Una Comunità di Capi La più originale intuizione dello scautismo e guidismo cattolico italiano Parte II Come funziona una Comunità di capi? Introduzione In questa seconda parte del dossier dedicato alla "Comunità di capi" si affrontano riportando e commentando articoli significativi - gli aspetti fondamentali che qualificano e caratterizzano questa grande "invenzione associativa": essere comunità la comunità nel quotidiano l’educazione permanente il Progetto educativo la vita di Fede e la dimensione ecclesiale il rapporto con l’ambiente esterno e l’impegno in esso l’animazione della Comunità capi Dall’analisi delle predette tematiche mi sembra di poter indicare alcuni punti di riflessione per il futuro: non mi pare ancora risolta la tensione tra Comunità di capi come comunità di servizio (adulti in servizio educativo - con una formazione permanente strettamente finalizzata a ciò) e Comunità di adulti educatori scout che vi trovano un ambiente di crescita e formazione anche per la loro vita personale. Questo appare anche da alcuni interventi di taglio generale riportati nella prima parte. Forse questo tema andrebbe ripreso partendo dall’analisi di chi sono oggi gli adulti scout che costituiscono la Comunità capi e dei loro bisogni; negli ultimi tempi non vi è un’attenzione associativa specifica sulla vita di una comunità; non hanno riscosso sufficiente attenzione alcune proposte che, in passato, miravano ad allargare lo spettro delle attività della Comunità di capi con una presenza più attiva e propositiva nell’ambiente esterno, nella Chiesa locale, nel territorio, anche integrando la comunità con forze dedicate non al servizio associativo ma ad altre forme di impegno. Nel contesto attuale, queste proposte potrebbero essere riprese. Le diverse tematiche sono trattate con articoli commentati, preceduti da una presentazione generale che cerca di ricollegarle all’essere comunità. Una parola: Comunità Capire il senso di essere Comunità tra adulti educatori scout L’Agesci, negli anni’70, ha scelto una parola impegnativa (comunità) per designare la struttura che riunisce i Capi di un gruppo, rifiutando termini amministrativo-aziendalistici (direzione, consiglio ecc.). Si può ritenere che ciò intenda esprimere un legame in termini di valore tra capi adulti ed anche un impegno di ciascuno verso la crescita di ciascun componente del Gruppo, altri capi inclusi. Non siamo un Clan, siamo adulti Con il sorgere della Comunità capi si avvia la riflessione sul senso preciso da dare al termine “Comunità” e quindi sulle scelte concrete per “fare” o “essere” una Comunità. In primo luogo si avverte l’esigenza di distinguerla dal Clan. Negli articoli che seguono Carlo Braca e Romano Forleo, all’inizio del cammino della Comunità capi, pongono precisi paletti: Comunità capi come comunità di adulti che hanno compiuto una scelta di fede e di servizio educativo; Comunità capi costituita da educatori con il fine di educare i ragazzi con il metodo scout. Si puntualizza invece che il Clan è una comunità educativa per i membri della stessa comunità e costituisce la terza fase del percorso educativo dello scautismo. Comunità capi e Clan Clan e Comunità capi sono due entità ben distinte: sono due campi educativi diversi: il primo è per giovani, il secondo è per adulti. Se credete, dispensateci dal dire chi sono i giovani, quale è il modo di valutazione del mondo, le aspirazioni, le concezioni di vita che caratterizzano l’adolescenza contemporanea e che sembra costituire un mondo a sé nel più ampio contesto sociale – un mondo che non si identifica con quello degli adulti, e talvolta, riesce anche poco comprensibile al mondo degli adulti. Fermiamoci, invece, a rivedere la Comunità capi, al rallentatore magari, alla moviola, nel momento in cui essa mette in fuorigioco il lavoro del capo isolato. E’ un gruppo di persone che porta con sé, come tatuaggi sotto i panni, almeno due scelte di quelle lasciano il segno nella vita, cioè quella cristiana e quella del servizio educativo. Scelte del genere il rover le farà se e quando sarà in grado e maturo per farle. Ma intanto, sono queste due scelte a fissare la natura, gli obiettivi, le caratteristiche e, quindi, la linea di confine tra i due campi educativi e la diversa dinamica che li governa. Nel clan c’è un rapporto capo-rover nel quale il giovane si alimenta; nella Comunità capi c’è un organismo che con un rapporto di reciprocità e di sinergia, si alimenta dai singoli membri ma, nello stesso tempo, esercita più di una funzione essenziale nei confronti di essi. Quali? Innanzitutto quella di conoscersi, di capirsi, di creare concretamente la comunione del pensiero e della riflessione per aiutarsi reciprocamente nel cammino comune e perfezionarsi come educatori e come persone. Poi, quella di realizzare una comunità che tende alla comunione, che non intenda separarsi psicologicamente e spiritualmente come un mondo chiuso ed in comunicante con le altre forze educanti, istituzionalizzate o no, e quindi dalla vita di cultura e costume quale si svolge nelle strade, nelle case, dappertutto; una comunità di persone che sappia stare in ascolto della parola di Dio e delle voci del mondo, perché avverte che l’uomo trae da entrambi le sue energie; che sappia scoprirle e riscoprirle continuamente e riconvalidarle a se stessa su chiave educativa attuale. Educare è un verbo che non ha congiuntivo. L’educazione è, infatti, un atto perentorio che non tollera il ritardo dell’educatore sui tempi o il risolversi naturale dei suoi dubbi specialmente quando questi sono sistematici. Alla moviola, ancora più lentamente: la Comunità capi è una comunità che trova la sua ragione d’essere non in motivi sociologici o psicologici, etnici o politici o culturali, ecc. ma in motivi teologali. E’, infatti, una comunità di fede, che nasce dalla fede perché è conscia che si riunisce innanzitutto per realizzare la volontà del Signore; è sorretta dalla speranza della salvezza perché è conscia di impostare un tipo di educazione che, se si affatica nel concreto di questa esistenza, ha un approccio che al di là di questa storia; è resa viva e feconda da una testimonianza in atto che poi sarebbe amore e carità verso chi viene crescendo ancora ignaro della somma e della dignità del suo essere e della sua destinazione. Ora un rover, un adolescente difficilmente può prendere in carica tutto questo: è anticiclonico. Per lui su tutte queste cose non splende ancora il sole; una luce – è vero – ma è quella di una lampada che dondola con il filo appesa al soffitto, ora illuminando ora nascondendo – con l’intermittenza di un faro di piccolo porto – le prove e il significato dell’esistenza. Carlo Braca, Estote Parati, 1971, n. 151, pp.5-8 Un Clan che vuol divenire Comunità capi Quando un paio di anni fa il Consiglio regionale dell’Asci lanciava le “Comunità capi” come un modo di vivere lo scautismo, immediatamente sorse in molti capi e rovers la voglia di trasformare il Clan in una Comunità capi confondendo fini e metodologia delle due comunità. Il pericolo che ne può derivare è veramente grande: la fine della branca Rover. E’ opportuno quindi che anche su “Strade” [al sole] si chiarisca, magari con un aperto dibattito, la diversità esistenziale di queste due strutture. Inizio io, con la mia personale visione. Differenze fra Comunità capi e Clan Ambedue sono comunità, cioè fatte da persone che vivono e operano insieme. Sono Comunità autonome, con vita propria, e con una propria finalità. Non sono quindi due momenti di uno stesso “vivere insieme” né due fasi di una attività. La Comunità capi è costituita da educatori secondo il metodo scout, all’interno di un patto associativo che li lega all’Asci e all’Agi, il fine della comunità è quindi quello di educare meglio i ragazzi che vengono affidati al gruppo. La Comunità di Clan-Fuoco è una comunità educativa per i membri della stessa comunità, ed è quindi specificatamente la terza fase del processo educativo scout iniziatosi ad otto anni. Il fine del Clan è quindi essenzialmente quello della educazione dei giovani che vivono in esso e lo sviluppo della testimonianza giovanile nella realtà circostante. Il servizio quale educatore all’interno dell’Asci e dell’Agi è la condizione essenziale per appartenere alla Comunità capi, mentre l’educazione permanente dei singoli è lo scopo secondario, anche se essa vive in un clima che facilita la crescita di ciascuno. Il servizio scout del rover e della scolta è un mezzo che la metodologia scout propone per educare all’impegno, per sperimentare una seria e concreta disponibilità verso gli altri, per educare a divenire “servo degli uomini”. Il servizio nelle unità non è quindi lo scopo del Clan, anche se è uno degli utili mezzi per educare a servire. Lo scautismo ha sempre fatto un discorso di serietà e competenza. L’educazione è una scienza e come tale necessità una preparazione culturale. Lo scautismo è un metodo che, per essere applicato, deve essere conosciuto. Le scelte di fondo, quindi, della associazione spettano ai Capi (effettivi, cioè che hanno fatto una seria preparazione o “di fatto”, cioè che hanno esperienza di guida di unità scout da almeno due anni). I Capi si riuniscono in comunità e in assemblee ed insieme decidono le grandi linee associative. Essi debbono essere portatori delle idee maturate a livello delle direzioni delle unità ove i rovers non hanno solo la funzione di “imparare il mestiere”, ma che quella di compartecipare alla realizzazione delle attività. Non si tratta della compartecipazione alla gestione di un “potere”, ma l’umile e generosa partecipazione ad un “servizio”. (…) Romano Forleo, Estote Parati, 1971, n. 157, pp.459-461 Ma adulti come? E per che cosa? La Comunità capi è una comunità di adulti: che vuol dire? Intanto l’adulto educatore è comunque una persona in formazione permanente; fare comunità tra adulti educatori comporta capacità di confronto, di ascolto e di collaborazione (già " allenate" durante il percorso educativo) da mettere in pratica per costruire una proposta educativa per i ragazzi (Marina De Checchi). Non è una comunità di vita ma nasce (Comunità capi) per uno scopo educativo, come comunità di cristiani, di uomini e donne che educano e si autoeducano (Paola Incerti). L’adulto è chi ha fatto delle scelte, in primo luogo di servizio educativo; la comunità di adulti nello scautismo è una comunità di servizio, ove amicizia e affinità sono auspicabili ma non indispensabili (Fabrizio Tancioni). Questa sera riunione di Comunità capi C’è chi percepisce la Comunità capi come un inghippo burocratico e chi invece ricerca sostegno, aiuto, protezione… Essere adulti è forse il primo requisito che l’associazione chiede alle proprie Comunità capi. In una società che tende a sponsorizzare la sindrome di Peter Pan, delle scelte reversibili, dell’assunzione di responsabilità il più tardi possibile, questa associazione con pervicacia e consapevolezza chiede ai propri educatori di farsi carico della crescita umana e cristiana di altre persone perché scommette sull’adultità dei propri capi. La Comunità capi è un insieme di adulti, ma è proprio così? O più propriamente la Comunità capi non assolve forse ad un compito di “adultizzazione”? Termine poco elegante, ma che significa proprio “acquisizione di comportamenti tipici dell’adulto” (cfr. T. De Mauro, Grande Dizionario Italiano dell’Uso, UTET). In buona sostanza, le nostre comunità sono gruppi di adulti o gruppi di persone che devono ancora diventare adulti? L’associazione afferma che lo sono e lo dà come presupposto del suo fare educazione; se il presupposto è chiaro, quello che è meno chiaro è il significato che diamo oggi al termine di adulto, quando non solo abbiamo capito che l’adulto non è infallibile, né perfetto, né pienamente e completamente formato, abbiamo fatto nostro, ben prima di altri, il concetto di “formazione permanente” di cui oggi tutti parlano e perfino la scuola superiore, nel suo progetto di riforma, propugna come una necessità non più dilazionabile. Comunità È la parola che forse risente del periodo storico in cui nasce, dietro le grandi spinte ideali che hanno mosso generazioni al cambiamento. L’Associazione chiede ai propri capi di fare comunità, di non essere schegge impazzite per quanto capaci e geniali. Costruire con pazienza e costanza senza scoraggiarsi mai, perché costruire e mantenere il senso della comunità è difficile; paradossalmente i capi e le capo dovrebbero essere allenati a vivere la dimensione comunitaria perché è un esercizio cui sono stati educati sin dal branco/cerchio, ed è fatta di piccole ma straordinarie attenzioni: una telefonata, una risposta, una chiacchierata, il gioco difficile, ma non impossibile, di mettersi nei panni degli altri, di nutrire quella fiducia che si pretende per sé, si tratta in definitiva di essere ogni tanto un po’ meno egoisti, perché ci si riconosce negli stessi valori che danno fondamento non solo alla vita scout, ma alla vita di ciascuno. In una comunità non c’è prevaricazione perché se ci sono cammini, esperienze, stili personali e caratteri diversi, la finalità è la stessa e se l’obiettivo è il medesimo è su quello che la diversità andrà ricomposta. La finalità è quella di educare ragazzi, bambini, giovani rispetto a quei valori umani, cristiani e scout che noi stessi condividiamo ed è attorno alle sfide educative che la comunità vive, si confronta, lavora. Anche a rischio di avere opinioni o soluzioni diverse ai problemi perché vivere la comunità è creare, per quanto possibile, lì’unanimità quando essa veramente esite e non un unanimismo di facciata. Ma ciò si raggiunge solo con il confronto, con l’ascolto, con la volontà di mettersi in gioco, grandi e piccoli, giovani e vecchi, indipendentemente dall’esperienza e dall’età. Marina De Checchi, Scout Proposta Educativa, 2008, n.31, pp.9-11 Che tipo di comunità? La Comunità capi è una comunità? Senza dubbio, in quanto formata da persone che hanno in comune una Promessa, una Legge, un Patto, che vivono nello stesso territorio, che condividono un medesimo Progetto educativo. Persone però che non si sono scelte, ma che sono comunità proprio perché in quel momento storico ed in quel territorio hanno deciso di fare educazione secondo il metodo scout. È il qui e l’oggi, oltre ai valori di riferimento, che fa di loro una comunità. É una Comunità di capi. Con questo intendo dire che la prima ragione per cui queste persone sono insieme è che hanno scelto di essere educatori. È una motivazione da tenere continuamente presente. Non nego, anzi ho ben presente, come vi sia la necessità di curare la dimensione della socialità perché la comunità cresca e con essa la qualità della proposta che facciamo ai ragazzi, ma il motivo del nostro essere è un altro. Non siamo una comunità di vita e nemmeno una compagnia. È una comunità di cristiani. Questo vuol dire che il pregare insieme, il celebrare aiuta la comunità a crescere, rinsalda i legami fra le persone, dona la forza dello Spirito alla comunione fra le persone. È una comunità di uomini e di donne, che si arricchiscono nel reciproco incontro e nella valorizzazione delle singole differenze. È, o almeno sarebbe bene che fosse, una comunità verticale in cui convivono e si arricchiscono vicendevolmente persone che hanno età ed esperienze diverse, anche se in alcuni momenti questa verticalità è impegnativa da gestire. Penso ad esempio, alle dinamiche nuove che devono maturare quando, dopo aver preso la partenza, un rover o una scolta entrano in Comunità capi e si relazionano da capi con il loro capo clan, la loro capo fuoco. Lo stesso vale per il capo clan e la capo fuoco. È una comunità che aspira ad essere stabile, ma che quotidianamente si trova a dover convivere con il mutare delle condizioni di vita o di lavoro dei suoi membri. È una comunità in costante cambiamento. È una comunità educante. Non è solo una comunità di educatori, ma lei stessa si pone, attraverso i rapporti, le alleanze, i progetti, le reti che sa costruire con altri, come soggetto di educazione in quel territorio. È una comunità auto-educante, perché ha cura della crescita di ognuno dei suoi capi e si dà occasioni e strumenti perché questa crescita sia possibile. È infine una comunità di gente che spera, che crede nel futuro, che si impegna a lasciare il mondo un po’ migliore di come l’ha trovato. Paola Incerti, Scout Proposta Educativa, 2002, n.26, p.21 Ma la Comunità capi è una comunità di vita? Nuovi capi alla prima riunione di Comunità capi….Alla domanda: “Ma dove sono finito?”, potranno avere risposta solo dall’esperienza diretta. Arrivano da strade diverse e hanno, molto probabilmente, attese diverse, tra le quali cosa trovare nella vita di Comunità capi: forse la prosecuzione della comunità di clan? Oppure forse qualcosa di simile alla propria famiglia? Nello Statuto hanno letto: Art. 14: “Gli adulti in servizio educativo presenti nel Gruppo formano la Comunità capi che ha per scopo: l’elaborazione e la gestione del Progetto educativo; l’approfondimento dei problemi educativi; la formazione permanente e la cura del tirocinio degli adulti in servizio educativo; l’inserimento e la presenza dell’Associazione nell’ambito locale”.? Ma poi la dalla lettera alla realtà il passaggio non è così automatico. Adulti in servizio: in due parole due concetti che richiamano le caratteristiche di un capo in Comunità capi. Adulto: senza entrare troppo in valutazioni del suo significato intrinseco o nell’approfondimento di ciò che da più parti viene definita come un’adolescenza prolungata, si potrebbe dire che si tratta di una persona che ha fatto delle scelte, che sicuramente non è arrivata al termine della sua maturazione, che crescerà nella profondità e nella qualità, ma che queste scelte, quelle del Patto Associativo, le ha fatte proprie, sia che provenga da un’esperienza associativa che da altre realtà; scelte che testimoniano la maturazione personale come cristiano, come cittadino, come scout. Servizio: forse è così chiaro che può far tremare le gambe; anche in questo caso, senza voler mettere alla berlina situazioni particolari (capi a disposizione o altro..), si può dire che si tratta di persone che hanno scelto di sporcarsi le mani, di entrare in gioco in prima persona, di rimboccarsi le maniche per gli altri. Allora già da queste considerazioni i “giovani capi entranti” possono trarre qualche indicazione su cosa è e come vivere la Comunità capi: non una comunità di vita, non necessariamente amici o nemici, ma sorelle e fratelli scout in Cristo che condividono valori che hanno deciso di testimoniare insieme utilizzando le potenzialità e la bellezza dello scautismo. L’affinità, l’amicizia sono sicuramente auspicabili e facilitanti, ma forse non debbono considerarsi indispensabili: necessaria è invece la proposta, il coinvolgimento attivo e diretto, il contributo personale, il lavoro con i ragazzi e le ragazze; Comunità capi come comunità di servizio quindi, in cui crescere ma dalla quale non aspettarsi il tutto: la crescita come persone, come capi, come cristiani, deve trovare spazio e fonte anche da ambiti diversi, siano essi associativi, come la Zona o la Regione, o esterni. In questo ambiente, potranno così essere portati a compimento gli impegni, evidenziati nello Statuto, che la Comunità capi assume verso i propri ragazzi/e, le famiglie e l’Associazione. Fabrizio Tancioni, Scout Proposta Educativa, 2004, n.9, pp.13-14 Ma come vive una Comunità di capi? Il quotidiano di una Comunità di capi tra dinamiche affettive/ relazionali e attività concrete di adulti, educatori e scout Una Comunità (e non un consiglio di amministrazione) non può esistere solo come una serie di riunioni organizzative: c’è una vita più complessa fatta di momenti diversi che devono rafforzare quel legame di valore e quell’impegno alla crescita di tutti di cui al capitolo precedente. Adulti in relazione La Comunità capi è un gruppo di adulti che vive insieme esperienze concrete. Deve pertanto essere costituita da adulti maturi sul piano affettivo (e che sono impegnati a maturare ulteriormente su questo piano), che sanno gestire inevitabili tensioni affettive (Romano Forleo). La Comunità capi è un ambiente ove si valorizza la propria identità personale, si sviluppano le capacità creative di ciascuno e si vive la dimensione di un rapporto umano di costruttiva amicizia, gestendo anche le scelte per gli incarichi, (Mauro Bonomini). La Comunità capi deve saper gestire la diversità delle stagioni della vita al suo interno, dovute alle differenze di età ed esperienza, che possono diventare una ricchezza (Stefano Pirovano). La dimensione affettiva della Comunità capi In ogni gruppo si generano delle tensioni di simpatia-antipatia (“amore-odio”, come dicono gli psicanalisti), delle conflittualità palesi o latenti, che rendono non facile il lavoro in comune. Questo è ovviamente evidente anche da noi, già a livello di “comitato” (centrale, regionale, zonale), ma è ancora più rilevante quando il “gruppo” vive ritmi di incontri più intensi e relazioni interpersonali più strette, come nel caso dei nostri “gruppi di base”, le Comunità capi. Non tener conto di queste conflittualità, tentando di non farle emergere (“come siamo uniti!”), o di mascherarle (“ci divide solo una differente impostazione ideologica”) sarebbe come voler negare nella “educazione del carattere” (personalità, nel significato che dette a questa parola B.-P.) la dimensione affettiva.(…) Una volta che in una visione integrale della persona umana si accetta come visione naturale la presenza costante di una tensione affettiva all’interno delle Comunità, mi sembra che sia anche corretto tentare di domandarsi cosa ci sia alla base di essa. Senza pretendere di dare risposte esaurienti su un tema come questo per sua natura complesso, ma cercando di riflettervi insieme, credo che non si possa rifiutare quanto afferma Freud, cioè la “natura libidica dei legami che mantengono la coesione di un gruppo”. (…) In altre parole anche nelle comunità, come nella vita interiore di ciascuno, esiste una conflittualità fra desiderio e paura, fra utopia e tradizione, fra gioia di vivere e timore di essere sopraffatto, ecc. che poggia profondamente sulla sfera emotiva ed affettiva della nostra esistenza. Perché ciò non divenga però dirompente occorre che nel gruppo (come nella persona) si possa creare un buon rapporto fra idealizzazione ed accettazione del presente. Se ciascuno di noi “vuole la fiaba” e, scontrandosi con la delusione del presente, persiste nel rifugiarsi in un futuro idilliaco, crolla sul piano affettivo, e per un effetto di “contagio” crea tensione nel gruppo. (…) Lo stesso riferimento alle comunità cristiane primitive non è alieno da questo rischio. “Vi riconosceranno da come vi vorrete bene” è infatti una linea di tendenza, una meta cui dirigersi, è una utopia, un termine di riferimento, non l’immagine del presente. Volersi bene vuol dire infatti non abbracciarsi stretti stretti come volevano fare i ricci, ma stare a giusta distanza toccandosi e non pungendosi. Occorre cioè accettare la presenza degli aculei tra i membri di una Comunità capi (tra generazioni, fra sessi, fra branche … fra persone), in modo che il progetto ideale che ci unisca non trascuri gli affetti personali. Rispettare gli altri, non solo le loro idee, ma soprattutto i loro investimenti affettivi, diviene quindi un imperativo per la vita della Comunità. Ma qui sorge una domanda, che ha maggiore importanza in una comunità che svolge anche un ruolo di educazione permanente: “Come posso avere rispetto degli altri se non ho rispetto per me? Come posso non trasferire ad altri le mie paure, le mie ansie, la mia angoscia esistenziale se non le ho chiare con me stesso?” Ecco qui la necessità che la Comunità capi sia composta se vuol essere un gruppo educante, da capi maturi sul piano della affettività, capaci cioè non solo di declamare bene agli altri la forza del loro amore, ma di dimostrare di voler bene concretamente. Capaci non solo di definire progetti di “educazione non emarginante” ma continuamente tesi a non emarginare nessuno. Occorre cioè che nella scelta e nella formazione dei capi si dia più peso alla maturazione affettiva. Romano Forleo, Scout-Proposta Educativa, 1979, n.l0, pp.171-173 Dinamiche di Comunità capi Perché sto nel gruppo? Come per altri gruppi, ci si riunisce in Agesci anche per altri motivi: - recupero di sicurezza ed identità personale; - necessità di contatto e amicizia con altre persone; - bisogno di trovare un ambito in cui esercitare le proprie capacità creative e le proprie capacità ed esigenze direttive. (…) Recupero di sicurezza ed identità personale Ma un educatore non deve essere già sicuro delle proprie scelte e della propria identità? Considerando che la personalità di ogni individuo è in continua evoluzione, è nel confronto all’interno di un gruppo con solide basi di valori che un educatore migliora e rinnova il proprio servizio e il proprio vissuto. La consapevolezza di condividere con gli altri scelte educative e di vita è quindi un elemento importante per l’adesione e la motivazione alla partecipazione. Ne consegue che all’interno delle attività di Comunità capi il richiamo ai valori e alle scelte personali e di gruppo deve essere chiaro e comprensibile per tutti. Necessità di contatto ed amicizia con altre persone Può capitare che, limitando la funzione della Comunità capi a scopi logistici, di coordinamento o di controllo, si perda di vista il rapporto umano e di amicizia tra i suoi componenti. Senza scomodare le dinamiche di gruppo, una comunità di educatori che non vive una serena e costruttiva amicizia è una contraddizione. Per assurdo, o forse a volte per comodità, questa dimensione viene negata o minimizzata. E’ invece di primaria importanza che in un gruppo esistano armonia ed amicizia, senza nascondere l’esistenza di simpatie o antipatia tra i componenti. (…) Un ambito per le proprie capacità creative Qui siamo nel campo della valorizzazione delle risorse: riconoscere le capacità e le attitudini delle persone e fare in modo che queste, ragionevolmente siano utilizzate e stimolate. Ciò richiede la disponibilità di tutti a mettere a disposizione i propri talenti, e la capacità del gruppo di individuare ambiti ed occasioni in cui questi talenti possano svilupparsi ed essere utilizzati. Qui la sensibilità del Capo gruppo è essenziale. Sia nella Comunità capi sia nelle attività educative verso i ragazzi la creatività e le capacità tecniche di ciascuno vanno sfruttate, stimolate, motivate, riconosciute, valorizzate. (…) E le capacità e le esigenze direttive? Tocchiamo un tasto dolente. Molto (troppo) di frequente questo argomento influenza in modo negativo i rapporti e il lavoro nelle Comunità capi e tra le direzioni di unità. Un fattore che potrebbe essere molto positivo diventa invece un potentissimo freno all’armonia e all’amicizia nel gruppo. E’ in fondo la ricerca del potere che anima molti contrasti, anche se potrebbe essere difficile comprendere che cosa si guadagni ad avere incarichi dirigenziali in un’associazione dove nessuno è retribuito. Invece, alcuni incarichi possono essere, per un determinato tipo di persona, molto gratificanti ed ambiti, a parte qualsiasi considerazione inerente il servizio. Questa situazione crea conflitti di difficile gestione. Un corretto equilibrio di potere richiede che a ognuno sia data la giusta considerazione per la funzione che svolge, senza sminuire l’apporto ed il lavoro di nessuno. Inoltre, è necessario sviluppare la capacità di comprendere, anche se non sempre condividere, le ragioni e le motivazioni degli altri. In caso di dubbio su questioni metodologiche (cosa che spesso viene evocata per giustificare conflitti tra le persone), sono a disposizione i regolamenti e le pubblicazioni associative; in caso di conflitti su altri temi, può essere buona cosa utilizzare una delle tecniche di animazione di gruppo come il gioco di ruolo. Occorre accettare le competenze e le capacità degli altri, sapendo, se lo si ritiene necessario, proporre i propri correttivi in spirito di collaborazione e non di conflittualità. Mauro Bonomini, Scout-Proposta Educativa, 1995, n.10, pp.4-5 Le stagioni della vita Attraverso una breve analisi dei dati del censimento, si verifica la presenza, nelle nostre Comunità capi di giovani adulti di diverse età. Sono cioè rappresentate diverse stagioni della vita che possono costituire un elemento disgregante e dirompente nella vita delle Comunità capi. Attraverso la conoscenza del profilo psicologico e formativo delle diverse età, è possibile invece giungere alla valorizzazione delle differenze, così da rendere ancor più efficace l’offerta di educazione delle Comunità capi. Se tutte le età rappresentate nelle Comunità capi hanno come elemento unificante fare servizio, è poi difficile trovare altri denominatori comuni, fatti naturalmente salvi quelli più profondi e personali legati alla scelta di fede e alla scelta di educare attraverso il metodo scout. Si pensi, ad esempio, alle diverse disponibilità di tempo (forse non tanto in termini quantitativi, quanto piuttosto di distribuzione degli impegni) che possono avere giovani studenti universitari rispetto a capi più maturi con lavoro e figli. Stabilità e instabilità Se poi si fa riferimento alle diverse esperienze di crescita personale le differenze fra i più giovani e i più anziani diventano ancora più marcate e meno mediabili (si parla ovviamente per generalizzazioni). Si pensi alla diversa visione della vita che a sua volta è secondaria a fattori dipendenti dall’età, indipendenza economica, stabilità affettiva, responsabilità di una famiglia, stabilità nell’ambito lavorativo consentono di affrontare i problemi da un punto di vista diverso da chi, per contro, è spesso soggetto a dipendenza economica dalla famiglia di origine, da un’instabilità di sede (legata agli spostamenti per gli studi universitari, per il servizio civile o militare) ed a una non precisa definizione del proprio avvenire, in particolare per ciò che riguarda il lavoro e la formazione di una famiglia (in una parola le scelte “vocazionali”). Va poi sottolineato che l’adulto, seppure seriamente convinto della necessità di una formazione permanente, ha certamente meno bisogno di esperienze “educative”, di quanto non abbia un capo giovane, che si trova nella duplice e impegnativa veste di educatore nei confronti dei ragazzi e di persona in rapida crescita e maturazione personale. Un’altra differenza che credo non irrilevante nella vita delle Comunità capi, è dovuta alle esperienze di scautismo che i capi agli estremi della curva di distribuzione della variabile età, hanno fatto. Se è ovvio che l’età costituisce un titolo di merito, d’altro canto esiste un indubbio retroterra di esperienze e di dibattiti che spesso è dato per scontato, ma che acuisce le differenze nei confronti dei capi più giovani nell’affrontare le tematiche educative proposte dall’impegno di capo. Trovare elementi unificanti Tutto questo, insieme ad altri aspetti che probabilmente sono sfuggiti in un’analisi così rapida, deve trovare una risposta armonizzante capace di far sì che le differenze costituiscano una ricchezza e non una ragione di divisione. Appare chiaramente come capi in diverse stagioni della vita si trovino a dover cercare ragioni di convivenza in virtù di quel servizio che è stato individuato come elemento unificante. Probabilmente nelle Comunità capi occorre rinunciare al tentativo di fare proposte che ottengano risposte omogenee da parte di tutti i membri. Ad esempio la vita di Comunità capi deve fare a meno di un certo cameratismo ereditato dall’esperienza acquisita nelle Branche, mala sciati gli atteggiamenti giovanili, deve fondare il rapporto fra le persone su sentimenti profondi di stima e di rispetto. È noto che ogni processo di crescita avviene per fratture e successive ricomposizioni di equilibrio che consente di progredire a partire dalla conoscenza di sé, attraverso la scoperta del passo successivo da compiere, fino al raggiungimento di un nuovo stadio maturativo, che lascia alle spalle tutto quanto c’è di vecchio. Questo procedere su binari paralleli ed a velocità diverse è certamente un problema di difficile soluzione ed è la ragione per cui si insiste nell’affermare che la Comunità capi è una comunità di servizio e non di vita. Se questa affermazione venisse confutata si arriverebbe a creare nelle Comunità capi una condizione di squilibrio nella quale alcuni (i più vecchi) finiscono col diventare educatori di altri (i più giovani), riproponendo gli stereotipi di altre branche. A questo punto è chiaro che per evitare situazioni di conflitto che frenerebbero (e in alcuni casi stanno frenando) lì esperienza delle Comunità capi è necessario che i membri delle Comunità capi stesse abbiano presente che le diverse stagioni della vita portano con sé inevitabili differenze negli atteggiamenti psicologici e di comportamento, come questo articolo ha cercato di tratteggiare e che a partire da queste differenze occorre trovare il modo per lavorare. Nelle Comunità capi deve essere essenziale e profondo il richiamo alla fede, che non conosce stagioni della vita. Pregare regolarmente con la Comunità capi, trovare una, due occasioni l’anno per la “giornata dello spirito”, costituiscono il minimo necessario per non dimenticare l’importanza dell’elemento unificante della fede. Viene poi il richiamo al servizio: la “ragione sociale” della Comunità capi è quella di offrire del buon scautismo. Ricchezza di esperienza e curiosità, stabilità ed irrequietezza mentale, tradizione e novità non devono essere elementi disgreganti, ma, al contrario, propulsori di una Comunità capi finalizzata al continuo miglioramento della propria capacità di offrire educazione. Stefano Pirovano, R/S Servire, 1992, n.4, pp.23-25 La ricetta della Comunità capi Qual è il segreto di una vita sana di Comunità capi? Ecco alcuni consigli pratici: ambiente sereno, progetti alti, capacità di giocare e nello stesso tempo di occuparsi di problemi complessi, luogo di partecipazione e confronto, tempi serrati, cammino di Fede (Mattia Cecchini). Luogo di dialogo e di confronto, dove si sperimenta l’affidabilità delle persone (Marina De Checchi). Non solo una macchina educativa ma un luogo per riflettere e costruire (Paolo Vanzini). Si gioca e si cerca di svolgere il proprio compito con lo stile e la forma del gioco (Betty Fraracci). Turnover: contro la fuga dei capi regole di vita sana per una Comunità capi Turnover vuol dire ricambio. Il calcio ha scelto questa parola come rimedio ad un problema: si spende di più, ma si mandano in panchina i giocatori bravi come i titolari; se qualcosa va storto non si perde in qualità ed abilità. Anche tra gli scout – buffo – è arrivata la parola turnover: prima per dare il senso di un fenomeno (il ricambio dei capi) e poi, soprattutto di un problema, la mancanza di capi, oltre che di iscritti. Non è da escludere che tra le due cose ci siano legami più profondi di quanto non appaia: affidare a R/S ai primi anni di Clan impegnativi servizi in Branco o in Reparto (magari proprio per carenza di capi) non significa solo chiedere tantissimo in termini di tempo (ne hanno già così poco), anche “consumarli” troppo presto. Si dice che i giovani capi si “bruciano”. Casomai, il problema è che si spengono, come bellissime candele che durano poco. Bruciare richiede tempo, uno dei problemi imposto dal turnover dei capi è la sua velocità. Lo slancio ideale del primo anno di Comunità capi (post-partenza) si consuma: c’entrano servizio, università o lavoro, amicizie e anche la vita di coppia. Bruciare richiede tempo, uno dei problemi imposti dal turnover dei Capi è la sua velocità. Lo slancio ideale del prima anno di Comunità capi (post partenza) si consuma: c’entrano servizio, università o lavoro, amicizie e anche la vita di coppia. Ma qui siamo nella sfera delle scelte personali: se voglio fare bene il mio servizio, perché è una mia scelta, importante per me, il tempo lo trovo. C’è però, una turnover innescato e agevolato dal malfunzionamento delle Comunità capi. Non è difficile elencarne i perché: litigi, sospetti, mancanza di stima o di fiducia reciproca, riunioni inconcludenti o a cui si va senza sapere per fare cosa, bassa sensibilità associativa. Ma così è troppo facile; qualsiasi Comunità capi sa da sola che questa cose non può permettersele. Ma si anche che il malfunzionamento della Comunità capi smonta e allontana i capi, quindi meglio guardare in positivo e ricordarci il lato non oscuro della forza di una Comunità capi. E’ stato detto che la Comunità capi è l’unico strumento che l’Agesci ha per continuare a fare scautismo, perché è determinante affinché i capi facciano bene i capi e, e soprattutto, continuino a farlo. Questo avviene se: c’è un clima e un ambiente sereno in cui le cose che si fanno hanno un senso importante per tutti i capi. La Comunità capi non si limita solo ad una gestione e progettazione educativa, ma si fida e si lancia in progetti alti, magari anche “fuori di sé”, si ritaglia spazi pratici, occasioni di servizio comune e di vita all’aria aperta. La Comunità capi sa essere un gruppo amicale, informale, in cui si può anche giocare, ma che si occupa di problemi e contemporaneamente ha precisi ruoli, scelti dai suoi componenti (mai imposti). E’ luogo di partecipazione e non di ratifica, dove ogni capo può sentirsi determinante e dove ogni capo risponde davanti alla sua Comunità del suo mandato educativo in modo vero e non formale. E’ luogo di crescita e confronto personale che rende verificabili idee e comportamenti, ma non l’unico luogo che il capo frequenta. Non si perde tempo, ma ci si dà tempo preciso, magari anche ristretto, per fare le cose e poi verificarle. In cui si prega e si sperimenta un cammino di fede e la fratellanza cristiana (accettare ed accogliere l’altro; anche in modo concreto). E’ luogo di formazione, ma non il solo dove si forma il capo. E’ il luogo che aiuta il capo a superare le difficoltà di sentirsi un testimone coerente. E’ luogo di verifica dello stile associativo. Mattia Cecchini, Scout-Proposta Educativa, 2002, n. 26, p.26 Il bicchiere mezzo pieno Forse dovremo apprezzare uno stile di vita comunitaria che impariamo fin dal branco e dal cerchio e che troviamo del tutto normale riprodurre: ricercare uno spazio per tutti, prepararsi a partecipare in prima persona, confrontarsi e discutere per riuscire a decidere, fin quando si può, all’unanimità. Uno stile di vita comunitaria che richiede molto tempo, molta energia ma che raramente ci fa pensare alle nostri riunioni come atti dovuti, alle quali partecipare per “fare presenza”. E’ poi il desiderio che ciascuno ha per la sua vita: dare senso a tutto quello che fa sentendosi parte di un progetto in cui si riconosce. Dirò di più, mi pare che, proprio perché il metodo che abbiamo vissuto e che proponiamo è un metodo che guarda alla persona nella sua interezza, anche le nostre Comunità capi siano gruppi di adulti che sono aperti ai problemi, alle tensioni, alle sollecitazioni del mondo in cui ci sentiamo parte e col quale ci sentiamo compromessi. Cosa chiedono i giovani capi alle nostre comunità? Sarebbe interessante che ciascuno di loro si esprimesse a questo riguardo. Negli incontri dei tirocinanti, nei campi di formazione metodologica, nelle assemblee di zona, quello che ho raccolto, da Luisa, Marco, Stefano, Giorgia … potrebbe riassumersi così: “… ci aspettiamo una vita di Comunità capi dove non si partecipi solo per dovere, ma che sia un luogo di dialogo e di crescita; una comunità che oltre ad occuparsi di organizzare e tenere le fila dell’attività del gruppo, trovi spazio per essere un luogo di crescita per tutti. La Comunità capi deve trasmettere soprattutto ai giovani capi una sensazione di presenza e di affidabilità, sapere cioè che ci sono altre persone cui è possibile domandare, con cui discutere, a cui si può chiedere aiuto e consiglio. Con la partenza si parte per una strada che si spera lunga e piena di sfide e di avventure, sarebbe bello che in una Comunità capi si parlasse anche di tutte le altre sfide e scelte che i capi incontrano al di fuori del loro servizio scout, anche se le differenze di età potrebbero complicare non di poco il confronto”. Comunità capi allora che sono un impegno ma anche un piacere, un momento di verifica ma anche di incoraggiamento a proseguire. Marina De Checchi, Scout-Proposta Educativa, 2006, n.27, pp.14-15 L’uscita di Comunità capi non è tempo perso Uscita di Comunità capi … Ci siamo proposti di farne almeno una l’anno, in chiusura delle attività. Quando ci penso da freddo calcolatore, ne vedo subito il lato efficace: 24 o 36 ore fuori dai piedi, completamente immersi nei lavori. Ma poi fortunatamente il capogruppo che è in me si fa sentire, e mi accorgo che il rendimento a volte si può sacrificare, in favore di occasioni più alte e più rare. L’uscita della mia Comunità capi, quindi, cerca di distribuire quest’abbondanza di preziosissimo tempo anche in altre direzioni: tempo per riflettere, tempo per costruire la Comunità capi, tempo per confrontarci con le persone e con le cose. Si può giocare o rispolverare tecniche che a volte rischiamo di dimenticare, immedesimandoci nella proposta che rivolgiamo ai ragazzi, si possono approfondire conoscenze e relazioni, si può sperimentare quello scautismo che nella vita di tutti i giorni resta sommerso dall’urgente e dal rumoroso. Non è tempo perso: la Comunità capi vive di un complesso sistema di esperienze, attività ed impegni, e proprio per questo risulta difficilmente definibile. Quello che è invece possibile definire è cosa “non è” la Comunità capi: ad esempio non è una “macchina educativa” da sfruttare a pieno regime. Così siamo andati in uscita, come tutti gli anni, con la consueta partecipazione piuttosto ampia. Abbiamo lavorato e prodotto, certo, ma anche tutto il resto. E pedalando la ritorno la sensazione era che non ci saranno difficoltà a riproporre questa esperienza l’anno prossimo. Paolo Vanzini, Scout-Proposta Educativa, 2004, n. 34, p.16 Attività pratiche in Comunità capi Ipotizziamo una riunione di Comunità capi di inizio anno con alcuni capi nuovi, pensiamo di parlare dei valori della scelta di essere capi e di rappresentarli attraverso la costruzione di una casa di almeno tre piani. Si procede a fornire ai gruppi in cui i capi sono stati suddivisi, tutto il materiale occorrente per costruire una casetta in miniatura: carta, cartoncino, legnetti, colla, cellophane, scotch, pezzettini di plastica, materiale riciclato di ogni genere, cutter, forbici, pennelli, pennarelli, pastelli, tempera, eccetera, e si dà un’ora per costruire il tutto. In questo tempo il gruppo lavora e alla fine mostra e spiega il proprio lavoro, ma soprattutto illustra quali valori ci sono nelle fondamenta della casa, ammesso che le fondamenta siano state contemplate, cosa è stato messo al primo piano, cosa al secondo e cosa al terzo, e il tetto? Cosa dire del tetto? Qui libero slancio alla fantasia . Chi conduce il gioco inoltre deve portare i partecipanti a pensare e confrontarsi sullo stile di lavoro del gruppo, sulla collaborazione tra tutti i suoi componenti, sulla progettazione fatta prima della costruzione. Similmente, per parlare di progetto, perché non costruire un aereo e poi fare la gara di volo? I gruppi, con il materiale fornito dall’animatore, progettano, costruiscono, gareggiano, la giuria valuta e proclama il vincitore, ma alla fine si riflette su come sono stati progettati gli aerei: gli obiettivi quali erano, solo l’estetica? O magari la tenuta di volo? Sono realizzabili questi obiettivi? Hanno collaborato tutti?... Sono veramente molteplici queste attività funzionali poi ad una riflessione, ma non può essere disdegnata l’abilità manual-culinaria che si può esprimere preparando una supera cena di Comunità capi con gara di cucina. E quando si parla di cibo la partecipazione è assicurata! Betty Fraracci, Scout-Proposta Educativa, 2001, n. 14, p.27 Educatori che si educano Che cos’è la formazione permanente in Comunità capi? In una comunità di adulti in servizio educativo non si può non dedicare tempo alla propria formazione insieme a quella degli altri, con un impegno comune di lungo periodo; il punto diventa quale tipo di formazione. Formare Capi o persone? La formazione permanente è forse stata uno dei temi più dibattuti relativamente alla vita della Comunità capi. A lungo le posizioni sono oscillate tra la valorizzazione di una dimensione adulta dello scautismo nella Comunità capi da un lato ed invece una stretta finalizzazione al servizio con i ragazzi di ogni occasione formativa in Comunità capi dall’altro. Ecco una rassegna di interventi sul tema. Agli inizi della Comunità capi, al primo campo per animatori (1972) Annamaria Capo prospetta per i Capi un’esperienza di vita associativa per educatori, valida non solo per educare bene ma anche per crescere bene (Comunità capi come un ambiente ove vivere una dimensione adulta dello scautismo e ove aiutarsi a crescere come adulti). Renato Milano (1973) si mantiene sulla “Comunità di servizio”: comunità di educatori scout che si incontrano per mettere in comune i loro problemi di educatori scout e nella quale si attua una formazione permanente come prosecuzione della Formazione Capi istituzionale (educazione al compito di educatori). Giovanna Pongiglione (1992) sottolinea che l’ingresso in Comunità capi segna la fine “dell’essere educati” e l’inizio del “ci educhiamo”, di un laboratorio di autoformazione tra adulti, anche se la formazione si realizza in mille occasioni esterne. Il laboratorio funziona se si è motivati e disposti a continuare ad imparare e a cambiare. Franco La Ferla (1997), nel dilemma se la Comunità capi debba formare Capi o formare persone, osserva che, anche per la sua esperienza, l’accento sulla formazione del capo ha effetti certi e positivi sulla maturazione dell’uomo ed evita il rischio di chiusura all’esterno. Elisabetta Favaron (2002), per altri versi, sostiene invece che la formazione permanente del Capo in Comunità capi deve operare sull’atteggiamento e sulle motivazioni della persona, tenendo conto delle diverse esigenze dell’adulto in servizio educativo e avendo a cuore le relazioni tra Capi. Nella formazione capi in Comunità capi bisogna poi tener conto del necessario “accompagnamento” dei giovani Capi nel loro cammino di formazione, valorizzando l’accoglienza e le relazioni interpersonali profonde (mozione 14/2002 sulla Formazione Capi). Educazione permanente “Si fa crescere nella misura in cui si cresce” Sul piano dell’educazione significa affermare che il Capo, l’educatore, vive nella stessa tensione di crescita in cui si muovono i ragazzi tra i quali agisce. Significa dire che l’educatore costruisce se stesso, così come giorno per giorno i ragazzi costruiscono se stessi. (…) In questo quadro, educare gli altri ed educare sé stessi sembrano coincidere; non sono pochi tra noi, coloro che ritengono di poter attribuire al loro lavoro di capo, di educatori, il meglio della loro formazione professionale. Sarei d’accordo su questo ma in realtà vorrei vedere in concreto a che cosa porta una affermazione di questo genere. Vivere nella stessa tensione di crescita dei ragazzi non è la stessa cosa che vivere della stessa tensione di crescita. Vivere nelle cose, nei problemi dei ragazzi, non è vivere delle cose, dei problemi dei ragazzi. E quello che ci capita a volte invece è proprio vivere delle cose loro, calarci nella loro realtà dimenticando la nostra, dimenticando cioè proprio ciò che ci si aspetta che siamo. Ci aggiorniamo, ci informiamo sul metodo, su problemi metodologici e tecnici ma ci dimentichiamo di crescere: siamo troppo occupati ad informarci. (…) Credo sia molto importante che nelle nostre associazioni si dia più spazio ad una problematica di capi, di educatori, e per questo dobbiamo veramente aiutarci a vicenda, perché siamo noi che dobbiamo crearci questo spazio. Questo non significa però fare una associazione di capi, ma rendere più agile il discorso di educazione, non solo in chiave metodologica. (….) Credo che l’associazione debba offrire ad ognuno di noi una esperienza di vita associativa per educatori, valida non solo per educare bene ma anche per crescere bene. In primo luogo direi che dovremmo essere un po’ meno sicuri del fatto che il metodo scout in sé e per sé faccia crescere tutti. C’è nel metodo una dinamica che è buona premessa anche perché permette di cogliere la persona nella sua globalità; ma su questa premessa sarebbe il caso di mettere intenzionalmente anche qualche altra cosa. Direi che in effetti ci manca una specie di tessuto adulto, anche se nelle nostre associazioni ci sono gli organi responsabili. Quello che ci manca è una trama su cui intrecciare l’ordito, infatti siamo noi a fare la trama e l’ordito. (…) Io penso, e spero sarete d’accordo, che c’è una dimensione adulta nello scautismo, implicita e neppure tanto, nell’idea originaria, e che questa dimensione non l’abbiamo portata avanti. E forse questa è stata una scelta fatta in un certo momento, scelta però che a mio avviso oggi è da rivedere nelle sue implicanze. (…) A parte questa nostra incapacità di dialogo, abbiamo perso un certo tipo di maturazione dello scautismo che oggi vorremmo forse avere; oggi che abbiamo, tra l’altro, fatto una scelta a dir poco delicata, di coeducazione, scelta per la quale la maturità, l’equilibrio psichico e la solidità del capo sono indispensabili. Oggi sappiamo di aver bisogno di capi adulti. Ma cosa c’è, cosa trova un capo adulto, o meglio, cosa può fare per evitare di racchiudersi in una problematica di giovani? Può avere un ambiente su misura nel continuare a realizzare ciò che è un suo diritto, e cioè la propria crescita personale? Dire che un adulto può continuare a crescere non significa che si è nella certezza che comunque crescerà, neppure se è educatore, anzi ci si può attendere tranquillamente il contrario. Crescere significa avere un ambiente reale di crescita, anzi per gli adulti, una pluralità di ambienti. Dal punto di vista strutturale l’ambiente è previsto: è la Comunità capi, di gruppo, di ceppo, la Comunità capi mista, la Comunità capi di branca, di regione, e anche se in questa previsione c’è un po’ di ottimismo perché tutti noi sappiamo quanto sia difficile realizzare una comunità, il punto da verificare è se vale la pena di fare questo sforzo e se con esso raggiungiamo qualcosa o meno. In genere la nostra esperienza ci dice che a livello gruppo, a livello ceppo, si rende necessario il coordinamento delle attività tra le unità che lo compongono. Questo è un buon motivo d’incontro, anche perché tra l’altro evita inconvenienti logistici. C’è poi la ricerca di una impostazione pedagogica unica, le attività coordinate, che dovrebbero essere conseguenza di qualcos’altro. Quindi questo luogo d’incontro, questa comunità, sorge come incontro di persone che si uniscono insieme perché perseguono uno scopo: si occupano insieme di quella realtà pedagogica unica che è il ragazzo che cresce. Per questo scopo, mentre aiutano i ragazzi a costruirsi la loro unità, essi, insieme, costruiscono una comunità a loro misura. Costruire insieme una comunità significa porsi con gli altri alla pari in una disponibilità di rapporto personale e di dialogo circolare. Significa voler fare sulla propria pelle un’esperienza di educazione come soggetto, come soggetto che si educa insieme agli altri e che pertanto insieme agli altri fa un discorso al proprio livello e al livello degli altri. Un discorso che parte da come siamo in realtà e non da come ci poniamo o vorremmo essere; che permette ad ognuno di noi di riscoprire la propria vocazione; di verificare la propria scelta pedagogica, di costruirsi una fede adulta, di misurare la propria testimonianza, di mettere in discussione la propria coerenza. E tutto ciò è difficile perché ci tocca come persona. Eppure è così che si cresce ed è ancora più difficile, perché noi, che amiamo tanto il metodo, ci troviamo sprovvisti di una metodologia di educazione degli adulti e siamo noi stessi a doverla creare di volta in volta a misura della comunità in cui ci poniamo. Esistono tecniche di educazione permanente: l’animazione in effetti è una delle più importanti, ma educare sé stessi insieme agli altri è in primo luogo una tensione, è un impegno, un atteggiamento personale e comunitario cui deve corrispondere un lavoro di gruppo protratto nel tempo, una reale partecipazione di tutti, un’armonica distribuzione delle attività per garantire lo sviluppo globale sia della persona che della comunità. Annamaria Capo, Atti del primo Convegno nazionale animatori ed animatrici di Comunità capi, Estote Parati-Il Trifoglio, 1972, n. 3, pp. 5-9 Comunità di servizio L’intento di queste brevi note è quello di offrire a tutti i capi interessati un’occasione di riflessione e di verifica su alcuni concetti relativi alle Comunità capi e che, ancorché scontati per i più anziani, possono invece tornare utili ai più giovani. (…) La Comunità capi è infatti una comunità di educatori scout, di uomini e di donne, cioè che hanno fatto una scelta di servizio nel campo dell’educazione dei giovani con il metodo dello scautismo e che avvertono l’opportunità, la necessità anzi, di incontrarsi per mettere in comune i loro problemi di educatori scout in una tensione continua finalizzata alla crescita dei ragazzi loro affidati. Dunque una comunità di servizio e non una comunità di vita, il che mentre da un lato offre già un criterio di differenziazione rispetto al Clan e al Fuoco, dall’altro consente di definire meglio la funzione che dalla Comunità capi deve essere assolta nel contesto associativo. Ed è, a mio avviso, una funzione molto importante, essenziale direi, per garantire la “continuità educativa” che caratterizza, talvolta purtroppo solo a parole, il metodo scout; per fare dell’educazione avendo ben presente la realtà sociale in cui il Gruppo o il Ceppo operano; per realizzare, o meglio, per concorrere a realizzare, la “chiesa locale”. L’azione educativa dei singoli capi ha la possibilità di trovare un riscontro nella Comunità capi, di essere verificata alla luce delle considerazioni, delle “letture” della realtà sociale che in altri capi dello stesso Gruppo-Ceppo abbiano fatto ed alle quali abbiano informato la loro azione educativa. (…) La responsabilità dell’azione educativa, già propria dei singoli capi unità, viene ad essere condivisa dall’intera Comunità capi; e ciò con evidenti vantaggi tanto per l’armonico progredire dei singoli ragazzi del Gruppo-Ceppo per i quali il passaggio all’unità successiva non potrà non essere più naturale, più dolce, senza quegli scossoni che hanno talvolta determinato, nonostante le più sincere affermazioni circa la continuità del metodo, dei veri e propri traumi psicologici, quanto per gli stessi capi che, chiamati ad interessarsi anche dei ragazzi di altre unità, di altre branche, potranno scoprire il più profondo significato del servizio di educatori rifuggendo contemporaneamente dal rischio di diventare degli “specializzati” delle singole branche, rischio questo che ne comporta un altro più grave: quello di vivere l’esperienza staticamente piuttosto ched nella dimensione dinamica che è propria di qualsiasi processo educativo. Da questa brevissima, e per molti aspetti, incompleta analisi mi sembra sia emersa chiaramente una funzione importantissima della Comunità capi: quella di costituire l’ambiente ove si realizza l’educazione permanente dei capi in quanto tali. E’ infatti nella Comunità capi che prosegue “permanentemente” la formazione dei capi dopo i momenti forti costituiti dal corso di primo tempo, dal campo scuola, dal tirocinio e dalle tesi. Ed è proprio questa caratterizzazione di formazione capi a delimitare la funzione della Comunità capi, a circoscrivere l’ambito operativo alle questioni ed ai problemi propri delle persone che la Comunità capi costituiscono avendo fatto una scelta comune di servizio fondata sul cristianesimo e sullo scautismo. Sarà dunque una problematica essenzialmente educativa ad impegnare la Comunità capi mentre dovranno necessariamente esserle estranee altre problematiche pure indispensabili ad un completo sviluppo della persona. In questo senso si potrà correttamente parlare di educazione permanente a proposito delle Comunità capi, di educazione cioè al compito di educatori; non invece nel significato che all’espressione educazione permanente si è soliti attribuire quando ci si riferisce all’esigenza propria di ogni uomo di educarsi continuamente in un processo, di formazione prima e di autoformazione poi, che, pur caratterizzato da tappe molto spesso significative, si sviluppa per tutta la durata della vita della persona. Ciò vuol dire che mentre la Comunità capi costituirà l’ambiente naturale nel quale confrontare, affinare, verificare il nostro modo di essere educatori scout, dovremo cercare al di fuori di essa, in altri ambienti, in altre esperienze, quanto ancora necessità alla nostra formazione di uomini, dovremo coltivare in altre attività i nostri interessi sociali, culturali, politici. ecc. E questo per vari motivi, non ultimo quello che mentre l’interesse per l’educazione col metodo dello scautismo è comune, “per definizione”, a tutti i membri della Comunità capi, uomini e donne, giovani e meno giovani, non altrettanto comuni possono essere gli altri interessi di cui ciascuno è portatore. Renato Milano, Estote Parati-Il Trifoglio, 1973, n.1, pp.28-30 Educazione permanente Formazione permanente o degli adulti che fanno educazione Educazione o formazione sono due facce della stessa medaglia. L’educazione infatti è il processo di formazione della persona verso una sua completa pienezza e la formazione è il risultato positivo di un processo educativo che crea la premessa di un’importante evoluzione. Tuttavia si è sempre più consapevoli che il processo educativo è e deve essere una condizione permanente: si può perciò parlare di “educazione degli adulti” dove lo scopo essenziale è il potenziamento delle capacità individuali e la loro migliore utilizzazione. L’educazione, quindi, è un “processo continuo”. In tale processo, l’educatore è l’adulto che aiuta il bambino, il ragazzo, con azione consapevole e voluta, a crescere e svilupparsi armonicamente, pur con una compartecipazione attiva da parte dell’educando alla propria formazione. Lo scopo è l’integrazione positiva, attiva e critica, nell’ambiente in cui si vive. Il problema è quello di capire fino a quale momento “veniamo educati” da terzi (famiglia, scuola, Chiesa, Clan …) e a partire da quale momento “ci educhiamo” (educazione permanente o degli adulti). L’ingresso in Comunità capi potrebbe segnare il momento di tale passaggio. Tuttavia questo passaggio non è determinato necessariamente e solo da un fatto temporale: l’ingresso in Comunità capi di per sé non determina nulla. Il passaggio è legato ad un atteggiamento, alla consapevolezza, che nasce in momenti temporalmente diversi gli uni dagli altri, di essere passati dall’essere “educandi” a “educatori”. E’ bene che un Capo in Comunità capi abbia questa consapevolezza. Il tempo della Co.Ca coincide con il periodo in cui maggiormente, i Capi adulti che fanno educazione, potenziano (meglio, occorrerebbe che potenziassero) la loro attività di autoformazione e di formazione permanente. La Comunità capi è così il “tempo” privilegiato della formazione permanente più forse che il luogo. La riuscita delle attività, il successo di essere capi costituiscono il banco di prova della propria formazione e della propria capacità di auto educarsi. In questo senso la Comunità capi è il laboratorio in cui si sperimenta, con l’aiuto e la critica degli altri membri, la propria capacità di auto formarsi, ma non è necessariamente il luogo in cui avviene la vera e propria formazione: gli strumenti di conoscenza sono già stati acquisiti in precedenza (iter di Formazione Capi) e si continuano ad acquisire nelle diverse occasioni di formazione interne ed esterne all’Associazione (convegni, conferenze, letture, stages, Campi di formazione …). Rischi nel processo di formazione dei Capi in Comunità capi Per un capo in Comunità capi, tuttavia, si presentano spesso rischi, palesi od occulti, che ostacolano lo sviluppo di un atteggiamento favorevole da una vera formazione continua. Tra i rischi evidenti, i più comuni sono: - continuare a comportarsi come se si fosse ancora in Clan, non sentendosi e non comportandosi, perciò da “educatore” ma ancora da “educando”; - mettersi in un atteggiamento da “arrivato”, tipico di chi non ha più niente da imparare perché sa già tutto e sa fare qualsiasi cosa; - non adattare le proprie conoscenze ed il proprio saper fare alla condizione contingente nella quale si sta operando. Accanto ai rischi palesi, ci sono poi anche rischi più subdoli, occulti, ma altrettanto negativi, quali: - diventare iperattivo della formazione e fare mille campi e stages, perdendo di vista la propria situazione e, nel profondo, non essere in realtà pronti a cambiare; - assumere un atteggiamento di emulazione e di “carta assorbente” senza alcun senso critico. Quale atteggiamento per una educazione permanente E’ indispensabile che l’educatore, nella sua qualità di operatore di cambiamento, sia anch’egli in cammino e disponibile al cambiamento per adattare se stesso e aiutare i suoi educandi ad adattarsi alla realtà in cui vivono L’autoformazione, da adulti, avviene solo se si è motivati, solo se si desidera imparare qualcosa di nuovo e se si è disposti a cambiare. Giovanna Pongiglione Alacevich, R/S Servire, 1992, n.4, pp.19-20 Può bastare la Comunità capi per crescere? Uno dei luoghi della nostra crescita continua è la Comunità capi. Da sempre questa affermazione innesca immediatamente la questione se tale luogo debba privilegiare solo il nostro crescere come capi o anche il nostro crescere come persone. E’ ovvio che un capo è innanzitutto una persona (ci mancherebbe …), ma insomma: un Capo gruppo nel pensare all’animazione della sua comunità, deve riferirsi solo a quanto poi i suo capi riverseranno nel rapporto educativo con i ragazzi o si può allargare a qualcosa che li fa anche crescere verso la loro famiglia presente o futura, verso la loro professione attuale o in costruzione, verso una vita di relazione anche esterna al gruppo? La questione non è insana (e molti se la pongono), ma fortunatamente è meno cruciale di quanto possa sembrare a prima vista e così la si può affrontare fischiettando. (…) La geografia della Comunità capi Se è vero quanto detto finora, dovrebbe essere agevole sciogliere la questione iniziale “Comunità capi per formare capi oppure per formare delle persone?” Io sono cresciuto, come capo, in un clima condizionato da affermazioni dure del tipo: “Non siamo una cricca di amici. Ci troviamo qui per servire dei ragazzi che vogliono crescere. Per il resto, cercate altrove”. Dunque sono vissuto in una realtà che promuoveva in special modo (con rare eccezioni) solo quello che facilitava e migliorava il mio essere capo. Ho spesso masticato amaro per questo e quando, un’estate, ho saltato una route per fare uno stage di due mesi in Turchia mi sono sentito un verme traditore. A distanza di tempo mi sento di affermare che quella impostazione era vantaggiosa anche per me come persona e che dunque le Comunità capi dovrebbero concentrarsi sul far crescere i capi, purchè si tenga più lucidamente conto e ci si serva di tutta quell’altra rete di rapporti educativi di cui ti ho detto prima. Ecco in due punti, ricavati dalla mia esperienza, che cosa intendo dire. Legge scout e Promessa funzionano anche fuori. Se penso alla mia vita familiare, professionale e di relazione, riscontro che gli stimoli e gli strumenti più efficaci per agire li continuo a ricavare da Legge e Promessa, fatte mie (e vissute talvolta con fatica e poveramente, beninteso …) soprattutto per lo sforzo di aiutare ragazzi e ragazze a farle proprie. Lo scautismo aiuta davvero tutti a diventare dei buoni cittadini, anche noi capi. La strada verso il successo scoperta da B.-P. con il richiamo a fare il bene degli altri è davvero un buon stile di vita che mi pare si possa imparare bene all’interno di una Comunità capi. La felicità continua di un capo per cercare di “saper essere, saper fare, saper far fare” serve davvero per cercare di essere anche un buon figlio, marito, padre, insegnante, consulente industriale. E quanto non ci si riesce, la voce della nostra coscienza ha davvero i tratti del nostro vecchio Capo gruppo. Dunque fare bene i capi è di aiuto anche per vivere meglio la nostra vita personale. Una Comunità capi fuori mura. Se è vero che ciò che ci fa crescere come capi ci aiuta anche a crescere come persone, non bisogna dimenticare che per fare bene i capi possiamo anche pescare da quella rete di rapporti in cui tutti siamo immersi (noi ed i nostri ragazzi insieme). Serve dunque anche un flusso di idee, di esperienze, di impegno, di gioia e di gioco che da altri ambiti entri, medianti noi, nel rapporto educativo capo-ragazzi. Ma per questo serve tempo e aria fresca. Se io, grazie alla mia Comunità capi, vivo in completa abnegazione dai miei doveri familiari, professionali, dai piaceri dell’amicizia e dell’ozio creativo, è arduo che grandi ricchezze esterne fluiscano nella Comunità e quindi nel mio rapporto educativo. Serve quindi una Comunità capi che operi anche “fuori mura” attraverso i suoi capi che singolarmente possono disporre di un buon tempo ricreativo senza uniforme. Poco ma bene Riprendendo dunque il titolo di questo articolo, per la nostra crescita personale può bastare una Comunità capi che ci fa crescere come buoni capi, capaci di validi rapporti educativi. Essa dovrà essere continuamente allagata da acque che arrivano da fuori, ricche di un limo fecondo, che si rimescolano al suo interno e rifluiscono fuori. Senza la presunzione, in vista di quel rimescolamento interno, di strutturare rigidamente o addirittura voler inglobare le fonti di origine e o peggio i deflussi esterni, quasi che la Comunità capi debba essere una comunità di vita. Così è realistico guidare la propria canoa. Franco La Ferla, R/S Servire, 1997, n. 1, pp.30-33 Quale formazione permanente in Comunità capi? Il segreto della formazione permanente sta proprio qui: nessuno te la costruisce, te la organizza e ti dice che cosa devi fare, ti devi “arrangiare”. Ma non si solo, c’è la Comunità capi, il Capo gruppo, ma per che cosa? La formazione parte sempre dal singolo che deve aver fatto delle scelte, deve avere la consapevolezza che sta camminando in una direzione. Per un capo scout questo dovrebbe essere un discorso banale, ovvio, ma è anche vero che gli scout non sono un mondo a parte, slegato dalla società. Ecco che allora il nuovo capo che entra in Comunità capi avrà tutti i disorientamenti e le certezze dei suoi coetanei non scout. Se è vero che l’età giovanile è spostata in avanti e che l’ingresso nell’età adulta tarda a venire, che si parla di età delle scelte intorno ai 35 anni, che cosa si può chiedere ad un capo di 21 anni? Sembra un controsenso. Ma tutta la proposta scout è un po’ in contraddizione, propone con la sua metodologia e con la scelta di fede un modello di uomo e di donna della partenza che va controcorrente, che rifiuta le facili soluzioni, che favorisce lo spirito critico, che ritiene tutto (im)possibile. Una persona che entra in Comunità capi così giovane, va accolta, seguita con particolare cura, le va data totale fiducia perché è la stessa fiducia che è riposta da parte sua negli altri capi per iniziare insieme un servizio educativo. Il momento dell’ingresso in Comunità capi non è un momento a se stante, è un momento particolare della formazione permanente, dove la persona deve sentirsi al centro dell’attenzione di tutti per imparare e per capire meglio la propria strada. Il cosiddetto “tirocinio” non è una delega data al capogruppo ma coinvolge tutti i capi della Comunità capi: il e la capogruppo e l’A.E. con il ruolo di facilitatori, di osservatori, di mediatori; lo staff di unità con un ruolo più specificatamente metodologico, di trapasso nozioni, educativo; la zona con un ruolo di apertura e confronto con altre realtà. La formazione permanente non inizia dopo “qualcosa”, ma con la scelta di diventare educatori scout. Soltanto se ogni capo ha questa consapevolezza si può parlare di formazione permanente e gli eventi proposti a vari livelli, la vita di Comunità capi, le relazioni interpersonali, le esperienze di vita via via maturate, assumono un preciso significato e si può pensare di poter progettare un cammino di crescita personale. (…) La formazione dell’adulto è da pensarsi come formazione permanente e non può essere acquisita una volta per tutte, proprio perché la vita dell’adulto è progressiva ed i ruoli, quindi anche i suoi bisogni, cambiano a seconda della stagione che sta attraversando. Come è emerso anche durante il Seminario “Formazione e Comunità capi” uno dei nodi è nell’impostazione della formazione, non è sufficiente puntare sui concetti o sulle abilità o sulle competenze, la formazione permanente in Comunità capi dovrebbe: lavorare prevalentemente a livello di atteggiamenti della persona e di motivazioni; tener conto della varie aree che identificano l’adulto in servizio educativo e quindi interessare l’identità personale, le relazioni, l’armonizzazione delle varie componenti della persona, l’integrazione fra fede e vita, la competenza educativa e la competenza metodologica; tener presente i principi dell’apprendimento propri dell’adulto, senza cadere nel tranello di una formazione ancora a misura di adolescente; aver particolarmente a cuore le relazioni tra i capi. Elisabetta Favaron, Scout-Proposta Educativa, 2002, n. 26, pp.7-8 Mozione 14/2002 “Formazione capi - 11” Il Consiglio generale nella sessione ordinaria 2002 preso atto del percorso sin qui svolto dalla Formazione Capi, del contributo apportato dal lavoro delle commissioni e dal dibattito tenutosi durante i lavori del Consiglio generale, approva il documento “Il ruolo della formazione nell’azione educativa dei capi”. Scout-Proposta Educativa, 2002, n. 20, p.22-23 Allegato 4/2002 “Il ruolo della formazione nell’azione educativa dei capi” Questo documento vuole essere non solo di stimolo al dibattito in Consiglio generale, ma intende avviare una riflessione più generale sulla necessità di promuovere la formazione permanente come modalità per affrontare i cambiamenti socio-culturali che investono anche la nostra Associazione. Il 30/10/2000 è stato pubblicato un documento dell’Unione Europea, “sull’istruzione e la formazione permanente” ove si afferma che “il buon esito della transizione ad un’economia e una società basate sulla conoscenza deve essere accompagnato da un orientamento verso l’istruzione e la formazione permanente”. È questa una esigenza dell’intera collettività, chiamata a confrontarsi con cambiamenti sempre più veloci. La formazione permanente, quindi, è una condizione che riguarda tutti, capi, quadri e formatori, una strategia globale in Associazione che riguarda tutto il sistema formativo: la formazione permanente dei capi nei diversi livelli associativi, primi fra tutti la Comunità capi e la zona; la formazione dei quadri, per i capi gruppo e i responsabili di zona; la formazione continua dei formatori. I capi e i loro bisogni formativi In una cultura in rapido cambiamento, come è la nostra, la formazione degli educatori richiede frequenti e profonde verifiche per adeguare i progetti formativi - nei contenuti e nei metodi - alle condizioni di coloro ai quali è diretto il servizio educativo. In questo contesto c’è bisogno di educatori “flessibili”, capaci di rimettersi continuamente in discussione. Di conseguenza, i formatori per primi devono attrezzarsi culturalmente e metodologicamente per formare capi adeguati al nostro tempo. (…) Ambito 1 - Il sostegno alle Comunità capi e la formazione permanente La situazione Luogo di esperienza comunitaria e di formazione permanente, responsabile del servizio educativo, garante dell’unitarietà della proposta e dell’appartenenza associativa, la Comunità capi deve sostenere i capi nello svolgimento di un processo educativo sempre più complesso . La Comunità capi si trova generalmente in grave difficoltà: non sempre è luogo di formazione, vive la costante emergenza di dover mantenere aperte le unità, sacrificando spesso la crescita e la formazione dei suoi capi. In realtà la Comunità capi deve diventare protagonista già nella prima fase dell’accoglienza di un nuovo capo: questi entra in comunità con molte attese, sperando di essere accompagnato nella scoperta del grande gioco educativo e delle sue regole, e invece spesso viene proiettato in prima linea senza competenze e senza strumenti. Può accadere così che la partecipazione al primo evento dell’iter di formazione sia poco motivata o scarsamente progettata e si risolva in una esperienza fortemente emotiva, ma non in grado di apportare cambiamenti nel cammino di crescita del capo . È mutato, inoltre, il contesto esterno al gruppo scout e la realtà sociale e culturale è più complessa; l’età delle scelte per i giovani si è spostata in avanti nel tempo. Questo slittamento, riportato in ambito educativo, pone la Comunità capi di fronte a due esigenze: accompagnare i giovani capi nel consolidamento delle scelte personali che al momento dell’inizio del servizio educativo non sono ancora sufficientemente motivate e interiorizzate; condurre e tenere viva in Comunità capi una lettura periodica dei nodi essenziali di una realtà in rapido costante cambiamento nel mondo dei ragazzi. Nodi critici Riconosciamo che i giovani Capi non rappresentano solo bisogni, difficoltà o problemi, ma sono una risorsa indispensabile da valorizzare nell’Associazione. - Protagonismo dei giovani capi Si intrecciano diversi aspetti e diverse attese dei nuovi Capi al momento della loro entrata in Comunità capi: l’entusiasmo e la voglia di agire, il bisogno di vita comunitaria, le esigenze formative, la competenza metodologica e la qualità del servizio da svolgere... Come si fa a calibrare la gradualità di responsabilità nel servizio con l’energia e l’entusiasmo dei giovani capi? C’è sufficiente chiarezza di ruoli e differenza di responsabilità tra capi unità e tirocinanti? Quante Comunità capi chiedono ai tirocinanti di assumere il ruolo di Capo unità? Si corre il rischio da un lato che la Comunità capi “approfitti” della disponibilità del giovane capo affidandogli eccessive responsabilità, dall’altro che quest’ultimo si senta già preparato e adeguato al ruolo assegnatogli. È importante individuare le attese e le responsabilità reciproche. - L’accompagnamento I capi gruppo e l’Assistente dovrebbero essere in grado di incanalare l’entusiasmo del giovane capo accompagnando il suo cammino dal momento in cui il futuro tirocinante chiede di entrare in Comunità capi fino all’ingresso effettivo, all’assegnazione dell’unità, alla scelta del momento più opportuno per compiere l’iter. I capi gruppo e l’assistente hanno un ruolo privilegiato nel coordinare questo percorso, ma tutta la Comunità capi ne è investita; l’ingresso in Comunità capi non può essere un automatismo: dopo la Partenza deve esserci un periodo per fare un cammino, rispettando i tempi di ciascuno. La formazione metodologica, curata dagli staff di branca, deve procedere insieme a quella associativa, di competenza dei capi gruppo, dell’assistente ecclesiastico di gruppo e della zona. Il Tirocinio è una fase delicata che investe la responsabilità e la competenza dei capi gruppo, dell’assistente ecclesiastico di gruppo e della zona; pertanto, deve restare un momento unitario. (…) Attenzioni e proposte - L’esperienza del Seminario sulla Comunità capi ha fatto emergere come la Comunità capi rivesta un ruolo di fondamentale importanza nell’accompagnare i capi a progettare la propria formazione di base e a rielaborare l’esperienza del servizio educativo con i ragazzi come occasione per una più puntuale formazione permanente. Va, perciò, migliorata in Comunità capi la consapevolezza della sua responsabilità nella formazione. - È necessario far maturare in Comunità capi una “cultura dell’accoglienza” intesa come stile che appartiene alla nostra storia, come momento parte di un processo che vede coinvolto chi entra così come chi accoglie. L’ingresso del nuovo capo non è solo il momento in cui si chiede di accettare il Patto associativo, ma segna anche l’inizio del percorso di formazione attraverso il quale scoprire e comprendere il proprio ruolo e la propria identità di Capo educatore. - L’accompagnamento richiede una relazione interpersonale profonda e continuativa. È necessario, perciò: - ridare spazio alla relazione tra persone rispetto alla struttura, - dare importanza al tempo in cui i capi stanno insieme, - migliorare la qualità delle relazioni interpersonali, - se necessario anche rivedere i programmi nell’ottica della essenzialità e della “leggerezza”, - riflettere sull’importanza della “verticalità” della Comunità capi. - Va promossa una pista di lavoro che valorizzi il Progetto educativo, perché questo possa divenire nella fase di elaborazione, utilizzo e verifica, un momento di formazione al metodo per la Comunità capi. “Questa pista ha il pregio di potersi mantenere in stretta connessione con la concreta esperienza di tutti i giorni che ogni capo fa in unità, e che assorbe in buona sostanza tutta la sua attenzione. Per perseguirla occorrerà però una riflessione molto attenta sulle modalità di elaborazione del Progetto educativo, perché possa davvero aiutare ogni capo, muovendo appunto dall’impegno quotidiano con i propri ragazzi, ad allargare via via lo sguardo al significato di quello che accade e alla stessa portata delle proposte che fa. Il percorso di formazione personale più ampio - e quindi l’elaborazione del progetto del capo - potrà finalmente prendere il via dalle sfide effettive che quest’analisi avrà fatto emergere, guadagnando in vivibilità e in efficacia.” (Danzare lo Scautismo) - Valorizzare il tirocinio come momento del “trapasso nozioni”, a cui la Comunità capi e la zona devono prestare particolare attenzione formativa. - La formazione permanente in Comunità capi richiede che siano attivati meccanismi e occasioni formative anche decentrate fra i vari livelli associativi. Scout-Proposta Educativa, 2002, n. 7, p.60-66 Un compito per una Comunità di capi: il Progetto educativo Comprendere il senso del Progetto educativo e del lavoro della Comunità capi per esso Una Comunità di capi ha come compito da svolgere insieme il servizio educativo nello scoutismo mediante un progetto. Qual è il senso di questo compito (che è anche uno strumento per l’educazione)? Progetto educativo: i"fondamentali" Vittorio Ghetti non ha solo ideato il concetto di Progetto educativo, ma ha saputo anche offrire tanti spunti ed idee concrete per aiutare i Capi (a volte disorientati) e le Comunità capi a definirlo e a realizzarlo. Si raccolgono qui alcuni suoi interventi principali sul tema e le sue idee-forza: - non isolare (pena una deriva aziendalistica) il Progetto educativo da una scelta pedagogica di base; - educare per l’avvenire ed il nuovo (altrimenti un Progetto educativo non ha senso) senza fughe in avanti e senza disconoscere le proprie radici (per cui il Progetto educativo ha senso solo per costruire il futuro); - costruire il progetto su alcuni requisiti di valore e di impegno di tutta la Comunità capi; - articolare il progetto per fasi: analisi della realtà, riferimento ai valori, scelta delle aree di impegno educativo prioritario, definizione dei programmi di unità, verifica; - fare attenzione a selezionare poche priorità e a scegliere bene i tempi. Il Progetto educativo Non si può isolare la scelta del “Progetto educativo” da una consapevole scelta pedagogica di base. Senza questa presa di coscienza a monte, il Progetto educativo può diventare uno stampo di pura ispirazione manageriale, camicia di forza della creatività dei capi o monotona “scaletta” di riflessioni formali. Per agevolare questo preliminare orientamento, il solo capace di giustificare la scelta di un’educazione per progetti, cominciamo con alcuni “flash” sulle più rilevanti impostazioni pedagogiche che si sono susseguite nel corso della storia arrivando attraverso sintetici accenni, fino alla nostra epoca. (…) Educazione per l’avvenire Con lo svilupparsi della dimensione sociale della persona assumono sempre maggiore importanza, a partire dal secolo XIX, spunti e correnti pedagogiche che privilegiano i valori empirici legati alla collocazione dell’uomo nella storia del mondo che cambia. E’ cioè dalla e nella Storia che scaturiscono i principi del giusto e dell’ingiusto, la definizione dei ruoli sociali, l’identificazione dei conflitti di interessi. E’ dalla realtà empirica contingente che hanno origine le tendenze capaci di far procedere verso le scelte che consentono di aderire allo sviluppo sociale ed economico dell’umanità. L’adozione di una pedagogia dei valori perenni (o dell’ascesi) non può, in queste condizioni, che essere fonte di crisi di identità, poiché essa consente solo una dialettica unidirezionale (il più delle volte conflittuale) tra percezione del contingente e sostanza spirituale ed eterna dell’uomo. La pedagogia ad impostazione sociale è ancora più severa nei confronti dell’educazione al presente i cui valori sono considerati come sovrastrutture laddove le strutture concretamente capaci di garantire un avvenire migliore sono quelle di natura socio-economica. (…) Su questi presupposti la pedagogia oggi dominante propone dunque una “educazione per l’avvenire” basata su un’analisi critica di ciò che è superato, antistorico, statico o frenante e anticipante in tal modo l’avvento del nuovo. Con queste scelte “l’educazione per l’avvenire” rifiuta, assieme all’adattamento al presente, le compiacenti fughe dalla realtà consentite dal rifugio nei valori perenni o tradizionali. Qualche rischio di chi educa per l’avvenire Quando i valori cambiano, le constanti di riferimento mutano ed il consenso sociale perde di vista ogni giorno di più le coordinate sulle quali confrontarsi, il processo di proiezione verso il futuro appare quello più spontaneo e naturale. Va dunque considerata coerente col tempo presente la tendenza della cultura in generale e della pedagogia in particolare ad aprirsi sempre più all’avvenire. Se queste tendenze, che hanno in larga misura coinvolto l’Agesci, sono da un lato testimonianza di sensibilità educativa e di presenza reale nel proprio tempo della associazione (vanno pertanto come tali incoraggiate e promosse), esse possono, dall’altro essere all’origine di una serie di rischi pedagogici di cui qui di seguito vengono segnalati i cinque ritenuti più importanti. Anzitutto il rischio della fuga in avanti per sottrarsi ad una realtà presente vissuta come poco affidabile e sempre più incerta. La natura e l’educazione non fanno salti: entrambe appartengono all’uomo che ha ritmi e tempi che vanno rispettati. In secondo luogo il rischio del disconoscimento delle radici comuni che porta quasi inevitabilmente, assieme ad una crisi di identità, al progressivo rifiuto di una coesistenza associativa. Da qui al relativismo assoluto il passo non è molto lungo. I valori obiettivi si dissolvono uno dopo l’altro, a favore di quelli soggettivi dell’educatore che finisce per proiettare nel rapporto educativo le sue personali e mutevoli convinzioni. Per altri ci può essere un quarto rischio, quello di affidare al metodo ed alle sue risorse intrinseche il principale se non esclusivo ruolo educativo al di fuori di una chiara visione delle circostanze e delle condizioni in cui il metodo stesso va utilizzato. E’ il rischio insito in ogni pedagogia tecnocratica. Infine il quinto rischio è quello di concentrarsi a tal punto e a livello ideologico sulla natura della condizione futura da consumare ogni risorsa disponibile in una loro analisi dialettica. Tutto cioè inizia e si conclude nell’analisi che può essere esercizio istruttivo per dei futurologi ma che certamente non può essere considerata azione educativa di un capo. Questi cinque rischi possono essere contenuti (non eliminati) nel quadro di un “Progetto educativo” che secondo la Formazione Capi è la potenziale corretta risposta delle Comunità capi alle esigenze di una “educazione per il futuro” .(…) Parte II La Formazione Capi ha indicato in quale dei tre grandi sistemi educativi storici (educazione al passato, al presente e all’avvenire) può essere idealmente inserita una educazione per progetto. In questo fascicolo alle riflessioni sul “Progetto educativo” viene dato un taglio prevalentemente associativo. Il “Progetto educativo” viene cioè confrontato con alcuni aspetti dell’attuale “status” dell’Agesci, con le sue tendenze e colle motivazioni dominanti dei suoi capi. Il “Patto associativo” come progetto Un buon punto di riferimento ci sembra essere anzitutto offerto dal “Patto Associativo” che, sotto molti aspetti, rappresenta una significativa premessa ad un’educazione per progetti. Senza entrare in analisi più approfondite (di cui peraltro è ricca la letteratura associativa) basterà qui ricordare da un lato il suo significato di impegno, di adesione attiva e di volontaria partecipazione alla costruzione dell’associazione e dall’altro il suo contenuto non normativo e non statutario testimoniato dalla libertà insita nelle scelte. Lo spazio che il “Patto associativo” concede alla persona e al suo continuo divenire rinforza la sua connotazione di progetto di cui fanno parte anche quei fattori di rischio che sono tipici dei sistemi costruiti molto più sui valori interiorizzati e molto meno su modelli precostituiti ed inculcati. Il continuo investimento di risorse morali proposto dal “Patto Associativo” presuppone e postula cioè, per essere correttamente gestito in termini comunitari, l’esistenza di un progetto. Un progetto per l’avvenire Quando si educa per il presente in condizioni di stabilità non c’è bisogno di un “Progetto educativo”. L’iterazione di metodi che hanno dato lunga e buona prova di efficacia pedagogica, la semplice trasmissione di principi dall’educatore all’educando (entrambi inseriti in un contesto stabile) e l’indicazione di modelli che conservano nel tempo il loro valore possono infatti essere, in un momento storico a lento ritmo evolutivo, gli strumenti più appropriati per un rapido e pertinente adattamento alle situazioni note. (…) Ben diverse sono le condizioni quando, in fase di cambiamento, si educa per l’avvenire. In questo contesto è difficile identificare obiettivi precostituiti, non sono disponibili norme anticipatrici generalmente condivise, non ci si può servire di modelli stabili e riproducibili nel tempo. Le attese stesse nei confronti dell’educatore e dell’educazione sono per lo più indefinite o inespresse. (…) Progettare nella ricerca di unità Le scelte e lo spirito del “Patto associativo” da un lato e gli stimoli offerti dall’evoluzione della condizione giovanile dall’altro hanno dato origine (si sorvola sulla vasta gamma di situazioni intermedie) a due divergenti tendenze all’interno dell’Associazione. La prima si ispira alla conservazione dei valori, al metodo, al passato, alla tradizione, al “tutto è già stato detto, sperimentato, considerato”. La seconda, sensibile e attenta più ai segnali del mondo esterno in fase di cambio che alle analisi delle risorse intrinseche dello scautismo, subisce a sua volta un diverso tipo di condizionamento. Queste due tendenze che trovano la loro emblematica rappresentazione in nuovi agglomerati associativi (fino a nuove associazioni), stanno alla base di tensioni e di incomprensioni che non hanno finora trovato soluzione nel confronto dialettico. Così c’è chi trepida per il patrimonio educativo minacciato offrendo sicurezza nel rispetto della tradizione. C’è chi educa per una società da riformare e c’è chi educa in una società che deve essere sradicata; c’è chi pensa che uomini diversi possano instaurare rapporti sociali diversi e c’è chi invece crede che prima ancora di uomini diversi ci sia bisogno di capovolgere e di ricostruire tutto da capo. (…) Un piano per riscoprire il senso dell’educazione Nessuno può dubitare che la creatività, lo spirito di iniziativa, la capacità di adattamento dei principi di un metodo educativo a situazioni nuove sia il metro sul quale si misura l’efficacia dell’educatore. (…) Ma la tendenza al nuovo senza un profondo responsabile coinvolgimento può essere piena di pesanti contraddizioni. Se questo nuovo è cioè fine a se stesso, se esso si muove lungo un percorso privo di riferimenti ed obiettivi, se esso ignora che ciò che cambia non si sviluppa quasi mai in senso rettilineo bensì lungo una spirale che, su piani diversi, riporta costantemente a situazioni storiche, allora l’innovazione può essere velleitaria, irresponsabile e involutiva. Per riprendere l’accenno alla spirale: se il nuovo non coincide con una passo in avanti qualitativo in confronto al corrispondente e sottostante punto della spirale c’è da domandarsi se l’innovazione abbia senso. Un progetto per chi crede nella sua scelta di capo L’idea nuova per l’idea nuova, la proposta diversa “tanto per cambiare”, l’obiettivo fissato al di fuori di una corretta critica pedagogica e di una seria analisi della realtà, la rivoluzione metodologica dettata solo da piacere di fare rivoluzione, costituiscono la cosiddetta sperimentazione pedagogica selvaggia. E’ selvaggia perché in essa manca o del tutto insufficiente l’analisi dei contenuti in termini di strumenti di crescita della persona e, ancor più manca o è del tutto insufficiente l’analisi dei contenuti in termini di strumenti di crescita della persona e, ancor più manca in essa una seria verifica volta a stabilire una demarcazione tra quanto dell’innovazione gratifica il o i capi e quanto l’innovazione abbia contribuito alla maturazione e alla crescita delle persone e della comunità. Questi temi ai quali abbiamo accennato in modo molto più conciso e più che altro con finalità indicative, sono attualmente oggetto di esame, di richiamo, di invito a riflettere a diversi livelli associativi. L’importanza della posta in gioco in termini di significato del nostro esistere come associazione scout, di identità di ruolo e di finalità della nostra azione educativa giustifica l’investimento delle risorse di tutti i capi. La Formazione Capi ritiene che sia suo specifico ruolo proporre, indicare e facilitare modalità di soluzioni concrete. Una di queste è, a nostro avviso, rappresentata dal “Progetto educativo” al quale riteniamo possa essere affidato il compito sia di recuperare positivamente ed operativamente le tensioni che percorrono l’associazione sia di indurre ad una più matura riflessione sui contenuti, i valori, le dinamiche, i rischi e le conseguenze dell’innovazione pedagogica nello scautismo. La coscienza di “Progetto educativo” ha largamente permeato tutta l’associazione. Entrata nel linguaggio corrente dei capi e delle loro comunità, compare nell’agenda dei responsabili regionali e di zona ed è inclusa nei piani di lavoro delle branche. Malgrado questa popolarizzazione del termine alcune recenti esperienze ci fanno ritenere che una Comunità capi non fa un Progetto educativo quando non sa andare al di là di un’analisi della realtà divenuta fine a se stessa o quando confonde l’analisi della realtà colla proiezione sui ragazzi del gruppo delle motivazioni e dei desideri della Comunità capi, oppure e ancora quando non tiene conto delle peculiari risorse di capi e di ragazzi di cui dispone per realizzare i programmi stabiliti oppure ed infine quando si lancia in un piano d’azione senza preoccuparsi di procedere ad una seria verifica “a posteriori” del suo intrinseco peso educativo. Vittorio Ghetti, Scout-Proposta Educativa, 1977, n.7, pp.37-39; 1977, n.14, pp.7-9 Educare nero su bianco. Il Progetto educativo: come è, come si fa. Le prime fasi e i pericoli da evitare L’esperienza dimostra che il Progetto educativo si appoggia su delle strutture portanti in carenza delle quali il suo equilibrio si è dimostrato molto precario e poco affidabile. Le strutture in questione sono riassunte nelle scelte del Patto Associativo e cioè nella conoscenza e nell’accettazione da parte di tutti i Capi della Comunità dei valori umani, cristiani e scout che esso esprime e che rappresentano il patrimonio dell’Agesci. (…) Le cose da fare Una volta assicurata la presenza di questi irrinunciabili prerequisiti ci sono altri momenti di riflessione all’interno delle Comunità capi rivelatasi molto utili per l’intera pianificazione del Progetto e cioè: - la comune consapevolezza del ruolo educativo mediante il Metodo scout affidato ad ogni Capo; - la “condivisione educativa” quale fondamento della Comunità capi. Ciò significa che, nel pieno rispetto della responsabilità educativa dei singoli Capi, tutta la Comunità capi si sente investita e coinvolta in un comune mandato di crescita del gruppo. La pianificazione del Progetto educativo A) Definizione e sviluppo delle fasi; B) tempi di elaborazione del progetto; C) durata della realizzazione (“Progetto educativo a 1 anno!” oppure “Progetto educativo biennale”) Definizione e sviluppo delle fasi Analisi della situazione del Gruppo: si tratta di razionalizzare, di prendere coscienza e di evidenziare l’implicito affinchè diventi esplicito a tutti i capi. L’esplicitazione comprende la situazione esterna e quella interna al Gruppo. Per la situazione interna al Gruppo: aspetto numerico, rapporto ragazzi/e, dinamica dei passaggi di unità, durata del servizio dei capi, criteri per la nomina dei nuovi capi, disponibilità di tempo dei capi, loro punti di forza e debolezza, ecc. In questa analisi occorre distinguere la realtà delle Unità (ragazzi e capi) da quella dell’ambiente al quale il Gruppo appartiene. Situazione esterna al Gruppo: caratterizzazione dell’ambiente familiare (tendenze, valori, scelte conseguenti); caratterizzazione dell’ambiente scolastico. tendenze, valori ecc.; caratterizzazione dell’ambiente di lavoro (dei capi e dei ragazzi); caratterizzazione dell’ambiente dei “Pari”; mode e valori; rapporto con i mezzi di comunicazione; clima socio-politico ed economico del quartiere (paese); rapporti con l’Ente promotore; rapporti con altri movimenti giovanili nel territorio; rapporti con i problemi del territorio. L’analisi di situazione deve essere fatta dai membri della Comunità capi senza l’assistenza di esperti sterni. (…) Riferimento ai valori La conoscenza e la scelta dei valori (umani, cristiani e scout) fa parte dei prerequisiti. Questa fase del PE si propone di far risaltare e di rendere evidenti le contraddizioni che sono emerse dalla lettura della realtà del gruppo e consiste nella lettura del divario tra i valori in cui la Comunità capi crede e quelli emersi dell’analisi della situazione. Scelta delle aree di impegno educativo prioritario E’ il momento delle scelte nel quale con maggiore chiarezza si manifesta la coesione e la coerenza educativa della Comunità capi Le aree di impegno educativo prioritario (non più di due, eccezionalmente tre) possono essere individuate: - dove esista il più macroscopico divario tra valori e realtà del gruppo; - dove più evidenti siano le risorse dei Capi (e degli A.E.); - dove esistano minori ostacoli da superare; - dove siano ragionevolmente prevedibili tempi di realizzazione; - dove sia più agevole la verifica dei risultati; - dove il massimo numero di queste condizioni sia presente. Affinché il Progetto educativo non sia un’esercitazione utopica, occorre che le aree di impegno educativo prioritario siano poche (1, 2 al massimo 3). Perché siano adatte a tutti gli archi di età, esse devono corrispondere a reali esigenze di crescita di tutte le Unità. Perché costituiscano traguardi raggiungibili devono essere a misura sia della disponibilità dei ragazzi che dei loro livelli di partenza. Nell’incontro della Comunità capi dedicato alla definizione del o degli impegni educativi prioritari, ogni Capo deve presentare uno o più obiettivi prioritari formulati in base all’ ”analisi di situazione” compiuta congiuntamente e in forma conclusiva dalla Comunità capi. Vittorio Ghetti, Scout-Proposta Educativa, 1987, n.8, p.22 Si decide il futuro del Gruppo. Il Progetto educativo: come è e come si fa. La verifica e i tempi di lavoro Completiamo il discorso con la definizione dei programmi di Unità, le verifiche e soprattutto i tempi di elaborazione e la durata del progetto. Programmi di unità Sono affidati alle singole staff delle singole Unità. Il lavoro consiste nel tradurre in “cose da fare” ed in “modi di essere” a livello degli archi di età e della metodologia specifica delle diverse Branche la o le scelte educative prioritarie operate dalla Coca. Una volta formulati, i programmi delle unità vengono presentati e discussi (verifica della loro coerenza con gli impegni educativi prioritari) in una specifica riunione plenaria della Comunità capi. Devono considerarsi caratteristiche essenziali dei programmi di unità ispirati alle aree di impegno educativo prioritario, la concretezza, la gradualità e l’uso specifico delle risorse del metodo scout. Il programma generale dell’Unità comprende, ovviamente, una serie di alter attività. Quelle incluse nel programma relativo al PE si limitano a dare risposta alle scelte educative prioritarie. Un’altra caratteristica del programma correlato con il PE delle singole unità deve essere quella di rispondere alle esigenze della continuità del metodo nell’ambito delle otto aree della formazione scout (autoeducazione, interdipendenza pensiero-azione, vita comunitaria, vita all’aperto, ambiente-natura, gioco, servizio, coeducazione) nello spirito del Patto Associativo. Verifica E’ generalmente l’aspetto più trascurato anche se forse, uno dei più importanti. In linea di massima, va infatti ricordato che non può esistere processo formativo senza una verifica sia del processo stesso che dei risultati. La “spirale dell’educazione” non può cioè mettersi in movimento se non partendo da una verifica dell’esperienza fatta. La storia del PE dimostra che, al suo stato attuale nell’Agesci, il procedimento di verifica più agibile è il seguente. Creare una situazione (gioco, incontro, attività, ricorrenze, manifestazione, ecc.) nella quale i capi e i ragazzi siano chiamati a testimoniare il cambiamento avvenuto nel loro atteggiamento (modo di essere e di fare) nei confronti dei valori compresi nella o nelle aree di impegno prioritario nel loro PE. Se il cambiamento avvenuto può essere definito in termini obiettivi e di valutazione concreta, si potrà pervenire ad una verifica sottratta alla soggettività del singolo Capo e, quindi, entro certi limiti, affidabile. Gli eventi di verifica devono essere centrati sulla/e aree di impegno educativo prioritario; vanno definiti a grandi linee assieme ai programmi di unità presentati e discussi in Comunità capi; un PE non può considerarsi concluso senza le indicazioni fornite dalla verifica. E’ da questa che si riparte per il successivo ciclo di PE (spirale dell’educazione). Tempi di elaborazione del PE La formulazione del Progetto educativo costituisce un’esperienza di intensa vita comunitaria: va realizzata in tempi brevi, senza inutili pause tra le sua varie fasi e con la comune determinazione di pervenire ad una conclusione operativa (programma di Unità e verifica finale). L’esperienza accumulata in questi anni dimostra che i seguenti sembrano essere i tempi ottimali per ogni fase del PE: - analisi della situazione del gruppo: una uscita di fine settimana - riferimento ai valori: una seduta serale di Comunità capi - scelte delle aree di impegno prioritario: una seduta serale di Comunità capi - presentazione dei programmi di Unità: da una a tre sedute serali di Comunità capi - verifica: uno o più eventi comunitari di gruppo. Durata del progetto A seconda dei ritmi e delle situazioni interne ed esterne alla Comunità il Progetto educativo può proiettarsi su un anno oppure su due anni di vita del Gruppo. Sei mesi sono certamente troppo pochi per evidenziare dei cambiamenti e tre anni probabilmente sono troppi per aderire alla realtà del gruppo. Se una Comunità capi decide di assegnarsi un PE deve impegnarsi a realizzarlo giorno per giorno sulla base del programma di Unità e di Comunità capi che ne è scaturito. Se il PE è destinato a finire – dimenticato – in un cassetto è molto meglio dedicare le risorse della Comunità capi ad altre attività. Vittorio Ghetti, Scout-Proposta Educativa, 1987, n. 15, p.11 Progetto educativo: consigli utili Di fronte alla complessità (vera o presunta) del Progetto educativo occorre orientarsi ed agire con idee chiare e semplici per non perdersi. Ecco allora alcuni interventi che cercano di offrire piccoli consigli utili. Giorgio Rostagni (1979) indicava alcune modalità di lavoro: mettere a fuoco l’essenziale della nostra proposta educativa; rispondere alle domande basilari sull’ambiente in cui si opera; formulare poche linee di lavoro; elaborare bozze di programmi per unità; fare sintesi e revisioni; costruirlo in continuità. Michele Pandolfelli (1983) indicava l’essenziale del Progetto educativo nell’acquisire una mentalità e un’abitudine a fare sintesi tra valori, esigenze dei ragazzi e strumenti del metodo. Gualtiero Zanolini (1983) indicava l’esigenza di dedicare tempo per individuare i veri obiettivi educativi di cui i ragazzi hanno bisogno, con un lavoro delle Comunità capi fatto con mezzi e modalità “scout”. Stefano Garzaro (2005) invita ad evitare alcuni errori tipici (intellettualismo, enciclopedismo, rigidità del progetto, mancato aggiornamento e revisione) e a non cadere nella “schiavitù” del progetto (quasi fosse un idolo) Il Progetto educativo: un proposta di modalità per costruirlo Quando invitiamo i ragazzi a diventare scout, quando offriamo il nostro servizio di educatori e genitori, alla chiesa, al quartiere e ci chiedono di che si tratta, non possiamo più limitarci a dare in visione manuali e sacri testi, ma dobbiamo illustrare il nostro progetto, anzi dobbiamo spiegare che non è solo nostro, ma va costruito, aggiornato, verificato, assieme a loro e confrontato poi con il resto dell’associazione. La parola progetto ha un sapore intellettuale, astratto. Da idea di una cosa difficile, per specialisti. Molti di noi si spaventano e si perdono: ma che cosa è? (…) E’ semplicemente un modo di lavorare della Comunità capi che serve a non dimenticare l’essenziale per perdersi nei particolari, a dare un ordine logico alle cose che intendiamo fare. E’ mettere per iscritto non solo cosa intendiamo fare, ma anche come, quando e perché, in modo da non dimenticarcene per strada, in modo che ognuno abbia chiara la sua parte e possa responsabilizzarsi e sviluppare un lavoro autonomo in armonia con quello degli altri. Le linee essenziali nella costruzione di un Progetto educativo a) Mettere a fuoco la nostra proposta: La Comunità capi prova a rispondere, così come è capace, alla domanda: “quali sono i punti essenziali e caratterizzanti della proposta Agesci, quale visione dell’uomo e dei suoi rapporti essa racchiude, che tipo di rapporto educativo la caratterizza, su quali esperienze concrete si impernia? (…) b) Rispondere ad alcune domande circa l’ambiente, essenziali al lavoro da compiere Come è delimitato l’ambiente? Quali ragazzi ci proponiamo di coinvolgere? Tutti (in linea di principio) o solo alcune categorie (quali e perché?) Che tipo di sensibilità o di interesse hanno o crediamo che possano avere per l nostra proposta? Quali aspetti sembrano più utili o importanti per loro? Quali più facili o difficili da attuare? Che tipo di rapporti i ragazzi hanno con le altre componenti dell’ambiente? Chi tipo di rapporti noi vorremmo o potremmo avere? Quali problemi dovremo affrontare per primi se vogliamo aiutarli a crescere? Che prospettive di evoluzione ci sono nell’ambiente? Che stimoli riteniamo di dover portare accanto al lavoro educativo diretto? c) Formulare le linee essenziali del piano di lavoro Tenendo conto del lavoro precedente diviene possibile precisare in linea di massima obiettivi, esperienze, modalità di realizzazione che vorremmo comuni alle diverse unità e stabilire una serie di priorità ed una proporzione tra i diversi aspetti. d) Elaborare delle bozze di programma per singole unità Ora la Comunità capi si divide in gruppi e prova a rendere concreto il piano di lavoro traducendolo in un programma per ogni unità e per un arco di tempo ben definito, non troppo lungo. Si precisa la fisionomia di ciascuna comunità educativa (dimensioni, articolazioni in gruppi, modalità di responsabilizzazione dei singoli, modalità di presenza degli adulti). e) Operare una sintesi ed una revisione anzitutto, se non ci stiamo preparando ad aprire un nuovo gruppo ma già lavoriamo con dei ragazzi, è essenziale capire cosa loro ne pensano, coinvolgerli in modo più o meno diretto a seconda dell’età nella messa a punto della pare che li riguarda. E quindi operare una prima revisione. Una seconda va fatta da tutta la Comunità capi, di nuovo unita, per verificare la coerenza tra i diversi progetti. (…) f) Quando costruirlo Sempre. E’ una risposta tassativa. I due errori più gravi che si possono commettere, anzi che frequentemente si commettono sono: pensare che un progetto, possa essere la semplice somma di tante parti staccate da elaborare una dopo l’altra; pensare che un Progetto educativo, cioè un progetto che riguarda la vita degli uomini, ammetta la distinzione in fasi che si usa ad esempio quando si vuol costruire una casa: progetto – esecuzione – verifica; i tre aspetti devono procedere di pari passo, perché la vita è cambiamento continuo. Giorgio Rostagni, Agescout, 1979, n. 36, pp.2-4 (da un intervento alla Route delle Comunità capi venete 1977) Inizio d’anno: tempo di programmi. Il Progetto educativo in pillole Credo che oggi nella nostra società una delle idee più in crisi sia quella del progetto, inteso come tentativo di ordinare razionalmente processi sociali, economici e culturali. (…) Contro ogni delusione e tentazione “spontaneistica” credo che si possa recuperare il senso profondo del Progetto educativo, liberandolo di tutte le incrostazioni intellettualistiche e sociologiche, cercando di capire anche la differenza tra esso e i grandi progetti sulla società i quali, finora, hanno fatto sempre un bel buco nell’acqua.. Mentre i programmi sociali ed economici non tengono spesso conto (e non fanno quindi affidamento) sulle capacità di scelte libere e responsabili delle singole persone (…) il Progetto educativo è un progetto sulla persona e della persona, che cammina con le gambe della persona stessa. Secondo il detto “individui si nasce, persone si diventa” (andiamoci a leggere o rileggere in proposito qualcosa di Mounier) la scommessa del Progetto educativo è che la vita si può progettare secondo alcuni ideali, con l’aiuto di Dio e con la fede nella provvidenza che ci può anche fare incontrare punti di arrivo diversi da quelli da noi pensati, senza però farci mai smarrire la strada (almeno se teniamo fermo il timone). Il Progetto educativo sulla persona ( = la proposta di noi capi tagliata sul singolo ragazzino/a) deve poi diventare il progetto della persona, ossia qualcosa di cui diventa responsabile in prima persona il ragazzo/a stesso. Da questo punto di vista il Progetto educativo ha forse tempi lunghi di realizzazione, esiti particolari imprevedibili, ma se c’è un buon impasto tra la mano di Dio, la costanza e l’impegno del capo, la buona volontà e l’entusiasmo del ragazzino, il risultato finale (che rimane comunque sempre in parte “non leggibile” agli occhi umani) non può mancare. Ed anzi starei per dire che proprio da tanti progetti personali vissuti e portati avanti liberamente e responsabilmente in uno spirito di solidarietà fra tutti gli uomini può nascere faticosamente una società più libera e più solidale, al contrario di tanti progetti generali, pieni di ideali nobilissimi di libertà, giustizia e solidarietà, i quali passando sopra alla maturazione individuale delle persone, si trasformano spesso in strumenti di oppressione. Direte: ma questo non è il Progetto educativo, bensì il solito discorso sulla progressione personale e sull’autoeducazione? Secondo me la differenza non è molta: il Progetto educativo non è un atto singolo, non è un documento, bensì è una mentalità che si deve acquisire e che si deve portare avanti in ogni occasione della nostra esperienza di capi. E’ l’abitudine a far quadrare il cerchio tra le esigenze del ragazzo/a (esigenze che vanno lette dietro le “richieste”) tra valori che vogliamo proporre, risorse, (quali e quanti capi? con che caratteristice di formazione, per quanti anni?) e strumenti (il metodo ed i mezzi). Se tutto ciò può avere un momento privilegiato ad inizio d’anno, dobbiamo essere ben coscienti che un simile processo mentale va sempre ripetuto in ogni momento per ogni attività che vogliamo fare (cosa vogliamo raggiungere in termini educativi con essa? abbiamo risorse e strumenti adatti? e per ogni ragazzino (quale progetto “personalizzato”? quali obiettivi e quali forze su cui fare leva?); quindi occorrono verifiche continue, occorre un’attenzione continua di me Capo a tutte le situazioni, per valutare se le attività e le proposte sono giuste o meno per “pilotare” la rotta dell’unità e le tante “rotte” dei singoli ragazzi. Michele Pandolfelli, Scout-Proposta Educativa, 1983, n. 32, pp.3-5 Inizio d’anno: tempo di programmi. Comunità capi: Progetto educativo e vita di Comunità capi: un gioco serio L’inizio di un nuovo anno di attività per una Comunità capi è senz’altro qualcosa di entusiasmante ma, come ogni momento in cui si compiono grandi scelte, è anche un momento difficile di riflessione e confronto. Per certi aspetti l’anno precedente è stato lacunoso, molti non hanno mantenuto fino in fondo gli impegni che avevano preso e i programmi non sono stati completamente realizzati. Allora il grande proposito è: “realismo”. Vanno identificati i veri obiettivi della Comunità capi e trovati i giusti modi ed i tempi per realizzarli nel corso dell’anno. La Comunità capi deve gestire il gruppo; la Comunità capi deve essere momento di formazione permanente per i capi che la compongono: la Comunità capi deve essere luogo di preghiera e riflessione per dei cristiani impegnati in un servizio educativo; la Comunità capi deve essere un luogo di approfondimento metodologico. Allora iniziare un anno non è soltanto formare degli staff più o meno equilibrati per le nostre unità! Qui inizia il lavoro del nuovo anno di attività di una Comunità capi. L’esperienza mi ha insegnato che a questo lavoro va dedicato del tempo ed una notevole attenzione. Del tempo devono dedicarlo gli staff di unità nella accurata verifica del lavoro fatto l’anno precedente in relazione agli obiettivi che il gruppo si era posto con il Progetto educativo. Del tempo deve dedicarlo l’animatore (Capo gruppo) per una verifica, identica alla precedente, che consideri la Comunità capi ed il gruppo in generale. Del tempo devono dedicarlo i singoli capi per una verifica della loro esperienza di presenza in Comunità capi, e quindi del servizio prestato in unità e di ciò che intendono effettuare nell’anno entrante. E’ questa in genere “l’attività estiva” dei gruppi e dei singoli capi. All’inizio dell’autunno tutto dovrebbe essere pronto o almeno pensato. Si va così all’incontro d’inizio anno. Ad esso possono essere consacrati tre-quattro giorni o una serie di pomeriggi-sera. Sarebbe bello e caratterizzante incontrarsi, per iniziare a lavorare, chiedendo al Signore di realizzare, attraverso le nostre disponibilità ed i nostri problemi, la sua volontà nel nostro Servizio. Un inizio nel nostro stile non sarebbe niente male, magari sulla strada, trovando il modo di dedicare dello spazio per ritrovare il nostro modo di lavorare insieme: crescendo e verificandosi. Gli altri giorni potrebbero essere organizzati in sede. Dopo il momento di preghiera lungo la strada, è l’animatore che propone la sua riflessione su quanto e come è stato realizzato nell’anno precedente in Comunità capi; i riferimenti costanti del discorso dovrebbero essere l’ambiente sociale, la Parrocchia, l’Associazione, il nostro essere “capi nella Comunità, i problemi più diffusi nei nostri ragazzi e…” Se quel che si dirà nelle discussioni, d’ora in avanti, rimane scritto, rappresenterebbe un buon riferimento per tutto l’anno e forse per il successivo. (…) Un’analisi dell’organizzazione generale del gruppo, della sua amministrazione, del suo magazzino, delle sue sedi, dei suoi rapporti con il Consiglio Pastorale, con il quartiere o con il paese chiude la prima parte dell’incontro. Da qui in avanti si entra nella fase di programmazione. Il riferimento a questo punto dovrebbe ancora più essere il “Progetto educativo”. (…) Gualtiero Zanolini, Scout-Proposta Educativa, 1983, n. 32, pp. 5-6 Il Progetto educativo, né guida rapida né enciclopedia Saper progettare non è una dote gratuita: lo si impara con un esercizio prolungato nel tempo. Il metodo scout ha il merito impagabile di insegnare a progettare la propria vita attraverso strumenti che di per sé sembrano banali, come cucinare al campo o giocare con le zattere. E tutto ciò senza essere costretti a partecipare a costosi e mefitici master, dove ti lavano il cervello con gli insopportabili diagrammi di flusso.(…) Che cos’è e come funziona questo progetto lo si trova scritto nello Statuto dell’Agesci, che qui non riporteremo, anche se potrà scapparci qualche frammento di definizione. Cerchiamo piuttosto di capire quali sono gli errori più frequenti, i rischi che si corrono più facilmente nell’uso e nell’abuso del Progetto educativo. Un altro metodo alternativo al metodo Nel Progetto educativo la Comunità capi racconta, in termini comprensibili a tutti, quali sono le aree di impegno prioritario per il gruppo, dopo aver osservato le esigenze educative dei propri ragazzi. Talvolta però, questo racconto viene imprudentemente lasciato nella mani di cervelli così fini, che questi ne fanno una palestra personale di raffinata elaborazione. Capita di imbattersi in progetti in cui si descrive come si realizza una caccia, un’impresa o un capitolo con tale ricchezza di analisi che sembra di trovarsi di fronte ad un nuovo metodo scout, alternativo a quello già descritto nei regolamenti (oppure ad una ripetizione delle stesse idee, ma con parole più difficili). Non ci serve un altro metodo, oltre a quello che abbiamo già. L’enciclopedia Se il Progetto educativo si sviluppa per quaranta pagine, con un’appendice bibliografica ed un indice analitico, otlre a un cd rom allegato con i documenti e gli esercizi da svolgere, sarà difficilmente utilizzabile dalla Comunità capi. Occorre piuttosto uno strumento pratico, consultabile facilmente, un riferimento continuo da tenere in tasca. Il documento esoterico Il Progetto educativo non può essere un documentino esclusivo, pieno zeppo di riferimenti a persone o a situazioni comprensibili soltanto a chi l’ha compilato (chi entrerà in Comunità capi l’anno successivo avrà già bisogno dell’interprete). Non può quindi essere scritto in un gergo altrettanto denso di formule e sigle inaccessibili a chi non è scout. Il Progetto educativo deve essere piuttosto un raccordo con il mondo esterno, cioè il mondo vero, quello dei genitori, della scuola, della parrocchia, delle altre associazioni educative o di volontariato con cui si lavora in rete. Scolpito nella roccia Un progetto intelligente è flessibile, elastico, non pietrificato. Se nel momento in cui abbiamo finito di compilarlo vengono a bussare alla nostra porta i profughi di un gruppo vicino, che, per disgrazia, è stato espulso dalla sede naturale, non possiamo dir loro di tornare fra tre anni, quando cioè metteremo mano al progetto nuovo. Il Progetto educativo è destinato alle persone, e, come tutti i progetti personali, si deve adattare ai casi della vita, al destino, alla vincita alla lotteria che cambia lo scenario. Copertina nuova, libro vecchio Ogni tre anni riscriviamo il nostro progetto. Potremmo scegliere la via più comoda, quella del ritocchino formale che modifica una parola qui e una là, mettendo alla fine una copertina nuova; ma così avremo un progetto senza significato, non più aderente alla storia e alle persone, una bandierina da mettere in cima alla torre della sede là dove si posano le cornacchie al termine della cena. Il progetto indica gli obiettivi ed i percorsi educativi che il gruppo vuole vivere in questo momento; orienta l’azione educativa di questa particolare Comunità capi; aiuta gli staff delle unità a garantire la continuità della proposta, senza strappi nel passaggio da una branca ad un’altra. Bisogna perciò avere il coraggio di studiare effettivamente che cosa è cambiato nel gruppo, e quali sono i nuovi obiettivi da raggiungere. Trascorsi tre anni, quanti sono i capi superstiti tra quelli che avevano firmato il progetto precedente? A tutti i costi Ma è indispensabile che il gruppo abbia un Progetto educativo a tutti i costi, soltanto perché su “Proposta Educativa” è scritto che ciò è importante? Che senso avrebbe compilare comunque un progetto, anche senza sapere come riempire i fogli? Vi sono delle fasi storiche – momentanee – in cui il Progetto educativo potrebbe non essere indispensabile. Ma qui ciascuno deve rispondere sinceramente, non c’è test o allegato ai documenti nazionali che dica qual è la via giusta. Stefano Garzaro, Scout-Proposta Educativa, 2005, n.23, pp.14-15 Una Comunità di capi nella Chiesa Vita di fede e dimensione ecclesiale della Comunità capi Una Comunità di capi, in quanto costituita da adulti che hanno compiuto una scelta di fede, che educano a valori cristiani, che operano in un’associazione cattolica, non può non costituire un nucleo vivo della Chiesa, non può non crescere nella fede e nella spiritualità, non può non vivere come comunità di cristiani che abbia al centro la Parola di Dio. La Comunità capi e la comunità cristiana In questa parte riportiamo le pagine più significative del Progetto Unitario di Catechesi del 1983 e di un recente volume sul Sentiero Fede dei Capi Agesci, che fissano le coordinate principali della missione della Comunità capi nella comunità cristiana e della dimensione spirituale della Comunità capi. Il PUC evidenzia il ruolo specifico della Comunità capi all’interno della comunità cristiana come comunità di servizio che sviluppa l’azione educativa dello scautismo, vivendo un carisma particolare ed esercitando un “ministero di fatto”, entrando a pieno titolo nella Chiesa locale in complementarietà ed integrazione con altri ambienti educativi. In tale contesto svolge attività di formazione permanente, aiutando i Capi ad approfondire la loro vita cristiana secondo la “spiritualità del Capo” (di cui elementi importanti sono la solidità, la continuità, la responsabilità, la speranza, il rispetto del mistero del ragazzo, il rapporto personale con Dio, la spiritualità scout). Come elemento centrale di un programma di formazione permanente di Comunità capi si pone la necessità di approfondire continuamente l’evento-mistero dell’Incarnazione e la formazione alla missione profetica, sacerdotale e regale di Gesù. Il Sentiero Fede attualizza ed approfondisce questi aspetti, richiamando la Comunità capi all’impegno della Chiesa locale per la comunione ecclesiale e il coordinamento pastorale ed una continua attività interna di animazione spirituale, per la quale si offrono suggerimenti ai Capi Gruppo. Responsabilità della Comunità capi per l’educazione della fede Il ruolo specifico della Comunità capi all’interno della comunità cristiana a) La Comunità capi non è una comunità di vita ma una comunità di servizio educativo all’interno della comunità civile ed ecclesiale. La scelta cristiana della Chiesa che i Capi compiono li impegna ad orientare la loro azione educativa secondo questa opzione ed a mettersi al servizio della Chiesa per la evangelizzazione e l’iniziazione cristiana. Attraverso il ministero dell’Assistente, mandato dal Vescovo, la Comunità capi fa parte di pieno diritto della Chiesa locale, medita la Parola di Dio, celebra l’Eucarestia e partecipa alla missione della Chiesa. Ogni Capo in quanto educatore alla fede riceve in qualche modo un mandato, esercita un “ministero di fatto” (cfr. Evangelizzazione e Ministeri, n. 67). Il riconoscimento ecclesiale che i Vescovi hanno dato alla nostra Associazione significa un vero mandato di essere testimoni e portatori del lieto annuncio: ogni capo, tramite la propria Comunità capi, diviene partecipe di questa missione, che comporta una grossa responsabilità. b) La Comunità capi vive all’interno della comunità ecclesiale con un proprio ruolo, che è quello di sviluppare l’azione educativa dello Scautismo: un metodo educativo che mette in particolare evidenza lo sviluppo integrale dell’uomo nelle sue diverse potenzialità e l’integrazione di fede e di tutta l’esperienza cristiana con la vita personale e quotidiana. La Comunità capi, vivendo il proprio carisma, si pone perciò all’interno della comunità cristiana con un ruolo di complementarietà. c) Per svolgere opera di complementarietà e di integrazione educativa la Comunità capi si mette in rapporto: - con i genitori: essi sono chiamati “i primi educatori della fede”. Anche quando non sono preparati a collaborare o addirittura sono indifferenti è necessario instaurare con loro un certo dialogo e coinvolgimento perché l’educazione alla fede in bene o in male passa attraverso di essi; - con la parrocchia o le parrocchie. L’Agesci ha una peculiare vocazione che non deve essere perciò confusa con altre associazioni o movimenti. Assieme al diritto ad uno spazio proprio, ha il dovere di impegnarsi con umiltà e coraggio per costruire il massimo di unità possibile, con una presenza attiva nei consigli pastorali e nelle varie iniziative di carattere educativo e quindi soprattutto nella catechesi. Come è stato rilevato negli obiettivi del progetto (cap. I) i Capi sono chiamati o ad integrare la catechesi parrocchiale (ad esempio nelle branche L/C) od anche a fare opera di supplenza quando la catechesi parrocchiale manca (spesso nelle branche E/G ed R/S). Una Comunità capi può trovarsi: - inserita direttamente in parrocchia: in questo caso, se la parrocchia ha un suo piano pastorale, la Comunità capi cercherà di armonizzare i propri momenti specifici di catechesi con quelli offerti dalla parrocchia, evitando i doppioni e colmando le lacune che vi riscontra; - situata fuori da una struttura parrocchiale: in questo caso va tenuto presente che i ragazzi del gruppo hanno (o dovrebbero avere) anche rapporti con la loro parrocchia. Occorre prestare attenzione a non porsi come struttura parallela, ma educare il ragazzo a cogliere il valore della appartenenza ad una Chiesa locale, territoriale, (più completa come l’immagine del popolo di Dio): così l’itinerario di catechesi del gruppo sarà integrativo a quello parrocchiale. Una vera vita ecclesiale non si esaurisce mai in una sola comunità (che diverrebbe chiesuola) ma si apre continuamente alle altre Chiese: perciò diventa importante tenere conto delle linee pastorali diocesane, e delle indicazioni che vengono dalla Conferenza di tutti i Vescovi italiani. Lo Scautismo è una associazione mondiale che ha particolarmente a cuore l’ecumenismo e la fraternità universale. L’Agesci si pone perciò come strumento di collaborazione con le altre componenti ecclesiali (Associazioni e Movimenti). La Comunità capi vive anche l’impegno missionario, per scoprire ovunque gli innumerevoli germi di comunione che lo Spirito di Dio sparge nel cuore degli uomini (anche in quelli che sono lontani dalla fede, dalla Chiesa, o addirituttura ad essi ostili), e per collaborare alla costruzione del Regno di Dio. Come la Comunità capi si prepara al servizio di educare alla fede Per poter svolgere il loro servizio dei educatori della fede, i Capi hanno bisogno di vivere essi stessi quelle esperienze di vita cristiana che si sono impegnati a trasmettere. La Comunità capi deve quindi assicurare la formazione di base e la formazione permanente, che aiuti i Capi ad approfondire la loro vita cristiana secondo la “spiritualità del Capo”. a) Caratteristiche della spiritualità del Capo Per spiritualità del Capo intendiamo un particolare atteggiamento interiore, frutto di un cammino e di un cosciente impegno formativo. Ci pare di poter così riassumere le linee portanti di questa spiritualità nei seguenti punti: - una solidità acquisita nel tempo della propria crescita e nell’iter di formazione capi, che approda ad una certa sicurezza del proprio progetto umano-cristiano, della propria fede, delle proprie scelte sia generali che quotidiane, e del proprio essere Capo nello Scautismo. E’ una solidità che non pesa sui ragazzi come un modello obbligato, ma che trasmette quella certezza di fondo che incoraggia a cercare nel medesimo senso e sulla medesima strada, e quella gioiosità che proviene appunto dal sentirsi sulla strada della verità. Questa solidità non è in contrasto con l’essere “in ricerca”. Nel Capo significa avere già delle basi certe ed esplicite che stimolano uno sviluppo e una critica attenta e coscienziosa, a distinguere ciò che è assoluto da ciò che è storico; - una continuità che superi gli sbalzi d’umore, le stanchezze, le delusioni. Il “mestiere del Capo” è troppo importante e decisivo per l’animo del ragazzo, e non ci si può quindi permettere di abbandonarli a intermittenza, o di allentare l’interesse verso di loro, né tanto meno di influenzarli con la propria debolezza, con la sfiducia in sé e negli ideali che si propongono. Non si pretende che il Capo sia infallibile o impeccabile, ma che abbia ormai raggiunto una padronanza di sé che lo renda capace di continuità. E’ chiaro che le inevitabili “crisi” che sopravvengono, verranno affrontate nella Comunità capi che ha il compito di sostenere il cammino del Capo; - una responsabilità globale verso i ragazzi che, volere o no tendono a rassomigliare al Capo. Non è paternalismo, né volontà di creare la propria immagine e somiglianza, non è attaccamento morboso e permaloso, malato di gelosia e di ricatti, ma è un rapporto gioioso e fecondo in cui la convivenza e la condivisione sono di primaria importanza. - Queste tre “virtù” si possono anche riassumere nella speranza, nella fiducia, nell’ottimismo: cioè nella certezza di essere strumenti di Colui che solo è Maestro e Padre, e solo è educatore nel senso più vero. Di qui nasce il rispetto per il mistero del ragazzo e della sua crescita imprevedibile, la capacità di attesa e di coinvolgimento con ciascuno in modo da essere per tutti sempre un aiuto, un incoraggiamento, uno stimolo a trovare e seguire la propria strada. Una religiosità serena e fiduciosa, oltre che motivata e nutrita teologicamente, che mette il Capo nella luce del progetto di Dio e lo fa sentire strumento e collaboratore. L’educatore non è mai “libero professionista”, ma è sempre inserito nel “gioco di Dio” che coinvolge anche lui. In questo senso, la Comunità capi e l’Associazione diventano ambiti concreti di questa solidarietà fondamentale. Una spiritualità scout (cfr. cap. III) nel senso che il primo a vivere l’ideale scout e a essere scout ogni giorno, è proprio il Capo, così che la sua azione sia sempre lo straripare di quanto vive lui stesso. b) Centralità del mistero dell’Incarnazione nella formazione dei Capi Nel tentativo di proporre una sintesi di programma di formazione permanente nella Comunità capi, mettiamo in evidenza la necessità di approfondire continuamente l’evento-mistero dell’Incarnazione. E’ questo mistero, di fatto, che in maniera più specifica permette di comprendere quella mutua compenetrazione tra fede e vita che sta alla base di ogni autentica educazione cristiana, ma che è oggetto di particolarissima attenzione nella educazione scout, come è stato detto più volte (cfr. cap. I “fedeltà a Dio e all’uomo” e tutto il cap. II). Attraverso la meditazione del mistero della Incarnazione, i Capi si rendono conto che Dio non è estraneo alla loro vita perché ha scelto di porre la sua tenda in mezzo agli uomini (Es, 33, 7-11; Gv 6, 31-36 ecc.), di offrirsi come acqua viva (Gv 4,1-42; 7, 38), di farsi perfino cibo di ogni uomo (Es 16, 1-35; Gv 6,31-36). Nella riflessione sul mistero dell’Incarnazione ogni Capo comprende la universalità del mistero cristiano: è per la Incarnazione (morte e risurrezione) di Cristo che non esistono più né Ebrei, né gentili, né schiavi, né liberi, Dio non fa preferenza di persone (At 10,34) ma tutto riconcilia a sé (Ef 2, 14-18) Ed allora il Capo sente ispirazione e forza per superare ogni divisione dentro e fuori di sé: fra corpo e spirito, fra fede e vita, fra cultura e cultura, fra ambienti sociali diversi ecc., e per costruire quindi quell’unità fra l’uomo e la natura, e ogni altro uomo e Dio stesso, che è l’obiettivo fondamentale del Cristianesimo ed anche dello Scautismo. Dal mistero dell’Incarnazione deriva la centralità di Cristo. Il Capo guarda a Cristo come al primo vero “Capo”. Credendo in Lui, entra in comunione con Lui, che è via, verità e vita (Gv 14,6). Il dialogo con Cristo nella preghiera, lungi dal condurre all’evasione spiritualistica, stimola ed illumina il dialogo con ogni uomo, così importante per ogni Capo scout, perché l’azione educativa è tutta impostata sulla capacità di comunicare e lasciarsi coinvolgere nel “grande gioco”, donandosi come Cristo. “Aprendo le porte a Cristo” si mette in moto un duplice movimento: un graduale sviluppo di tuta la realtà umana e un graduale inserimento nel mistero di Dio. Il rapporto con Cristo è contemporaneamente partecipazione alla Sua missione profetica, sacerdotale e regale. Il Capo riceve una “missione”, il Capo è in “servizio”. In sintonia con l’invito di Cristo che ha detto: “Il più grande di voi sarà vostro servo” (Mt 20,26), il Capo considera il suo ruolo come un servizio, e la sua fede non è vissuta come un dono da conservare gelosamente, ma come missione: fare qualcosa perché si realizzi il Regno di Dio e cioè per fare un mondo migliore di come lo si è trovato. c) Formazione alla triplice missione di Cristo Nel cap. II sono state delineate le tre “attività” fondamentali a cui, attraverso l’iniziazione cristiana, i Capi si impegnano ad educare e “familiarizzare”: la proclamazione e l’ascolto della Parola di Dio, la celebrazione liturgica, la progettazione e l’attuazione di forme di vita e di modelli di comportamento. Come è stato detto nell’allegato G del cap. II, queste tre attività ecclesiali sono l’esercizio della triplice missione di Cristo e con Lui di ogni cristiano. Per poter educare i ragazzi a questa missione è necessario che i Capi per primi vi siano formati. La missione profetica (in rapporto alla conoscenza del messaggio): è la missione di conoscere ed annunciare la Parola di Dio, che è sempre parola “nuova”: cristiano è colui che conosce il pensiero di Dio e che parla in nome di Dio (cfr. Rinnovamento della catechesi, n. 198). Il Capo, consapevole di questa missione profetica, sente la gioia e la responsabilità di “parlare in nome di Dio”. La Comunità capi deve dunque programmare la formazione permanente all’ascoltointerpretazione- attualizzazione della Parola di Dio, soprattutto nella sua concretizzazione biblica (cfr. Allegato D, cap. II). Non si chiede ai Capi di essere degli “esperti”, ma di saper comprendere il linguaggio biblico, unico e molteplice, dei vari libri della Bibbia, e di saper cogliere il messaggio di Dio all’uomo di oggi. La lettura biblica in Comunità capi dovrà essere preparata da qualcuno, ma a ciascuno è aperta la possibilità di esercitare il “senso della fede e la grazia della Parola”, arricchendosi la fede dell’uno con la fede dell’altro. Per questa “pratica della Parola” può servire come schema la “liturgia della parola” e si può prendere come sussidio il “lezionario per la Messa” specialmente nei tempi liturgici forti. Potranno anche porsi questioni da risolvere in riferimento all’insegnamento della Chiesa (ad esempio con il “Catechismo degli adulti”), ed eventualmente in luoghi e momenti opportuni. La conoscenza della Bibbia può realizzarsi partecipando ai Campi Bibbia dell’Agesci o partecipando ed eventualmente anche organizzando Corsi biblici in collegamento con la Chiesa locale. Lo studio della Bibbia richiede una programmazione per una conoscenza graduale: ad esempio introduzione generale alla Bibbia, conoscenza approfondita di un Vangelo e poi dei quattro Vangeli, degli Atti, delle lettere degli Apostoli, di alcuni libri più importanti dell’Antico Testamento, temi biblici ecc. … La missione sacerdotale (in rapporto alla “educazione alla preghiera ed alla celebrazione”): missione sacerdotale è unirsi a Cristo sacerdote nel continuo dialogo con il Padre e nell’offrire a lui la propria vita (vocazione – consacrazione) e tutta la realtà in cui si è inseriti (mediazione sacerdotale) (cfr. Allegato G del II cap). Ogni Capo ha bisogno di essere aiutato per la preghiera personale e ad inserirsi nella preghiera comunitaria, a vivere con consapevolezza e partecipazione l’Eucarestia e la liturgia annuale. Anche per la formazione alla preghiera ed alla liturgia è necessario che la Comunità capi sappia darsi un programma: per la preghiera delle riunioni, per esperienze “forti” di preghiera in periodi particolari. Compito della Comunità capi è anche fornire degli stimoli e dare degli aiuti per la preghiera personale dei Capi: indicando obiettivi, contenuti e modalità. Inoltre per aiutare a vivere personalmente ed in comunità il cammino della Chiesa nelle tappe dell’anno liturgico, la Comunità capi programma la conoscenza graduale del significato della liturgia, dell’anno liturgico e dei sacramenti e prepara momenti celebrativi comunitari da vivere a livello di gruppo Agesci o da condividere con la più ampia comunità cristiana, specialmente nei momenti forti dell’anno liturgico. La missione regale (in rapporto con “l’educazione alla prassi morale”): è la missione di collaborare alla realizzazione del Regno di Dio. A tale missione è chiamato non solo il singolo cristiano in forza del proprio battesimo, ma anche ogni comunità cristiana. Questa missione consiste nella testimonianza personale e comunitaria attraverso scelte concrete; è impegno ad essere portatori di quelle istanze vitali che costituiscono la “novità cristiana”, accettando di vivere da protagonisti, anche se richiede fatica, all’interno della vita ecclesiale (ad es. nei consigli pastorali) e della vita sociale (ad es. quartiere, scuola, politica ecc.). Le proposte del Vangelo e gli insegnamenti del magistero sono il punto di riferimento essenziale e normativo per le scelte morali. Esse hanno però bisogno della riflessione, del confronto, della verifica comunitaria. La Comunità capi ha il compito di stimolare questo discernimento morale per una sempre maggiore fedeltà al Vangelo nella vita. In particolare è necessario programmare l’approfondimento del rapporto fra coscienza e legge morale, affrontare problemi morali della vita personale, familiare e sociale, anche quelli che di giorno in giorno si presentano alla coscienza della Chiesa e di ogni cristiano. Agesci, Progetto Unitario di Catechesi, Ancora, 1983, pp.127-134 Le responsabilità del capo della Comunità capi La Comunità capi e la comunità cristiana La catechesi è compito della Chiesa. Il rinnovamento della catechesi al n. 200 afferma: “Prima sono i catechisti e poi i catechismi, anzi prima ancora sono le comunità ecclesiali”. Quindi la comunità cristiana, guidata dal vescovo, ha la responsabilità indivisa dell’azione catechistica e tutti i credenti che ne fanno parte hanno responsabilità comune nei confronti della catechesi; i catechisti operano sempre “in nome della Chiesa, e devono perciò sentirsi sostenuti dalla stima, dalla collaborazione, dalla preghiera della intera comunità”; i catechismi sono strumenti che esprimono i contenuti universali della fede nel contesto di una comunità secondo una specifica funzionalità pastorale. “La catechesi è intimamente legata a tutta la vita della Chiesa. Non soltanto l’estensione geografica e l’aumento numerico, ma anche, e più ancora la crescita interiore della Chiesa, la sua corrispondenza al disegno divino dipendono essenzialmente da essa”. In particolare, la catechesi della iniziazione cristiana dimostra la necessità di una comunità cristiana: non si tratta, infatti, solo di un insegnamento che potrebbe essere impartito da specialisti, ma di un insieme di esperienze ed attività a cui si può essere introdotti solo vivendo in una comunità ecclesiale. Nella comunità è possibile individuare esperienze differenziate: in primo luogo la famiglia, soggetto insostituibile di catechesi; l’assemblea liturgica ed in particolare quella domenicale; quindi i sacerdoti, i catechisti e quanti attendono a compiti educativi. Ciò richiede anche un coordinamento sapiente con tutta l’attività pastorale (vita liturgica, associazionismo, attività caritative e sociali) ed anche la ricerca rispettosa di ogni possibile collegamento con la scuola ed altre agenzie educative. Il compito del coordinamento spetta al vescovo e ai sacerdoti, chiamati a riconoscere e promuovere i “carismi”, i doni che il Signore distribuisce ai credenti, e a dare mandato esplicito ad alcuni per il compimento di un “mistero” specifico nella comunità. Come associazione educativa scout che vive in Italia, l’Agesci si è impegnata a vivere nella Chiesa cattolica in comunione con i pastori, per realizzare nel modo suo proprio la missione fondamentale della Chiesa, cioè l’annuncio di Gesù Cristo agli uomini. Responsabili diretti dell’annuncio cristiano nell’esperienza scout sono le Comunità capi, dove gli educatori laici insieme con i sacerdoti assistenti, elaborano in concreto la proposta educativa. Per questo si richiede ai capi che acquisiscano sempre più coscienza, competenza e coerenza nella loro fede e nello svolgere la loro azione educativa secondo questa opzione. Lo scautismo si propone la formazione integrale della persona umana ed è fondamentalmente religioso, perché mette come base per la vita “la pietà verso Dio, l’amore per il prossimo e l’amore per se stessi in quanto servi di Dio”. In piena coerenza metodologica, l’educazione religiosa nello scautismo non è mai soltanto apprendimento teorico, riflessione, meditazione ma contemporaneamente è azione, ricerca, vita attiva e, per l’Agesci, è azione, preghiera e vita nella comunità ecclesiale. Tale esperienza è offerta anche ai ragazzi che non hanno fatto professione di fede cristiana: questa è una caratteristica che può differenziare l’Agesci da altre associazioni ecclesiali e talvolta provoca difficoltà in particolari ambienti e situazioni. A tutti, però, si propone con chiarezza che la vita scout nell’Agesci è anche un cammino di fede da compiersi in rapporto all’età, insieme con il gruppo dei coetanei, per scoprire ed accettare il Cristo vivo oggi nella Chiesa. La Comunità capi è collegialmente responsabile della proposta educativa, dell’integralità della progressione personale di ciascun ragazzo, compreso l’aspetto religioso. Rimane a ciascun capo l’impegno, che scaturisce dalla personale scelta cristiana della Chiesa per l’evangelizzazione e l’iniziazione cristiana. Il riconoscimento ecclesiale che i vescovi hanno dato alla nostra associazione significa un vero mandato ad essere testimoni e portatori del lieto annuncio: ogni capo, tramite la propria Comunità capi, diviene partecipe di questa missione ed esercita un “ministero di fatto”. Corresponsabili dell’educazione alla fede sono i capi gli assistenti ecclesiastici, chiamati ad essere testimoni della fede, secondo il loro specifico ministero nella Chiesa. Attraverso il ministero dell’assistente, mandato dal vescovo, la Comunità capi entra in un rapporto stretto con la chiesa locale, medita la Parola di Dio, celebra l’eucarestia e partecipa alla missione della Chiesa. Nella comunità ecclesiale la Comunità capi si distingue per un proprio ruolo specifico: sviluppare l’azione educativa dello scautismo. Quest’azione è perfettamente coerente con l’impegno missionario, catechetico ed educativo della Chiesa e compito della Comunità capi è di svilupparla in modo che risulti concretamente armonizzata con i piani pastorali della realtà ecclesiale di riferimento: la parrocchia, un gruppo di parrocchie, una zona pastorale, una diocesi. Per questo, assieme al diritto di avere uno spazio proprio, la Comunità capi ha il dovere di impegnarsi con umiltà e coraggio per realizzare la più ampia comunione ecclesiale ed il miglior coordinamento pastorale, con una presenza attenta nei consigli pastorali e nelle varie iniziative di carattere educativo, soprattutto nella catechesi. Lo scautismo, con il suo specifico metodologico e la propria spiritualità, è generalmente chiamato ad integrare la catechesi parrocchiale (ad esempio nelle branche L/C); talora potrà essere chiesto di supplire quando la catechesi parrocchiale manchi (spesso nelle branche E/G ed R/S) o quando la comunità ecclesiale giudichi che il progetto di iniziazione cristiana possa essere realizzato più efficacemente all’interno dell’esperienza scout. In ogni caso, il cammino scout non è mai estraneo all’itinerario di iniziazione cristiana, un “cammino di fede e di conversione con cui l’uomo, mosso dall’annuncio della buona novella, viene gradualmente introdotto nel mistero di Cristo e della Chiesa” e per questo la Comunità capi è chiamata ad un rapporto di integrazione e complementarietà con i genitori “i primi educatori della fede”. Anche quando non sono preparati a collaborare o addirittura sono indifferenti, è necessario instaurare con loro un rapporto di dialogo e coinvolgimento perché l ‘educazione alla fede, in bene o in male, passa comunque attraverso la famiglia. Nonostante le trasformazioni delle aggregazioni sociali, specialmente nelle grandi città, la parrocchia “resta oggi ancora la prima e insostituibile forma di comunità ecclesiale”; essa rende invisibile in un più ristretto ambiente territoriale e sociale la chiesa locale. La dimensione parrocchiale, assumendo le particolarità sociali e culturali locali nell’universalità della Chiesa, rende possibile il progetto catechetico attuando un immediato – non automatico – processo di inculturazione. Non tutti i gruppi scout vivono in coincidenza con una data parrocchia, spesso – soprattutto nei piccoli centri – raccolgono ragazzi di parrocchie diverse, con le quali è ancora più necessario stabilire contatti e collaborazioni, individuando nel dialogo e nella corresponsabilità le forme più adeguate per offrire ai ragazzi una matura esperienza di ecclesialità. In passato, condizioni culturali e sociali di interi territori e fasce di popolazione realizzavano una sorta di catechesi diffusa, “ambientale”; oggi è più forte l’esigenza di un primo coraggioso annuncio e proprio l’assenza di una molteplicità di agenti di educazione alla fede lascia libertà e responsabilità per una testimonianza sempre più limpida ed originale. I capi sono, dunque, chiamati ad attrezzarsi per essere testimoni competenti, come richiede lo specifico ruolo di educatori e catechisti, e membra vive della Chiesa, che così si arricchisce della originale vocazione riconosciuta all’Agesci. (…) Il cuore della formazione permanente Nel tentativo di proporre un programma sintetico di formazione permanente nella Comunità capi, mettiamo in evidenza la necessità di approfondire continuamente l’evento-mistero dell’incarnazione. Questo mistero permette di comprendere quella compenetrazione tra fede e vita che sta alla base di ogni autentica educazione cristiana, ma che è oggetto di particolarissima attenzione nell’educazione scout. Meditando il mistero dell’incarnazione, i capi si rendono conto che Dio non è estraneo alla loro vita, perché ha scelto di porre la sua tenda in mezzo agli uomini (Es 33,7-11; Gv 6,31-36), di offrirsi come acqua viva (Gv 4,1-42; 7,38), di farsi persino cibo per ogni uomo (Es 16,1-35; Gv 6,31-36). Dal mistero dell’incarnazione deriva la centralità di Cristo nella vita della Chiesa e del cristiano. Il capo guarda a Cristo come al primo vero “capo”. Credendo in Lui, egli entra in comunione con Lui, che è via, verità e vita (Gv 14,6). Il dialogo con Cristo nella preghiera stimola ed illumina il dialogo con ogni uomo, così importante per ogni capo scout, perché l’azione educativa è tutta impostata sulla capacità di comunicare e di lasciarsi coinvolgere nel “grande gioco”, donandosi come Cristo. “Aprendo le porte a Cristo” si mette in moto un duplice movimento: un graduale sviluppo di tutta la realtà umana ed un graduale inserimento nel mistero di Dio. Il rapporto con Cristo è contemporaneamente partecipazione alla Sua missione profetica, sacerdotale e regale. Il capo riceve una missione, il capo è in servizio. In sintonia con l’invito di Cristo che ha detto: “Il più grande tra di voi sarà vostro servo” (Mt 20,26), il capo considera il suo ruolo come un servizio e la sua fede non è vissuta come qualcosa da nascondere gelosamente, ma come dono che spinge alla missione: fare qualcosa perché si realizzi il regno di Dio e, cioè, per fare un mondo migliore di come lo si è trovato. Anche testimoniando il proprio personale impegno in un serio cammino di direzione spirituale, il capo farà concretamente comprendere ai ragazzi le esigenze di un valido cammino di fede. (…) La vita di fede in Comunità capi Per suggerire orientamenti sufficientemente chiari in tema di animazione spirituale, va anzitutto sgomberato il campo da un possibile equivoco e cioè dall’immagine di Comunità capi considerata come comunità di vita. E’ il servizio educativo il comune denominatore al quale è affidata l’identità delle Comunità capi dell’Agesci. I capi operanti nel gruppo dovrebbero, quindi, essere degli adulti nella fede. In particolare i Capi dovrebbero avere una buona conoscenza della Bibbia, essere allenati alla preghiera, avere familiarità con la liturgia ed essere maturi nel comprendere e valutare le realtà della vita, nel testimoniare la propria fede. La realtà, che non è di rado diversa, tramuta in genere queste qualità del capo in un traguardo da raggiungere anche (ma non solo) mediante l’animazione spirituale della Comunità capi. Infatti, misurati dalle responsabilità educative verso i ragazzi, “abbiamo il dovere di parlare di Dio: in questo senso la Comunità capi è un organismo missionario, specie là dove si incontrano i lontani”. Più che offrire da sola tutte le occasioni o tutti i mezzi di formazione spirituale, è da ritenersi fondamentale compito della Comunità capi, guidata dal Capo gruppo e dall’assistente,il trasmettere a tutti i capi la tensione morale e la volontà di organizzarsi come credenti. Ciò significa che: - ogni capo deve personalmente fare del proprio meglio per raggiungere la maturità indicata, cercando e cogliendo tutte le occasioni che gli si presentano, dentro o fuori la Comunità capi; - la Comunità capi deve includere nel suo Progetto educativo un sistematico programma di meditazione della Parola, di preghiera, di adorazione, di stimolo alla testimonianza della carità. All’assistente, con l’aiuto del Capo gruppo, spetta cogliere la tensione esistente nella personale progressione di fede di ogni capo e proporre gli itinerari di volta in volta ritenuti più opportuni per maturare una visione globale della fede cristiana. I mezzi sono semplici e vanno dalla preghiera comunitaria allo studio individuale, dalla lectio di un libro della sacra scrittura alla trattazione sistematica del credo e del padre nostro, dalla lettura di un documento del magistero alla messa in comune di riflessioni personali sulla Bibbia, dalla revisione di vita alla partecipazione agli “eventi fede” proposti dall’Agesci ma anche a ritiri ed esperienze di spiritualità proposti dalla chiesa locale o da altri movimenti ed associazioni ecclesiali. Proviamo a delineare uno schema molto sintetico degli elementi che un Capo gruppo dovrebbe tener presenti nel proporre un cammino di catechesi con i suoi capi: 1. Senso della missione: la Comunità capi deve sentirsi investita del mandato educativo e dell’essere, in un modo originale, educatori alla fede; occorre pronunciare, ritualizzare quest’investitura con forme esplicite ed ecclesiali. 2. Capacità “tecnico-tattiche”: i capi devono acquisire concetti chiari in ordine alla fede ed alla sua trasmissione; vanno perciò provocati a verificare e definire gli elementi centrali della fede. 3. Assenza di conflittualità di fondo: il legame affettivo, la lealtà verso la Chiesa, la fiducia ed il rispetto delle potenzialità del gruppo vanno rimarcate ed alimentate con esperienze adeguate. 4. Lavoro di gruppo: il clima aperto e non autoritario non significano vaghezza di ideali; occorre creare una tradizione di gruppo alla quale riferirsi con orgoglio, sentendosi parte della fraternità universale della Chiesa, che va al di là dell’amicizia. 5. Fiducia, profondo senso religioso: l’atteggiamento di fede deve divenire abituale nel capo, come modo di vedere e capire le cose. E’ necessario parlare della dimensione contemplativa del capo, per aiutarlo ad affidarsi ad una guida spirituale. La verifica di questo cammino avviene in diverse direzioni: - orizzontale: tra capi, costruendo un interscambio tra pari, tra compagni di viaggio; - verticale verso l’alto: l’associazione, i campi scuola e gli altri eventi di formazione capi, la zona, sono momenti decisivi e ricorrenti di stimolo e verifica; - verticale verso il basso: il capo non è solo con la sua unità, ma deve poter verificare le cose che dice e la testimonianza che offre, nel tessuto quotidiano delle relazioni nella sua comunità Quello che conta è che nella Comunità capi non ci siano soste nel richiamare costantemente la necessità di una interiorizzazione personale, libera ed originale, di quanto l’associazione offre solo come segno e stimolo. Agesci, Sentiero Fede. Il progetto, Fiordaliso, 2000, pp.152-164 Quale comunità nella fede? La vita di fede ed il sentirsi “membra vive” della Chiesa costituiscono aspetti caratterizzanti una Comunità di adulti educatori scout cattolici italiani. Alcuni interventi ci aiutano ad approfondire il tema. Gualtiero Zanolini (1978), nel rilevare come l’esperienza di preghiera e di Fede in Comunità capi vada oltre il legame con il servizio educativo, offre il modello della “comunità spirituale”, la cui caratteristica è di avere al centro la Parola di Dio come punto di riferimento dell’essere e del servire. Antonio Corrà (1978) sottolinea la missione “ministeriale” della Comunità capi che svolge un compito di evangelizzazione in comunione con la Chiesa. Stefano Salviucci (1979) afferma che la Comunità capi è comunità di Chiesa, il cui servizio è all’interno della Chiesa medesima, svolgendo il compito educativo come ministero (in quanto accoglie) il dono della fede. Graziano Guiotto (1998) osserva come dalla scelta di fede dell’Agesci e dalla sua maturazione della dimensione ecclesiale discenda un impegno delle Comunità capi per un autentico cammino di fede e per ricercare un modello di comunione. Comunità capi, comunità spirituale La mia esperienza personale, come, ritengo quella di tutti voi, si discosta e va oltre quelli che furono i risultati del Convegno ‘72: Comunità di capi educatori in quanto facenti servizio: comunità di fede in quanto capi cattolici educatori alla fede; Comunità di capi in quanto riconosciuti dall’Associazione e via dicendo in questo senso … La via è stata seguita, qualcosa è cambiato, ma si giungerà (o si è giunti) nel cammino di crescita della Comunità capi, ad un punto in cui sarà di nuovo necessario chiarire certi obiettivi. L’esperienza di preghiera e di fede in generale di una Comunità capi è difficilmente riconducibile soltanto al servizio che i capi e le capo svolgono: essa nel maturare è qualcosa che va al di là e che porta a sentire le persone con cui si è chiamati a fare comunità, non più soltanto educatori come te, ma dei veri e proprio fratelli in Cristo. A parer mio non è un passo troppo grande questo, per una Comunità capi che seriamente intraprende un cammino di fede. (…) Centrare una comunità di cristiani su ciò che non è Cristo è quantomeno “difficile”. Portare dei capi a svolgere un servizio senza aver chiarito fino in fondo il significato cristiano del servizio è veramente rischioso. E’ di questi giorni il sentire affermare da un capo: “Svolgo un servizio educativo di tipo marxista in una associazione cattolica”: dietro questa affermazione esistono dei vuoti culturali spirituali di cui dovremo farci carico tutti (se non altro per la dignità filosofica di Marx o di chicchessia … per esempio Gesù Cristo…). (…) Ritrovarsi in una Comunità capi non per bisogno di aggregazione, non perché scontenti dei propri rapporti sociali, non “per fare educazione marxista”, non per “fare servizio” ma in quanto ci si trova fratelli nel Cristo per servire altri fratelli, è secondo me alla base di tutte le scelte. (…) A questo punto la scelta è fra due tipi di essere comunità: l’uno è “spirituale”, l’altro è “psichico”; questa definizione del Bonhoeffer è diamantina per differenziare le nostre comunità in crescita. Vivere in una comunità spirituale significa ammettere coraggiosamente le immense difficoltà di relazione tra i componenti, la sua caratteristica è nell’avere come centro la Parola di Dio, intesa come punto di riferimento dell’essere e del servire (servirla). Vivere invece in una comunità psichica significa vivere nel costante desiderio di rapporto con l’altro in quanto tale: anima con anima come corpo con corpo. “Qui chi è psichicamente più forte si sfoga ed attira l’ammirazione, l’amore o il timore del più debole”. Quest’ultimo tipo di comunità ritengo sia assai più diffuso nella nostra associazione, in esso è coltivato un amore “psichico” per il prossimo. Questo tipo di amore è “capace di compiere anche i sacrifici più inauditi; nella sua ardente dedizione e nei suoi successi visibili supera spesso il vero amore cristiano con una eloquenza sbalorditiva ed elettrizzante”. Paolo, nella prima lettera ai Corinti ci dice a tal proposito: “E quando distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri, e quando dessi il mio corpo arso se ho carità (cioè l’amore di Cristo) ciò niente mi giova”. E’ evidente, secondo me, che come comunità di credenti nel Cristo dovremo tentare di costruire comunità di tipo spirituale forse attraversando nel nostro cammino la fase di “relazione psichica” ma vivendo sempre nella tensione verso la prima. Gualtiero Zanolini, Scout-Proposta Educativa, 1978, n. 6, pp.57-59 Comunità capi: comunità ministeriale Qualunque Comunità capi, nella dinamica educativa, nel suo cammino di Chiesa, perfino nella strutturazione comprendente l’aspetto organizzativo, non può pensare di far parte di un organismo archeologico, né di un progetto tecnico destinato a dimostrare presunte grandezze, ma impiega ogni mezzo per rendere coscienti le singole persone di una dignità e di un compito storico ch e provvidenzialmente a tutti sono stati affidati. In questa presa di coscienza di “una azione originale” si può collocare, come logico corollario, la missione “ministeriale” della Comunità capi. Si capisce come ciò richieda delle condizioni, come ad esempio un’intensa vita battesimale, con le quali si potrà giungere ad esprimere ai fratelli quello che lo Spirito ha compiuto e perfezionato con la sua inesauribile opera all’interno di ogni Comunità capi. Da non dimenticare che tutte le Comunità sono chiamate a svolgere un compito educativo originale in forma organica per la formazione del Lupetto-Coccinella, dell’Esploratore-Guida e dei Rovers-Scolte. Un “servizio” necessario e d’importanza unica per la crescita dei nostri fratelli resosi ancora più attuale a causa di forze disgregatrici presenti nella nostra società secolarizzata, contraddittoria ed ambigua. Un lavoro, il nostro, che deve procedere in perfetta armonia con un piano pastorale della Chiesa locale per non creare eventuali fratture fra un Progetto educativo e un insieme di vita ecclesiale. In questa prospettiva si può assentire con chi precisa che l’Agesci non può e non deve educare i ragazzi ad essere gli “uomini dei boschi”, con una “nostra vita”, tesi solo a superare gli ostacoli per una “nostra” organizzazione. Qualora poi la Chiesa locale sia veramente aperta ai doni dello Spirito, troverà dignitoso riconoscere un compito insostituibile realizzato dalla Comunità capi non tanto e non solo a favore dei ragazzi, bensì a favore di tutti i membri della grande famiglia parrocchiale, perché si tratta di una crescita nella carità. Una Comunità di capi in comunione con la Chiesa, sensibili alle indicazioni dello Spirito, attenti a cogliere i “segni” della storia per convertire noi stessi, rimane senza dubbio Comunità Evangelizzante per quello che “vive” prima ancora che per quello che “fa”. Resta da ricordare che “tutti i battezzati partecipano a titolo diverso a tale ministerialità prima e fondamentale della Chiesa, che è l’evangelizzazione, o ogni membro della Chiesa svolge in essa il suo doveroso ufficio a servizio della salvezza del mondo “. (…) Diventare comunità ministeriale non è un’opera che si improvvisa, né un risultato di intervanti miracolistici compiuti da qualche Capo “piovuto” dal cielo e tanto meno un’impresa da “eroe solitario”. (…) Bisogna credere ad una Comunità capi che vivendo la situazione di Chiesa inserita nella storia, avverte con gioia di poter essere coscienza critica dei disvalori propugnati e seguiti attraverso la testimonianza di una propria povertà vissuta davanti a Dio e nell’accoglienza di quanti hanno bisogno di una mano da fratelli. Ma saremo noi stessi, Comunità capi, che ci sottoponiamo al giudizio della Parola, ponendoci in un atteggiamento di scoperta, di riconoscenza per quello che possiamo compiere di bene; saremo noi stessi a dover essere pronti a mutare perché consci dei nostri difetti, delle numerose pesantezze che non ci permettono di prendere il “volo”, ancora appesantiti dai nostri pregiudizi, stanchi, perché privi della forza del Signore. A questo punto ci metteremo a camminare con più sincerità, con più umiltà, lasciando che le nostre vuote parole muoiano sulle labbra, per lasciar spazio alla strada “di vita” che ci attende tutti. Antonio Corrà, Scout-Proposta Educativa, 1978, n. 24, pp.18-19 Comunità capi: comunità di Chiesa La Comunità capi, se noi leggiamo il Patto Associativo, è indubbiamente Comunità di Chiesa, il cui servizio è all’interno della Chiesa. All’atto pratico ogni tanto qualche dubbio si presenta o perlomeno si sente una certa difficoltà (anche confrontando le esperienze di altre comunità). (…) Mi sono domandato perché c’è questa difficoltà all’interno delle Comunità capi. Perché c’è difficoltà a riconoscersi comunità di Chiesa? (…) Secondo me, il discorso va anche un po’ oltre e riguarda la tendenza delle Comunità capi ad oscillare tra due estremi: - gruppo di coloro che si ritrovano bene insieme e che quindi rischiamo di programmare interventi nel politico, nel sociale e di non essere sufficientemente preoccupati dello specifico scout all’interno di una comunità e quindi di non lavorare per questo. Allora è chiaro che una comunità in questo senso, se si pone lo specifico cristiano al centro e diventa una comunità cristiana, si confonderà con altre comunità, perché perde lo specifico scout. - l’altro estremo è proprio il discorso del fare educazione. La Comunità capi che si pone di fronte a questa esigenza di farsi carico della responsabilità di educatori nell’ambito del Gruppo, rischia di creare delle ambiguità. E questo per il fatto che non si stabilisce un rapporto stretto fra l’essere educatori e l’educazione permanente, cioè tra la funzione di Comunità capi come luogo in cui si elabora il Progetto educativo e ciò che va fatto per i ragazzi, e Comunità capi come luogo in cui è importante che ciascuno riconosca un ambito per la propria crescita, perché ciascuno di noi è continuamente in crescita. Direi che l’accento posto nello Statuto sul fatto che la Comunità capi è formata da adulti che si incontrano per fare dell’animazione, non ci deve far dimenticare il secondo punto è cioè che essi si riuniscono per la formazione dei Capi in quanto educatori. (…) Oggi viviamo in un clima (secondo me giusto) di scoperta della relativa autonomia delle varie dimensioni della realtà umana. Noi oggi abbiamo la convinzione abbastanza precisa che l’educazione ha in sé una sua dignità ed autonomia per cui si può collocare anche al di fuori di un discorso di fede. Si può benissimo fare un discorso di altruismo, di giustizia, di semplicità, di povertà che non sia direttamente radicato sulla fede. (…) Questa secondo me è una scoperta molto bella perché ci pone di fronte ad una realtà bellissima che è il senso della gratuità e di dono della fede; la fede non è una necessità in senso stretto, la fede è un dono di Dio e nel momento in cui io lo accetto gratuitamente non tolgo nulla alla sua bellezza. Questo invece noi ogni tanto lo perdiamo di vista e dire in fondo il primo gesto diseducativo che noi facciamo e quando ciò che è gratuito lo riteniamo di minor valore. Alcune volte i ragazzi affrontano questo discorso dicendo: “Ma se non è necessario, a che serve?” Riconoscere Dio come Padre, riconoscere i fratelli in Cristo non è che direttamente serve, come 2+2 fa 4, è un’altra dimensione, ma è la bellezza di questa dimensione che dobbiamo cogliere. Tutto questo a volte non si riesce a fare. Prevale quindi questo senso di avere in mano uno strumento educativo che funziona anche da sé: allora si dà l’impressione che questo nostro essere cristiani sia tutto sommato un di più e quindi avviene che in un certo senso camminiamo su un doppio binario, cioè portiamo avanti una educazione e una testimonianza cristiana separatamente. Ecco da dove viene fuori il senso di distacco dalla Chiesa; allora ci poniamo il problema se questo è un servizio, oppure non ce lo poniamo affatto, ma allora prescindiamo da tutto il discorso sul problema del servizio come ministero, cioè dell’essere noi comunità cristiana che presta servizio specifico nella Chiesa. Ci collochiamo in un’ottica che finisce per essere diversa o perlomeno la Comunità capi si pone in quest’ottica. Però cosa avviene? Se c’è questo scollamento dei termini la Comunità capi facilmente diventa una comunità che cessa di essere comunità nel senso stretto, ma diventa semplicemente una comunità funzionale, cioè di persone che stanno insieme perché si riconoscono semplicemente nel dover fare educazione in un certo modo, ma in cui ciascuno tiene gelosamente per sé tutta quella che è la sfera della sua comunicazione umana, la sfera della sua ricerca anche religiosa; e allora la religione ricade nel privato e finisce per non essere più un segno ed una crescita di comunità. Abbiamo quindi in alcune ipotesi una Comunità capi che non è più una Comunità capi, ma una vecchia direzione di Gruppo. Posto questo vizio di partenza, che bisogna invece chiarirsi per superare queste difficoltà? Io credo che non possiamo dirci comunità di cristiani e nello tempo non dirci Chiesa, non possiamo dirci comunità di cristiani e nello stesso tempo dire che il lavoro che non facciamo, il lavoro educativo, non è un servizio nella Chiesa. (…) Mi sembra importante sottolineare il discorso dei ministeri all’interno della Comunità capi, prima ancora del discorso del rapporto della Comunità capi con la Chiesa locale perché noi in genere tendiamo sempre a sottolineare prima di tutto quel tipo di rapporto con la parrocchia, con ambienti diversi. A me sembra che invece prima di tutto dobbiamo affrontare il discorso della comunione all’interno della Comunità capi e della comunione nel senso cristiano della parola. Ecco quindi la scoperta di tipici aspetti dell’essere cristiano come le semplicità: una cosa che andiamo tanto chiedendo ai ragazzi che noi educhiamo e di cui le nostre comunità sono molto povere. Semplicità per cui si prega insieme, senza porsi diecimila problemi; si fanno dei gesti insieme senza dover sviscerare prima il capello di quello che il gesto voglia significare e via dicendo. Si recupera la dimensione dell’ascolto con una certa semplicità. Semplicità in ciò che si fa e in ciò che si vuole essere come persone; quindi, se accettiamo come dono il nostro essere cristiani, non dobbiamo continuamente stare a cavillare e a domandarci fino a che punto lo siamo. Cerchiamo di crescere in quello che noi siamo. Così la volontà di riscoprire i termini cristiani della comunità, questa comunione spirituale e non psicologica. P. Stefano Salviucci, in: La Comunità capi nella comunità ecclesiale, Fiordaliso, 1979, pp.50-54 Spiritualità nella Comunità capi degli anni ‘90 “Ed erano assidui nel frequentare ogni giorno tutti insieme il Tempio e spezzando il pane nelle loro case prendevano il loro cibo con gioia e semplicità di cuore, lodando Iddio e godendo del favore di tutto il popolo” ( At 2, 46-47) Non sembri irriverente paragonare la Comunità capi alle prime comunità cristiane raccontate in quel capolavoro delle letteratura lucana che sono gli Atti degli Apostoli. Uomini e donne che faticosamente, ma con gioia e convinzione, cercavano un’identità, avevano voglia di confronto, si scoprivano fratelli, perché il messaggio era chiaro, la meta sicura: Gesù Cristo. Anche loro si erano dotati di un “Patto” costituito da quattro punti: l’ascolto della Parola, ossia l’avventura di Dio dentro la Storia, la comunione fraterna, la frazione del pane, la preghiera. Qui essi si riconoscevano: una Comunità di capi che imparavano a diventare discepoli di Gesù. L’Agesci ha fatto la scelta di fede, precisa, ha il Patto Associativo che la esplicita. I capi, per essere tali, vi devono aderire, con l’intelligenza e con il cuore, senza alchimie, anche se, a mio avviso, vi è la necessità di un approccio più diretto con la Rivelazione. Non ci si può accontentare di una perdurante mediazione psicologica verso la fede, come opportunamente avviene per le branche. Ad un capo si chiede di essere cristiano, maturo e consapevole, con una scelta di fede perseguita con il cuore, la passione, il solo modo utile per poterla trasmettere testimoniandola: “Baden-Powell lo sottolinea fortemente dicendo che il capo deve essere il “manuale vivente” dei suoi scout, testimone personale credibile e persuasivo di quanto egli insegna e propone”. Sappiamo che non è sempre così. (…) Il risultato? L’incoerenza personale, che fa vivere ciò che si dice; l’incompetenza, ossia la difficoltà di approfondimento e di conoscenza della verità fondamentale del credo cristiano, privando anche i ragazzi di cioè che è loro dovuto, anche in termini di fede. “La vera bestia nera della fede è l’ignoranza, intesa come non conoscenza della verità”. Viene pure a mancare la tensione della ricerca continua, l’attualizzazione nel difficile passaggio tra l’enunciazione della Parola e la sua applicazione. Urge un recupero di credibilità personale e di gruppo nel testimoniare al fede, e l’Agesci non parte da zero. L’Associazione ha molto camminato anche in senso religioso: il nostro metodo facilita l’auspicabile, concreto approccio a Cristo. La stessa “produzione documentale” dell’Agesci pone al centro la scelta di fede. Ad aiutare a compiere questo passaggio un ruolo significativo lo assunse il “Progetto Unitario di Catechesi” e più recentemente il “Progetto del Capo”, anche se il PUC, per una sbagliata lettura del testo, scambiato erroneamente più per un manuale-programma di catechesi che per mezzo fondamentale di crescita nella fede all’interno del metodo scout, è stato poco utilizzato, se non addirittura sconosciuto per molti. Il Progetto del Capo è, invece, uno strumento indispensabile per chi voglia procedere nel sentiero più sicuro e più utile agli altri e al tempo stesso lo voglia percorrere con l’aiuto e la condivisione di una comunità di fratelli, ma, anche se insostituibile, non risponde appieno alle esigenze di crescita personale, di gruppo, di confronto, di ricerca di un’identità per un comune sentire. I nodi problematici sul versante fede vanno ricercati nelle scarse capacità di scelta (prima o poi bisognerà pur decidersi), nella poca conoscenza dei “fondamentali” della religione, nei percorsi ancora un po’ troppo “infantili”. Al contrario la Comunità capi deve condurre con convinzione e chiarezza di obiettivi i singoli verso il recupero del senso religioso del servizio, ma lo può fare unicamente se attua un cammino diretto con la Rivelazione. (…) Perché non privilegiare un rapporto con il Vangelo che ci parla di Cristo? “Perché è scomodo. Ma è sempre stato così. Ogni lettura storica della Parola di Dio è filtrata dalla pigrizia umana”. Gli Atti degli Apostoli ci pongono un modello di comunione. Dobbiamo inventare dei modelli di comunione anche in Comunità capi, dove Dio possa certamente porre la sua tenda in mezzo alle nostre. Per compiere il passaggio da maestri, ammesso che lo siamo, a testimoni, come ci raccomanda B.-P., è doveroso progettare il cammino di fede in Comunità capi, che non è la sommatoria di tutti gli auspicabili cammini di fede dei singoli, ma deve avere un suo percorso nel fare esperienza di Cristo. Stiamo parlando di una cosa seria: progettare, che è l’essenza dell’educarci e dell’educare, superando l’occasionalità, anche per la fede, perché “la fede non è teoria astratta, è conversione e vita”. Al mio ingresso in Comunità capi ricordo che mi venne presentata la “Carta di Comunità” sulla quale dovevo meditare e sottoscriverne l’adesione. Accettavo un cammino in una comunità di servizio, una comunità educante, una comunità di formazione, una comunità scout, una comunità di credenti. Uno strumento tra i tanti come mezzi utili li potremmo ritrovare se riacquistassimo creatività simbolica perduta. Pensiamo alla spiritualità della strada, col suo linguaggio, patrimonio tutto scout, talmente sperimentata e saggiato, che se fosse un prodotto commerciale lo potremmo brevettare perché di sicuro successo. Come dovrebbe trovare la giusta collocazione anche in un progetto di cammino di fede comunitario lo spazio di deserto dove coltivare la capacità di silenzio e di ascoltare noi stessi, i bisogni reali dentro di noi, che fanno nascere dei perché, dei desideri che chiedono una risposta che arriva, che vale la pena di ascoltare perché il deserto è il luogo in cui Dio parla, come ha fatto con il popolo di Israele. (…) La dinamica della fede è la stessa della dinamica umana, anela all’amore, alla carità, e quando l’uomo trova ciò che gli riempie la vita, diventa sorgente. E’ da qui che può nascere la dinamica delle Comunità capi, che poi è quella della Chiesa: operiamo nel nome della Parola stessa e la Parola diviene il regno di questa comunione che anima il mondo. Ora sì, diventati testimoni, dando ragione della propria scelta di fede, dobbiamo essere riconosciuti dalla Chiesa locale come “mandati”, che vuol dire diventare comunicatori dello stile di Dio, capaci di dotarci di una indispensabile conoscenza religiosa che permetta di diventare catechisti competenti, dal momento che possibilità di apprendimento e approfondimento catechetico, teologico e liturgico di base non mancano. Graziano Guiotto, R/S Servire, 1998, n. 1, pp.29-32 Una Comunità che si apre Un territorio, un ambiente, un impegno politico per la Comunità capi Una Comunità di capi, in quanto comunità di adulti educatori scout che vive in una società e in un territorio, non può fermarsi a costruire legami e ad assumere impegni per la crescita solo all’interno del Gruppo, ma deve anche (senza rinunciare al proprio specifico educativo e anzi per renderlo più autentico e più profondo) costruire legami e assumere impegni per la crescita di una comunità civile e ecclesiale più grande (anche se con caratteri diversi), come nucleo vivo di cittadini attivi “Membra vive” di un ambiente Nella fase nascente della Comunità capi, sotto la spinta di una crescita a tutti i livelli della partecipazione sociale e politica, si sottolinea da più parti la necessità di una presenza sociale e politica e di un impegno che qualificasse ulteriormente il compito educativo. Così Eugenio Banzi (1977) evidenzia la proiezione del Progetto educativo nel quartiere in cui si è presenti attivamente, stabilendo una collaborazione con partiti ed organismi. Vittorio Pranzini (1982) esamina il rapporto tra scautismo e ambiente inteso nei due sensi (utilizzare elementi dell’ambiente a fini educativi, estendere la propria opera educativa al di fuori dell’associazione). Contro ogni tentazione di arroccamento, di sfiducia o di resa, occorre vivere l’ambiente come mezzo educativo che consente di conciliare l’educazione individuale e quella sociale. Vittorio Ghetti (1982) approfondisce ulteriormente il tema e sottolinea quattro dimensioni politiche delle Comunità capi: comunità di cambiamento, scelta dei poveri, credere nell’utopia (intesa come affermazione della giustizia), ricerca del bene comune pagando di persona. La Comunità capi è soggetto politico in uno specifico territorio e in uno specifico ambiente senza diventare luogo di militanza politica. Partecipazione di quartiere Quartiere: riscoperta di una dimensione dove vivere la nostra esistenza di uomini e donne in modo semplice e realmente umano. Già la ricerca di questa dimensione è una precisa ricerca politica che l’associazione propone ai giovani e a tutti gli altri. È indispensabile, però che ci sia un confronto sul come intendere il quartiere, come parteciparvi, come essere costruttori di questa riscoperta realtà. La partecipazione nel quartiere deve essere considerata come una “esperienza di servizio”, verificabile continuamente nella Comunità rover/scolte. Secondo la mia esperienza, va richiesto ai ragazzi di trovare continuamente forze nuove di animazione e di partecipazione, cioè va proposto loro di educarsi alla partecipazione con tutti gli altri giovani del quartiere. Solo in questo modo si può limitare in futuro l’assenteismo di molti adulti. Creare insieme ad altri un centro di animazione del quartiere (o collaborare, se esiste già) coinvolge tre momenti fortemente educativi: il contatto con altre persone ed organismi; l’elaborazione di una proposta operativa originale e seria; l’azione costruttiva nella realtà del quartiere. La motivazione principale del centro di animazione è l’educazione alla partecipazione sociale; questa attività coinvolge con gradualità i ragazzi a tutti i livelli (lupetti, esploratori, rovers) ed è importante che sia fatta in collaborazione con gli enti locali e non semplicemente come azione isolata. In questa luce la Comunità capi si colloca come comunità di adulti con un suo Progetto educativo, che si confronta con gli operatori sociali della zona (insegnanti, consigli d’istituto, altre associazioni o organismi che operano con i giovani). In questo modo la nostra proposta non è solo diretta al ragazzo ma anche alla realtà circostante. La Comunità capi deve quindi elaborare, tenendo conto della realtà sociale ed ecclesiale, un suo Progetto educativo con i valori propri nostri, progetto che però dovrà essere proiettato nel quartiere come proposta educativa. È importante, però, che tutto questo sia elaborato in Comunità capi e solo dopo concretizzato metodologicamente nelle unità con tempi e modi appropriati all’età dei ragazzi, cominciando dalla comunità R/S. Un altro punto da verificare è la disponibilità delle famiglie a sentirsi coinvolte (le famiglie devono essere le prime ad essere coinvolte, sia nel Progetto educativo che nella proposta educativa esterna). È molto importante che siano i capi in prima persona ad essere inseriti come adulti, come cittadini nella gestione e nella partecipazione come adulto dietro l’attività della sua unità. Il capo deve saper dividere la sua azione nel quartiere, talora come adulto (anche tramite la Comunità capi), talaltra come educatore con la sua comunità di giovani, ricordando che la sua azione deve essere in conseguenza dell’elaborazione del progetto della Comunità capi. Agire nel quartiere significa anche stabilire contatti seri e validi con tutti gli organismi (scuole, sindacati, comune, ecc.)ed i partiti. Con questi la collaborazione può risultare più difficile sia perché ogni nostro contatto con organismi politici non sempre è visto in modo obiettivo e sereno, sia perché la logica di partito molte volte non corrisponde alla logica di una attività di quartiere, ed infine per gli eventuali pregiudizi dei partiti su tutto quello che non ha una precisa identità partitica. Comunque la nostra posizione viene indicata dal Patto Associativo: pluralismo, società a misura di uomo, antifascismo, politica dei fatti devono caratterizzare la nostra azione. Sarà nostra attenzione non identificarci o sostituirci ad un partito, ma sarà nostro dovere proporre la nostra analisi e le nostre proposte a confronto con i partiti. Eugenio Banzi, Scout Proposta Educativa, 1977, n.17, pp.31-33 Rapporto fra Comunità capi e ambiente In analogia con quanto afferma G.M.Bertin (Educazione alla socialità, Roma, 1966), a proposito del rapporto fra scuola e ambiente, anche nel rapporto fra scautismo e ambiente si possono considerare tre differenti tipi di relazioni: distacco, subordinazione e analogia, ciascuna delle quali potrebbe presentare aspetti negativi e positivi con le seguenti tesi giustificative: - solo il distacco può permettere allo scautismo di compiere un’opera purificatrice rispetto alla confusione e alla corruzione esistente nell’ambiente; - lo scautismo che non è subordinato all’ambiente finisce per essere avulso alla vita stessa rischiando di diventare formalista e retorico; - può risolvere le difficoltà del distacco e quelle della subordinazione uno scautismo ce rifletta nella propria struttura la più stretta analogia possibile con le strutture della vita ambientale. Ogni Comunità capi deve riflettere su queste possibili relazioni stabilendo di volta in volta il modo di agire in relazione ai fini che vuole perseguire. Esiste comunque un rapporto che si viene ad instaurare fra scautismo ed ambiente che può avere delle ripercussioni interne ed esterne: interne per quanto riguarda la possibilità che si presenta allo scautismo di sfruttare elementi dell’ambiente in funzione dei propri fini educativi; esterne per quanto riguarda la possibilità che lo scautismo ha di estendere la propria opera educativa al d fuori dell’associazione per stimolare nell’ambiente i motivi della civiltà e del progresso. Si tratta, come si può notare, di un rapporto dinamico che è contrassegnato da momenti di aderenza che di alternano a momenti di reazione. Vale la pena riflettere su questi argomenti perché molto spesso, nella multiforme realtà esistente all’interno della nostra associazione, troviamo, fra i nostri capi, posizioni estremamente diverse che si possono sintetizzare nelle seguenti: - arroccamento: vi sono capi che di fronte ai mali della società si sentono migliori degli altri e cercano di difendere la propria posizione privilegiata, mantenendo le distanze; - dimissioni: secondo questi non vi è più speranza di cambiamento e quindi non vale la pena di combattere una battaglia persa in partenza; - inginocchiarsi di fronte al nuovo: è la posizione di coloro che ritengono superfluo qualsiasi riferimento al passato, alle tradizioni e prestano attenzione solamente alle “novità”. Nelle nostre Comunità capi dovremmo riflettere e verificare di più qual è il nostro modo di rapportarci con l’ambiente perché tale modo incide profondamente, all’interno, sul nostro essere educatori e, all’esterno, sulla nostra testimonianza di vita. Sul piano più propriamente educativo non dobbiamo dimenticare inoltre che l’ambiente per lo scautismo è uno dei principali mezzi didattici. Quando si parla di ambiente si deve fare riferimento ad una molteplicità di “unità di esperienze”; credo quindi che non si possa parlare solo di ambiente naturale o di ambiente sociale, ma di una conoscenza, e di un’esperienza, globale del reale, a fronte di una tendenza oggi così diffusa di alienante parcellizzazione. L’ambiente, inteso quindi nella sua globalità, offre ai ragazzi la possibilità di prendere contatto, di “incontrarsi” on diverse culture; stimola l’acquisizione sempre più puntuale di un autentico spirito scientifico; provoca risposte e soluzioni favorendo l’adattamento e la socializzazione. Anche con particolare riferimento a Baden-Powell è proprio impostando un giusto rapporto con l’ambiente che è possibile risolvere il problema di come conciliare l’educazione individuale con quella sociale. Se non è possibile infatti sviluppare completamente l’individuo al di fuori di una dimensione sociale e civica, non è neppure possibile formare un cittadino utile alla società senza svilupparlo nel medesimo tempo come uomo, nel senso più alto e profondo del termine. Individuo e società non sono in contrasto fra di loro ma devono essere considerati come due realtà complementari. Mi sembra, che da un lato sia necessario insistere sull’opportunità che lo scautismo sia aperto alla cultura del nostro tempo, non quindi arroccato su posizioni di difesa, oppure dimissionario o in posizione di subordinazione passiva di fronte al nuovo, sapendosi mettere in gioco, cercando di comprendere e di interpretare gli avvenimenti, aperto al dialogo e alla comprensione. Dall’altro occorre che, riaffermando uno degli aspetti qualificanti della propria tradizione educativa, lo scautismo sia sempre attento a ritrovare il significato della centralità della persona, senza con ciò voler privilegiare l’individuo seguendo una suggestione radicale particolarmente di moda, figlia della filosofia del consumismo. Vittorio Pranzini, Scout Proposta Educativa, 1982, n.26, p.43 La dimensione politica della Comunità capi Il mio punto di partenza è costituito dal presupposto che la scelta di essere uomini e donne di fede ha inevitabilmente una posizione dominante nella vita di una Comunità capi di capi educatori credenti. In base a questo presupposto ritengo pertanto che non sia possibile, pur nel rispetto della sostanziale diversità delle prospettive, delle dimensioni esistenziali e delle collocazioni antropologiche, tenere in queste comunità del tutto separate, quasi fossero variabili fra loro indipendenti, l’ispirazione religiosa e le scelte politiche. Facendo riferimento ad una serie di situazioni concrete, con le quali la maggior parte dei lettori è stata certamente confrontata, mi pare di poter pienamente confermare l’ormai non nuova osservazione secondo la quale le scelte di fede disgiunte dall’impegno politico di farsi carico dei problemi dell’uomo, denunciamo il rifiuto del Vangelo, come altrettanto mistificante va definito il modo di essere di quella Comunità capi che, persa di vista l’essenza dell’uomo creatura di Dio, esaurisca tutte le sue risorse di attività di esclusiva ispirazione sociale. Per procedere nella direzione indicata, mi pare utile cercare di identificare, prescindendo dalle diverse militanze politiche dei capi, alcuni punti fermi sui quali tutti (capi e Comunità capi) si riconoscano e concordino. Ho così isolato quattro connotazioni politiche delle Comunità capi che dovrebbero essere di largo se non totale consenso. Le espongo una dopo l’altra. I quattro contrassegni politici delle Comunità capi Il primo. La Comunità capi è una comunità di cambiamento. Lo spirito di questo cambiamento è quello che in un precedente numero di R/S Servire ho definito “esplorazione del possibile”. In una Comunità di capi credenti esso dovrebbe innanzitutto tradursi in una perenne tensione di ricerca del Regno, secondo la logica delle parole di Luca: “Non temere piccolo gregge poiché è piaciuto al Padre vostro di dare a voi il Regno: vendete quanto possedete e datelo in elemosina. Fatevi delle borse che non si consumano, un tesoro inesauribile nel Cielo dove nessun ladro si avvicina e non c’è tignola che roda perché dov’è il vostro tesoro là sarà pure il vostro cuore” (Lc 12, 32-34). Che significato possono avere queste frasi del Vangelo per una Comunità di capi credenti? Che bisogna essere disposti ad un impegno profondo e decisivo per realizzare una più grande giustizia nel mondo. Una Comunità capi che non faccia crescere al suo interno e non trasmetta alle unità del gruppo questa volontà di costruire un mondo diverso e migliore, da ai suoi membri ed agli altri una educazione sbagliata e priva di respiro universale. In altri termini lo sforzo al quale ognuno di noi come persona e tutti insieme come comunità è chiamato è quello di aut educarsi e di educare a sottrarsi alla dominante logica mercantile che tende ad assorbire ogni pensiero ed ogni attesa. Per esprimere sinteticamente questo contrassegno politico delle Comunità capi si potrebbe pensare che esse si riconoscono in un atteggiamento politico che antepone il progresso della giustizia alla conservazione dei beni e delle strutture e questo con tanto maggiore vigore e perseveranza in questo momento di simboli in franti, di smarrimento e di reflusso assai propizio per le lusinghe di chi, in nome di un ambiguo realismo che privilegia le opulente vetrine sfavillanti di luci alla continua conversione verso un più grande amore per gli altri, strumentalizza la stanchezza dei giovani per consolidare i privilegi acquisiti. Secondo contrassegno. Le Comunità capi fanno la scelta dei poveri. Questo secondo punto è strettamente correlato con la prima opzione. È infatti solo la scelta dei poveri quella che rende possibile il cambiamento. I protagonisti della logica e del sistema mercantile possono infatti anch’essi aspirare al progresso sociale ed a nuove conquiste dell’uomo sulla natura ma per realizzare il suo disegno il mondo del potere e della ricchezza ha bisogno di strutture stabili. Ai poveri non va pertanto un’attenzione condiscendente o compassionevole bensì quella considerazione che conviene a coloro che costituiscono la struttura portante del Regno che avanza malgrado gli sforzi di quanti, pur proclamandone l’impaziente attesa, cercano con ogni mezzo di tenerlo lontano. Per un credente il vero e definitivo superamento della lotta di classe coincide con l’avvento del Regno. È per questo che per una Comunità capi capace di fare in modo coerente, perdurante ed a livello autenticamente profondo la scelta del povero, sarà più facile far confluire nell’unico grande progetto politico dell’essere tutti gli interventi operativi ispirati alla “non violenza”, dall’ “educazione non emarginante” e dall’ “obiezione di coscienza”. Terzo contrassegno. La Comunità capi crede nell’utopia. Se la Comunità capi è un’autentica comunità di credenti, non dovrebbe essere capace di sottrarsi agli stimoli di chi “ha fame e sete di giustizia”, come non dovrebbe stancarsi di interrogare se stessa sul sistema sociale, la struttura politica e la concezione economica capaci di assicurare una più grande giustizia nel mondo. Oggi queste strutture e questo sistema non esistono in nessun Paese come non sono mai esistite nella storia dell’uomo. Forze avverse si sono sempre ed ovunque manifestate rendendo il cammino dell’umanità verso questo traguardo particolarmente tormentato e difficile. Senza una speranza utopica in una umanità migliore e, nel contempo, senza una precisa volontà di mescolarsi con la storia accettandola anche nella sua deludente realtà, una comunità di credenti farà molta fatica a diventare protagonista di giustizia, correndo, inoltre, il grande rischio di rimanere dal,la parte di chi la giustizia la proclama ma non la pratica. Nel contesto delle contraddizioni e delle tensioni che stiamo vivendo, dove c’+ sempre meno spazio per gli specialisti dell’analisi, non dovrebbe esistere valida giustificazione per una Comunità capi insensibile alla sua vocazione per un diretto, concreto impegno politico illuminato dalla speranza in un sistema sociale più giusto, più umano, più liberante di quelli che oggi stanno sotto i nostri occhi. Quarto contrassegno. La Comunità capi è una comunità nella quale il “bene comune” viene difeso pagando di persona.. Nello scenario sociopolitico nel quale si muove oggi il nostro Paese, occorre che ognuno ritrovi il significato e l’impegno nei suoi rispettivi ruoli di studente, di operaio, di dipendente, di professionista e di dirigente per dare, prima che sia troppo tardi ed essere anche senza garanzie di ritorno sui suoi investimenti di energia e di intelligenza, al servizio del bene comune. Un avvertimento che ritengo importante. Non si tratta di trasformare le Comunità capi in “gruppi giovanili per la promozione dell’efficienza”, ma di non diventare insensibili al monito che viene a tutti rivolto dalla democrazia, la quale, per poter sopravvivere, ha bisogno dell’efficacia delle sue istituzioni e di un accettabile grado di integrazione operativa tra i suoi cittadini. Chi pensa di risolvere la grande crisi del Paese affidando solo alle strutture i compiti che spettano agli uomini, non ragiona in termini di democrazia e forse non crede in essa. Liberazione-versus-ghettizzazione politica delle Comunità capi Trasformando queste quattro scelte politiche di fondo in progetti operativi comunitari, una Comunità capi diventa soggetto politico. Ciò non vuol dire assolutamente che essa si trasforma in un luogo di militanza politica. Se in altri termini per essere bene accetti in una Comunità capi occorre fare dichiarazione di fede ideologica e se, dopo averla fatta, ci si accorge che si sta instaurando un processo di evidente o nascosta emarginazione perché la personale scelta politica è diversa da quella dominante, allora questa comunità tradisce il suo spirito ed il suo ruolo. Quarto contrassegno La Comunità capi, soggetto politico, sceglie le dimensioni del suo intervento avendo come obiettivo privilegiato il territorio di una o più delle sue componenti: quartiere, circondario, istituzioni civili, chiesa locale, ecc. La scelta è intima parte del progetto che la Comunità capi ha assegnato a se stessa ed alle unità del gruppo. Se la possibilità di tradurre in azioni concrete i valori che guidano le Comunità capi ad essere per e con l’uomo presente nella sua storia, sono molteplici, il taglio del coinvolgimento politico è univoco e costante: quello educativo. È solo questo infatti ciò che ci consente di mettere in valore la nostra sensibilità, la nostra competenza e, assieme, il “nostro specifico” che ci identifica e ci qualifica. È il nostro segno di riconoscimento ed il nostro substrato comune che ci fa riconoscere. È a questo momento che si perviene al più importante cambiamento di prospettiva nei confronti dell’impegno politico dei capi e delle loro comunità. L’identificazione fra fare educazione e fare politica, che riassumeva fino a poco tempo fa l’opzione sociale del capo, si arricchisce, nello spirito dei quattro comuni contrassegni di cui sopra, con un impegno più grande a dare testimonianza, attraverso l’azione educativa, della “sete e fame di giustizia!” delle Comunità capi. L’educazione diventa cioè uno strumento anche politico per il miglioramento della condizione umana laddove questa è più fortemente carente. Vittorio Ghetti, R/S Servire, 1979, n.1, pp.42-46 Qualificare una presenza Ma l’azione educativa può esaurire la presenza di una Comunità capi nel territorio? Nell’intento di richiamare l’attenzione su questa dimensione dell’associazione, i due interventi che seguono - Lele Rossi (1994) e Marco Pietripaoli (1994) propongono di andare oltre: - dedicare tempo anche ad elaborare proposte per la Chiesa e per la società del nostro territorio; - allargare la Comunità capi a chi può aiutarla ad essere partecipe e propositiva anche nell’ambiente esterno; - collaborare o promuovere uno specifico impegno sociale nel territorio. Grazia Bellini Palmerini (1994) reinterpreta invece il bisogno di ritrovare una dimensione di presenza nel territorio richiamando la Comunità capi al dialogo e alla collaborazione con l’ambiente stesso, partecipando alle istituzioni sociali ed ecclesiali ed esponendo pubblicamente il proprio Progetto educativo. Un’immodesta proposta La Comunità capi è l’espressione più importante con cui gli adulti dell’Agesci si propongono all’esterno. Qualcuno di noi, non proprio di primo pelo, ricorderà l’enfasi con cui, specie in anni passati, si parlava di presenza nel territorio come di una delle priorità del nostro essere associazione. Era una formula, forse un po’ complessa ed abusata, che però indicava soprattutto il bisogno di radicare la presenza e l’azione educativa in un ampio spazio; uno spazio maggiore rispetto a quello occupato dalla proposta rivolta ai ragazzi; era l’esigenza di tardurre il nostro fare politica attraverso l’educazione, o meglio, partendo dall’educazione. In tutto ciò la Comunità capi occupa un posto centrale: è il luogo in cui gli adulti vivono più intensamente rispetto a tutti gli altri livelli associativi l’esperienza comunitaria; è la realtà più a contatto con un territorio omogeneo; è, perciò, l’entità maggiormente in grado di essere presente con proposte originali nell’ambiente esterno (nel territorio, appunto). L’azione educativa, come pressoché ogni attività di volontariato, ha bisogno di un contesto ambientale in grado di favorirla, o perlomeno di non ostacolarla. Come capi scout sappiamo bene che il nostro compito è anche quello di aggiustare i cocci. Ma saremmo degli sciocchi, e forse qualcosa di peggio, se non ci sforzassimo di impedire che quei cocci si formino. Detto fuori di metafora: se ci accorgiamo che l’ambiente in cui i nostri ragazzi vivono produce in loro effetti negativi, è certamente opportuno aiutarli a rimediare a quei guasti. Ma allo stesso tempo sarebbe utile impedire che quegli effetti si producano. Provate, ad esempio, ad applicare questo discorso all’uso della televisione, alla concezione della sessualità, alla gestione dei luoghi di divertimento dei giovani, al concetto di libertà e così via, e poi traetene le conseguenze. La Chiesa e la società dimostrano oggi, sempre di più, di aver bisogno di richiami ai valori e di progetti per realizzarli. L’Agesci, soprattutto alla base - cioè nelle Comunità capi - ha e comunque deve avere la competenza per farlo. I valori di lealtà, di responsabilità individuale, l’attenzione intelligente all’ambiente, la capacità di vivere correttamente il senso di libertà e di comunità, sono solo alcuni esempi che indicano un patrimonio che l’associazione sa tradurre in modo attuale, e cioè vicino all’uomo di oggi, e che non può essere rinchiuso all’interno delle sedi scout. Per realizzare tutto ciò non è sufficiente l’impegno individuale, ma è necessaria un’azione collettiva. Invece la Comunità capi può essere in grado di assumersi questo impegno e realizzarlo con buone probabilità di riuscita. Occorre allora che la “terza dimensione” diventi un obiettivo reale e sentito dalle Comunità capi, a cui sacrificare, se è il caso (in termini di tempo, non di qualità) parte delle energie riversate sulle altre due dimensioni. Non sarebbe forse possibile che una riunione ogni tre sia dedicata alle proposte che possiamo/dobbiamo fare alla Chiesa e alla società nel notro territorio? Questo ci permetterebbe anche di “asciugare” il modo di lavorare sugli altri versanti, rivolgendolo solo all’essenziale. È però forse opportuno anche un ripensamento della struttura chiamata “Comunità capi”. Credo che il momento di mettere in discussione uno dei nostri punti fermi (quasi una linea del Piave) che oggi proclama: “in Comunità capi solo chi fa servizio con i ragazzi”. Penso invece che sia utile –se non necessario – che in comunità ci anche chi la aiuta a essere partecipe e propositiva anche in realtà esterne: chi le permette di essere là dove si individuano i bisogni della gente e si cerca di trovare soluzioni complessive; là dove la Chiesa elabora progetti di impegno e proposta per tutti; là dove si studiano linee culturali per far vivere meglio la gente. A me pare una prospettiva non semplice, ma affascinante e necessaria. Lele Rossi, Scout Proposta Educativa, 1994, n.19, pp.4-5 Più vicini alla gente Dai molti interventi pubblicati recentemente su PE sull’argomento, ho avuto conferma che dall’interno e dall’esterno dell’associazione giungono riflessioni e richiami sempre più frequenti affinché la scelta politica del Patto Associativo non sia limitata a realizzare una generica educazione, ma che si concretizzi in progetti ed iniziative che, nati a fine educativo, siano pubblicamente a favore delle esigenze del territorio diventando così azione politica. Tutto ciò mi sembra vitale per lo scautismo italiano che, a mio parere, necessita di essere sempre più vicino alla gente. Ogni Comunità capi (d’intesa con le unità del gruppo) potrebbe individuare un bisogno, una mancanza, possibilmente nel proprio territorio) e, in collaborazione con altri gruppi, associazioni, enti pubblici, volontari organizzi un impegno continuativo (impresa, servizio) garantendo o facendo garantire un miglioramento della qualità della vita dei cittadini, tra cui anche i propri associati. Realizzare ciò non è facile: sappiamo quanto siamo poco abituati a utilizzare la dimensione politica del nostro fare educazione, a partecipare e a promuovere la partecipazione alle decisioni per il bene comune, a collaborare con altre organizzazioni. Lele Rossi, nel n.19 (pp.4-5) dice che, per poter rendere concreto e positivo il nostro impegno verso il proprio territorio, è opportuno che nelle Comunità capi vi siano dei capi che come proprio servizio aiutino le loro stesse comunità a realizzare progetti sociali. Questa modalità organizzativa, che vedo già sperimentata in alcune Comunità capi, mi sembra molto interessante,a due condizioni: 1. La progettazione, la realizzazione e la verifica del progetto sociale vanno compiute con i ragazzi, rendendoli attori del cambiamento locale. L’impegno continuativo nell’impresa o nel servizio deve essere subordinato (o meglio, coordinato) alle finalità del Progetto educativo della Comunità capi: la gestione politica deve essere strettamente intrecciata con quella educativa. 2. L’intervento va preceduto e accompagnato da un serio lavoro formativo per i capi, riguardo: - ai temi scelti (ambiente, sanità, famiglia, servizi sociali, internazionale, pace, economia, …); - ai modi per gestirli educativamente, a partire dallo spirito del metodo scout per trovare nuovi modi e strumenti e per riscoprirne di tradizionali; - ai modi di co-gestirli con altre organizzazioni pubbliche e del privato sociale (come gestire i rapporti politici e sociali di partnership-compartecipazione?) Il ruolo di questo capo dovrebbe essere proprio quello di aiutare a tenere insieme la dimensione politica con quella educativa e formativa. Darsi una risposta organizzativa può aiutare molto le Comunità capi in cui c’è motivazione a questo impegno, ma anche una scarsa capacità gestionale. Marco Pietripaoli, Scout Proposta Educativa, 1994, n.32, pp.10-11 In piazza Al centro del nostro pensiero stanno i ragazzi che ci sono affidati: a loro serve davvero che la Comunità capi sia in rapporto con l’esterno? E con quale esterno? E perché? Non sarà una delle solite idee di qualche cervellone Agesci, che poi toccherà a noi realizzare? I ragazzi hanno bisogno di concretezza, di un luogo vero in cui l’ideale si incarni, in cui la spinta a fare possa realizzarsi e allontani così il fantasma dell’impotenza. Hanno bisogno di buona armonia fra genitori e capi, per non dover difendere gli uni dalle critiche degli altri. Hanno bisogno di essere rinforzati dall’approvazione dei genitori e capi sulle tappe del cammino in cui si impegnano, per essere sicuri che è un cammino importante, sul quale molti occhi li seguono e li accompagnano. Hanno bisogno che la loro vita di parrocchiani non sia in alternativa alla loro vita di scout, e di non dover scegliere fra la riunione ed il catechismo. Devono sapere che non appartengono ad una conventicola chiusa con regole strane, ma ad una famiglia grande, che abbraccia paesi e razze diverse intorno a ideali comuni. Devono conoscere il mondo intorno e imparare a leggerne la complessità, per essere protagonisti e non pedine. Hanno bisogno di vedere che la promessa del Salmo 90 “rafforza per noi l’opera delle nostre mani…”, si realizza per tutti, se noi presteremo mani, piedi e cuore alla Provvidenza. Poiché sappiamo queste cose, come Comunità capi siamo chiamati a cercare un dialogo e una comunicazione, a volte una collaborazione, con tutti gli ambiti di realtà che ci circondano. Allora quando andremo alle riunioni del consiglio di quartiere, di cui magari facciamo parte in una commissione, o al consiglio pastorale della nostra parrocchia, parteciperemo avendo ben presenti le necessità dei nostri ragazzi, i nostri programmi, le nostre ricchezze e i nostri bisogni. Così non correremo il rischio di dover progettare a tavolino ed inventare le occasioni in cui far sperimentare ai ragazzi situazioni concrete, né di usare le necessità degli altri per le nostre necessità. Così anche l’incontro con i genitori non si limiterà ad una comunicazione di date e programmi (basterebbe una circolare), ma sarà un incontro vero e un confronto fra persone che hanno strumenti diversi, ma finalità molto vicine. Alcune Comunità capi presentano ogni anno il proprio Progetto educativo ai genitori, altri lo presentano anche in parrocchia e nel quartiere. Qualche gruppo organizza dibattiti, anche pubblici, su questioni contraddizioni educative. Qualcuno invita esperti, o partecipa ad iniziative simili organizzate da altri; oppure presenta l’Associazione ai genitori nuovi. Qualche Comunità capi prevede nel proprio Progetto educativo di collaborare con altri enti e associazioni sulla base di progetti sul mondo o sulla città; qualche altra decide di garantire la propria presenza per più anni, ad esempio, in un campo nomadi. O si mette a disposizione per emergenze e necessità contingenti. Tutto ciò, e molto altro, certamente non per protagonismo, ma per stabilire rapporti veri e non solo formali con la realtà. Perché, come capi, abbiamo un animo da giardinieri, e sappiamo che i fiori più belli e forti non crescono sotto vetro con temperature controllate e noiosamente miti, ma al sole, alla pioggia, al vento e con radici piantate saldamente nella terra. Grazia Bellini Palmerini, Scout Proposta Educativa, 1994, n.30, p.14 Un leader? No, un Capo gruppo che anima La funzione dell’animazione della Comunità capi tra i compiti del Capo gruppo Una comunità, se è tale, non ha bisogno di un dirigente, ma richiede qualcuno che la animi, richiamandola e sostenendola nel suo sforzo di costruire legami e impegni per la crescita di tutti Scompare l’animatore, si esalta l’animazione Una Comunità di adulti educatori scout ha bisogno di un leader? Nell’esperienza dell’Agesci, dopo una prima fase in cui si identifica una figura autonoma di animatore della Comunità capi, si enuclea invece una funzione di animazione attribuita al Capo gruppo. Per animazione non si intende una sovraordinazione bensì un’azione di coordinamento, di aiuto alla sintesi, di impulso e promozione delle attività (con particolare riguardo alla formazione permanente), di cerniera con l’associazione e con l’esterno, che riposa sull’autorevolezza del prescelto. Nei documenti ufficiali che seguono si evidenzia come lo Statuto del 1979 avesse assegnato al Capo gruppo l’animazione, unitamente al rapporto con altri gruppi e l’Associazione e alla gestione organizzativa e amministrativa del gruppo (mentre i rapporti con gli ambienti esterni sono responsabilità di tutta la Comunità capi). Nello Statuto del 1988, modificato anche in seguito all’approvazione di una mozione sul Capo gruppo e di numerose innovazioni nella Formazione Capi, si aggiunge tra le responsabilità del Capo gruppo la cura dell’attuazione degli scopi della Comunità capi e dei rapporti esterni (nel contempo si stabilisce che in tutti i testi associativi la locuzione “Animatore di Comunità capi” venga sostituita con “Capo gruppo”). Nello Statuto del 1990 si chiarisce che i rapporti con altri Gruppi e l’Associazione devono avvenire in particolare nell’ambito della Zona, riportando la cura dei rapporti con ambienti esterni alla responsabilità di tutta la Comunità capi. Nel Consiglio Generale del 1991 si approva infine una mozione che riformula la figura del Capo gruppo come sintesi/cerniera tra associazione, singolo Capo e territorio, operando nella triplice veste di Capo, quadro e formatore. Il Capo gruppo ha, per la sua autorevolezza, la fiducia della Comunità capi sulla base delle esperienze associative e della sua capacità di: animare adulti; richiamare la Comunità capi alla fedeltà ai valori e alle scelte dell’Agesci; promuovere una lettura efficace della realtà e dei suoi bisogni. Marina De Checchi (2006) sottolinea la delicatezza del rapporto fra Comunità capi e Capo gruppo, che non si nomina né si elegge, ma si “esprime”, richiedendosi al prescelto uno spessore educativo, formativo e di governo estremamente rilevante (e quindi occorre un’idonea formazione al ruolo). Statuto Agesci 1979 Art. 13: gli adulti in servizio associativo presenti nel Gruppo formano la Comunità capi che ha per scopo: - l’approfondimento dei problemi educativi; - la formazione permanente dei Capi in quanto educatori; - l’analisi e l’inserimento nell’ambiente locale per adottare una conseguente linea educativa; - la cogestione del Progetto educativo, al fine di assicurare l’omogeneità e la continuità nell’applicazione del metodo. La Comunità capi, nelle forme che ritiene più opportune: - esprime un Capo e/o una Capo gruppo; - affida gli incarichi di Capo unità; - propone alla competente Autorità Ecclesiastica la nomina dell’Assistente Ecclesiastico di Gruppo e degli Assistenti Ecclesiastici di Unità; - cura i rapporti con gli ambienti educativi nei quali vivono i ragazzi e le ragazze (famiglia, scuola, parrocchia, ecc.). In particolare cura i rapporti con quanti (persone o Enti) sono interessati alla presenza dell’Associazione nell’ambito della realtà locale. Il Capo gruppo e/o la Capo gruppo e l’Assistente di Gruppo – avvalendosi dell’aiuto della Comunità capi – curano in particolare: - l’animazione della Comunità capi - i rapporti con gli altri gruppi e con l’Associazione; - la gestione organizzativa ed amministrativa del Gruppo. Il Capo gruppo e/o la Capo gruppo ha la responsabilità e la rappresentanza legale del Gruppo. Statuto Agesci 1979, Fiordaliso, 1979, p.7 Mozione 5/1988 “Figura e posizione del Capo gruppo” Il Consiglio generale 1988 a seguito della ridefinizione statutaria (art. 13), avvenuta in data odierna, del ruolo e delle funzioni del Capo gruppo, comprendente tra l’altro la conferma dell’animazione della Comunità capi e la scelta del Capo e della Capo gruppo tra i Capi brevettati; attira l’attenzione sulla necessità di inserire, nella revisione dell’iter di Formazione Capi già prevista per il Consiglio generale 1989, una modifica dell’art. 79 del Regolamento Formazione Capi che potrebbe basarsi sui seguenti orientamenti: i momenti di formazione per Capi Gruppo dovrebbero essere previsti sia a livello nazionale che regionale; essi non dovrebbero dare diritto alla nomina a Capo; essi dovrebbero essere aperti ai soli Capi brevettati; chiede che il Comitato centrale studi od affretti la pubblicazione di sussidi a stampa sul servizio di Capo gruppo; decide che, ovunque ricorre nei testi associativi, la locuzione Animatore di Comunità capi venga sostituita con Capo gruppo. Scout-Proposta Educativa, 1988, suppl. al n.19, p.20 Statuto Agesci 1988 Art. 13: gli adulti in servizio associativo presenti nel Gruppo formano la Comunità capi che ha per scopo: - l’approfondimento dei problemi educativi; - la formazione permanente dei Capi in quanto educatori; - l’analisi e l’inserimento nell’ambiente locale per adottare una conseguente linea educativa; - la cogestione del Progetto educativo, al fine di assicurare l’omogeneità e la continuità nell’applicazione del metodo. La Comunità capi, nelle forme che ritiene più opportune: - esprime un Capo e/o una Capo gruppo; - affida gli incarichi di servizio nelle Unità; - propone alla competente Autorità Ecclesiastica la nomina dell’Assistente Ecclesiastico di Gruppo e degli Assistenti Ecclesiastici di Unità; - cura i rapporti con gli ambienti educativi nei quali vivono i ragazzi e le ragazze (famiglia, scuola, parrocchia, ecc.). Il Capo gruppo e la Capo gruppo – d’intesa con l’Assistente di Gruppo e avvalendosi dell’aiuto della Comunità capi – curano in particolare: - l’attuazione degli scopi e l’animazione della Comunità capi - i rapporti con gli altri gruppi e con l’Associazione; in particolare nell’ambito della Zona; - i rapporti con associazioni, enti ed organismi civili ed ecclesiali presenti nel territorio in cui agisce il Gruppo: - la gestione organizzativa ed amministrativa del Gruppo. Il Capo gruppo e la Capo gruppo hanno la rappresentanza legale del Gruppo. Statuto Agesci 1979, Fiordaliso, 1988, p.5-6 Statuto Agesci 1990 Art. 15: gli adulti in servizio associativo presenti nel Gruppo formano la Comunità capi che ha per scopo: a) l’approfondimento dei problemi educativi; b) la formazione permanente dei Capi in quanto educatori; c) l’analisi e l’inserimento nell’ambiente locale per adottare una conseguente linea educativa; d) l’elaborazione e la gestione del Progetto educativo, al fine di assicurare l’omogeneità e la continuità nell’applicazione del metodo. La Comunità capi, nelle forme che ritiene più opportune: a) esprime tra i Capi della Comunità capi, un Capo e/o una Capo gruppo (ambedue se si tratta di un Gruppo misto); b) affida gli incarichi di servizio nelle Unità; c) propone alla competente Autorità Ecclesiastica la nomina dell’Assistente Ecclesiastico di Gruppo e degli Assistenti Ecclesiastici di Unità; d) cura i rapporti con gli ambienti educativi nei quali vivono i ragazzi e le ragazze (famiglia, scuola, parrocchia, ecc.). Il Capo gruppo e la Capo gruppo – d’intesa con l’Assistente di Gruppo e avvalendosi dell’aiuto della Comunità capi – curano in particolare: a) l’attuazione degli scopi e l’animazione della Comunità capi b) i rapporti con gli altri gruppi e con l’Associazione; in particolare nell’ambito della Zona; c) i rapporti con associazioni, enti ed organismi civili ed ecclesiali presenti nel territorio in cui agisce il Gruppo: d) la gestione organizzativa ed amministrativa del Gruppo. Il Capo gruppo e la Capo gruppo hanno la rappresentanza legale del Gruppo. Statuto Agesci 1990, Fiordaliso, 1990, p.6 Mozione 21/1991 “Formazione capi - 5” Il Consiglio generale 1991, considerata la mozione del Consiglio generale 1989 sulla riformulazione della figura del Capo gruppo; delibera che la formazione dei Capi Gruppo non sia più compresa nell’iter di Formazione capi; approva nella nuova formulazione il documento “Ruolo e formazione dei Capi Gruppo”; dà mandato al Comitato centrale di tradurre tale documento in una proposta organica di formazione tenendo conto anche delle esperienze attualmente in corso e lo impegna a presentare tale proposta al Consiglio generale 1993 unitamente alle opportune proposte di modifica e di integrazione allo Statuto e al Regolamento. Scout-Proposta Educativa, 1991, n.30, p.27 Allegato 6/1991 “Ruolo e formazione dei Capi Gruppo” 1.Premessa La mozione del Consiglio generale 1989 chiedeva di “riformulare la figura del Capo gruppo” partendo dalla centralità della Comunità capi e di integrare i momenti e i contenuti della formazione dei Capi Gruppo nella “Formazione quadri e formatori”. 2. Lo scenario: un Capo gruppo per quale Comunità capi Valutando l’evoluzione che la Comunità capi ha avuto dalla sua nascita ad oggi, emergono alcuni aspetti che ci sembra definiscano e caratterizzino più di altri il ruolo della Comunità capi nel contesto associativo attuale. Essi sono: l’aspetto educativo: è il luogo che ha per protagonisti i ragazzi (essi sono al centro del pensare e dell’agire della Comunità capi); l’aspetto formativo: la Comunità capi è una comunità educante (autoeducativa), ma non di vita (cioè esclusiva, l’unica che il capo frequenti); fornisce stimoli ai singoli componenti per la formulazione e verifica del “Progetto del Capo”; l’aspetto comunitario: è un luogo di preghiera e di incontro con gli altri, dove gli eventuali conflitti vengono gestiti positivamente attraverso il dialogo e la valorizzazione delle diversità; l’aspetto di gestione e corresponsabilità: in essa si elabora e si gestisce il Progetto educativo di Gruppo; in essa vengano affidati gli incarichi di Capo gruppo e di Capo unità; l’aspetto territoriale: è l’ambiente principale di collegamento con il territorio nelle sue diverse articolazioni; l’aspetto associativo: è la cellula vitale della struttura associativa e garantisce la sua democraticità. Le nostre Comunità capi hanno oggi consapevolezza che il loro intervento educativo si svolge attraverso il “progetto” e che ciò vuol dire aver presente, da un lato: Il progetto - La sua attuazione - La sua verifica e dall’altro: I limiti - Il tempo - Le risorse 3. Il ruolo del Capo gruppo In questa situazione acquista sempre più importanza la figura Capo gruppo come sintesi/cerniera tra associazione, singolo capo e territorio. Per questo motivo il suo ruolo è insieme di capo, di quadro e di formatore. Capo, per esperienza e formazione, in quanto vive in prima persona i valori della Legge scout, ha fatto le scelte del Patto Associativo ed il suo operare è funzionale al bene dei ragazzi. Quadro, in quanto facente parte della struttura funzionale e organizzativa che l’associazione si è data per il suo funzionamento; in quanto garante sia all’interno che all’esterno delle scelte contenute nel Progetto educativo di Gruppo. Formatore, in quanto la Comunità capi è l’ambito principale di formazione capi; è là che avviene il trapasso delle nozioni, lo stimolo e la verifica dell’iter. 4. Il profilo Il Capo gruppo si configura quindi come colui che, all’interno della Comunità capi, è riconosciuto autorevole perché ha saputo fare sintesi concrete tra la proposta educativa scout e la sua vita e ha la fiducia dichiarata degli altri capi. Caratteristiche di base del Capo gruppo sono: una esperienza associativa acquisita di Capo unità; la capacità di animare adulti; la capacità di richiamare la Comunità capi ad essere fedele alle scelte espresse nel Patto Associativo e nel Progetto educativo del Gruppo; saper suscitare una lettura efficace della realtà e dei suoi bisogni. 5. La formazione del Capo gruppo Proprio per l’originalità del suo ruolo il Capo gruppo deve aver completato l’iter. Necessita, inoltre, di una formazione specifica che gli consenta di cogliere gli aspetti della vita associativa nel suo insieme (trasversalità) e gli permetta di acquisire tutte le competenze e strumenti necessari per svolgere il suo servizio in associazione. Per questo al Capo gruppo si offrono occasioni ed eventi specifici di formazione che non sono compresi nell’iter istituzionale: occasioni di formazione nel ruolo attraverso una normale vita in Zona che implica dialogo, confronto e verifica sul proprio ruolo e su quello della Comunità capi; eventi di formazione al ruolo svolti prevalentemente a: livello regionale o interregionale (su orientamento della Formazione capi Nazionale) che - lo aiutino a rendersi veramente conto dei propri compiti istituzionali sia verso la Comunità capi che verso gli altri ambiti associativi, verso la realtà civile ed ecclesiale del proprio territorio; - gli offrano conoscenze e competenze circa le modalità e le tematiche dell’animazione degli adulti: non è sufficiente l’esperienza acquisita come Capo unità per lavorare con degli altri capi. Scout-Proposta Educativa, 1991, n.30, p.27 Quadri speciali: un occhio all’identità del capogruppo secondo lo Statuto ed un altro alla realtà delle Comunità capi Capogruppo è innanzitutto un capo. Non si eccepisce nulla su questo, ma se per curiosità andassimo a leggere lo Statuto (lo so, è noioso, è verboso…) prosaicamente vedremo che lo status di capo viene definito in base a quattro requisiti tra cui, il secondo, è l’aver compiuto l’iter specifico. A rigor di logica e di coerenza bisognerebbe pensare allora che chi non è in regola con l’iter non dovrebbe svolgere questo servizio. Per esperienze diretta, se un qualsiasi quadro associativo non avesse concluso l’iter di formazione, non sarebbe né eletto né nominato. Come la mettiamo allora con il fatto che in associazione ci sono capigruppo che sono sprovvisti di nomina a capo? Il capogruppo è un quadro e come tutti i quadri non può rimanere a capo della struttura per più di sei anni consecutivi. Come la mettiamo con tutti quei capigruppo che ricoprono questo servizio da molti anni senza che nessuno eccepisca alcunché? Accetteremmo un responsabile di Zona o una Capo Guida per otto anni senza soluzione di continuità? Giammai. Lasceremmo scoperto quell’incarico piuttosto che macchiarci di una decisione tanto antidemocratica! Come viene individuato poi questo quadro? Lo Statuto conia un’espressione verbale mai usata in nessun altro caso: il capogruppo non si nomina, non si elegge, ma la Comunità capi lo “esprime”. Che cosa significa? Nella lingua italiana, questo verbo ha attinenza all’area della comunicazione, significa manifestare, portare all’esterno ciò che si prova, ma non dice nulla circa la modalità della decisione. In effetti, come avviene questa “espressione”? Qualche Comunità capi lo elegge a scrutinio segreto, qualcuna per acclamazione, qualche altra per sorteggio, qualche altra per anzianità, altre per esperienza, altre, conferito l’incarico una volta … è per sempre, pressoché a vita. Forse è il caso di pensare che questo capogruppo sia un “capo” e un “quadro” un po’ speciale? Certamente sì. E tutti noi talvolta fingiamo di non vedere, perché se dovessimo applicare correttamente lo Statuto ci troveremmo come Associazione in serie difficoltà. Altro problema: quello della formazione. Il gruppo, primo livello associativo, primo elemento della struttura associativa che dà giustificazione a tutti gli altri, è il nucleo fondamentale della nostra associazione e tutti si preoccupano molto dell’inadeguatezza dei capigruppo che non riescono ad essere all’altezza dei “nuovi oneri strategici ed operativi” perché con “competenze spesso impari e inadeguate” (v. Atti Convegno zone, pag. 11. “Formazione dei Capigruppo”, settembre 2005 – Bracciano). L’associazione si aspetta da loro “uno spessore educativo, formativo, e di governo estremamente delicato” (v. Atti, come sopra). E’ interessante dare uno sguardo ai “nodi problematici” riportati negli Atti del Convegno (p. 18) per capire che lo stato delle cose è, come minimo, preoccupante. Sembra di essere catapultati in quelle situazioni strampalate che la vita ogni tanto offre di vivere: qualcuno si infortuna, è lì al suolo inerte e tanti intorno gridano, urlano, imprecano fanno congetture sul suo stato di salute, ma ce ne fosse uno che prestasse realmente soccorso! Il dubbio che assale sempre in questi casi è: ma sarà veramente così? (…) Marina De Checchi, Scout-Proposta Educativa, 2006, n. 13, pp.14-16 Animare, che impegno! Ma cosa vuol dire animare una Comunità di adulti educatori scout? Occorrono doti di organizzazione e coordinamento, di "anticipazione dell’avvenire possibile ", di promozione della creatività. Occorrono capacità di unire il gruppo, di interpretare i suoi obiettivi e di favorire lo scambio di informazioni con l’esterno (Gualtiero Zanolini, 1978). L’animatore è un Capo ed è un punto di riferimento e di confronto per tutta la Comunità; è un Capo che sa cogliere le valenze educative dietro ad ogni attività, che cura la coerenza tra progetto e continuità dell’azione della Comunità capi nella sua storia, nel metodo, nei Capi. E’ colui che tiene alta la tensione morale in Comunità (Vittorio Ghetti e Federica Frattini, 1982). E’ da rilevare che per questi autori, in quella fase della storia associativa, l’animatore non era ritenuto un quadro, proprio per accentuare il fatto che egli è uno tra gli altri nella Comunità capi). Negli altri interventi che seguono sono quindi enfatizzati altri aspetti della figura e delle funzioni di animazione: mediatore, che favorisce la crescita dei singoli Capi basandosi sulla propria maturità, su un atteggiamento positivo e disponibile, sulla competenza, sulla vicinanza e rispetto verso tutti (Tony Marra, 1986); sollecitatore e coordinatore, in quanto esperto del metodo, rivelatore delle tensioni personali (operando per " giocarle" in positivo), cerniera associativa (Michele Pandolfelli, 1987). Dinamica di gruppo L’animatore e il gruppo L’animatore appare prima di tutto come un bisogno del gruppo sia si tratti di un gruppo molto strutturato e fortemente organizzato, sia che si tratti di un gruppo spontaneo e debolmente organizzato: l’animatore sorge sia per costituire il gruppo quando è in via di realizzarsi, sia per confermarlo quando è già esistente. Organizza, coordina, aiuta il gruppo a trovare i mezzi per raggiungere il suo scopo, gli permette di prendere coscienza della pluralità degli scopi e dei conflitti possibili fra questi. È la coscienza organizzatrice del gruppo che ha bisogno di lui come di un polo di crescita e di supporto per vivere l’esperienza dei propri progetti, dei propri problemi. Così l’animatore assume varie funzioni nel gruppo ed in particolare quelle che lo definiscono: l’animatore aiuta ad inventare le soluzioni che soddisfano in modo adeguato i bisogni del gruppo. Crea, sempre con gli altri. Ascolta, prima con tutto con umiltà gli altri e i loro bisogni e li aiuta affinché trovino essi stessi le soluzioni. Così egli è al centro del conflitto e delle aspirazioni. Per questo motivo egli è, allo stesso tempo, prezioso e contestabile perché se vede chiaro, e deve veder chiaro per continuare ad animare, non è detto che il suo modo di vedere sia sempre giusto. La sua visione non è soltanto una percezione, cioè una interpretazione, è anche un’anticipazione. L’animatore è così oggi un uomo nuovo poiché la previsione è un atteggiamento nuovo del nostro tempo; esso richiede una informazione molteplice ed una capacità contraddittoria di adattarsi, di contestare, di far prendere coscienza agli altri di questa necessità attitudine contraddittoria della nostra società. Gli altri sono i membri di un gruppo e sono gli altri gruppi. L’invenzione dell’avvenire non è un atto isolato, ma collettivamente determinato e scelto. Nel proprio gruppo l’animatore rappresenta l’avvenire del gruppo o piuttosto gli avveniri possibili; la scelta appartiene al gruppo ed è la condizione della sua animazione. (…) L’innovazione che promuove nel gruppo è innovazione per tutti. L’informazione che promuove nel gruppo è una informazione per tutti. L’informazione che riceve da alti gruppi e da altri animatori è una informazione per tutti. La sintesi si realizza alla base, cioè nell’ambiente e nei gruppi di base. Parlare di animatore, di animazione, è usare un linguaggio moderno; sono, infatti, queste parole che esprimono una realtà nuova della società di oggi. Perché nuova? Perché l’animatore vive nel gruppo e per il gruppo e rappresenta, quindi, da un lato il superamento dell’individualismo che ha caratterizzato la nostra educazione (o almeno quella di molti di noi) e, dall’altro, la vittoria sul timore inconscio che ciascuno di noi ha, di perdere la propria autorità nel momento stesso in cui chiede un contributo agli altri. Tutta la nostra educazione, infatti, ci ha orientati alla competitività. Nell’infanzia, i voti a scuola; da giovani, i concorsi; poi la lotta per affermarsi professionalmente; ci hanno abituati a lavorare individualmente ed anzi a lottare contro gli altri per prevalere. Meno conosciuti sono gli altri, meno informazioni hanno, minori saranno le probabilità che avranno di scavalcarci. L’animatore invece, non lavora contro gli altri, ma con gli altri, per gli altri. Egli, innanzi tutto, considera il lavoro di gruppo un’occasione per rispondere ai bisogni fondamentali dei membri del gruppo: manifestare liberamente le proprie opinioni e tenere conto di quelle degli altri, partecipare, lavorare insieme e sentirsi membri attivi di una equipe, esprimere la propria intelligenza per raggiungere degli obiettivi, sentirsi rispettati dagli altri e, quindi, rispettare se stessi. L’animatore, inoltre, è l’interprete delle aspirazioni e degli obiettivi del gruppo ed anzi si adopera affinché gli obiettivi di fondo – per il cui raggiungimento il gruppo si è formato – vengano scoperti ed esattamente percepiti dai membri del gruppo. Nel contempo, l’animatore è il tramite tra il gruppo e la società in cui il gruppo opera; tramite sia del gruppo verso la società, sia di questa verso il gruppo. L’informazione che egli riceve dalla società, dagli altri gruppi, dagli latri animatori è una informazione per tutto il gruppo e viceversa. Per la posizione focale che occupa, l’animatore prima degli altri è in grado di conoscere e, quindi, di intravedere ed anticipare varie scelte e soluzioni che potranno influire e determinare il futuro del gruppo; ma la scelta definitiva spetta al gruppo e solo se ciò avviene il gruppo potrà dirsi animato. Ecco, dunque, una caratteristica saliente del nostro gruppo, in prospettiva, della società cui aspiriamo: l’invenzione dell’avvenire non più come atto isolato, ma come atto collettivamente voluto e determinato. È assodato che una delle cause di insoddisfazione dei membri del gruppo - tale da portare alla disgregazione del gruppo stesso – è la mancanza di conclusioni pratiche o di realizzazioni concrete: per tal motivo, nell’animatore si sviluppa la costante preoccupazione dell’efficacia. Egli, come abbiamo detto, è il mediatore dei bisogni dei singoli e l’appagatore di tali bisogni; l’interprete degli obiettivi del gruppo e il tramite tra il gruppo e la società; l’anticipatore del futuro che il gruppo si sceglierà: per essere tutto questo, deve essere un uomo di azione. Perché l’azione non diventi imposizione, è necessario che essa si traduca in un determinato modo di operare, scaturente da alcune qualità che l’animatore deve possedere: egli cioè deve percepire, armonizzare e spingere gli altri ad agire. Gualtiero Zanolini, Fondo Zanolini, Convegno della Zona Roma Salario, 1978 La Comunità capi e il suo animatore L’animatore di Comunità capi come capo di adulti, le cui qualità e competenza assicurano l’impegno di tutti i capi per una continuità educativa nel Gruppo. La Comunità capi è esposta ad alcuni rischi, tutti conseguenti al fatto che la Comunità capi è una comunità e quindi soggetta, accanto a fattori di arricchimento e di crescita esistenti nel fatto stesso di essere insieme, ai pericoli di mimetizzazione, alla tentazione di sfuggire e di nascondersi ed alla tendenza e non attribuirsi specifiche responsabilità. Se questi rischi devono essere ben presenti ad ogni membro della Comunità capi, chi più di ogni altro è chiamato a prevenirli, a farne prendere coscienza alla comunità ed a combatterli, è l’animatore della Comunità capi. Per rimanere nell’ottica dei rischi una prima fondamentale qualità dell’animatore è quella di essere un capo nel senso più pieno della parola. Un capo e non un quadro associativo, in quanto a diretto contatto con giovani adulti da educare, in quanto responsabile della crescita di singole persone, in quanto direttamente coinvolto come punto di riferimento e di confronto. Nel dire che l’animatore di Comunità capi è un capo, una precisazione si impone, e cioè che l’animatore di Comunità capi è un capo di adulti. Quando si ritiene assai auspicabile – laddove le dimensioni della Comunità capi lo giustificano – non abbia ruolo di capo in unità del Gruppo, ma faccia, per così dire, a pieno tempo l’animatore, questo esprime la necessità che l’animatore, come peraltro ogni altro Capo, abbia le competenze e lo stile tipici del suo ruolo di formatore di adulti. L’animatore di Comunità capi, l’abbiamo accennato, è un punto di riferimento e di confronto all’interno della Comunità. E’ verosimile che i suoi giudizi, le sue valutazioni di fatti, di situazioni e di persone abbiano un peso ed una risonanza nella Comunità (sarebbe molto preoccupante il contrario). Per essere coerente colla sua funzione educativa, l’animatore deve saper cogliere, nel suo ruolo di interprete della realtà, le valenze educative che esistono dietro e all’interno di ogni evento umano. (…) Deve essere continua preoccupazione dell’animatore di Comunità capi che quanto si manifesta e si sviluppa sul piano educativo e progettuale in seno alla Comunità si irradi e venga puntualmente ripreso nelle unità del Gruppo e questo senza interferire nella gestione delle unità, ma per dare a tutto il processo educativo del Gruppo una base ispiratrice comune. Non tocca all’animatore chiedere ai Capi di rendere conto delle loro modalità di gestione delle unità, è invece specifica responsabilità dell’animatore assicurarsi del continuo, costante impegno del Capo che si basa la continuità educativa del Gruppo, la quale si compone di tre elementi: Continuità storica. ciò significa tener conto delle origini, delle vicende, degli uomini e delle donne che ci hanno preceduto per ancorare la vita del Gruppo a un passato che diventa promessa di avvenire. - Continuità del metodo: siamo tutti convinti che sia questo uno dei ruoli fondamentali della Comunità capi e quindi del suo animatore. Contrapposto all’esasperato franchismo che può rendere assai difficoltoso lo stesso dialogo tra Capi, lo spirito della Comunità capi tende invece ad una visione unitaria di tutto l’arco di età sul quale si avvera la formazione scout, sottolineando più gli strumenti educativi che uniscono i capi che quelli che li separano a seconda delle Branche. Continuità del metodo vuol dire saper vedere, oltre agli obiettivi intermedi, gli obiettivi educativi comuni dello Scautismo. Infine continuità dei Capi: ciò significa riuscire tutti insieme a rispettare i valori essenziali del Progetto educativo, evitando dannosi salti di aree di interesse prioritario che sottraggono inevitabilmente forza ed impatto alla proposta educativa. Il clima della Comunità capi è un clima di tensione morale. Di questa tensione di tutti i membri della Comunità capi l’anima è, per definizione, l’animatore che, lungi dall’essere un giudice o un censore, si preoccupa molto di più che i Capi facciano delle scelte di crescita e molto meno di quale natura siano queste scelte. Da qui la discorso della responsabilità personale il passo è breve. La Comunità capi non può essere né un gruppo spontaneo né un’alternativa alla discoteca: è un luogo che ha una ragione di esistere finché quanti la frequentano si interpellano sul loro compito di credenti e di uomini che hanno fatto la scelta di servire. In altre parole di uomini che si sentono responsabili delle scelte fatte e della loro realizzazione. Vittorio Ghetti e Federica Frattini, R/S Servire, 1982, n.5, pp.39-40 Non è un arbitro di pugilato Il clima della Comunità capi non deve essere mai privo di cambiamenti: né consolidato in una asettica pace duratura né tanto meno deve essere un perenne combattimento di idee e persone. E’invece, un continuo susseguirsi di dinamiche al suo interno, con la compresenza di delicati equilibri e radicate amicizie tra i suoi componenti. Nel primo caso la Comunità diverrebbe a lungo tempo un ambiente statico e raffermo, dove le idee nuove non troverebbero nemmeno la spazio per il confronto costruttivo ed il pensiero (e comportamento) dei Capi verrebbe ad essere massificato per la pace ed il bene comune o per la paura di rinunciare a parte delle proprie convinzioni. Si verificherebbe un fuggi-fuggi conscio ed inconscio al fine di allontanare ogni possibile occasione in cui ci si potrebbe (ri)scoprire con i punti di riferimento essenziali non sempre comuni. Dominerebbe l’inerzia. Nella seconda situazione, invece, prevale lo stile ed il ritmo del cammino. Le difficoltà incontro alle quali la Comunità si dirige divengono ogni giorno più aspre, difficili ed imprevedibili, ma danno sale alla vita, sapore al nostro essere scout, convinzione al nostro Servizio. Ben vengano, quindi, i delicati equilibri se alla base di essi permangono la stima e la serietà della nostra azione educativa. Altrettanto benvenute saranno le radicate amicizie se non condizioneranno il dono di noi stessi al Servizio scelto con la Partenza. E’ su questa sensibile compresenza che l’Animatore di Comunità capi è chiamato al suo vasto gioco di mediatore ed animatore. Col suo servizio, l’Animatore si trova in una posizione centrale al suo interno della Comunità capi e sarà suo compito favorire il libero sviluppo e la libera acquisizione di contenuti da parte di ogni singolo Capo e della Comunità globalmente intesa. (…) Per essere protagonista di tutto questo, all’Animatore potranno bastare le proprie doti innate, ma dovrà chiamare in campo il risultato del suo cammino formativo e la sua autoeducazione sempre in corso. I tratti essenziali di un buon Animatore dovranno essere rappresentati da: - una personalità matura, consapevole, cioè, delle proprie possibilità culturali e dei suoi sentimenti, delle sue capacità e dei suo limiti, al fine di possedere un comportamento autentico nei rapporti con gli altri. - Una considerazione ed un atteggiamento positivo nei confronti degli altri membri della Comunità. - La disponibilità a non risolvere da solo, o con l’aiuto secondario degli altri, i problemi che sorgono nella Comunità. - La competenza, accompagnata da una giusta e sana dose di sicurezza - La capacità di esprimere affetto e rispetto nei confronti di tutti i membri del Gruppo. Un Animatore insomma, che non potrà essere l’arbitro di un lungo incontro di pugilato oppure la figura stanca ed inutile di un patetico scautismo di secondo ordine, ma colui che sa cogliere ed interpretare le gioie e le amarezze di chi vuol saper servire con l’aiuto della Comunità. Tony Marra, Scout-Proposta Educativa, 1986, n. 30, p.58 Un povero Cristo: un identikit dell’Animatore di Comunità capi e delle sue “croci” Chi è l’animatore di Co.Ca? E’ un povero Cristo? Spesso lo diventa, quando porta su di sé la fatica di condurre una riunione di Comunità capi, magari dopo le riunioni di unità, quando gli “adulti” del gruppo si comportano peggio dei Lupetti e delle Coccinelle. O quando cerca di ritrovare un filo continuità nell’attività delle Unità, che sembrano andare ognuna per conto suo. E’ certo un ruolo ed un servizio importante, ma forse ancora troppo sottovalutato in Agesci. Non è da affidare a Capi di primo pelo, ma forse non deve neanche spettare di diritto (come pure accade) ai vecchi Capi storici ormai prossimi alla pensione. Proviamo allora a fare un identikit di questo “povero Cristo”: è un Capo che ha una certa esperienza di servizio, possibilmente maturata in Branche diverse, che ha ancora spirito e voglia di fare ed ha acquisito un senso di appartenenza associativa (lavora, anche con la critica, per costruire l’Agesci di domani); ha doti di sintesi, capacità organizzativa, intuito delle persone, capacità di saper usare, quando servono, la diplomazia e la franchezza; sa trovare i modi giusti di trattare con altri adulti al di fuori della Comunità capi (genitori, parroco ecc.) non è un accentratore ma sa invece organizzare il lavoro richiamando tutti alla responsabilità comune di gestire insieme la Comunità capi. E le sue “croci” quasi quotidiane? Potremmo raggrupparle in quattro filoni: l’Animatore come sollecitatore e coordinatore. non è quello che decide il programma della Comunità capi: piuttosto è uno che cerca di “pensare prima”, venendo alle riunioni dopo aver sondato umori e suggerimenti e portando quindi proposte concrete, che facilitano la discussione e le decisioni. Cerca altresì di fare in modo che su ogni questione si decida con chiarezza, con l’indicazione di obiettivi, scadenze, incarichi; sarà lui quindi che ricorderà a tutti quello che è stato deciso e gli incarichi di ciascuno; l’Animatore come esperto del metodo per condurre un gruppo di adulti. E’ uno che studia un po’ di dinamica di gruppo e modi di lavoro tali da stimolare la partecipazione attiva di tutti, aiutare a far venire meglio a galla i problemi e quindi ad assumere decisioni più consapevolmente (importanti sono ad esempio le modalità d’impostazione e verifica del Progetto educativo); - - l’Animatore come rivelatore delle tensioni personali. Dal suo intuito e dai suoi rapporti con i Capi cerca di cogliere quelle tensioni nelle e tra le persone che possono risultare negative innanzitutto per la loro crescita e quindi per l’azione educativa del gruppo. Si sforza quindi di trovare le occasioni per farle emergere ed affrontarle (tutti insieme? con attività di Comunità capi o con altri impegni personali?) perché possano giocare come fattore di crescita per la persona interessata e per gli altri, quindi migliorare la qualità del servizio con i ragazzi (questa funzione può risultare delicata soprattutto in occasione dalla formazione delle staff); l’Animatore come cerniera. Cura l’informazione sugli avvenimenti associativi, sugli eventi di vita ecclesiale e del quartiere, quindi stimola e organizza la partecipazione dei membri della Comunità capi (pertanto coordina più in generale il ruolo associativo, ecclesiale e sociale delle Comunità capi; facendo anche un po’ di “pubbliche relazioni” a livello di Gruppo). (…) Michele Pandolfelli, Scout-Proposta Educativa, 1987, n. 6, p.22