light Rail Transit, che
collegherà Gerusalemme con gli insediamenti in Cisgiordania,
attraversando territori palestinesi, ma senza che i suoi abitanti
possano usufruire di questo servizio, o la discarica, sempre gestita
da Veolia, poco rispettosa della salute dei palestinesi nei territori
occupati a Tovlan, od ancora le linee di autobus, sempre legate a
questa compagnia, che circolano negli insediamenti israeliani.
Come ha fatto ad incidere una causa così lontana da Londra?
Se si presta attenzione agli angoli delle strade di Londra, nella sua
parte nord, oltre i marciapiedi, le luci dei pub, l’odore della
pioggia ed i mille suoni di lingue differenti, si possono facilmente
vedere raccoglitori di spazzatura, inservienti o camionette con la
scritta Veolia ed i suoi loghi. Il legame insomma è ben visibile e
proprio nelle municipalità di Londra Nord Veolia aveva in
sospeso, pronto per essere siglato, un contratto utile ad ottenere i
servizi ambientali e di produzione di combustibile con la North
London Waste Authority, che per l’appunto comprende lo
smaltimento rifiuti per Enfield, Barnet, Hackney, Camden,
Islington, Waltham Forest e Haringhey. Il contratto avrebbe
permesso tale gestione per trentacinque anni, con il completo
affidamento dell’impianto di gestione dei rifiuti di Pinkham, a
New Southgate, che avrebbe voluto dire l’incasso per Veolia di
4,7 milioni di sterline.
Cosa si è messo di mezzo quest’affare?
Per il movimento di boicottaggio è stato complicato arrivare a
coinvolgere una parte consistente della popolazione di Londra
spingendo solo sulla sensibilizzazione per la causa palestinese, è
stato sicuramente più avvolgente quando ha allargato il proprio
focus sulle metodologie di lavoro che Veolia attua nella capitale
inglese, rendendo un’opera di informazione su tutto quello che
concerne il lavoro dell’azienda. Nella video–intervista a due dei
maggiori attivisti londinesi, Yael Kahn, con alle spalle una lunga
storia di campagne a favore dei diritti umani in Palestina, e Rob
Langlands, ingegnere che per anni ha lavorato nel settore dello
smaltimento dei rifiuti, si rende chiara la natura di un progetto
che ha dovuto ramificare i propri obiettivi.
Il contratto con Veolia non sarebbe stato solo poco etico, ma
anche dannoso per la stessa Londra, visto il modo in cui opera la
compagnia. Ci sono molti i comitati cittadini in opposizione ad
opere di combustione dei rifiuti. Così Rob Langlands:“Bruciare
energia per realizzare energia elettrica non è assolutamente
salutare, considerando i vantaggi del riciclaggio ed i costi
differenti. Dotarsi di alta tecnologia per una buona
individuazione dei materiali da riciclare ha un costo elevato solo
nella fase iniziale, ovvero quando si deve investire, poi dopo è
tutto guadagno. Senza voler parlare delle dinamiche ambientali,
che a questo punto possono interessare davvero a pochi”.
Veolia è un’azienda che sull’immagine punta molto. I presidi
dinanzi gli uffici delle municipalità di Londra; i volantini
esplicativi sui crimini di guerra; le parole del relatore speciale
delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi,
Richard Falk, che dichiarò come l’azienda francese è complice di
violazioni del diritto internazionale, a proposito del sistema di
trasporti progettati, che viola il diritto internazionale umanitario e
la quarta Convenzione di Ginevra, articolo 49, per quanto
riguarda la protezione delle persone civili in tempo di guerra.
Tutto ciò non ha lasciato indifferenti i dirigenti della compagnia
francese, che, vedendo sgretolare la propria immagine, con una
campagna che da Londra metteva in luce crimini lontani e vicini,
hanno preferito tirare via la propria offerta per i contratti con la
North
London
Waste
Authority.
Sul finire di Dicembre 2012 le municipalità avrebbero dovuto
decidere a chi concedere la gestione dei servizi descritti
precedentemente e Veolia indubbiamente era la più accreditata,
tra le pretendenti, ad intascarsi i 4,7 miliardi di sterline. Tuttavia
il progressivo coinvolgimento di alcuni consiglieri delle
municipalità alla campagna di boicottaggio ed una protesta che
stava portando sempre di più il nome Veolia ad essere associato a
qualcosa di dannoso hanno consigliato un mossa di prevenzione
del rifiuto: Veolia si è ritirata dalla trattativa. Così, dopo due anni
di lotta, il movimento di boicottaggio ha potuto esultare, con la
consapevolezza che la sensibilizzazione verso tutti i cittadini è
stata possibile anche grazie agli interessi per la propria salute,
sicuramente più determinanti per l’immaginario comune, rispetto
alle nobili cause dei diritti per i palestinesi.
L’attivista Yael Kahn è felice perché oggi qualcuno in più
conosce quello che Veolia compie nei territori occupati
illegalmente da Israele, anche se la causa palestinese è ancora
lontana dagli interessi della politica mondiale: “La gente può
riconoscere questa multinazionale comunque come dannosa per
la propria comunità. Se l’unico valore che questi colossi
conoscono è il profitto, allora le aziende in combutta con i
crimini di guerra israeliani soffriranno molto per una pena
finanziaria”.
In effetti il profitto cercato è realmente sfumato, Al momento non
si conosce chi brucerà i rifiuti, ma in fiamme sono già andati i 4,7
miliardi di sterline previste per Veolia.
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Ilva
di
Taranto:
l’acuto
della
Un afoso giorno d’estate… Il Comitato
magistratura
Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti
Cosimo La Gioia | 26 novembre 2012
di Taranto
Andrea Leoni | 28 marzo 2012
Sette arresti ed ennesimo ricatto: “Chiudiamo il sito di
Taranto”. Si è rotto il silenzio che da qualche tempo avvolgeva
l’operato della Magistratura tarantina: come un colpo di mannaia,
oggi gli uomini della Guardia di Finanza hanno eseguito 7 arresti
nei riguardi dei vertici della società Ilva S.p.A, di politici e
funzionari pubblici (Fabio Riva vicepresidente del Gruppo,
Girolamo Archinà ex Responsabile delle relazioni esterne,
Michele Conserva ex Assessore all’Ambiente della Provincia,
Lorenzo Liberti ex Preside della Facoltà di Ingegneria e
Consulente della Procura di Taranto, il patron Emilio Riva, Luigi
Capogrosso ex direttore dello stabilimento, Carmelo Delli Santi
rappresentante della Promed Engineering). L’accusa è di
associazione a delinquere, disastro ambientale e concussione.
Parallelamente a tale inchiesta, le Fiamme Gialle si sono portate
sul luogo del Porto di Taranto e hanno proceduto al sequestro di
tutta la merce prodotta dall’ILVA: i prodotti non possono essere
commercializzati in quanto derivanti da attività produttiva di
impianti posti a sequestro giudiziario. Mentre il Procuratore
Capo di Taranto Dott. Franco Sebastio in conferenza stampa
presso gli uffici della Guardia di Finanza rimarcava l’importanza
del diritto alla salute prima del profitto, i vertici
ILVA diffondevano un comunicato stampa nel quale hanno
dichiarato la loro estraneità alla situazione ambientale ormai
compromessa dichiarando la sospensione dell’attività produttiva
dalle ore 23.00 di Lunedì 26 Novembre, con riferimento però
all’area a freddo (non quella a caldo incriminata per aver
provocato l’emergenza sanitaria). Da stasera, circa 6000 operai
sono in ferie forzate per mancanza di commesse (strano che tale
deficit occupazionale sia coinciso con le decisioni della
Magistratura). Intanto cominciano le proteste degli operai e si
mobilitano i sindacati che domani incontrano l’azienda. Sciopero
selvaggio come quello dello scorso Luglio? Vedremo…
Parere condiviso in molti è che oggi abbiamo assistito al primo
passo del disimpegno della famiglia Riva a Taranto. Nelle
prossime ore, tutto può succedere …
Alla fine dell’articolo un’anteprima del fotoreportage
disponibile al seguente indirizzo:
http://firstlinepress.org/un-afoso-giorno-destate-a-taranto/
Come promesso, torniamo su un’esperienza di movimento che
funziona: il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti
di Taranto. Si battono per la dignità della città, per i diritti dei
lavoratori e dei cittadini nel caso Ilva ed è una vera forza.
Abbiamo chiesto loro un’intervista e ci hanno risposto
collettivamente a dimostrazione di come, al di fuori di svociate,
un movimento dal basso e partecipato da tutti è possibile. Un
esempio per tutti quanti e che noi siamo veramente onorati di
ospitare. E’ da tempo che seguiamo, con molto interesse, la loro
lotta e che grazie al nostro blogger Cosimo La Gioia ha sempre
rilievo nel nostro portale.
Come nasce il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e
Pensanti?
Il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti nasce
nell’afoso luglio 2012, quando la firma di due ordinanze da parte
della
magistratura
a
seguito
dell’incidente
probatorio sull’inquinamento causato dall’Ilva, stabilì il sequestro
di sei impianti e la custodia cautelare agli arresti domiciliari di
otto indagati, portando scompiglio in un’intera comunità. Tra
le parole usate dal Gip si legge chiaramente «malattia e morte
perché chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività
inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto,
calpestando le più elementari regole di sicurezza». I sindacati
confederali decisero di proclamare sciopero ad oltranza,
invitarono pertanto i lavoratori dell’azienda a bloccare le strade,
dalla 106 al ponte girevole, e quindi a seminare ansia e
smarrimento all’interno della città. Ed è così che ci siamo trovati,
cittadini comuni e operai dello stabilimento siderurgico, armati
della stessa sete di risposte ma al contempo spaventati e smarriti.
Alcuni dei lavoratori si resero conto che mentre molti bloccavano
le strade, impedendo a gente diretta all’ospedale Giuseppe
Moscati di compiere il proprio ciclo di terapie e profilassi
antitumorale, altri lavoravano producendo a gran ritmo. Ci
sentimmo presi in giro ed ancora una volta strumento di questo
sistema corrotto che ha spremuto Taranto, così da pochi
lavoratori ci ritrovammo poi a discuterne in tanti, stanchi di
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doverci piegare al ricatto salute o lavoro, stanchi di dover credere
che il nostro destino fosse già scritto per i profitti di altri. E così
si decise di creare un fronte comune, forte e saldo dove tutte le
realtà locali potessero avere voce e creare scambio d’idee. E la
prima idea condivisa fu quella di poter prendere parte al comizio
dei sindacati FIOM FIM UIL il 2 agosto in piazza della Vittoria.
Il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti diventa
famoso in tutta Italia dopo l’azione di protesta nella
manifestazione dei sindacati che cercavano il loro palchetto.
Vengono zittiti da un apecar: come ricordate quell’episodio?
L’esperienza di quella mattinata, e delle giornate che la
precedettero, rimane impressa nella pelle di chiunque vi abbia
preso parte. La notte prima, pochi di noi avranno dormito,
eravamo poche decine a stilare il discorso e a parlare di come
articolarci in corteo, ma sentivamo che qualcosa sarebbe
cambiato. La nostra richiesta di partecipare, faxata il giorno
prima all’organizzazione dell’evento sindacale, non fu presa in
considerazione. Non pervenne neppure alcuna risposta. Il giorno
successivo, sotto un sole cocente d’agosto tarantino, ci
siamo ritrovati di fronte l’arsenale e tutti insieme abbiamo
iniziato la nostra sfilata in coda al corteo sindacale. E da trenta
diventammo quaranta, poi cinquanta, poi cento, tra donne
lavoratori studenti e professionisti dietro il nostro treruote a
gridare verità completamente cacofoniche in un contesto costruito
e per niente genuino come quello in cui ci trovavamo. Poi l’arrivo
in piazza, la folla che si apre guardando incuriosita il nostro
apecar e ascoltando i nostri cori. La goliardia è diventata frenesia,
speranza di poterci fare sentire e bisogno imminente di raccontare
a Taranto cosa stesse succedendo all’interno della fabbrica e cosa
non sarebbe, invece, dovuto accadere mai più. C’è stato chi
addirittura tagliò i cavi del microfono del palco per evitare che
noi prendessimo parola sul pulpito, e di questo gesto ha anche
incolpato noi. O chi, come i segretari dei sindacati, sparì dalla
vista non appena arrivammo. Ma c’era una piazza, gremita di
lavoratori e cittadini. E quella piazza ci ha ascoltato: dopo il
nostro intervento, per il quale si erano scomodati molti caschi
antisommossa (che di fatto però non ebbero ragione di “rompere
le righe”), la piazza si svuotò e la gente seguì la nostra scia
di novità. Fu una giornata infinita, difficile da dimenticare.
Il CCLP è diventato poi sempre più forte: una forte
organizzazione dal basso che vede una partecipazione nutrita
di gente stanca di sopportare ricatti. Com’è organizzato il
CCLP, quali sono le altre organizzazioni (vedi no carbone) o
movimenti sociali che stanno supportando la battaglia? Le
vostre assemblee sono molto partecipate, un vero esempio di
democrazia condivisa o che altro?
La forza, maturata nel tempo, del CCLLP si basa sulla
consapevolezza che la democrazia rappresentativa non ha mai
funzionato e che per rispondere alle esigenze di una città non si
possa prescindere dal parere, dalle azioni, di ogni singolo
cittadino, il quale attraverso il principio del “IO NON DELEGO,
IO PARTECIPO” è coinvolto quotidianamente nel costruire
quel percorso di democrazia partecipata e diretta, unica ancora di
salvezza e punto di partenza per scenari futuri che solo in questo
modo potranno restituire dignità a questa territorio, da
troppo tempo ormai abbandonato a scelte imposte, mai condivise,
che nei decenni lo hanno del tutto svilito. L’azione del Comitato
quindi si fonda proprio sul voler individuare soluzioni alternative
e condivise all’attuale modello di sviluppo. La costante
partecipazione alle assemblee di cittadini, lavoratori, disoccupati,
precari, studenti, ci rende tutti più consapevoli del percorso
che andremo a definire, partendo proprio da quelle che sono le
esigenze della collettività. Per raggiungere tale obiettivo il
Comitato studia e approfondisce le problematiche del territorio
per poi vagliare una o più proposte sulle tematiche in questione;
le proposte vengono poi discusse in assemblee popolari che
rimangono comunque unico contesto di approvazione
di qualunque decisione. Più che di organizzazione ci piace parlare
di principi basilari, definiti in un’apposita carta, condivisa da
chiunque voglia portare il proprio contributo alla stessa causa, e
di “modus operandi”: vi è lo strumento unico di valutazione e
decisione, l’assemblea appunto, ed i contenuti e riflessioni che in
essa fuoriescono, da cui prendono il via le azioni sul territorio,
auto-coordinate, mediante gruppi di lavoro che coinvolgono gli
stessi cittadini, che a loro volta si gestiscono, in tempi e modalità
d’azione, in base agli obiettivi prefissati. Inoltre cerchiamo di
diffondere ogni assemblea con tutti i mezzi informativi possibili,
per permettere l’espressione del parere anche di chi è fisicamente
distante dal luogo dell’assemblea. Infine è’ importante
sottolineare ancora una volta che il Comitato non ha leader e non
sono riconosciute deleghe permanenti. Ogni delega, per il
confronto con le istituzioni, per l’intervento sui media o per
qualunque altra occasione, è autorizzata di volta in volta
dall’assemblea e i “portavoce” riferiscono quella che risulta
essere una posizione comune, questo perché crediamo
fermamente che nessuno possa o debba portare da solo il peso
della contrapposizione ai gruppi di potere. Il Comitato ricerca e
promuove le aggregazioni territoriali, consapevole che ogni città,
ogni paese e ogni quartiere ha la propria specificità. In questa
direzione va letta la nostra massima apertura al dialogo e al
confronto con qualsiasi realtà apartitica, movimenti comitati o
centri che siano, si muova in linea con quelli che sono i principi
sui quali si basa la nostra azione sul territorio. La condivisione, a
livello locale e nazionale (come si è potuto constatare in
ogni nostro intervento in contesti distanti e anche differenti)
riteniamo sia stimolante, fondamentale e, come già sottolineato
più volte, necessaria a quel processo avviato sette mesi fa e
che porteremo avanti tutti insieme.
Qual è la situazione ora a Taranto e come si sta muovendo
ora il CCLP e quali saranno le iniziative a lungo termine?
Dopo l’impeto travolgente che il Due Agosto ha investito questa
città, ancora all’orizzonte da qualunque angolo ti affacci al mare
non puoi non sentirti assediato da fabbriche di morte. Come
sempre incontrastato lo scenario più desolante sono le ciminiere
sempre in marcia del’ILVA, che mai hanno rallentato la
produzione dal 1995 ad oggi nonostante le sentenze del Gip. Ma è
impossibile non notare come in lontananza si scorgano tristi e
fieri gli altri otto stabilimenti ad alto impatto ambientale che
risiedono in quello che un tempo era ilmeraviglioso porto di
Taranto: l’ENI, la Cementir la discarica più grande del
Mezzogiorno, Italcave, l’inceneritore di Massafra la cui
produzione è stata raddoppiata appena un anno fa. La città intera
ormai lo sa, la battaglia iniziata il due agosto non potrà dirsi
conclusa fino a quando ogni impianto nocivo non lascerà il
territorio! Ci siamo interrogati più volte su quale fosse la parola
d’ordine, il percorso e la strategia più utile per ridare un futuro
alla nostra terra la cui vocazione storica è stata
completamente alterata e che vanta il triste primato di vedere i
suoi terreni, il suo mare e la sua aria avvelenata fino almeno al
ventesimo chilometro dal siderurgico. Siamo per ora convinti che
l’unico modo per invertire lo sviluppo assassino imposto a
questa provincia sia costruire dal basso una “Vertenza Taranto”
non come quelle fin ora propinate dalle istituzioni, ma una linea
guida che porti la città ad interrogarsi su quali siano le
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reali necessità ed esigenze e che produca conseguentemente un
percorso attivo di e con tutti i cittadini per costruire nuove forme
alternative di lavoro che valorizzino il percorso turistico, culturale
e storico di quella che fu una delle città più importanti della
Magna Grecia. In questa vertenza affronteremo il problema delle
bonifiche, che non potranno essere espletate fino a quando le
fonti inquinanti non cesseranno di esistere, cercando di incanalare
le competenze e le conoscenze dei cittadini per dare il via a un
percorso di sviluppo di comunità che produca nella pratica
autonomia e autogestione da parte dei cittadini del loro bene
comune: Taranto.
Il Primo Maggio 2013 abbiamo deciso di costruire un
palcoscenico per questa Vertenza, un luogo in cui con autentica
oggettività si riconosca la crisi del mercato del lavoro italiano e
si cominci a pensare alla costruzione di modelli di sviluppo
differenti che siano più in armonia con il territorio e che gli
permettano di vivere e svilupparsi e soprattutto che non siano
mera pratica di sfruttamento da contorni post-coloniali che tanto
caratterizza anche altre situazioni simili alla nostra nel Sud. Il
Primo Maggio a Taranto non sarà una festa, non una ricorrenza
ma la constatazione che nonostante le infinite promesse di una
vita migliore oggi siamo di fronte a tassi di disoccupazione
impressionanti (oltre il 50%) con un continuo dilagare di lavoro
nero in condizioni pessime e ai limiti della soglia di povertà. Sarà
la partenza della Vertenza Taranto che nel suo svilupparsi
cercherà di racchiudere in sé un’intera città stimolandola
alla partecipazione e all’annullamento della delega.
Un ringraziamento doveroso al Comitato.
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sindacale, non fu presa in considerazione. Non pervenne
neppure alcuna risposta. Il giorno successivo, sotto un sole
cocente d’agosto tarantino, ci siamo ritrovati di fronte l’arsenale e
tutti insieme abbiamo iniziato la nostra sfilata in coda al
corteo sindacale. E da trenta diventammo quaranta, poi
cinquanta, poi cento, tra donne lavoratori studenti e professionisti
dietro il nostro trerruote a gridare verità completamente
cacofoniche in un contesto costruito e per niente genuino come
quello in cui ci trovavamo. Poi l’arrivo in piazza, la folla che si
apre guardando incuriosita il nostro apecar e ascoltando i nostri
cori. La goliardia è diventata frenesia, speranza di poterci fare
sentire e bisogno imminente di raccontare a Taranto cosa stesse
succedendo all’interno della fabbrica e cosa non sarebbe, invece,
dovuto accadere mai più. C’è stato chi addirittura tagliò i cavi del
microfono del palco per evitare che noi prendessimo parola sul
pulpito, e di questo gesto ha anche incolpato noi. O chi, come i
segretari dei sindacati, sparì dalla vista non appena arrivammo.
Ma c’era una piazza, gremita di lavoratori e cittadini. E quella
piazza ci ha ascoltato: dopo il nostro intervento, per il quale si
erano scomodati molti caschi antisommossa (che di fatto però
non ebbero ragione di “rompere le righe”), la piazza si svuotò e la
gente seguì la nostra scia di novità. Fu una giornata infinita,
difficile da dimenticare.”
Liberi e Pensanti
E da quel giorno non si sono fermati, basta vedere quanta gente è
stata mobilitata e anche se i media nazionali non ne hanno data
l’importanza che meritava, l’eco del loro evento è arrivato:
attraverso i social network e attraverso i media alternativi (ci
piace citare Radio Onda Rossa). Centinaia di ragazzi che con una
maglietta rossa, coordinavano un’organizzazione perfetta,
centinaia di ragazzi che hanno unito le varie realtà di Taranto, e
non solo, che si sono mobilitate con l’unica volontà di veicolare
un messaggio diverso e indipendente rispetto a quello dei soliti
sindacati o dei partiti, che hanno perso l’appoggio del popolo. A
Taranto, invece, il popolo c’era e che avesse suonato Fiorella
Mannoia o i Ricchi e poveri scommettiamo che la gente ci
sarebbe stata ugualmente.
Redazione | 3 maggio 2013
Proprio Fiorella Mannoia dal palco ha voluto sottolineare un
aspetto molto importante: vietato dividersi. E sì, perché non
bisogna cedere al ricatto del lavoro, ma neanche a quello del
protagonismo. Bisogna piuttosto diffonderla questa lotta, bisogna
parlarne in Italia perché quello che succede a Taranto lo si può
vedere e ascoltare solo se si arriva fino a laggiù.
Proseguiamo il racconto della stupenda giornata del Primo
Maggio, vogliamo continuare a farlo sia per tenere alto l’interesse
verso quello che sta succedendo a Taranto, sia per supportare la
lotta che portano avanti migliaia di tarantini. Così, non possiamo
non parlare degli organizzatori del Comitato dei Cittadini Liberi e
Pensanti.
Iniziò tutto da un afoso giorno d’estate, come ci
raccontarono loro stessi in un’intervista collettiva: “L’esperienza
di quella mattinata, e delle giornate che la precedettero, rimane
impressa nella pelle di chiunque viabbia preso parte. La notte
prima, pochi di noi avranno dormito, eravamo poche decine a
stilare il discorso e a parlare di come articolarci in corteo,ma
sentivamo che qualcosa sarebbe cambiato. La nostra richiesta di
partecipare, faxata il giorno prima all’organizzazione dell’evento
Quello che c’è piaciuto, poi, sono state le toccanti testimonianze
che sono state lette dal palco: storie di gente normale, cittadini di
Taranto che hanno avuto un’unica sfortuna, quella di dover
convivere con una fabbrica che uccide vicino. Come quella di un
ragazzino di 13 anni che ha lottato, fino a quanto ha potuto,
contro “la malattia”, che oramai a Taranto è diventata la
“normalità”. La gente ne parla come se fosse normale ammalarsi
di tumore o avere una malattia simile, tanto che ne parlano come
fosse “il male di Taranto”. Ne parlano lucidamente e chiaramente
affermando dal palco e per la strada che nonostante tutto vogliono
rimanere qua (anche se qualcuno sa che magari dovrà trasferirsi
in Germania dati i numerosi problemi). Rimanere qui e affollare il
quartiere Tamburi non con l’incoscienza di voler sfidare qualcuno
o un male e neanche perché si debba rimanere qui. Rimanere a
Taranto ha assunto un altro valore per molti, è amore per la
propria città, ma soprattutto per la libertà: è Resistenza. Come ci
hanno insegnato veramente le troppe testimonianze dal palco,
dirette o quelle dell’anno scorso alla manifestazione contro Clini.
Libera e Pensante Resistenza.
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L’astensione della paura made in
Il sequestro del patrimonio Riva
Taranto
Cosimo La Gioia | 2 giugno 2013
Cosimo La Gioia | 18 maggio 2013
Non ci voleva un mago o una cartomante. L’esito del referendum
del 14/04/2013 era scontato. Ha rappresentato solo l’ennesima
occasione per ribadire quanto la città sia piegata dal ricatto
occupazionale salute – lavoro.
Non è possibile porre dinanzi i cittadini ad una scelta tra il posto
di lavoro e la salute. Sarebbe stato più opportuno porli dinanzi ad
una scelta tra la riconversione dell’economia tarantina e la
“fumosa” attività dell’ILVA che genera solo ricchezza in mano di
pochi. Forse, se il quesito referendario avesse avuto un tenore di
questo tipo, il suo esito non sarebbe stato così scontato.
Il quorum non è stato raggiunto perché ha vinto la paura di
cambiare, il terrore di lasciare la strada vecchia senza che ci sia
qualcuno o qualcosa che rassicuri la città e che la protegga e la
accompagni nel difficile cammino del cambiamento.
Lo Stato non è con noi e con rammarico apprendiamo ogni giorno
di più che anche i politici locali ci hanno voltato le spalle (vedi le
accuse al sindaco Stefano e l’arresto del Presidente della
Provincia di Taranto Florido con riferimento al filone di inchiesta
“Ambiente Svenduto”).
D’altro canto, dobbiamo anche dire che la città ha mostrato
probabilmente di essere ancora acerba, immatura per una scelta
così importante. I tarantini sono abituati a subire le scelte degli
altri e di sottostare alle stesse senza muovere ciglio. La tanto
famosa teoria tarantina del “ce me ne futt a me” (cosa me ne
importa) è purtroppo radicata nella nostra mentalità e sarà
difficile rimuoverla.
La grande industria è entrata prepotentemente nella vita della città
e ad oggi pare ci siano poche possibilità che si verifichi una presa
di coscienza vera da parte di tutti. E’ troppo facile parlare. Se solo
tutti i presenti al concerto del 1° Maggio si fossero recati alle urne
forse oggi staremmo a parlare di altro. Ma si sa, per votare ci si
mette il nome e la faccia. Troppo facile nascondersi nella folla.
Proprio mentre in pochi se lo attendevano, quando l’azienda da
rottamare aveva ormai ricevuto l’ok per continuare a produrre
senza intoppi e fastidi, su richiesta della Procura di Taranto, in
applicazione della Legge 231/2001 sulla responsabilità giuridica
delle imprese, il 24 Maggio 2013 il pm Patrizia Todisco ha
disposto il sequestro di beni della società Riva Fire S.p.A (che
controlla la società Ilva S.p.A) per un ammontare di 8,1 miliardi
di euro.
La misura del sequestro è stato adottato per equivalente nel senso
che l’autorità giudiziaria ha stimato in tale cifra i costi per il
risanamento delle aree gravemente inquinate dal mostro ILVA.
Tali fondi quindi sono a garanzia delle opere di disinquinamento
necessariamente da eseguire.
Il Gip di Taranto ha disposto i sigilli sui beni per tale cifra
affidando la custodia degli stessi a Mario Tagarelli, ex presidente
dell’Ordine dei commercialisti di Taranto.
E pensare che qualcuno aveva affermato che i fondi per risanare
la fabbrica e l’ambiente non c’erano. E’ chiaro che è inutile
attendere un’opera di magnanimità da parte della famiglia Riva. I
patti non sono stati rispettati e le disposizioni dell’AIA non sono
ancora minimamente messe in atto. Vi è un grave ritardo nella
realizzazione delle opere che mostra la scarsa volontà dell’ILVA
di ridurre realmente gli effetti dannosi della sua attività
(scandalosa la realizzazione di una recinzione con rete da calcetto
per ridurre le polveri e minerali).
L’unica soluzione è mettere in pratica le leggi che ci sono e
devono essere quindi rispettate senza sconti per nessuno.
L’ILVA S.p.A a nome del suo amministratore delegato Enrico
Bondi ha presentato dinanzi al Tribunale del Riesame di Taranto,
il ricorso al provvedimento di sequestro.
Prontamente giungono le voci “terroristiche” che gli stipendi
degli operai del prossimo mese sono a rischio in quanto le casse
aziendali sono vuote. E’a rischio l’approvazione del piano
industriale ILVA 2013-2016 avviato da mesi e la vocazione
industriale del Paese.
Se il futuro della fabbrica maledetta sarà ancora nelle mani della
famiglia Riva o chi per essi, dovrà essere rispettoso per la gente
che la ospita.
Bellissima la frase rilasciata su un social network da parte di uno
dei più grandi giornalisti Gad Lerner: “Riva guadagnava miliardi
e con gli spiccioli si comprava Taranto”. La realtà dei fatti è
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conoscibile anche da chi non vive l’assedio e l’occupazione delle
fabbriche della morte sul nostro territorio, basta solo un po’ di
onestà intellettuale e fare giornalismo, per chi ne è capace, al
soldo di nessuno.
Avanti Taranto!
“Buongiorno Taranto”: l’Ilva e
Taranto in un film, intervista al regista
Paolo Pisanelli
Redazione | 2 giugno 2013
Come si strutturerà il film?
<<Il film è ancora un work in progress, siamo quasi alla fine delle
riprese e contemporaneamente abbiamo avviato il montaggio già
da un po’ di tempo. Lo strumento narrativo utilizzato è quello
della webradio. È un viaggio attraverso le tensioni e le passioni di
una città immersa in una nuvola di smog. Le rabbie e i sogni dei
suoi abitanti sono accompagnati dalla cronaca di una radio
nomade e intermittente, che ogni mattina si collega alla città e
saluta i radioascoltatori: “Buongiorno Taranto!”. È una radio
svalvolata, fatta di parole, musica e tante immagini, un cineocchio digitale che scandisce il ritmo del film e insegue gli eventi
che accadono ai confini della realtà, tra rumori alienanti e odori
irrespirabili. Un viaggio surreale accompagnato da esplosioni di
bellezza sommersa e ipnotici tramonti sul lungomare>>.
Come vede la situazione di Taranto e dei tarantini ricattati
dal lavoro?
<<Dal punto di vista teatrale si potrebbe pensare di essere
precipitati in un dramma shakespeariano: salute o lavoro? Lavoro
o salute? Essere o non essere? Il finale di questo dramma riguarda
il presente e il futuro degli abitanti e non è ancora stato scritto,
anche se molto influenzato dalle scelte fatte>>.
Quali sarebbero le speranze di una Taranto senza l’Ilva?
Li abbiamo incontrati a Taranto, il primo maggio, mentre
pubblicizzavano il loro film. Abbiamo chiesto un’intervista al
regista, Paolo Pisanelli, e con molto piacere la pubblichiamo. Si
parla di un film che ha attraversato le problematiche che a
Taranto sono quotidiane: l’Ilva, la disoccupazione, la saluta,
l’ambiente e molto altro.
Due parole sugli autori: chi c’è dietro il progetto
<<“Buongiorno Taranto” è un progetto del laboratorio di
comunicazione Big Sur e l’associazione OfficinaVisioni. Il
progetto si articola in un film documentario e un videoblog, ideati
dal filmaker Paolo Pisanelli (vedi credits completi). Da sempre
impegnati nella comunicazione sociale, raccontare la storia di una
città come Taranto è un gesto di naturale evoluzione del percorso
seguito finora. Come Big Sur, infatti, abbiamo portato il cinema
documentario in piazza con il progetto di Cinema del reale, siamo
entrati nei Centri diurni per incontrare e valorizzare le risorse
creative di persone in difficoltà, abbiamo varcato la soglia dei
Centri di accoglienza per Immigrati per dare voce alle paure e alle
speranze di tante persone alla ricerca di un futuro migliore, siamo
stati tra le macerie dell’Aquila per raccontare la storia di una città
distrutta dal terremoto. Abbiamo filmato per raccontare le storie
di oggi, storie che viviamo>>.
Com’è partita l’idea del progetto?
<<A luglio 2012, la magistratura di Taranto ha ordinato il
sequestro e il blocco delle lavorazioni in alcune aree
dell’impianto siderurgico. È come se la città si fosse svegliata da
un torpore in cui è rimasta incastrata per oltre 50 anni e noi siamo
partiti dal 2 agosto 2012 per filmare gli eventi che accadevano in
città. Il progetto è nato così, dalla nostra necessità di documentare
la realtà e le trasformazioni politiche e sociali che riguardavano
Taranto>>.
<<E’ un periodo ipotetico dell’irrealtà… L’ILVA c’è, prima era
ITALSIDER, e la sua presenza si fa sentire molto bene da
cinquant’anni a questa parte. In questi cinquant’anni sono stati
prodotti in Italia molti più disastri ambientali rispetto a quanto
prodotto nei millenni precedenti>>.
Nel film avete incontrato anche gente che sostiene l’Ilva
altrimenti, sostiene, “ci sarebbe solo disoccupazione”. Come si
può sostenere una tesi simile?
<<Purtroppo per molti l’ILVA rappresenta l’unica boa a cui
aggrapparsi, non ci sono molte alternative e la percentuale di
disoccupazione a Taranto è impressionante, nonostante sia il
primo polo siderurgico italiano. La “cultura della fabbrica” che
permette di vivere ai lavoratori e ai loro familiari, è stata
inculcata per anni ai giovani e soprattutto ai bambini, è celebrata
anche nel mosaico della chiesa di Tamburi>>.
Nel trailer ci sono molte immagini che si riferiscono al
Comitato Cittadini Liberi e Pensanti che noi abbiamo
apprezzato molto. come vede questo comitato (e gli altri)?
Hanno fatto parecchio rumore… come i tarantini si stanno
mobilitando per la battaglia contro l’ilva?
<<I tarantini ormai hanno capito che devono svegliarsi dal sonno
e riconquistare il potere di decidere il loro futuro, per anni alcune
associazioni (Donne per Taranto, PeaceLink…) hanno avuto il
merito di denunciare l’inquinamento e le morti per malattie, poi
dal 2 agosto 2012 il Comitato dei cittadini liberi e pensanti ha
fatto un lavoro di sensibilizzazione e mobilitazione eccezionale,
arrivando a recuperare il Parco Archeologico delle Mura Greche e
organizzando un bellissimo concerto del Primo Maggio con la
partecipazione gratuita di artisti provenienti da tutta Italia: da
questa cura e tutela dei luoghi e da questa esperienza creativa
bisogna ripartire>>.
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Come si può sostenere il progetto?
<<Il progetto finora è stato interamente autoprodotto da Big Sur e
OfficinaVisioni. Per sostenere la fase di post-produzione,
chiediamo un contributo collettivo attraverso il crowfounding.
L’obiettivo è il raggiungimento della quota di 5.000 euro, da
ottenere grazie a una community in rete, che riteniamo
fondamentale anche per la futura distribuzione del film. La fase di
montaggio e post-produzione si concluderà il 15 agosto 2013 e
l’uscita del film è prevista per settembre 2013. Per aiutarci a
completare questo viaggio è possibile prenotare una quota di
sostegno al progetto grazie al portale produzioni dal
basso cliccando il pulsante “SOSTIENI” e seguendo le istruzioni.
Il link si può trovare sul sito di Buongiorno Taranto. Sono a
disposizione 500 quote da 10 euro. Chi decide di acquistarne più
di una avrà a disposizione una serie di rewards relativi al
progetto, dal dvd, alla maglietta, alla locandina. Il ritorno
commerciale è molto relativo, ma è importante capire che Taranto
è lo specchio dell’Italia di oggi e che dobbiamo puntare
l’attenzione su quello che accade lì. Siamo tutti tarantini!>>
timoniere: gli operai protestano davanti ai cancelli e protestano
contro l’assenza di tute da lavoro di ricambio e delle mascherine
(alcuni degli addetti alla manutenzione ordinaria lamentano
addirittura l’assenza di bulloni utili ai fini dell’espletamento delle
operazioni basilari).
Come direbbe qualcuno, siamo alla frutta. Se manca la sicurezza
sugli impianti gli operai devono fermarsi, ripeto, devono fermarsi.
Si teme che quella fabbrica diventi quello che qualcuno, seppur
vandalo, ha scritto su un muro presso il Porto: Morte e
Disoccupazione.
Brindisi, i danni ambientali in Puglia
non sono solo ILVA
Redazione | 1 marzo 2013
Spiccioli in cassa
Cosimo La Gioia | 16 giugno 2013
Nonostante il ricorso avanzato dalla Riva Fire, società che
controlla il colosso siderurgico tarantino, il riesame ha
confermato il maxi-sequestro di qualche settimana fa di 8,1
miliardi di euro.
Nelle casse della holding i finanzieri però hanno trovato pochi
spiccioli, 250 mila euro circa, che, di fronte a quanto serve per
avviare le bonifiche e i risanamenti, fanno il solletico.
A questo punto pare che i Riva abbiano due scelte: ricorrere a
prestiti da parte degli istituti di credito o chiedere una proroga
(l’ennesima) per completare quanto disposto dai giudici.
E’ ovvio che nel caso i vertici aziendali richiedessero una proroga
per i lavori, si aprirebbe un nuovo scontro con la magistratura che
porterebbe sicuramente ad una decisione atta a sequestrare gli
impianti senza facoltà d’uso degli stessi.
L’azienda afferma che il mercato dell’acciaio sta attraversando un
periodo difficile a causa della crisi economica mondiale e alla
congiuntura sfavorevole degli ultimi anni (è strano come però la
produzione negli ultimi tempi sia accelerata a dismisura). In
realtà l’Ilva di Taranto in questo momento è una nave senza
Oltre al caso Ilva in Puglia c’è un’altra spinosa vicenda
ambientale che scuote le coscienze e le preoccupazioni dei
cittadini. A Brindisi un comitato cittadino, fatto per lo più di
madri, si sta battendo affinché la centrale Enel di Cerano
(contrada di Brindisi) cessi di bruciare carbone, deleterio per tutti
gli abitanti della zona. I metodi che vengono adottati troppo
spesso si avvicinano ad illeciti, come lo sversamento in ambiente
senza recinzioni di acque contaminate col carbone, che si
disperdono in tutta la zona. Il comitato denuncia anche le fiamme
giornaliere e le emissioni piene di tossicità, con la concomitanza
di un’altra centrale, l’Edipower, che poco fuori Brindisi ha
ripreso la propria attività di combustione di carbone. Anche in
questo caso il tutto avviene con una preoccupante lontananza da
ogni sorta di legittimità, visto che il carbonile dell’azienda è stato
sequestrato dalla magistratura, quindi si utilizzano le navi
carboniere presenti nel porto.
I rapporti in merito all’impatto ambientale di queste attività,
elaborati dal CNR di Lecce e Pisa, hanno dimostrato disfunzioni
cardiache e respiratorie nell’area circostante gli impianti.
Per questo il comitato delle Mamme No al Carbone chiede al
sindaco di Brindisi, Mimmo Consales, di pronunciarsi contrario al
prossimo progetto di Termomeccanica, utile ad un ulteriore
impianto industriale nella zona: termovalorizzatore. Il diniego al
nuovo investimento industriale è dettato dalla poca chiarezza
delle attività già presenti ed alla voglia di salvaguardia della
propria salute.
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Polvere nera non separabile
Gianni Delle Gemme | 13 luglio 2013
Contrada Cerano (Brindisi), 2007. Un gruppo di contadini
salgono sui loro trattori con i carrelli carichi di uva nera appena
raccolta e si dirigono verso il palazzo del Municipio con l’intento
di riversarla davanti all’ingresso.
Stanno per compiere un atto simbolico, di protesta, verso
l’ordinanza emessa a giugno con cui viene vietata la coltivazione
di prodotti agroalimentari nei pressi di Cerano per possibile
rischio di inquinamento. 400 ettari di terreno, adiacenti al nastro
trasportatore e al carbonile, interdetti alle coltivazioni e decine di
aziende agricole messe alle corde. Gli agricoltori vengono
bloccati dalla Digos un attimo prima di arrivare a destinazione e
tutto il carico d’uva viene sequestrato per permettere ai laboratori
dell’Arpa di effettuare dei campionamenti. I risultati di quelle
analisi (molto tardivi e più volte sollecitati) sono però deludenti:
il referto dell’Arpa classifica quella patina nerastra che ricopriva
l’uva semplicemente come “polvere nera non separabile”, senza
nemmeno specificare se fosse polvere di carbone o no. Anzi,
paradossalmente fa recapitare al contadino una fattura di 600 euro
per le analisi svolte e un avviso di garanzia per violazione
dell’ordinanza che vietava il prelievo del prodotto. Ma i contadini
non mollano, le indagini proseguono e due anni dopo, nel 2009,
partono i campionamenti e le analisi, sia dei periti di parte Enel,
sia di quelli delle parti lese.
Contrada Lazzaro (Reggio Calabria) , 2009. I rifiuti provenienti
dalla centrale Federico II, (ceneri tossiche e altri materiali
pericolosi), vengono smaltiti illegalmente in Calabria. Tra il 2006
e il 2007 sono state circa 100mila le tonnellate di rifiuti tossici
occultati in un’area sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale
a poca distanza dal mare e adiacente a terreni agricoli. Un profitto
per Enel di oltre 6 milioni di euro l’anno, rispetto alla spesa
stimata per lo smaltimento del materiale in discariche idonee.
Disastro ambientale e associazione a delinquere finalizzata al
traffico illecito di rifiuti pericolosi sono stati i reati ambientali che
hanno portato all’arresto di 10 persone, tra cui anche dipendenti e
dirigenti dell’Enel.
Ma questa è un’altra storia. Un altro processo.
Torniamo a Brindisi. Il movimento No al Carbone presenta un
esposto in Procura chiedendo di accertare le cause e le
responsabilità per l’inquinamento dei terreni e due mesi dopo, il
22 febbraio 2010, l’Amministrazione comunale con delibera di
giunta, rinuncia a qualsivoglia azione giudiziaria e pretesa
risarcitoria nei confronti dell’Enel, nelle cause esistenti, solo a
condizione che la società eroghi un contributo di circa un milione
e 200mila euro per il completamento del parco Magrone ed
effettui il risarcimento dei proprietari e residenti dell’area
agricola adiacente l’asse attrezzata e la Centrale Federico II.
Brindisi, 2011. Viene depositata la perizia superpartes che
finalmente fa luce sulla misteriosa “polvere nera non separabile”.
Una perizia in cui si dice una volta per tutte che il carbonile di
Cerano è sprovvisto di qualsiasi misura idonea ad evitare le
dispersioni di polveri di carbone e che queste sono presenti sulle
abitazioni e sulle colture confinanti. Si concludono le indagini del
Pubblico Ministero e si fissa la prima udienza del processo Enel
al 12 dicembre 2012.
Si dice che il lupo perde il pelo ma non il vizio, e infatti dopo le
contrade calabresi è toccato alle campagne brindisine. Scoperto a
ottobre un traffico illecito di trecentomila tonnellate di rifiuti
speciali e pericolosi provenienti da alcune aziende brindisine tra
cui la centrale Federico II, interrati in discariche abusive nelle
campagne brindisine. Il solito giro insomma, rifiuti tossici con
documentazioni false, grossi guadagni per la mafia locale e
risparmi immensi per le aziende.
Dicembre, 2012. Parte la prima udienza del processo Enel a
carico di 13, tra dipendenti e manager, e due imprenditori che
avevano in carico la movimentazione del carbone. L’accusa,
secondo il decreto di citazione a giudizio, è quella di aver messo
in atto un DISEGNO CRIMINOSO che ha portato alla
dispersione di polveri di carbone oltre il recinto aziendale
causando gravi danni ambientali. Dalle indagini emergerebbero,
infatti, diversi punti di questo disegno criminoso che vedeva i
dirigenti Enel ai massimi livelli, pienamente consapevoli del fatto
di avere un nastro trasportatore non a tenuta stagna, un carbone di
pessima qualità e un carbonile a celo scoperto, capace di
contenere 750mila tonnellate di minerale, dove il fenomeno dello
spolverio era incontrollabile.
Un processo che ha molte analogie con quello dell’Ilva di Taranto
e dei parchi carbonili in principio sequestrati dal GIP Todisco, ma
anche molte differenze: una su tutte, la decisione della procura di
Brindisi di non sequestrare la fonte inquinante.
Tante le responsabilità: della magistratura, che non emettendo il
sequestro del carbonile permette di fatto ,ancora oggi, il protrarsi
del reato, i sindaci di Brindisi che in quanto garanti e responsabili
della salute dei cittadini avrebbero potuto prendere decisioni
invece di dimostrarsi indifferenti come tutto il testo delle
istituzioni, ma anche dei mass media tradizionali, che dovrebbero
fare informazione e denuncia e invece raccontano altro.
Tribunale di Brindisi, 12 dicembre. Tantissime le richieste di
costituzione di parte civile (circa 50) nella prima udienza di
quello che è certamente un processo a degli imputati, ma
soprattutto è il processo ad uno spietato sistema produttivo
incentrato solo sui grandi profitti provenienti dalla produzione di
energia da carbone, a discapito del territorio e della salute dei
suoi abitanti. Circa cento milioni di tonnellate di carbone bruciate
da Enel in questi decenni, che hanno portato profitti lordi per
Enel per circa 5 miliardi di euro pari a diecimila miliardi di
vecchie lire, lasciando invece danni immensi al territorio, sul
piano ambientale e sanitario come certificato dallo studio
dell’Agenzia Europea sull’Ambiente.
Tra le associazioni e i movimenti a presentare richiesta di
costituzione di parte civile c’è il Movimento No al carbone,
Salute Pubblica, Medicina Democratica, Greenpeace, Il
comitato regionale di Legambiente, il Wwf, Italia nostra e
Federutenti. Ma anche alcuni comuni e la provincia di Brindisi.
13
Tra i grandi assenti c’è lo Stato che è azionista di maggioranza
Enel, ma ancora più pesante l’assenza della regione Puglia del
presidente Niki Vendola, colui che in campagna elettorale dal
palco di piazza Vittoria a Brindisi urlò queste parole: ”Il primo
tempo lo giochiamo a Taranto con l’Ilva, ma signori dell’Enel: il
secondo tempo lo giocheremo con voi a Brindisi”. Belle parole,
solite belle parole da campagna elettorale. Niki Vendola a
Brindisi non c’è più tornato.
Brindisi, 15 Luglio 2013. Lunedì alle 9.30 si tornerà in aula per la
quinta udienza in cui probabilmente ci saranno le deposizioni
degli uomini della Digos che hanno condotto le indagini.
Speriamo dunque che si possa finalmente entrare nel vivo del
dibattimento e speriamo soprattutto che non si arrivi alla formula
indegna della prescrizione, come troppo spesso accade nei
tribunali Italiani, riuscendo ad ottenere un po’ di verità e giustizia
per un territorio che da decenni è vittima di un devastante sfregio
ambientale e sanitario.
Lunedì sera è bruciata anche una parte
di me. Ora c’è da riaccendere la dignità
di Napoli
Domenico Musella | 10 marzo 2013
un luogo simbolo. Lì c’era stata la grande fabbrica. Un
ammortizzatore sociale, una bestia inquinante, ma anche la culla
della “mitica” classe operaia. Ero troppo piccolo, non l’ho mai
vista in funzione, o comunque non lo ricordo. Solo più avanti l’ho
rivissuta con i racconti di chi l’aveva vista e l’ho immaginata con
le pagine del bellissimo La dismissione di Ermanno Rea (da
leggere assolutamente, per capire; Rea tra l’altro ha scritto il suo
commento ai fatti di Città della Scienza in questo editoriale su il
manifesto).
La Città della Scienza ho cominciato a frequentarla più
assiduamente al liceo, ci sono stato varie volte. Ho fatto lo
scientifico, e per un periodo con dei compagni di classe
mostravamo ai visitatori del museo degli esperimenti di chimica;
poi con un altro progetto studiammo il territorio e le acque
dell’intera area. D’estate cominciai ad andare ai concerti che
facevano nel piazzale all’aperto. Conferenze, seminari, dibattiti,
mostre si sono susseguiti negli anni. Era viva e vissuta, la
nostra Cité des sciences ricavata da un’ex-fabbrica di fertilizzanti
della Federconsorzi, che una volta era stata la più antica fabbrica
in zona, la vetreria LeFèvre.
Un posto con enormi potenzialità di riscatto Bagnoli, per una città
che da sempre deve riscattarsi (chissà se è davvero mai esistito
nella Storia dei napoletani un momento in cui non ci si dovesse
“riscattare”…).
Un luogo dove davvero si può costruire un futuro da zero, e un
futuro fatto per bene, umano e rispettoso del meraviglioso
ambiente che abbiamo. E in più che abbia come cardine la
cultura, quel bagaglio di anticorpi che ci rende (o almeno
dovrebbe renderci) non manipolabili e non vendibili. Un luogo
dove dal letame, dalla monnezza e dall’amianto che oggi ci sono
possono nascere dei fiori, dove dalle ceneri può risorgere l’Araba
fenice.
Chiunque mi viene a trovare, dall’Italia o dall’estero, e mi chiede
di portarlo in giro per la città, ha questo quartiere come tappa
obbligata. Per me è imprescindibile: puoi pure evitare il Maschio
Angioino, ma se vuoi avere un contatto profondo ed intimo con la
Napoli contemporanea e le sue infinite contraddizioni, devi
andare a Bagnoli. Non c’è scampo, altrimenti devi cambiare
Cicerone: chi mi conosce lo sa. E Bagnoli ora senza la Città della
Scienza, praticamente l’unica struttura finora nata dalla
trasformazione (più che ventennale e incompiuta) dell’ex area
industriale, non è più la stessa.
Ma che occasione, ma che affare! Vendo Bagnoli, chi la vuol
comprare?
Colline verdi, mare blu: avanti, chi offre di più?…
(Edoardo Bennato, Vendo Bagnoli, 1989)
Scusatemi se il tono sarà molto sul personale e
sull’autoreferenziale, ma parlando della Città della Scienza
andata in fumo qualche giorno fa non riesco ad evitarlo, è più
forte di me. E ciononostante ho la presunzione di dire che
servono tutte le testimonianze, anche una emotivamente molto
coinvolta, su quanto rappresenta questo vergognoso atto per
Napoli, per i napoletani e per il loro futuro. Non riesco a stare
zitto, lo devo a me e al posto dove sono cresciuto. Sfrutterò
queste pagine, non me ne vogliate, per raccontarvi un po’ di me.
Ci sono stato la prima volta alle elementari, o forse alle medie,
alla Città della Scienza di Bagnoli. Mi ha sempre affascinato
Bagnoli: un posto bellissimo, tra i più affascinanti di Napoli,
forse per me “il” più affascinante. Crescendo, è diventato per me
Indignazione, rabbia, dolore, tristezza, e tutta una serie di
sentimenti non certo incoraggianti mi hanno colto qualche sera fa
vedendo le fiamme e il fumo. Mi sono sentito bruciare anch’io, i
piromani sono stati talmente bravi da far propagare il fuoco anche
in una parte di me e di tutti i napoletani. E se è successo a me, che
non vivo in quel quartiere, figuriamoci ai residenti. Non oso
immaginare poi quanto quelle sensazioni che elencavo sopra
siano state amplificate per i 160 lavoratori che dedicavano le loro
giornate a quel posto. Che grazie a quel lavoro hanno sostentato
fino ad oggi le loro famiglie, anche se negli ultimi tempi un po’ a
stento, con la fondazione in crisi e gli stipendi in ritardo di vari
mesi.
Io non so chi è stato a compiere questo gesto che definire ignobile
è francamente riduttivo, non ho la palla di cristallo. Ma come
tanti napoletani, so perché l’ha fatto. La costa ovest di Napoli,
dove si trova Bagnoli, è l’unica parte di costa non edificata. Lo
stabilimento siderurgico con tanto di enorme indotto,
quell’Italsider che l’ha avvelenata per un secolo, l’ha anche
14
paradossalmente “salvata” dalla speculazione edilizia. Gli appetiti
della malavita legata ad imprenditori senza scrupoli legati alla
malapolitica sono grossi e ventennali. Bagnoli, come
ironicamente aveva previsto il bagnolese Edoardo Bennato, è
diventata territorio di conquista, con gli avvoltoi appollaiati sulle
sue spalle fin dalla chiusura della fabbrica. C’è chi Bagnoli la
vuol comprare, non solo con i soldi ma con l’arroganza e la
violenza.
Stamattina il
flash
mob
per
una
“Città
della
CoScienza” (sotto, qualche scatto dall’evento) in una bella
giornata di sole ha raccolto migliaia di persone per dire che non
siamo in vendita e che nonostante le scottature non intendiamo
arrenderci. Un segnale importantissimo di vitalità, che un po’ di
speranza l’ha riaccesa in tutti noi. Ma bisogna continuare, un
momento di allegria e unità purtroppo non è sufficiente.
E un luogo di cultura proprio lì sul mare a via Coroglio dava
fastidio. Così come hanno dato fastidio i vari progetti di parchi,
spiagge ed aree culturali, artistiche e sportive che avrebbero
dovuto seguire una seria bonifica ambientale. Il tutto,
ovviamente, rimasto solo sulla carta dal 1991 a oggi.
Napoli sta vivendo un periodo molto difficile, mai come in questo
momento. Sta morendo, dice qualcuno. Disoccupazione e povertà
alle stelle, servizi essenziali non sempre garantiti (dai trasporti
pubblici, all’assistenza sociale e sanitaria, alla scuola etc.),
speculatori e camorristi che sparano sulle macerie. La violenza
diventa un problema sempre più quotidiano (la testata Il
Mattino ha dedicato tra l’altro al tema un interessante dibattito in
settimana).
Le speranze di cambiamento che ho trovato quando sono tornato
dal mio soggiorno all’estero (era il periodo della grande
mobilitazione popolare che ha fatto vincere il Sì ai referendum su
acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento nel 2011: la
città cominciava a riempirsi di biciclette, per strada circolava una
speranza colorata e una voglia di partecipare e riscattarsi che mi
sorprese, una vitalità riscoperta dopo anni) in pochissimo tempo
sono svanite.
Siamo tornati ad essere abbastanza egoisti, opportunisti,
frammentati e violentemente contrapposti. Orgogli, settarismi,
miopie, tra le tante cose, ci tengono disuniti e quindi deboli
quando insieme potremmo essere forti. Lo smembramento invece
ha ripreso vita, lui. Complice chi vuole del male a questa città
perché vuole troppo bene ai suoi affari, ai suoi interessi. Complici
tutti noi, quando lo accettiamo come un dato di fatto e vendiamo
a buon prezzo la nostra dignità.
Giorno per giorno dobbiamo riscattarci, ritrovare la coesione e
riaffermare la nostra dignità. Dobbiamo interessarci a ciò che è
comune, impedire che lo distruggano. Dobbiamo interessarci agli
altri, non tirare a campare senza scegliere una direzione migliore.
Il cuore, la nostra “ricchezza” come dice una di quelle canzoni
classiche partenopee che riescono a cogliere l’anima profonda
della città, almeno quello non dobbiamo perderlo.
Sì, si tratta di uno sfogo, lo leggete. Ci sono tante realtà che fanno
sentire la loro voce in direzione ostinata e contraria
quotidianamente, e che mantengono viva la città. Ma spesso la
voce grossa della violenza e della sopraffazione le
sovrasta.Napoli la vedo come una speranza disattesa (per ora).
Napoli è stanca. Ma dobbiamo rialzarci.
E attenzione: come mi piaceva dire con degli amici un po’ di
tempo fa, Napoli non ha bisogno di supereroi. Men che meno di
capipopolo, urlatori o burattinai. Napoli ha bisogno dei
napoletani. Ha bisogno che tanti piccoli gesti della vita quotidiana
ci riportino ad una dimensione umana dell’esistenza. Bastano
cose anche molto piccole: dal sorridere al vicino, al rinunciare
alla competizione sfrenata per accaparrarsi un posto in metro,
all’evitare di scannarsi per la precedenza ad un incrocio. Ma
anche al farsi sentire se ledono un diritto nostro o di chi sta a
fianco a noi, al non tollerare le ingiustizie, al predisporci
all’ascolto dell’altro… insomma mi avete capito, l’elenco può
essere chilometrico.
Tutt”a
ricchezza
‘e
Napule
era
‘o
core…
dice
ch’ha
perzo
pure
chillu
llà…
(Galdieri-Barberis, Munasterio ‘e Santa Chiara, 1945)
15
«Indagini e bonifica a Bagnoli, ma
anche partecipazione e spazi sociali»:
come ripartire dalla Bancarotta
Domenico Musella | 25 aprile 2013
Il servizio video è disponibile sul canale
FirstLinePress
http://www.youtube.com/watch?v=LblV3kwagyA
Youtube
Dal 2 giugno 2012 e fino all’11 aprile scorso Bancarotta ha
rappresentato per Bagnoli e per Napoli uno spazio pubblico
aperto e autogestito, una riappropriazione positiva di un’area
abbandonata dopo 20 anni e più di speculazione e immobilismo,
lì dove per un secolo fino al 1991 sorgeva il complesso
industriale dell’Italsider-Ilva (che a Taranto continua ancora
oggi a far danni). Anche a livello simbolico lo spazio di
Bancarotta
ha
un
suo
significato
molto
forte:
tecnicamente l’edificio era una filiale della banca Intesa-San
Paolo all’interno della grande fabbrica: occuparlo e farlo vivere di
questi tempi ha voluto dire anche riconvertire l’idea di economia
e socialità in qualcosa di diverso da quello che i grandi poteri
economico-finanziari impongono.
Laboratorio, sede di assemblee e iniziative culturali, sociali e
sportive, per quasi un anno Bancarotta ha resistito agli sgomberi
grazie al collettivo che se ne prende cura e agli abitanti del
quartiere che l’hanno vissuta e popolata. Come per tutti gli stabili
occupati il rischio di sgombero era sempre presente, essendo
inoltre il locale sotto la giurisdizione della Bagnolifutura, la
“società per azioni di trasformazione urbana” che non ha
trasformato granché nell’ex area industriale. E lo “sfratto” è
arrivato, ma nella più paradossale delle maniere: l’11 aprile
scorso la magistratura ha posto sotto sequestro una superficie
di tremila ettari dell’ex Italsider (e tra questi anche Bancarotta)
nell’ambito proprio delle indagini su quella mancata bonifica che
il collettivo dalla sua nascita ha sempre denunciato. A pagare per
le responsabilità di disastro ambientale, truffa ai danni dello Stato
e false certificazioni della bonifica di un pugno di dirigenti sono
stati, quindi, i cittadini e gli attivisti che avevano dato vita a una
delle poche iniziative (insieme ad esempio a Città della Scienza,
per ironia della sorte vittima recentemente di un rogo) che
avevano ridato vita a Bagnoli, sottraendola per un po’ alla
desolazione e alle tante speranze non realizzate.
Pur avendo perso temporaneamente la sede, il collettivo che
animava lo spazio Bancarotta non ha perso lo spirito, la volontà
di cambiare il quartiere in maniera partecipata. La scorsa
settimana (denominata della “rabbia”, un termine che rimanda,
con le dovute differenze, ai venerdì delle recenti rivolte nel
mondo arabo) non sono stati fermi un attimo, dando vita a tante
iniziative che hanno visto una forte partecipazione del quartiere,
che nonostante i tanti torti subìti, dall’inquinamento al rogo di
Città della Scienza all’abbandono nel degrado, dimostra di non
mollare e di resistere, con la voglia di riappropriarsi del territorio.
Oltre a continuare per strada attività e lezioni (come quelle di
musica nella foto, molto frequentate dai ragazzi del quartiere), il
collettivo Bancarotta ha recentemente occupato la X Municipalità
Bagnoli-Fuorigrotta, ha sottoposto a “sequestro popolare” la sede
di Bagnolifutura (foto sotto) incontrando anche il favore dei suoi
dipendenti che il giorno successivo si sono anch’essi ribellati e
hanno poi dato vita con Bancarotta e gli abitanti di Bagnoli ad un
corteo che ha attraversato il quartiere.
Il 18 aprile si è tenuto un sit-in davanti al Consiglio Comunale di
Napoli, che ha tenuto una seduta interamente dedicata al tema
Bagnoli. In quell’occasione First Line Press ha incontrato i
ragazzi del collettivo, realizzando l’intervista che trovate nel
video in alto prima che una delegazione entrasse a portare la sua
testimonianza nel palazzo di via Verdi, sede dell’assemblea
cittadina. Al momento da parte delle istituzioni c’è ancora un
nulla di fatto, mentre le indagini della magistratura sono in corso
e ai cittadini del quartiere non è stata data ancora pienamente la
voce, né risposte concrete, né la possibilità di una reale
partecipazione alle decisioni sul destino dell’area. Nel frattempo,
però, i bagnolesi si sono dati da fare: il 21 aprile dopo
un’assemblea popolare di quartiere si è costituito un Comitato
cittadino di lotta per la bonifica, un ambito di partecipazione e
azione con degli obiettivi molto chiari: dar vita a un osservatorio,
composto dalla cittadinanza, che monitori la bonifica; requisire i
beni mobili e immobili e i capitali di coloro che per un ventennio
hanno gestito Bagnolifutura e la fantomatica riqualificazione
ambientale del quartiere; la chiusura immediata della stessa
Bagnolifutura per istituire invece un tavolo permanente sulle
fondamentali tematiche di lavoro, casa, ambiente, servizi, beni e
spazi sociali.
La volontà del Comitato (a destra, un momento dell’assemblea) è
aprire un fronte di lotta come altri di livello nazionale (dai No
Tav in Val Susa, a quello che riguarda un’altra Ilva aTaranto, al
No Muos a Niscemi), perché quello dell’area di Bagnoli è un
problema che riguarda tutti, non solo i bagnolesi e i napoletani.
Parliamo di un disastro ambientale e di un territorio che da anni
non è più a disposizione di chi ci vive: qualcosa che ha molto a
che fare con il futuro di tutta l’Italia e che, affrontato in maniera
giusta e partecipata, può rivoluzionare le modalità del vivere
insieme e del senso di termini come “pubblico”, “sociale” e
“comune” oggi poco valorizzati in una Repubblica democratica
che in quanto tale, invece, dovrebbe averli come punti di
riferimento.
Del resto sono ancora tanti gli interrogativi ancora senza
riposta della cittadinanza e c’è ancora molta chiarezza da fare
sulla situazione dell’area. La magistratura si è accorta
improvvisamente dello stallo dei lavori dopo decenni di inattività
denunciata dalla popolazione, e inoltre non sono state neanche
sfiorate dai sigilli degli inquirenti né Bagnolifutura, né gli arenili
e lidi privati presenti sul litorale di Coroglio (che una forte
mobilitazione cittadina ha rivendicato come spiaggia pubblica,
raccogliendo anche lefirme per un referendum comunale), né
l’area della Cementir, di proprietà dell’industriale Caltagirone
(che “inspiegabilmente” non è mai neanche rientrata nei terreni
espropriati dagli enti locali e gestiti da Bagnolifutura). È evidente
che alcuni interessi sono talmente forti da non poter essere toccati
16
nemmeno dallo Stato. Nonostante anch’essi stiano in piedi su
suoli ugualmente inquinati dopo un secolo di produzione
industriale ad alto impatto. In più, sono ancora da accertare le
responsabilità politiche dei fallimenti di ogni progetto per l’ex
area industriale, e a tutt’oggi le istituzioni non hanno le idee
chiare su come dare slancio al quartiere e non hanno dato seguito
alle proposte provenienti dalla cittadinanza.
I fumi delle acciaierie non ci sono più da oltre vent’anni a
Bagnoli, ma la puzza della speculazione e di grossi appetiti
economici sulla zona è ancora forte, c’è da stare molto vigili.
A Bagnoli non c’è nulla da festeggiare
Carmine Conelli | 5 maggio 2013
prendere la parola.
È il destino dei subalterni meridionali: chiedono diritti, ricevono
mazzate.
Gli organi d’informazione fanno il resto: il travaglista Il Fatto
Quotidiano.it apre il suo articolo con un eloquente «alla fine
l’hanno avuta vinta i violenti» e prosegue riportando le
dichiarazioni di un esponente della sinistra “istituzionale”,
secondo cui «quattro giovanotti che giocano alla rivoluzione
hanno sporcato un evento gioioso come la festa dei lavoratori».
Chissà se Arturo Scotto, coordinatore regionale e deputato di
SEL, abbia di nuovo il coraggio di ripetere queste parole
ai cassintegrati FIAT e IRISBUS che, a causa della crisi e degli
ultimi licenziamenti, come hanno ribadito a gran voce sotto il
palco di Città della Scienza, non hanno proprio nulla da
festeggiare.
A margine dell’accaduto, credo che i tempi siano eccessivamente
maturi per porsi alcune domande.
Bisognerebbe riflettere innanzitutto su ciò che è stata Bagnoli. Le
aree ex Italsider ed ex Eternit, a più di vent’anni dalla chiusura,
non sono state ad oggi bonificate. Il territorio subisce ancora oggi
le drammatiche conseguenze dell’illusione sviluppista, che ha
imposto al Meridione un modello industriale composto da mostri
ambientali a capitale settentrionale.
Bagnoli, primo maggio.
I sindacati confederali decidono di tenere nell’ex quartiere
operaio situato a ovest di Napoli la versione locale della kermesse
musicale organizzata in occasione della festa dei lavoratori.
Una scelta simbolica, dato che il quartiere mai come negli ultimi
mesi è al centro delle cronache politiche cittadine. La sciagura di
Città della Scienza (a proposito, sono già finiti gli interrogativi e
l’ondata d’indignazione rispetto alle responsabilità del rogo)
prima, il sequestro dell’area ex Italsider per “disastro
ambientale” poi,
infine
il paventato
scioglimento
di
Bagnolifutura, società creata ad hoc per la bonifica e la
ricostruzione.
Sullo sfondo di questo scenario, l’incomunicabilità prolungata tra
cittadini e istituzioni: i primi che richiedono a gran voce la
bonifica e che paghi chi ha causato lo scempio ambientale; le
seconde che ristagnano eternamente nel pantano della
riqualificazione, tra gravi illeciti e rallentamenti di sorta.
Un Sud che deve dunque essere considerata come la “pattumiera”
del capitale settentrionale, come si evince dalle recenti inchieste
sullo smaltimento di rifiuti tossici in Campania e dalla presenza
di impianti industriali che fanno emergere sempre più
drammaticamente le contraddizioni tra salute e lavoro (il caso
di Taranto è da questo punto di vista tristemente attuale).
Vorrei infine tentare di mettere a fuoco il dispositivo morale
attuato contro i manifestanti. Come accade sempre,è sufficiente
bollare come violento chi protesta per svuotare tali rivendicazioni
di ogni dignità. Nonostante le immagini (facilmente reperibili sul
web) mostrino il contrario, la maggior parte dei media,
ricostruendo l’accaduto, affibbiano ai manifestanti un’etichetta
insostenibile secondo cui «un gruppo di facinorosi e di violenti
ha interrotto il concerto disturbando la tranquillità delle famiglie
e dei bambini accorsi a Città della scienza».
Rimane da chiedersi chi sono i violenti: chi chiede a gran voce la
bonifica o chi, tentando di dissipare ogni voce fuori dal coro, si
rende complice dello stupro di un territorio e di una popolazione?
Primo maggio, dicevamo.
Nel bel mezzo di quella che, svuotata dell’originario carico
ideologico, può essere definita a tutti gli effetti una “festa”, un
gruppo di manifestanti ha osato rivendicare le ragioni di un
quartiere che non ne può più di promesse e di parole vuote su
temi di vitale importanza come ambiente e lavoro. I sindacati,
avvertito il pericolo di vedersi rovinata la “festa”, hanno risposto
militarizzando letteralmente il palco, dispiegando il proprio
servizio d’ordine e lasciando poi che la polizia caricasse i
dissidenti. Il concerto viene prima sospeso e poi definitivamente
annullato, vietando così tra l’altro ai gruppi di manifestanti di
17
Venezuela: può un modello di sviluppo
tutelare l’ambiente, coinvolgere la Cina
regionale del Latinoamerica e l’indipendenza dagli Stati Uniti. Il
dibattito è in corso, nei prossimi anni poi vedremo anche
effettivamente che direzione prenderà questo desarrollo soberano.
In gioco, poi, ci sono anche gli equilibri internazionali e le sorti
della presidenza, con la malattia di Chávez che rende incerto il
fatto che tali politiche continuino ad essere applicate anche in
futuro, senza il carismatico leader.
e usare il petrolio?
Redazione | 21 gennaio 2013
Grecia, l’assalto all’acqua pubblica è
un affare che riguarda tutti gli europei
Redazione | 10 maggio 2013
La repubblica bolivariana sta provando a conciliare
l’inconciliabile, sfruttando nello stesso tempo le sue riserve di
petrolio orgogliosamente nazionalizzate, la biodiversità del suo
territorio, e rapporti privilegiati con Pechino. Da più parti ferve il
dibattito sulla via inseguita dal Paese di Chavez.
Le notizie che arrivano da Caracas sembrano contrastanti. Già da
diversi anni il gigante cinese ha puntato l’America Latina come
una delle aree di espansione, assieme all’Africa. In questo
contesto, il principale partner è proprio il Venezuela, con il quale
si cerca una sorta di complementarietà, di integrazione. È ciò che
dichiara anche il ministro del petrolio Rafael Ramírez (qui una
dichiarazione su El Universal). Smarcandosi dal modello
neoliberista targato Usa e che vede protagonisti il Fondo
Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, il Venezuela sta
progettando dal 2007 Piani di sviluppo socialista. Sia
economicamente che ideologicamente, quindi, le vicinanze con la
Cina sono molte.
Contemporaneamente, tuttavia, il governo venezuelano vuole
rafforzare i rapporti “non piramidali” con i lavoratori, risollevare
la popolazione dalla povertà e salvaguardare oltre alle persone
anche l’intero pianeta con una politica che sia sostenibile. Negli
ultimi giorni, per citare alcuni esempi, sono stati varati
programmi sia per tutelare la flora e la fauna, sia
per proteggere le coste (dal sito Rinnovabili.it).
Le suddette tematiche non sembrano per nulla essere nell’ottica di
Pechino: violazioni dei diritti umani, sfruttamento dei lavoratori,
noncuranza pressoché totale per il clima e l’ecosistema sono
all’ordine del giorno e da un lato costituiscono anche dei
“vantaggi” a breve termine per i cinesi, come arma di
concorrenza. Altra incongruenza, il ruolo del petrolio: è la
principale risorsa naturale ed economica del Venezuela, ed è
quello che consente di poter contrarre debiti e fare investimenti:
ma ha poco a che fare con programmi innovativi, rispetto
dell’ambiente, modelli di produzione alternativi.
Eppure c’è chi ci vede un modello tutto sommato coerente, che
inoltre è mirato ad un altro obiettivo importante: l’integrazione
Vittima numero uno del “piano di salvataggio” imposto dalla
Trojka (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario
Internazionale, Commissione Europea), la Grecia rischia di
perdere i suoi beni comuni, svenduti in cambio di denaro per far
quadrare i conti pubblici. Ma la popolazione invita alla
mobilitazione e chiede sostegno al resto dei cittadini del Vecchio
Continente.
In una lettera pubblicata sul portale francese dedicato alle lotte
ambientali e sociali Bastamag.net il comitato Save Greek
Water parla della prevista privatizzazione della gestione
dell’acqua nel Paese. Una privatizzazione pubblicamente
incoraggiata dal presidente francese François Hollande (alla
faccia della gauche e del cambiamento!) nel febbraio scorso
durante l’incontro con il Primo ministro greco Samaras.
L’inquilino dell’Eliseo ha invitato in quell’occasione le imprese
francesi a investire in Grecia nel settore idrico e della terra.
Il pensiero corre subito a Veolia e Suez, le due multinazionali
dell’Esagono che hanno procurato danni a mezzo mondo proprio
gestendone il patrimonio idrico, con l’ormai nota e triste formula
di “privatizzazione dei guadagni e socializzazione dei costi”. La
gestione di un bene pubblico secondo le modalità del privato –
ricorda Save Greek Water – ha significato aumento vertiginoso
dei prezzi dell’acqua per i cittadini, accesso ineguale ai servizi
idrici, diminuzione degli investimenti nella manutenzione della
rete, pratiche monopolistiche.
Si parla di “ritorno al protettorato” e di progressiva perdita di
sovranità e indipendenza, ritornando indietro a precedente del
1925, quando l’acqua greca era gestita dalla società privata
americana Ulen. Società pubbliche come l’EYATH a Salonicco e
18
l’EYDAP ad Atene rischiano seriamente la privatizzazione, e i
cittadini con il supporto di alcuni enti locali stanno provando a
mobilitarsi con soluzioni come il referendum popolare.
Nell’appellarsi agli esempi positivi della cittadinanza europea,
come appunto i referendum italiani del 2011, la
ripubblicizzazione attuata da diverse città francesi tra cui la
capitale Parigi, la protezione dell’acqua come patrimonio
pubblico in Olanda e Germania, Save Greek Water invita ad una
mobilitazione comune in rete, dimostrando la vera essenza
dell’Europa, da basare sulla partecipazione e non su di una
oligarchia antidemocratica. Il destino della Grecia – affermano –
è anche il destino dell’Europa (non foss’altro per la Storia, che
vede il nucleo della civiltà europea nascere proprio tra gli
ellenici). Tenendo presente, come recita un’aforisma di Tucidide,
che «Si definisce demos (popolo), quello che si oppone ai
tiranni».
Benvenuti sotto i monti del Cairo: il
villaggio del riciclaggio, ma a che
costo? Minoranza copta, raccolta dei
rifiuti e compagnie estere
Lorenzo Giroffi | 29 maggio 2013
Ci sono posti che saturi di significato rischiano di subire una
descrizione per stereotipi o semplificazioni: Manchiyet Nasr fino
a Mokattam, sotto i monti che costeggiano Il Cairo, villaggio
meglio conosciuto come Garbage City. Un luogo che quando i
tassisti l’ascoltano come destinazione sgranano gli occhi,
chiedono se vuoi entrare fino a dentro e se segue una risposta
affermativa ti fanno scendere, rifiutandosi di accompagnarti.
Una minoranza etnico-religiosa; una complicata gestione dei
rifiuti nella Cairo abitata da più di dieci milioni di persone; il
riciclaggio in una catena di montaggio umana fatta di mani, piedi,
occhi e nasi immersi nella spazzatura. Bambini, donne ed uomini
che distribuiscono il proprio lavoro come in uno di quei film nei
quali ci sono città in funzione di un oggetto o di un’azione, in cui
tutto è in funzione di meccanismi univoci.
Arrivo preparato a Mokattam perché la si è raccontata più volte
o con toni sensazionalistici, di una realtà alienante e di degrado,
o come un’attività a sfondo tradizionale, nella quale i cristiani
copti d’Egitto hanno creato il proprio business, oppure ancora
come il racconto di un fatto di discriminazione razziale, per chi
ha dovuto accontentarsi di quest’impiego.
Prima di ogni considerazione bisogna riflettere sugli ingranaggi
economici di questo posto e degli zabbaleen (garbage people),
abitanti del posto. I capi famiglia raccolgono la spazzatura nella
megaolopoli Cairo, ma senza che ci sia alcun accordo con le
autorità egiziane, che durante l’era Mubarak hanno preferito
affidare il servizio a compagnie private estere, chiaramente
inefficienti nella raccolta e con un servizio di differenziata
praticamente inesistente. Con il nuovo Governo post-rivoluzione
la situazione non è cambiata e ciò vuol dire che la raccolta
continua a compiersi in maniera preoccupante per gli zabbaleen,
col corpo a contatto diretto con ogni tipo di rifiuto. Altra tesi,
sposata anche dal papa della Comunità cristiana copta, Teodoro
II, è che la nuova classe dirigente dei Fratelli Musulmani non
abbia alcuna intenzione di integrare e legittimare i lavoratori della
spazzatura per ragioni religiose.
Tutto quello che arriva a Mokattam viene poi riciclato per
l’ottanta per cento, ma verrebbe da pensare che lo si faccia sulla
vita delle persone, nonostante chi scriva pensa che il riciclaggio
sia un processo necessario.
Dopo una lunga ricerca del tassista, riesco ad attraversare le
strade di Mokattam, con le imprecazioni dell’autista per le
innumerevoli dune sulle quali saltiamo e per l’odore
insopportabile che inizia ad insinuarsi dai finestrini chiusi. Un
rumore infernale di forni, sacchi tirati, lattine ammassate, mezzi a
motore di ogni genere che trasportano spazzatura e bambini che
saltano fuori da contenitori: tutti a compiere azioni da
ingranaggio, dentro una città che vive comunque la propria
quotidianità, quindi spazzatura sull’uscio di casa, di bar e cucine.
Ognuno seleziona il proprio rifiuto, mentre io raggiungo Bakhit
Mettry dell’organizzazione non governativa “Environment
A.P.E.”, che dal riciclaggio elabora materiale di ogni genere,
tramutandolo in lampade, collane, vestiti e tanto altro. Si spalanca
un portone dentro il quale m’infilo col taxi. Qui mi preleva
Bakhit, che mi conduce lungo un viale che si allontana dal
chiasso infernale, dall’odore nauseante e dagli animali di ogni
genere che t’invadono le orecchie. Mi mostra i laboratori della
sua ONG. Macchinari ed un orto ben curato: un paradosso
rispetto allo scenario appena attraversato. C’è anche un campo di
calcio che costeggia una scuola, dove forse i bambini con un
destino lievemente diverso dagli altri custodiscono qualche ora
per lo studio.
<<La nostra associazione Environment A.P.E. è nata nel 1994,
partendo dal compostaggio base per poi estendersi. La nostra
missione primaria, oltre ai temi di natura ambientale, è quella di
dare un’istruzione adeguata ai bambini. Grazie all’aiuto di molti
volontari siamo riusciti a dare continuità a corsi d’istruzione per i
ragazzini poveri di tutta la zona. Abbiamo corsi con più di
duecento bambini al mattino ed altri duecento durante il
pomeriggio>>.
Come mai qui si concentra la minoranza copta?
<<In realtà parliamo di un flusso migratorio di circa sessanta anni
fa, quando molti contadini dell’Egitto del sud, per lo più copti, si
recarono al Cairo in cerca di fortuna e lavoro. Erano diretti a
Shubra e Imbaba, ma poi il Governo pensò bene di dirottarli qui,
perché credeva che in questa zona deserta e con l’area montuosa
vuota non ci sarebbero state tante prospettive di permanenza.
Invece s’iniziarono a costruire le prime abitazioni, ma soprattutto
la comunità copta iniziò a sviluppare l’attività di raccolta dei
19
rifiuti, con la quale poi i capi famiglia hanno potuto sostenere
tutta l’area, cominciando a comprare vari macchinari utili al
lavoro>>.
Per gli zabbaleen cosa è cambiato dopo la rivoluzione? Prima
lo Stato supportava questo tipo di lavoro? Ora che rapporti ci
sono con il Governo?
Forse è errato parlare di quest’area come periferica, ma come al
solito lo è nelle coscienze dei molti che abitano una città grande
come il Cairo. In tanti non conoscono l’area da Manchiyet Nasr a
Mokattam e quello che ci succede, quelli che ne hanno qualche
informazione mi hanno raccomandato di tenermi alla larga, per la
sua pericolosità, oppure hanno sparato un netto giudizio di
lussuria, inerente al grosso business creato.
<<Per noi non è cambiato nulla dopo la rivoluzione, se non il
fatto che prima c’era qualche organizzazione privata che chiedeva
al Governo di poterci supportare finanziariamente, ma ora
neanche quelle ci sono. Post-regime si sono messi dei paletti più
rigidi ed ora lo Stato non permette che le organizzazioni private ci
aiutino. Tuttavia né pre-Mubarak, né oggi abbiamo ricevuto aiuti
economici dalle autorità egiziane>>.
Chiedo al mio Virgilio della monnezza di ritornare per le strade
impastate di sporcizia e metodico riciclaggio. L’intervista è
meglio srotolarla lì, per capire quanto l’assurdità di questa
fabbrica della spazzatura sia realmente funzionale ai risultati
straordinari ottenuti in termini di raccolta e differenziazione.
Ricevo il suggerimento di non filmare chi si dimostra poco
disponibile, ma poi finalmente parte il nostro giro, che
naturalmente si carica di becera curiosità prima e di sguardo
investigativo poi, per osservare al meglio tutti i passaggi di
questo incredibile trattamento dei rifiuti.
Il riciclaggio è sicuramente una forma essenziale del
trattamento dei rifiuti, ma le condizioni di vita immagino
siano complicate qui. Quali sono gli aspetti più negativi della
vita a Manchiyet Nasr e quali invece quelli che rendono
questo lavoro paradossalmente appetibile?
Le strade sono costantemente attraversate da carretti trainati da
asini o pick-up pieni di sacchi, contenenti ogni tipo di
rifiuto, visto che dalle strade e dai palazzi del Cairo non viene
effettuata alcun tipo di differenziazione di buste. Arriva tutto
assieme, raccolto dagli uomini e dai bambini divenuti
sufficientemente forti. Una volta qui vengono poi differenziati, a
mani nude, dalle donne e le ragazzine, che dalle grosse buste
tirano fuori i vari materiali, scartandoli o conservandoli,
passandoli poi ad altri edifici. Cani rinsecchiti fanno compagnia
alla mia camminata, mentre dagli angoli polverosi spuntano
dei piccoli maiali neri. Una piccola nota meritano questi animali,
che in passato nel processo di differenziata erano fondamentali,
visto che, divorando tutto l’organico, lasciavano nelle buste solo
ciò che doveva poi essere selezionato. Nel 2009 arrivò anche in
Egitto l’influenza AH5N1, che creò una vera e propria
pandemia. Furono individuati i maialini come portatori di tale
virus ed il Governo ne ordinò l’abbattimento. I zabbaleen, furiosi,
attaccarono le istituzioni, parlando di una volontà dall’alto di
boicottare il loro lavoro, favorendo così affidamento totale del
servizio di raccolta dei rifiuti alle compagnie estere. D’altra parte
il provvedimento causò una grossa crisi dei rifiuti, vista la perdita
dell’aiuto dei maiali, utili all’eliminazione dei rifiuti alimentari. A
quanto pare, nonostante sia velatamente proibito, i maialini sono
ritornati ad operare e li vedo divorare tutto quello che per loro è
commestibile dai grossi sacchi, che vengono issati tramite grosse
carrucole, per poi essere destinati ai forni o al cumulo del
materiale non riciclabile (qui solo il 20%, mentre le compagnie
assoldate dalle autorità fanno esattamente il contrario: il 20% lo
riciclano ed il resto finisce in discarica). Il caldo e la puzza sono
impressionanti. Entro in una stanza piena di alluminio, pronto ad
essere assemblato in materiale di vario genere. Un gruppo di
bambine mi si fa incontro, cantandomi l’unica parola inglese
imparata “Hello”, mentre le donne che raccolgono nei sacchi si
nascondono da sguardo e telecamera. I canti dei muezzin sono
lontani, qui, su balconi e muri, si scorgono solo figure cristiane,
con incitamenti alla figura di Gesù.
<<L’aspetto sicuramente più difficile riguarda l’inquinamento,
che è tangibile, perché naturalmente la spazzatura è ovunque e
non c’è alcun tipo di precauzione. L’altro aspetto negativo è il
pregiudizio su questo tipo di lavoro, giudicato negativamente da
gran parte degli egiziani e quindi si riflette sul loro giudizio verso
di noi. Si tratta però di un lavoro importantissimo e senza di esso
ci sarebbe spazzatura ovunque. La cosa positiva risiede invece nel
fatto che comunque questa è un’attività redditizia per gli abitanti
del posto, che non avrebbero altre possibilità lavorative, quindi
porta soldi ed autosufficienza>>.
L’anteprima del fotoreportage disponibile al seguente
indirizzo:
http://firstlinepress.org/fotogallery-il-villaggio-deglizabbaleen-il-trattamento-dei-rifiuti-a-mani-nude-affarianche-per-una-compagnia-italiana/#prettyPhoto[slides]/0/
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Il villaggio degli zabbaleen: il
trattamento dei rifiuti a mani nude.
Affari anche per una compagnia
italiana
Lorenzo Giroffi | 4 giugno 2013
Continuo ad annaspare col fiato ed a cercare l’angolo d’azzurro di
cielo più vicino al mio capo, per fingere di evadere da questa
cappa di suoni, sguardi curiosi ed infastiditi. In questo scenario
assolutamente piano, cerco di scrutare in alto, oltre i palazzi dalle
finestre che accolgono i sacchi di spazzatura e quelli ancora più in
alto dai vestiti stesi, dai balconi colorati e le dimore che vivono al
di là di questa fabbrica della spazzatura. Radio con le antenne
arrugginite, ma le casse ben funzionanti, fanno rimbombare
comunque musica, per battere il tempo delle giornate di questo
posto.
21
Ci sono torri altissime in legno, poche e lontane tra di esse:
svettano su tutto il villaggio. Un ragazzo, mentre passeggiamo e
passiamo da un lato all’altro della strada, per fa passare i mezzi
pieni di sacche, mi si avvicina, dopo aver notato il mio sguardo
verso l’alto. Mi chiede qualcosa come dieci pound egiziani, così
da visitare la torre e soprattutto avere una vista panoramica sul
Cairo: come se fosse un’attrazione quell’ammasso di legno
traballante, issato su cumuli di rifiuti. Accetto perché sono
curioso di capire dall’alto quale sia la prospettiva. Mi
accompagna uno sciame di ragazzini, su per questa scala che
s’incastra nel centro della torre, per percorrerla fino alla sua
estremità.
Zaino, telecamera e piedi troppo grandi per i gradini sgangherati
di questa scala. Ignorando il vuoto sotto, arriviamo su, dove il
ragazzo che mi ha adescato cura un allevamento di piccioni. Ci
sono voliere e tavole non proprio stabili. Prima di guardare il
panorama penso al fatto che la mia visita possa terminare con il
crollo goffo di questa torre ed una morte tragicomica tra la
spazzatura da riciclare.
Il silenzio ed il cielo da quassù possono essere afferrati. I monti
stendono il Cairo, che mi si prospetta piena di tetti, strade
ombrate, polvere ed un incredibile odore di quotidiano orizzonte,
mentre se spingo il mio collo a strapiombo c’è la routine
lavorativa che ormai mi sembra assolutamente normale: una
donna dal foulard rosso nei capelli ruota le sue mani tra
spazzatura e speranze, mentre un cane è tramortito su una
montagna di buste.
È una meraviglia che sa di finzione guardare questo panorama.
Ripercorro la scala al contrario e scendo.
Chiedo
nuovamente
delucidazioni
a Bakhit
Mettry,
dell’organizzazione non governativa “Environment A.P.E.”, del
ruolo delle compagnie private estere che hanno trovato accordi
finanziari con l’Egitto per la gestione dei rifiuti.
Nella sostanza gli zabbaleen, dato che non sono aiutati dalle
autorità egiziane, raccolgono e riciclano grazie ad accordi
stipulati con le compagnie straniere?
<<Le compagnie spagnole FCC ed Urbaser Enser, assieme
all’italiana AMA Arab Environmental Company, entrarono nel
bel mezzo della privatizzazione del sistema di raccolta dei rifiuti.
Naturalmente la nostra comunità si sentì tagliata fuori ed a quel
punto legittimata a compiere boicottaggio verso le compagnie
private che arrivarono qui per compiere tale lavoro. Dopo qualche
anno però queste ditte, che avevano ottenuto l’appalto, dovettero
concedere anche agli zabbaleen un subappalto, in grado di
coordinare il ciclo dei rifiuti. È un accordo informale, che però
integra la nostra comunità all’interno del sistema, collaborando
con tali società, a seconda delle zone della città, nella raccolta,
nello smaltimento e nel trattamento. Le imprese pagano a noi un
subappalto, che non comprende assicurazioni sociali o mediche,
ma che assicura un lavoro ed un buon business a tutte le
famiglie>>.
Incredibilmente l’altalena di sensazioni ancora non si è fermata.
Bakhit vuole mostrarmi l’ennesima contraddizione di questo
posto. La cornice di tali monti, oltre a contenere il villaggio, i
suoi odori, sudori e lavoro dalle considerazioni ambigue, tra il
buon senso del riciclaggio e lo sdegno per le condizioni
lavorative, custodisce anche la chiesa più grande del Medio
Oriente: il monastero di San Simone.
Ci lasciamo il lavoriccio alle spalle, imbocchiamo l’ennesimo
viale, che questa volta però è organizzato oltre ogni canone di
ordine, tra ghiaia ed addirittura bidoni della spazzatura.
La minoranza copta qui è maggioranza, anche se dentro questo
spiazzo silenzioso, che sembra un miracolo rispetto a qualche
passo dietro, ospita pure bimbe musulmane, che giocano a palla
facendo svolazzare nell’aria il loro velo. La struttura enorme
contiene anche un anfiteatro che può ospitare fino a ventimila
persone. Tutto ricavato dalla cava di una montagna, con bombe
esplose, secondo la leggenda, nel primo giorno di Ramadan del
1975, per provocare chi in tutto il resto del Paese è maggioranza.
Immagini sacre, scritte bibliche: tutto incavato nella montagna. In
una pulizia che oltre a rilassarmi mi pone domande.
Mi riparo nell’anfiteatro per qualche minuto. In attesa di ritornare
a combattere con la strada, mettermi alla ricerca di un essere che
somigli ad un tassista e smettere di fare domande su cosa possa
essere lecito e cosa giusto. Gli zabbaleen riciclano. Lo fanno così,
ma è il loro lavoro, la loro sussistenza. Le compagnie estere
invece, che stringono affari e che godono della conoscenza di
questa comunità, potrebbero forse cooperare, affinché il lavoro
sia sempre qualcosa di dignitoso e non di viscidamente
necessario.
Mokattam potrebbe essere un posto dove i rifiuti smettano di
essere un problema, visti i numeri elevatissimi di recupero del
materiale. Questo bisogna farlo tutti assieme, non sulla pelle di
chi lavora con la spazzatura.
Anche il Marocco ha la sua Tav (e la
sua resistenza No Tav)
Domenico Musella | 5 giugno 2013
Non solo la Val di Susa, non solo l’Italia, non solo l’Europa.
Anche sull’altra sponda del Mediterraneo infrastrutture senza
alcun senso (se non quello speculativo a favore di poche grandi
industrie) vengono imposte alla popolazione. La Torino-Lione
del Marocco si chiama Tangeri-Casablanca.
350 km di rete ferroviaria ad alta velocità (à grande vitesserecita
l’acronimo francese TGV), ma a bassa sostenibilità ambientale,
umana, economica e sociale. 200 di questi sono in costruzione ex
novo, collegando con una nuova linea Tangeri (nel Nord del
22
Paese) a Kenitra (nei pressi della capitale Rabat), mentre gli altri
150 saranno un potenziamento della già esistente ferrovia
Kenitra-Casablanca (metropoli e “capitale economica” del
Regno; a lato, una cartina). Il tutto in un progetto ancor più ampio
di “grande opera”, che prevedrebbe un TGV maghrebino che
colleghi Casablanca sia ad altre località del Marocco (direzioni
sud-ovest e nord-est) ai centri principali di tutta l’area
nordafricana fino a Tripoli, passando per Algeri e Tunisi; e, nei
disegni più avveniristici, persino un TGV euromediterraneo che
colleghi il Paese maghrebino con Francia e Spagna.
Quella marocchina, che in questo primo tratto ricalca la costa
atlantica, è la prima linea ferroviaria ad alta velocità nel mondo
arabo e la seconda nel continente africano (dopo la JohannesburgPretoria in Sudafrica).
La spesa prevista per la prima parte del progetto da Tangeri a
Casablanca (che entrerà in funzione inizialmente a fine 2015, e a
pieno regime per il 2020) è di oltre 33 miliardi di dirham, pari a
circa 3 miliardi di euro, mentre complessivamente per l’intera
opera si parla di un investimento di oltre 100 miliardi di dirham
su scala trentennale. Da notare che il finanziamento proviene per
la maggior parte dallo Stato francese, sia in forma di dono che di
prestito, e da aziende sempre di provenienza transalpina;
partecipano inoltre Fondi d’investimento del Kuwait, di Abu
Dhabi, dell’Arabia Saudita e della Lega Araba, oltre al budget
messo a disposizione dalle casse del Regno, dal Fondo che prende
il nome del precedente sovrano Hassan II e dalle ferrovie statali
marocchine (ONCF – Office National des Chemins de Fer). Un
prospetto ben dettagliato sulla questione costi è sul
sito Mamfakinch.com.
Gli interrogativi su questa ennesima grande opera sono
parecchi
Innanzitutto, perché investire cifre stratosferiche per un treno
veloce (il cui biglietto, tra l’altro, se lo potranno permettere in
pochi) quando le priorità del Paese sarebbero ben altre?
Il Marocco infatti è tra i Paesi con gli indicatori dello sviluppo
umano più bassi, nell’area maghrebina come nel mondo (è
130esimo su 186 Paesi totali) e ci è difficile immaginare come
una ferrovia veloce e di lusso possa risolvere problemi urgenti
come la povertà diffusa, l’accesso all’istruzione ed alla sanità, la
diseguaglianza tra i generi e la discriminazione delle minoranze.
Qualcuno dirà: ma si creeranno posti di lavoro, ci sarà movimento
attorno alle città che farà “girare l’economia”… in realtà se si
guardano le esperienze di Tav nei Paesi europei, tutto ciò non si è
mai verificato, o almeno non in misura tale da giustificare gli
enormi costi di realizzazione delle opere (di recente ne abbiamo
parlato su First Line Press nell’articolo “Perché è inutile la
Tav” rispetto all’Italia, ma diversi autorevoli rapporti facilmente
reperibili in rete parlano del “fallimento” anche della tanto
esaltata alta velocità francese).
Al momento dell’inaugurazione del primo cantiere, il 29
settembre 2011 a Tangeri alla presenza del re Mohammed VI,
dell’allora presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy e
di dignitari dei Paesi del Golfo finanziatori (foto a lato), forti
sono state le polemiche contro il progetto. Dal sito
indipendente Mediapart il medico, oppositore e blogger
marocchino in Francia Mohammed Lachkar si schiera contro il
progetto, mentre è ancora più forte e senza peli sulla lingua la
critica di un altro blogger, Larbi, che in una lettera aperta a
Sarkozy molto ripresa dai media ha parlato per il progetto TGV
marocchino di «ricatto economico».
Il termine sembra per molti aspetti aderire alla realtà. Il progetto
della “Tav marocchina” risale infatti all’ottobre2007, anno del
primo accordo con la Francia del neoeletto presidente Sarkozy,
che ha prestato 625 milioni di euro e ne ha regalati 75 per la
realizzazione dell’opera. Il Marocco di Mohammed VI aveva
da poco “tradito” la Francia preferendo dotarsi dei
cacciabombardieri americani F16 della Lockheed-Martin (la
stessa
produttrice
dei
contestati F35)
anziché
di
quelli Rafale costruiti nell’Esagono dalla Dassault (il cui
proprietario è un noto sostenitore proprio dei gollisti dell’UMP).
Il Regno alawita, per non perdere il sostegno del suo primo
partner economico (viene dalla Francia oltre il 60% degli
investimenti diretti esteri in Marocco, il secondo Paese dove
Parigi investe di più, dopo la Cina) viene, diciamo così,
“caldamente invitato” a rimediare sottoscrivendo questo
impegnativo progetto. Che coinvolge le ferrovie francesi SNCF,
il gestore della rete ferroviaria d’oltralpe RFF, e la multinazionale
ALSTOM, tutte aziende dell’ex “colonizzatore-protettore” che a
livello economico sembra essere ancora tale. Ancora una volta,
un mondo che si regge o sulla guerra e su di un’economia
malsana.
Tantopiù che la ALSTOM, che fornirà i vagoni del TGV è la
stessa impresa che con la compatriota Veolia è attiva in Israele
per costruire il tram che da Gerusalemme Ovest porta, via la
palestinese Gerusalemme Est, a due colonie israeliane della
Cisgiordania (un progetto “in linea” con la politica di
colonizzazione sionista e giudicato contrario al diritto
internazionale dalla Corte di Giustizia dell’Aia e dal Consiglio di
Sicurezza Onu, come riporta anche questo articolo della versione
italiana di Le Monde Diplomatique del 2008).
Per quanto riguarda il processo decisionale, nessun parere
sull’opera è stato chiesto ai marocchini, né la popolazione è stata
informata del progetto fino alla sua presentazione ufficiale (ironia
della sorte, un comunicato di qualche giorno fa ci informa invece
che rappresentanti delle province denominate wilayat, sindaci e
altri organismi hanno invece partecipato alla giuria che ha
designato i migliori progetti artistici e architettonici per le
stazioni!). Gli esistenti organismi democratici marocchini non
sono stati chiamati a pronunciarsi su di un progetto deciso dal
monarca e dai “poteri forti” francesi e approvato all’unanimità dal
connivente ceto politico. E l’elenco dei beneficiari dell’opera
probabilmente non andrà molto oltre quelli sopra citati. Tra le
altre cose, si è deciso di inserire nel percorso del TGV dei centri
già dotati di stazioni e collegati con la rete ferroviaria, mentre
sono molte le località del Marocco non servite né da questo
mezzo di trasporto, né da strade rurali dignitose, creando forti
disuguaglianze anche tra le grandi città e le campagne.
Corruzione e scarsità di chiarezza e trasparenza sul progetto sono
anche le motivazioni addotte dalla Banca Europea degli
Investimenti per il suo rifiuto di contribuire al TGV TangeriCasablanca. Fondamentale, per questo rifiuto, sarebbe stato
inoltre il veto della Germania, contrariata per non aver preso
anch’essa la sua fetta di torta al banchetto di questo grande affaretruffa (e a proposito di trasparenza, è proprio di questi giorni la
notizia che la Commissione Europea non ha voluto render noti
i dati sull’utilizzo dei fondi stanziati per la Torino-Lione).
Nulla di dettagliato è previsto rispetto all’impatto ambientale
dell’opera (che va dalla mutazione del paesaggio al consumo di
grandi quantitativi di energia elettrica), né rispetto alla previsione
di biglietti agevolati per la popolazione (il TGV si configura,
23
perciò, come un mezzo di trasporto di lusso di cui pochi potranno
usufruire), né relativamente alla partecipazione di imprese
marocchine all’opera. La quale sarà fonte, e questa è una
certezza, di un grande aumento del debito pubblico che i
marocchini porteranno sulle proprie spalle per molti anni.
Per reagire a tutto ciò si è costituita da qualche anno una
piattaforma di resistenza a questa infrastruttura, denominata Stop
TGV, formata da associazioni come Attac Maroc, Associazione
Clarté Ambition Ourage, Transparency Maroc, Iniziativa
marocchina di BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni
contro lo Stato d’Israele) e altre, e tra i primi ad aderire c’è stato
il movimento di opposizione “20 Febbraio”. La campagna ha
molta difficoltà a far sentire le sue ragioni, un po’ come tutta
l’opposizione marocchina. Si sa, in queste questioni molto
delicate di finanza e potere gli Stati tendono a reprimere in tutti i
modi le voci contrarie (si pensi solo a quello che accade contro i
No-Tav in Val di Susa). E uno di questi modi è proprio fare in
modo che di loro si parli solo sporadicamente (è accaduto così per
gli Stop TGV, anche sulla stampa internazionale) e citarli come
minoranze di fronte al consenso unanime della classe politica al
progetto.
Sul sito della campagna campeggia un efficace schema con le
equivalenze tra la cifra spesa per il progetto di TGV TangeriCasablanca e le opere utili e necessarie che si potrebbero
realizzare con la stessa enorme valanga di denaro. Si parla di
5.000 scuole o 3.000 licei in aree urbane, oppure 25.000 scuole in
aree rurali, 300 istituti di formazione tecnica con le migliori
attrezzature, 25 grandi centri universitari ospedalieri con 22.000
posti letto totali, 6.000 ettari di aree industriali, 16.000
biblioteche
e
centri
culturali,
16.000 km di strade rurali. Tanti progetti molto più utili ed
urgenti per un Paese come il Marocco, piuttosto che un treno che
solo a livello d’immagine sembra andare nella direzione dello
sviluppo.
Al Forum Sociale Mondiale di Tunisi del marzo 2013 i vari
movimenti contro grandi opere inutili e dannose, da Stoccarda al
Marocco, appunto, passando per la Val di Susa e Nôtre-Damedes-Landes si sono conosciuti e confrontati, da come segnala
anche un articolo ripreso dalla nostra testata partner
MilanoinMovimento. Sta proprio nella collaborazione e
nell’attenzione reciproca su scala internazionale possibilità che i
territori riescano a fermare queste infrastrutture i cui benefici
sono solo privati (e di pochi), mentre i danni sono collettivi (e per
molti).
I gestori dell’acqua, i capitali pubblici
ed i profitti privati. A Torino potrebbe
cambiare
Lorenzo Giroffi | 12 marzo 2013
A Torino continuiamo a tracciare una mappatura della gestione
acqua in Italia. Bisogna farlo considerando lo scenario di questo
bene comune come un qualcosa da preservare e perseguire in
qualsiasi angolo del mondo, affinché il mercato non leda un
diritto naturale, ricordando però che il servizio idrico deve fare i
conti con le singole realtà locali. Quella di Torino si specchia
nell’efficienza e nella cura rispettata nel centro della città.
Società Metropolitana Acque Torino, meglio conosciuta come
SMAT, può presentarsi come un’eccellenza per i servizi idrici
che offre, per la garanzia del recupero, della depurazione e
dell’accesso a tutti. Tuttavia quest’azienda, pur essendo di natura
pubblica, si comporta come un qualsiasi gruppo imprenditoriale,
osservando l’acqua come un settore commerciale dal quale poter
trarre benefici economici, spostando il proprio raggio d’azione da
una gestione locale ad una imprenditoriale extra-territoriale, che
si scontra con la realtà della gestione acqua, fatta di conoscenza
del luogo in cui si opera e legame con esso. SMAT ha però tutto
il diritto di farlo e qui nasce il grosso equivoco.
I molti sostenitori del referendum 2011, che ha abrogato i
decreti utili all’inserimento del bene acqua nel mercato, restano
spiazzati dinanzi alla conformazione dei gestori di natura
pubblica, ma non di diritto pubblico. Il comitato Acqua Pubblica
Torino chiede la trasformazione di SMAT da società per azioni,
ad azienda consortile di diritto pubblico. Il comitato dopo il
referendum, sentendo la responsabilità di quanto accaduto in
Italia, divenuto anche esempio in ambito internazionale, non ha
mai abbassato la guardia. È stata infatti chiesta
all’Amministrazione Comunale di Torino una delibera utile al
compimento della mutazione giuridica di SMAT. Lo scorso
lunedì 4 Marzo, il Comune di Torino ha avallato tale delibera,
anche se la sua attuazione sarà verificabile entro novanta giorni,
nei quali saranno adottate verifiche strutturali e di bilancio
affinché si accerti l’effettiva concretizzazione del processo. Il
comitato cittadino Acqua Pubblica Torino, dopo aver realizzato
e portato avanti la proposta, sarà tenuto fuori da questo controllo
di fattibilità ed a scadenza dei tempi non potrà incidere sulla
decisione. Per questo motivo incontro Andrea Sacco,
appartenente al movimento.
24
Negli anni come sono nate le vostre iniziative e come
quest’ultima delibera?
<<Il comitato nasce nel 2007, ancor prima del successo
referendario, ma da sempre ha avuto un grande sostengo
popolare. L’ultima delibera vuole che SMAT, gestore dell’area
torinese di oltre 280 Comuni, passi da S.p.a. ad azienda speciale
consortile,
perché riguardante tutto l’insieme delle
Amministrazioni Comunali. Per questa delibera sono state
raccolte cinquecentomila firme, appartenenti a cittadini per lo più
spaesati rispetto al fatto che ancora oggi l’esisto referendario non
sia stato attuato. La nostra delibera è stata poi in qualche maniera
osteggiata dalle commissioni tecniche dei Comuni, che in realtà
dovrebbero essere imparziali, invece sono sempre apparse in linea
alle volontà politiche dei loro referenti, ponendo ostacoli alla
possibilità di un’azienda pubblica, interpretando in maniera fosca
il codice civile. Di fatti hanno dichiarato che non si poteva
chiudere una società per azioni, già esistente, per crearne una
nuova, vista la spending review. Il nostro intento però non è mai
stato quello di chiudere un’azienda. Semplicemente vogliamo
trasformarla, senza mettere in crisi i rapporti con i suoi attuali
lavoratori>>.
Perché un’azienda di capitale pubblico, come la SMAT,
operante nella provincia di Torino, può essere una minaccia
per la privatizzazione del bene pubblico acqua?
<<Bisogna chiarire la natura dell’azienda perché in questi anni
una società di diritto privato, seppur con capitali pubblici, non è
mai stata garanzia dell’acqua al riparo dal mercato e dagli
speculatori. Questo è confortato dai fatti. A Torino, subito dopo
il referendum del 2011, che oltre all’acqua ha deciso
l’impraticabilità di privatizzazione per ogni servizio pubblico, è
partita una campagna di dismissioni per recuperare liquidità,
come successo con la società TRN, di natura pubblica, ma
comunque società per azioni, gestore dell’inceneritore e legata al
ciclo dei rifiuti, che è stata messa sul mercato e venduta all’80%:
in pratica è stata persa dal pubblico. Così facendo magari
saniamo un anno di bilancio, ma riduciamo il patrimonio
pubblico. Questo è ad esempio in contrasto con quanto viene
dichiarato dal vicesindaco di Torino, Tom Dealessandri, che a
parole vuole preservare i beni pubblici, ma che in pratica è parte
di una Giunta che li sta svendendo. Per questo noi invochiamo
una società che sia di diritto pubblico, con capitali pubblici e la
partecipazione dei vari Comuni, che in questo caso sono più di
280. Così si esce proprio dal rischio del mercato. Negli anni
abbiamo evitato le varie ventate di privatizzazioni della SMAT,
ad esempio nella scheda di presentazione di questa società, sul
sito del Comune di Torino, c’era scritto che era una società con
un capitale inizialmente pubblico, siamo poi riusciti a sbarazzarsi
dell’avverbio inizialmente>>.
Allo stato attuale quante possibilità ha SMAT di divenire
azienda di diritto pubblico?
<<Noi pensavamo che i comitati promotori di questa delibera
potessero partecipare alle discussioni in Consiglio Comunale,
invece, una volta passata, non abbiamo più titolo per parlare o
difendere tale iniziativa, proprio come successo col referendum
del Giugno 2011. In Consiglio Comunale sono stati proposti
emendamenti utili solo a far slittare l’attuazione, perché è stata
chiesta l’istituzione di un soggetto che faccia le verifiche tecniche
per gli aspetti patrimoniali e di bilancio inerenti alle ripercussioni
di questa trasformazione sulle casse del Comune. Il fatto è che
noi abbiamo fatto tutti questi studi nei mesi passati e si potevano
compiere accertamenti durante le riunioni avute con gli uffici
tecnici, che sappiamo già essere dotati di queste documentazioni,
tenute però nascoste. Siamo felici perché certamente questa
delibera, approvata, pone una strada verso la resa pubblica di
SMAT, ma ora vogliamo sapere chi farà queste indagini, visto
che gli uffici tecnici si sono già dimostrati in male fede nei nostri
riguardi>>.
Negli anni come sono state recepite dalla classe politica
italiana le spinte popolari sul tema acqua pubblica? A Torino
il gestore idrico come ha risposto al referendum?
<<Il secondo quesito referendario, ovvero quello inerente alla
non remunerazione del capitale investito per i gestori dei servizi
idrici, non è stato ottemperato dalla SMAT, che
attende, dall’Autorità per l’Energia Elettrica ed il Gas, ulteriori
indicazioni sul recupero dei soldi necessari, insomma il solito
scaricabarili. Io noto un’incoerenza politica all’interno dello
stesso Partito Democratico, maggioranza nel Comune di Torino,
ma che sembra più propenso a politiche liberiste rispetto invece
ad un altro sindaco del Pd, Graziano Delrio, che amministra a
Reggio Emilia, il quale ha proposto un nuovo consorzio, tutto
pubblico,
togliendo
la
concessione
ad
IRE>>.
Potrebbe essere rischioso destabilizzare un gestore che
comunque opera bene sul territorio, affidandosi ad un
soggetto completamente pubblico? Cosa si rischia con un
gestore a capitale pubblico, ma di diritto privato?
<<Noi riconosciamo il fatto che SMAT a livello locale gestisca
bene e che dia garanzie ai cittadini di tariffe basse, però
contestiamo che abbia atteggiamenti deleteri ed in linea con la
concezione dell’acqua come merce. Basti vedere gli investimenti
che SMAT ha fatto nella gestione dell’acqua a Palermo, dove ne
è uscita con le ossa rotta e non si capisce ancora con esattezza
quanto le nostre stesse casse siano state afflitte da
quest’operazione, a volte si parla di 1 milione di euro, altre volte
di 14. C’è inoltre da ricordare che SMAT, con la compartecipata
Acque Potabili, fa gestione anche in Calabria e ciò è incoerente
con una conduzione oculata. Dunque noi vogliamo che la SMAT
mantenga le sue professionalità, visto che funziona sia il
monitoraggio delle acque, che la depurazione, senza aggravi sulla
bolletta, come in altri posti d’Italia, dove invece vengono aggiunti
costi per servizi di fognatura che non esistono. Però vogliamo che
venga cambiata la politica e l’essenza di quest’azienda, che deve
reinvestire gli utili nel pubblico e non in altro>>.
Nella sostanza cosa rischia il bene acqua se gestita dal
privato?
<<Quando il soggetto è privato si riducono gli investimenti per
ottimizzare il profitto, inoltre si alzano le tariffe e si perde il
diritto di un bene comune, stabilito anche da una risoluzione
ONU. L’acqua è poi collegata all’igiene pubblica. Storicamente,
osservando le documentazioni, si è rilevato che quando si sono
costruite le reti idriche nelle città, le fontane e quant’altro, si è
fatto soprattutto per l’accesso all’acqua potabilizzata, utile alla
riduzione di epidemie. Le fontane a moneta, come la SMAT
vorrebbe realizzare, mi fanno rabbrividire. Il prototipo del
soggetto privato ha già dimostrato di aver aumentato bollette,
perdendo inoltre il controllo di un servizio locale. Quando una
società francese o come la stessa torinese va in giro per il mondo,
è chiaro che non ha la conoscenza del territorio in cui opera, del
sistema delle fonti, delle sue reti e le sue sorgenti. L’utente poi
per qualsiasi malfunzionamento non potrebbe avere un contatto
diretto con il gestore, lontano dal Comune e dalle caratteristiche
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del territorio>>.
Arsenico nell’acqua: cronaca di
un’emergenza annunciata
Annalisa Marroni | 16 aprile 2013
La settimana scorsa si è riaccesa l’emergenza arsenico nei
Comuni del viterbese. Pietra dello scandalo: la concentrazione
“fuorilegge” di arsenico nella rete idrica dell’area che supera di
netto la soglia di sicurezza prevista dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità e i limiti, più blandi, fissati dalla normativa europea.
Un’emergenza che priva migliaia di cittadini di accedere al bene
comune primario per eccellenza: l’acqua.
A lanciare l’allarme è stata la diffusione dei risultati di uno studio
condotto dall’Istituto Superiore della Sanità (ISS) sul rischio
arsenico. A seguito di un biomonitoraggio condotto su campioni
di unghie e urine di 269 volontari sani residenti nelle aree a
rischio è emerso che gli abitanti della provincia di Viterbo
presentano una concentrazione di arsenico nelle unghie pari a 200
nanogrammi contro la media di 82 nanogrammi del resto della
popolazione. Uno dei comuni più colpiti è quello di Capranica,
dove la concentrazione di questo metallo nell’acqua è pari a 43
microgrammi per litro, ben 4 volte superiore al limite consentito
dalla legge. I comuni della Tuscia, però, non sono gli unici
interessati da questo grave problema: anche numerosi comuni
nella provincia di Roma e di Latina hanno dovuto interrompere la
fornitura di acqua ai loro cittadini a causa degli alti livelli di
arsenico riscontrati. ( vedi la situazione a Velletri)
Arsenico: questo sconosciuto
L’arsenico è un metallo pesante naturalmente presente
nell’ambiente,
sia
in
forma
organica
che
in
forma inorganica. L’uomo, attraverso l’acqua e l’assunzione di
alcuni cibi (come il pane e la pasta), è esposto alla forma tossica
dell’arsenico, quella inorganica, considerata un elemento
cancerogeno di classe prima dall’Agenzia Internazionale per la
Ricerca sul Cancro. E’ stato dimostrato, infatti, che la quotidiana
e prolungata assunzione di questa sostanza aumenta il rischio di
incorrere in patologie gravi come tumori alla vescica, ai polmoni
e alla cute, patologie cardiovascolari come l’ictus e l’ipertensione
arteriosa o anche l’insorgere del diabete.
provincia di Viterbo, l’acqua potabile contiene da sempre
importanti quantità di arsenico: l’acqua piovana cadendo
discioglie l’arsenico naturalmente presente nelle rocce e
contamina le falde acquifere. Inoltre, il ricorso a pesticidi e
carboni fossili da parte dell’uomo, ha contribuito ad innalzare il
livello di arsenico presente nell’ambiente.
Da oltre dieci anni, con l’entrata in vigore il decreto 31 del 2001
di attuazione della direttiva comunitaria 98/93/CE in materia
di qualità dell’acqua destinata al consumo umano, il limite
massimo consentito di arsenico nell’acqua potabile è stato portato
da 50 a 10 microgrammi al litro a causa della sua
cancerogeneicità. A partire da quel momento la Regione Lazio, in
cui si trovano gran parte dei comuni che presentavano (e
presentano tutt’ora) alti livelli di arsenico nell’acqua, ha fatto
continuamente ricorso allo strumento della deroga triennale. Si
tratta di un istituto che, nell’ottica del legislatore, avrebbe
consentito di procrastinare l’applicazione della legge al fine di
permettere agli enti gestori di attuare i piani di rientro o di
individuare altre risorse idriche. Dopo essere ricorsa a tale
strumento per due volte, l’Italia ha ottenuto una terza deroga per
un limite massimo di 20 microgrammi di arsenico per litro,
concessa dalla Commissione europea fino al 31 dicembre 2012.
A partire dal primo gennaio di quest’anno, quindi, gran parte dei
comuni che non hanno provveduto a mettere a norma la propria
rete idrica (ben 50 su 90 comuni non a norma nel 2009) sono
stati obbligati a vietare il consumo dell’acqua corrente anche per
gli usi legati alla cucina e, in alcuni casi, addirittura per l’igiene
personale.
Da molte parti si è gridato all’emergenza, anche se è improprio
parlare di emergenza per una situazione che si trascina da anni.
Molti gestori degli acquedotti, infatti, invece di impiegare il
tempo concesso dalla deroga per mettere in sicurezza la rete
idrica, hanno tergiversato continuando a fornire acqua al di fuori
dei limiti di legge e contribuendo ad aggravare la situazione. Non
sorprende, infatti, il dato rivelato dalla ricerca condotta dall’ISS,
secondo la quale oltre all’acqua adesso sono a rischio anche gli
alimenti: nel pane prodotto nell’area di Viterbo sono state rilevate
concentrazioni di arsenico superiori al limite massimo consentito.
Il Codacons avvierà nei prossimi giorni un’azione di
risarcimento per tutte le attività commerciali danneggiate dalla
vicenda. Infatti, gli esercizi commerciali che utilizzano le acque
contaminate per produrre gli alimenti potrebbero essere costrette
a chiudere, pagando a caro prezzo quello che è stato definito dal
referente dell’Associazione italiana medici per l’ambiente della
zona di Viterbo, Antonella Litta, il “menefreghismo” delle
istituzioni regionali su un argomento di primaria importanza
come la salute dei cittadini.
Un’emergenza annunciata
L’alta concentrazione di arsenico nell’acqua di numerosi comuni
italiani non è un fatto nuovo, tutt’altro. Nelle zone di origine
vulcanica, come l’area dei Castelli Romani e quella della
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Sentenza Eternit: non si torni più
indietro. Salute, lavoro e danni
ambientali
Il sindaco di Casale Monferrato, Giorgio Demezzi, si è detto
soddisfatto per la sentenza, ma anche preoccupato direperire
subito i soldi del risarcimento, utili a far rinascere l’area ed a
ripagare, soltanto in minima parte i danni causati alle famiglie
degli operai. Il sindaco si dice disposto anche ad una trattativa
con Schmidheiny, questa volta però chiara e limpida per tutti.
Redazione | 3 giugno 2013
Venezia si mobilita per dire No alle
grandi navi e alle grandi opere
Redazione | 10 giugno 2013
La giustizia: un stadio umano troppo spesso da inseguire. Oggi
però sembra essersi compiuto a Torino.
L’Italia è il Paese dell’Ilva e dell’Eternit, dei cementifici e delle
basi militari. Arrivano però i processi che possono cambiare la
storia e forse aiutare la coscienza di alcuni imprenditori, ancora
convinti che tirando la corda del lavoro e della salute si possano
fare buoni affari.
L’eternit, materiale utilizzato per le coperture delle abitazioni,
prodotto da una commistione di cemento ed amianto, messo al
bando dal mercato italiano tra il 1992 ed il 1994 per accertata
pericolosità, era anche il nome della compagnia che lo ha
prodotto: Eternit. Chi lavorava al prodotto, portandolo poi sul
mercato, era già a conoscenza, durante gli anni floridi dell’eternit,
degli effetti dannosi sulla salute e sull’ambiente.
L’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny è stato condannato
a 18 anni di carcere, per essere stato responsabile degli impianti
Eternit presenti a Torino, Bagnoli e Rubiera. L’altro imputato
sarebbe dovuto essere stato il barone belga Lous de Cartier, nel
frattempo però deceduto.
Al Comune piemontese, maggiormente coinvolto dalla tossicità,
Casale Monferrato, la corte d’appello di Torino ha riconosciuto
un indennizzo di 30,9 milioni di euro. A Casale Monferrato, in
provincia di Alessandria, Eternit operava con lo stabilimento più
grande e perciò più dannoso, per operai e cittadini, rispetto agli
altri presenti in Italia. Anche la Regione Piemonte, costituitasi
parte civile, si vedrà riconosciuta 20 milioni di euro.
Dal 1966 al 1976 la gestione imprenditoriale Eternit non è
imputabile a Schmidheiny, che è divenuto manager dell’azienda
dal 1976 fino al 1986.
La sentenza si conclude con l’accusa di disastro ambientale e
doloso. Stiamo parlando di un processo che ha coinvolto oltre
seimila persone dichiaratesi parte civile e quasi tremila morti
accertati a causa della lavorazione dell’eternit.
La condanna è sicuramente una cartina di tornasole per tanti
disastri compiuti con consapevolezza, con la brama del guadagno
facile, in Italia ed in tante altre parti del mondo.
Alla mappa delle lotte contro le inutili e dannose “grandi opere”
italiane, che seguiamo regolarmente sul nostro giornale, va
doverosamente aggiunta Venezia, che nello scorso weekend è
stata protagonista di una mobilitazione internazionale per dire no
alle “meganavi” nella laguna.
Il Comitato No Grandi Navi – Laguna Bene Comune, che da
mesi si batte contro quella che definisce la «versione veneziana
delle grandi opere» ha indetto e realizzato una tre giorni
internazionale di lotta — il 7, 8 e 9 giugno — che ha visto
cittadini e associazioni da varie parti del mondo partecipare a una
serie di iniziative e manifestazioni per affermare con forza la sua
contrarietà a dannose infrastrutture inutili, dannose e imposte
dall’alto.
La città lagunare è vittima da anni di un mix letale tra politica e
affari che, con la completa assenza della popolazione dai processi
decisionali riguardanti il proprio territorio, sta imponendo danni
consistenti alla salute dei cittadini, alla sicurezza del patrimonio
storico monumentale di Venezia e alla sopravvivenza
dell’ecosistema della laguna. L’Autorità Portuale e la Venezia
Terminal Passeggeri (VTP), gli enti responsabili della gestione
del porto, permettono un’attività crocieristica e portuale al di
fuori di ogni controllo e senza alcun rispetto dell’ambiente e del
paesaggio (che si aggiungono ai danni prodotti dall’infrastruttura
MOSE che dovrebbe “difendere dall’acqua alta”).
Basti pensare che ognuna delle “meganavi” (enormi imbarcazioni
che superano le 40.000 tonnellate di stazza lorda), che godono
dell’autorizzazione di accedere al porto veneziano, produce lo
stesso inquinamento di 14mila automobili, oltre a distruggere le
fondamenta della città, incrementare il fenomeno dell’acqua alta e
danneggiare la flora e la fauna della laguna. Per questo singoli e
associazioni si stanno muovendo per pretendere dalle istituzioni,
finora completamente asservite a lobby e multinazionali, una
politica che tenga conto della sostenibilità del turismo e del
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crocierismo per la città (qui le richieste degli attivisti).
La mobilitazione è culminata domenica in due grandi
manifestazioni che, prendendo in prestito un antico motto della
Serenissima, hanno cercato di ostacolare i poteri forti e la
speculazione «par tera e par mar» (“via terra e via mare”). In
mattinata, un folto ed allegro corteo è giunto fino al porto ed ha
bloccato per 5 ore l’accesso dei crocieristi alle grandi navi. Nel
pomeriggio, un corteo “acqueo” ha visto decine di piccole
imbarcazioni invadere il canale della Giudecca impedendo il
transito alle mastodontiche navi.
Insomma, un vero e proprio #OccupyLaguna in un ideale ponte di
solidarietà con la piazza Taksim di#OccupyGezi. Oltre che per le
proteste, il gemellaggio Venezia-Istanbul si è realizzato anche
rispetto alla repressione dello Stato. Le forze dell’ordine si sono
rese protagoniste di cariche contro i pacifici manifestanti, che
tuttavia hanno resistito con in mano salvagenti colorati, come si
può vedere nei filmati di Global Project che ha realizzato una
cronaca multimediale dell’evento.
Nell’ambito del percorso di #imprudenze2013 che va alla
scoperta di nuove esperienze di riappropriazione e socialità,
l’antropologa Silvia Jop (che abbiamo intervistato qui) ha seguito
per il lavoro culturale la giornata di mobilitazione del 9 giugno in
una diretta twitter.
Ri-Maflow, come superare la crisi con
palese di questo sistema di produzione può essere un’opportunità
concreta per sperimentare nuovi modelli di lavoro, di industria e
di vita d’insieme.
Le cooperative di autogestione sono esperienze che esistono da
sempre, ed in una situazione analoga a quella che stiamo vivendo
in Europa, quella della crisi argentina dal 2006 in poi, hanno
ripreso nuova linfa e sono diventate un punto di riferimento per
una nuova economia ed un nuovo sistema produttivo
umanamente ed ecologicamente sostenibile.
Su First Line Press abbiamo accennato a Ri-Maflow proprio nel
marzo scorso, con una vignetta della nostra Hobo, che ha
conosciuto direttamente i lavoratori della cooperativa di Trezzano
e ha realizzato gli scatti che trovate in fondo a questa pagina.
Grazie a due nostri media partner indipendenti, vi invitiamo poi a
scoprire più nel dettaglio questa esperienza.
Per Pressenza Anna Polo ha realizzato l’intervista «Vediamo il
futuro e questo è già tantissimo», ricca di spunti e con molti
dettagli sulla storia di Ri-Maflow.
Sulle pagine di Milano InMovimento, invece, trovate delle foto e
un video dalla cooperativa, che proprio per questo weekend del
14, 15 e 16 giugno ha organizzato una tre giorni di eventi
denominata Ri-PARTY.
Alcune
anteprime
delle
foto
(disponibili
a
http://firstlinepress.org/ri-maflow-come-superare-la-crisicon-lautogestione-e-la-riconversione/#prettyPhoto[slides]/0/ )
della nostra vignettista Hobo:
l’autogestione e la riconversione
Redazione | 14 giugno 2013
No, non stiamo parlando dell’Argentina, ma di Trezzano sul
Naviglio (Milano). Dove prima sorgeva una fabbrica di
componentistica per auto, fallita grazie a una gestione orientata
alla sola speculazione, ora c’è una cooperativa di lavoratori che
recupera rifiuti hi-tech.
Tutto questo grazie a ex-dipendenti della Maflow e di altre exfabbriche lasciati per strada, ma anche a precari, disoccupati e
pensionati che non si sono persi d’animo. Al contrario, da marzo
2013 si sono messi insieme non solo per riappropriarsi del
proprio destino messo a repentaglio dalla logica del profitto a tutti
i costi e far ripartire un’attività economica, in un settore
compatibile con l’ambiente; ma anche per dimostrare che la crisi
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First Line Press ha iniziato la
sua avventura nel novembre
2012, un modo diverso di
raccontare le storie dal mondo e
dall'Italia.
L'abbiamo
fatto
proponendo documentari (uno
sui nuovi metodi repressivi in
Europa “Repressione ai tempi
della recessione” e l’altro sulla
situazione dei prigionieri politici
nei Paesi Baschi “Odissea Basca”), vari videoreportages
(sul caso Veolia da Londra; sui manifestanti spagnoli per
l’università pubblica; sul lavoro degli immigrati in Italia, sugli
intricati scenari egiziani, sulla situazione curda, su problemi
ambientali italiani), reportage fotografici (dagli scontri ad
Atene a quelli di Roma, dal Kurdistan all'Egitto, fino alla
Cisgiordania ed alle manifestazioni studentesche italiane) e
un quotidiano approfondimento su cosa succede nel
mondo.
_____________________
Poi c'è First Line Week che ogni martedì raccoglie articoli
di approfondimento: incontri diretti dei redattori con la realtà
che intendono raccontare: tra le periferie londinesi e quelle
parigine, tra gli indignados a Madrid e tra le macerie di
Belfast, in Egitto tra Port Said in rivolta e una Cairo che non
si è placata, in un Kosovo che ancora non è pacificato, ad
Atene tra gli anarchici che non dimenticano un loro ragazzo
assassinato, con i migranti in Italia che non hanno un
futuro, nelle istituzioni europee a Bruxelles per dialogare
sulla questione curda in Turchia e un colloquio diretto col
leader del PYD, partito curdo siriano. Per l’appunto tanto
mondo, ma anche molta Italia. Abbiamo approfondito e
stiamo approfondendo i temi come la gestione del diritto
all'acqua pubblica, abbiamo raccolto testimonianze dai
migranti dell'emergenza Nord Africa, delle battaglie
NoTav, di quelle degli operai dell’Ilva e della gestione dei
rifiuti.
Il fine settimana del giornale ospita quella che un tempo si
chiamava “terza pagina”, la pagina culturale, con First Line
Week End, con le rubriche dei nostri bloggers. Questi
parlano di disabili e di immigrazione, dell'Ilva e di Paesi in
rivolta, come anche di Balcani, di musica e di cinema o
anche di politica estera. Il tutto condensato da pungenti
vignette, pronte a disegnare fatti di politica interna ed
estera.
Ci puoi trovare …
sul nostro sito: www.firstlinepress.org
su twitter: @FirstLinePress
su facebook: First Line Press
su youtube: www.youtube.com/user/FirstLinePress
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