LADOMENICA
DIREPUBBLICA
DOMENICA 27 MAGGIO 2012
NUMERO 378
CULT
All’interno
La copertina
Quadri invisibili
e suoni silenziosi
viaggio al termine
dell’arte
ECO E PERNIOLA
La recensione
L’uomo
e il suo doppio
nelle pagine
dei grandi autori
LEONETTA BENTIVOGLIO
PASOLINI
CALLAS
L’amore
impossibile
L’intervista
FOTO PAOLO DI PAOLO / COURTESY OF DARIO OLIVERO
“Tu sei come una pietra preziosa
fatta della materia della poesia”
Lettere ritrovate, foto, disegni,
raccontano il legame profondo
tra il regista e la sua “Medea”
Yoram Kaniuk
“La vera storia
di noi israeliani
nel 1948”
SUSANNA NIRENSTEIN
L’opera
L’attualità
La cassaforte
di New York
è piena di diamanti
ANNA LOMBARDI
e FEDERICO RAMPINI
Spettacoli
Tex Willer & Co.,
ecco il film
rimasto fumetto
GUIDO ANDRUETTO
e GIAN LUIGI BONELLI
PAOLO MAURI
PIER PAOLO PASOLINI
Q
ara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su
quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le
mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu
con le tue antenne hai sentito in me. Un’angoscia leggera leggera, non più che un’ombra, eppure invincibile. Ieri in me si trattava di un po’
di nevrosi: ma oggi in te c’era una ragione precisa (precisa fino a un certo punto, naturalmente) ad opprimerti, col sole
che se ne andava. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata “adoperata” (e per di più con la fatale brutalità tecnica che
il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso,
durante la nostra opera: e lo sentirò anch’io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare.
Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare
una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e
assoluta, che la rende poi più “intera” ancora.
(segue nelle pagine successive)
uando Maria Callas incontrò Pier Paolo Pasolini per girare Medea era una diva secondo alcuni
ormai sul viale del tramonto, ma ancora in primissimo piano come personaggio da rotocalco.
L’armatore greco Onassis, con cui aveva vissuto
per nove anni, l’aveva lasciata per sposare la vedova Kennedy con uno sciame di pettegolezzi praticamente
infinito. «Nove anni di sacrifici inutili», aveva commentato
lei. L’incontro con Pasolini era stato propiziato da Franco
Rossellini che con Marina Cicogna avrebbe prodotto il film:
la Callas poteva essere un’ottima Medea e naturalmente un
formidabile aiuto per un successo internazionale. Pasolini
non era mai stato un frequentatore di teatri d’opera. Aveva
visto un Trovatore a Bologna, quando aveva diciotto anni e
non si era entusiasmato. Molti anni dopo, un Rigoletto visto
a Caracalla con Ninetto Davoli gli era piaciuto, ma questo
non cambiava niente. Nico Naldini dice che confondeva
Cherubini con Boccherini.
(segue nelle pagine successive)
C
Fra barbari e no
Muti illumina
l’Attila in nero
del giovane Verdi
GUIDO BARBIERI
Il libro
Una certa
idea di mondo:
“L’invenzione
del Partenone”
ALESSANDRO BARICCO
la Repubblica
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LA DOMENICA
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La copertina
Pasolini-Callas
Lui l’ha scelta per “Medea” per quel suo “viso contadino”
Lei ha rinunciato a essere “la Divina”. Sono stati appena
abbandonati. Per questo sul set nasce “un’affinità
psichica” che “sentiremo entrambi”, come scrive il regista
in una lettera ritrovata e ora in mostra
insieme ai ricordi di un amore mai fiorito
“Cara Maria”, “Pier Paolo mio”
PAOLO MAURI
(segue dalla copertina)
li piaceva la musica
classica che ascoltava
in casa sua o da Elsa
Morante che aveva una
discoteca molto ben
scelta, ma molto meno
l’opera. Comunque della Callas voleva
tutto meno la cantante o la diva: gli era
piaciuto il viso, che rimandava a una
realtà contadina primigenia, un viso
addolcito dai trascorsi borghesi, ma
molto intenso e vero. Pasolini disse a
un certo punto che la Callas aveva la
stessa verità di un Franco Citti preso
dalla strada, come se dalla strada e non
dal palcoscenico venisse anche lei.
L’avrebbe ripresa con dei lunghi primi
piani, mentre lei, che aveva avuto come regista anche Visconti, era abituata a stare in scena con il pubblico a una
certa distanza. Le avrebbe spiegato la
differenza tra il cinema e il teatro nella
lettera ritrovata ed esposta in questa
mostra in casa Testori a Novate, una
lettera scritta dopo una giornata di lavoro insieme sul set, quando aveva notato in lei il turbamento per non essere
stata pienamente padrona di sé e del
suo corpo. «Questo stringimento al
cuore lo proverai spesso, durante la
nostra opera: e lo sentirò anch’io, con
te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare».
Il cinema, le spiega ancora nelle righe successive, è fatto così: una frantumazione della realtà che poi viene ricomposta «nella sua verità sintetica
assoluta». Medea fu un film faticoso: le
riprese in Cappadocia, che figurava
come l’antica Colchide, poi a Grado
dove il Centauro ammaestra il giovane
Giasone e infine a Pisa nella Piazza dei
Miracoli dove, ad onta di ogni plausibilità cronologica, Pasolini aveva posto la Ragione in omaggio a Galileo: la
razionale Corinto che si opponeva a
Medea. La Callas aveva avuto dalla
produzione una cameriera, Bruna, oltre alla sua assistente Nadia Stancioff.
G
MARE
A sinistra,
la Callas
e Pasolini
in barca
a Skorpios
nel 1970;
in alto,
lo scrittore
disegna
in spiaggia
uno dei ritratti
dell’attrice
pubblicati
nella pagina
a destra
Non lasciava mai i suoi due cagnolini. Il
rapporto con Pier Paolo divenne intenso:
fu più di un’amicizia e a un certo punto,
complice una foto scattata in aeroporto
dove si vedono i due scambiarsi un bacio
sulle labbra, si parlò addirittura di amore.
Ne parlarono cioè i rotocalchi e i giornalisti più inclini al gossip e la storia fu ripresa
diverse volte. Uno scrittore spagnolo, Terence Moix, la rielaborò e voleva anche
farne uno spettacolo.
In realtà si trattava di un amore impossibile, anche se tra i due c’era affetto e
profonda confidenza. Pasolini era disperato perché Ninetto Davoli lo stava lasciando per una ragazza. Nell’agosto del
’71 aveva scritto a Paolo Volponi: «Sono
quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito.
Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è
più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è
crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza disposto a tutto, anche a tornare a
fare il falegname (senza battere ciglio)
pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo
mi rovina il presente, ma getta una luce di
dolore anche in tutti questi anni che io ho
creduto di gioia».
La Callas fu messa a parte della tragedia
e gli scrisse: «Sono infelice per te, ma contenta che ti sei confidato in me. Caro amico — sono infelice che non posso essere
vicina in questi momenti difficili per te —
come lo sei stato tu spesso con me. Tu sai
bene in fondo che sarebbe andata così. Ti
ricordi a Grado in macchina si parlava e
con Ninetto di amore e che so io — dentro
in me — le mie antenne tu dici — me lo dicevano quando Ninetto diceva che non si
innamorerebbe mai — sapevo che diceva
delle cose che era troppo giovane per capire. E tu in fondo uomo tanto intelligente — lo dovevi sapere. Invece ti attaccavi
anche tu a un sogno — fatto da te solo —
perché è così anche se ti addoloro con
questa predicuccia piccola…».
Non è la prima volta che la Callas, che si
firma «Maria (fanciullina)», si incarica di
dire a Pier Paolo cose magari spiacevoli. In
una lettera scritta «dalle nuvole» e cioè da
un aereo della Olympic Airways in volo
per New York, arriva a dirgli che l’amicizia di Alberto Moravia (con il quale lei e
Pier Paolo insieme a Dacia Maraini avevano condiviso un viaggio in Africa) non
l’ha mai del tutto persuasa. «Sai, caro
amico, di veri amici — o veri e basta, pochi ne ho trovati, per non dire nessuno...
E ci tengo alla tua verità e sincerità. Siamo
assai legati psichicamente — oso dire come raro si fa in vita». Un italiano dalla sintassi bizzarra, chiosa Nico Naldini nella
sua Breve vita di Pasolini, «forse appreso
nei corridoi dei teatri».
«Assai legati psichicamente»: Maria
Callas coglie la profondità di un rapporto
che non è semplice amicizia. Per Maria
Pasolini riprende a dipingere in modo
oserei dire carnale, usando elementi naturali, come il succo dei fiori, per Maria si
adatta a fare una crociera con il panfilo di
Onassis e a passare una vacanza nella sua
isola, per Maria scrive poesie che Enzo Siciliano ha interpretato con finezza nella
sua Vita di Pasolini. «La donna è per Pier
Paolo “riapparizione ctonia” — riapparizione da un viaggio compiuto in luoghi
mai percorsi. La donna torna con una notizia, la notizia del “vuoto nel cosmo” [...]
In Maria, Pier Paolo — una sera a Parigi
(“Parigi calca dietro alle tue spalle un cielo basso/con la trama dei rami neri”) lesse una richiesta d’amore: amore fra donna e uomo. Vi lesse la consueta, antica,
donnesca richiesta che l’uomo sia “padre”. Pier Paolo, a quella richiesta, non
poteva dare risposta».
Le poesie per Maria figurano in una
delle raccolte più problematiche di Pasolini: Trasumanar e organizzar uscita per
la prima volta nel 1971. La precedente
raccolta, Poesia in forma di rosarisaliva al
1964, dunque Trasumanar è un ritorno
alla poesia dopo un lungo silenzio, con la
volontà di tracciare alcune linee guida
per il proprio scrivere versi. Trasumanar
è, come si sa, un verbo dantesco e viene
dal primo canto del Paradiso. Trasumanar è andare oltre l’umano, cui segue,
nella Commedia, «significar per verba»,
cioè dare senso attraverso le parole. Pasolini gioca con il dettato dantesco, fino
alla parodia («Manifestar significar per
verba non si poria») e detta all’Ansa, per
gioco, la propria scelta stilistica: «Smetto
di essere poeta originale, che costa mancanza/ di libertà: un sistema stilistico è
troppo esclusivo./Adotto schemi letterari collaudati per essere più libero./Naturalmente per ragioni pratiche». Andrea Zanzotto colse bene la difficoltà dell’insieme. I critici non si mossero per
questa raccolta e Pasolini, provocatorio,
si recensì da solo sul Giorno. Ma la poesia
più luminosa non è tra quelle per Maria
Callas: è una poesia per Ninetto, datata 2
settembre 1969. Si conclude così: «Della
nostra vita sono insaziabile/ perché una
cosa unica al mondo non può essere mai
esaurita».
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la Repubblica
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FOTOGRAFIE
Da sinistra in senso
orario, Ninetto Davoli,
Pasolini e la Callas a Grado
nel ’69; il famoso
bacio in aeroporto
tra il regista e la soprano;
le lettere originali
di Pasolini e della Callas;
i due con Moravia
nel Mali nel ’69
e ancora a Grado;
lo scrittore e “la Divina”
a Parigi
In copertina,
le riprese di Medea
Lo so, è terribile
sentirsi spezzati
PIER PAOLO PASOLINI
(segue dalla copertina)
u sei come una pietra preziosa
che viene violentemente frantumata in mille schegge per
poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita,
cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati,
sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo
giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se
stessi: e questo umilia, lo so.
Io oggi ho colto un attimo del
tuo fulgore, e tu avresti voluto
darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio,
e alla fine si avrà l’intera, intatta
luminosità. C’è poi anche il fatto che io parlo poco, oppure mi
esprimo in termini un po’ incomprensibili. Ma a questo ci
vuol poco a mettere rimedio:
sono un po’ in trance, ho una visione o meglio delle visioni, le
“Visioni della Medea”: in queste condizioni di emergenza,
devi avere un po’ di pazienza
con me, e cavarmi un po’ le parole con la forza. Ti abbraccio.
T
© RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
Stai bene
Lo spirito
va dove vuole lui
Lui sì che è libero
Allo spirito nessuno
comanda
Almeno non il mio,
neanche il tuo
Quello è una grande
forza, Pier Paolo,
non credi?
Cerca di stare bene
Cerca di avere
pazienza
Maria Callas a Pasolini
New York, 4 febbraio 1971
‘‘
LA MOSTRA
La mostra Pasolini a Casa Testori
a Novate Milanese presenta i quadri
e i disegni dello scrittore dagli anni giovanili
sino alle opere degli ultimi mesi di vita
Insieme a fotografie, documenti, lettere e film
La mostra, aperta fino al primo luglio,
è curata da Giovanni Agosti
e Davide Dall’Ombra; catalogo Silvana
(www.casatestori.it)
Un fanciullo
Ma quando crescerai
P.P.P.?
Non è giunta
l’ora di essere
più ricco e maturo,
anche se fanciulli
si è sempre
grazie a Dio!
So che mi odierai
ma ti ho sempre detto
la verità e ti chiedo
scusa se invece
di coccolarti
ricevi queste stupide
parole
Maria Callas a Pasolini
Tragonissi, 21 luglio 1971
la Repubblica
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LA DOMENICA
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L’attualità
Carati
2.600
le imprese
del settore
tra gioiellerie
e laboratori
I ricchi lo sanno da sempre,
ora anche la “middle class
globale” cerca di adeguarsi:
9,1 mld
il valore
dei diamanti
importati
ed esportati nel 2011
in tempi di recessione
si investe in diamanti
24 mld
E nel sottosuolo di Manhattan,
a Diamond District, c’è il caveau
dove tutto il mondo conserva i suoi tesori
Siamo riusciti a entrare
il giro d’affari
in dollari
realizzato
nel 2011
La cassaforte
più segreta
di New York
GIRL’S BEST FRIEND
Una creazione
di Bulgari del 2009:
collana di platino
e 114 diamanti
per un totale
di 228,24 carati
I tagli
ANNA LOMBARDI
LE IMMAGINI
Le foto
di queste
pagine
sono
un reportage
da Diamond
District
sulla 47esima
strada
di New York
e nel caveau
che contiene
la più grande
quantità
di diamanti
del mondo
I
NEW YORK
l corridoio di marmo nero, gli
uomini vestiti di nero — quasi
tutti ortodossi — distinguibili
dai cappelli: neri. I chassidim
con le pellicce tonde, con la fedora. Parlano al cellulare, discutono. La fila per
salire sui quattro ascensori non finisce
più. Quattro orologi segnano l’ora di altrettante città. New York, Anversa,
Hong Kong e, naturalmente, Tel Aviv: le
capitali dei diamanti, il nuovo oro, il bene rifugio che ora vogliono quotare anche a Wall Street. Si va su con l’ascensore fino al quindicesimo piano, poi giù
per una rampa di scale, la porta di sicurezza controllata da uomini armati,
una, due, tre sale, un’altra porta blindata con un codice e, di nuovo, un ascensore azionato da una chiave cifrata. Poi
giù, giù, giù: fin sottoterra. È proprio qui
che dormono i diamanti: in un caveau
dalla cupola Liberty sotto la scintillante
Fifth Avenue, nelle viscere di un grattacielo di cui per prudenza ci chiedono di
non citare l’indirizzo esatto. Altri varchi, altri uomini armati. E finalmente,
l’immensa porta blindata che protegge
centinaia di cassette di sicurezza: piene
di diamanti. Sono pietre da 12, 13 carati che valgono più di un milione di dollari. Collane con diamanti rosa: rarissimi. E tante gemme di taglio minore, ciascuna avvolta in un pacchetto di carta
su cui, a mano, sono riportati i carati, il
taglio, la lucentezza, il valore.
Tutti conoscono il Diamond District
sulla 47esima strada a Manhattan. Ma
pochi sanno che sotto il traffico e l’asfalto qui si nasconde un vero forziere.
Neppure i gioiellieri e i broker del Diamond Dealers Club, la borsa dei diamanti, sono mai scesi fin qui. La sera, e
soprattutto il venerdì, prima dello
Shabbat, affidano i loro preziosi a com-
la Repubblica
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La “roba” e la ricerca del rifugio perfetto
FEDERICO RAMPINI
O
NEW YORK
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FOTO FEDERICA VALABREGA
ggi l’oro, ieri l’argento, domani i diamanti. E anche, sia pure come “nicchie” di mercato più
piccole, il platino o l’arte contemporanea; i vini pregiati; i terreni agricoli. Sono i beni rifugio a cui
chiediamo sicurezze “ai tempi delle pestilenze”. In una crisi economica, quando tutte le certezze
sui nostri redditi e risparmi sembrano dissolversi, sentiamo il bisogno di aggrapparci a un’ancora
di salvezza. È l’equivalente dei bunker antiatomici con provviste a lunga scadenza, che ebbero una
discreta diffusione qui in America negli anni più bui della guerra fredda. Oggi l’epicentro dell’insicurezza collettiva è l’eurozona, dove interi popoli (prima la Grecia, domani la Spagna) sono angosciati dalla possibilità di una svalutazione massiccia: quindi corrono a ritirare i risparmi dalle
banche. Poi occorre metterli “al sicuro”, depositarli in una forma che non sia esposta a rovesci improvvisi di valore.
E non c’è solo l’eurozona. Le potenze emergenti come Cina e India, beneficiate da un benessere
diffuso ma ancora troppo recente, fanno incetta di pietre preziose. Non si sa mai. Il bene rifugio per
eccellenza è stato a lungo il mattone: ma la tremenda crisi finanziaria del 2008 ebbe inizio proprio
per il tracollo della bolla immobiliare negli Stati Uniti. Qualcosa di simile sta cominciando a verificarsi in Cina. Dunque la casa non è l’investimento sicuro che si credeva. E poi i beni immobiliari
hanno un difetto: sono troppo facili da tassare. Gli Stati alla ricerca disperata di nuove entrate infieriscono pesantemente sulla proprietà immobiliare. L’oro si può dissimulare in una cassetta di sicurezza, è anonimo, non c’è registro catastale per i lingotti. I diamanti sono ancora più minuscoli e
trasportabili: servirono così a tante famiglie ebree perseguitate dai nazisti, nella loro fuga verso la
salvezza, per trasportare valori oltre il confine. La storia dei beni rifugio è antichissima, la differen-
za oggi sta nella dimensione di questi investimenti. Non più riservati ai soli ricchi. La grande novità
dei nostri tempi è la nascita di una gigantesca “middle class” globale, una borghesia medio-piccola che contiene un miliardo di persone, ha cooptato centinaia di milioni di cinesi, indiani, brasiliani, russi. Di fronte alle incertezze dell’economia cercano ispirazione nel comportamento delle élite, scimmiottano le strategie dei ricchi. Tutti hanno una certa predilezione per i beni rifugio “fisici”.
Negli Stati Uniti si è lanciato, con qualche successo, un titolo finanziario che rappresenta l’investimento in oro e si può scambiare facilmente in Borsa, sono gli Etf (exchange-traded fund). Sono più
“liquidi”, è vero, però uno spot pubblicitario martellante va in onda sui network delle tv finanziarie
come Msnbc: «Comprate l’oro che si vede, quello che si tocca, che potete custodire in cassaforte».
In India la dote matrimoniale deve essere di oggetti preziosi, monili, “pietre”. In Francia due secoli di rivoluzioni, guerre, e cinque repubbliche diverse, crearono un affetto durevole per il Napoléon,
la moneta d’oro che resisteva alle svalutazioni. È la “roba” dei Malavoglia di Verga: il patrimonio che
vedi sembra più facile da custodire e lasciare intatto ai discendenti.
La corsa ai beni rifugio è ancestrale, per i limiti della moneta. Già Karl Marx e altri economisti
classici avevano approfondito le due funzioni della moneta: mezzo di pagamento e deposito di valore. Per regolare transazioni la moneta non ha rivali, è standard, universale: semmai viene soppiantata da strumenti ancora più astratti come assegno, carta di credito, presto il telefonino. Come deposito di valore, invece, è soggetta ai capricci del sovrano. Da tempi immemorabili, re e imperatori trafficano e imbrogliano sulla moneta. Le “bancarotte sovrane” ai tempi della monarchia
francese si risolvevano a volte con la ghigliottina per i creditori. Oro e diamanti in questo senso sono democratici: una difesa contro l’abuso di potere di chi stampa moneta.
messi e guardie armate: ciascuno con la
propria chiave e il proprio codice.
«I ricchi lo hanno sempre saputo: perché credete che fra i gioielli della corona
inglese ci siano tanti diamanti?». Nel suo
ufficio dall’altro lato della strada, Reuven Kaufman, il presidente del Diamond Dealers Club, sorride. «Però ora a
comprare sono i nuovi ricchi: cinesi, indiani, brasiliani. Per loro sono uno status symbol, ma anche nuovo bene rifugio. Scoperta che noi ebrei avevamo già
fatto durante il nazismo quando i nostri
nonni trasformarono tutti i loro averi in
diamanti facili da trasportare e nascondere». Ma davvero i diamanti sono il
nuovo oro? «Con la crisi l’oro è diventato costosissimo, in dieci anni il valore è
aumentato sei volte tanto», spiega Ruggero De Rossi, che la rivista Barron’s ha
definito “genio dei bond”. «Bene per chi
ha investito allora, ma ora è più complicato accaparrarselo. È successo come
con il petrolio, così si ricorre ad altro».
Da New York a Londra, dalla Svizzera a Israele, sempre più investitori scelgono fondi garantiti da beni “esotici”.
Palladio. Argento. E appunto i diamanti. La Borsa di New York si appresta a varare titoli negoziabili come azioni, legati all’indice del valore dei diamanti. E
la Sec che controlla Wall Street sta esaminando una proposta per creare il
primo fondo basato su diamanti garantiti dalla newyorchese IndexIQ.
Che acquisterebbe gemme industriali
da un carato da depositare in un caveau
di Anversa e fornirebbe valori giornalieri in base alle contrattazioni nelle
borse di diamanti del mondo.
«Certo», ammette Kaufman, «così sarebbe più conveniente investire sui
fondi che comprare pietre preziose da
noi. Ma non ci credo: i diamanti sono
difficili da mettere in un fondo proprio
perché sono unici. Ognuno col suo peso, colore, lucentezza, lavorazione. E
provenienza». Già. In tanti, oggi chie-
dono “diamanti etici”: il contrario dei
Blood Diamond del film con Di Caprio,
insanguinati dai dittatori africani. «Le
pietre più preziose», prosegue Kaufman, «sono quelle di New York. Qui abbiamo i tagliatori migliori». Il manager
spalanca una porta: dentro, quattro artigiani pachistani intagliano gemme
grezze con altri diamanti. Poi le pietre
appena lavorate vengono esaminate al
computer: se i parametri non vengono
rispettati, si rilavorano fino a eliminare
ogni imperfezione.
A New York i prezzi si stabiliscono
dal 1931 al Diamond Dealers Club. Le
contrattazioni si fanno attorno a tavoli
di formica bianca: chi vende da un lato,
il gruzzoletto di diamanti di fronte, chi
acquista dall’altro. Qui ebrei ortodossi,
broker coreani addestrati all’yiddish,
grossisti in cravatta e signore in tailleur,
invece di stringersi la mano al termine
della contrattazione si levano le scarpe
e le rovesciano: «Un gesto di buona fe-
de», racconta Martin Hochbaum, direttore del “Club”. «I diamanti sono insidiosi: capita che qualcuno scivoli e si
infili nei calzini». Proprio di fronte al
suo ufficio c’è la bacheca dei Lost and
Found: «Smarrito diamante rosa da 5
carati», «Trovato sacchetto con dentro
3 diamanti».
I compratori sono soprattutto grossisti. Come David Grossman, storico
gioielliere del District: «Qui vanno ancora fortissimi gli anelli di fidanzamento: da 25mila a 250mila dollari. Ma per
chi vende non è tempo di grandi profitti. Grazie a internet oggi tutti sanno cosa vogliono e quanto vale una pietra.
Ho visto perfino coppie naufragare
perché non era “abbastanza” per la
sposa». Insomma sono il nuovo oro o
no? «Per trasformare in affare un acquisto ci vogliono almeno vent’anni.
Ma i diamanti sono comunque unici:
non si svaluteranno mai».
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la Repubblica
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LA DOMENICA
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La storia
Lame, serpenti, cuori, teste di diavoli. Incisi addosso a “camorristi
e sovversivi” per il teorico dell’“atavismo” ne svelavano i delitti
Guardie e ladri
I SIGNIFICATI
{
{
{
{
Bonacoro Ciro
Marigo Giovanni
Quaglini Angelo
Avondo Giuseppe
anni 22
Napoletano camorrista, soldato.
Diciassette volte recidivo
per furti e insubordinazione
1. Cometa, ricordo d’amore
della sua amante
2. Nome proprio
3. Il voto di diventare un giorno
un marinaio
4. Il sole, espressione di puro amore
10..Un cinque di denari,
ricordo di gioco
17. Prime iniziali della sua amante
anni 43
Calzolaio, ladro. Mandibola enorme,
fronte vasta, zigomi enormi, occhio
feroce, scarsa barba. Fu in procinto
di uccidere per vendetta suo fratello
1. Una donna, simbolo di fortuna
2. Emblema religioso
4. Data del primo amore
5. Testa di morto, vendetta contro
le guardie
6. Un amore tradito
7. Una delle sue amanti
8. Rosari e simboli religiosi
anni 25
Manovale, ladro. Espulso di Francia
I tatuaggi furono fatti dal fratello
che trovasi ora al reclusorio di Savona
1. Amore tradito
3. Il cuore trafitto con la testa
di un pesce “maquercan”: significa
che l’amante lo abbandonò
per un Alfonso
4. Ricordo dell’Italia
7. Testa del diavolo sinonimo
di sventura
9. Pegni d’amore
anni 30
Minatore, ladro recidivo.
Espulso di Francia dopo espiata
la pena. Tutti i tatuaggi furono
fatti in Francia
1. Ricordo del soggiorno francese
2. Illustrazione di un gioco di parole
in francese: “Jeu du billard anglais
ou les billes qui poussent la quene”
3. Le “plaisir du Gendarme”
un chien qui emmanche
un gendarme
(come atto di spregio alla Polizia)
4
1
1
1
6
1
3
7
10
2
8
4
2
3
7
2
4
9
5
3
17
TATUAGGI
MASSIMO NOVELLI
I
TORINO
n principio fu il tatuaggio. Era il 1863. Cesare
Lombroso non aveva ancora elaborato la teoria
dell’atavismo criminale. Era un ufficiale medico. Esaminando un migliaio di soldati artiglieri,
tuttavia, venne colpito dal fatto che 134 di loro,
di ceti sociali disagiati, avevano sul corpo più
immagini o scritte incise in modo indelebile. Ne
fece tesoro. Qualche tempo dopo, nel 1876, l’anno della pubblicazione de L’uomo delinquente,
poteva scrivere che l’uso del tatuaggio «fra gli
uomini non delinquenti» tende «a decrescere»,
mentre invece «l’usanza permane non solo, ma
prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale, sia militare, sia civile». Nel libro
Il Museo di Antropologia criminale “Cesare
Lombroso”, curato per la Utet da Silvano Montaldo e da Paolo Tappero, Pierpaolo Leschiutta
ricorda che per la quinta edizione de L’uomo delinquente, uscita nel 1896, il dottore veronese,
trasferitosi a Torino, «aveva dati e informazioni
CRIMINALI
Lombroso e i corpi del reato
su 10.234 individui tatuati, 6348 classificati come criminali, prostitute e soldati delinquenti».
Il tatuaggio era diventato un potente indicatore
di atavismo criminale. Aveva annotato nel 1874:
«Nulla è più naturale che un’usanza tanto diffusa tra i selvaggi e fra i popoli preistorici torni a ripullulare in mezzo a quelle classi umane che,
come i bassi fondi marini, mantengono la stessa temperatura, ripetono le usanze, le superstizioni». Non si conosce il numero dei tatuaggi di
uomini e donne «delinquenti», di assassini e di
banditi, di ladre e meretrici, di vagabondi e di
oziosi, di camorristi e sovversivi, che vennero ricopiati e riprodotti dal vero su carta e su tela, su
richiesta del fondatore dell’antropologia crimi-
nale, in diversi manicomi, nelle carceri e negli
ospedali del Regno d’Italia. Sicuramente si tratta di una quantità enorme. Nei magazzini del torinese Palazzo degli Istituti Anatomici, dove ora
è ospitato il Museo Lombroso diretto da Silvano
Montaldo, in questi ultimi anni ne sono stati ritrovati centinaia, senza contare quelli che sono
andati perduti. Sei di questi, i più grandi e significativi, sono stati affidati agli specialisti del laboratorio di restauro dell’Archivio di Stato di
Torino che li hanno restituiti ai colori originali.
Rappresentano una testimonianza rilevante
del pensiero lombrosiano e degli strumenti della ricerca scientifica positivista, ma anche un
racconto di notevole forza dell’universo otto-
centesco della miseria, del crimine, della devianza, della follia, talvolta del genio. Spiega
Montaldo: «La nostra è una raccolta unica al
mondo nel suo genere. Anche Alexandre Lacassagne, uno dei padri della scienza criminologica in Francia, ne aveva raccolti numerosi a Lione; non si sa, però, che fine abbiano fatto».
Nell’Ottocento, scrive Leschiutta, il tatuaggio
«turba, incuriosisce, infastidisce, pone problemi sulla liceità di un uso del corpo irrispettoso
della sua sacralità», sebbene fosse diffuso, soprattutto in Inghilterra, tra gli esponenti dell’aristocrazia. Oggi farsi tatuare è una moda di
massa, e il tatuaggio ha perso una buona parte
della sua valenza. Uscito dalla storia delle classi
la Repubblica
DOMENICA 27 MAGGIO 2012
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Testimonianze uniche sul mondo della devianza ottocentesca,
ora i più preziosi tra questi “studi” sono stati restaurati dal museo torinese che porta il suo nome
{
{
{
{
Melli Felice
Giacchero Francesco
Musso (nome illegibile)
Ferrero Sebastiano
anni 40
Espulso, ladro recidivo
Il Melli non volle dare spiegazione
dei disegni 3 e 4: disse solo
che la testa del guerriero,
tenuta in mano dalla donna,
rappresentava il ritratto
dell’*2: vi è in... qualche ricordo
delittuoso, oppure fu semplice
capriccio di pittore, o pittrice?
Perché chi tatuò il Melli fu una
giovane spagnola di 16 anni (...)
1. Emblema d’amore
anni 44
Da Vercelli, manuale, ladro. Espulso
1. Emblema d’amore
2. Sirena: ricordo di mare
3. Iniziali del nome dell’amante
4. Selvaggio e selvaggia: ricordo
del suo soggiorno in Africa
6. Trofeo d’arnesi di fabbro: ricordo
della sua prima professione
9. Zuavo: ricordo
della campagna d’Italia
11. Ricordo di una sua visita
alla Madonna di Lourdes
anni 27
Condannato 50 volte per rivolta
Fu marinaio, poi merciajo ambulante,
saltimbanco, orologiaio. Parla 3 lingue
Nella fisionomia - fronte sfuggente zigomi - occhi cerulei. È al servizio
della Questura come propalatore
2. Ricordo del cavallo ucciso,
12 anni fa, con colpo di coltello
per puro capriccio
5. Ritratto di Mottino, il bandito (...)
8. La stella sotto l’influenza della quale
egli nacque (dice lui)
anni 26
Condannato in Francia e recidivo
per Rivolta, Ribellione, oltraggi
alle Guardie. Espulso dopo 3 anni
di carcere. Di professione carrettiere
1. Leone (emblema della forza)
2. Croce della Legion d’onore
12. Cantante di birreria
(di cui s’era innamorato)
14. Imprecazione alla donna
che lo tradì
26. Un lupo (volle indicare la miseria
sua e la fame e lo dice coll’iscrizione)
1
1
8
2
1
2
9
2
11
3
4
12
5
6
14
26
LE IMMAGINI
Il nuovo codice dell’appartenenza
GIANCARLO DE CATALDO
ome si fa oggi a individuare un criminale, specie se è un grande criminale? Lombroso
avrebbe detto: dal tatuaggio. Tutti i criminali sfoderano tatuaggi. È un segno di appartenenza. Perciò: segui il tatuaggio, e troverai il criminale. E viceversa. Se le cose fossero così semplici basterebbe uno screening di massa a garantirci la tanto mitizzata “sicurezza”. Ma le
cose non sono mai semplici quando si tratta di cattivi soggetti. E la capacità mimetica della malavita è, oggi, uno degli aspetti più inquietanti della modernità.
Concedetevi un’escursione in un ristorante alla moda. All’ingresso, limousine e berline coi
vetri oscurati attendono in divieto di sosta presidiate da autisti-guardie del corpo. Entrate. Riconoscete qualche volto noto, della politica, dello spettacolo o dello sport. Ma voi concentratevi — senza dare nell’occhio, perché non sarebbe prudente — sulle rumorose congreghe di uomini vestiti all’ultima moda che prendono posto al tavolo migliore, immancabilmente riservato, con al fianco “sventole” da urlo dall’aria fintamente compresa. Censite gli orologi di marca,
i pendagli di diamanti e i bracciali d’oro. Qualcosa nell’atteggiamento di costoro vi suona stonato: una certa arroganza, qualche scoppio di risate sopra le righe, e cominciate a farvi delle domande. Notate che qualcuno dei personaggi noti non disdegna di farsi ritrarre in compagnia di
questi ignoti. Attendete con crescente impazienza che il cameriere, abilissimo a fingere di ignorarvi, vi degni finalmente di un po’ di attenzione. Ma solo dopo che questi signori sono stati serviti e riveriti in un profluvio di premure ossequiose. Vi chiedete allora, con più decisione, chi sono questi tipi dai volti anonimi che si comportano come se fossero i padroni della città (e a volte lo sono davvero). Azzardate una cauta domanda. Non c’è risposta. Vi resta una sensazione di
disagio. Dopo un po’ non ci fate più caso: concludete che si trattava di uomini di successo, forse imprenditori, forse manager, chissà. E gli uomini di successo, si sa, tendono all’arroganza.
Poi, un giorno, rivedete i loro volti. Al telegiornale, sono su tutte le prime pagine. Hanno le manette ai polsi. Capite allora di esservi imbattuti in una combriccola di criminali, magari anche
di un certo spessore. Qualcosa vi aveva insospettito, certo, ma non potete dire di averli immediatamente riconosciuti. Erano proprio uguali a tanti altri. Non avevano nemmeno il tatuaggio.
Ma sì, che se ne fanno, ormai, i veri criminali, del tatuaggio? È acqua passata. Siamo noi quelli
che ancora si eccitano coi simboli di “quegli altri”. Come se non potessimo fare a meno, dopo
tutto, di ammirarli. “Loro” sono già altrove. Sono nell’era postcriminale.
C
subalterne, è entrato nell’era dell’omologazione. Un serpente marchiato su un braccio non
svela ciò che poteva rivelare, oltre un secolo fa,
quello che attraversa il corpo di «Materia», un
piemontese «condannato ripetutamente per
furto, rapina, associazione a delinquere». È uno
dei disegni rimessi a nuovo dall’Archivio di Stato. Nelle note di Lombroso e dei suoi collaboratori, quasi sempre basate sulla scorta delle spiegazioni fornite dai medesimi tatuati, il serpente
«significa che egli è legato dalla Questura dai cui
lacci non può sciogliersi. Le spade significano il
diuturno duello contro la Questura».
Vere e tragiche storie personali, spesso abominevoli oppure miserabili, con i loro fondi di
memorie e di sogni spezzati, di odi e di amori,
con gli afflati religiosi, i desideri erotici e di vendetta, a volte innestati tra vagheggiamenti sociali e di rivolta, un «W la Republica» e un «W la
Pace», coprivano i corpi studiati da Lombroso.
Lui ne traeva linfa preziosa per dimostrare il rap-
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A sinistra
un ritratto
del medico
e antropologo
Cesare Lombroso
Qui in alto, alcuni
suoi “studi”
sui tatuaggi
di “delinquenti
e criminali”,
ora restaurati
dal Museo
Lombroso
di Torino
porto dei delinquenti e dei devianti, proprio per
via del tatuarsi, con l’uomo primitivo e con quello «in stato di selvatichezza». Le altre letture possibili, alternative alla mera connotazione criminale, non vennero prese in considerazione. Con
i metodi e lo stato della scienza connaturati all’epoca, Lombroso colse, come dice Leschiutta,
«la potenzialità evocativa» dei tatuaggi; quell’essere, per citare Danilo Montaldi, delle autentiche Autobiografie della leggera (o lìgera, la
piccola criminalità milanese della prima metà
del Novecento, ndr). Nell’iconografia tutta pelle e aghi lo scienziato individuò le tipologie del
tatuaggio religioso e per imitazione, per spirito
di vendetta e per ozio, per vanità, per spirito di
corpo, in funzione mnemotecnica ed erotica.
Molte delle sue idee e delle sue scoperte sono cadute nell’oblio. Rimane intatta la capacità di
raccontare gli uomini e le donne decifrandone i
segni sui corpi.
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la Repubblica
DOMENICA 27 MAGGIO 2012
LA DOMENICA
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Spettacoli
Spaghetti comics
Aveva fondato una casa di produzione, la “Condor”. Per i “pards”
aveva pensato a Charlton Heston e Jack Palance. Ma alla fine il padre
di uno dei personaggi cult del fumetto italiano non riuscì a fare il grande
salto verso il cinema. Ecco lo script inedito di quell’avventura
“Stai per schizzare all’inferno, amigo”
scene da un western rimasto sulla carta
GUIDO ANDRUETTO
ersapere cosa ne è stato della sceneggiatura originale del film mai realizzato da Giovanni Luigi Bonelli su Tex Willer, si deve cercare nei cassetti dei collezionisti, da cui adesso emerge, a
distanza di oltre quarant’anni dalla stesura, una copia di oltre duecentosessanta pagine dattiloscritte e corredate da numerose correzioni a mano e aggiunte autografe del “papà” di Tex.
Soggettista prolifico e creatore nel 1948 del leggendario personaggio del fumetto italiano, per conto dell’editrice L’Audace (antenata dell’attuale Sergio Bonelli Editore), Bonelli padre lavorò a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta a un progetto cinematografico che non vide mai la luce, ma di cui
oggi, finalmente, è stata rintracciata una testimonianza postuma che completa il suo sogno. Dalla
casa di un collezionista romano, infatti, proviene il documento originale con la sceneggiatura del
film scritta a macchina dall’autore di Yuma Kid e I Tre Bill, oltre che di diversi romanzi tra cui Il crociato nero e Le tigri dell’Atlantico. Un pezzo raro che il prossimo 9 giugno andrà all’incanto a Torino,
nel corso della prima asta dedicata al collezionismo di fumetti, per iniziativa della galleria e casa d’aste Little Nemo. Che per l’occasione ha realizzato un catalogo storico che ripercorre in quasi quattrocento tappe — corrispondenti ad altrettante testate storiche, da Il Corriere dei Piccoli a L’Intrepido — l’avventura straordinaria del fumetto in Italia. Brilla tra tutti questi materiali la sceneggiatura
su cui Gian Luigi Bonelli lavorò nei primi anni Settanta, non solo scrivendo i testi (che poi correggeva a mano), ma anche applicando sui fogli con lo scotch diverse immagini stampate su carta fotografica. Bonelli aveva perfino fondato una sua casa di produzione, la “Condor cinematografica” con
sede a Milano, ed era riuscito a contattare Charlton Heston e Jack Palance per proporgli l’interpretazione dei personaggi di Tex e Kit Carson. Tutta la sceneggiatura si basava in realtà su una storia già
pubblicata nel Tex gigante del 1969, con il titolo Fort Defiance — Il giuramento, dove figuravano Tex,
Kit Carson, Tiger Jack, Freccia Rossa, Lilyth, Fred Brennan e Tucker, insomma un bel pezzo della banda che ha catturato la fantasia di intere generazioni. Tutto rimase però sulla carta, e all’inizio degli
anni Ottanta lo sceneggiatore Duccio Tessari riprese in mano il progetto acquistando per RaiTrei diritti di riduzione cinematografica, cui seguì la realizzazione di Tex e il Signore degli Abissi, dove lo stesso Bonelli compare in un breve cameo. «Ciò che rende unica questa sceneggiatura è l’incredibile capacità descrittiva di Bonelli — spiega Sergio Pignatone, patron della Little Nemo Art Gallery — quella sua attenzione ai primi piani totalizzanti che lo avvicinano alla visione di Sergio Leone, e che già
erano emersi nel suo romanzo Massacro di Goldena, pubblicato nel ’56, tratto da una storia a fumetti di Tex». Sfogliandola oggi, questa sceneggiatura inedita rivela anche il talento di Bonelli come fotografo: «Impossibile non rimanere incantati dalle sue polaroid scattate durante i viaggi in Arizona
— continua Pignatone — che poi fissa con lo scotch sulla sceneggiatura, come colpisce la sua passione per la natura selvaggia del West, per quei paesaggi desertici che rispondono ai nomi evocatori
di Mesa degli Scheletri, Canyon del Diablo o Valle della Luna». Luoghi mitici, frantumati dal sole, che
fanno da sfondo a un fiume di dialoghi e avventure.
P
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Il
film
che non vedrete mai
la Repubblica
DOMENICA 27 MAGGIO 2012
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I DOCUMENTI
Qui sotto, alcune pagine del dattiloscritto della sceneggiatura del film
su Tex Willer con le aggiunte e le correzioni fatte a mano da Bonelli
Nella pagina accanto, la copertina della sceneggiatura con l’intestazione
della “Condor Cinematografica” e il “titolo provvisorio”
LE IMMAGINI
I disegni qui sopra sono tratti dalla sceneggiatura del film
mai girato su Tex Willer. Le fotografie sono dello stesso Bonelli
Sia gli uni che le altre sono incollate ai fogli con lo scotch
LA SCENEGGIATURA
GIAN LUIGI BONELLI
L
SCENA 1
Prateria est. giorno
a M.d.P. (macchina da presa, ndr) coglie un formicaio da cui stanno uscendo
formiche a migliaia, poi carrella indietro
e in colonna sonora si sente l’eco del galoppo dei cavalli che si avvicinano: carrello sempre basso a cogliere il movimento delle formiche che stanno dando
l’assalto a qualcosa, si sente nitrire un
cavallo e infine entrano in scena gli stivali di due cavalieri che cominciano a
calpestare la colonna di formiche. I due
cavalieri (Tex e Carson) si levano i cappelli e li usano per spazzar via le formiche da qualcosa di rotondo che sporge
da terra e sta rivelandosi per la testa di un
indiano.
Tex — Troppo tardi.
Carson — Uno sporco lavoro.
Tex — Chi lo ha fatto dovrà sudare
sangue prima di potersi riposare nel più
profondo inferno.
SCENA 2
Prateria est. giorno
I due pards stanno terminando di
riempire la fossa nella quale hanno sepolto il loro amico Navajo. Poi cominciano a controllare il terreno per scopri-
re le tracce dei colpevoli.
Carson — Tre indiani e un rinnegato.
(Pausa). E lo sa il diavolo dove possono
essere andati a rintanarsi.
Tex — Forse verso Mesa di Te-en-Ta.
Carson — E perché non la pista di Carrizo?
Tex — Ci dividiamo e ciascuno segue
la sua pista.
SCENA 3
Prateria est. giorno
I due pards sono già in sella e si accingono a partire.
Carson — E niente piombo, amigo. I
morti non parlano e servono solo a concimare la terra.
Tex — Stai tranquillo. Adios!
Carson — Suerte.
SCENA 4
Partono i titoli di testa, mentre la
M.d.P. coglie i più bei paesaggi della Monument Valley che Tex attraversa a cavallo, alla ricerca degli uccisori dell’amico. Dissolve nel fondale azzurro cupo di
una notte stellata. Parte nella colonna
sonora La ballata di Tex Willer.
SCENA 10
Parete rocciosa a ferro di
cavallo. Nella radura si vede un carro coperto. Una
decina di Navajos: due
mercanti. Est. giorno
Presso il carro, un mercante con cilindro in testa sta trattando con un indiano
che gli mostra delle pelli. Altri Navajos
stanno facendo “fiesta”. Al margine della radura, stanno i mustangs degli indiani: uno si mette a nitrire attirando l’attenzione di uno dei Navajos.
SCENA 11
Campo medio. Parete rocciosa
est. giorno
Tex è alla svolta della parete rocciosa
e sente il nitrito del cavallo, poi il rumore dei passi sulla ghiaia.
L’indiano che ha
sentito il nitrito vede
Tex, ma l’urlo che sta per lanciare è fermato da un uppercut alla mascella che
lo spedisce a rotolare fra i cavalli / nitriti
e cavalli che si agitano.
SCENA 12
Campo medio. Radura a ferro
di cavallo est. giorno
L’agitarsi dei cavalli attira l’attenzione di tutti. Il mercante si rende conto del
pericolo e la sua mano corre alla pistola.
Tex spiana il fucile — Fermi o è l’inferno per tutti!
Il mercante estrae la pistola, ma non è
abbastanza veloce... e la pallottola di
Tex lo manda fra i barilotti accatastati.
Tex — Nessun altro?
Mercante con cilindro (Johnny) —
Sporco bastardo.
SCENA 13
Radura a ferro di cavallo,
campo medio est. giorno
Johnny fissa Tex con odio —
Le carogne non muoiono mai.
Tex — E i vermi ingrassano
sempre nel marcio.
Johnny — Un giorno o l’altro
troverai qualcuno che ti imbottirà di
piombo fino agli occhi.
Tex — Non vivrai abbastanza per vedere il giorno in cui
mi caleranno in una fossa.
Johnny — Spareresti a
un uomo disarmato?
Tex — Un serpente non è mai disarmato... e tu sei il più velenoso di tutti. E
adesso preparati al peggio, bastardo.
Stai per schizzare all’inferno!
Johnny finisce rotolando fra i mucchi
di pelli. Tex si avvicina a uno dei barilotti e lo buca con una pallottola. Il liquore
esce a fiotti. Tex si accende una sigaretta e getta il fiammifero acceso sull’alcol
che continua a uscire. L’incendio si propaga e Tex si allontana.
SCENA 14
Campo medio. Radura in cui
divampa l’incendio est. giorno
Johnny si rende conto di essere spacciato, ma vuole che i complici sappiano
chi è stato. Traccia col dito sulla sabbia
la parola “T E X”, poi si affloscia. Alti, gli
avvoltoi stanno girando in attesa di calare sulle sicure prede.
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la Repubblica
DOMENICA 27 MAGGIO 2012
LA DOMENICA
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Next
Notizie brevi, massimo 140 caratteri. Giornalisti
o semplici cittadini che sul campo raccontano i fatti
in tempo reale. Così il microblogging sta
Rivoluzioni
invadendo le redazioni di mezzo mondo
GLOSSARIO
Hashtag(#)
Nato nel 2007, è il modo
per etichettare una parola
e mettere così in relazione
contenuti simili tra flussi
di persone che hanno trattato
lo stesso argomento
Follower
Chi segue l’account
di qualcun altro
e quindi legge i suoi tweet
Ci si può “defolloware”
da un contatto
in qualsiasi momento
Trending Topic (TT)
Sono gli hashtags
più discussi del momento
Possono contenere
una o più parole
Spesso sono frutto
di tormentoni
Breaking news
RAFFAELLA MENICHINI
L
PERUGIA
e breaking news possono essere
brevi, molto brevi. Anche solo i 140
caratteri consentiti da Twitter, il
microblogging americano divenuto negli ultimi due anni il veicolo più veloce di
diffusione di notizie (vere e false) e materiali
multimediali in tempo reale. Piattaforma social
dai tanti volti — dal ludico al marketing, alla
“fanzine” di cantanti e campioni sportivi —
Twitter ha intanto già ottenuto un effetto dirompente almeno in un ambiente professionale: il giornalismo. L’ultimo anno ha visto un
boom di adesioni di professionisti e freelance
italiani che si sono appassionati al mezzo, mentre nel mondo anglosassone era da anni strumento diffuso. I pionieri di Twitter ora girano il
mondo a spiegare come e perché «resistere vuol
dire perdere». Il più gettonato di tutti è forse
Andy Carvin, manager di Npr (National Public
Radio), ospite d’onore al Festival del giornalismo di Perugia dove ha tenuto un seguitissimo
keynote speech sull’evoluzione del suo lavoro.
Lo hanno chiamato «disk jockey» dell’informazione, «l’uomo che twitta le rivoluzioni», o
ancora un «one man newsroom», più o meno un
uomo-redazione. Per la Columbia Journalism
Review è il miglior account twitter del mondo.
Carvin sorride, si schermisce: «Mi piace l’idea di
raccontare storie, ma sia chiaro: non sono un
giornalista». Eppure il suo è un vero lavoro giornalistico, aperto e gratuito, a disposizione dei
giornalisti e dei cittadini di tutto il mondo. Un
«servizio pubblico», sintetizza con orgoglio. Nel
2011 ha twittato per giorni interi — anche 17 ore
consecutive — mentre esplodeva la Primavera
araba. Lo ha potuto fare perché negli anni aveva
costruito una rete capillare di followers in tutte
le aree «calde», diventando un hub di informazioni in tempo reale, in grado di costruire un mosaico in movimento di quel che accadeva nel ribollire delle rivolte.
Perché Twitter sta diventando così importante per i giornalisti?
«Twitter sta diventando gigantesco e tanti tra
quelli che lo usano sono dei maniaci delle noti-
‘‘
Sfiducia
Il cattivo reporter aspetta
la notizia, apre un account
e chiede aiuto
Nessuno si fiderà di lui
zie e hanno un sacco di informazioni da condividere. E poi ci sono alcuni che sono semplicemente testimoni oculari di breaking news. Per
certi versi Twitter è diventato un social media
“polso” di quel che accade nel mondo, almeno
in quelle parti di mondo dove ci sono connessioni internet affidabili».
Una delle resistenze che l’uso di Twitter incontra nelle redazioni è la paura della «disintermediazione»: l’idea che se il pubblico ha accesso diretto alle informazioni non avrà più bisogno di noi giornalisti. È un timore realistico?
«Beh, se non usi Twitter perché hai paura della disintermediazione, quel che stai facendo in
realtà è arrenderti. E secondo me così si rinuncia a un’enormità di cose. Sappiamo già che il
pubblico usa i social media e internet per informarsi e discutere delle notizie. Quindi perché i
giornalisti non dovrebbero voler essere parte di
questa conversazione? Per me è molto importante che i giornalisti stiano nei posti in cui non
solo si trovano i loro lettori o ascoltatori, ma dove si trovano le persone di cui loro devono riportare le storie. Che piaccia o no ai giornalisti, Twitter è diventato una sfera pubblica. Penso che se
sei un giornalista e ignori Twitter, lo fai a tuo rischio e pericolo professionale».
Uno degli aggettivi che si usa per Twitter è
“veloce”. Quanto è importante il fattore tempo
nella costruzione delle fonti su Twitter, e quanto conta la personalità? Insomma, cosa biso-
gna investire per essere efficacemente su Twitter?
«La qualità principale è la generosità, non
puoi star lì semplicemente a chiedere. La cosa
peggiore che un giornalista può fare è aspettare
la breaking news, poi aprire un account Twitter
e chiedere aiuto. Nessuno ti conosce, e nessuno
si fiderà di te. Invece, se sei un membro attivo
della comunità e hai sviluppato relazioni con
molte persone, quando arriva la notizia che vuoi
coprire è abbastanza probabile che quelle persone ti aiutino. Alcuni giornalisti mi chiedono:
come sai se puoi fidarti? Beh, come fai a fidarti
delle tue fonti? Usi le tue capacità professionali
per capirlo. Io lo faccio tutti i giorni e non sono
un mago di internet. Mi limito a prendere i principi base del giornalismo e li applico a Twitter:
faccio domande toste, cerco di individuare le
motivazioni della gente, cerco di determinare i
rapporti tra le persone. I giornalisti lo fanno tutti i giorni nel “mondo reale”, se vogliamo chiamarlo così. Perché non farlo online?».
E invece che rapporto ha uno che fa il suo lavoro con i colleghi che sono sul campo?
«In situazioni come la rivoluzione egiziana,
ad esempio, avevamo molti reporter a piazza
Tahrir e in vari altri posti. Ci scambiavamo di
continuo e-mail: io gli dicevo quel che sentivo su
Twitter e loro mi chiedevano di verificare cose
che sentivano sul campo. In casi come la Siria,
dove è difficile avere reporter per periodi pro-
la Repubblica
DOMENICA 27 MAGGIO 2012
■ 39
La Primavera araba, per esempio. A raccontarla
in diretta ai media mainstream è stato Andy Carvin
Che qui spiega “perché non dobbiamo
avere paura dei cinguettii”
ELEZIONI EGIZIANE
20 maggio 2012, primo dibattito in tv
per le presidenziali: «È in giorni come questo
che vorrei conoscere più arabo
di un “vorrei un caffè per favore”»
PER LA BLOGGER ARRESTATA
«Abbiamo creato #freemona 20 minuti fa
ed è già trending, grazie Twitter»
A proposito della campagna
per la liberazione di Mona Eltahawi
LIVE
«Non aspettare il disastro per creare
una comunità sui social media. Comincia
in anticipo». Uno dei tanti live tweeting
spediti durante una conferenza
Retweet (RT)
Timeline (TL)
Follow Friday (#FF)
È tra le funzioni più utilizzate
dagli utenti
Si riprende il tweet
di un altro utente
e lo si posta (si condivide)
nella propria timeline
Grande bacheca pubblica
in cui compaiono e scorrono
il flusso di tweet postati
di volta in volta
(in ordine cronologico)
dalle persone seguite
È il rito del venerdì:
gli utenti consigliano
ai loro contatti
un elenco di persone
interessanti da seguire,
per allargare il network
lungati, io lavoro con i reporter fermi in Libano
o in Giordania, per trovar loro nuove fonti. E poi
sono regolarmente in contatto con il nostro staff
delle breaking news, i nostri blogger e l’unità radiofonica. Quindi se vedo su Twitter una storia
che mi sembra importante, li allerto. In un certo
senso per i colleghi di Npr sono un social media
producer. La cosa bella è che hanno sempre meno bisogno di me perché stanno imparando a
usare il mezzo, che poi è il mio obiettivo finale».
Nei media mainstream si discute molto di
come e se regolare l’uso che i giornalisti fanno
di Twitter, soprattutto riguardo alle breaking
news. Che ne pensa?
«Ogni azienda ha le sue policy. Npr ci incoraggia a usare i social media e ci ricorda che siamo membri di queste comunità. Non siamo lì
per cambiare le regole o imporre idee, siamo lì
‘‘
Bufale
Si dice che in Rete
le bufale si diffondono
come gli incendi
Ma in tv va molto peggio
come ospiti, per interagire. Altri hanno imposto
regole come non dare le notizie prima su Twitter, non ritwittare o citare i concorrenti, non avere conversazioni con loro. Per me sono imposizioni assurde. I media impareranno nel modo
più duro la lezione: se non si fidano dei loro reporter, della loro responsabilità e professionalità, li perderanno per luoghi dove il loro giudizio è tenuto in considerazione».
Si discute molto del rischio per i giornalisti di
raccogliere bufale in Rete. Ma Twitter può essere anche un “antibiotico” alle bufale. Lei che
ne pensa?
«Mi piace questa definizione: in effetti Twitter ha questo potenziale. Spesso si dice che i rumours si spargono come incendi su Twitter. Ma
secondo me è anche il posto dove i rumours
muoiono. Bastano uno o due scettici per individuare la bufala e fermarla. Mentre se il rumour si diffonde in tv, per esempio, non hai un
meccanismo di feedback in grado di fermarlo e
correggerlo. Ironia della sorte, quando gli errori si diffondono sui media mainstream spesso
è proprio Twitter a mettere in allerta i giornalisti. Se riesci a costruirti una comunità di persone che prendono sul serio il giornalismo, ti aiuteranno a smontare i rumours. Se usi i social
media come parte del tuo lavoro di giornalista
devi essere attrezzato per affrontare le bufale e
smontarle. E per farlo hai bisogno degli altri».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
UN ALTRO MEDIA
«Twitter non è diverso: è soltanto
un altro media». Discussione sul rapporto
giornalismo e media con l’esperto
di New Media, Brian Solis
UOMO-REDAZIONE
A destra
Andy Carvin,
42 anni
Soprannominato
“disk jockey”
dell’informazione,
viene anche
chiamato “one
man newsroom”,
ovvero
l’uomo-redazione
Mondo Twitter
fonte: Vincenzo Cosenza (www.vincos.it)
200
milioni
140
milioni
3milioni
495
ISCRITTI
UTENTI
IN ITALIA
GIORNALISTI
Tanti sono
gli iscritti
alla piattaforma
di Jack Dorsey
nel mondo
Il numero
di utenti
attivi
mensilmente
nel mondo
Una stima
dei visitatori
unici mensili
italiani
(Audiweb)
Quelli italiani
che per lavoro
usano Twitter
(censiti da
Stampa Tweet)
la Repubblica
DOMENICA 27 MAGGIO 2012
LA DOMENICA
■ 40
I sapori
Di necessità virtù
LICIA GRANELLO
urché sia buono. Il primo comandamento dell’arte del gastro-riciclo impone che il palato
venga premiato quanto la coscienza. Ma nello stesso tempo
per trasformare il cibo di risulta
in piatti da leccarsi i baffi occorre che gli ingredienti di partenza siano buoni davvero.
Gli avanzi fanno parte della quotidianità alimentare di tutti i paesi che se li possono permettere, Italia compresa. Generazioni di
bambini, fino a tutti gli anni Sessanta sono
cresciuti con il diktat genitoriale: «Finisci
quello che hai nel piatto», metà precetto e
metà esorcismo dopo i tempi della grande
fame figlia della guerra. Oggi che il comandamento si è trasformato in supplica («Per
piacere, mangia»), in barba a tutte le raccomandazioni di pediatri e nutrizionisti, avanzare il cibo è considerato normale, con pochissime eccezioni.
Ma naturalmente il problema non è solo
ciò che resta nei piatti. Secondo le ultime statistiche, infatti, ogni famiglia italiana butta
nel cassonetto quasi 50 euro al mese, in proporzione ai 500 spesi, arrivando fino al 30 per
cento degli acquisti. La società ammalata di
“tre per due”, “sconti folli” e “sotto costo”
non dà più valore al cibo e mette in conto di
buttarne via un po’, senza farci troppo caso.
Sono i morsi della crisi economica ad aver
P
O mangi
la minestra
o la ricicli
messo sotto la lente d’ingrandimento l’inganno della tavola a poco prezzo. Da una
parte, l’idea dell’avanzo inutilizzato comincia a essere percepita come insopportabile e
odiosa. Dall’altra, i prodotti a poco prezzo si
degradano in maniera tanto evidente —
frutta che marcisce prima di essere maturata, pane ridotto a colla o secco come legno a
poche ore dall’acquisto, carni gonfie d’acqua — da scoraggiare qualsiasi tentativo di
riassemblaggio.
Non a caso, se negli ultimi mesi si sono
moltiplicate le uscite di libri che rispolverano, attualizzandole, le ricette alla base della
dieta quotidiana nella cosiddetta economia
di guerra, i manuali più corretti e completi
partono dalla scelta delle materie prime e
dall’intelligenza della spesa. Da Avanzi popolo. L’arte del reciclare tutto quello che
avanza in cucina (Letizia Nucciotti, Stampa
Alternativa) a Ecocucina. Azzerare gli sprechi, risparmiare ed essere felici (Lisa Casali,
Gribaudo Editore) l’imperativo è prodotti
bio, locali, a filiera corta. In poche parole, riprendere il controllo su ciò che si compra.
Un’attitudine che prevede frequentazioni
più mirate al mercato e presso piccoli produttori, senza dimenticare l’opzione Internet con i gruppi di acquisto e la bio-spesa a
domicilio, in crescita verticale. Da qui in poi,
trucchi e fantasia diventano padroni della
cucina. Provate le raschiatelle di semola con
salsiccia pezzente e cime di rapa di Mario
Ferrara (“Scacco matto”, Bologna), legate
frullando le foglie più dure sbollentate o la
passeggiata in pescheria di Ciccio Sultano
(“Il Duomo”, Ragusa), realizzata recuperando ritagli di trippa, polpo e ricci. Se non vi basta, organizzate una gita a Vico Equense, Napoli, dove i primi giorni di giugno i migliori
chef italiani cucineranno sulla spiaggia. Tema dell’appuntamento: la cucina alla fine
del mondo. Avanzi d’autore, of course.
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Sarà per la crisi, sarà che siamo stanchi di buttare
il cibo, ma stiamo riscoprendo la tradizione
italiana del “recupero”. A una condizione:
il prodotto di base deve essere di qualità
Avanzi
la Repubblica
DOMENICA 27 MAGGIO 2012
■ 41
Gli indirizzi
DOVE DORMIRE
DOVE MANGIARE
DOVE COMPRARE
HOTEL CALZAIUOLI
Via dei Calzaiuoli 6
Firenze
Tel. 055-212456
Doppia da 120 euro, colazione inclusa
IO OSTERIA PERSONALE
Borgo San Frediano 167
Firenze
Tel. 055-9331341
Chiuso domenica, menù 35 euro
ALIMENTARI
BARONI
Mercato centrale, via dell’Ariento 10
Firenze
Tel. 055-289576
WALL ART HOTEL
Viale della Repubblica 4
Prato
Tel. 0574-596600
Doppia da 80 euro, colazione inclusa
TRATTORIA DELL’ABBONDANZA
Via dell’Abbondanza 10
Pistoia
Tel. 0573-368037
Chiuso merc. e giov., menù 30 euro
GASTRONOMIA
CAPECCHI
Via Dalmazia 445
Pistoia
Tel. 0573-400208
RESIDENZA D’EPOCA PUCCINI
Vicolo Malconsiglio 4
Pistoia
Tel. 0573-26707
Doppia da 100 euro, colazione inclusa
CIBBE’
Piazza Mercatale 49
Prato
Tel. 0574-607509
Chiuso domenica, menù 25 euro
PANIFICIO
LOGGETTI
Via Matteotti 11
Prato
Tel. 0574-25267
Carne
Lo status di raffermo è conditio sine
qua non per le zuppe della tradizione
toscana, dalla pappa col pomodoro
alla ribollita. Ottima anche la panzanella
I ritagli di arrosto (pollo, vitello...) macinati
si trasformano facilmente in polpette
Con quelli di bollito, sfilacciati e sgrassati,
si rinforzano le insalate
ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA
Pane
Spaghetti
Lo scammaro, ricetta della cucina
napoletana, è detto anche frittata
di magro. In padella, con gli spaghetti
avanzati, olive, capperi e verdure
Sulla strada
La fortezza degli ultimi
nel cuore di Firenze
Pesce
Il cappon magro è un magnifico esempio
di riciclo ittico della gastronomia
genovese. Golosi il polpettone
e le crocchette (col purè avanzato)
ELENA STANCANELLI
Cioccolato
Dalle uova pasquali alle tavolette
sbocconcellate, i frammenti sciolti
a bagnomaria si trasformano in glassa
golosa dove tuffare frutta e grissini
Biscotti
Briciole e pezzetti sono alla base
del salame di cioccolato, amato da grandi
e piccini. Mescolati con latte e uova,
danno consistenza a torte e budini
poveri sono matti, scriveva Zavattini. Non si capisce cosa pensino quando camminano per strada, tutto il giorno, quando dormono per terra.
Sono misteriosi, letterari, non interessano a nessuno tranne ai poeti.
Giorgio La Pira, tre volte sindaco di Firenze, era ossessionato dai poveri. Li
chiamava “cenci umani”, con un’espressione tenera e fiorentinissima, lui
che era nato in provincia di Ragusa. Si racconta che non riuscisse mai a tornare a casa col suo cappotto addosso, d’inverno. Romano Bilenchi, che era
suo amico, dice che era come un anarchico medievale, seguace soltanto di
Dio. Se incontrava il direttore di una banca, scrive Bilenchi, gli diceva «Vieni ladro, se non fossi ladro non saresti un banchiere, dammi cento milioni
per i poveri». I fiorentini amavano La Pira, il sindaco santo che portava calzini bianchi corti e dormiva in una celletta con i monaci del convento di San
Marco. La sua vitalità da sognatore incallito, il rispetto per gli ultimi. Al centro del quartiere di San Frediano, c’è un luogo chiamato Albergo Popolare,
alle spalle della piazza del Carmine, affacciato nel chiostro. Era un dormitorio pubblico, fin dai tempi in cui Firenze divenne capitale. Adesso accoglie per brevi periodi persone che non sanno dove andare. Tossici, alcolizzati, disperati. Solo uomini. Ma fu una donna a occuparsene. Fioretta Mazzei, amica di La Pira, che la portò con sé in consiglio comunale fin dal primo mandato. L’Albergo è protetto come una banca. Per entrare ci vogliono chiavi, passi, permessi. Come se dentro ci fosse qualcosa di incredibilmente prezioso. Una volta sono entrata. Ho visto uomini malati, soli, ai
quali non si addice nessuna delle nostre chiacchiere sulla felicità e il piacere. Uomini, e basta. Mi piace pensare che sia una specie di cuore della città,
piantato al centro della bellezza per tenerla viva.
I
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Verdure
Una volta spadellate per renderle
croccanti, ben si sposano con uova
e parmigiano nella più classica frittata
o con poca besciamella per il gratin
Formaggio
Pancarré e mozzarella matura
nella mozzarella in carrozza. Fontina
e gorgonzola sciolte a fuoco dolce
con poco latte per condire il riso bollito
LA RICETTA
L’uruguaiano Matias Perdomo
è il giovane, talentuoso chef
del “Ponte de Ferr”,
osteria milanese con stella Michelin
Nei suoi piatti, creatività
e tradizione convivono golosamente,
come nella rivisitazione
del pan perduto pensato
per i lettori di Repubblica
Ingredienti per 4 persone
1 baguette o un filoncino
di pane raffermo
1 litro di latte
5 cucchiai di zucchero
4 uova
1 stecca di cannella
olio extravergine
per friggere
Tagliare il pane in fette di circa
un centimetro di spessore
Far bollire mezzo litro di latte
con la stecca di cannella
e lo zucchero
Quando il latte è tiepido,
inzuppare le fette di pane facendo
attenzione che non si spappoli
Sbattere le uova intere, passare
le fette di pane nell’uovo e friggere
Asciugare su un foglio di carta
assorbente
Servire con gelato alla vaniglia,
granella di nocciole e salsa mou
✃
Torreja
la Repubblica
DOMENICA 27 MAGGIO 2012
LA DOMENICA
■ 42
L’incontro
Antidive
A dieci anni era già in scena,
a quindici lavorava con Strehler
e Visconti, a venti vinceva a Cannes
la Palma d’oro. Poi, una vita dedicata
al palcoscenico e all’impegno civile
Ora la ragazzina
che un giorno disse no
a Billy Wilder perché
“mi voleva più grassa
di dieci chili”, confessa:
Ottavia Piccolo
“Il mio modello
non è mai stata la Loren
ma le attrici inglesi:
talentuose e nate per il teatro”
volte basta un “no” pronunciato in un momento clou, per svelare
il carattere di una persona. È il caso di Ottavia Piccolo. Da
bambina è già una stella del palcoscenico, da adolescente lavora con artisti
del calibro di Giorgio Strehler e Luchino Visconti, poco più che ventenne
vince la Palma d’oro a Cannes come
migliore attrice, per Metello di Mauro
Bolognini. Da allora non ha mai smesso di essere un punto di riferimento
nello spettacolo italiano. Eppure, nel
fiume di parole con cui oggi rievoca
mezzo secolo di carriera, a colpire di
più è il suo gran rifiuto a Billy Wilder:
uno dei più geniali cineasti hollywoodiani, autore di classici immortali come A qualcuno piace caldo o L’appartamento, l’uomo che ha reso star Marilyn Monroe. Qualsiasi diva avrebbe
fatto carte false, pur di girare con lui.
Invece lei respinse la proposta: «Ero reduce dal premio ricevuto sulla Croisette, tutti mi volevano — ricorda — incontrai il regista al Grand Hotel, qui
nella capitale. Mi offrì il ruolo di protagonista in un film con Jack Lemmon,
Che cosa è successo tra mio padre e tua
madre?, ambientato in Italia. Non gli
importava nemmeno che non parlassi inglese: lo avrei imparato con un soggiorno preliminare negli Usa, mi rassicurò. Però mi disse che per entrare nella parte sarei dovuta ingrassare dieci
chili. Così declinai l’invito: ero una ragazza, quella ciccia proprio non la volevo mettere su. Il mio agente si infuriò,
avrebbe voluto riempirmi di botte…».
Un episodio che mostra alla perfezione il suo modo di pensare caparbio,
cento lire al giorno, mio papà che era
già in pensione ne prendeva trentacinquemila al mese; ma spendevamo tutto in alberghi e ristoranti, visto che eravamo continuamente in giro. E facevo
provini, tanti provini, dove incontravo
sempre lo stesso gruppetto di colleghe: Loretta Goggi, Ludovica Modugno, Micaela Esdra. Ancora oggi,
quando mi capita di vederle, parliamo
di quei tempi».
Di questo poker di talenti al femminile lei è quella che ha dato di più al teatro. «La mia carriera sul palcoscenico
la divido in due parti — spiega — la prima è fatta di grandi registi, da Strehler
a Ronconi, e di opere classiche, importanti. La seconda, cominciata oltre
una decina d’anni fa, è quella delle
scelte più personali e degli spettacoli
in cui non mi limito a recitare, ma sono
coinvolta in tutte le fasi della realizzazione. Possiamo dire che la svolta è cominciata nel 2001, quando ho chiesto
Noi di sinistra
non sappiamo
fare altro
che dividerci:
ero a Buenos Aires
per il Primo maggio
e di manifestazioni
ne avevano indette tre
FOTO LAPRESSE
A
ROMA
anticonformista. Immutato, nel tempo. Perché ancora oggi, a sessantadue
anni, seduta a un tavolino nel verde di
Villa Borghese, la Piccolo — gonna e
camicia nei toni del viola, capelli orgogliosamente grigi «perché ho l’età che
ho e la testa non me la cambio», faccia
da eterna ragazzina — è tosta, decisa e
allegra come in gioventù. Appassionata di politica: «Mi fa disperare che noi
della sinistra non sappiamo fare altro
che dividerci, e non solo in Italia: qualche tempo fa ero a Buenos Aires per
uno spettacolo per il Primo maggio,
volevo andare alla manifestazione, ma
mi hanno detto che ce ne erano ben tre.
Avevano litigato anche sulla Festa dei
lavoratori, una pazzia». Innamorata
della sua famiglia: «Mio marito è un
giornalista in pensione, con cui tra alti
e bassi sono sposata da ben trentasette anni; il nostro unico figlio, Nicola, ha
trentacinque anni, fa l’organizzatore
musicale ed è il mio assistente tecnologico: mi ha appena insegnato a usare l’iPad». E cinofila: «Parlo continuamente con i cani e loro mi rispondono
— dice sorridendo, mostrando sul telefonino la foto della sua Bianca — una
pura bastarda meravigliosa e un po’
stupida, che noi adoriamo».
Passione e ironia. Spesso, per raccontarsi, Ottavia usa questo mix. Comincia con la sua infanzia fuori dal comune: «Sono nata a Bolzano, ma per
caso: mio padre era istruttore di equitazione nei carabinieri, girava spesso.
Ho esordito in palcoscenico a dieci anni, in Anna dei miracoli, diretta da Luigi Squarzina. Quel provino lo feci solo
per volontà di mia madre, appassionata di teatro: i miei genitori — per problemi di soldi e per abitudine — non ci
andavano mai e quello per lei era un
modo per accedervi. A me, devo dire,
non importava nulla». Eppure da allora la sua carriera non conosce soste.
Subito dopo quella prima esperienza
recita in tv con Monica Vitti e a quindici anni Strehler la prende per Le baruffe chiozzottedi Goldoni: «Tutti mi chiedono di questo personaggio leggendario. Ma per me, da ragazzina, lavorare
con lui era naturale. Un regista severo,
faceva delle sfuriate, mi chiedeva di recitare con una voce più forte, ma in
fondo sapevo che mi dava fiducia. Alla
fine mi scrisse un biglietto bellissimo,
che purtroppo non ho conservato. In
quegli anni vivevo un’esistenza nomade, sempre con mia mamma al seguito. Guadagnavo bene, seimilacinque-
a Massimo Carlotto di farmi un adattamento del suo libro, Le irregolari». Poi
arriva l’impegno che forse, in assoluto,
l’ha coinvolta di più: quello per i desaparecidos argentini, e in particolare
per il movimento femminile di Plaza
de Mayo. «Lo spettacolo si chiamava
Buenos Aires non finisce mai: la storia
di una donna col marito scomparso
che non aveva mai voluto chiedersi
perché e che scopre la verità quando
decide di attivare la procedura del
“rimborso”, un risarcimento che spetta alle consorti degli spariti. Quando
mi occupo di temi come questo non mi
interessa fare una generica denuncia:
devo trovare una storia, una chiave artistica che possa appassionare lo spettatore. Come in questo caso: la gente
era entusiasta, ho fatto duecento repliche» (ora il suo ruolo di testimone indiretta di quel dramma approda in tv:
su Diva Universal, canale 128 di Sky, all’interno dello speciale Donne nel mito — Le madri di Plaza de Mayo, in onda il 29 e il 31 maggio).
E non basta. Perché, da cinque anni,
Ottavia porta in giro anche un altro
spettacolo — Donna non rieducabile
— dedicato a una grande figura femminile contemporanea, Anna Politkovskaja: «Lo riprenderò la prossima stagione. In cui reciterò anche un
altro testo, L’arte del dubbio, tratto da
Carofiglio». Instancabile, almeno in
teatro. Perché su altri fronti, in tv ad
esempio, la Piccolo si è sempre spesa
meno: «Ma no, anche lì ogni tanto sono presente. Ho fatto due lunghe serie
dal titolo Chiara e gli altri, e tra poco
comincio a girare una fiction per la Rai,
Una buona stagione».
Nemmeno al cinema le sue apparizioni sono così frequenti: «E dire che
ho cominciato da adolescente, ero la
figlia di Burt Lancaster nel Gattopardo
di Luchino Visconti. Affascinata dal
mio papà cinematografico, una vera
star hollywoodiana, anche se non parlando inglese non ci dicemmo una parola». Poi la Palma d’oro per Metello:
«Non me l’aspettavo, in quel periodo
recitavo L’Orlando furioso a Parigi e
per la cerimonia di premiazione non
avevo abiti adatti. Indossai un completo di vellutino e degli stivali». Dopo,
però, le apparizioni si diradano: «Sul
grande schermo ho recitato spesso accanto a cantanti: Celentano in Serafino, Morandi, Ranieri. Per fortuna
qualche anno dopo Scola mi offrì un
ruolo in un film importante, La fami-
glia». Tra le sue performance il doppiaggio della principessa Leila, nella
prima trilogia di Guerre stellari: «Ma
preferisco non parlarne, quella saga
era così fantastica, spettacolare, che la
mia voce non ha alcuna importanza.
Su un piano più generale, devo ammettere che dopo i primi anni il cinema non mi ha offerto granché: le attrici donne devono essere giovani e magari farsi il botox, anche se poi i registi
dicono che diventano inespressive.
Un circolo vizioso». Lei, ovviamente,
non lo ha fatto. E non ha mai voluto diventare una diva da rotocalco: «I miei
modelli non erano le grandi star come
la Loren o la Cardinale, ma le attrici inglesi come Vanessa Redgrave e Julie
Christie: talentuose e con una formazione teatrale».
Non è un caso che l’altro elemento
che Ottavia condivide con i suoi idoli
britannici sia appunto l’impegno civile. In palcoscenico, o nelle tante iniziative che negli ultimi anni l’hanno vista
in prima fila: «Ho partecipato alla nascita dei primi girotondi, quelli milanesi, attorno a Palazzo di giustizia. Sono stata con Susanna Camusso e altre
donne nel movimento “Usciamo dal
silenzio”, che poneva già il problema
dello sfruttamento del corpo femminile, poi ripreso da “Se non ora, quando”. Ho combattuto in piazza contro i
tagli alla cultura, e per i teatri occupati
come il Valle a Roma e il Marinoni al Lido di Venezia (dove vivo da anni). Ma
in questa Italia della crisi il problema
non sono più solo le donne, o i finanziamenti allo spettacolo. Ormai il rischio riguarda il futuro di tutti, la sopravvivenza stessa del nostro Paese: è
per questo che non possiamo permetterci di abbassare la guardia». Lei, c’è
da scommetterci, non lo farà.
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CLAUDIA MORGOGLIONE
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PASOLINI CALLAS