LADOMENICA DIREPUBBLICA DOMENICA 27 MAGGIO 2012 NUMERO 378 CULT All’interno La copertina Quadri invisibili e suoni silenziosi viaggio al termine dell’arte ECO E PERNIOLA La recensione L’uomo e il suo doppio nelle pagine dei grandi autori LEONETTA BENTIVOGLIO PASOLINI CALLAS L’amore impossibile L’intervista FOTO PAOLO DI PAOLO / COURTESY OF DARIO OLIVERO “Tu sei come una pietra preziosa fatta della materia della poesia” Lettere ritrovate, foto, disegni, raccontano il legame profondo tra il regista e la sua “Medea” Yoram Kaniuk “La vera storia di noi israeliani nel 1948” SUSANNA NIRENSTEIN L’opera L’attualità La cassaforte di New York è piena di diamanti ANNA LOMBARDI e FEDERICO RAMPINI Spettacoli Tex Willer & Co., ecco il film rimasto fumetto GUIDO ANDRUETTO e GIAN LUIGI BONELLI PAOLO MAURI PIER PAOLO PASOLINI Q ara Maria, stasera, appena finito di lavorare, su quel sentiero di polvere rosa, ho sentito con le mie antenne in te la stessa angoscia che ieri tu con le tue antenne hai sentito in me. Un’angoscia leggera leggera, non più che un’ombra, eppure invincibile. Ieri in me si trattava di un po’ di nevrosi: ma oggi in te c’era una ragione precisa (precisa fino a un certo punto, naturalmente) ad opprimerti, col sole che se ne andava. Era il sentimento di non essere stata del tutto padrona di te, del tuo corpo, della tua realtà: di essere stata “adoperata” (e per di più con la fatale brutalità tecnica che il cinema implica) e quindi di aver perduto in parte la tua totale libertà. Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch’io con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare. Ma il cinema è fatto così: bisogna spezzare e frantumare una realtà “intera” per ricostruirla nella sua verità sintetica e assoluta, che la rende poi più “intera” ancora. (segue nelle pagine successive) uando Maria Callas incontrò Pier Paolo Pasolini per girare Medea era una diva secondo alcuni ormai sul viale del tramonto, ma ancora in primissimo piano come personaggio da rotocalco. L’armatore greco Onassis, con cui aveva vissuto per nove anni, l’aveva lasciata per sposare la vedova Kennedy con uno sciame di pettegolezzi praticamente infinito. «Nove anni di sacrifici inutili», aveva commentato lei. L’incontro con Pasolini era stato propiziato da Franco Rossellini che con Marina Cicogna avrebbe prodotto il film: la Callas poteva essere un’ottima Medea e naturalmente un formidabile aiuto per un successo internazionale. Pasolini non era mai stato un frequentatore di teatri d’opera. Aveva visto un Trovatore a Bologna, quando aveva diciotto anni e non si era entusiasmato. Molti anni dopo, un Rigoletto visto a Caracalla con Ninetto Davoli gli era piaciuto, ma questo non cambiava niente. Nico Naldini dice che confondeva Cherubini con Boccherini. (segue nelle pagine successive) C Fra barbari e no Muti illumina l’Attila in nero del giovane Verdi GUIDO BARBIERI Il libro Una certa idea di mondo: “L’invenzione del Partenone” ALESSANDRO BARICCO la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 LA DOMENICA ■ 30 La copertina Pasolini-Callas Lui l’ha scelta per “Medea” per quel suo “viso contadino” Lei ha rinunciato a essere “la Divina”. Sono stati appena abbandonati. Per questo sul set nasce “un’affinità psichica” che “sentiremo entrambi”, come scrive il regista in una lettera ritrovata e ora in mostra insieme ai ricordi di un amore mai fiorito “Cara Maria”, “Pier Paolo mio” PAOLO MAURI (segue dalla copertina) li piaceva la musica classica che ascoltava in casa sua o da Elsa Morante che aveva una discoteca molto ben scelta, ma molto meno l’opera. Comunque della Callas voleva tutto meno la cantante o la diva: gli era piaciuto il viso, che rimandava a una realtà contadina primigenia, un viso addolcito dai trascorsi borghesi, ma molto intenso e vero. Pasolini disse a un certo punto che la Callas aveva la stessa verità di un Franco Citti preso dalla strada, come se dalla strada e non dal palcoscenico venisse anche lei. L’avrebbe ripresa con dei lunghi primi piani, mentre lei, che aveva avuto come regista anche Visconti, era abituata a stare in scena con il pubblico a una certa distanza. Le avrebbe spiegato la differenza tra il cinema e il teatro nella lettera ritrovata ed esposta in questa mostra in casa Testori a Novate, una lettera scritta dopo una giornata di lavoro insieme sul set, quando aveva notato in lei il turbamento per non essere stata pienamente padrona di sé e del suo corpo. «Questo stringimento al cuore lo proverai spesso, durante la nostra opera: e lo sentirò anch’io, con te. È terribile essere adoperati, ma anche adoperare». Il cinema, le spiega ancora nelle righe successive, è fatto così: una frantumazione della realtà che poi viene ricomposta «nella sua verità sintetica assoluta». Medea fu un film faticoso: le riprese in Cappadocia, che figurava come l’antica Colchide, poi a Grado dove il Centauro ammaestra il giovane Giasone e infine a Pisa nella Piazza dei Miracoli dove, ad onta di ogni plausibilità cronologica, Pasolini aveva posto la Ragione in omaggio a Galileo: la razionale Corinto che si opponeva a Medea. La Callas aveva avuto dalla produzione una cameriera, Bruna, oltre alla sua assistente Nadia Stancioff. G MARE A sinistra, la Callas e Pasolini in barca a Skorpios nel 1970; in alto, lo scrittore disegna in spiaggia uno dei ritratti dell’attrice pubblicati nella pagina a destra Non lasciava mai i suoi due cagnolini. Il rapporto con Pier Paolo divenne intenso: fu più di un’amicizia e a un certo punto, complice una foto scattata in aeroporto dove si vedono i due scambiarsi un bacio sulle labbra, si parlò addirittura di amore. Ne parlarono cioè i rotocalchi e i giornalisti più inclini al gossip e la storia fu ripresa diverse volte. Uno scrittore spagnolo, Terence Moix, la rielaborò e voleva anche farne uno spettacolo. In realtà si trattava di un amore impossibile, anche se tra i due c’era affetto e profonda confidenza. Pasolini era disperato perché Ninetto Davoli lo stava lasciando per una ragazza. Nell’agosto del ’71 aveva scritto a Paolo Volponi: «Sono quasi pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia». La Callas fu messa a parte della tragedia e gli scrisse: «Sono infelice per te, ma contenta che ti sei confidato in me. Caro amico — sono infelice che non posso essere vicina in questi momenti difficili per te — come lo sei stato tu spesso con me. Tu sai bene in fondo che sarebbe andata così. Ti ricordi a Grado in macchina si parlava e con Ninetto di amore e che so io — dentro in me — le mie antenne tu dici — me lo dicevano quando Ninetto diceva che non si innamorerebbe mai — sapevo che diceva delle cose che era troppo giovane per capire. E tu in fondo uomo tanto intelligente — lo dovevi sapere. Invece ti attaccavi anche tu a un sogno — fatto da te solo — perché è così anche se ti addoloro con questa predicuccia piccola…». Non è la prima volta che la Callas, che si firma «Maria (fanciullina)», si incarica di dire a Pier Paolo cose magari spiacevoli. In una lettera scritta «dalle nuvole» e cioè da un aereo della Olympic Airways in volo per New York, arriva a dirgli che l’amicizia di Alberto Moravia (con il quale lei e Pier Paolo insieme a Dacia Maraini avevano condiviso un viaggio in Africa) non l’ha mai del tutto persuasa. «Sai, caro amico, di veri amici — o veri e basta, pochi ne ho trovati, per non dire nessuno... E ci tengo alla tua verità e sincerità. Siamo assai legati psichicamente — oso dire come raro si fa in vita». Un italiano dalla sintassi bizzarra, chiosa Nico Naldini nella sua Breve vita di Pasolini, «forse appreso nei corridoi dei teatri». «Assai legati psichicamente»: Maria Callas coglie la profondità di un rapporto che non è semplice amicizia. Per Maria Pasolini riprende a dipingere in modo oserei dire carnale, usando elementi naturali, come il succo dei fiori, per Maria si adatta a fare una crociera con il panfilo di Onassis e a passare una vacanza nella sua isola, per Maria scrive poesie che Enzo Siciliano ha interpretato con finezza nella sua Vita di Pasolini. «La donna è per Pier Paolo “riapparizione ctonia” — riapparizione da un viaggio compiuto in luoghi mai percorsi. La donna torna con una notizia, la notizia del “vuoto nel cosmo” [...] In Maria, Pier Paolo — una sera a Parigi (“Parigi calca dietro alle tue spalle un cielo basso/con la trama dei rami neri”) lesse una richiesta d’amore: amore fra donna e uomo. Vi lesse la consueta, antica, donnesca richiesta che l’uomo sia “padre”. Pier Paolo, a quella richiesta, non poteva dare risposta». Le poesie per Maria figurano in una delle raccolte più problematiche di Pasolini: Trasumanar e organizzar uscita per la prima volta nel 1971. La precedente raccolta, Poesia in forma di rosarisaliva al 1964, dunque Trasumanar è un ritorno alla poesia dopo un lungo silenzio, con la volontà di tracciare alcune linee guida per il proprio scrivere versi. Trasumanar è, come si sa, un verbo dantesco e viene dal primo canto del Paradiso. Trasumanar è andare oltre l’umano, cui segue, nella Commedia, «significar per verba», cioè dare senso attraverso le parole. Pasolini gioca con il dettato dantesco, fino alla parodia («Manifestar significar per verba non si poria») e detta all’Ansa, per gioco, la propria scelta stilistica: «Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza/ di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo./Adotto schemi letterari collaudati per essere più libero./Naturalmente per ragioni pratiche». Andrea Zanzotto colse bene la difficoltà dell’insieme. I critici non si mossero per questa raccolta e Pasolini, provocatorio, si recensì da solo sul Giorno. Ma la poesia più luminosa non è tra quelle per Maria Callas: è una poesia per Ninetto, datata 2 settembre 1969. Si conclude così: «Della nostra vita sono insaziabile/ perché una cosa unica al mondo non può essere mai esaurita». © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 ■ 31 FOTOGRAFIE Da sinistra in senso orario, Ninetto Davoli, Pasolini e la Callas a Grado nel ’69; il famoso bacio in aeroporto tra il regista e la soprano; le lettere originali di Pasolini e della Callas; i due con Moravia nel Mali nel ’69 e ancora a Grado; lo scrittore e “la Divina” a Parigi In copertina, le riprese di Medea Lo so, è terribile sentirsi spezzati PIER PAOLO PASOLINI (segue dalla copertina) u sei come una pietra preziosa che viene violentemente frantumata in mille schegge per poter essere ricostruita di un materiale più duraturo di quello della vita, cioè il materiale della poesia. È appunto terribile sentirsi spezzati, sentire che in un certo momento, in una certa ora, in un certo giorno, non si è più tutti se stessi, ma una piccola scheggia di se stessi: e questo umilia, lo so. Io oggi ho colto un attimo del tuo fulgore, e tu avresti voluto darmelo tutto. Ma non è possibile. Ogni giorno un barbaglio, e alla fine si avrà l’intera, intatta luminosità. C’è poi anche il fatto che io parlo poco, oppure mi esprimo in termini un po’ incomprensibili. Ma a questo ci vuol poco a mettere rimedio: sono un po’ in trance, ho una visione o meglio delle visioni, le “Visioni della Medea”: in queste condizioni di emergenza, devi avere un po’ di pazienza con me, e cavarmi un po’ le parole con la forza. Ti abbraccio. T © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ Stai bene Lo spirito va dove vuole lui Lui sì che è libero Allo spirito nessuno comanda Almeno non il mio, neanche il tuo Quello è una grande forza, Pier Paolo, non credi? Cerca di stare bene Cerca di avere pazienza Maria Callas a Pasolini New York, 4 febbraio 1971 ‘‘ LA MOSTRA La mostra Pasolini a Casa Testori a Novate Milanese presenta i quadri e i disegni dello scrittore dagli anni giovanili sino alle opere degli ultimi mesi di vita Insieme a fotografie, documenti, lettere e film La mostra, aperta fino al primo luglio, è curata da Giovanni Agosti e Davide Dall’Ombra; catalogo Silvana (www.casatestori.it) Un fanciullo Ma quando crescerai P.P.P.? Non è giunta l’ora di essere più ricco e maturo, anche se fanciulli si è sempre grazie a Dio! So che mi odierai ma ti ho sempre detto la verità e ti chiedo scusa se invece di coccolarti ricevi queste stupide parole Maria Callas a Pasolini Tragonissi, 21 luglio 1971 la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 LA DOMENICA ■ 32 L’attualità Carati 2.600 le imprese del settore tra gioiellerie e laboratori I ricchi lo sanno da sempre, ora anche la “middle class globale” cerca di adeguarsi: 9,1 mld il valore dei diamanti importati ed esportati nel 2011 in tempi di recessione si investe in diamanti 24 mld E nel sottosuolo di Manhattan, a Diamond District, c’è il caveau dove tutto il mondo conserva i suoi tesori Siamo riusciti a entrare il giro d’affari in dollari realizzato nel 2011 La cassaforte più segreta di New York GIRL’S BEST FRIEND Una creazione di Bulgari del 2009: collana di platino e 114 diamanti per un totale di 228,24 carati I tagli ANNA LOMBARDI LE IMMAGINI Le foto di queste pagine sono un reportage da Diamond District sulla 47esima strada di New York e nel caveau che contiene la più grande quantità di diamanti del mondo I NEW YORK l corridoio di marmo nero, gli uomini vestiti di nero — quasi tutti ortodossi — distinguibili dai cappelli: neri. I chassidim con le pellicce tonde, con la fedora. Parlano al cellulare, discutono. La fila per salire sui quattro ascensori non finisce più. Quattro orologi segnano l’ora di altrettante città. New York, Anversa, Hong Kong e, naturalmente, Tel Aviv: le capitali dei diamanti, il nuovo oro, il bene rifugio che ora vogliono quotare anche a Wall Street. Si va su con l’ascensore fino al quindicesimo piano, poi giù per una rampa di scale, la porta di sicurezza controllata da uomini armati, una, due, tre sale, un’altra porta blindata con un codice e, di nuovo, un ascensore azionato da una chiave cifrata. Poi giù, giù, giù: fin sottoterra. È proprio qui che dormono i diamanti: in un caveau dalla cupola Liberty sotto la scintillante Fifth Avenue, nelle viscere di un grattacielo di cui per prudenza ci chiedono di non citare l’indirizzo esatto. Altri varchi, altri uomini armati. E finalmente, l’immensa porta blindata che protegge centinaia di cassette di sicurezza: piene di diamanti. Sono pietre da 12, 13 carati che valgono più di un milione di dollari. Collane con diamanti rosa: rarissimi. E tante gemme di taglio minore, ciascuna avvolta in un pacchetto di carta su cui, a mano, sono riportati i carati, il taglio, la lucentezza, il valore. Tutti conoscono il Diamond District sulla 47esima strada a Manhattan. Ma pochi sanno che sotto il traffico e l’asfalto qui si nasconde un vero forziere. Neppure i gioiellieri e i broker del Diamond Dealers Club, la borsa dei diamanti, sono mai scesi fin qui. La sera, e soprattutto il venerdì, prima dello Shabbat, affidano i loro preziosi a com- la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 ■ 33 La “roba” e la ricerca del rifugio perfetto FEDERICO RAMPINI O NEW YORK © RIPRODUZIONE RISERVATA FOTO FEDERICA VALABREGA ggi l’oro, ieri l’argento, domani i diamanti. E anche, sia pure come “nicchie” di mercato più piccole, il platino o l’arte contemporanea; i vini pregiati; i terreni agricoli. Sono i beni rifugio a cui chiediamo sicurezze “ai tempi delle pestilenze”. In una crisi economica, quando tutte le certezze sui nostri redditi e risparmi sembrano dissolversi, sentiamo il bisogno di aggrapparci a un’ancora di salvezza. È l’equivalente dei bunker antiatomici con provviste a lunga scadenza, che ebbero una discreta diffusione qui in America negli anni più bui della guerra fredda. Oggi l’epicentro dell’insicurezza collettiva è l’eurozona, dove interi popoli (prima la Grecia, domani la Spagna) sono angosciati dalla possibilità di una svalutazione massiccia: quindi corrono a ritirare i risparmi dalle banche. Poi occorre metterli “al sicuro”, depositarli in una forma che non sia esposta a rovesci improvvisi di valore. E non c’è solo l’eurozona. Le potenze emergenti come Cina e India, beneficiate da un benessere diffuso ma ancora troppo recente, fanno incetta di pietre preziose. Non si sa mai. Il bene rifugio per eccellenza è stato a lungo il mattone: ma la tremenda crisi finanziaria del 2008 ebbe inizio proprio per il tracollo della bolla immobiliare negli Stati Uniti. Qualcosa di simile sta cominciando a verificarsi in Cina. Dunque la casa non è l’investimento sicuro che si credeva. E poi i beni immobiliari hanno un difetto: sono troppo facili da tassare. Gli Stati alla ricerca disperata di nuove entrate infieriscono pesantemente sulla proprietà immobiliare. L’oro si può dissimulare in una cassetta di sicurezza, è anonimo, non c’è registro catastale per i lingotti. I diamanti sono ancora più minuscoli e trasportabili: servirono così a tante famiglie ebree perseguitate dai nazisti, nella loro fuga verso la salvezza, per trasportare valori oltre il confine. La storia dei beni rifugio è antichissima, la differen- za oggi sta nella dimensione di questi investimenti. Non più riservati ai soli ricchi. La grande novità dei nostri tempi è la nascita di una gigantesca “middle class” globale, una borghesia medio-piccola che contiene un miliardo di persone, ha cooptato centinaia di milioni di cinesi, indiani, brasiliani, russi. Di fronte alle incertezze dell’economia cercano ispirazione nel comportamento delle élite, scimmiottano le strategie dei ricchi. Tutti hanno una certa predilezione per i beni rifugio “fisici”. Negli Stati Uniti si è lanciato, con qualche successo, un titolo finanziario che rappresenta l’investimento in oro e si può scambiare facilmente in Borsa, sono gli Etf (exchange-traded fund). Sono più “liquidi”, è vero, però uno spot pubblicitario martellante va in onda sui network delle tv finanziarie come Msnbc: «Comprate l’oro che si vede, quello che si tocca, che potete custodire in cassaforte». In India la dote matrimoniale deve essere di oggetti preziosi, monili, “pietre”. In Francia due secoli di rivoluzioni, guerre, e cinque repubbliche diverse, crearono un affetto durevole per il Napoléon, la moneta d’oro che resisteva alle svalutazioni. È la “roba” dei Malavoglia di Verga: il patrimonio che vedi sembra più facile da custodire e lasciare intatto ai discendenti. La corsa ai beni rifugio è ancestrale, per i limiti della moneta. Già Karl Marx e altri economisti classici avevano approfondito le due funzioni della moneta: mezzo di pagamento e deposito di valore. Per regolare transazioni la moneta non ha rivali, è standard, universale: semmai viene soppiantata da strumenti ancora più astratti come assegno, carta di credito, presto il telefonino. Come deposito di valore, invece, è soggetta ai capricci del sovrano. Da tempi immemorabili, re e imperatori trafficano e imbrogliano sulla moneta. Le “bancarotte sovrane” ai tempi della monarchia francese si risolvevano a volte con la ghigliottina per i creditori. Oro e diamanti in questo senso sono democratici: una difesa contro l’abuso di potere di chi stampa moneta. messi e guardie armate: ciascuno con la propria chiave e il proprio codice. «I ricchi lo hanno sempre saputo: perché credete che fra i gioielli della corona inglese ci siano tanti diamanti?». Nel suo ufficio dall’altro lato della strada, Reuven Kaufman, il presidente del Diamond Dealers Club, sorride. «Però ora a comprare sono i nuovi ricchi: cinesi, indiani, brasiliani. Per loro sono uno status symbol, ma anche nuovo bene rifugio. Scoperta che noi ebrei avevamo già fatto durante il nazismo quando i nostri nonni trasformarono tutti i loro averi in diamanti facili da trasportare e nascondere». Ma davvero i diamanti sono il nuovo oro? «Con la crisi l’oro è diventato costosissimo, in dieci anni il valore è aumentato sei volte tanto», spiega Ruggero De Rossi, che la rivista Barron’s ha definito “genio dei bond”. «Bene per chi ha investito allora, ma ora è più complicato accaparrarselo. È successo come con il petrolio, così si ricorre ad altro». Da New York a Londra, dalla Svizzera a Israele, sempre più investitori scelgono fondi garantiti da beni “esotici”. Palladio. Argento. E appunto i diamanti. La Borsa di New York si appresta a varare titoli negoziabili come azioni, legati all’indice del valore dei diamanti. E la Sec che controlla Wall Street sta esaminando una proposta per creare il primo fondo basato su diamanti garantiti dalla newyorchese IndexIQ. Che acquisterebbe gemme industriali da un carato da depositare in un caveau di Anversa e fornirebbe valori giornalieri in base alle contrattazioni nelle borse di diamanti del mondo. «Certo», ammette Kaufman, «così sarebbe più conveniente investire sui fondi che comprare pietre preziose da noi. Ma non ci credo: i diamanti sono difficili da mettere in un fondo proprio perché sono unici. Ognuno col suo peso, colore, lucentezza, lavorazione. E provenienza». Già. In tanti, oggi chie- dono “diamanti etici”: il contrario dei Blood Diamond del film con Di Caprio, insanguinati dai dittatori africani. «Le pietre più preziose», prosegue Kaufman, «sono quelle di New York. Qui abbiamo i tagliatori migliori». Il manager spalanca una porta: dentro, quattro artigiani pachistani intagliano gemme grezze con altri diamanti. Poi le pietre appena lavorate vengono esaminate al computer: se i parametri non vengono rispettati, si rilavorano fino a eliminare ogni imperfezione. A New York i prezzi si stabiliscono dal 1931 al Diamond Dealers Club. Le contrattazioni si fanno attorno a tavoli di formica bianca: chi vende da un lato, il gruzzoletto di diamanti di fronte, chi acquista dall’altro. Qui ebrei ortodossi, broker coreani addestrati all’yiddish, grossisti in cravatta e signore in tailleur, invece di stringersi la mano al termine della contrattazione si levano le scarpe e le rovesciano: «Un gesto di buona fe- de», racconta Martin Hochbaum, direttore del “Club”. «I diamanti sono insidiosi: capita che qualcuno scivoli e si infili nei calzini». Proprio di fronte al suo ufficio c’è la bacheca dei Lost and Found: «Smarrito diamante rosa da 5 carati», «Trovato sacchetto con dentro 3 diamanti». I compratori sono soprattutto grossisti. Come David Grossman, storico gioielliere del District: «Qui vanno ancora fortissimi gli anelli di fidanzamento: da 25mila a 250mila dollari. Ma per chi vende non è tempo di grandi profitti. Grazie a internet oggi tutti sanno cosa vogliono e quanto vale una pietra. Ho visto perfino coppie naufragare perché non era “abbastanza” per la sposa». Insomma sono il nuovo oro o no? «Per trasformare in affare un acquisto ci vogliono almeno vent’anni. Ma i diamanti sono comunque unici: non si svaluteranno mai». © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 LA DOMENICA ■ 34 La storia Lame, serpenti, cuori, teste di diavoli. Incisi addosso a “camorristi e sovversivi” per il teorico dell’“atavismo” ne svelavano i delitti Guardie e ladri I SIGNIFICATI { { { { Bonacoro Ciro Marigo Giovanni Quaglini Angelo Avondo Giuseppe anni 22 Napoletano camorrista, soldato. Diciassette volte recidivo per furti e insubordinazione 1. Cometa, ricordo d’amore della sua amante 2. Nome proprio 3. Il voto di diventare un giorno un marinaio 4. Il sole, espressione di puro amore 10..Un cinque di denari, ricordo di gioco 17. Prime iniziali della sua amante anni 43 Calzolaio, ladro. Mandibola enorme, fronte vasta, zigomi enormi, occhio feroce, scarsa barba. Fu in procinto di uccidere per vendetta suo fratello 1. Una donna, simbolo di fortuna 2. Emblema religioso 4. Data del primo amore 5. Testa di morto, vendetta contro le guardie 6. Un amore tradito 7. Una delle sue amanti 8. Rosari e simboli religiosi anni 25 Manovale, ladro. Espulso di Francia I tatuaggi furono fatti dal fratello che trovasi ora al reclusorio di Savona 1. Amore tradito 3. Il cuore trafitto con la testa di un pesce “maquercan”: significa che l’amante lo abbandonò per un Alfonso 4. Ricordo dell’Italia 7. Testa del diavolo sinonimo di sventura 9. Pegni d’amore anni 30 Minatore, ladro recidivo. Espulso di Francia dopo espiata la pena. Tutti i tatuaggi furono fatti in Francia 1. Ricordo del soggiorno francese 2. Illustrazione di un gioco di parole in francese: “Jeu du billard anglais ou les billes qui poussent la quene” 3. Le “plaisir du Gendarme” un chien qui emmanche un gendarme (come atto di spregio alla Polizia) 4 1 1 1 6 1 3 7 10 2 8 4 2 3 7 2 4 9 5 3 17 TATUAGGI MASSIMO NOVELLI I TORINO n principio fu il tatuaggio. Era il 1863. Cesare Lombroso non aveva ancora elaborato la teoria dell’atavismo criminale. Era un ufficiale medico. Esaminando un migliaio di soldati artiglieri, tuttavia, venne colpito dal fatto che 134 di loro, di ceti sociali disagiati, avevano sul corpo più immagini o scritte incise in modo indelebile. Ne fece tesoro. Qualche tempo dopo, nel 1876, l’anno della pubblicazione de L’uomo delinquente, poteva scrivere che l’uso del tatuaggio «fra gli uomini non delinquenti» tende «a decrescere», mentre invece «l’usanza permane non solo, ma prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale, sia militare, sia civile». Nel libro Il Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, curato per la Utet da Silvano Montaldo e da Paolo Tappero, Pierpaolo Leschiutta ricorda che per la quinta edizione de L’uomo delinquente, uscita nel 1896, il dottore veronese, trasferitosi a Torino, «aveva dati e informazioni CRIMINALI Lombroso e i corpi del reato su 10.234 individui tatuati, 6348 classificati come criminali, prostitute e soldati delinquenti». Il tatuaggio era diventato un potente indicatore di atavismo criminale. Aveva annotato nel 1874: «Nulla è più naturale che un’usanza tanto diffusa tra i selvaggi e fra i popoli preistorici torni a ripullulare in mezzo a quelle classi umane che, come i bassi fondi marini, mantengono la stessa temperatura, ripetono le usanze, le superstizioni». Non si conosce il numero dei tatuaggi di uomini e donne «delinquenti», di assassini e di banditi, di ladre e meretrici, di vagabondi e di oziosi, di camorristi e sovversivi, che vennero ricopiati e riprodotti dal vero su carta e su tela, su richiesta del fondatore dell’antropologia crimi- nale, in diversi manicomi, nelle carceri e negli ospedali del Regno d’Italia. Sicuramente si tratta di una quantità enorme. Nei magazzini del torinese Palazzo degli Istituti Anatomici, dove ora è ospitato il Museo Lombroso diretto da Silvano Montaldo, in questi ultimi anni ne sono stati ritrovati centinaia, senza contare quelli che sono andati perduti. Sei di questi, i più grandi e significativi, sono stati affidati agli specialisti del laboratorio di restauro dell’Archivio di Stato di Torino che li hanno restituiti ai colori originali. Rappresentano una testimonianza rilevante del pensiero lombrosiano e degli strumenti della ricerca scientifica positivista, ma anche un racconto di notevole forza dell’universo otto- centesco della miseria, del crimine, della devianza, della follia, talvolta del genio. Spiega Montaldo: «La nostra è una raccolta unica al mondo nel suo genere. Anche Alexandre Lacassagne, uno dei padri della scienza criminologica in Francia, ne aveva raccolti numerosi a Lione; non si sa, però, che fine abbiano fatto». Nell’Ottocento, scrive Leschiutta, il tatuaggio «turba, incuriosisce, infastidisce, pone problemi sulla liceità di un uso del corpo irrispettoso della sua sacralità», sebbene fosse diffuso, soprattutto in Inghilterra, tra gli esponenti dell’aristocrazia. Oggi farsi tatuare è una moda di massa, e il tatuaggio ha perso una buona parte della sua valenza. Uscito dalla storia delle classi la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 ■ 35 Testimonianze uniche sul mondo della devianza ottocentesca, ora i più preziosi tra questi “studi” sono stati restaurati dal museo torinese che porta il suo nome { { { { Melli Felice Giacchero Francesco Musso (nome illegibile) Ferrero Sebastiano anni 40 Espulso, ladro recidivo Il Melli non volle dare spiegazione dei disegni 3 e 4: disse solo che la testa del guerriero, tenuta in mano dalla donna, rappresentava il ritratto dell’*2: vi è in... qualche ricordo delittuoso, oppure fu semplice capriccio di pittore, o pittrice? Perché chi tatuò il Melli fu una giovane spagnola di 16 anni (...) 1. Emblema d’amore anni 44 Da Vercelli, manuale, ladro. Espulso 1. Emblema d’amore 2. Sirena: ricordo di mare 3. Iniziali del nome dell’amante 4. Selvaggio e selvaggia: ricordo del suo soggiorno in Africa 6. Trofeo d’arnesi di fabbro: ricordo della sua prima professione 9. Zuavo: ricordo della campagna d’Italia 11. Ricordo di una sua visita alla Madonna di Lourdes anni 27 Condannato 50 volte per rivolta Fu marinaio, poi merciajo ambulante, saltimbanco, orologiaio. Parla 3 lingue Nella fisionomia - fronte sfuggente zigomi - occhi cerulei. È al servizio della Questura come propalatore 2. Ricordo del cavallo ucciso, 12 anni fa, con colpo di coltello per puro capriccio 5. Ritratto di Mottino, il bandito (...) 8. La stella sotto l’influenza della quale egli nacque (dice lui) anni 26 Condannato in Francia e recidivo per Rivolta, Ribellione, oltraggi alle Guardie. Espulso dopo 3 anni di carcere. Di professione carrettiere 1. Leone (emblema della forza) 2. Croce della Legion d’onore 12. Cantante di birreria (di cui s’era innamorato) 14. Imprecazione alla donna che lo tradì 26. Un lupo (volle indicare la miseria sua e la fame e lo dice coll’iscrizione) 1 1 8 2 1 2 9 2 11 3 4 12 5 6 14 26 LE IMMAGINI Il nuovo codice dell’appartenenza GIANCARLO DE CATALDO ome si fa oggi a individuare un criminale, specie se è un grande criminale? Lombroso avrebbe detto: dal tatuaggio. Tutti i criminali sfoderano tatuaggi. È un segno di appartenenza. Perciò: segui il tatuaggio, e troverai il criminale. E viceversa. Se le cose fossero così semplici basterebbe uno screening di massa a garantirci la tanto mitizzata “sicurezza”. Ma le cose non sono mai semplici quando si tratta di cattivi soggetti. E la capacità mimetica della malavita è, oggi, uno degli aspetti più inquietanti della modernità. Concedetevi un’escursione in un ristorante alla moda. All’ingresso, limousine e berline coi vetri oscurati attendono in divieto di sosta presidiate da autisti-guardie del corpo. Entrate. Riconoscete qualche volto noto, della politica, dello spettacolo o dello sport. Ma voi concentratevi — senza dare nell’occhio, perché non sarebbe prudente — sulle rumorose congreghe di uomini vestiti all’ultima moda che prendono posto al tavolo migliore, immancabilmente riservato, con al fianco “sventole” da urlo dall’aria fintamente compresa. Censite gli orologi di marca, i pendagli di diamanti e i bracciali d’oro. Qualcosa nell’atteggiamento di costoro vi suona stonato: una certa arroganza, qualche scoppio di risate sopra le righe, e cominciate a farvi delle domande. Notate che qualcuno dei personaggi noti non disdegna di farsi ritrarre in compagnia di questi ignoti. Attendete con crescente impazienza che il cameriere, abilissimo a fingere di ignorarvi, vi degni finalmente di un po’ di attenzione. Ma solo dopo che questi signori sono stati serviti e riveriti in un profluvio di premure ossequiose. Vi chiedete allora, con più decisione, chi sono questi tipi dai volti anonimi che si comportano come se fossero i padroni della città (e a volte lo sono davvero). Azzardate una cauta domanda. Non c’è risposta. Vi resta una sensazione di disagio. Dopo un po’ non ci fate più caso: concludete che si trattava di uomini di successo, forse imprenditori, forse manager, chissà. E gli uomini di successo, si sa, tendono all’arroganza. Poi, un giorno, rivedete i loro volti. Al telegiornale, sono su tutte le prime pagine. Hanno le manette ai polsi. Capite allora di esservi imbattuti in una combriccola di criminali, magari anche di un certo spessore. Qualcosa vi aveva insospettito, certo, ma non potete dire di averli immediatamente riconosciuti. Erano proprio uguali a tanti altri. Non avevano nemmeno il tatuaggio. Ma sì, che se ne fanno, ormai, i veri criminali, del tatuaggio? È acqua passata. Siamo noi quelli che ancora si eccitano coi simboli di “quegli altri”. Come se non potessimo fare a meno, dopo tutto, di ammirarli. “Loro” sono già altrove. Sono nell’era postcriminale. C subalterne, è entrato nell’era dell’omologazione. Un serpente marchiato su un braccio non svela ciò che poteva rivelare, oltre un secolo fa, quello che attraversa il corpo di «Materia», un piemontese «condannato ripetutamente per furto, rapina, associazione a delinquere». È uno dei disegni rimessi a nuovo dall’Archivio di Stato. Nelle note di Lombroso e dei suoi collaboratori, quasi sempre basate sulla scorta delle spiegazioni fornite dai medesimi tatuati, il serpente «significa che egli è legato dalla Questura dai cui lacci non può sciogliersi. Le spade significano il diuturno duello contro la Questura». Vere e tragiche storie personali, spesso abominevoli oppure miserabili, con i loro fondi di memorie e di sogni spezzati, di odi e di amori, con gli afflati religiosi, i desideri erotici e di vendetta, a volte innestati tra vagheggiamenti sociali e di rivolta, un «W la Republica» e un «W la Pace», coprivano i corpi studiati da Lombroso. Lui ne traeva linfa preziosa per dimostrare il rap- © RIPRODUZIONE RISERVATA A sinistra un ritratto del medico e antropologo Cesare Lombroso Qui in alto, alcuni suoi “studi” sui tatuaggi di “delinquenti e criminali”, ora restaurati dal Museo Lombroso di Torino porto dei delinquenti e dei devianti, proprio per via del tatuarsi, con l’uomo primitivo e con quello «in stato di selvatichezza». Le altre letture possibili, alternative alla mera connotazione criminale, non vennero prese in considerazione. Con i metodi e lo stato della scienza connaturati all’epoca, Lombroso colse, come dice Leschiutta, «la potenzialità evocativa» dei tatuaggi; quell’essere, per citare Danilo Montaldi, delle autentiche Autobiografie della leggera (o lìgera, la piccola criminalità milanese della prima metà del Novecento, ndr). Nell’iconografia tutta pelle e aghi lo scienziato individuò le tipologie del tatuaggio religioso e per imitazione, per spirito di vendetta e per ozio, per vanità, per spirito di corpo, in funzione mnemotecnica ed erotica. Molte delle sue idee e delle sue scoperte sono cadute nell’oblio. Rimane intatta la capacità di raccontare gli uomini e le donne decifrandone i segni sui corpi. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 LA DOMENICA ■ 36 Spettacoli Spaghetti comics Aveva fondato una casa di produzione, la “Condor”. Per i “pards” aveva pensato a Charlton Heston e Jack Palance. Ma alla fine il padre di uno dei personaggi cult del fumetto italiano non riuscì a fare il grande salto verso il cinema. Ecco lo script inedito di quell’avventura “Stai per schizzare all’inferno, amigo” scene da un western rimasto sulla carta GUIDO ANDRUETTO ersapere cosa ne è stato della sceneggiatura originale del film mai realizzato da Giovanni Luigi Bonelli su Tex Willer, si deve cercare nei cassetti dei collezionisti, da cui adesso emerge, a distanza di oltre quarant’anni dalla stesura, una copia di oltre duecentosessanta pagine dattiloscritte e corredate da numerose correzioni a mano e aggiunte autografe del “papà” di Tex. Soggettista prolifico e creatore nel 1948 del leggendario personaggio del fumetto italiano, per conto dell’editrice L’Audace (antenata dell’attuale Sergio Bonelli Editore), Bonelli padre lavorò a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta a un progetto cinematografico che non vide mai la luce, ma di cui oggi, finalmente, è stata rintracciata una testimonianza postuma che completa il suo sogno. Dalla casa di un collezionista romano, infatti, proviene il documento originale con la sceneggiatura del film scritta a macchina dall’autore di Yuma Kid e I Tre Bill, oltre che di diversi romanzi tra cui Il crociato nero e Le tigri dell’Atlantico. Un pezzo raro che il prossimo 9 giugno andrà all’incanto a Torino, nel corso della prima asta dedicata al collezionismo di fumetti, per iniziativa della galleria e casa d’aste Little Nemo. Che per l’occasione ha realizzato un catalogo storico che ripercorre in quasi quattrocento tappe — corrispondenti ad altrettante testate storiche, da Il Corriere dei Piccoli a L’Intrepido — l’avventura straordinaria del fumetto in Italia. Brilla tra tutti questi materiali la sceneggiatura su cui Gian Luigi Bonelli lavorò nei primi anni Settanta, non solo scrivendo i testi (che poi correggeva a mano), ma anche applicando sui fogli con lo scotch diverse immagini stampate su carta fotografica. Bonelli aveva perfino fondato una sua casa di produzione, la “Condor cinematografica” con sede a Milano, ed era riuscito a contattare Charlton Heston e Jack Palance per proporgli l’interpretazione dei personaggi di Tex e Kit Carson. Tutta la sceneggiatura si basava in realtà su una storia già pubblicata nel Tex gigante del 1969, con il titolo Fort Defiance — Il giuramento, dove figuravano Tex, Kit Carson, Tiger Jack, Freccia Rossa, Lilyth, Fred Brennan e Tucker, insomma un bel pezzo della banda che ha catturato la fantasia di intere generazioni. Tutto rimase però sulla carta, e all’inizio degli anni Ottanta lo sceneggiatore Duccio Tessari riprese in mano il progetto acquistando per RaiTrei diritti di riduzione cinematografica, cui seguì la realizzazione di Tex e il Signore degli Abissi, dove lo stesso Bonelli compare in un breve cameo. «Ciò che rende unica questa sceneggiatura è l’incredibile capacità descrittiva di Bonelli — spiega Sergio Pignatone, patron della Little Nemo Art Gallery — quella sua attenzione ai primi piani totalizzanti che lo avvicinano alla visione di Sergio Leone, e che già erano emersi nel suo romanzo Massacro di Goldena, pubblicato nel ’56, tratto da una storia a fumetti di Tex». Sfogliandola oggi, questa sceneggiatura inedita rivela anche il talento di Bonelli come fotografo: «Impossibile non rimanere incantati dalle sue polaroid scattate durante i viaggi in Arizona — continua Pignatone — che poi fissa con lo scotch sulla sceneggiatura, come colpisce la sua passione per la natura selvaggia del West, per quei paesaggi desertici che rispondono ai nomi evocatori di Mesa degli Scheletri, Canyon del Diablo o Valle della Luna». Luoghi mitici, frantumati dal sole, che fanno da sfondo a un fiume di dialoghi e avventure. P © RIPRODUZIONE RISERVATA Il film che non vedrete mai la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 ■ 37 I DOCUMENTI Qui sotto, alcune pagine del dattiloscritto della sceneggiatura del film su Tex Willer con le aggiunte e le correzioni fatte a mano da Bonelli Nella pagina accanto, la copertina della sceneggiatura con l’intestazione della “Condor Cinematografica” e il “titolo provvisorio” LE IMMAGINI I disegni qui sopra sono tratti dalla sceneggiatura del film mai girato su Tex Willer. Le fotografie sono dello stesso Bonelli Sia gli uni che le altre sono incollate ai fogli con lo scotch LA SCENEGGIATURA GIAN LUIGI BONELLI L SCENA 1 Prateria est. giorno a M.d.P. (macchina da presa, ndr) coglie un formicaio da cui stanno uscendo formiche a migliaia, poi carrella indietro e in colonna sonora si sente l’eco del galoppo dei cavalli che si avvicinano: carrello sempre basso a cogliere il movimento delle formiche che stanno dando l’assalto a qualcosa, si sente nitrire un cavallo e infine entrano in scena gli stivali di due cavalieri che cominciano a calpestare la colonna di formiche. I due cavalieri (Tex e Carson) si levano i cappelli e li usano per spazzar via le formiche da qualcosa di rotondo che sporge da terra e sta rivelandosi per la testa di un indiano. Tex — Troppo tardi. Carson — Uno sporco lavoro. Tex — Chi lo ha fatto dovrà sudare sangue prima di potersi riposare nel più profondo inferno. SCENA 2 Prateria est. giorno I due pards stanno terminando di riempire la fossa nella quale hanno sepolto il loro amico Navajo. Poi cominciano a controllare il terreno per scopri- re le tracce dei colpevoli. Carson — Tre indiani e un rinnegato. (Pausa). E lo sa il diavolo dove possono essere andati a rintanarsi. Tex — Forse verso Mesa di Te-en-Ta. Carson — E perché non la pista di Carrizo? Tex — Ci dividiamo e ciascuno segue la sua pista. SCENA 3 Prateria est. giorno I due pards sono già in sella e si accingono a partire. Carson — E niente piombo, amigo. I morti non parlano e servono solo a concimare la terra. Tex — Stai tranquillo. Adios! Carson — Suerte. SCENA 4 Partono i titoli di testa, mentre la M.d.P. coglie i più bei paesaggi della Monument Valley che Tex attraversa a cavallo, alla ricerca degli uccisori dell’amico. Dissolve nel fondale azzurro cupo di una notte stellata. Parte nella colonna sonora La ballata di Tex Willer. SCENA 10 Parete rocciosa a ferro di cavallo. Nella radura si vede un carro coperto. Una decina di Navajos: due mercanti. Est. giorno Presso il carro, un mercante con cilindro in testa sta trattando con un indiano che gli mostra delle pelli. Altri Navajos stanno facendo “fiesta”. Al margine della radura, stanno i mustangs degli indiani: uno si mette a nitrire attirando l’attenzione di uno dei Navajos. SCENA 11 Campo medio. Parete rocciosa est. giorno Tex è alla svolta della parete rocciosa e sente il nitrito del cavallo, poi il rumore dei passi sulla ghiaia. L’indiano che ha sentito il nitrito vede Tex, ma l’urlo che sta per lanciare è fermato da un uppercut alla mascella che lo spedisce a rotolare fra i cavalli / nitriti e cavalli che si agitano. SCENA 12 Campo medio. Radura a ferro di cavallo est. giorno L’agitarsi dei cavalli attira l’attenzione di tutti. Il mercante si rende conto del pericolo e la sua mano corre alla pistola. Tex spiana il fucile — Fermi o è l’inferno per tutti! Il mercante estrae la pistola, ma non è abbastanza veloce... e la pallottola di Tex lo manda fra i barilotti accatastati. Tex — Nessun altro? Mercante con cilindro (Johnny) — Sporco bastardo. SCENA 13 Radura a ferro di cavallo, campo medio est. giorno Johnny fissa Tex con odio — Le carogne non muoiono mai. Tex — E i vermi ingrassano sempre nel marcio. Johnny — Un giorno o l’altro troverai qualcuno che ti imbottirà di piombo fino agli occhi. Tex — Non vivrai abbastanza per vedere il giorno in cui mi caleranno in una fossa. Johnny — Spareresti a un uomo disarmato? Tex — Un serpente non è mai disarmato... e tu sei il più velenoso di tutti. E adesso preparati al peggio, bastardo. Stai per schizzare all’inferno! Johnny finisce rotolando fra i mucchi di pelli. Tex si avvicina a uno dei barilotti e lo buca con una pallottola. Il liquore esce a fiotti. Tex si accende una sigaretta e getta il fiammifero acceso sull’alcol che continua a uscire. L’incendio si propaga e Tex si allontana. SCENA 14 Campo medio. Radura in cui divampa l’incendio est. giorno Johnny si rende conto di essere spacciato, ma vuole che i complici sappiano chi è stato. Traccia col dito sulla sabbia la parola “T E X”, poi si affloscia. Alti, gli avvoltoi stanno girando in attesa di calare sulle sicure prede. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 LA DOMENICA ■ 38 Next Notizie brevi, massimo 140 caratteri. Giornalisti o semplici cittadini che sul campo raccontano i fatti in tempo reale. Così il microblogging sta Rivoluzioni invadendo le redazioni di mezzo mondo GLOSSARIO Hashtag(#) Nato nel 2007, è il modo per etichettare una parola e mettere così in relazione contenuti simili tra flussi di persone che hanno trattato lo stesso argomento Follower Chi segue l’account di qualcun altro e quindi legge i suoi tweet Ci si può “defolloware” da un contatto in qualsiasi momento Trending Topic (TT) Sono gli hashtags più discussi del momento Possono contenere una o più parole Spesso sono frutto di tormentoni Breaking news RAFFAELLA MENICHINI L PERUGIA e breaking news possono essere brevi, molto brevi. Anche solo i 140 caratteri consentiti da Twitter, il microblogging americano divenuto negli ultimi due anni il veicolo più veloce di diffusione di notizie (vere e false) e materiali multimediali in tempo reale. Piattaforma social dai tanti volti — dal ludico al marketing, alla “fanzine” di cantanti e campioni sportivi — Twitter ha intanto già ottenuto un effetto dirompente almeno in un ambiente professionale: il giornalismo. L’ultimo anno ha visto un boom di adesioni di professionisti e freelance italiani che si sono appassionati al mezzo, mentre nel mondo anglosassone era da anni strumento diffuso. I pionieri di Twitter ora girano il mondo a spiegare come e perché «resistere vuol dire perdere». Il più gettonato di tutti è forse Andy Carvin, manager di Npr (National Public Radio), ospite d’onore al Festival del giornalismo di Perugia dove ha tenuto un seguitissimo keynote speech sull’evoluzione del suo lavoro. Lo hanno chiamato «disk jockey» dell’informazione, «l’uomo che twitta le rivoluzioni», o ancora un «one man newsroom», più o meno un uomo-redazione. Per la Columbia Journalism Review è il miglior account twitter del mondo. Carvin sorride, si schermisce: «Mi piace l’idea di raccontare storie, ma sia chiaro: non sono un giornalista». Eppure il suo è un vero lavoro giornalistico, aperto e gratuito, a disposizione dei giornalisti e dei cittadini di tutto il mondo. Un «servizio pubblico», sintetizza con orgoglio. Nel 2011 ha twittato per giorni interi — anche 17 ore consecutive — mentre esplodeva la Primavera araba. Lo ha potuto fare perché negli anni aveva costruito una rete capillare di followers in tutte le aree «calde», diventando un hub di informazioni in tempo reale, in grado di costruire un mosaico in movimento di quel che accadeva nel ribollire delle rivolte. Perché Twitter sta diventando così importante per i giornalisti? «Twitter sta diventando gigantesco e tanti tra quelli che lo usano sono dei maniaci delle noti- ‘‘ Sfiducia Il cattivo reporter aspetta la notizia, apre un account e chiede aiuto Nessuno si fiderà di lui zie e hanno un sacco di informazioni da condividere. E poi ci sono alcuni che sono semplicemente testimoni oculari di breaking news. Per certi versi Twitter è diventato un social media “polso” di quel che accade nel mondo, almeno in quelle parti di mondo dove ci sono connessioni internet affidabili». Una delle resistenze che l’uso di Twitter incontra nelle redazioni è la paura della «disintermediazione»: l’idea che se il pubblico ha accesso diretto alle informazioni non avrà più bisogno di noi giornalisti. È un timore realistico? «Beh, se non usi Twitter perché hai paura della disintermediazione, quel che stai facendo in realtà è arrenderti. E secondo me così si rinuncia a un’enormità di cose. Sappiamo già che il pubblico usa i social media e internet per informarsi e discutere delle notizie. Quindi perché i giornalisti non dovrebbero voler essere parte di questa conversazione? Per me è molto importante che i giornalisti stiano nei posti in cui non solo si trovano i loro lettori o ascoltatori, ma dove si trovano le persone di cui loro devono riportare le storie. Che piaccia o no ai giornalisti, Twitter è diventato una sfera pubblica. Penso che se sei un giornalista e ignori Twitter, lo fai a tuo rischio e pericolo professionale». Uno degli aggettivi che si usa per Twitter è “veloce”. Quanto è importante il fattore tempo nella costruzione delle fonti su Twitter, e quanto conta la personalità? Insomma, cosa biso- gna investire per essere efficacemente su Twitter? «La qualità principale è la generosità, non puoi star lì semplicemente a chiedere. La cosa peggiore che un giornalista può fare è aspettare la breaking news, poi aprire un account Twitter e chiedere aiuto. Nessuno ti conosce, e nessuno si fiderà di te. Invece, se sei un membro attivo della comunità e hai sviluppato relazioni con molte persone, quando arriva la notizia che vuoi coprire è abbastanza probabile che quelle persone ti aiutino. Alcuni giornalisti mi chiedono: come sai se puoi fidarti? Beh, come fai a fidarti delle tue fonti? Usi le tue capacità professionali per capirlo. Io lo faccio tutti i giorni e non sono un mago di internet. Mi limito a prendere i principi base del giornalismo e li applico a Twitter: faccio domande toste, cerco di individuare le motivazioni della gente, cerco di determinare i rapporti tra le persone. I giornalisti lo fanno tutti i giorni nel “mondo reale”, se vogliamo chiamarlo così. Perché non farlo online?». E invece che rapporto ha uno che fa il suo lavoro con i colleghi che sono sul campo? «In situazioni come la rivoluzione egiziana, ad esempio, avevamo molti reporter a piazza Tahrir e in vari altri posti. Ci scambiavamo di continuo e-mail: io gli dicevo quel che sentivo su Twitter e loro mi chiedevano di verificare cose che sentivano sul campo. In casi come la Siria, dove è difficile avere reporter per periodi pro- la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 ■ 39 La Primavera araba, per esempio. A raccontarla in diretta ai media mainstream è stato Andy Carvin Che qui spiega “perché non dobbiamo avere paura dei cinguettii” ELEZIONI EGIZIANE 20 maggio 2012, primo dibattito in tv per le presidenziali: «È in giorni come questo che vorrei conoscere più arabo di un “vorrei un caffè per favore”» PER LA BLOGGER ARRESTATA «Abbiamo creato #freemona 20 minuti fa ed è già trending, grazie Twitter» A proposito della campagna per la liberazione di Mona Eltahawi LIVE «Non aspettare il disastro per creare una comunità sui social media. Comincia in anticipo». Uno dei tanti live tweeting spediti durante una conferenza Retweet (RT) Timeline (TL) Follow Friday (#FF) È tra le funzioni più utilizzate dagli utenti Si riprende il tweet di un altro utente e lo si posta (si condivide) nella propria timeline Grande bacheca pubblica in cui compaiono e scorrono il flusso di tweet postati di volta in volta (in ordine cronologico) dalle persone seguite È il rito del venerdì: gli utenti consigliano ai loro contatti un elenco di persone interessanti da seguire, per allargare il network lungati, io lavoro con i reporter fermi in Libano o in Giordania, per trovar loro nuove fonti. E poi sono regolarmente in contatto con il nostro staff delle breaking news, i nostri blogger e l’unità radiofonica. Quindi se vedo su Twitter una storia che mi sembra importante, li allerto. In un certo senso per i colleghi di Npr sono un social media producer. La cosa bella è che hanno sempre meno bisogno di me perché stanno imparando a usare il mezzo, che poi è il mio obiettivo finale». Nei media mainstream si discute molto di come e se regolare l’uso che i giornalisti fanno di Twitter, soprattutto riguardo alle breaking news. Che ne pensa? «Ogni azienda ha le sue policy. Npr ci incoraggia a usare i social media e ci ricorda che siamo membri di queste comunità. Non siamo lì per cambiare le regole o imporre idee, siamo lì ‘‘ Bufale Si dice che in Rete le bufale si diffondono come gli incendi Ma in tv va molto peggio come ospiti, per interagire. Altri hanno imposto regole come non dare le notizie prima su Twitter, non ritwittare o citare i concorrenti, non avere conversazioni con loro. Per me sono imposizioni assurde. I media impareranno nel modo più duro la lezione: se non si fidano dei loro reporter, della loro responsabilità e professionalità, li perderanno per luoghi dove il loro giudizio è tenuto in considerazione». Si discute molto del rischio per i giornalisti di raccogliere bufale in Rete. Ma Twitter può essere anche un “antibiotico” alle bufale. Lei che ne pensa? «Mi piace questa definizione: in effetti Twitter ha questo potenziale. Spesso si dice che i rumours si spargono come incendi su Twitter. Ma secondo me è anche il posto dove i rumours muoiono. Bastano uno o due scettici per individuare la bufala e fermarla. Mentre se il rumour si diffonde in tv, per esempio, non hai un meccanismo di feedback in grado di fermarlo e correggerlo. Ironia della sorte, quando gli errori si diffondono sui media mainstream spesso è proprio Twitter a mettere in allerta i giornalisti. Se riesci a costruirti una comunità di persone che prendono sul serio il giornalismo, ti aiuteranno a smontare i rumours. Se usi i social media come parte del tuo lavoro di giornalista devi essere attrezzato per affrontare le bufale e smontarle. E per farlo hai bisogno degli altri». © RIPRODUZIONE RISERVATA UN ALTRO MEDIA «Twitter non è diverso: è soltanto un altro media». Discussione sul rapporto giornalismo e media con l’esperto di New Media, Brian Solis UOMO-REDAZIONE A destra Andy Carvin, 42 anni Soprannominato “disk jockey” dell’informazione, viene anche chiamato “one man newsroom”, ovvero l’uomo-redazione Mondo Twitter fonte: Vincenzo Cosenza (www.vincos.it) 200 milioni 140 milioni 3milioni 495 ISCRITTI UTENTI IN ITALIA GIORNALISTI Tanti sono gli iscritti alla piattaforma di Jack Dorsey nel mondo Il numero di utenti attivi mensilmente nel mondo Una stima dei visitatori unici mensili italiani (Audiweb) Quelli italiani che per lavoro usano Twitter (censiti da Stampa Tweet) la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 LA DOMENICA ■ 40 I sapori Di necessità virtù LICIA GRANELLO urché sia buono. Il primo comandamento dell’arte del gastro-riciclo impone che il palato venga premiato quanto la coscienza. Ma nello stesso tempo per trasformare il cibo di risulta in piatti da leccarsi i baffi occorre che gli ingredienti di partenza siano buoni davvero. Gli avanzi fanno parte della quotidianità alimentare di tutti i paesi che se li possono permettere, Italia compresa. Generazioni di bambini, fino a tutti gli anni Sessanta sono cresciuti con il diktat genitoriale: «Finisci quello che hai nel piatto», metà precetto e metà esorcismo dopo i tempi della grande fame figlia della guerra. Oggi che il comandamento si è trasformato in supplica («Per piacere, mangia»), in barba a tutte le raccomandazioni di pediatri e nutrizionisti, avanzare il cibo è considerato normale, con pochissime eccezioni. Ma naturalmente il problema non è solo ciò che resta nei piatti. Secondo le ultime statistiche, infatti, ogni famiglia italiana butta nel cassonetto quasi 50 euro al mese, in proporzione ai 500 spesi, arrivando fino al 30 per cento degli acquisti. La società ammalata di “tre per due”, “sconti folli” e “sotto costo” non dà più valore al cibo e mette in conto di buttarne via un po’, senza farci troppo caso. Sono i morsi della crisi economica ad aver P O mangi la minestra o la ricicli messo sotto la lente d’ingrandimento l’inganno della tavola a poco prezzo. Da una parte, l’idea dell’avanzo inutilizzato comincia a essere percepita come insopportabile e odiosa. Dall’altra, i prodotti a poco prezzo si degradano in maniera tanto evidente — frutta che marcisce prima di essere maturata, pane ridotto a colla o secco come legno a poche ore dall’acquisto, carni gonfie d’acqua — da scoraggiare qualsiasi tentativo di riassemblaggio. Non a caso, se negli ultimi mesi si sono moltiplicate le uscite di libri che rispolverano, attualizzandole, le ricette alla base della dieta quotidiana nella cosiddetta economia di guerra, i manuali più corretti e completi partono dalla scelta delle materie prime e dall’intelligenza della spesa. Da Avanzi popolo. L’arte del reciclare tutto quello che avanza in cucina (Letizia Nucciotti, Stampa Alternativa) a Ecocucina. Azzerare gli sprechi, risparmiare ed essere felici (Lisa Casali, Gribaudo Editore) l’imperativo è prodotti bio, locali, a filiera corta. In poche parole, riprendere il controllo su ciò che si compra. Un’attitudine che prevede frequentazioni più mirate al mercato e presso piccoli produttori, senza dimenticare l’opzione Internet con i gruppi di acquisto e la bio-spesa a domicilio, in crescita verticale. Da qui in poi, trucchi e fantasia diventano padroni della cucina. Provate le raschiatelle di semola con salsiccia pezzente e cime di rapa di Mario Ferrara (“Scacco matto”, Bologna), legate frullando le foglie più dure sbollentate o la passeggiata in pescheria di Ciccio Sultano (“Il Duomo”, Ragusa), realizzata recuperando ritagli di trippa, polpo e ricci. Se non vi basta, organizzate una gita a Vico Equense, Napoli, dove i primi giorni di giugno i migliori chef italiani cucineranno sulla spiaggia. Tema dell’appuntamento: la cucina alla fine del mondo. Avanzi d’autore, of course. © RIPRODUZIONE RISERVATA Sarà per la crisi, sarà che siamo stanchi di buttare il cibo, ma stiamo riscoprendo la tradizione italiana del “recupero”. A una condizione: il prodotto di base deve essere di qualità Avanzi la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 ■ 41 Gli indirizzi DOVE DORMIRE DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE HOTEL CALZAIUOLI Via dei Calzaiuoli 6 Firenze Tel. 055-212456 Doppia da 120 euro, colazione inclusa IO OSTERIA PERSONALE Borgo San Frediano 167 Firenze Tel. 055-9331341 Chiuso domenica, menù 35 euro ALIMENTARI BARONI Mercato centrale, via dell’Ariento 10 Firenze Tel. 055-289576 WALL ART HOTEL Viale della Repubblica 4 Prato Tel. 0574-596600 Doppia da 80 euro, colazione inclusa TRATTORIA DELL’ABBONDANZA Via dell’Abbondanza 10 Pistoia Tel. 0573-368037 Chiuso merc. e giov., menù 30 euro GASTRONOMIA CAPECCHI Via Dalmazia 445 Pistoia Tel. 0573-400208 RESIDENZA D’EPOCA PUCCINI Vicolo Malconsiglio 4 Pistoia Tel. 0573-26707 Doppia da 100 euro, colazione inclusa CIBBE’ Piazza Mercatale 49 Prato Tel. 0574-607509 Chiuso domenica, menù 25 euro PANIFICIO LOGGETTI Via Matteotti 11 Prato Tel. 0574-25267 Carne Lo status di raffermo è conditio sine qua non per le zuppe della tradizione toscana, dalla pappa col pomodoro alla ribollita. Ottima anche la panzanella I ritagli di arrosto (pollo, vitello...) macinati si trasformano facilmente in polpette Con quelli di bollito, sfilacciati e sgrassati, si rinforzano le insalate ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA Pane Spaghetti Lo scammaro, ricetta della cucina napoletana, è detto anche frittata di magro. In padella, con gli spaghetti avanzati, olive, capperi e verdure Sulla strada La fortezza degli ultimi nel cuore di Firenze Pesce Il cappon magro è un magnifico esempio di riciclo ittico della gastronomia genovese. Golosi il polpettone e le crocchette (col purè avanzato) ELENA STANCANELLI Cioccolato Dalle uova pasquali alle tavolette sbocconcellate, i frammenti sciolti a bagnomaria si trasformano in glassa golosa dove tuffare frutta e grissini Biscotti Briciole e pezzetti sono alla base del salame di cioccolato, amato da grandi e piccini. Mescolati con latte e uova, danno consistenza a torte e budini poveri sono matti, scriveva Zavattini. Non si capisce cosa pensino quando camminano per strada, tutto il giorno, quando dormono per terra. Sono misteriosi, letterari, non interessano a nessuno tranne ai poeti. Giorgio La Pira, tre volte sindaco di Firenze, era ossessionato dai poveri. Li chiamava “cenci umani”, con un’espressione tenera e fiorentinissima, lui che era nato in provincia di Ragusa. Si racconta che non riuscisse mai a tornare a casa col suo cappotto addosso, d’inverno. Romano Bilenchi, che era suo amico, dice che era come un anarchico medievale, seguace soltanto di Dio. Se incontrava il direttore di una banca, scrive Bilenchi, gli diceva «Vieni ladro, se non fossi ladro non saresti un banchiere, dammi cento milioni per i poveri». I fiorentini amavano La Pira, il sindaco santo che portava calzini bianchi corti e dormiva in una celletta con i monaci del convento di San Marco. La sua vitalità da sognatore incallito, il rispetto per gli ultimi. Al centro del quartiere di San Frediano, c’è un luogo chiamato Albergo Popolare, alle spalle della piazza del Carmine, affacciato nel chiostro. Era un dormitorio pubblico, fin dai tempi in cui Firenze divenne capitale. Adesso accoglie per brevi periodi persone che non sanno dove andare. Tossici, alcolizzati, disperati. Solo uomini. Ma fu una donna a occuparsene. Fioretta Mazzei, amica di La Pira, che la portò con sé in consiglio comunale fin dal primo mandato. L’Albergo è protetto come una banca. Per entrare ci vogliono chiavi, passi, permessi. Come se dentro ci fosse qualcosa di incredibilmente prezioso. Una volta sono entrata. Ho visto uomini malati, soli, ai quali non si addice nessuna delle nostre chiacchiere sulla felicità e il piacere. Uomini, e basta. Mi piace pensare che sia una specie di cuore della città, piantato al centro della bellezza per tenerla viva. I © RIPRODUZIONE RISERVATA Verdure Una volta spadellate per renderle croccanti, ben si sposano con uova e parmigiano nella più classica frittata o con poca besciamella per il gratin Formaggio Pancarré e mozzarella matura nella mozzarella in carrozza. Fontina e gorgonzola sciolte a fuoco dolce con poco latte per condire il riso bollito LA RICETTA L’uruguaiano Matias Perdomo è il giovane, talentuoso chef del “Ponte de Ferr”, osteria milanese con stella Michelin Nei suoi piatti, creatività e tradizione convivono golosamente, come nella rivisitazione del pan perduto pensato per i lettori di Repubblica Ingredienti per 4 persone 1 baguette o un filoncino di pane raffermo 1 litro di latte 5 cucchiai di zucchero 4 uova 1 stecca di cannella olio extravergine per friggere Tagliare il pane in fette di circa un centimetro di spessore Far bollire mezzo litro di latte con la stecca di cannella e lo zucchero Quando il latte è tiepido, inzuppare le fette di pane facendo attenzione che non si spappoli Sbattere le uova intere, passare le fette di pane nell’uovo e friggere Asciugare su un foglio di carta assorbente Servire con gelato alla vaniglia, granella di nocciole e salsa mou ✃ Torreja la Repubblica DOMENICA 27 MAGGIO 2012 LA DOMENICA ■ 42 L’incontro Antidive A dieci anni era già in scena, a quindici lavorava con Strehler e Visconti, a venti vinceva a Cannes la Palma d’oro. Poi, una vita dedicata al palcoscenico e all’impegno civile Ora la ragazzina che un giorno disse no a Billy Wilder perché “mi voleva più grassa di dieci chili”, confessa: Ottavia Piccolo “Il mio modello non è mai stata la Loren ma le attrici inglesi: talentuose e nate per il teatro” volte basta un “no” pronunciato in un momento clou, per svelare il carattere di una persona. È il caso di Ottavia Piccolo. Da bambina è già una stella del palcoscenico, da adolescente lavora con artisti del calibro di Giorgio Strehler e Luchino Visconti, poco più che ventenne vince la Palma d’oro a Cannes come migliore attrice, per Metello di Mauro Bolognini. Da allora non ha mai smesso di essere un punto di riferimento nello spettacolo italiano. Eppure, nel fiume di parole con cui oggi rievoca mezzo secolo di carriera, a colpire di più è il suo gran rifiuto a Billy Wilder: uno dei più geniali cineasti hollywoodiani, autore di classici immortali come A qualcuno piace caldo o L’appartamento, l’uomo che ha reso star Marilyn Monroe. Qualsiasi diva avrebbe fatto carte false, pur di girare con lui. Invece lei respinse la proposta: «Ero reduce dal premio ricevuto sulla Croisette, tutti mi volevano — ricorda — incontrai il regista al Grand Hotel, qui nella capitale. Mi offrì il ruolo di protagonista in un film con Jack Lemmon, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, ambientato in Italia. Non gli importava nemmeno che non parlassi inglese: lo avrei imparato con un soggiorno preliminare negli Usa, mi rassicurò. Però mi disse che per entrare nella parte sarei dovuta ingrassare dieci chili. Così declinai l’invito: ero una ragazza, quella ciccia proprio non la volevo mettere su. Il mio agente si infuriò, avrebbe voluto riempirmi di botte…». Un episodio che mostra alla perfezione il suo modo di pensare caparbio, cento lire al giorno, mio papà che era già in pensione ne prendeva trentacinquemila al mese; ma spendevamo tutto in alberghi e ristoranti, visto che eravamo continuamente in giro. E facevo provini, tanti provini, dove incontravo sempre lo stesso gruppetto di colleghe: Loretta Goggi, Ludovica Modugno, Micaela Esdra. Ancora oggi, quando mi capita di vederle, parliamo di quei tempi». Di questo poker di talenti al femminile lei è quella che ha dato di più al teatro. «La mia carriera sul palcoscenico la divido in due parti — spiega — la prima è fatta di grandi registi, da Strehler a Ronconi, e di opere classiche, importanti. La seconda, cominciata oltre una decina d’anni fa, è quella delle scelte più personali e degli spettacoli in cui non mi limito a recitare, ma sono coinvolta in tutte le fasi della realizzazione. Possiamo dire che la svolta è cominciata nel 2001, quando ho chiesto Noi di sinistra non sappiamo fare altro che dividerci: ero a Buenos Aires per il Primo maggio e di manifestazioni ne avevano indette tre FOTO LAPRESSE A ROMA anticonformista. Immutato, nel tempo. Perché ancora oggi, a sessantadue anni, seduta a un tavolino nel verde di Villa Borghese, la Piccolo — gonna e camicia nei toni del viola, capelli orgogliosamente grigi «perché ho l’età che ho e la testa non me la cambio», faccia da eterna ragazzina — è tosta, decisa e allegra come in gioventù. Appassionata di politica: «Mi fa disperare che noi della sinistra non sappiamo fare altro che dividerci, e non solo in Italia: qualche tempo fa ero a Buenos Aires per uno spettacolo per il Primo maggio, volevo andare alla manifestazione, ma mi hanno detto che ce ne erano ben tre. Avevano litigato anche sulla Festa dei lavoratori, una pazzia». Innamorata della sua famiglia: «Mio marito è un giornalista in pensione, con cui tra alti e bassi sono sposata da ben trentasette anni; il nostro unico figlio, Nicola, ha trentacinque anni, fa l’organizzatore musicale ed è il mio assistente tecnologico: mi ha appena insegnato a usare l’iPad». E cinofila: «Parlo continuamente con i cani e loro mi rispondono — dice sorridendo, mostrando sul telefonino la foto della sua Bianca — una pura bastarda meravigliosa e un po’ stupida, che noi adoriamo». Passione e ironia. Spesso, per raccontarsi, Ottavia usa questo mix. Comincia con la sua infanzia fuori dal comune: «Sono nata a Bolzano, ma per caso: mio padre era istruttore di equitazione nei carabinieri, girava spesso. Ho esordito in palcoscenico a dieci anni, in Anna dei miracoli, diretta da Luigi Squarzina. Quel provino lo feci solo per volontà di mia madre, appassionata di teatro: i miei genitori — per problemi di soldi e per abitudine — non ci andavano mai e quello per lei era un modo per accedervi. A me, devo dire, non importava nulla». Eppure da allora la sua carriera non conosce soste. Subito dopo quella prima esperienza recita in tv con Monica Vitti e a quindici anni Strehler la prende per Le baruffe chiozzottedi Goldoni: «Tutti mi chiedono di questo personaggio leggendario. Ma per me, da ragazzina, lavorare con lui era naturale. Un regista severo, faceva delle sfuriate, mi chiedeva di recitare con una voce più forte, ma in fondo sapevo che mi dava fiducia. Alla fine mi scrisse un biglietto bellissimo, che purtroppo non ho conservato. In quegli anni vivevo un’esistenza nomade, sempre con mia mamma al seguito. Guadagnavo bene, seimilacinque- a Massimo Carlotto di farmi un adattamento del suo libro, Le irregolari». Poi arriva l’impegno che forse, in assoluto, l’ha coinvolta di più: quello per i desaparecidos argentini, e in particolare per il movimento femminile di Plaza de Mayo. «Lo spettacolo si chiamava Buenos Aires non finisce mai: la storia di una donna col marito scomparso che non aveva mai voluto chiedersi perché e che scopre la verità quando decide di attivare la procedura del “rimborso”, un risarcimento che spetta alle consorti degli spariti. Quando mi occupo di temi come questo non mi interessa fare una generica denuncia: devo trovare una storia, una chiave artistica che possa appassionare lo spettatore. Come in questo caso: la gente era entusiasta, ho fatto duecento repliche» (ora il suo ruolo di testimone indiretta di quel dramma approda in tv: su Diva Universal, canale 128 di Sky, all’interno dello speciale Donne nel mito — Le madri di Plaza de Mayo, in onda il 29 e il 31 maggio). E non basta. Perché, da cinque anni, Ottavia porta in giro anche un altro spettacolo — Donna non rieducabile — dedicato a una grande figura femminile contemporanea, Anna Politkovskaja: «Lo riprenderò la prossima stagione. In cui reciterò anche un altro testo, L’arte del dubbio, tratto da Carofiglio». Instancabile, almeno in teatro. Perché su altri fronti, in tv ad esempio, la Piccolo si è sempre spesa meno: «Ma no, anche lì ogni tanto sono presente. Ho fatto due lunghe serie dal titolo Chiara e gli altri, e tra poco comincio a girare una fiction per la Rai, Una buona stagione». Nemmeno al cinema le sue apparizioni sono così frequenti: «E dire che ho cominciato da adolescente, ero la figlia di Burt Lancaster nel Gattopardo di Luchino Visconti. Affascinata dal mio papà cinematografico, una vera star hollywoodiana, anche se non parlando inglese non ci dicemmo una parola». Poi la Palma d’oro per Metello: «Non me l’aspettavo, in quel periodo recitavo L’Orlando furioso a Parigi e per la cerimonia di premiazione non avevo abiti adatti. Indossai un completo di vellutino e degli stivali». Dopo, però, le apparizioni si diradano: «Sul grande schermo ho recitato spesso accanto a cantanti: Celentano in Serafino, Morandi, Ranieri. Per fortuna qualche anno dopo Scola mi offrì un ruolo in un film importante, La fami- glia». Tra le sue performance il doppiaggio della principessa Leila, nella prima trilogia di Guerre stellari: «Ma preferisco non parlarne, quella saga era così fantastica, spettacolare, che la mia voce non ha alcuna importanza. Su un piano più generale, devo ammettere che dopo i primi anni il cinema non mi ha offerto granché: le attrici donne devono essere giovani e magari farsi il botox, anche se poi i registi dicono che diventano inespressive. Un circolo vizioso». Lei, ovviamente, non lo ha fatto. E non ha mai voluto diventare una diva da rotocalco: «I miei modelli non erano le grandi star come la Loren o la Cardinale, ma le attrici inglesi come Vanessa Redgrave e Julie Christie: talentuose e con una formazione teatrale». Non è un caso che l’altro elemento che Ottavia condivide con i suoi idoli britannici sia appunto l’impegno civile. In palcoscenico, o nelle tante iniziative che negli ultimi anni l’hanno vista in prima fila: «Ho partecipato alla nascita dei primi girotondi, quelli milanesi, attorno a Palazzo di giustizia. Sono stata con Susanna Camusso e altre donne nel movimento “Usciamo dal silenzio”, che poneva già il problema dello sfruttamento del corpo femminile, poi ripreso da “Se non ora, quando”. Ho combattuto in piazza contro i tagli alla cultura, e per i teatri occupati come il Valle a Roma e il Marinoni al Lido di Venezia (dove vivo da anni). Ma in questa Italia della crisi il problema non sono più solo le donne, o i finanziamenti allo spettacolo. Ormai il rischio riguarda il futuro di tutti, la sopravvivenza stessa del nostro Paese: è per questo che non possiamo permetterci di abbassare la guardia». Lei, c’è da scommetterci, non lo farà. © RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ CLAUDIA MORGOGLIONE