Olivier Razac, Storia politica del filo spinato, la prateria, la trincea, il campo di concentramento, Ombre Corte, Verona, 2001 Vecchio più di un secolo, il filo spinato è stato, e continua ad essere, largamente utilizzato quasi ovunque: attorno ai campi e ai pascoli in campagna, in città, sui muri o i cancelli delle fabbriche, delle caserme e delle abitazioni di famiglie preoccupate. Ma è utilizzato anche altrove: lungo le frontiere nazionali, sui campi di battaglia o per sorvegliare uomini da far sopravvivere, da rispedire ai loro paesi, da uccidere. Eppure non sembra particolarmente sofisticato questo oggetto della tecnica, perfino elementare, al più basso grado del genio meccanico. In un secolo di folgorante progresso tecnologico, mentre nell'arco di dieci anni la potenza di un computer diventa insignificante e una quantità di oggetti superati ingombrano le casse della modernità, il filo spinato è rimasto pressoché invariato dalla sua prima comparsa. Il fatto è che continua a essere sufficientemente efficace per ciò che gli si chiede, ovvero delimitare lo spazio, tracciare sul suolo le linee di una divisione attiva. In effetti, la perfezione di uno strumento di potere - in questo caso di uno strumento di iscrizione spaziale delle relazioni di potere - non si misura tanto in base alla sua raffinatezza tecnica quanto per la sua perfetta adeguatezza economica. I migliori dispositivi di potere sono quelli che consumano la minor quantità di energia possibile, materiale e simbolica, per produrre determinati effetti di controllo o di dominio. Questa efficienza può essere perfettamente raggiunta impiegando oggetti molto semplici e sobri, come il filo spinato, perché la povertà tecnica lo rende precisamente uno strumento economico e flessibile, adattabile a ogni tipo di dispositivo. (….) Il filo spinato è ovunque e, dopo la sua invenzione, è stato utilizzato in tutto il mondo, in tutti i modi possibili e con obiettivi diversi, perfino opposti. E per questo che la sua storia sembra a prima vista frammentata e la sua presentazione potenzialmente caotica. Non si tratta dunque di fare la storia del filo spinato, seguendone le apparizioni dopo la sua invenzione. Si tratta piuttosto di cogliere quelle occorrenze del filo spinato che hanno chiare e significative implicazioni politiche. Da questo punto di vista, tre manifestazioni storiche possono essere considerate paradigmatiche: la prateria americana, la trincea della Grande Guerra e il campo di concentramento nazista. In questi casi, infatti, l'impiego del filo spinato è puro. Non è semplicemente aggiunto ad altri elementi, come quando è teso su un muro, ma è l'elemento essenziale del materiale utilizzato per produrre una deternúnata delimitazione. In questi tre casi, inoltre, il suo uso supera di gran lunga la sua vocazione primaria (agricola). Ha, infatti, una portata direttamente politica che partecipa attivamente a tre disastri: alla eliminazione fisica e all'etnocidio degli Indiani d'America, all'assurdo bagno di sangue della guerra moderna e, al centro della catastrofe totalitaria, ai campi di concentramento e al genocidio di ebrei e zingari. All'interno dei fili spinati: la desolazione organizzata. – Alla mostruosità dei campi ci si può av- vicinare in due modi distinti, tra loro non contraddittori: come al fondo di una voragine, luogo delle più inimmaginabili torture; come a una città che forma un universo, luogo di istituzione della società più radicalmente totalitaria. Nel primo caso, l'attenzione non è rivolta all'architettura del campo né al suo significato come spazio politico, ma agli atti estremi, che superano l'immaginazione. Allora la cinta di fili spinati, come tutto ciò che costituisce materialmente il campo, diventa secondaria. Nel secondo caso, la dimensione politica dei campi passa in primo piano. I campi non sono buchi neri, ma la realizzazione materiale del sogno totalitario, una società del dominio totale. Allora l'architettura di un campo non è indifferente. Al contrario, essa è l'organizzazione totalitaria dell'ambiente. Nei campi, il filo spinato è lo strumento dell'organizzazione differenziale dello spazio, della separazione delle soglie della gerarchia concentrazionaria. In primo luogo, ovviamente, la recinzione separa radicalmente il campo dalla società "normale". "Da ogni parte ci stringe lo squallore del ferro in travaglio. I suoi confini non li abbiamo mai visti, ma sentiamo, tutto intorno, la presenza cattiva dei filo spinato che ci segrega dal mondo". Chi entra in un campo deve dimenticare tutto ciò che ha conosciuto. Se vuole sopravvivere, deve capire subito che i valori sui quali fondava il suo comportamento non hanno più corso, che qui circola un'altra moneta. Deve capire che qui "tutto è possibile". Primo Levi racconta che il giorno del suo arrivo ad Auschwitz cercava di placare la sua sete insaziabile succhiando un ghiacciolo staccato dal bordo di una finestra, quando un kapo si precipita e glielo strappa di mano. Quando gli chiede perché ("Warum?"), il kapo risponde, sintetizzando così l'altro mondo che è il campo, "Hier ist kein warum" (Qui non c'è perché). Ugualmente, a Buchenwald, un gruppo di nuovi arrivati mostra al kapo la condizione di un compagno, designato a un trasporto che gli sarebbe sicuramente stato fatale. Il kapo, sogghignando, risponde senza cattiveria, "Qui non ci sono malati, ma solo dei vivi e dei morti". La pedagogia del "tutto è possibile" comincia sempre con "Qui...", cioè all'interno dei fili spinati. Per i detenuti si tratta di spiegare al nuovo arrivato, che ancora possiede la carne e il volto di un essere umano libero, le manifestazioni dell'arbitrio delle SS che presto gli faranno perdere sia l'una che l'altro. Si tratta di spiegargli che dal momento in cui si trova dietro i fili spinati non è più un essere umano, ma e anche meno di un animale, semplicemente un corpo, una testa (Kopf), un pezzo (Stück), destinato, nei migliori dei casi, a morire lentamente. Il filo spinato: simbolo della reclusione estrema. – Immaginiamo... Una foto in bianco e nero che raffigura in primissimo piano un semplice pezzo di filo spinato. Pensiamo forse al recinto di un campo? No, ovviamente. Il filo spinato in quanto tale, non è più un accessorio agricolo. Per pensare a un campo, bisognerebbe che ci fosse una mucca o una pecora dietro a quel filo spinato. Per alludere all'internamento, invece, non è necessario raffigurare un prigioniero. Da solo, il filo spinato basta a evocare il campo di concentramento o di prigionia e in generale l'oppressione. È diventato un simbolo, condensa in una evocazione grafica o testuale schematica un insieme di raffigurazioni che lo superano in quanto semplice oggetto. Attraverso un'accumulazione storica è diventato una metafora della violenza politica che collega i disastri moderni: l'etnocidio degli indiani, la carneficina del 1914-'18 e gli stermini nazisti. Come disse Primo Levi, dopo la liberazione da Auschwitz: "La libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l'immagine concreta".