Una Comunità di Capi
La più originale intuizione dello scautismo
e guidismo cattolico italiano
Parte II
Come funziona una Comunità di capi?
Introduzione
In questa seconda parte del dossier dedicato alla "Comunità di capi" si affrontano riportando e commentando articoli significativi - gli aspetti fondamentali che qualificano e
caratterizzano questa grande "invenzione associativa":
essere comunità
la comunità nel quotidiano
l’educazione permanente
il Progetto educativo
la vita di Fede e la dimensione ecclesiale
il rapporto con l’ambiente esterno e l’impegno in esso
l’animazione della Comunità capi
Dall’analisi delle predette tematiche mi sembra di poter indicare alcuni punti di riflessione
per il futuro:
non mi pare ancora risolta la tensione tra Comunità di capi come comunità di
servizio (adulti in servizio educativo - con una formazione permanente strettamente finalizzata a
ciò) e Comunità di adulti educatori scout che vi trovano un ambiente di crescita e formazione
anche per la loro vita personale. Questo appare anche da alcuni interventi di taglio generale
riportati nella prima parte. Forse questo tema andrebbe ripreso partendo dall’analisi di chi sono
oggi gli adulti scout che costituiscono la Comunità capi e dei loro bisogni;
negli ultimi tempi non vi è un’attenzione associativa specifica sulla vita di una
comunità;
non hanno riscosso sufficiente attenzione alcune proposte che, in passato, miravano
ad allargare lo spettro delle attività della Comunità di capi con una presenza più attiva e
propositiva nell’ambiente esterno, nella Chiesa locale, nel territorio, anche integrando la comunità
con forze dedicate non al servizio associativo ma ad altre forme di impegno. Nel contesto attuale,
queste proposte potrebbero essere riprese.
Le diverse tematiche sono trattate con articoli commentati, preceduti da una presentazione
generale che cerca di ricollegarle all’essere comunità.
Una parola: Comunità
Capire il senso di essere Comunità tra adulti educatori scout
L’Agesci, negli anni’70, ha scelto una parola impegnativa (comunità) per
designare la struttura che riunisce i Capi di un gruppo, rifiutando termini
amministrativo-aziendalistici (direzione, consiglio ecc.). Si può ritenere che ciò
intenda esprimere un legame in termini di valore tra capi adulti ed anche un
impegno di ciascuno verso la crescita di ciascun componente del Gruppo, altri capi
inclusi.
Non siamo un Clan, siamo adulti
Con il sorgere della Comunità capi si avvia la riflessione sul senso preciso da dare al
termine “Comunità” e quindi sulle scelte concrete per “fare” o “essere” una Comunità.
In primo luogo si avverte l’esigenza di distinguerla dal Clan. Negli articoli che seguono
Carlo Braca e Romano Forleo, all’inizio del cammino della Comunità capi, pongono precisi
paletti: Comunità capi come comunità di adulti che hanno compiuto una scelta di fede e di servizio
educativo; Comunità capi costituita da educatori con il fine di educare i ragazzi con il metodo
scout. Si puntualizza invece che il Clan è una comunità educativa per i membri della stessa
comunità e costituisce la terza fase del percorso educativo dello scautismo.
Comunità capi e Clan
Clan e Comunità capi sono due entità ben distinte: sono due campi educativi diversi: il
primo è per giovani, il secondo è per adulti. Se credete, dispensateci dal dire chi sono i giovani,
quale è il modo di valutazione del mondo, le aspirazioni, le concezioni di vita che caratterizzano
l’adolescenza contemporanea e che sembra costituire un mondo a sé nel più ampio contesto sociale
– un mondo che non si identifica con quello degli adulti, e talvolta, riesce anche poco comprensibile
al mondo degli adulti.
Fermiamoci, invece, a rivedere la Comunità capi, al rallentatore magari, alla moviola, nel
momento in cui essa mette in fuorigioco il lavoro del capo isolato. E’ un gruppo di persone che
porta con sé, come tatuaggi sotto i panni, almeno due scelte di quelle lasciano il segno nella vita,
cioè quella cristiana e quella del servizio educativo.
Scelte del genere il rover le farà se e quando sarà in grado e maturo per farle. Ma intanto,
sono queste due scelte a fissare la natura, gli obiettivi, le caratteristiche e, quindi, la linea di confine
tra i due campi educativi e la diversa dinamica che li governa. Nel clan c’è un rapporto capo-rover
nel quale il giovane si alimenta; nella Comunità capi c’è un organismo che con un rapporto di
reciprocità e di sinergia, si alimenta dai singoli membri ma, nello stesso tempo, esercita più di una
funzione essenziale nei confronti di essi. Quali?
Innanzitutto quella di conoscersi, di capirsi, di creare concretamente la comunione del
pensiero e della riflessione per aiutarsi reciprocamente nel cammino comune e perfezionarsi come
educatori e come persone.
Poi, quella di realizzare una comunità che tende alla comunione, che non intenda separarsi
psicologicamente e spiritualmente come un mondo chiuso ed in comunicante con le altre forze
educanti, istituzionalizzate o no, e quindi dalla vita di cultura e costume quale si svolge nelle strade,
nelle case, dappertutto; una comunità di persone che sappia stare in ascolto della parola di Dio e
delle voci del mondo, perché avverte che l’uomo trae da entrambi le sue energie; che sappia
scoprirle e riscoprirle continuamente e riconvalidarle a se stessa su chiave educativa attuale.
Educare è un verbo che non ha congiuntivo.
L’educazione è, infatti, un atto perentorio che non tollera il ritardo dell’educatore sui tempi
o il risolversi naturale dei suoi dubbi specialmente quando questi sono sistematici.
Alla moviola, ancora più lentamente: la Comunità capi è una comunità che trova la sua
ragione d’essere non in motivi sociologici o psicologici, etnici o politici o culturali, ecc. ma in
motivi teologali. E’, infatti, una comunità di fede, che nasce dalla fede perché è conscia che si
riunisce innanzitutto per realizzare la volontà del Signore; è sorretta dalla speranza della salvezza
perché è conscia di impostare un tipo di educazione che, se si affatica nel concreto di questa
esistenza, ha un approccio che al di là di questa storia; è resa viva e feconda da una testimonianza in
atto che poi sarebbe amore e carità verso chi viene crescendo ancora ignaro della somma e della
dignità del suo essere e della sua destinazione.
Ora un rover, un adolescente difficilmente può prendere in carica tutto questo: è
anticiclonico. Per lui su tutte queste cose non splende ancora il sole; una luce – è vero – ma è quella
di una lampada che dondola con il filo appesa al soffitto, ora illuminando ora nascondendo – con
l’intermittenza di un faro di piccolo porto – le prove e il significato dell’esistenza.
Carlo Braca, Estote Parati, 1971, n. 151, pp.5-8
Un Clan che vuol divenire Comunità capi
Quando un paio di anni fa il Consiglio regionale dell’Asci lanciava le “Comunità capi”
come un modo di vivere lo scautismo, immediatamente sorse in molti capi e rovers la voglia di
trasformare il Clan in una Comunità capi confondendo fini e metodologia delle due comunità.
Il pericolo che ne può derivare è veramente grande: la fine della branca Rover.
E’ opportuno quindi che anche su “Strade” [al sole] si chiarisca, magari con un aperto
dibattito, la diversità esistenziale di queste due strutture.
Inizio io, con la mia personale visione.
Differenze fra Comunità capi e Clan
Ambedue sono comunità, cioè fatte da persone che vivono e operano insieme. Sono
Comunità autonome, con vita propria, e con una propria finalità. Non sono quindi due momenti di
uno stesso “vivere insieme” né due fasi di una attività.
La Comunità capi è costituita da educatori secondo il metodo scout, all’interno di un patto
associativo che li lega all’Asci e all’Agi, il fine della comunità è quindi quello di educare meglio i
ragazzi che vengono affidati al gruppo.
La Comunità di Clan-Fuoco è una comunità educativa per i membri della stessa comunità,
ed è quindi specificatamente la terza fase del processo educativo scout iniziatosi ad otto anni. Il fine
del Clan è quindi essenzialmente quello della educazione dei giovani che vivono in esso e lo
sviluppo della testimonianza giovanile nella realtà circostante.
Il servizio quale educatore all’interno dell’Asci e dell’Agi è la condizione essenziale per
appartenere alla Comunità capi, mentre l’educazione permanente dei singoli è lo scopo secondario,
anche se essa vive in un clima che facilita la crescita di ciascuno.
Il servizio scout del rover e della scolta è un mezzo che la metodologia scout propone per
educare all’impegno, per sperimentare una seria e concreta disponibilità verso gli altri, per educare
a divenire “servo degli uomini”. Il servizio nelle unità non è quindi lo scopo del Clan, anche se è
uno degli utili mezzi per educare a servire.
Lo scautismo ha sempre fatto un discorso di serietà e competenza. L’educazione è una
scienza e come tale necessità una preparazione culturale. Lo scautismo è un metodo che, per essere
applicato, deve essere conosciuto. Le scelte di fondo, quindi, della associazione spettano ai Capi
(effettivi, cioè che hanno fatto una seria preparazione o “di fatto”, cioè che hanno esperienza di
guida di unità scout da almeno due anni).
I Capi si riuniscono in comunità e in assemblee ed insieme decidono le grandi linee
associative. Essi debbono essere portatori delle idee maturate a livello delle direzioni delle unità ove
i rovers non hanno solo la funzione di “imparare il mestiere”, ma che quella di compartecipare alla
realizzazione delle attività. Non si tratta della compartecipazione alla gestione di un “potere”, ma
l’umile e generosa partecipazione ad un “servizio”. (…)
Romano Forleo, Estote Parati, 1971, n. 157, pp.459-461
Ma adulti come? E per che cosa?
La Comunità capi è una comunità di adulti: che vuol dire? Intanto l’adulto educatore è
comunque una persona in formazione permanente; fare comunità tra adulti educatori comporta
capacità di confronto, di ascolto e di collaborazione (già " allenate" durante il percorso educativo)
da mettere in pratica per costruire una proposta educativa per i ragazzi (Marina De Checchi). Non
è una comunità di vita ma nasce (Comunità capi) per uno scopo educativo, come comunità di
cristiani, di uomini e donne che educano e si autoeducano (Paola Incerti).
L’adulto è chi ha fatto delle scelte, in primo luogo di servizio educativo; la comunità di
adulti nello scautismo è una comunità di servizio, ove amicizia e affinità sono auspicabili ma non
indispensabili (Fabrizio Tancioni).
Questa sera riunione di Comunità capi
C’è chi percepisce la Comunità capi come un inghippo burocratico e chi invece ricerca
sostegno, aiuto, protezione…
Essere adulti è forse il primo requisito che l’associazione chiede alle proprie Comunità capi.
In una società che tende a sponsorizzare la sindrome di Peter Pan, delle scelte reversibili,
dell’assunzione di responsabilità il più tardi possibile, questa associazione con pervicacia e
consapevolezza chiede ai propri educatori di farsi carico della crescita umana e cristiana di altre
persone perché scommette sull’adultità dei propri capi.
La Comunità capi è un insieme di adulti, ma è proprio così?
O più propriamente la Comunità capi non assolve forse ad un compito di “adultizzazione”?
Termine poco elegante, ma che significa proprio “acquisizione di comportamenti tipici dell’adulto”
(cfr. T. De Mauro, Grande Dizionario Italiano dell’Uso, UTET).
In buona sostanza, le nostre comunità sono gruppi di adulti o gruppi di persone che devono
ancora diventare adulti?
L’associazione afferma che lo sono e lo dà come presupposto del suo fare educazione; se il
presupposto è chiaro, quello che è meno chiaro è il significato che diamo oggi al termine di adulto,
quando non solo abbiamo capito che l’adulto non è infallibile, né perfetto, né pienamente e
completamente formato, abbiamo fatto nostro, ben prima di altri, il concetto di “formazione
permanente” di cui oggi tutti parlano e perfino la scuola superiore, nel suo progetto di riforma,
propugna come una necessità non più dilazionabile.
Comunità
È la parola che forse risente del periodo storico in cui nasce, dietro le grandi spinte ideali
che hanno mosso generazioni al cambiamento.
L’Associazione chiede ai propri capi di fare comunità, di non essere schegge impazzite per
quanto capaci e geniali. Costruire con pazienza e costanza senza scoraggiarsi mai, perché costruire e
mantenere il senso della comunità è difficile; paradossalmente i capi e le capo dovrebbero essere
allenati a vivere la dimensione comunitaria perché è un esercizio cui sono stati educati sin dal
branco/cerchio, ed è fatta di piccole ma straordinarie attenzioni: una telefonata, una risposta, una
chiacchierata, il gioco difficile, ma non impossibile, di mettersi nei panni degli altri, di nutrire
quella fiducia che si pretende per sé, si tratta in definitiva di essere ogni tanto un po’ meno egoisti,
perché ci si riconosce negli stessi valori che danno fondamento non solo alla vita scout, ma alla vita
di ciascuno.
In una comunità non c’è prevaricazione perché se ci sono cammini, esperienze, stili
personali e caratteri diversi, la finalità è la stessa e se l’obiettivo è il medesimo è su quello che la
diversità andrà ricomposta. La finalità è quella di educare ragazzi, bambini, giovani rispetto a quei
valori umani, cristiani e scout che noi stessi condividiamo ed è attorno alle sfide educative che la
comunità vive, si confronta, lavora.
Anche a rischio di avere opinioni o soluzioni diverse ai problemi perché vivere la comunità
è creare, per quanto possibile, lì’unanimità quando essa veramente esite e non un unanimismo di
facciata. Ma ciò si raggiunge solo con il confronto, con l’ascolto, con la volontà di mettersi in
gioco, grandi e piccoli, giovani e vecchi, indipendentemente dall’esperienza e dall’età.
Marina De Checchi, Scout Proposta Educativa, 2008, n.31, pp.9-11
Che tipo di comunità?
La Comunità capi è una comunità? Senza dubbio, in quanto formata da persone che hanno
in comune una Promessa, una Legge, un Patto, che vivono nello stesso territorio, che condividono
un medesimo Progetto educativo. Persone però che non si sono scelte, ma che sono comunità
proprio perché in quel momento storico ed in quel territorio hanno deciso di fare educazione
secondo il metodo scout. È il qui e l’oggi, oltre ai valori di riferimento, che fa di loro una comunità.
É una Comunità di capi. Con questo intendo dire che la prima ragione per cui queste
persone sono insieme è che hanno scelto di essere educatori. È una motivazione da tenere
continuamente presente. Non nego, anzi ho ben presente, come vi sia la necessità di curare la
dimensione della socialità perché la comunità cresca e con essa la qualità della proposta che
facciamo ai ragazzi, ma il motivo del nostro essere è un altro. Non siamo una comunità di vita e
nemmeno una compagnia.
È una comunità di cristiani. Questo vuol dire che il pregare insieme, il celebrare aiuta la
comunità a crescere, rinsalda i legami fra le persone, dona la forza dello Spirito alla comunione fra
le persone.
È una comunità di uomini e di donne, che si arricchiscono nel reciproco incontro e nella
valorizzazione delle singole differenze. È, o almeno sarebbe bene che fosse, una comunità verticale
in cui convivono e si arricchiscono vicendevolmente persone che hanno età ed esperienze diverse,
anche se in alcuni momenti questa verticalità è impegnativa da gestire. Penso ad esempio, alle
dinamiche nuove che devono maturare quando, dopo aver preso la partenza, un rover o una scolta
entrano in Comunità capi e si relazionano da capi con il loro capo clan, la loro capo fuoco. Lo
stesso vale per il capo clan e la capo fuoco.
È una comunità che aspira ad essere stabile, ma che quotidianamente si trova a dover
convivere con il mutare delle condizioni di vita o di lavoro dei suoi membri. È una comunità in
costante cambiamento.
È una comunità educante. Non è solo una comunità di educatori, ma lei stessa si pone,
attraverso i rapporti, le alleanze, i progetti, le reti che sa costruire con altri, come soggetto di
educazione in quel territorio.
È una comunità auto-educante, perché ha cura della crescita di ognuno dei suoi capi e si dà
occasioni e strumenti perché questa crescita sia possibile.
È infine una comunità di gente che spera, che crede nel futuro, che si impegna a lasciare il
mondo un po’ migliore di come l’ha trovato.
Paola Incerti, Scout Proposta Educativa, 2002, n.26, p.21
Ma la Comunità capi è una comunità di vita?
Nuovi capi alla prima riunione di Comunità capi….Alla domanda: “Ma dove sono finito?”,
potranno avere risposta solo dall’esperienza diretta.
Arrivano da strade diverse e hanno, molto probabilmente, attese diverse, tra le quali cosa
trovare nella vita di Comunità capi: forse la prosecuzione della comunità di clan? Oppure forse
qualcosa di simile alla propria famiglia?
Nello Statuto hanno letto:
Art. 14: “Gli adulti in servizio educativo presenti nel Gruppo formano la Comunità capi che
ha per scopo:
l’elaborazione e la gestione del Progetto educativo;
l’approfondimento dei problemi educativi;
la formazione permanente e la cura del tirocinio degli adulti in servizio educativo;
l’inserimento e la presenza dell’Associazione nell’ambito locale”.?
Ma poi la dalla lettera alla realtà il passaggio non è così automatico.
Adulti in servizio: in due parole due concetti che richiamano le caratteristiche di un capo in
Comunità capi.
Adulto: senza entrare troppo in valutazioni del suo significato intrinseco o
nell’approfondimento di ciò che da più parti viene definita come un’adolescenza prolungata, si
potrebbe dire che si tratta di una persona che ha fatto delle scelte, che sicuramente non è arrivata al
termine della sua maturazione, che crescerà nella profondità e nella qualità, ma che queste scelte,
quelle del Patto Associativo, le ha fatte proprie, sia che provenga da un’esperienza associativa che
da altre realtà; scelte che testimoniano la maturazione personale come cristiano, come cittadino,
come scout.
Servizio: forse è così chiaro che può far tremare le gambe; anche in questo caso, senza voler
mettere alla berlina situazioni particolari (capi a disposizione o altro..), si può dire che si tratta di
persone che hanno scelto di sporcarsi le mani, di entrare in gioco in prima persona, di rimboccarsi le
maniche per gli altri.
Allora già da queste considerazioni i “giovani capi entranti” possono trarre qualche
indicazione su cosa è e come vivere la Comunità capi: non una comunità di vita, non
necessariamente amici o nemici, ma sorelle e fratelli scout in Cristo che condividono valori che
hanno deciso di testimoniare insieme utilizzando le potenzialità e la bellezza dello scautismo.
L’affinità, l’amicizia sono sicuramente auspicabili e facilitanti, ma forse non debbono
considerarsi indispensabili: necessaria è invece la proposta, il coinvolgimento attivo e diretto, il
contributo personale, il lavoro con i ragazzi e le ragazze; Comunità capi come comunità di servizio
quindi, in cui crescere ma dalla quale non aspettarsi il tutto: la crescita come persone, come capi,
come cristiani, deve trovare spazio e fonte anche da ambiti diversi, siano essi associativi, come la
Zona o la Regione, o esterni.
In questo ambiente, potranno così essere portati a compimento gli impegni, evidenziati nello
Statuto, che la Comunità capi assume verso i propri ragazzi/e, le famiglie e l’Associazione.
Fabrizio Tancioni, Scout Proposta Educativa, 2004, n.9, pp.13-14
Ma come vive una Comunità di capi?
Il quotidiano di una Comunità di capi tra dinamiche affettive/
relazionali e attività concrete di adulti, educatori e scout
Una Comunità (e non un consiglio di amministrazione) non può esistere
solo come una serie di riunioni organizzative: c’è una vita più complessa fatta
di momenti diversi che devono rafforzare quel legame di valore e
quell’impegno alla crescita di tutti di cui al capitolo precedente.
Adulti in relazione
La Comunità capi è un gruppo di adulti che vive insieme esperienze concrete.
Deve pertanto essere costituita da adulti maturi sul piano affettivo (e che sono impegnati a
maturare ulteriormente su questo piano), che sanno gestire inevitabili tensioni affettive (Romano
Forleo).
La Comunità capi è un ambiente ove si valorizza la propria identità personale, si sviluppano
le capacità creative di ciascuno e si vive la dimensione di un rapporto umano di costruttiva
amicizia, gestendo anche le scelte per gli incarichi, (Mauro Bonomini).
La Comunità capi deve saper gestire la diversità delle stagioni della vita al suo interno,
dovute alle differenze di età ed esperienza, che possono diventare una ricchezza (Stefano
Pirovano).
La dimensione affettiva della Comunità capi
In ogni gruppo si generano delle tensioni di simpatia-antipatia (“amore-odio”, come dicono
gli psicanalisti), delle conflittualità palesi o latenti, che rendono non facile il lavoro in comune.
Questo è ovviamente evidente anche da noi, già a livello di “comitato” (centrale, regionale,
zonale), ma è ancora più rilevante quando il “gruppo” vive ritmi di incontri più intensi e relazioni
interpersonali più strette, come nel caso dei nostri “gruppi di base”, le Comunità capi.
Non tener conto di queste conflittualità, tentando di non farle emergere (“come siamo
uniti!”), o di mascherarle (“ci divide solo una differente impostazione ideologica”) sarebbe come
voler negare nella “educazione del carattere” (personalità, nel significato che dette a questa parola
B.-P.) la dimensione affettiva.(…)
Una volta che in una visione integrale della persona umana si accetta come visione naturale
la presenza costante di una tensione affettiva all’interno delle Comunità, mi sembra che sia anche
corretto tentare di domandarsi cosa ci sia alla base di essa.
Senza pretendere di dare risposte esaurienti su un tema come questo per sua natura
complesso, ma cercando di riflettervi insieme, credo che non si possa rifiutare quanto afferma
Freud, cioè la “natura libidica dei legami che mantengono la coesione di un gruppo”. (…)
In altre parole anche nelle comunità, come nella vita interiore di ciascuno, esiste una
conflittualità fra desiderio e paura, fra utopia e tradizione, fra gioia di vivere e timore di essere
sopraffatto, ecc. che poggia profondamente sulla sfera emotiva ed affettiva della nostra esistenza.
Perché ciò non divenga però dirompente occorre che nel gruppo (come nella persona) si possa
creare un buon rapporto fra idealizzazione ed accettazione del presente. Se ciascuno di noi “vuole la
fiaba” e, scontrandosi con la delusione del presente, persiste nel rifugiarsi in un futuro idilliaco,
crolla sul piano affettivo, e per un effetto di “contagio” crea tensione nel gruppo. (…)
Lo stesso riferimento alle comunità cristiane primitive non è alieno da questo rischio. “Vi
riconosceranno da come vi vorrete bene” è infatti una linea di tendenza, una meta cui dirigersi, è
una utopia, un termine di riferimento, non l’immagine del presente. Volersi bene vuol dire infatti
non abbracciarsi stretti stretti come volevano fare i ricci, ma stare a giusta distanza toccandosi e non
pungendosi.
Occorre cioè accettare la presenza degli aculei tra i membri di una Comunità capi (tra
generazioni, fra sessi, fra branche … fra persone), in modo che il progetto ideale che ci unisca non
trascuri gli affetti personali.
Rispettare gli altri, non solo le loro idee, ma soprattutto i loro investimenti affettivi, diviene
quindi un imperativo per la vita della Comunità. Ma qui sorge una domanda, che ha maggiore
importanza in una comunità che svolge anche un ruolo di educazione permanente: “Come posso
avere rispetto degli altri se non ho rispetto per me? Come posso non trasferire ad altri le mie paure,
le mie ansie, la mia angoscia esistenziale se non le ho chiare con me stesso?”
Ecco qui la necessità che la Comunità capi sia composta se vuol essere un gruppo educante,
da capi maturi sul piano della affettività, capaci cioè non solo di declamare bene agli altri la forza
del loro amore, ma di dimostrare di voler bene concretamente.
Capaci non solo di definire progetti di “educazione non emarginante” ma continuamente tesi
a non emarginare nessuno.
Occorre cioè che nella scelta e nella formazione dei capi si dia più peso alla maturazione
affettiva.
Romano Forleo, Scout-Proposta Educativa, 1979, n.l0, pp.171-173
Dinamiche di Comunità capi
Perché sto nel gruppo?
Come per altri gruppi, ci si riunisce in Agesci anche per altri motivi:
- recupero di sicurezza ed identità personale;
- necessità di contatto e amicizia con altre persone;
- bisogno di trovare un ambito in cui esercitare le proprie capacità creative e le
proprie capacità ed esigenze direttive. (…)
Recupero di sicurezza ed identità personale
Ma un educatore non deve essere già sicuro delle proprie scelte e della propria identità?
Considerando che la personalità di ogni individuo è in continua evoluzione, è nel confronto
all’interno di un gruppo con solide basi di valori che un educatore migliora e rinnova il proprio
servizio e il proprio vissuto.
La consapevolezza di condividere con gli altri scelte educative e di vita è quindi un elemento
importante per l’adesione e la motivazione alla partecipazione. Ne consegue che all’interno delle
attività di Comunità capi il richiamo ai valori e alle scelte personali e di gruppo deve essere chiaro e
comprensibile per tutti.
Necessità di contatto ed amicizia con altre persone
Può capitare che, limitando la funzione della Comunità capi a scopi logistici, di
coordinamento o di controllo, si perda di vista il rapporto umano e di amicizia tra i suoi
componenti. Senza scomodare le dinamiche di gruppo, una comunità di educatori che non vive una
serena e costruttiva amicizia è una contraddizione. Per assurdo, o forse a volte per comodità, questa
dimensione viene negata o minimizzata. E’ invece di primaria importanza che in un gruppo esistano
armonia ed amicizia, senza nascondere l’esistenza di simpatie o antipatia tra i componenti. (…)
Un ambito per le proprie capacità creative
Qui siamo nel campo della valorizzazione delle risorse: riconoscere le capacità e le attitudini
delle persone e fare in modo che queste, ragionevolmente siano utilizzate e stimolate. Ciò richiede
la disponibilità di tutti a mettere a disposizione i propri talenti, e la capacità del gruppo di
individuare ambiti ed occasioni in cui questi talenti possano svilupparsi ed essere utilizzati.
Qui la sensibilità del Capo gruppo è essenziale.
Sia nella Comunità capi sia nelle attività educative verso i ragazzi la creatività e le capacità
tecniche di ciascuno vanno sfruttate, stimolate, motivate, riconosciute, valorizzate. (…)
E le capacità e le esigenze direttive?
Tocchiamo un tasto dolente. Molto (troppo) di frequente questo argomento influenza in
modo negativo i rapporti e il lavoro nelle Comunità capi e tra le direzioni di unità. Un fattore che
potrebbe essere molto positivo diventa invece un potentissimo freno all’armonia e all’amicizia nel
gruppo. E’ in fondo la ricerca del potere che anima molti contrasti, anche se potrebbe essere
difficile comprendere che cosa si guadagni ad avere incarichi dirigenziali in un’associazione dove
nessuno è retribuito.
Invece, alcuni incarichi possono essere, per un determinato tipo di persona, molto
gratificanti ed ambiti, a parte qualsiasi considerazione inerente il servizio. Questa situazione crea
conflitti di difficile gestione. Un corretto equilibrio di potere richiede che a ognuno sia data la giusta
considerazione per la funzione che svolge, senza sminuire l’apporto ed il lavoro di nessuno. Inoltre,
è necessario sviluppare la capacità di comprendere, anche se non sempre condividere, le ragioni e le
motivazioni degli altri.
In caso di dubbio su questioni metodologiche (cosa che spesso viene evocata per giustificare
conflitti tra le persone), sono a disposizione i regolamenti e le pubblicazioni associative; in caso di
conflitti su altri temi, può essere buona cosa utilizzare una delle tecniche di animazione di gruppo
come il gioco di ruolo. Occorre accettare le competenze e le capacità degli altri, sapendo, se lo si
ritiene necessario, proporre i propri correttivi in spirito di collaborazione e non di conflittualità.
Mauro Bonomini, Scout-Proposta Educativa, 1995, n.10, pp.4-5
Le stagioni della vita
Attraverso una breve analisi dei dati del censimento, si verifica la presenza, nelle nostre
Comunità capi di giovani adulti di diverse età. Sono cioè rappresentate diverse stagioni della vita
che possono costituire un elemento disgregante e dirompente nella vita delle Comunità capi.
Attraverso la conoscenza del profilo psicologico e formativo delle diverse età, è possibile invece
giungere alla valorizzazione delle differenze, così da rendere ancor più efficace l’offerta di
educazione delle Comunità capi.
Se tutte le età rappresentate nelle Comunità capi hanno come elemento unificante fare
servizio, è poi difficile trovare altri denominatori comuni, fatti naturalmente salvi quelli più
profondi e personali legati alla scelta di fede e alla scelta di educare attraverso il metodo scout. Si
pensi, ad esempio, alle diverse disponibilità di tempo (forse non tanto in termini quantitativi, quanto
piuttosto di distribuzione degli impegni) che possono avere giovani studenti universitari rispetto a
capi più maturi con lavoro e figli.
Stabilità e instabilità
Se poi si fa riferimento alle diverse esperienze di crescita personale le differenze fra i più
giovani e i più anziani diventano ancora più marcate e meno mediabili (si parla ovviamente per
generalizzazioni).
Si pensi alla diversa visione della vita che a sua volta è secondaria a fattori dipendenti
dall’età, indipendenza economica, stabilità affettiva, responsabilità di una famiglia, stabilità
nell’ambito lavorativo consentono di affrontare i problemi da un punto di vista diverso da chi, per
contro, è spesso soggetto a dipendenza economica dalla famiglia di origine, da un’instabilità di sede
(legata agli spostamenti per gli studi universitari, per il servizio civile o militare) ed a una non
precisa definizione del proprio avvenire, in particolare per ciò che riguarda il lavoro e la formazione
di una famiglia (in una parola le scelte “vocazionali”).
Va poi sottolineato che l’adulto, seppure seriamente convinto della necessità di una
formazione permanente, ha certamente meno bisogno di esperienze “educative”, di quanto non
abbia un capo giovane, che si trova nella duplice e impegnativa veste di educatore nei confronti dei
ragazzi e di persona in rapida crescita e maturazione personale.
Un’altra differenza che credo non irrilevante nella vita delle Comunità capi, è dovuta alle
esperienze di scautismo che i capi agli estremi della curva di distribuzione della variabile età, hanno
fatto. Se è ovvio che l’età costituisce un titolo di merito, d’altro canto esiste un indubbio retroterra
di esperienze e di dibattiti che spesso è dato per scontato, ma che acuisce le differenze nei confronti
dei capi più giovani nell’affrontare le tematiche educative proposte dall’impegno di capo.
Trovare elementi unificanti
Tutto questo, insieme ad altri aspetti che probabilmente sono sfuggiti in un’analisi così
rapida, deve trovare una risposta armonizzante capace di far sì che le differenze costituiscano una
ricchezza e non una ragione di divisione. Appare chiaramente come capi in diverse stagioni della
vita si trovino a dover cercare ragioni di convivenza in virtù di quel servizio che è stato individuato
come elemento unificante.
Probabilmente nelle Comunità capi occorre rinunciare al tentativo di fare proposte che
ottengano risposte omogenee da parte di tutti i membri. Ad esempio la vita di Comunità capi deve
fare a meno di un certo cameratismo ereditato dall’esperienza acquisita nelle Branche, mala sciati
gli atteggiamenti giovanili, deve fondare il rapporto fra le persone su sentimenti profondi di stima e
di rispetto.
È noto che ogni processo di crescita avviene per fratture e successive ricomposizioni di
equilibrio che consente di progredire a partire dalla conoscenza di sé, attraverso la scoperta del
passo successivo da compiere, fino al raggiungimento di un nuovo stadio maturativo, che lascia alle
spalle tutto quanto c’è di vecchio.
Questo procedere su binari paralleli ed a velocità diverse è certamente un problema di
difficile soluzione ed è la ragione per cui si insiste nell’affermare che la Comunità capi è una
comunità di servizio e non di vita. Se questa affermazione venisse confutata si arriverebbe a creare
nelle Comunità capi una condizione di squilibrio nella quale alcuni (i più vecchi) finiscono col
diventare educatori di altri (i più giovani), riproponendo gli stereotipi di altre branche.
A questo punto è chiaro che per evitare situazioni di conflitto che frenerebbero (e in alcuni
casi stanno frenando) lì esperienza delle Comunità capi è necessario che i membri delle Comunità
capi stesse abbiano presente che le diverse stagioni della vita portano con sé inevitabili differenze
negli atteggiamenti psicologici e di comportamento, come questo articolo ha cercato di tratteggiare
e che a partire da queste differenze occorre trovare il modo per lavorare.
Nelle Comunità capi deve essere essenziale e profondo il richiamo alla fede, che non
conosce stagioni della vita. Pregare regolarmente con la Comunità capi, trovare una, due occasioni
l’anno per la “giornata dello spirito”, costituiscono il minimo necessario per non dimenticare
l’importanza dell’elemento unificante della fede.
Viene poi il richiamo al servizio: la “ragione sociale” della Comunità capi è quella di offrire
del buon scautismo. Ricchezza di esperienza e curiosità, stabilità ed irrequietezza mentale,
tradizione e novità non devono essere elementi disgreganti, ma, al contrario, propulsori di una
Comunità capi finalizzata al continuo miglioramento della propria capacità di offrire educazione.
Stefano Pirovano, R/S Servire, 1992, n.4, pp.23-25
La ricetta della Comunità capi
Qual è il segreto di una vita sana di Comunità capi?
Ecco alcuni consigli pratici: ambiente sereno, progetti alti, capacità di giocare e nello
stesso tempo di occuparsi di problemi complessi, luogo di partecipazione e confronto, tempi serrati,
cammino di Fede (Mattia Cecchini).
Luogo di dialogo e di confronto, dove si sperimenta l’affidabilità delle persone (Marina De
Checchi).
Non solo una macchina educativa ma un luogo per riflettere e costruire (Paolo Vanzini).
Si gioca e si cerca di svolgere il proprio compito con lo stile e la forma del gioco (Betty
Fraracci).
Turnover: contro la fuga dei capi regole di vita sana per una Comunità
capi
Turnover vuol dire ricambio. Il calcio ha scelto questa parola come rimedio ad un problema:
si spende di più, ma si mandano in panchina i giocatori bravi come i titolari; se qualcosa va storto
non si perde in qualità ed abilità. Anche tra gli scout – buffo – è arrivata la parola turnover: prima
per dare il senso di un fenomeno (il ricambio dei capi) e poi, soprattutto di un problema, la
mancanza di capi, oltre che di iscritti. Non è da escludere che tra le due cose ci siano legami più
profondi di quanto non appaia: affidare a R/S ai primi anni di Clan impegnativi servizi in Branco o
in Reparto (magari proprio per carenza di capi) non significa solo chiedere tantissimo in termini di
tempo (ne hanno già così poco), anche “consumarli” troppo presto. Si dice che i giovani capi si
“bruciano”. Casomai, il problema è che si spengono, come bellissime candele che durano poco.
Bruciare richiede tempo, uno dei problemi imposto dal turnover dei capi è la sua velocità. Lo
slancio ideale del primo anno di Comunità capi (post-partenza) si consuma: c’entrano servizio,
università o lavoro, amicizie e anche la vita di coppia. Bruciare richiede tempo, uno dei problemi
imposti dal turnover dei Capi è la sua velocità. Lo slancio ideale del prima anno di Comunità capi
(post partenza) si consuma: c’entrano servizio, università o lavoro, amicizie e anche la vita di
coppia. Ma qui siamo nella sfera delle scelte personali: se voglio fare bene il mio servizio, perché è
una mia scelta, importante per me, il tempo lo trovo. C’è però, una turnover innescato e agevolato
dal malfunzionamento delle Comunità capi.
Non è difficile elencarne i perché: litigi, sospetti, mancanza di stima o di fiducia reciproca,
riunioni inconcludenti o a cui si va senza sapere per fare cosa, bassa sensibilità associativa. Ma così
è troppo facile; qualsiasi Comunità capi sa da sola che questa cose non può permettersele. Ma si
anche che il malfunzionamento della Comunità capi smonta e allontana i capi, quindi meglio
guardare in positivo e ricordarci il lato non oscuro della forza di una Comunità capi. E’ stato detto
che la Comunità capi è l’unico strumento che l’Agesci ha per continuare a fare scautismo, perché è
determinante affinché i capi facciano bene i capi e, e soprattutto, continuino a farlo.
Questo avviene se:
c’è un clima e un ambiente sereno in cui le cose che si fanno hanno un senso
importante per tutti i capi.
La Comunità capi non si limita solo ad una gestione e progettazione educativa,
ma si fida e si lancia in progetti alti, magari anche “fuori di sé”, si ritaglia spazi pratici,
occasioni di servizio comune e di vita all’aria aperta.
La Comunità capi sa essere un gruppo amicale, informale, in cui si può anche
giocare, ma che si occupa di problemi e contemporaneamente ha precisi ruoli, scelti dai
suoi componenti (mai imposti).
E’ luogo di partecipazione e non di ratifica, dove ogni capo può sentirsi
determinante e dove ogni capo risponde davanti alla sua Comunità del suo mandato
educativo in modo vero e non formale.
E’ luogo di crescita e confronto personale che rende verificabili idee e
comportamenti, ma non l’unico luogo che il capo frequenta.
Non si perde tempo, ma ci si dà tempo preciso, magari anche ristretto, per fare le
cose e poi verificarle.
In cui si prega e si sperimenta un cammino di fede e la fratellanza cristiana
(accettare ed accogliere l’altro; anche in modo concreto).
E’ luogo di formazione, ma non il solo dove si forma il capo.
E’ il luogo che aiuta il capo a superare le difficoltà di sentirsi un testimone
coerente.
E’ luogo di verifica dello stile associativo.
Mattia Cecchini, Scout-Proposta Educativa, 2002, n. 26, p.26
Il bicchiere mezzo pieno
Forse dovremo apprezzare uno stile di vita comunitaria che impariamo fin dal branco e dal
cerchio e che troviamo del tutto normale riprodurre: ricercare uno spazio per tutti, prepararsi a
partecipare in prima persona, confrontarsi e discutere per riuscire a decidere, fin quando si può,
all’unanimità. Uno stile di vita comunitaria che richiede molto tempo, molta energia ma che
raramente ci fa pensare alle nostri riunioni come atti dovuti, alle quali partecipare per “fare
presenza”. E’ poi il desiderio che ciascuno ha per la sua vita: dare senso a tutto quello che fa
sentendosi parte di un progetto in cui si riconosce.
Dirò di più, mi pare che, proprio perché il metodo che abbiamo vissuto e che proponiamo è
un metodo che guarda alla persona nella sua interezza, anche le nostre Comunità capi siano gruppi
di adulti che sono aperti ai problemi, alle tensioni, alle sollecitazioni del mondo in cui ci sentiamo
parte e col quale ci sentiamo compromessi.
Cosa chiedono i giovani capi alle nostre comunità? Sarebbe interessante che ciascuno di loro
si esprimesse a questo riguardo. Negli incontri dei tirocinanti, nei campi di formazione
metodologica, nelle assemblee di zona, quello che ho raccolto, da Luisa, Marco, Stefano, Giorgia …
potrebbe riassumersi così: “… ci aspettiamo una vita di Comunità capi dove non si partecipi solo
per dovere, ma che sia un luogo di dialogo e di crescita; una comunità che oltre ad occuparsi di
organizzare e tenere le fila dell’attività del gruppo, trovi spazio per essere un luogo di crescita per
tutti. La Comunità capi deve trasmettere soprattutto ai giovani capi una sensazione di presenza e di
affidabilità, sapere cioè che ci sono altre persone cui è possibile domandare, con cui discutere, a cui
si può chiedere aiuto e consiglio. Con la partenza si parte per una strada che si spera lunga e piena
di sfide e di avventure, sarebbe bello che in una Comunità capi si parlasse anche di tutte le altre
sfide e scelte che i capi incontrano al di fuori del loro servizio scout, anche se le differenze di età
potrebbero complicare non di poco il confronto”.
Comunità capi allora che sono un impegno ma anche un piacere, un momento di verifica ma
anche di incoraggiamento a proseguire.
Marina De Checchi, Scout-Proposta Educativa, 2006, n.27, pp.14-15
L’uscita di Comunità capi non è tempo perso
Uscita di Comunità capi … Ci siamo proposti di farne almeno una l’anno, in chiusura delle
attività. Quando ci penso da freddo calcolatore, ne vedo subito il lato efficace: 24 o 36 ore fuori dai
piedi, completamente immersi nei lavori.
Ma poi fortunatamente il capogruppo che è in me si fa sentire, e mi accorgo che il
rendimento a volte si può sacrificare, in favore di occasioni più alte e più rare. L’uscita della mia
Comunità capi, quindi, cerca di distribuire quest’abbondanza di preziosissimo tempo anche in altre
direzioni: tempo per riflettere, tempo per costruire la Comunità capi, tempo per confrontarci con le
persone e con le cose.
Si può giocare o rispolverare tecniche che a volte rischiamo di dimenticare,
immedesimandoci nella proposta che rivolgiamo ai ragazzi, si possono approfondire conoscenze e
relazioni, si può sperimentare quello scautismo che nella vita di tutti i giorni resta sommerso
dall’urgente e dal rumoroso.
Non è tempo perso: la Comunità capi vive di un complesso sistema di esperienze, attività ed
impegni, e proprio per questo risulta difficilmente definibile. Quello che è invece possibile definire
è cosa “non è” la Comunità capi: ad esempio non è una “macchina educativa” da sfruttare a pieno
regime. Così siamo andati in uscita, come tutti gli anni, con la consueta partecipazione piuttosto
ampia. Abbiamo lavorato e prodotto, certo, ma anche tutto il resto. E pedalando la ritorno la
sensazione era che non ci saranno difficoltà a riproporre questa esperienza l’anno prossimo.
Paolo Vanzini, Scout-Proposta Educativa, 2004, n. 34, p.16
Attività pratiche in Comunità capi
Ipotizziamo una riunione di Comunità capi di inizio anno con alcuni capi nuovi, pensiamo di
parlare dei valori della scelta di essere capi e di rappresentarli attraverso la costruzione di una casa
di almeno tre piani.
Si procede a fornire ai gruppi in cui i capi sono stati suddivisi, tutto il materiale occorrente
per costruire una casetta in miniatura: carta, cartoncino, legnetti, colla, cellophane, scotch,
pezzettini di plastica, materiale riciclato di ogni genere, cutter, forbici, pennelli, pennarelli, pastelli,
tempera, eccetera, e si dà un’ora per costruire il tutto.
In questo tempo il gruppo lavora e alla fine mostra e spiega il proprio lavoro, ma soprattutto
illustra quali valori ci sono nelle fondamenta della casa, ammesso che le fondamenta siano state
contemplate, cosa è stato messo al primo piano, cosa al secondo e cosa al terzo, e il tetto? Cosa dire
del tetto? Qui libero slancio alla fantasia .
Chi conduce il gioco inoltre deve portare i partecipanti a pensare e confrontarsi sullo stile di
lavoro del gruppo, sulla collaborazione tra tutti i suoi componenti, sulla progettazione fatta prima
della costruzione.
Similmente, per parlare di progetto, perché non costruire un aereo e poi fare la gara di volo?
I gruppi, con il materiale fornito dall’animatore, progettano, costruiscono, gareggiano, la giuria
valuta e proclama il vincitore, ma alla fine si riflette su come sono stati progettati gli aerei: gli
obiettivi quali erano, solo l’estetica? O magari la tenuta di volo? Sono realizzabili questi obiettivi?
Hanno collaborato tutti?...
Sono veramente molteplici queste attività funzionali poi ad una riflessione, ma non può
essere disdegnata l’abilità manual-culinaria che si può esprimere preparando una supera cena di
Comunità capi con gara di cucina. E quando si parla di cibo la partecipazione è assicurata!
Betty Fraracci, Scout-Proposta Educativa, 2001, n. 14, p.27
Educatori che si educano
Che cos’è la formazione permanente in Comunità capi?
In una comunità di adulti in servizio educativo non si può non dedicare tempo
alla propria formazione insieme a quella degli altri, con un impegno comune di
lungo periodo; il punto diventa quale tipo di formazione.
Formare Capi o persone?
La formazione permanente è forse stata uno dei temi più dibattuti relativamente alla vita
della Comunità capi. A lungo le posizioni sono oscillate tra la valorizzazione di una dimensione
adulta dello scautismo nella Comunità capi da un lato ed invece una stretta finalizzazione al
servizio con i ragazzi di ogni occasione formativa in Comunità capi dall’altro. Ecco una rassegna
di interventi sul tema.
Agli inizi della Comunità capi, al primo campo per animatori (1972) Annamaria Capo
prospetta per i Capi un’esperienza di vita associativa per educatori, valida non solo per educare
bene ma anche per crescere bene (Comunità capi come un ambiente ove vivere una dimensione
adulta dello scautismo e ove aiutarsi a crescere come adulti).
Renato Milano (1973) si mantiene sulla “Comunità di servizio”: comunità di educatori
scout che si incontrano per mettere in comune i loro problemi di educatori scout e nella quale si
attua una formazione permanente come prosecuzione della Formazione Capi istituzionale
(educazione al compito di educatori).
Giovanna Pongiglione (1992) sottolinea che l’ingresso in Comunità capi segna la fine
“dell’essere educati” e l’inizio del “ci educhiamo”, di un laboratorio di autoformazione tra adulti,
anche se la formazione si realizza in mille occasioni esterne. Il laboratorio funziona se si è motivati
e disposti a continuare ad imparare e a cambiare.
Franco La Ferla (1997), nel dilemma se la Comunità capi debba formare Capi o formare
persone, osserva che, anche per la sua esperienza, l’accento sulla formazione del capo ha effetti
certi e positivi sulla maturazione dell’uomo ed evita il rischio di chiusura all’esterno.
Elisabetta Favaron (2002), per altri versi, sostiene invece che la formazione permanente del
Capo in Comunità capi deve operare sull’atteggiamento e sulle motivazioni della persona, tenendo
conto delle diverse esigenze dell’adulto in servizio educativo e avendo a cuore le relazioni tra Capi.
Nella formazione capi in Comunità capi bisogna poi tener conto del necessario
“accompagnamento” dei giovani Capi nel loro cammino di formazione, valorizzando l’accoglienza
e le relazioni interpersonali profonde (mozione 14/2002 sulla Formazione Capi).
Educazione permanente
“Si fa crescere nella misura in cui si cresce”
Sul piano dell’educazione significa affermare che il Capo, l’educatore, vive nella stessa
tensione di crescita in cui si muovono i ragazzi tra i quali agisce. Significa dire che l’educatore
costruisce se stesso, così come giorno per giorno i ragazzi costruiscono se stessi. (…)
In questo quadro, educare gli altri ed educare sé stessi sembrano coincidere; non sono pochi
tra noi, coloro che ritengono di poter attribuire al loro lavoro di capo, di educatori, il meglio della
loro formazione professionale.
Sarei d’accordo su questo ma in realtà vorrei vedere in concreto a che cosa porta una
affermazione di questo genere.
Vivere nella stessa tensione di crescita dei ragazzi non è la stessa cosa che vivere della
stessa tensione di crescita.
Vivere nelle cose, nei problemi dei ragazzi, non è vivere delle cose, dei problemi dei
ragazzi. E quello che ci capita a volte invece è proprio vivere delle cose loro, calarci nella loro
realtà dimenticando la nostra, dimenticando cioè proprio ciò che ci si aspetta che siamo. Ci
aggiorniamo, ci informiamo sul metodo, su problemi metodologici e tecnici ma ci dimentichiamo di
crescere: siamo troppo occupati ad informarci. (…)
Credo sia molto importante che nelle nostre associazioni si dia più spazio ad una
problematica di capi, di educatori, e per questo dobbiamo veramente aiutarci a vicenda, perché
siamo noi che dobbiamo crearci questo spazio. Questo non significa però fare una associazione di
capi, ma rendere più agile il discorso di educazione, non solo in chiave metodologica. (….)
Credo che l’associazione debba offrire ad ognuno di noi una esperienza di vita associativa
per educatori, valida non solo per educare bene ma anche per crescere bene.
In primo luogo direi che dovremmo essere un po’ meno sicuri del fatto che il metodo scout
in sé e per sé faccia crescere tutti. C’è nel metodo una dinamica che è buona premessa anche perché
permette di cogliere la persona nella sua globalità; ma su questa premessa sarebbe il caso di mettere
intenzionalmente anche qualche altra cosa. Direi che in effetti ci manca una specie di tessuto adulto,
anche se nelle nostre associazioni ci sono gli organi responsabili. Quello che ci manca è una trama
su cui intrecciare l’ordito, infatti siamo noi a fare la trama e l’ordito. (…)
Io penso, e spero sarete d’accordo, che c’è una dimensione adulta nello scautismo, implicita
e neppure tanto, nell’idea originaria, e che questa dimensione non l’abbiamo portata avanti. E forse
questa è stata una scelta fatta in un certo momento, scelta però che a mio avviso oggi è da rivedere
nelle sue implicanze. (…)
A parte questa nostra incapacità di dialogo, abbiamo perso un certo tipo di maturazione dello
scautismo che oggi vorremmo forse avere; oggi che abbiamo, tra l’altro, fatto una scelta a dir poco
delicata, di coeducazione, scelta per la quale la maturità, l’equilibrio psichico e la solidità del capo
sono indispensabili. Oggi sappiamo di aver bisogno di capi adulti.
Ma cosa c’è, cosa trova un capo adulto, o meglio, cosa può fare per evitare di racchiudersi in
una problematica di giovani?
Può avere un ambiente su misura nel continuare a realizzare ciò che è un suo diritto, e cioè
la propria crescita personale?
Dire che un adulto può continuare a crescere non significa che si è nella certezza che
comunque crescerà, neppure se è educatore, anzi ci si può attendere tranquillamente il contrario.
Crescere significa avere un ambiente reale di crescita, anzi per gli adulti, una pluralità di ambienti.
Dal punto di vista strutturale l’ambiente è previsto: è la Comunità capi, di gruppo, di ceppo,
la Comunità capi mista, la Comunità capi di branca, di regione, e anche se in questa previsione c’è
un po’ di ottimismo perché tutti noi sappiamo quanto sia difficile realizzare una comunità, il punto
da verificare è se vale la pena di fare questo sforzo e se con esso raggiungiamo qualcosa o meno.
In genere la nostra esperienza ci dice che a livello gruppo, a livello ceppo, si rende
necessario il coordinamento delle attività tra le unità che lo compongono. Questo è un buon motivo
d’incontro, anche perché tra l’altro evita inconvenienti logistici.
C’è poi la ricerca di una impostazione pedagogica unica, le attività coordinate, che
dovrebbero essere conseguenza di qualcos’altro. Quindi questo luogo d’incontro, questa comunità,
sorge come incontro di persone che si uniscono insieme perché perseguono uno scopo: si occupano
insieme di quella realtà pedagogica unica che è il ragazzo che cresce.
Per questo scopo, mentre aiutano i ragazzi a costruirsi la loro unità, essi, insieme,
costruiscono una comunità a loro misura.
Costruire insieme una comunità significa porsi con gli altri alla pari in una disponibilità di
rapporto personale e di dialogo circolare.
Significa voler fare sulla propria pelle un’esperienza di educazione come soggetto, come
soggetto che si educa insieme agli altri e che pertanto insieme agli altri fa un discorso al proprio
livello e al livello degli altri.
Un discorso che parte da come siamo in realtà e non da come ci poniamo o vorremmo
essere; che permette ad ognuno di noi di riscoprire la propria vocazione; di verificare la propria
scelta pedagogica, di costruirsi una fede adulta, di misurare la propria testimonianza, di mettere in
discussione la propria coerenza.
E tutto ciò è difficile perché ci tocca come persona. Eppure è così che si cresce ed è ancora
più difficile, perché noi, che amiamo tanto il metodo, ci troviamo sprovvisti di una metodologia di
educazione degli adulti e siamo noi stessi a doverla creare di volta in volta a misura della comunità
in cui ci poniamo.
Esistono tecniche di educazione permanente: l’animazione in effetti è una delle più
importanti, ma educare sé stessi insieme agli altri è in primo luogo una tensione, è un impegno, un
atteggiamento personale e comunitario cui deve corrispondere un lavoro di gruppo protratto nel
tempo, una reale partecipazione di tutti, un’armonica distribuzione delle attività per garantire lo
sviluppo globale sia della persona che della comunità.
Annamaria Capo,
Atti del primo Convegno nazionale animatori ed animatrici di Comunità capi,
Estote Parati-Il Trifoglio, 1972, n. 3, pp. 5-9
Comunità di servizio
L’intento di queste brevi note è quello di offrire a tutti i capi interessati un’occasione di
riflessione e di verifica su alcuni concetti relativi alle Comunità capi e che, ancorché scontati per i
più anziani, possono invece tornare utili ai più giovani. (…)
La Comunità capi è infatti una comunità di educatori scout, di uomini e di donne, cioè che
hanno fatto una scelta di servizio nel campo dell’educazione dei giovani con il metodo dello
scautismo e che avvertono l’opportunità, la necessità anzi, di incontrarsi per mettere in comune i
loro problemi di educatori scout in una tensione continua finalizzata alla crescita dei ragazzi loro
affidati.
Dunque una comunità di servizio e non una comunità di vita, il che mentre da un lato offre
già un criterio di differenziazione rispetto al Clan e al Fuoco, dall’altro consente di definire meglio
la funzione che dalla Comunità capi deve essere assolta nel contesto associativo. Ed è, a mio avviso,
una funzione molto importante, essenziale direi, per garantire la “continuità educativa” che
caratterizza, talvolta purtroppo solo a parole, il metodo scout; per fare dell’educazione avendo ben
presente la realtà sociale in cui il Gruppo o il Ceppo operano; per realizzare, o meglio, per
concorrere a realizzare, la “chiesa locale”.
L’azione educativa dei singoli capi ha la possibilità di trovare un riscontro nella Comunità
capi, di essere verificata alla luce delle considerazioni, delle “letture” della realtà sociale che in altri
capi dello stesso Gruppo-Ceppo abbiano fatto ed alle quali abbiano informato la loro azione
educativa. (…)
La responsabilità dell’azione educativa, già propria dei singoli capi unità, viene ad essere
condivisa dall’intera Comunità capi; e ciò con evidenti vantaggi tanto per l’armonico progredire dei
singoli ragazzi del Gruppo-Ceppo per i quali il passaggio all’unità successiva non potrà non essere
più naturale, più dolce, senza quegli scossoni che hanno talvolta determinato, nonostante le più
sincere affermazioni circa la continuità del metodo, dei veri e propri traumi psicologici, quanto per
gli stessi capi che, chiamati ad interessarsi anche dei ragazzi di altre unità, di altre branche,
potranno scoprire il più profondo significato del servizio di educatori rifuggendo
contemporaneamente dal rischio di diventare degli “specializzati” delle singole branche, rischio
questo che ne comporta un altro più grave: quello di vivere l’esperienza staticamente piuttosto ched
nella dimensione dinamica che è propria di qualsiasi processo educativo.
Da questa brevissima, e per molti aspetti, incompleta analisi mi sembra sia emersa
chiaramente una funzione importantissima della Comunità capi: quella di costituire l’ambiente ove
si realizza l’educazione permanente dei capi in quanto tali.
E’ infatti nella Comunità capi che prosegue “permanentemente” la formazione dei capi dopo
i momenti forti costituiti dal corso di primo tempo, dal campo scuola, dal tirocinio e dalle tesi. Ed è
proprio questa caratterizzazione di formazione capi a delimitare la funzione della Comunità capi, a
circoscrivere l’ambito operativo alle questioni ed ai problemi propri delle persone che la Comunità
capi costituiscono avendo fatto una scelta comune di servizio fondata sul cristianesimo e sullo
scautismo. Sarà dunque una problematica essenzialmente educativa ad impegnare la Comunità capi
mentre dovranno necessariamente esserle estranee altre problematiche pure indispensabili ad un
completo sviluppo della persona.
In questo senso si potrà correttamente parlare di educazione permanente a proposito delle
Comunità capi, di educazione cioè al compito di educatori; non invece nel significato che
all’espressione educazione permanente si è soliti attribuire quando ci si riferisce all’esigenza propria
di ogni uomo di educarsi continuamente in un processo, di formazione prima e di autoformazione
poi, che, pur caratterizzato da tappe molto spesso significative, si sviluppa per tutta la durata della
vita della persona.
Ciò vuol dire che mentre la Comunità capi costituirà l’ambiente naturale nel quale
confrontare, affinare, verificare il nostro modo di essere educatori scout, dovremo cercare al di fuori
di essa, in altri ambienti, in altre esperienze, quanto ancora necessità alla nostra formazione di
uomini, dovremo coltivare in altre attività i nostri interessi sociali, culturali, politici. ecc. E questo
per vari motivi, non ultimo quello che mentre l’interesse per l’educazione col metodo dello
scautismo è comune, “per definizione”, a tutti i membri della Comunità capi, uomini e donne,
giovani e meno giovani, non altrettanto comuni possono essere gli altri interessi di cui ciascuno è
portatore.
Renato Milano, Estote Parati-Il Trifoglio, 1973, n.1, pp.28-30
Educazione permanente
Formazione permanente o degli adulti che fanno educazione
Educazione o formazione sono due facce della stessa medaglia. L’educazione infatti è il
processo di formazione della persona verso una sua completa pienezza e la formazione è il risultato
positivo di un processo educativo che crea la premessa di un’importante evoluzione.
Tuttavia si è sempre più consapevoli che il processo educativo è e deve essere una
condizione permanente: si può perciò parlare di “educazione degli adulti” dove lo scopo essenziale
è il potenziamento delle capacità individuali e la loro migliore utilizzazione.
L’educazione, quindi, è un “processo continuo”.
In tale processo, l’educatore è l’adulto che aiuta il bambino, il ragazzo, con azione
consapevole e voluta, a crescere e svilupparsi armonicamente, pur con una compartecipazione attiva
da parte dell’educando alla propria formazione.
Lo scopo è l’integrazione positiva, attiva e critica, nell’ambiente in cui si vive.
Il problema è quello di capire fino a quale momento “veniamo educati” da terzi (famiglia,
scuola, Chiesa, Clan …) e a partire da quale momento “ci educhiamo” (educazione permanente o
degli adulti).
L’ingresso in Comunità capi potrebbe segnare il momento di tale passaggio.
Tuttavia questo passaggio non è determinato necessariamente e solo da un fatto temporale:
l’ingresso in Comunità capi di per sé non determina nulla.
Il passaggio è legato ad un atteggiamento, alla consapevolezza, che nasce in momenti
temporalmente diversi gli uni dagli altri, di essere passati dall’essere “educandi” a “educatori”.
E’ bene che un Capo in Comunità capi abbia questa consapevolezza.
Il tempo della Co.Ca coincide con il periodo in cui maggiormente, i Capi adulti che fanno
educazione, potenziano (meglio, occorrerebbe che potenziassero) la loro attività di autoformazione
e di formazione permanente.
La Comunità capi è così il “tempo” privilegiato della formazione permanente più forse che il
luogo.
La riuscita delle attività, il successo di essere capi costituiscono il banco di prova della
propria formazione e della propria capacità di auto educarsi. In questo senso la Comunità capi è il
laboratorio in cui si sperimenta, con l’aiuto e la critica degli altri membri, la propria capacità di auto
formarsi, ma non è necessariamente il luogo in cui avviene la vera e propria formazione: gli
strumenti di conoscenza sono già stati acquisiti in precedenza (iter di Formazione Capi) e si
continuano ad acquisire nelle diverse occasioni di formazione interne ed esterne all’Associazione
(convegni, conferenze, letture, stages, Campi di formazione …).
Rischi nel processo di formazione dei Capi in Comunità capi
Per un capo in Comunità capi, tuttavia, si presentano spesso rischi, palesi od occulti, che
ostacolano lo sviluppo di un atteggiamento favorevole da una vera formazione continua.
Tra i rischi evidenti, i più comuni sono:
- continuare a comportarsi come se si fosse ancora in Clan, non sentendosi e non
comportandosi, perciò da “educatore” ma ancora da “educando”;
- mettersi in un atteggiamento da “arrivato”, tipico di chi non ha più niente da
imparare perché sa già tutto e sa fare qualsiasi cosa;
- non adattare le proprie conoscenze ed il proprio saper fare alla condizione
contingente nella quale si sta operando.
Accanto ai rischi palesi, ci sono poi anche rischi più subdoli, occulti, ma altrettanto negativi,
quali:
- diventare iperattivo della formazione e fare mille campi e stages, perdendo di
vista la propria situazione e, nel profondo, non essere in realtà pronti a cambiare;
- assumere un atteggiamento di emulazione e di “carta assorbente” senza alcun
senso critico.
Quale atteggiamento per una educazione permanente
E’ indispensabile che l’educatore, nella sua qualità di operatore di cambiamento, sia
anch’egli in cammino e disponibile al cambiamento per adattare se stesso e aiutare i suoi educandi
ad adattarsi alla realtà in cui vivono
L’autoformazione, da adulti, avviene solo se si è motivati, solo se si desidera imparare
qualcosa di nuovo e se si è disposti a cambiare.
Giovanna Pongiglione Alacevich, R/S Servire, 1992, n.4, pp.19-20
Può bastare la Comunità capi per crescere?
Uno dei luoghi della nostra crescita continua è la Comunità capi.
Da sempre questa affermazione innesca immediatamente la questione se tale luogo debba
privilegiare solo il nostro crescere come capi o anche il nostro crescere come persone. E’ ovvio che
un capo è innanzitutto una persona (ci mancherebbe …), ma insomma: un Capo gruppo nel pensare
all’animazione della sua comunità, deve riferirsi solo a quanto poi i suo capi riverseranno nel
rapporto educativo con i ragazzi o si può allargare a qualcosa che li fa anche crescere verso la loro
famiglia presente o futura, verso la loro professione attuale o in costruzione, verso una vita di
relazione anche esterna al gruppo?
La questione non è insana (e molti se la pongono), ma fortunatamente è meno cruciale di
quanto possa sembrare a prima vista e così la si può affrontare fischiettando. (…)
La geografia della Comunità capi
Se è vero quanto detto finora, dovrebbe essere agevole sciogliere la questione iniziale
“Comunità capi per formare capi oppure per formare delle persone?”
Io sono cresciuto, come capo, in un clima condizionato da affermazioni dure del tipo: “Non
siamo una cricca di amici. Ci troviamo qui per servire dei ragazzi che vogliono crescere. Per il
resto, cercate altrove”. Dunque sono vissuto in una realtà che promuoveva in special modo (con rare
eccezioni) solo quello che facilitava e migliorava il mio essere capo. Ho spesso masticato amaro per
questo e quando, un’estate, ho saltato una route per fare uno stage di due mesi in Turchia mi sono
sentito un verme traditore.
A distanza di tempo mi sento di affermare che quella impostazione era vantaggiosa anche
per me come persona e che dunque le Comunità capi dovrebbero concentrarsi sul far crescere i capi,
purchè si tenga più lucidamente conto e ci si serva di tutta quell’altra rete di rapporti educativi di cui
ti ho detto prima. Ecco in due punti, ricavati dalla mia esperienza, che cosa intendo dire.
Legge scout e Promessa funzionano anche fuori. Se penso alla mia vita familiare,
professionale e di relazione, riscontro che gli stimoli e gli strumenti più efficaci per agire li continuo
a ricavare da Legge e Promessa, fatte mie (e vissute talvolta con fatica e poveramente, beninteso …)
soprattutto per lo sforzo di aiutare ragazzi e ragazze a farle proprie. Lo scautismo aiuta davvero tutti
a diventare dei buoni cittadini, anche noi capi. La strada verso il successo scoperta da B.-P. con il
richiamo a fare il bene degli altri è davvero un buon stile di vita che mi pare si possa imparare bene
all’interno di una Comunità capi. La felicità continua di un capo per cercare di “saper essere, saper
fare, saper far fare” serve davvero per cercare di essere anche un buon figlio, marito, padre,
insegnante, consulente industriale. E quanto non ci si riesce, la voce della nostra coscienza ha
davvero i tratti del nostro vecchio Capo gruppo.
Dunque fare bene i capi è di aiuto anche per vivere meglio la nostra vita personale.
Una Comunità capi fuori mura. Se è vero che ciò che ci fa crescere come capi ci aiuta anche
a crescere come persone, non bisogna dimenticare che per fare bene i capi possiamo anche pescare
da quella rete di rapporti in cui tutti siamo immersi (noi ed i nostri ragazzi insieme). Serve dunque
anche un flusso di idee, di esperienze, di impegno, di gioia e di gioco che da altri ambiti entri,
medianti noi, nel rapporto educativo capo-ragazzi. Ma per questo serve tempo e aria fresca. Se io,
grazie alla mia Comunità capi, vivo in completa abnegazione dai miei doveri familiari,
professionali, dai piaceri dell’amicizia e dell’ozio creativo, è arduo che grandi ricchezze esterne
fluiscano nella Comunità e quindi nel mio rapporto educativo.
Serve quindi una Comunità capi che operi anche “fuori mura” attraverso i suoi capi che
singolarmente possono disporre di un buon tempo ricreativo senza uniforme.
Poco ma bene
Riprendendo dunque il titolo di questo articolo, per la nostra crescita personale può bastare
una Comunità capi che ci fa crescere come buoni capi, capaci di validi rapporti educativi. Essa
dovrà essere continuamente allagata da acque che arrivano da fuori, ricche di un limo fecondo, che
si rimescolano al suo interno e rifluiscono fuori. Senza la presunzione, in vista di quel
rimescolamento interno, di strutturare rigidamente o addirittura voler inglobare le fonti di origine e
o peggio i deflussi esterni, quasi che la Comunità capi debba essere una comunità di vita.
Così è realistico guidare la propria canoa.
Franco La Ferla, R/S Servire, 1997, n. 1, pp.30-33
Quale formazione permanente in Comunità capi?
Il segreto della formazione permanente sta proprio qui: nessuno te la costruisce, te la
organizza e ti dice che cosa devi fare, ti devi “arrangiare”. Ma non si solo, c’è la Comunità capi, il
Capo gruppo, ma per che cosa?
La formazione parte sempre dal singolo che deve aver fatto delle scelte, deve avere la
consapevolezza che sta camminando in una direzione. Per un capo scout questo dovrebbe essere un
discorso banale, ovvio, ma è anche vero che gli scout non sono un mondo a parte, slegato dalla
società. Ecco che allora il nuovo capo che entra in Comunità capi avrà tutti i disorientamenti e le
certezze dei suoi coetanei non scout. Se è vero che l’età giovanile è spostata in avanti e che
l’ingresso nell’età adulta tarda a venire, che si parla di età delle scelte intorno ai 35 anni, che cosa si
può chiedere ad un capo di 21 anni? Sembra un controsenso.
Ma tutta la proposta scout è un po’ in contraddizione, propone con la sua metodologia e con
la scelta di fede un modello di uomo e di donna della partenza che va controcorrente, che rifiuta le
facili soluzioni, che favorisce lo spirito critico, che ritiene tutto (im)possibile.
Una persona che entra in Comunità capi così giovane, va accolta, seguita con particolare
cura, le va data totale fiducia perché è la stessa fiducia che è riposta da parte sua negli altri capi per
iniziare insieme un servizio educativo. Il momento dell’ingresso in Comunità capi non è un
momento a se stante, è un momento particolare della formazione permanente, dove la persona deve
sentirsi al centro dell’attenzione di tutti per imparare e per capire meglio la propria strada. Il
cosiddetto “tirocinio” non è una delega data al capogruppo ma coinvolge tutti i capi della Comunità
capi: il e la capogruppo e l’A.E. con il ruolo di facilitatori, di osservatori, di mediatori; lo staff di
unità con un ruolo più specificatamente metodologico, di trapasso nozioni, educativo; la zona con
un ruolo di apertura e confronto con altre realtà.
La formazione permanente non inizia dopo “qualcosa”, ma con la scelta di diventare
educatori scout. Soltanto se ogni capo ha questa consapevolezza si può parlare di formazione
permanente e gli eventi proposti a vari livelli, la vita di Comunità capi, le relazioni interpersonali, le
esperienze di vita via via maturate, assumono un preciso significato e si può pensare di poter
progettare un cammino di crescita personale. (…)
La formazione dell’adulto è da pensarsi come formazione permanente e non può essere
acquisita una volta per tutte, proprio perché la vita dell’adulto è progressiva ed i ruoli, quindi anche
i suoi bisogni, cambiano a seconda della stagione che sta attraversando. Come è emerso anche
durante il Seminario “Formazione e Comunità capi” uno dei nodi è nell’impostazione della
formazione, non è sufficiente puntare sui concetti o sulle abilità o sulle competenze, la formazione
permanente in Comunità capi dovrebbe:
lavorare prevalentemente a livello di atteggiamenti della persona e di
motivazioni;
tener conto della varie aree che identificano l’adulto in servizio educativo e
quindi interessare l’identità personale, le relazioni, l’armonizzazione delle varie
componenti della persona, l’integrazione fra fede e vita, la competenza educativa e la
competenza metodologica;
tener presente i principi dell’apprendimento propri dell’adulto, senza cadere nel
tranello di una formazione ancora a misura di adolescente;
aver particolarmente a cuore le relazioni tra i capi.
Elisabetta Favaron, Scout-Proposta Educativa, 2002, n. 26, pp.7-8
Mozione 14/2002 “Formazione capi - 11”
Il Consiglio generale nella sessione ordinaria 2002
preso atto
del percorso sin qui svolto dalla Formazione Capi, del contributo apportato dal lavoro delle
commissioni e dal dibattito tenutosi durante i lavori del Consiglio generale,
approva
il documento “Il ruolo della formazione nell’azione educativa dei capi”.
Scout-Proposta Educativa, 2002, n. 20, p.22-23
Allegato 4/2002 “Il ruolo della formazione nell’azione educativa dei capi”
Questo documento vuole essere non solo di stimolo al dibattito in Consiglio generale, ma
intende avviare una riflessione più generale sulla necessità di promuovere la formazione
permanente come modalità per affrontare i cambiamenti socio-culturali che investono anche la
nostra Associazione. Il 30/10/2000 è stato pubblicato un documento dell’Unione Europea,
“sull’istruzione e la formazione permanente” ove si afferma che “il buon esito della transizione ad
un’economia e una società basate sulla conoscenza deve essere accompagnato da un orientamento
verso l’istruzione e la formazione permanente”. È questa una esigenza dell’intera collettività,
chiamata a confrontarsi con cambiamenti sempre più veloci.
La formazione permanente, quindi, è una condizione che riguarda tutti, capi, quadri e
formatori, una strategia globale in Associazione che riguarda tutto il sistema formativo:
la formazione permanente dei capi nei diversi livelli associativi, primi fra tutti la
Comunità capi e la zona;
la formazione dei quadri, per i capi gruppo e i responsabili di zona;
la formazione continua dei formatori.
I capi e i loro bisogni formativi
In una cultura in rapido cambiamento, come è la nostra, la formazione degli educatori
richiede frequenti e profonde verifiche per adeguare i progetti formativi - nei contenuti e nei metodi
- alle condizioni di coloro ai quali è diretto il servizio educativo. In questo contesto c’è bisogno di
educatori “flessibili”, capaci di rimettersi continuamente in discussione. Di conseguenza, i formatori
per primi devono attrezzarsi culturalmente e metodologicamente per formare capi adeguati al nostro
tempo. (…)
Ambito 1 - Il sostegno alle Comunità capi e la formazione permanente
La situazione
Luogo di esperienza comunitaria e di formazione permanente, responsabile del servizio
educativo, garante dell’unitarietà della proposta e dell’appartenenza associativa, la Comunità capi
deve sostenere i capi nello svolgimento di un processo educativo sempre più complesso . La
Comunità capi si trova generalmente in grave difficoltà: non sempre è luogo di formazione, vive la
costante emergenza di dover mantenere aperte le unità, sacrificando spesso la crescita e la
formazione dei suoi capi.
In realtà la Comunità capi deve diventare protagonista già nella prima fase dell’accoglienza
di un nuovo capo: questi entra in comunità con molte attese, sperando di essere accompagnato nella
scoperta del grande gioco educativo e delle sue regole, e invece spesso viene proiettato in prima
linea senza competenze e senza strumenti. Può accadere così che la partecipazione al primo evento
dell’iter di formazione sia poco motivata o scarsamente progettata e si risolva in una esperienza
fortemente emotiva, ma non in grado di apportare cambiamenti nel cammino di crescita del capo .
È mutato, inoltre, il contesto esterno al gruppo scout e la realtà sociale e culturale è più
complessa; l’età delle scelte per i giovani si è spostata in avanti nel tempo. Questo slittamento,
riportato in ambito educativo, pone la Comunità capi di fronte a due esigenze:
accompagnare i giovani capi nel consolidamento delle scelte personali che al
momento dell’inizio del servizio educativo non sono ancora sufficientemente motivate e
interiorizzate;
condurre e tenere viva in Comunità capi una lettura periodica dei nodi essenziali di
una realtà in rapido costante cambiamento nel mondo dei ragazzi.
Nodi critici
Riconosciamo che i giovani Capi non rappresentano solo bisogni, difficoltà o problemi, ma
sono una risorsa indispensabile da valorizzare nell’Associazione.
- Protagonismo dei giovani capi
Si intrecciano diversi aspetti e diverse attese dei nuovi Capi al momento della loro entrata
in Comunità capi: l’entusiasmo e la voglia di agire, il bisogno di vita comunitaria, le esigenze
formative, la competenza metodologica e la qualità del servizio da svolgere...
Come si fa a calibrare la gradualità di responsabilità nel servizio con l’energia e
l’entusiasmo dei giovani capi? C’è sufficiente chiarezza di ruoli e differenza di responsabilità tra
capi unità e tirocinanti? Quante Comunità capi chiedono ai tirocinanti di assumere il ruolo di
Capo unità? Si corre il rischio da un lato che la Comunità capi “approfitti” della disponibilità del
giovane capo affidandogli eccessive responsabilità, dall’altro che quest’ultimo si senta già
preparato e adeguato al ruolo assegnatogli. È importante individuare le attese e le responsabilità
reciproche.
- L’accompagnamento
I capi gruppo e l’Assistente dovrebbero essere in grado di incanalare
l’entusiasmo del giovane capo accompagnando il suo cammino dal momento in
cui il futuro tirocinante chiede di entrare in Comunità capi fino all’ingresso
effettivo, all’assegnazione dell’unità, alla scelta del momento più opportuno per
compiere l’iter. I capi gruppo e l’assistente hanno un ruolo privilegiato nel
coordinare questo percorso, ma tutta la Comunità capi ne è investita; l’ingresso in
Comunità capi non può essere un automatismo: dopo la Partenza deve esserci un
periodo per fare un cammino, rispettando i tempi di ciascuno. La formazione
metodologica, curata dagli staff di branca, deve procedere insieme a quella
associativa, di competenza dei capi gruppo, dell’assistente ecclesiastico di
gruppo e della zona. Il Tirocinio è una fase delicata che investe la responsabilità
e la competenza dei capi gruppo, dell’assistente ecclesiastico di gruppo e della
zona; pertanto, deve restare un momento unitario. (…)
Attenzioni e proposte
- L’esperienza del Seminario sulla Comunità capi ha fatto emergere come la
Comunità capi rivesta un ruolo di fondamentale importanza nell’accompagnare i
capi a progettare la propria formazione di base e a rielaborare l’esperienza del
servizio educativo con i ragazzi come occasione per una più puntuale formazione
permanente. Va, perciò, migliorata in Comunità capi la consapevolezza della sua
responsabilità nella formazione.
- È necessario far maturare in Comunità capi una “cultura dell’accoglienza” intesa
come stile che appartiene alla nostra storia, come momento parte di un processo
che vede coinvolto chi entra così come chi accoglie. L’ingresso del nuovo capo
non è solo il momento in cui si chiede di accettare il Patto associativo, ma segna
anche l’inizio del percorso di formazione attraverso il quale scoprire e
comprendere il proprio ruolo e la propria identità di Capo educatore.
- L’accompagnamento richiede una relazione interpersonale profonda e
continuativa. È necessario, perciò:
- ridare spazio alla relazione tra persone rispetto alla struttura,
- dare importanza al tempo in cui i capi stanno insieme,
- migliorare la qualità delle relazioni interpersonali,
- se necessario anche rivedere i programmi nell’ottica della essenzialità e della
“leggerezza”,
- riflettere sull’importanza della “verticalità” della Comunità capi.
- Va promossa una pista di lavoro che valorizzi il Progetto educativo, perché
questo possa divenire nella fase di elaborazione, utilizzo e verifica, un momento
di formazione al metodo per la Comunità capi. “Questa pista ha il pregio di
potersi mantenere in stretta connessione con la concreta esperienza di tutti i
giorni che ogni capo fa in unità, e che assorbe in buona sostanza tutta la sua
attenzione. Per perseguirla occorrerà però una riflessione molto attenta sulle
modalità di elaborazione del Progetto educativo, perché possa davvero aiutare
ogni capo, muovendo appunto dall’impegno quotidiano con i propri ragazzi, ad
allargare via via lo sguardo al significato di quello che accade e alla stessa
portata delle proposte che fa. Il percorso di formazione personale più ampio - e
quindi l’elaborazione del progetto del capo - potrà finalmente prendere il via
dalle sfide effettive che quest’analisi avrà fatto emergere, guadagnando in
vivibilità e in efficacia.” (Danzare lo Scautismo)
- Valorizzare il tirocinio come momento del “trapasso nozioni”, a cui la Comunità
capi e la zona devono prestare particolare attenzione formativa.
- La formazione permanente in Comunità capi richiede che siano attivati
meccanismi e occasioni formative anche decentrate fra i vari livelli associativi.
Scout-Proposta Educativa, 2002, n. 7, p.60-66
Un compito per una Comunità di capi: il Progetto
educativo
Comprendere il senso del Progetto educativo
e del lavoro della Comunità capi per esso
Una Comunità di capi ha come compito da svolgere insieme il servizio
educativo nello scoutismo mediante un progetto.
Qual è il senso di questo compito (che è anche uno strumento per
l’educazione)?
Progetto educativo: i"fondamentali"
Vittorio Ghetti non ha solo ideato il concetto di Progetto educativo, ma ha saputo anche
offrire tanti spunti ed idee concrete per aiutare i Capi (a volte disorientati) e le Comunità capi a
definirlo e a realizzarlo.
Si raccolgono qui alcuni suoi interventi principali sul tema e le sue idee-forza:
- non isolare (pena una deriva aziendalistica) il Progetto educativo da una scelta
pedagogica di base;
- educare per l’avvenire ed il nuovo (altrimenti un Progetto educativo non ha senso) senza
fughe in avanti e senza disconoscere le proprie radici (per cui il Progetto educativo ha senso solo
per costruire il futuro);
- costruire il progetto su alcuni requisiti di valore e di impegno di tutta la Comunità capi;
- articolare il progetto per fasi: analisi della realtà, riferimento ai valori, scelta delle aree
di impegno educativo prioritario, definizione dei programmi di unità, verifica;
- fare attenzione a selezionare poche priorità e a scegliere bene i tempi.
Il Progetto educativo
Non si può isolare la scelta del “Progetto educativo” da una consapevole scelta pedagogica
di base. Senza questa presa di coscienza a monte, il Progetto educativo può diventare uno stampo di
pura ispirazione manageriale, camicia di forza della creatività dei capi o monotona “scaletta” di
riflessioni formali. Per agevolare questo preliminare orientamento, il solo capace di giustificare la
scelta di un’educazione per progetti, cominciamo con alcuni “flash” sulle più rilevanti impostazioni
pedagogiche che si sono susseguite nel corso della storia arrivando attraverso sintetici accenni, fino
alla nostra epoca. (…)
Educazione per l’avvenire
Con lo svilupparsi della dimensione sociale della persona assumono sempre maggiore
importanza, a partire dal secolo XIX, spunti e correnti pedagogiche che privilegiano i valori
empirici legati alla collocazione dell’uomo nella storia del mondo che cambia.
E’ cioè dalla e nella Storia che scaturiscono i principi del giusto e dell’ingiusto, la
definizione dei ruoli sociali, l’identificazione dei conflitti di interessi. E’ dalla realtà empirica
contingente che hanno origine le tendenze capaci di far procedere verso le scelte che consentono di
aderire allo sviluppo sociale ed economico dell’umanità.
L’adozione di una pedagogia dei valori perenni (o dell’ascesi) non può, in queste condizioni,
che essere fonte di crisi di identità, poiché essa consente solo una dialettica unidirezionale (il più
delle volte conflittuale) tra percezione del contingente e sostanza spirituale ed eterna dell’uomo.
La pedagogia ad impostazione sociale è ancora più severa nei confronti dell’educazione al
presente i cui valori sono considerati come sovrastrutture laddove le strutture concretamente capaci
di garantire un avvenire migliore sono quelle di natura socio-economica. (…)
Su questi presupposti la pedagogia oggi dominante propone dunque una “educazione per
l’avvenire” basata su un’analisi critica di ciò che è superato, antistorico, statico o frenante e
anticipante in tal modo l’avvento del nuovo. Con queste scelte “l’educazione per l’avvenire” rifiuta,
assieme all’adattamento al presente, le compiacenti fughe dalla realtà consentite dal rifugio nei
valori perenni o tradizionali.
Qualche rischio di chi educa per l’avvenire
Quando i valori cambiano, le constanti di riferimento mutano ed il consenso sociale perde di
vista ogni giorno di più le coordinate sulle quali confrontarsi, il processo di proiezione verso il
futuro appare quello più spontaneo e naturale. Va dunque considerata coerente col tempo presente
la tendenza della cultura in generale e della pedagogia in particolare ad aprirsi sempre più
all’avvenire. Se queste tendenze, che hanno in larga misura coinvolto l’Agesci, sono da un lato
testimonianza di sensibilità educativa e di presenza reale nel proprio tempo della associazione
(vanno pertanto come tali incoraggiate e promosse), esse possono, dall’altro essere all’origine di
una serie di rischi pedagogici di cui qui di seguito vengono segnalati i cinque ritenuti più
importanti.
Anzitutto il rischio della fuga in avanti per sottrarsi ad una realtà presente vissuta come poco
affidabile e sempre più incerta. La natura e l’educazione non fanno salti: entrambe appartengono
all’uomo che ha ritmi e tempi che vanno rispettati. In secondo luogo il rischio del disconoscimento
delle radici comuni che porta quasi inevitabilmente, assieme ad una crisi di identità, al progressivo
rifiuto di una coesistenza associativa. Da qui al relativismo assoluto il passo non è molto lungo. I
valori obiettivi si dissolvono uno dopo l’altro, a favore di quelli soggettivi dell’educatore che finisce
per proiettare nel rapporto educativo le sue personali e mutevoli convinzioni.
Per altri ci può essere un quarto rischio, quello di affidare al metodo ed alle sue risorse
intrinseche il principale se non esclusivo ruolo educativo al di fuori di una chiara visione delle
circostanze e delle condizioni in cui il metodo stesso va utilizzato. E’ il rischio insito in ogni
pedagogia tecnocratica. Infine il quinto rischio è quello di concentrarsi a tal punto e a livello
ideologico sulla natura della condizione futura da consumare ogni risorsa disponibile in una loro
analisi dialettica. Tutto cioè inizia e si conclude nell’analisi che può essere esercizio istruttivo per
dei futurologi ma che certamente non può essere considerata azione educativa di un capo. Questi
cinque rischi possono essere contenuti (non eliminati) nel quadro di un “Progetto educativo” che
secondo la Formazione Capi è la potenziale corretta risposta delle Comunità capi alle esigenze di
una “educazione per il futuro” .(…)
Parte II
La Formazione Capi ha indicato in quale dei tre grandi sistemi educativi storici (educazione
al passato, al presente e all’avvenire) può essere idealmente inserita una educazione per progetto. In
questo fascicolo alle riflessioni sul “Progetto educativo” viene dato un taglio prevalentemente
associativo. Il “Progetto educativo” viene cioè confrontato con alcuni aspetti dell’attuale “status”
dell’Agesci, con le sue tendenze e colle motivazioni dominanti dei suoi capi.
Il “Patto associativo” come progetto
Un buon punto di riferimento ci sembra essere anzitutto offerto dal “Patto Associativo” che,
sotto molti aspetti, rappresenta una significativa premessa ad un’educazione per progetti. Senza
entrare in analisi più approfondite (di cui peraltro è ricca la letteratura associativa) basterà qui
ricordare da un lato il suo significato di impegno, di adesione attiva e di volontaria partecipazione
alla costruzione dell’associazione e dall’altro il suo contenuto non normativo e non statutario
testimoniato dalla libertà insita nelle scelte.
Lo spazio che il “Patto associativo” concede alla persona e al suo continuo divenire rinforza
la sua connotazione di progetto di cui fanno parte anche quei fattori di rischio che sono tipici dei
sistemi costruiti molto più sui valori interiorizzati e molto meno su modelli precostituiti ed
inculcati. Il continuo investimento di risorse morali proposto dal “Patto Associativo” presuppone e
postula cioè, per essere correttamente gestito in termini comunitari, l’esistenza di un progetto.
Un progetto per l’avvenire
Quando si educa per il presente in condizioni di stabilità non c’è bisogno di un “Progetto
educativo”. L’iterazione di metodi che hanno dato lunga e buona prova di efficacia pedagogica, la
semplice trasmissione di principi dall’educatore all’educando (entrambi inseriti in un contesto
stabile) e l’indicazione di modelli che conservano nel tempo il loro valore possono infatti essere, in
un momento storico a lento ritmo evolutivo, gli strumenti più appropriati per un rapido e pertinente
adattamento alle situazioni note. (…)
Ben diverse sono le condizioni quando, in fase di cambiamento, si educa per l’avvenire. In
questo contesto è difficile identificare obiettivi precostituiti, non sono disponibili norme
anticipatrici generalmente condivise, non ci si può servire di modelli stabili e riproducibili nel
tempo. Le attese stesse nei confronti dell’educatore e dell’educazione sono per lo più indefinite o
inespresse. (…)
Progettare nella ricerca di unità
Le scelte e lo spirito del “Patto associativo” da un lato e gli stimoli offerti dall’evoluzione
della condizione giovanile dall’altro hanno dato origine (si sorvola sulla vasta gamma di situazioni
intermedie) a due divergenti tendenze all’interno dell’Associazione. La prima si ispira alla
conservazione dei valori, al metodo, al passato, alla tradizione, al “tutto è già stato detto,
sperimentato, considerato”.
La seconda, sensibile e attenta più ai segnali del mondo esterno in fase di cambio che alle
analisi delle risorse intrinseche dello scautismo, subisce a sua volta un diverso tipo di
condizionamento. Queste due tendenze che trovano la loro emblematica rappresentazione in nuovi
agglomerati associativi (fino a nuove associazioni), stanno alla base di tensioni e di incomprensioni
che non hanno finora trovato soluzione nel confronto dialettico.
Così c’è chi trepida per il patrimonio educativo minacciato offrendo sicurezza nel rispetto
della tradizione. C’è chi educa per una società da riformare e c’è chi educa in una società che deve
essere sradicata; c’è chi pensa che uomini diversi possano instaurare rapporti sociali diversi e c’è
chi invece crede che prima ancora di uomini diversi ci sia bisogno di capovolgere e di ricostruire
tutto da capo. (…)
Un piano per riscoprire il senso dell’educazione
Nessuno può dubitare che la creatività, lo spirito di iniziativa, la capacità di adattamento dei
principi di un metodo educativo a situazioni nuove sia il metro sul quale si misura l’efficacia
dell’educatore. (…)
Ma la tendenza al nuovo senza un profondo responsabile coinvolgimento può essere piena di
pesanti contraddizioni. Se questo nuovo è cioè fine a se stesso, se esso si muove lungo un percorso
privo di riferimenti ed obiettivi, se esso ignora che ciò che cambia non si sviluppa quasi mai in
senso rettilineo bensì lungo una spirale che, su piani diversi, riporta costantemente a situazioni
storiche, allora l’innovazione può essere velleitaria, irresponsabile e involutiva.
Per riprendere l’accenno alla spirale: se il nuovo non coincide con una passo in avanti
qualitativo in confronto al corrispondente e sottostante punto della spirale c’è da domandarsi se
l’innovazione abbia senso.
Un progetto per chi crede nella sua scelta di capo
L’idea nuova per l’idea nuova, la proposta diversa “tanto per cambiare”, l’obiettivo fissato al
di fuori di una corretta critica pedagogica e di una seria analisi della realtà, la rivoluzione
metodologica dettata solo da piacere di fare rivoluzione, costituiscono la cosiddetta sperimentazione
pedagogica selvaggia. E’ selvaggia perché in essa manca o del tutto insufficiente l’analisi dei
contenuti in termini di strumenti di crescita della persona e, ancor più manca o è del tutto
insufficiente l’analisi dei contenuti in termini di strumenti di crescita della persona e, ancor più
manca in essa una seria verifica volta a stabilire una demarcazione tra quanto dell’innovazione
gratifica il o i capi e quanto l’innovazione abbia contribuito alla maturazione e alla crescita delle
persone e della comunità.
Questi temi ai quali abbiamo accennato in modo molto più conciso e più che altro con
finalità indicative, sono attualmente oggetto di esame, di richiamo, di invito a riflettere a diversi
livelli associativi. L’importanza della posta in gioco in termini di significato del nostro esistere
come associazione scout, di identità di ruolo e di finalità della nostra azione educativa giustifica
l’investimento delle risorse di tutti i capi. La Formazione Capi ritiene che sia suo specifico ruolo
proporre, indicare e facilitare modalità di soluzioni concrete. Una di queste è, a nostro avviso,
rappresentata dal “Progetto educativo” al quale riteniamo possa essere affidato il compito sia di
recuperare positivamente ed operativamente le tensioni che percorrono l’associazione sia di indurre
ad una più matura riflessione sui contenuti, i valori, le dinamiche, i rischi e le conseguenze
dell’innovazione pedagogica nello scautismo.
La coscienza di “Progetto educativo” ha largamente permeato tutta l’associazione. Entrata
nel linguaggio corrente dei capi e delle loro comunità, compare nell’agenda dei responsabili
regionali e di zona ed è inclusa nei piani di lavoro delle branche. Malgrado questa popolarizzazione
del termine alcune recenti esperienze ci fanno ritenere che una Comunità capi non fa un Progetto
educativo quando non sa andare al di là di un’analisi della realtà divenuta fine a se stessa o quando
confonde l’analisi della realtà colla proiezione sui ragazzi del gruppo delle motivazioni e dei
desideri della Comunità capi, oppure e ancora quando non tiene conto delle peculiari risorse di capi
e di ragazzi di cui dispone per realizzare i programmi stabiliti oppure ed infine quando si lancia in
un piano d’azione senza preoccuparsi di procedere ad una seria verifica “a posteriori” del suo
intrinseco peso educativo.
Vittorio Ghetti, Scout-Proposta Educativa, 1977, n.7, pp.37-39; 1977, n.14, pp.7-9
Educare nero su bianco. Il Progetto educativo: come è, come si fa. Le
prime fasi e i pericoli da evitare
L’esperienza dimostra che il Progetto educativo si appoggia su delle strutture portanti in
carenza delle quali il suo equilibrio si è dimostrato molto precario e poco affidabile. Le strutture in
questione sono riassunte nelle scelte del Patto Associativo e cioè nella conoscenza e
nell’accettazione da parte di tutti i Capi della Comunità dei valori umani, cristiani e scout che esso
esprime e che rappresentano il patrimonio dell’Agesci. (…)
Le cose da fare
Una volta assicurata la presenza di questi irrinunciabili prerequisiti ci sono altri momenti di
riflessione all’interno delle Comunità capi rivelatasi molto utili per l’intera pianificazione del
Progetto e cioè:
- la comune consapevolezza del ruolo educativo mediante il Metodo scout affidato
ad ogni Capo;
- la “condivisione educativa” quale fondamento della Comunità capi. Ciò significa
che, nel pieno rispetto della responsabilità educativa dei singoli Capi, tutta la
Comunità capi si sente investita e coinvolta in un comune mandato di crescita del
gruppo.
La pianificazione del Progetto educativo
A) Definizione e sviluppo delle fasi;
B) tempi di elaborazione del progetto;
C) durata della realizzazione (“Progetto educativo a 1 anno!” oppure “Progetto educativo
biennale”)
Definizione e sviluppo delle fasi
Analisi della situazione del Gruppo: si tratta di razionalizzare, di prendere coscienza e di
evidenziare l’implicito affinchè diventi esplicito a tutti i capi. L’esplicitazione comprende la
situazione esterna e quella interna al Gruppo. Per la situazione interna al Gruppo: aspetto numerico,
rapporto ragazzi/e, dinamica dei passaggi di unità, durata del servizio dei capi, criteri per la nomina
dei nuovi capi, disponibilità di tempo dei capi, loro punti di forza e debolezza, ecc.
In questa analisi occorre distinguere la realtà delle Unità (ragazzi e capi) da quella
dell’ambiente al quale il Gruppo appartiene.
Situazione esterna al Gruppo: caratterizzazione dell’ambiente familiare (tendenze, valori,
scelte conseguenti); caratterizzazione dell’ambiente scolastico. tendenze, valori ecc.;
caratterizzazione dell’ambiente di lavoro (dei capi e dei ragazzi); caratterizzazione dell’ambiente
dei “Pari”; mode e valori; rapporto con i mezzi di comunicazione; clima socio-politico ed
economico del quartiere (paese); rapporti con l’Ente promotore; rapporti con altri movimenti
giovanili nel territorio; rapporti con i problemi del territorio.
L’analisi di situazione deve essere fatta dai membri della Comunità capi senza l’assistenza
di esperti sterni. (…)
Riferimento ai valori La conoscenza e la scelta dei valori (umani, cristiani e scout) fa parte
dei prerequisiti. Questa fase del PE si propone di far risaltare e di rendere evidenti le contraddizioni
che sono emerse dalla lettura della realtà del gruppo e consiste nella lettura del divario tra i valori in
cui la Comunità capi crede e quelli emersi dell’analisi della situazione.
Scelta delle aree di impegno educativo prioritario
E’ il momento delle scelte nel quale con maggiore chiarezza si manifesta la coesione e la
coerenza educativa della Comunità capi Le aree di impegno educativo prioritario (non più di due,
eccezionalmente tre) possono essere individuate:
- dove esista il più macroscopico divario tra valori e realtà del gruppo;
- dove più evidenti siano le risorse dei Capi (e degli A.E.);
- dove esistano minori ostacoli da superare;
- dove siano ragionevolmente prevedibili tempi di realizzazione;
- dove sia più agevole la verifica dei risultati;
- dove il massimo numero di queste condizioni sia presente.
Affinché il Progetto educativo non sia un’esercitazione utopica, occorre che le aree di
impegno educativo prioritario siano poche (1, 2 al massimo 3). Perché siano adatte a tutti gli archi
di età, esse devono corrispondere a reali esigenze di crescita di tutte le Unità. Perché costituiscano
traguardi raggiungibili devono essere a misura sia della disponibilità dei ragazzi che dei loro livelli
di partenza. Nell’incontro della Comunità capi dedicato alla definizione del o degli impegni
educativi prioritari, ogni Capo deve presentare uno o più obiettivi prioritari formulati in base all’
”analisi di situazione” compiuta congiuntamente e in forma conclusiva dalla Comunità capi.
Vittorio Ghetti, Scout-Proposta Educativa, 1987, n.8, p.22
Si decide il futuro del Gruppo. Il Progetto educativo: come è e come si fa.
La verifica e i tempi di lavoro
Completiamo il discorso con la definizione dei programmi di Unità, le verifiche e soprattutto
i tempi di elaborazione e la durata del progetto.
Programmi di unità
Sono affidati alle singole staff delle singole Unità. Il lavoro consiste nel tradurre in “cose da
fare” ed in “modi di essere” a livello degli archi di età e della metodologia specifica delle diverse
Branche la o le scelte educative prioritarie operate dalla Coca. Una volta formulati, i programmi
delle unità vengono presentati e discussi (verifica della loro coerenza con gli impegni educativi
prioritari) in una specifica riunione plenaria della Comunità capi.
Devono considerarsi caratteristiche essenziali dei programmi di unità ispirati alle aree di
impegno educativo prioritario, la concretezza, la gradualità e l’uso specifico delle risorse del
metodo scout.
Il programma generale dell’Unità comprende, ovviamente, una serie di alter attività. Quelle
incluse nel programma relativo al PE si limitano a dare risposta alle scelte educative prioritarie.
Un’altra caratteristica del programma correlato con il PE delle singole unità deve essere
quella di rispondere alle esigenze della continuità del metodo nell’ambito delle otto aree della
formazione scout (autoeducazione, interdipendenza pensiero-azione, vita comunitaria, vita
all’aperto, ambiente-natura, gioco, servizio, coeducazione) nello spirito del Patto Associativo.
Verifica
E’ generalmente l’aspetto più trascurato anche se forse, uno dei più importanti. In linea di
massima, va infatti ricordato che non può esistere processo formativo senza una verifica sia del
processo stesso che dei risultati. La “spirale dell’educazione” non può cioè mettersi in movimento
se non partendo da una verifica dell’esperienza fatta.
La storia del PE dimostra che, al suo stato attuale nell’Agesci, il procedimento di verifica
più agibile è il seguente. Creare una situazione (gioco, incontro, attività, ricorrenze, manifestazione,
ecc.) nella quale i capi e i ragazzi siano chiamati a testimoniare il cambiamento avvenuto nel loro
atteggiamento (modo di essere e di fare) nei confronti dei valori compresi nella o nelle aree di
impegno prioritario nel loro PE.
Se il cambiamento avvenuto può essere definito in termini obiettivi e di valutazione
concreta, si potrà pervenire ad una verifica sottratta alla soggettività del singolo Capo e, quindi,
entro certi limiti, affidabile.
Gli eventi di verifica devono essere centrati sulla/e aree di impegno educativo prioritario;
vanno definiti a grandi linee assieme ai programmi di unità presentati e discussi in Comunità capi;
un PE non può considerarsi concluso senza le indicazioni fornite dalla verifica. E’ da questa che si
riparte per il successivo ciclo di PE (spirale dell’educazione).
Tempi di elaborazione del PE
La formulazione del Progetto educativo costituisce un’esperienza di intensa vita
comunitaria: va realizzata in tempi brevi, senza inutili pause tra le sua varie fasi e con la comune
determinazione di pervenire ad una conclusione operativa (programma di Unità e verifica finale).
L’esperienza accumulata in questi anni dimostra che i seguenti sembrano essere i tempi
ottimali per ogni fase del PE:
- analisi della situazione del gruppo: una uscita di fine settimana
- riferimento ai valori: una seduta serale di Comunità capi
- scelte delle aree di impegno prioritario: una seduta serale di Comunità capi
- presentazione dei programmi di Unità: da una a tre sedute serali di Comunità capi
- verifica: uno o più eventi comunitari di gruppo.
Durata del progetto
A seconda dei ritmi e delle situazioni interne ed esterne alla Comunità il Progetto educativo
può proiettarsi su un anno oppure su due anni di vita del Gruppo.
Sei mesi sono certamente troppo pochi per evidenziare dei cambiamenti e tre anni
probabilmente sono troppi per aderire alla realtà del gruppo.
Se una Comunità capi decide di assegnarsi un PE deve impegnarsi a realizzarlo giorno per
giorno sulla base del programma di Unità e di Comunità capi che ne è scaturito. Se il PE è destinato
a finire – dimenticato – in un cassetto è molto meglio dedicare le risorse della Comunità capi ad
altre attività.
Vittorio Ghetti, Scout-Proposta Educativa, 1987, n. 15, p.11
Progetto educativo: consigli utili
Di fronte alla complessità (vera o presunta) del Progetto educativo occorre orientarsi ed
agire con idee chiare e semplici per non perdersi.
Ecco allora alcuni interventi che cercano di offrire piccoli consigli utili.
Giorgio Rostagni (1979) indicava alcune modalità di lavoro: mettere a fuoco l’essenziale
della nostra proposta educativa; rispondere alle domande basilari sull’ambiente in cui si opera;
formulare poche linee di lavoro; elaborare bozze di programmi per unità; fare sintesi e revisioni;
costruirlo in continuità.
Michele Pandolfelli (1983) indicava l’essenziale del Progetto educativo nell’acquisire una
mentalità e un’abitudine a fare sintesi tra valori, esigenze dei ragazzi e strumenti del metodo.
Gualtiero Zanolini (1983) indicava l’esigenza di dedicare tempo per individuare i veri
obiettivi educativi di cui i ragazzi hanno bisogno, con un lavoro delle Comunità capi fatto con
mezzi e modalità “scout”.
Stefano Garzaro (2005) invita ad evitare alcuni errori tipici (intellettualismo,
enciclopedismo, rigidità del progetto, mancato aggiornamento e revisione) e a non cadere nella
“schiavitù” del progetto (quasi fosse un idolo)
Il Progetto educativo: un proposta di modalità per costruirlo
Quando invitiamo i ragazzi a diventare scout, quando offriamo il nostro servizio di educatori
e genitori, alla chiesa, al quartiere e ci chiedono di che si tratta, non possiamo più limitarci a dare in
visione manuali e sacri testi, ma dobbiamo illustrare il nostro progetto, anzi dobbiamo spiegare che
non è solo nostro, ma va costruito, aggiornato, verificato, assieme a loro e confrontato poi con il
resto dell’associazione.
La parola progetto ha un sapore intellettuale, astratto. Da idea di una cosa difficile, per
specialisti. Molti di noi si spaventano e si perdono: ma che cosa è? (…)
E’ semplicemente un modo di lavorare della Comunità capi che serve a non dimenticare
l’essenziale per perdersi nei particolari, a dare un ordine logico alle cose che intendiamo fare.
E’ mettere per iscritto non solo cosa intendiamo fare, ma anche come, quando e perché, in
modo da non dimenticarcene per strada, in modo che ognuno abbia chiara la sua parte e possa
responsabilizzarsi e sviluppare un lavoro autonomo in armonia con quello degli altri.
Le linee essenziali nella costruzione di un Progetto educativo
a) Mettere a fuoco la nostra proposta: La Comunità capi prova a rispondere, così
come è capace, alla domanda: “quali sono i punti essenziali e caratterizzanti della
proposta Agesci, quale visione dell’uomo e dei suoi rapporti essa racchiude, che
tipo di rapporto educativo la caratterizza, su quali esperienze concrete si
impernia? (…)
b) Rispondere ad alcune domande circa l’ambiente, essenziali al lavoro da
compiere Come è delimitato l’ambiente? Quali ragazzi ci proponiamo di
coinvolgere? Tutti (in linea di principio) o solo alcune categorie (quali e perché?)
Che tipo di sensibilità o di interesse hanno o crediamo che possano avere per l
nostra proposta? Quali aspetti sembrano più utili o importanti per loro? Quali più
facili o difficili da attuare? Che tipo di rapporti i ragazzi hanno con le altre
componenti dell’ambiente? Chi tipo di rapporti noi vorremmo o potremmo
avere? Quali problemi dovremo affrontare per primi se vogliamo aiutarli a
crescere? Che prospettive di evoluzione ci sono nell’ambiente? Che stimoli
riteniamo di dover portare accanto al lavoro educativo diretto?
c) Formulare le linee essenziali del piano di lavoro Tenendo conto del lavoro
precedente diviene possibile precisare in linea di massima obiettivi, esperienze,
modalità di realizzazione che vorremmo comuni alle diverse unità e stabilire una
serie di priorità ed una proporzione tra i diversi aspetti.
d) Elaborare delle bozze di programma per singole unità Ora la Comunità capi si
divide in gruppi e prova a rendere concreto il piano di lavoro traducendolo in un
programma per ogni unità e per un arco di tempo ben definito, non troppo lungo.
Si precisa la fisionomia di ciascuna comunità educativa (dimensioni,
articolazioni in gruppi, modalità di responsabilizzazione dei singoli, modalità di
presenza degli adulti).
e) Operare una sintesi ed una revisione anzitutto, se non ci stiamo preparando ad
aprire un nuovo gruppo ma già lavoriamo con dei ragazzi, è essenziale capire
cosa loro ne pensano, coinvolgerli in modo più o meno diretto a seconda dell’età
nella messa a punto della pare che li riguarda. E quindi operare una prima
revisione. Una seconda va fatta da tutta la Comunità capi, di nuovo unita, per
verificare la coerenza tra i diversi progetti. (…)
f) Quando costruirlo Sempre. E’ una risposta tassativa. I due errori più gravi che si
possono commettere, anzi che frequentemente si commettono sono: pensare che
un progetto, possa essere la semplice somma di tante parti staccate da elaborare
una dopo l’altra; pensare che un Progetto educativo, cioè un progetto che
riguarda la vita degli uomini, ammetta la distinzione in fasi che si usa ad esempio
quando si vuol costruire una casa: progetto – esecuzione – verifica; i tre aspetti
devono procedere di pari passo, perché la vita è cambiamento continuo.
Giorgio Rostagni, Agescout, 1979, n. 36, pp.2-4
(da un intervento alla Route delle Comunità capi venete 1977)
Inizio d’anno: tempo di programmi. Il Progetto educativo in pillole
Credo che oggi nella nostra società una delle idee più in crisi sia quella del progetto, inteso
come tentativo di ordinare razionalmente processi sociali, economici e culturali. (…)
Contro ogni delusione e tentazione “spontaneistica” credo che si possa recuperare il senso
profondo del Progetto educativo, liberandolo di tutte le incrostazioni intellettualistiche e
sociologiche, cercando di capire anche la differenza tra esso e i grandi progetti sulla società i quali,
finora, hanno fatto sempre un bel buco nell’acqua..
Mentre i programmi sociali ed economici non tengono spesso conto (e non fanno quindi
affidamento) sulle capacità di scelte libere e responsabili delle singole persone (…) il Progetto
educativo è un progetto sulla persona e della persona, che cammina con le gambe della persona
stessa. Secondo il detto “individui si nasce, persone si diventa” (andiamoci a leggere o rileggere in
proposito qualcosa di Mounier) la scommessa del Progetto educativo è che la vita si può progettare
secondo alcuni ideali, con l’aiuto di Dio e con la fede nella provvidenza che ci può anche fare
incontrare punti di arrivo diversi da quelli da noi pensati, senza però farci mai smarrire la strada
(almeno se teniamo fermo il timone). Il Progetto educativo sulla persona ( = la proposta di noi capi
tagliata sul singolo ragazzino/a) deve poi diventare il progetto della persona, ossia qualcosa di cui
diventa responsabile in prima persona il ragazzo/a stesso.
Da questo punto di vista il Progetto educativo ha forse tempi lunghi di realizzazione, esiti
particolari imprevedibili, ma se c’è un buon impasto tra la mano di Dio, la costanza e l’impegno del
capo, la buona volontà e l’entusiasmo del ragazzino, il risultato finale (che rimane comunque
sempre in parte “non leggibile” agli occhi umani) non può mancare.
Ed anzi starei per dire che proprio da tanti progetti personali vissuti e portati avanti
liberamente e responsabilmente in uno spirito di solidarietà fra tutti gli uomini può nascere
faticosamente una società più libera e più solidale, al contrario di tanti progetti generali, pieni di
ideali nobilissimi di libertà, giustizia e solidarietà, i quali passando sopra alla maturazione
individuale delle persone, si trasformano spesso in strumenti di oppressione.
Direte: ma questo non è il Progetto educativo, bensì il solito discorso sulla progressione
personale e sull’autoeducazione? Secondo me la differenza non è molta: il Progetto educativo non è
un atto singolo, non è un documento, bensì è una mentalità che si deve acquisire e che si deve
portare avanti in ogni occasione della nostra esperienza di capi. E’ l’abitudine a far quadrare il
cerchio tra le esigenze del ragazzo/a (esigenze che vanno lette dietro le “richieste”) tra valori che
vogliamo proporre, risorse, (quali e quanti capi? con che caratteristice di formazione, per quanti
anni?) e strumenti (il metodo ed i mezzi).
Se tutto ciò può avere un momento privilegiato ad inizio d’anno, dobbiamo essere ben
coscienti che un simile processo mentale va sempre ripetuto in ogni momento per ogni attività che
vogliamo fare (cosa vogliamo raggiungere in termini educativi con essa? abbiamo risorse e
strumenti adatti? e per ogni ragazzino (quale progetto “personalizzato”? quali obiettivi e quali forze
su cui fare leva?); quindi occorrono verifiche continue, occorre un’attenzione continua di me Capo
a tutte le situazioni, per valutare se le attività e le proposte sono giuste o meno per “pilotare” la rotta
dell’unità e le tante “rotte” dei singoli ragazzi.
Michele Pandolfelli, Scout-Proposta Educativa, 1983, n. 32, pp.3-5
Inizio d’anno: tempo di programmi. Comunità capi: Progetto educativo e
vita di Comunità capi: un gioco serio
L’inizio di un nuovo anno di attività per una Comunità capi è senz’altro qualcosa di
entusiasmante ma, come ogni momento in cui si compiono grandi scelte, è anche un momento
difficile di riflessione e confronto. Per certi aspetti l’anno precedente è stato lacunoso, molti non
hanno mantenuto fino in fondo gli impegni che avevano preso e i programmi non sono stati
completamente realizzati.
Allora il grande proposito è: “realismo”.
Vanno identificati i veri obiettivi della Comunità capi e trovati i giusti modi ed i tempi per
realizzarli nel corso dell’anno. La Comunità capi deve gestire il gruppo; la Comunità capi deve
essere momento di formazione permanente per i capi che la compongono: la Comunità capi deve
essere luogo di preghiera e riflessione per dei cristiani impegnati in un servizio educativo; la
Comunità capi deve essere un luogo di approfondimento metodologico. Allora iniziare un anno non
è soltanto formare degli staff più o meno equilibrati per le nostre unità!
Qui inizia il lavoro del nuovo anno di attività di una Comunità capi.
L’esperienza mi ha insegnato che a questo lavoro va dedicato del tempo ed una notevole
attenzione.
Del tempo devono dedicarlo gli staff di unità nella accurata verifica del lavoro fatto l’anno
precedente in relazione agli obiettivi che il gruppo si era posto con il Progetto educativo.
Del tempo deve dedicarlo l’animatore (Capo gruppo) per una verifica, identica alla
precedente, che consideri la Comunità capi ed il gruppo in generale.
Del tempo devono dedicarlo i singoli capi per una verifica della loro esperienza di presenza
in Comunità capi, e quindi del servizio prestato in unità e di ciò che intendono effettuare nell’anno
entrante.
E’ questa in genere “l’attività estiva” dei gruppi e dei singoli capi. All’inizio dell’autunno
tutto dovrebbe essere pronto o almeno pensato.
Si va così all’incontro d’inizio anno. Ad esso possono essere consacrati tre-quattro giorni o
una serie di pomeriggi-sera. Sarebbe bello e caratterizzante incontrarsi, per iniziare a lavorare,
chiedendo al Signore di realizzare, attraverso le nostre disponibilità ed i nostri problemi, la sua
volontà nel nostro Servizio. Un inizio nel nostro stile non sarebbe niente male, magari sulla strada,
trovando il modo di dedicare dello spazio per ritrovare il nostro modo di lavorare insieme:
crescendo e verificandosi. Gli altri giorni potrebbero essere organizzati in sede.
Dopo il momento di preghiera lungo la strada, è l’animatore che propone la sua riflessione
su quanto e come è stato realizzato nell’anno precedente in Comunità capi; i riferimenti costanti del
discorso dovrebbero essere l’ambiente sociale, la Parrocchia, l’Associazione, il nostro essere “capi
nella Comunità, i problemi più diffusi nei nostri ragazzi e…”
Se quel che si dirà nelle discussioni, d’ora in avanti, rimane scritto, rappresenterebbe un
buon riferimento per tutto l’anno e forse per il successivo. (…)
Un’analisi dell’organizzazione generale del gruppo, della sua amministrazione, del suo
magazzino, delle sue sedi, dei suoi rapporti con il Consiglio Pastorale, con il quartiere o con il paese
chiude la prima parte dell’incontro.
Da qui in avanti si entra nella fase di programmazione. Il riferimento a questo punto
dovrebbe ancora più essere il “Progetto educativo”. (…)
Gualtiero Zanolini, Scout-Proposta Educativa, 1983, n. 32, pp. 5-6
Il Progetto educativo, né guida rapida né enciclopedia
Saper progettare non è una dote gratuita: lo si impara con un esercizio prolungato nel tempo.
Il metodo scout ha il merito impagabile di insegnare a progettare la propria vita attraverso
strumenti che di per sé sembrano banali, come cucinare al campo o giocare con le zattere. E tutto
ciò senza essere costretti a partecipare a costosi e mefitici master, dove ti lavano il cervello con gli
insopportabili diagrammi di flusso.(…)
Che cos’è e come funziona questo progetto lo si trova scritto nello Statuto dell’Agesci, che
qui non riporteremo, anche se potrà scapparci qualche frammento di definizione. Cerchiamo
piuttosto di capire quali sono gli errori più frequenti, i rischi che si corrono più facilmente nell’uso e
nell’abuso del Progetto educativo.
Un altro metodo alternativo al metodo
Nel Progetto educativo la Comunità capi racconta, in termini comprensibili a tutti, quali
sono le aree di impegno prioritario per il gruppo, dopo aver osservato le esigenze educative dei
propri ragazzi. Talvolta però, questo racconto viene imprudentemente lasciato nella mani di cervelli
così fini, che questi ne fanno una palestra personale di raffinata elaborazione. Capita di imbattersi in
progetti in cui si descrive come si realizza una caccia, un’impresa o un capitolo con tale ricchezza di
analisi che sembra di trovarsi di fronte ad un nuovo metodo scout, alternativo a quello già descritto
nei regolamenti (oppure ad una ripetizione delle stesse idee, ma con parole più difficili).
Non ci serve un altro metodo, oltre a quello che abbiamo già.
L’enciclopedia
Se il Progetto educativo si sviluppa per quaranta pagine, con un’appendice bibliografica ed
un indice analitico, otlre a un cd rom allegato con i documenti e gli esercizi da svolgere, sarà
difficilmente utilizzabile dalla Comunità capi. Occorre piuttosto uno strumento pratico, consultabile
facilmente, un riferimento continuo da tenere in tasca.
Il documento esoterico
Il Progetto educativo non può essere un documentino esclusivo, pieno zeppo di riferimenti a
persone o a situazioni comprensibili soltanto a chi l’ha compilato (chi entrerà in Comunità capi
l’anno successivo avrà già bisogno dell’interprete). Non può quindi essere scritto in un gergo
altrettanto denso di formule e sigle inaccessibili a chi non è scout. Il Progetto educativo deve essere
piuttosto un raccordo con il mondo esterno, cioè il mondo vero, quello dei genitori, della scuola,
della parrocchia, delle altre associazioni educative o di volontariato con cui si lavora in rete.
Scolpito nella roccia
Un progetto intelligente è flessibile, elastico, non pietrificato. Se nel momento in cui
abbiamo finito di compilarlo vengono a bussare alla nostra porta i profughi di un gruppo vicino,
che, per disgrazia, è stato espulso dalla sede naturale, non possiamo dir loro di tornare fra tre anni,
quando cioè metteremo mano al progetto nuovo.
Il Progetto educativo è destinato alle persone, e, come tutti i progetti personali, si deve
adattare ai casi della vita, al destino, alla vincita alla lotteria che cambia lo scenario.
Copertina nuova, libro vecchio
Ogni tre anni riscriviamo il nostro progetto. Potremmo scegliere la via più comoda, quella
del ritocchino formale che modifica una parola qui e una là, mettendo alla fine una copertina nuova;
ma così avremo un progetto senza significato, non più aderente alla storia e alle persone, una
bandierina da mettere in cima alla torre della sede là dove si posano le cornacchie al termine della
cena.
Il progetto indica gli obiettivi ed i percorsi educativi che il gruppo vuole vivere in questo
momento; orienta l’azione educativa di questa particolare Comunità capi; aiuta gli staff delle unità a
garantire la continuità della proposta, senza strappi nel passaggio da una branca ad un’altra. Bisogna
perciò avere il coraggio di studiare effettivamente che cosa è cambiato nel gruppo, e quali sono i
nuovi obiettivi da raggiungere. Trascorsi tre anni, quanti sono i capi superstiti tra quelli che avevano
firmato il progetto precedente?
A tutti i costi
Ma è indispensabile che il gruppo abbia un Progetto educativo a tutti i costi, soltanto perché
su “Proposta Educativa” è scritto che ciò è importante? Che senso avrebbe compilare comunque un
progetto, anche senza sapere come riempire i fogli? Vi sono delle fasi storiche – momentanee – in
cui il Progetto educativo potrebbe non essere indispensabile. Ma qui ciascuno deve rispondere
sinceramente, non c’è test o allegato ai documenti nazionali che dica qual è la via giusta.
Stefano Garzaro, Scout-Proposta Educativa, 2005, n.23, pp.14-15
Una Comunità di capi nella Chiesa
Vita di fede e dimensione ecclesiale della Comunità capi
Una Comunità di capi, in quanto costituita da adulti che hanno compiuto una
scelta di fede, che educano a valori cristiani, che operano in un’associazione
cattolica, non può non costituire un nucleo vivo della Chiesa, non può non crescere
nella fede e nella spiritualità, non può non vivere come comunità di cristiani che
abbia al centro la Parola di Dio.
La Comunità capi e la comunità cristiana
In questa parte riportiamo le pagine più significative del Progetto Unitario di Catechesi del
1983 e di un recente volume sul Sentiero Fede dei Capi Agesci, che fissano le coordinate principali
della missione della Comunità capi nella comunità cristiana e della dimensione spirituale della
Comunità capi.
Il PUC evidenzia il ruolo specifico della Comunità capi all’interno della comunità
cristiana come comunità di servizio che sviluppa l’azione educativa dello scautismo, vivendo un
carisma particolare ed esercitando un “ministero di fatto”, entrando a pieno titolo nella Chiesa
locale in complementarietà ed integrazione con altri ambienti educativi. In tale contesto svolge
attività di formazione permanente, aiutando i Capi ad approfondire la loro vita cristiana secondo
la “spiritualità del Capo” (di cui elementi importanti sono la solidità, la continuità, la
responsabilità, la speranza, il rispetto del mistero del ragazzo, il rapporto personale con Dio, la
spiritualità scout). Come elemento centrale di un programma di formazione permanente di
Comunità capi si pone la necessità di approfondire continuamente l’evento-mistero
dell’Incarnazione e la formazione alla missione profetica, sacerdotale e regale di Gesù.
Il Sentiero Fede attualizza ed approfondisce questi aspetti, richiamando la Comunità capi
all’impegno della Chiesa locale per la comunione ecclesiale e il coordinamento pastorale ed una
continua attività interna di animazione spirituale, per la quale si offrono suggerimenti ai Capi
Gruppo.
Responsabilità della Comunità capi per l’educazione della fede
Il ruolo specifico della Comunità capi all’interno della comunità cristiana
a) La Comunità capi non è una comunità di vita ma una comunità di servizio educativo
all’interno della comunità civile ed ecclesiale.
La scelta cristiana della Chiesa che i Capi compiono li impegna ad orientare la loro azione
educativa secondo questa opzione ed a mettersi al servizio della Chiesa per la evangelizzazione e
l’iniziazione cristiana.
Attraverso il ministero dell’Assistente, mandato dal Vescovo, la Comunità capi fa parte di
pieno diritto della Chiesa locale, medita la Parola di Dio, celebra l’Eucarestia e partecipa alla
missione della Chiesa.
Ogni Capo in quanto educatore alla fede riceve in qualche modo un mandato, esercita un
“ministero di fatto” (cfr. Evangelizzazione e Ministeri, n. 67).
Il riconoscimento ecclesiale che i Vescovi hanno dato alla nostra Associazione significa un
vero mandato di essere testimoni e portatori del lieto annuncio: ogni capo, tramite la propria
Comunità capi, diviene partecipe di questa missione, che comporta una grossa responsabilità.
b) La Comunità capi vive all’interno della comunità ecclesiale con un proprio ruolo, che è
quello di sviluppare l’azione educativa dello Scautismo: un metodo educativo che mette in
particolare evidenza lo sviluppo integrale dell’uomo nelle sue diverse potenzialità e l’integrazione
di fede e di tutta l’esperienza cristiana con la vita personale e quotidiana.
La Comunità capi, vivendo il proprio carisma, si pone perciò all’interno della comunità
cristiana con un ruolo di complementarietà.
c) Per svolgere opera di complementarietà e di integrazione educativa la Comunità capi si
mette in rapporto:
- con i genitori: essi sono chiamati “i primi educatori della fede”. Anche quando non sono
preparati a collaborare o addirittura sono indifferenti è necessario instaurare con loro un certo
dialogo e coinvolgimento perché l’educazione alla fede in bene o in male passa attraverso di essi;
- con la parrocchia o le parrocchie.
L’Agesci ha una peculiare vocazione che non deve essere perciò confusa con altre
associazioni o movimenti.
Assieme al diritto ad uno spazio proprio, ha il dovere di impegnarsi con umiltà e coraggio
per costruire il massimo di unità possibile, con una presenza attiva nei consigli pastorali e nelle
varie iniziative di carattere educativo e quindi soprattutto nella catechesi.
Come è stato rilevato negli obiettivi del progetto (cap. I) i Capi sono chiamati o ad integrare
la catechesi parrocchiale (ad esempio nelle branche L/C) od anche a fare opera di supplenza quando
la catechesi parrocchiale manca (spesso nelle branche E/G ed R/S).
Una Comunità capi può trovarsi:
- inserita direttamente in parrocchia: in questo caso, se la parrocchia ha un suo
piano pastorale, la Comunità capi cercherà di armonizzare i propri momenti
specifici di catechesi con quelli offerti dalla parrocchia, evitando i doppioni e
colmando le lacune che vi riscontra;
- situata fuori da una struttura parrocchiale: in questo caso va tenuto presente che i
ragazzi del gruppo hanno (o dovrebbero avere) anche rapporti con la loro
parrocchia. Occorre prestare attenzione a non porsi come struttura parallela, ma
educare il ragazzo a cogliere il valore della appartenenza ad una Chiesa locale,
territoriale, (più completa come l’immagine del popolo di Dio): così l’itinerario
di catechesi del gruppo sarà integrativo a quello parrocchiale. Una vera vita
ecclesiale non si esaurisce mai in una sola comunità (che diverrebbe chiesuola)
ma si apre continuamente alle altre Chiese: perciò diventa importante tenere
conto delle linee pastorali diocesane, e delle indicazioni che vengono dalla
Conferenza di tutti i Vescovi italiani.
Lo Scautismo è una associazione mondiale che ha particolarmente a cuore l’ecumenismo e
la fraternità universale. L’Agesci si pone perciò come strumento di collaborazione con le altre
componenti ecclesiali (Associazioni e Movimenti).
La Comunità capi vive anche l’impegno missionario, per scoprire ovunque gli innumerevoli
germi di comunione che lo Spirito di Dio sparge nel cuore degli uomini (anche in quelli che sono
lontani dalla fede, dalla Chiesa, o addirituttura ad essi ostili), e per collaborare alla costruzione del
Regno di Dio.
Come la Comunità capi si prepara al servizio di educare alla fede
Per poter svolgere il loro servizio dei educatori della fede, i Capi hanno bisogno di vivere
essi stessi quelle esperienze di vita cristiana che si sono impegnati a trasmettere.
La Comunità capi deve quindi assicurare la formazione di base e la formazione permanente,
che aiuti i Capi ad approfondire la loro vita cristiana secondo la “spiritualità del Capo”.
a) Caratteristiche della spiritualità del Capo
Per spiritualità del Capo intendiamo un particolare atteggiamento interiore, frutto di un
cammino e di un cosciente impegno formativo. Ci pare di poter così riassumere le linee
portanti di questa spiritualità nei seguenti punti:
- una solidità acquisita nel tempo della propria crescita e nell’iter di formazione
capi, che approda ad una certa sicurezza del proprio progetto umano-cristiano,
della propria fede, delle proprie scelte sia generali che quotidiane, e del proprio
essere Capo nello Scautismo. E’ una solidità che non pesa sui ragazzi come un
modello obbligato, ma che trasmette quella certezza di fondo che incoraggia a
cercare nel medesimo senso e sulla medesima strada, e quella gioiosità che
proviene appunto dal sentirsi sulla strada della verità. Questa solidità non è in
contrasto con l’essere “in ricerca”. Nel Capo significa avere già delle basi certe
ed esplicite che stimolano uno sviluppo e una critica attenta e coscienziosa, a
distinguere ciò che è assoluto da ciò che è storico;
- una continuità che superi gli sbalzi d’umore, le stanchezze, le delusioni. Il
“mestiere del Capo” è troppo importante e decisivo per l’animo del ragazzo, e
non ci si può quindi permettere di abbandonarli a intermittenza, o di allentare
l’interesse verso di loro, né tanto meno di influenzarli con la propria debolezza,
con la sfiducia in sé e negli ideali che si propongono. Non si pretende che il Capo
sia infallibile o impeccabile, ma che abbia ormai raggiunto una padronanza di sé
che lo renda capace di continuità. E’ chiaro che le inevitabili “crisi” che
sopravvengono, verranno affrontate nella Comunità capi che ha il compito di
sostenere il cammino del Capo;
- una responsabilità globale verso i ragazzi che, volere o no tendono a
rassomigliare al Capo. Non è paternalismo, né volontà di creare la propria
immagine e somiglianza, non è attaccamento morboso e permaloso, malato di
gelosia e di ricatti, ma è un rapporto gioioso e fecondo in cui la convivenza e la
condivisione sono di primaria importanza.
- Queste tre “virtù” si possono anche riassumere nella speranza, nella fiducia,
nell’ottimismo: cioè nella certezza di essere strumenti di Colui che solo è
Maestro e Padre, e solo è educatore nel senso più vero.
Di qui nasce il rispetto per il mistero del ragazzo e della sua crescita imprevedibile, la
capacità di attesa e di coinvolgimento con ciascuno in modo da essere per tutti sempre un aiuto, un
incoraggiamento, uno stimolo a trovare e seguire la propria strada.
Una religiosità serena e fiduciosa, oltre che motivata e nutrita teologicamente,
che mette il Capo nella luce del progetto di Dio e lo fa sentire strumento e collaboratore.
L’educatore non è mai “libero professionista”, ma è sempre inserito nel “gioco di Dio” che
coinvolge anche lui. In questo senso, la Comunità capi e l’Associazione diventano ambiti concreti
di questa solidarietà fondamentale.
Una spiritualità scout (cfr. cap. III) nel senso che il primo a vivere l’ideale scout
e a essere scout ogni giorno, è proprio il Capo, così che la sua azione sia sempre lo straripare di
quanto vive lui stesso.
b) Centralità del mistero dell’Incarnazione nella formazione dei Capi
Nel tentativo di proporre una sintesi di programma di formazione permanente nella
Comunità capi, mettiamo in evidenza la necessità di approfondire continuamente l’evento-mistero
dell’Incarnazione. E’ questo mistero, di fatto, che in maniera più specifica permette di comprendere
quella mutua compenetrazione tra fede e vita che sta alla base di ogni autentica educazione
cristiana, ma che è oggetto di particolarissima attenzione nella educazione scout, come è stato detto
più volte (cfr. cap. I “fedeltà a Dio e all’uomo” e tutto il cap. II).
Attraverso la meditazione del mistero della Incarnazione, i Capi si rendono conto che
Dio non è estraneo alla loro vita perché ha scelto di porre la sua tenda in mezzo agli uomini (Es, 33,
7-11; Gv 6, 31-36 ecc.), di offrirsi come acqua viva (Gv 4,1-42; 7, 38), di farsi perfino cibo di ogni
uomo (Es 16, 1-35; Gv 6,31-36).
Nella riflessione sul mistero dell’Incarnazione ogni Capo comprende la universalità del
mistero cristiano: è per la Incarnazione (morte e risurrezione) di Cristo che non esistono più né
Ebrei, né gentili, né schiavi, né liberi, Dio non fa preferenza di persone (At 10,34) ma tutto
riconcilia a sé (Ef 2, 14-18)
Ed allora il Capo sente ispirazione e forza per superare ogni divisione dentro e fuori di sé:
fra corpo e spirito, fra fede e vita, fra cultura e cultura, fra ambienti sociali diversi ecc., e per
costruire quindi quell’unità fra l’uomo e la natura, e ogni altro uomo e Dio stesso, che è l’obiettivo
fondamentale del Cristianesimo ed anche dello Scautismo.
Dal mistero dell’Incarnazione deriva la centralità di Cristo. Il Capo guarda a Cristo
come al primo vero “Capo”. Credendo in Lui, entra in comunione con Lui, che è via, verità e vita
(Gv 14,6). Il dialogo con Cristo nella preghiera, lungi dal condurre all’evasione spiritualistica,
stimola ed illumina il dialogo con ogni uomo, così importante per ogni Capo scout, perché l’azione
educativa è tutta impostata sulla capacità di comunicare e lasciarsi coinvolgere nel “grande gioco”,
donandosi come Cristo. “Aprendo le porte a Cristo” si mette in moto un duplice movimento: un
graduale sviluppo di tuta la realtà umana e un graduale inserimento nel mistero di Dio.
Il rapporto con Cristo è contemporaneamente partecipazione alla Sua missione
profetica, sacerdotale e regale. Il Capo riceve una “missione”, il Capo è in “servizio”. In sintonia
con l’invito di Cristo che ha detto: “Il più grande di voi sarà vostro servo” (Mt 20,26), il Capo
considera il suo ruolo come un servizio, e la sua fede non è vissuta come un dono da conservare
gelosamente, ma come missione: fare qualcosa perché si realizzi il Regno di Dio e cioè per fare un
mondo migliore di come lo si è trovato.
c) Formazione alla triplice missione di Cristo
Nel cap. II sono state delineate le tre “attività” fondamentali a cui, attraverso
l’iniziazione cristiana, i Capi si impegnano ad educare e “familiarizzare”: la proclamazione e
l’ascolto della Parola di Dio, la celebrazione liturgica, la progettazione e l’attuazione di forme di
vita e di modelli di comportamento. Come è stato detto nell’allegato G del cap. II, queste tre attività
ecclesiali sono l’esercizio della triplice missione di Cristo e con Lui di ogni cristiano. Per poter
educare i ragazzi a questa missione è necessario che i Capi per primi vi siano formati.
La missione profetica (in rapporto alla conoscenza del messaggio): è la missione di
conoscere ed annunciare la Parola di Dio, che è sempre parola “nuova”: cristiano è colui che
conosce il pensiero di Dio e che parla in nome di Dio (cfr. Rinnovamento della catechesi, n. 198). Il
Capo, consapevole di questa missione profetica, sente la gioia e la responsabilità di “parlare in
nome di Dio”. La Comunità capi deve dunque programmare la formazione permanente all’ascoltointerpretazione- attualizzazione della Parola di Dio, soprattutto nella sua concretizzazione biblica
(cfr. Allegato D, cap. II). Non si chiede ai Capi di essere degli “esperti”, ma di saper comprendere il
linguaggio biblico, unico e molteplice, dei vari libri della Bibbia, e di saper cogliere il messaggio di
Dio all’uomo di oggi. La lettura biblica in Comunità capi dovrà essere preparata da qualcuno, ma a
ciascuno è aperta la possibilità di esercitare il “senso della fede e la grazia della Parola”,
arricchendosi la fede dell’uno con la fede dell’altro. Per questa “pratica della Parola” può servire
come schema la “liturgia della parola” e si può prendere come sussidio il “lezionario per la Messa”
specialmente nei tempi liturgici forti. Potranno anche porsi questioni da risolvere in riferimento
all’insegnamento della Chiesa (ad esempio con il “Catechismo degli adulti”), ed eventualmente in
luoghi e momenti opportuni. La conoscenza della Bibbia può realizzarsi partecipando ai Campi
Bibbia dell’Agesci o partecipando ed eventualmente anche organizzando Corsi biblici in
collegamento con la Chiesa locale. Lo studio della Bibbia richiede una programmazione per una
conoscenza graduale: ad esempio introduzione generale alla Bibbia, conoscenza approfondita di un
Vangelo e poi dei quattro Vangeli, degli Atti, delle lettere degli Apostoli, di alcuni libri più
importanti dell’Antico Testamento, temi biblici ecc. …
La missione sacerdotale (in rapporto alla “educazione alla preghiera ed alla
celebrazione”): missione sacerdotale è unirsi a Cristo sacerdote nel continuo dialogo con il Padre e
nell’offrire a lui la propria vita (vocazione – consacrazione) e tutta la realtà in cui si è inseriti
(mediazione sacerdotale) (cfr. Allegato G del II cap). Ogni Capo ha bisogno di essere aiutato per la
preghiera personale e ad inserirsi nella preghiera comunitaria, a vivere con consapevolezza e
partecipazione l’Eucarestia e la liturgia annuale. Anche per la formazione alla preghiera ed alla
liturgia è necessario che la Comunità capi sappia darsi un programma: per la preghiera delle
riunioni, per esperienze “forti” di preghiera in periodi particolari. Compito della Comunità capi è
anche fornire degli stimoli e dare degli aiuti per la preghiera personale dei Capi: indicando obiettivi,
contenuti e modalità. Inoltre per aiutare a vivere personalmente ed in comunità il cammino della
Chiesa nelle tappe dell’anno liturgico, la Comunità capi programma la conoscenza graduale del
significato della liturgia, dell’anno liturgico e dei sacramenti e prepara momenti celebrativi
comunitari da vivere a livello di gruppo Agesci o da condividere con la più ampia comunità
cristiana, specialmente nei momenti forti dell’anno liturgico.
La missione regale (in rapporto con “l’educazione alla prassi morale”): è la missione
di collaborare alla realizzazione del Regno di Dio. A tale missione è chiamato non solo il singolo
cristiano in forza del proprio battesimo, ma anche ogni comunità cristiana. Questa missione consiste
nella testimonianza personale e comunitaria attraverso scelte concrete; è impegno ad essere
portatori di quelle istanze vitali che costituiscono la “novità cristiana”, accettando di vivere da
protagonisti, anche se richiede fatica, all’interno della vita ecclesiale (ad es. nei consigli pastorali) e
della vita sociale (ad es. quartiere, scuola, politica ecc.). Le proposte del Vangelo e gli insegnamenti
del magistero sono il punto di riferimento essenziale e normativo per le scelte morali. Esse hanno
però bisogno della riflessione, del confronto, della verifica comunitaria. La Comunità capi ha il
compito di stimolare questo discernimento morale per una sempre maggiore fedeltà al Vangelo
nella vita. In particolare è necessario programmare l’approfondimento del rapporto fra coscienza e
legge morale, affrontare problemi morali della vita personale, familiare e sociale, anche quelli che
di giorno in giorno si presentano alla coscienza della Chiesa e di ogni cristiano.
Agesci, Progetto Unitario di Catechesi, Ancora, 1983, pp.127-134
Le responsabilità del capo della Comunità capi
La Comunità capi e la comunità cristiana
La catechesi è compito della Chiesa. Il rinnovamento della catechesi al n. 200 afferma:
“Prima sono i catechisti e poi i catechismi, anzi prima ancora sono le comunità ecclesiali”. Quindi
la comunità cristiana, guidata dal vescovo, ha la responsabilità indivisa dell’azione catechistica e
tutti i credenti che ne fanno parte hanno responsabilità comune nei confronti della catechesi; i
catechisti operano sempre “in nome della Chiesa, e devono perciò sentirsi sostenuti dalla stima,
dalla collaborazione, dalla preghiera della intera comunità”; i catechismi sono strumenti che
esprimono i contenuti universali della fede nel contesto di una comunità secondo una specifica
funzionalità pastorale.
“La catechesi è intimamente legata a tutta la vita della Chiesa. Non soltanto l’estensione
geografica e l’aumento numerico, ma anche, e più ancora la crescita interiore della Chiesa, la sua
corrispondenza al disegno divino dipendono essenzialmente da essa”. In particolare, la catechesi
della iniziazione cristiana dimostra la necessità di una comunità cristiana: non si tratta, infatti, solo
di un insegnamento che potrebbe essere impartito da specialisti, ma di un insieme di esperienze ed
attività a cui si può essere introdotti solo vivendo in una comunità ecclesiale.
Nella comunità è possibile individuare esperienze differenziate: in primo luogo la famiglia,
soggetto insostituibile di catechesi; l’assemblea liturgica ed in particolare quella domenicale; quindi
i sacerdoti, i catechisti e quanti attendono a compiti educativi. Ciò richiede anche un coordinamento
sapiente con tutta l’attività pastorale (vita liturgica, associazionismo, attività caritative e sociali) ed
anche la ricerca rispettosa di ogni possibile collegamento con la scuola ed altre agenzie educative. Il
compito del coordinamento spetta al vescovo e ai sacerdoti, chiamati a riconoscere e promuovere i
“carismi”, i doni che il Signore distribuisce ai credenti, e a dare mandato esplicito ad alcuni per il
compimento di un “mistero” specifico nella comunità.
Come associazione educativa scout che vive in Italia, l’Agesci si è impegnata a vivere nella
Chiesa cattolica in comunione con i pastori, per realizzare nel modo suo proprio la missione
fondamentale della Chiesa, cioè l’annuncio di Gesù Cristo agli uomini. Responsabili diretti
dell’annuncio cristiano nell’esperienza scout sono le Comunità capi, dove gli educatori laici insieme
con i sacerdoti assistenti, elaborano in concreto la proposta educativa. Per questo si richiede ai capi
che acquisiscano sempre più coscienza, competenza e coerenza nella loro fede e nello svolgere la
loro azione educativa secondo questa opzione.
Lo scautismo si propone la formazione integrale della persona umana ed è
fondamentalmente religioso, perché mette come base per la vita “la pietà verso Dio, l’amore per il
prossimo e l’amore per se stessi in quanto servi di Dio”. In piena coerenza metodologica,
l’educazione religiosa nello scautismo non è mai soltanto apprendimento teorico, riflessione,
meditazione ma contemporaneamente è azione, ricerca, vita attiva e, per l’Agesci, è azione,
preghiera e vita nella comunità ecclesiale.
Tale esperienza è offerta anche ai ragazzi che non hanno fatto professione di fede cristiana:
questa è una caratteristica che può differenziare l’Agesci da altre associazioni ecclesiali e talvolta
provoca difficoltà in particolari ambienti e situazioni. A tutti, però, si propone con chiarezza che la
vita scout nell’Agesci è anche un cammino di fede da compiersi in rapporto all’età, insieme con il
gruppo dei coetanei, per scoprire ed accettare il Cristo vivo oggi nella Chiesa.
La Comunità capi è collegialmente responsabile della proposta educativa, dell’integralità
della progressione personale di ciascun ragazzo, compreso l’aspetto religioso. Rimane a ciascun
capo l’impegno, che scaturisce dalla personale scelta cristiana della Chiesa per l’evangelizzazione e
l’iniziazione cristiana. Il riconoscimento ecclesiale che i vescovi hanno dato alla nostra associazione
significa un vero mandato ad essere testimoni e portatori del lieto annuncio: ogni capo, tramite la
propria Comunità capi, diviene partecipe di questa missione ed esercita un “ministero di fatto”.
Corresponsabili dell’educazione alla fede sono i capi gli assistenti ecclesiastici, chiamati ad
essere testimoni della fede, secondo il loro specifico ministero nella Chiesa. Attraverso il ministero
dell’assistente, mandato dal vescovo, la Comunità capi entra in un rapporto stretto con la chiesa
locale, medita la Parola di Dio, celebra l’eucarestia e partecipa alla missione della Chiesa.
Nella comunità ecclesiale la Comunità capi si distingue per un proprio ruolo specifico:
sviluppare l’azione educativa dello scautismo. Quest’azione è perfettamente coerente con l’impegno
missionario, catechetico ed educativo della Chiesa e compito della Comunità capi è di svilupparla in
modo che risulti concretamente armonizzata con i piani pastorali della realtà ecclesiale di
riferimento: la parrocchia, un gruppo di parrocchie, una zona pastorale, una diocesi. Per questo,
assieme al diritto di avere uno spazio proprio, la Comunità capi ha il dovere di impegnarsi con
umiltà e coraggio per realizzare la più ampia comunione ecclesiale ed il miglior coordinamento
pastorale, con una presenza attenta nei consigli pastorali e nelle varie iniziative di carattere
educativo, soprattutto nella catechesi. Lo scautismo, con il suo specifico metodologico e la propria
spiritualità, è generalmente chiamato ad integrare la catechesi parrocchiale (ad esempio nelle
branche L/C); talora potrà essere chiesto di supplire quando la catechesi parrocchiale manchi
(spesso nelle branche E/G ed R/S) o quando la comunità ecclesiale giudichi che il progetto di
iniziazione cristiana possa essere realizzato più efficacemente all’interno dell’esperienza scout.
In ogni caso, il cammino scout non è mai estraneo all’itinerario di iniziazione cristiana, un
“cammino di fede e di conversione con cui l’uomo, mosso dall’annuncio della buona novella, viene
gradualmente introdotto nel mistero di Cristo e della Chiesa” e per questo la Comunità capi è
chiamata ad un rapporto di integrazione e complementarietà con i genitori “i primi educatori della
fede”. Anche quando non sono preparati a collaborare o addirittura sono indifferenti, è necessario
instaurare con loro un rapporto di dialogo e coinvolgimento perché l ‘educazione alla fede, in bene
o in male, passa comunque attraverso la famiglia.
Nonostante le trasformazioni delle aggregazioni sociali, specialmente nelle grandi città, la
parrocchia “resta oggi ancora la prima e insostituibile forma di comunità ecclesiale”; essa rende
invisibile in un più ristretto ambiente territoriale e sociale la chiesa locale. La dimensione
parrocchiale, assumendo le particolarità sociali e culturali locali nell’universalità della Chiesa,
rende possibile il progetto catechetico attuando un immediato – non automatico – processo di
inculturazione. Non tutti i gruppi scout vivono in coincidenza con una data parrocchia, spesso –
soprattutto nei piccoli centri – raccolgono ragazzi di parrocchie diverse, con le quali è ancora più
necessario stabilire contatti e collaborazioni, individuando nel dialogo e nella corresponsabilità le
forme più adeguate per offrire ai ragazzi una matura esperienza di ecclesialità.
In passato, condizioni culturali e sociali di interi territori e fasce di popolazione realizzavano
una sorta di catechesi diffusa, “ambientale”; oggi è più forte l’esigenza di un primo coraggioso
annuncio e proprio l’assenza di una molteplicità di agenti di educazione alla fede lascia libertà e
responsabilità per una testimonianza sempre più limpida ed originale. I capi sono, dunque, chiamati
ad attrezzarsi per essere testimoni competenti, come richiede lo specifico ruolo di educatori e
catechisti, e membra vive della Chiesa, che così si arricchisce della originale vocazione riconosciuta
all’Agesci. (…)
Il cuore della formazione permanente
Nel tentativo di proporre un programma sintetico di formazione permanente nella Comunità
capi, mettiamo in evidenza la necessità di approfondire continuamente l’evento-mistero
dell’incarnazione. Questo mistero permette di comprendere quella compenetrazione tra fede e vita
che sta alla base di ogni autentica educazione cristiana, ma che è oggetto di particolarissima
attenzione nell’educazione scout.
Meditando il mistero dell’incarnazione, i capi si rendono conto che Dio non è estraneo alla
loro vita, perché ha scelto di porre la sua tenda in mezzo agli uomini (Es 33,7-11; Gv 6,31-36), di
offrirsi come acqua viva (Gv 4,1-42; 7,38), di farsi persino cibo per ogni uomo (Es 16,1-35; Gv
6,31-36). Dal mistero dell’incarnazione deriva la centralità di Cristo nella vita della Chiesa e del
cristiano. Il capo guarda a Cristo come al primo vero “capo”. Credendo in Lui, egli entra in
comunione con Lui, che è via, verità e vita (Gv 14,6).
Il dialogo con Cristo nella preghiera stimola ed illumina il dialogo con ogni uomo, così
importante per ogni capo scout, perché l’azione educativa è tutta impostata sulla capacità di
comunicare e di lasciarsi coinvolgere nel “grande gioco”, donandosi come Cristo. “Aprendo le porte
a Cristo” si mette in moto un duplice movimento: un graduale sviluppo di tutta la realtà umana ed
un graduale inserimento nel mistero di Dio.
Il rapporto con Cristo è contemporaneamente partecipazione alla Sua missione profetica,
sacerdotale e regale.
Il capo riceve una missione, il capo è in servizio. In sintonia con l’invito di Cristo che ha
detto: “Il più grande tra di voi sarà vostro servo” (Mt 20,26), il capo considera il suo ruolo come un
servizio e la sua fede non è vissuta come qualcosa da nascondere gelosamente, ma come dono che
spinge alla missione: fare qualcosa perché si realizzi il regno di Dio e, cioè, per fare un mondo
migliore di come lo si è trovato. Anche testimoniando il proprio personale impegno in un serio
cammino di direzione spirituale, il capo farà concretamente comprendere ai ragazzi le esigenze di
un valido cammino di fede. (…)
La vita di fede in Comunità capi
Per suggerire orientamenti sufficientemente chiari in tema di animazione spirituale, va
anzitutto sgomberato il campo da un possibile equivoco e cioè dall’immagine di Comunità capi
considerata come comunità di vita. E’ il servizio educativo il comune denominatore al quale è
affidata l’identità delle Comunità capi dell’Agesci. I capi operanti nel gruppo dovrebbero, quindi,
essere degli adulti nella fede. In particolare i Capi dovrebbero avere una buona conoscenza della
Bibbia, essere allenati alla preghiera, avere familiarità con la liturgia ed essere maturi nel
comprendere e valutare le realtà della vita, nel testimoniare la propria fede.
La realtà, che non è di rado diversa, tramuta in genere queste qualità del capo in un
traguardo da raggiungere anche (ma non solo) mediante l’animazione spirituale della Comunità
capi. Infatti, misurati dalle responsabilità educative verso i ragazzi, “abbiamo il dovere di parlare di
Dio: in questo senso la Comunità capi è un organismo missionario, specie là dove si incontrano i
lontani”.
Più che offrire da sola tutte le occasioni o tutti i mezzi di formazione spirituale, è da ritenersi
fondamentale compito della Comunità capi, guidata dal Capo gruppo e dall’assistente,il trasmettere
a tutti i capi la tensione morale e la volontà di organizzarsi come credenti.
Ciò significa che:
- ogni capo deve personalmente fare del proprio meglio per raggiungere la maturità
indicata, cercando e cogliendo tutte le occasioni che gli si presentano, dentro o fuori
la Comunità capi;
- la Comunità capi deve includere nel suo Progetto educativo un sistematico
programma di meditazione della Parola, di preghiera, di adorazione, di stimolo alla
testimonianza della carità.
All’assistente, con l’aiuto del Capo gruppo, spetta cogliere la tensione esistente nella
personale progressione di fede di ogni capo e proporre gli itinerari di volta in volta ritenuti più
opportuni per maturare una visione globale della fede cristiana.
I mezzi sono semplici e vanno dalla preghiera comunitaria allo studio individuale, dalla
lectio di un libro della sacra scrittura alla trattazione sistematica del credo e del padre nostro, dalla
lettura di un documento del magistero alla messa in comune di riflessioni personali sulla Bibbia,
dalla revisione di vita alla partecipazione agli “eventi fede” proposti dall’Agesci ma anche a ritiri ed
esperienze di spiritualità proposti dalla chiesa locale o da altri movimenti ed associazioni ecclesiali.
Proviamo a delineare uno schema molto sintetico degli elementi che un Capo gruppo
dovrebbe tener presenti nel proporre un cammino di catechesi con i suoi capi:
1.
Senso della missione: la Comunità capi deve sentirsi investita del mandato
educativo e dell’essere, in un modo originale, educatori alla fede; occorre
pronunciare, ritualizzare quest’investitura con forme esplicite ed ecclesiali.
2.
Capacità “tecnico-tattiche”: i capi devono acquisire concetti chiari in ordine alla
fede ed alla sua trasmissione; vanno perciò provocati a verificare e definire gli
elementi centrali della fede.
3.
Assenza di conflittualità di fondo: il legame affettivo, la lealtà verso la Chiesa, la
fiducia ed il rispetto delle potenzialità del gruppo vanno rimarcate ed alimentate
con esperienze adeguate.
4.
Lavoro di gruppo: il clima aperto e non autoritario non significano vaghezza di
ideali; occorre creare una tradizione di gruppo alla quale riferirsi con orgoglio,
sentendosi parte della fraternità universale della Chiesa, che va al di là
dell’amicizia.
5.
Fiducia, profondo senso religioso: l’atteggiamento di fede deve divenire abituale
nel capo, come modo di vedere e capire le cose. E’ necessario parlare della
dimensione contemplativa del capo, per aiutarlo ad affidarsi ad una guida
spirituale.
La verifica di questo cammino avviene in diverse direzioni:
- orizzontale: tra capi, costruendo un interscambio tra pari, tra compagni di viaggio;
- verticale verso l’alto: l’associazione, i campi scuola e gli altri eventi di formazione
capi, la zona, sono momenti decisivi e ricorrenti di stimolo e verifica;
- verticale verso il basso: il capo non è solo con la sua unità, ma deve poter verificare
le cose che dice e la testimonianza che offre, nel tessuto quotidiano delle relazioni
nella sua comunità
Quello che conta è che nella Comunità capi non ci siano soste nel richiamare costantemente
la necessità di una interiorizzazione personale, libera ed originale, di quanto l’associazione offre
solo come segno e stimolo.
Agesci, Sentiero Fede. Il progetto, Fiordaliso, 2000, pp.152-164
Quale comunità nella fede?
La vita di fede ed il sentirsi “membra vive” della Chiesa costituiscono aspetti
caratterizzanti una Comunità di adulti educatori scout cattolici italiani. Alcuni interventi ci aiutano
ad approfondire il tema.
Gualtiero Zanolini (1978), nel rilevare come l’esperienza di preghiera e di Fede in
Comunità capi vada oltre il legame con il servizio educativo, offre il modello della “comunità
spirituale”, la cui caratteristica è di avere al centro la Parola di Dio come punto di riferimento
dell’essere e del servire.
Antonio Corrà (1978) sottolinea la missione “ministeriale” della Comunità capi che svolge
un compito di evangelizzazione in comunione con la Chiesa.
Stefano Salviucci (1979) afferma che la Comunità capi è comunità di Chiesa, il cui servizio
è all’interno della Chiesa medesima, svolgendo il compito educativo come ministero (in quanto
accoglie) il dono della fede.
Graziano Guiotto (1998) osserva come dalla scelta di fede dell’Agesci e dalla sua
maturazione della dimensione ecclesiale discenda un impegno delle Comunità capi per un
autentico cammino di fede e per ricercare un modello di comunione.
Comunità capi, comunità spirituale
La mia esperienza personale, come, ritengo quella di tutti voi, si discosta e va oltre quelli
che furono i risultati del Convegno ‘72: Comunità di capi educatori in quanto facenti servizio:
comunità di fede in quanto capi cattolici educatori alla fede; Comunità di capi in quanto riconosciuti
dall’Associazione e via dicendo in questo senso … La via è stata seguita, qualcosa è cambiato, ma
si giungerà (o si è giunti) nel cammino di crescita della Comunità capi, ad un punto in cui sarà di
nuovo necessario chiarire certi obiettivi.
L’esperienza di preghiera e di fede in generale di una Comunità capi è difficilmente
riconducibile soltanto al servizio che i capi e le capo svolgono: essa nel maturare è qualcosa che va
al di là e che porta a sentire le persone con cui si è chiamati a fare comunità, non più soltanto
educatori come te, ma dei veri e proprio fratelli in Cristo. A parer mio non è un passo troppo grande
questo, per una Comunità capi che seriamente intraprende un cammino di fede. (…)
Centrare una comunità di cristiani su ciò che non è Cristo è quantomeno “difficile”. Portare
dei capi a svolgere un servizio senza aver chiarito fino in fondo il significato cristiano del servizio è
veramente rischioso. E’ di questi giorni il sentire affermare da un capo: “Svolgo un servizio
educativo di tipo marxista in una associazione cattolica”: dietro questa affermazione esistono dei
vuoti culturali spirituali di cui dovremo farci carico tutti (se non altro per la dignità filosofica di
Marx o di chicchessia … per esempio Gesù Cristo…). (…)
Ritrovarsi in una Comunità capi non per bisogno di aggregazione, non perché scontenti dei
propri rapporti sociali, non “per fare educazione marxista”, non per “fare servizio” ma in quanto ci
si trova fratelli nel Cristo per servire altri fratelli, è secondo me alla base di tutte le scelte. (…)
A questo punto la scelta è fra due tipi di essere comunità: l’uno è “spirituale”, l’altro è
“psichico”; questa definizione del Bonhoeffer è diamantina per differenziare le nostre comunità in
crescita.
Vivere in una comunità spirituale significa ammettere coraggiosamente le immense
difficoltà di relazione tra i componenti, la sua caratteristica è nell’avere come centro la Parola di
Dio, intesa come punto di riferimento dell’essere e del servire (servirla). Vivere invece in una
comunità psichica significa vivere nel costante desiderio di rapporto con l’altro in quanto tale:
anima con anima come corpo con corpo. “Qui chi è psichicamente più forte si sfoga ed attira
l’ammirazione, l’amore o il timore del più debole”.
Quest’ultimo tipo di comunità ritengo sia assai più diffuso nella nostra associazione, in esso
è coltivato un amore “psichico” per il prossimo. Questo tipo di amore è “capace di compiere anche i
sacrifici più inauditi; nella sua ardente dedizione e nei suoi successi visibili supera spesso il vero
amore cristiano con una eloquenza sbalorditiva ed elettrizzante”. Paolo, nella prima lettera ai
Corinti ci dice a tal proposito: “E quando distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri, e
quando dessi il mio corpo arso se ho carità (cioè l’amore di Cristo) ciò niente mi giova”.
E’ evidente, secondo me, che come comunità di credenti nel Cristo dovremo tentare di
costruire comunità di tipo spirituale forse attraversando nel nostro cammino la fase di “relazione
psichica” ma vivendo sempre nella tensione verso la prima.
Gualtiero Zanolini, Scout-Proposta Educativa, 1978, n. 6, pp.57-59
Comunità capi: comunità ministeriale
Qualunque Comunità capi, nella dinamica educativa, nel suo cammino di Chiesa, perfino
nella strutturazione comprendente l’aspetto organizzativo, non può pensare di far parte di un
organismo archeologico, né di un progetto tecnico destinato a dimostrare presunte grandezze, ma
impiega ogni mezzo per rendere coscienti le singole persone di una dignità e di un compito storico
ch e provvidenzialmente a tutti sono stati affidati.
In questa presa di coscienza di “una azione originale” si può collocare, come logico
corollario, la missione “ministeriale” della Comunità capi. Si capisce come ciò richieda delle
condizioni, come ad esempio un’intensa vita battesimale, con le quali si potrà giungere ad esprimere
ai fratelli quello che lo Spirito ha compiuto e perfezionato con la sua inesauribile opera all’interno
di ogni Comunità capi.
Da non dimenticare che tutte le Comunità sono chiamate a svolgere un compito educativo
originale in forma organica per la formazione del Lupetto-Coccinella, dell’Esploratore-Guida e dei
Rovers-Scolte.
Un “servizio” necessario e d’importanza unica per la crescita dei nostri fratelli resosi ancora
più attuale a causa di forze disgregatrici presenti nella nostra società secolarizzata, contraddittoria
ed ambigua. Un lavoro, il nostro, che deve procedere in perfetta armonia con un piano pastorale
della Chiesa locale per non creare eventuali fratture fra un Progetto educativo e un insieme di vita
ecclesiale.
In questa prospettiva si può assentire con chi precisa che l’Agesci non può e non deve
educare i ragazzi ad essere gli “uomini dei boschi”, con una “nostra vita”, tesi solo a superare gli
ostacoli per una “nostra” organizzazione.
Qualora poi la Chiesa locale sia veramente aperta ai doni dello Spirito, troverà dignitoso
riconoscere un compito insostituibile realizzato dalla Comunità capi non tanto e non solo a favore
dei ragazzi, bensì a favore di tutti i membri della grande famiglia parrocchiale, perché si tratta di
una crescita nella carità.
Una Comunità di capi in comunione con la Chiesa, sensibili alle indicazioni dello Spirito,
attenti a cogliere i “segni” della storia per convertire noi stessi, rimane senza dubbio Comunità
Evangelizzante per quello che “vive” prima ancora che per quello che “fa”.
Resta da ricordare che “tutti i battezzati partecipano a titolo diverso a tale ministerialità
prima e fondamentale della Chiesa, che è l’evangelizzazione, o ogni membro della Chiesa svolge in
essa il suo doveroso ufficio a servizio della salvezza del mondo “. (…)
Diventare comunità ministeriale non è un’opera che si improvvisa, né un risultato di
intervanti miracolistici compiuti da qualche Capo “piovuto” dal cielo e tanto meno un’impresa da
“eroe solitario”. (…)
Bisogna credere ad una Comunità capi che vivendo la situazione di Chiesa inserita nella
storia, avverte con gioia di poter essere coscienza critica dei disvalori propugnati e seguiti attraverso
la testimonianza di una propria povertà vissuta davanti a Dio e nell’accoglienza di quanti hanno
bisogno di una mano da fratelli.
Ma saremo noi stessi, Comunità capi, che ci sottoponiamo al giudizio della Parola,
ponendoci in un atteggiamento di scoperta, di riconoscenza per quello che possiamo compiere di
bene; saremo noi stessi a dover essere pronti a mutare perché consci dei nostri difetti, delle
numerose pesantezze che non ci permettono di prendere il “volo”, ancora appesantiti dai nostri
pregiudizi, stanchi, perché privi della forza del Signore. A questo punto ci metteremo a camminare
con più sincerità, con più umiltà, lasciando che le nostre vuote parole muoiano sulle labbra, per
lasciar spazio alla strada “di vita” che ci attende tutti.
Antonio Corrà, Scout-Proposta Educativa, 1978, n. 24, pp.18-19
Comunità capi: comunità di Chiesa
La Comunità capi, se noi leggiamo il Patto Associativo, è indubbiamente Comunità di
Chiesa, il cui servizio è all’interno della Chiesa. All’atto pratico ogni tanto qualche dubbio si
presenta o perlomeno si sente una certa difficoltà (anche confrontando le esperienze di altre
comunità). (…)
Mi sono domandato perché c’è questa difficoltà all’interno delle Comunità capi. Perché c’è
difficoltà a riconoscersi comunità di Chiesa? (…)
Secondo me, il discorso va anche un po’ oltre e riguarda la tendenza delle Comunità capi ad
oscillare tra due estremi:
- gruppo di coloro che si ritrovano bene insieme e che quindi rischiamo di
programmare interventi nel politico, nel sociale e di non essere sufficientemente
preoccupati dello specifico scout all’interno di una comunità e quindi di non
lavorare per questo. Allora è chiaro che una comunità in questo senso, se si pone
lo specifico cristiano al centro e diventa una comunità cristiana, si confonderà
con altre comunità, perché perde lo specifico scout.
- l’altro estremo è proprio il discorso del fare educazione. La Comunità capi che si
pone di fronte a questa esigenza di farsi carico della responsabilità di educatori
nell’ambito del Gruppo, rischia di creare delle ambiguità. E questo per il fatto
che non si stabilisce un rapporto stretto fra l’essere educatori e l’educazione
permanente, cioè tra la funzione di Comunità capi come luogo in cui si elabora il
Progetto educativo e ciò che va fatto per i ragazzi, e Comunità capi come luogo
in cui è importante che ciascuno riconosca un ambito per la propria crescita,
perché ciascuno di noi è continuamente in crescita.
Direi che l’accento posto nello Statuto sul fatto che la Comunità capi è formata da adulti che
si incontrano per fare dell’animazione, non ci deve far dimenticare il secondo punto è cioè
che essi si riuniscono per la formazione dei Capi in quanto educatori. (…)
Oggi viviamo in un clima (secondo me giusto) di scoperta della relativa autonomia delle
varie dimensioni della realtà umana. Noi oggi abbiamo la convinzione abbastanza precisa
che l’educazione ha in sé una sua dignità ed autonomia per cui si può collocare anche al di
fuori di un discorso di fede. Si può benissimo fare un discorso di altruismo, di giustizia, di
semplicità, di povertà che non sia direttamente radicato sulla fede. (…)
Questa secondo me è una scoperta molto bella perché ci pone di fronte ad una realtà
bellissima che è il senso della gratuità e di dono della fede; la fede non è una necessità in
senso stretto, la fede è un dono di Dio e nel momento in cui io lo accetto gratuitamente non
tolgo nulla alla sua bellezza. Questo invece noi ogni tanto lo perdiamo di vista e dire in
fondo il primo gesto diseducativo che noi facciamo e quando ciò che è gratuito lo riteniamo
di minor valore. Alcune volte i ragazzi affrontano questo discorso dicendo: “Ma se non è
necessario, a che serve?” Riconoscere Dio come Padre, riconoscere i fratelli in Cristo non è
che direttamente serve, come 2+2 fa 4, è un’altra dimensione, ma è la bellezza di questa
dimensione che dobbiamo cogliere. Tutto questo a volte non si riesce a fare.
Prevale quindi questo senso di avere in mano uno strumento educativo che funziona anche
da sé: allora si dà l’impressione che questo nostro essere cristiani sia tutto sommato un di
più e quindi avviene che in un certo senso camminiamo su un doppio binario, cioè portiamo
avanti una educazione e una testimonianza cristiana separatamente. Ecco da dove viene fuori
il senso di distacco dalla Chiesa; allora ci poniamo il problema se questo è un servizio,
oppure non ce lo poniamo affatto, ma allora prescindiamo da tutto il discorso sul problema
del servizio come ministero, cioè dell’essere noi comunità cristiana che presta servizio
specifico nella Chiesa. Ci collochiamo in un’ottica che finisce per essere diversa o
perlomeno la Comunità capi si pone in quest’ottica.
Però cosa avviene? Se c’è questo scollamento dei termini la Comunità capi facilmente
diventa una comunità che cessa di essere comunità nel senso stretto, ma diventa
semplicemente una comunità funzionale, cioè di persone che stanno insieme perché si
riconoscono semplicemente nel dover fare educazione in un certo modo, ma in cui ciascuno
tiene gelosamente per sé tutta quella che è la sfera della sua comunicazione umana, la sfera
della sua ricerca anche religiosa; e allora la religione ricade nel privato e finisce per non
essere più un segno ed una crescita di comunità.
Abbiamo quindi in alcune ipotesi una Comunità capi che non è più una Comunità capi, ma
una vecchia direzione di Gruppo.
Posto questo vizio di partenza, che bisogna invece chiarirsi per superare queste difficoltà? Io
credo che non possiamo dirci comunità di cristiani e nello tempo non dirci Chiesa, non
possiamo dirci comunità di cristiani e nello stesso tempo dire che il lavoro che non
facciamo, il lavoro educativo, non è un servizio nella Chiesa. (…)
Mi sembra importante sottolineare il discorso dei ministeri all’interno della Comunità capi,
prima ancora del discorso del rapporto della Comunità capi con la Chiesa locale perché noi
in genere tendiamo sempre a sottolineare prima di tutto quel tipo di rapporto con la
parrocchia, con ambienti diversi. A me sembra che invece prima di tutto dobbiamo
affrontare il discorso della comunione all’interno della Comunità capi e della comunione nel
senso cristiano della parola.
Ecco quindi la scoperta di tipici aspetti dell’essere cristiano come le semplicità: una cosa che
andiamo tanto chiedendo ai ragazzi che noi educhiamo e di cui le nostre comunità sono
molto povere. Semplicità per cui si prega insieme, senza porsi diecimila problemi; si fanno
dei gesti insieme senza dover sviscerare prima il capello di quello che il gesto voglia
significare e via dicendo. Si recupera la dimensione dell’ascolto con una certa semplicità.
Semplicità in ciò che si fa e in ciò che si vuole essere come persone; quindi, se accettiamo
come dono il nostro essere cristiani, non dobbiamo continuamente stare a cavillare e a
domandarci fino a che punto lo siamo. Cerchiamo di crescere in quello che noi siamo. Così
la volontà di riscoprire i termini cristiani della comunità, questa comunione spirituale e non
psicologica.
P. Stefano Salviucci, in: La Comunità capi nella comunità ecclesiale, Fiordaliso, 1979, pp.50-54
Spiritualità nella Comunità capi degli anni ‘90
“Ed erano assidui nel frequentare ogni giorno tutti insieme il Tempio e spezzando il pane
nelle loro case prendevano il loro cibo con gioia e semplicità di cuore, lodando Iddio e godendo del
favore di tutto il popolo” ( At 2, 46-47)
Non sembri irriverente paragonare la Comunità capi alle prime comunità cristiane raccontate
in quel capolavoro delle letteratura lucana che sono gli Atti degli Apostoli. Uomini e donne che
faticosamente, ma con gioia e convinzione, cercavano un’identità, avevano voglia di confronto, si
scoprivano fratelli, perché il messaggio era chiaro, la meta sicura: Gesù Cristo.
Anche loro si erano dotati di un “Patto” costituito da quattro punti: l’ascolto della Parola,
ossia l’avventura di Dio dentro la Storia, la comunione fraterna, la frazione del pane, la preghiera.
Qui essi si riconoscevano: una Comunità di capi che imparavano a diventare discepoli di Gesù.
L’Agesci ha fatto la scelta di fede, precisa, ha il Patto Associativo che la esplicita. I capi, per
essere tali, vi devono aderire, con l’intelligenza e con il cuore, senza alchimie, anche se, a mio
avviso, vi è la necessità di un approccio più diretto con la Rivelazione.
Non ci si può accontentare di una perdurante mediazione psicologica verso la fede, come
opportunamente avviene per le branche. Ad un capo si chiede di essere cristiano, maturo e
consapevole, con una scelta di fede perseguita con il cuore, la passione, il solo modo utile per
poterla trasmettere testimoniandola: “Baden-Powell lo sottolinea fortemente dicendo che il capo
deve essere il “manuale vivente” dei suoi scout, testimone personale credibile e persuasivo di
quanto egli insegna e propone”.
Sappiamo che non è sempre così. (…)
Il risultato? L’incoerenza personale, che fa vivere ciò che si dice; l’incompetenza, ossia la
difficoltà di approfondimento e di conoscenza della verità fondamentale del credo cristiano,
privando anche i ragazzi di cioè che è loro dovuto, anche in termini di fede.
“La vera bestia nera della fede è l’ignoranza, intesa come non conoscenza della verità”.
Viene pure a mancare la tensione della ricerca continua, l’attualizzazione nel difficile
passaggio tra l’enunciazione della Parola e la sua applicazione. Urge un recupero di credibilità
personale e di gruppo nel testimoniare al fede, e l’Agesci non parte da zero. L’Associazione ha
molto camminato anche in senso religioso: il nostro metodo facilita l’auspicabile, concreto
approccio a Cristo. La stessa “produzione documentale” dell’Agesci pone al centro la scelta di fede.
Ad aiutare a compiere questo passaggio un ruolo significativo lo assunse il “Progetto Unitario di
Catechesi” e più recentemente il “Progetto del Capo”, anche se il PUC, per una sbagliata lettura del
testo, scambiato erroneamente più per un manuale-programma di catechesi che per mezzo
fondamentale di crescita nella fede all’interno del metodo scout, è stato poco utilizzato, se non
addirittura sconosciuto per molti. Il Progetto del Capo è, invece, uno strumento indispensabile per
chi voglia procedere nel sentiero più sicuro e più utile agli altri e al tempo stesso lo voglia
percorrere con l’aiuto e la condivisione di una comunità di fratelli, ma, anche se insostituibile, non
risponde appieno alle esigenze di crescita personale, di gruppo, di confronto, di ricerca di
un’identità per un comune sentire.
I nodi problematici sul versante fede vanno ricercati nelle scarse capacità di scelta (prima o
poi bisognerà pur decidersi), nella poca conoscenza dei “fondamentali” della religione, nei percorsi
ancora un po’ troppo “infantili”. Al contrario la Comunità capi deve condurre con convinzione e
chiarezza di obiettivi i singoli verso il recupero del senso religioso del servizio, ma lo può fare
unicamente se attua un cammino diretto con la Rivelazione. (…)
Perché non privilegiare un rapporto con il Vangelo che ci parla di Cristo? “Perché è
scomodo. Ma è sempre stato così. Ogni lettura storica della Parola di Dio è filtrata dalla pigrizia
umana”.
Gli Atti degli Apostoli ci pongono un modello di comunione. Dobbiamo inventare dei
modelli di comunione anche in Comunità capi, dove Dio possa certamente porre la sua tenda in
mezzo alle nostre. Per compiere il passaggio da maestri, ammesso che lo siamo, a testimoni, come
ci raccomanda B.-P., è doveroso progettare il cammino di fede in Comunità capi, che non è la
sommatoria di tutti gli auspicabili cammini di fede dei singoli, ma deve avere un suo percorso nel
fare esperienza di Cristo. Stiamo parlando di una cosa seria: progettare, che è l’essenza
dell’educarci e dell’educare, superando l’occasionalità, anche per la fede, perché “la fede non è
teoria astratta, è conversione e vita”.
Al mio ingresso in Comunità capi ricordo che mi venne presentata la “Carta di Comunità”
sulla quale dovevo meditare e sottoscriverne l’adesione. Accettavo un cammino in una comunità di
servizio, una comunità educante, una comunità di formazione, una comunità scout, una comunità di
credenti.
Uno strumento tra i tanti come mezzi utili li potremmo ritrovare se riacquistassimo creatività
simbolica perduta. Pensiamo alla spiritualità della strada, col suo linguaggio, patrimonio tutto scout,
talmente sperimentata e saggiato, che se fosse un prodotto commerciale lo potremmo brevettare
perché di sicuro successo.
Come dovrebbe trovare la giusta collocazione anche in un progetto di cammino di fede
comunitario lo spazio di deserto dove coltivare la capacità di silenzio e di ascoltare noi stessi, i
bisogni reali dentro di noi, che fanno nascere dei perché, dei desideri che chiedono una risposta che
arriva, che vale la pena di ascoltare perché il deserto è il luogo in cui Dio parla, come ha fatto con il
popolo di Israele. (…)
La dinamica della fede è la stessa della dinamica umana, anela all’amore, alla carità, e
quando l’uomo trova ciò che gli riempie la vita, diventa sorgente. E’ da qui che può nascere la
dinamica delle Comunità capi, che poi è quella della Chiesa: operiamo nel nome della Parola stessa
e la Parola diviene il regno di questa comunione che anima il mondo. Ora sì, diventati testimoni,
dando ragione della propria scelta di fede, dobbiamo essere riconosciuti dalla Chiesa locale come
“mandati”, che vuol dire diventare comunicatori dello stile di Dio, capaci di dotarci di una
indispensabile conoscenza religiosa che permetta di diventare catechisti competenti, dal momento
che possibilità di apprendimento e approfondimento catechetico, teologico e liturgico di base non
mancano.
Graziano Guiotto, R/S Servire, 1998, n. 1, pp.29-32
Una Comunità che si apre
Un territorio, un ambiente, un impegno politico
per la Comunità capi
Una Comunità di capi, in quanto comunità di adulti educatori scout che vive in
una società e in un territorio, non può fermarsi a costruire legami e ad assumere
impegni per la crescita solo all’interno del Gruppo, ma deve anche (senza rinunciare
al proprio specifico educativo e anzi per renderlo più autentico e più profondo)
costruire legami e assumere impegni per la crescita di una comunità civile e
ecclesiale più grande (anche se con caratteri diversi), come nucleo vivo di cittadini
attivi
“Membra vive” di un ambiente
Nella fase nascente della Comunità capi, sotto la spinta di una crescita a tutti i livelli della
partecipazione sociale e politica, si sottolinea da più parti la necessità di una presenza sociale e
politica e di un impegno che qualificasse ulteriormente il compito educativo.
Così Eugenio Banzi (1977) evidenzia la proiezione del Progetto educativo nel quartiere in
cui si è presenti attivamente, stabilendo una collaborazione con partiti ed organismi.
Vittorio Pranzini (1982) esamina il rapporto tra scautismo e ambiente inteso nei due sensi
(utilizzare elementi dell’ambiente a fini educativi, estendere la propria opera educativa al di fuori
dell’associazione). Contro ogni tentazione di arroccamento, di sfiducia o di resa, occorre vivere
l’ambiente come mezzo educativo che consente di conciliare l’educazione individuale e quella
sociale.
Vittorio Ghetti (1982) approfondisce ulteriormente il tema e sottolinea quattro dimensioni
politiche delle Comunità capi: comunità di cambiamento, scelta dei poveri, credere nell’utopia
(intesa come affermazione della giustizia), ricerca del bene comune pagando di persona. La
Comunità capi è soggetto politico in uno specifico territorio e in uno specifico ambiente senza
diventare luogo di militanza politica.
Partecipazione di quartiere
Quartiere: riscoperta di una dimensione dove vivere la nostra esistenza di uomini e donne in
modo semplice e realmente umano.
Già la ricerca di questa dimensione è una precisa ricerca politica che l’associazione propone
ai giovani e a tutti gli altri. È indispensabile, però che ci sia un confronto sul come intendere il
quartiere, come parteciparvi, come essere costruttori di questa riscoperta realtà.
La partecipazione nel quartiere deve essere considerata come una “esperienza di servizio”,
verificabile continuamente nella Comunità rover/scolte. Secondo la mia esperienza, va richiesto ai
ragazzi di trovare continuamente forze nuove di animazione e di partecipazione, cioè va proposto
loro di educarsi alla partecipazione con tutti gli altri giovani del quartiere. Solo in questo modo si
può limitare in futuro l’assenteismo di molti adulti.
Creare insieme ad altri un centro di animazione del quartiere (o collaborare, se esiste già)
coinvolge tre momenti fortemente educativi: il contatto con altre persone ed organismi;
l’elaborazione di una proposta operativa originale e seria; l’azione costruttiva nella realtà del
quartiere.
La motivazione principale del centro di animazione è l’educazione alla partecipazione
sociale; questa attività coinvolge con gradualità i ragazzi a tutti i livelli (lupetti, esploratori, rovers)
ed è importante che sia fatta in collaborazione con gli enti locali e non semplicemente come azione
isolata.
In questa luce la Comunità capi si colloca come comunità di adulti con un suo Progetto
educativo, che si confronta con gli operatori sociali della zona (insegnanti, consigli d’istituto, altre
associazioni o organismi che operano con i giovani). In questo modo la nostra proposta non è solo
diretta al ragazzo ma anche alla realtà circostante.
La Comunità capi deve quindi elaborare, tenendo conto della realtà sociale ed ecclesiale, un
suo Progetto educativo con i valori propri nostri, progetto che però dovrà essere proiettato nel
quartiere come proposta educativa. È importante, però, che tutto questo sia elaborato in Comunità
capi e solo dopo concretizzato metodologicamente nelle unità con tempi e modi appropriati all’età
dei ragazzi, cominciando dalla comunità R/S. Un altro punto da verificare è la disponibilità delle
famiglie a sentirsi coinvolte (le famiglie devono essere le prime ad essere coinvolte, sia nel Progetto
educativo che nella proposta educativa esterna).
È molto importante che siano i capi in prima persona ad essere inseriti come adulti, come
cittadini nella gestione e nella partecipazione come adulto dietro l’attività della sua unità. Il capo
deve saper dividere la sua azione nel quartiere, talora come adulto (anche tramite la Comunità capi),
talaltra come educatore con la sua comunità di giovani, ricordando che la sua azione deve essere in
conseguenza dell’elaborazione del progetto della Comunità capi.
Agire nel quartiere significa anche stabilire contatti seri e validi con tutti gli organismi
(scuole, sindacati, comune, ecc.)ed i partiti. Con questi la collaborazione può risultare più difficile
sia perché ogni nostro contatto con organismi politici non sempre è visto in modo obiettivo e
sereno, sia perché la logica di partito molte volte non corrisponde alla logica di una attività di
quartiere, ed infine per gli eventuali pregiudizi dei partiti su tutto quello che non ha una precisa
identità partitica.
Comunque la nostra posizione viene indicata dal Patto Associativo: pluralismo, società a
misura di uomo, antifascismo, politica dei fatti devono caratterizzare la nostra azione. Sarà nostra
attenzione non identificarci o sostituirci ad un partito, ma sarà nostro dovere proporre la nostra
analisi e le nostre proposte a confronto con i partiti.
Eugenio Banzi, Scout Proposta Educativa, 1977, n.17, pp.31-33
Rapporto fra Comunità capi e ambiente
In analogia con quanto afferma G.M.Bertin (Educazione alla socialità, Roma, 1966), a
proposito del rapporto fra scuola e ambiente, anche nel rapporto fra scautismo e ambiente si
possono considerare tre differenti tipi di relazioni: distacco, subordinazione e analogia, ciascuna
delle quali potrebbe presentare aspetti negativi e positivi con le seguenti tesi giustificative:
- solo il distacco può permettere allo scautismo di compiere un’opera purificatrice rispetto
alla confusione e alla corruzione esistente nell’ambiente;
- lo scautismo che non è subordinato all’ambiente finisce per essere avulso alla vita stessa
rischiando di diventare formalista e retorico;
- può risolvere le difficoltà del distacco e quelle della subordinazione uno scautismo ce rifletta
nella propria struttura la più stretta analogia possibile con le strutture della vita ambientale.
Ogni Comunità capi deve riflettere su queste possibili relazioni stabilendo di volta in volta
il modo di agire in relazione ai fini che vuole perseguire.
Esiste comunque un rapporto che si viene ad instaurare fra scautismo ed ambiente che può
avere delle ripercussioni interne ed esterne: interne per quanto riguarda la possibilità che si presenta
allo scautismo di sfruttare elementi dell’ambiente in funzione dei propri fini educativi; esterne per
quanto riguarda la possibilità che lo scautismo ha di estendere la propria opera educativa al d fuori
dell’associazione per stimolare nell’ambiente i motivi della civiltà e del progresso.
Si tratta, come si può notare, di un rapporto dinamico che è contrassegnato da momenti di
aderenza che di alternano a momenti di reazione. Vale la pena riflettere su questi argomenti perché
molto spesso, nella multiforme realtà esistente all’interno della nostra associazione, troviamo, fra i
nostri capi, posizioni estremamente diverse che si possono sintetizzare nelle seguenti:
- arroccamento: vi sono capi che di fronte ai mali della società si sentono migliori degli altri e
cercano di difendere la propria posizione privilegiata, mantenendo le distanze;
- dimissioni: secondo questi non vi è più speranza di cambiamento e quindi non vale la pena
di combattere una battaglia persa in partenza;
- inginocchiarsi di fronte al nuovo: è la posizione di coloro che ritengono superfluo qualsiasi
riferimento al passato, alle tradizioni e prestano attenzione solamente alle “novità”.
Nelle nostre Comunità capi dovremmo riflettere e verificare di più qual è il nostro modo di
rapportarci con l’ambiente perché tale modo incide profondamente, all’interno, sul nostro essere
educatori e, all’esterno, sulla nostra testimonianza di vita.
Sul piano più propriamente educativo non dobbiamo dimenticare inoltre che l’ambiente per
lo scautismo è uno dei principali mezzi didattici. Quando si parla di ambiente si deve fare
riferimento ad una molteplicità di “unità di esperienze”; credo quindi che non si possa parlare solo
di ambiente naturale o di ambiente sociale, ma di una conoscenza, e di un’esperienza, globale del
reale, a fronte di una tendenza oggi così diffusa di alienante parcellizzazione.
L’ambiente, inteso quindi nella sua globalità, offre ai ragazzi la possibilità di prendere
contatto, di “incontrarsi” on diverse culture; stimola l’acquisizione sempre più puntuale di un
autentico spirito scientifico; provoca risposte e soluzioni favorendo l’adattamento e la
socializzazione.
Anche con particolare riferimento a Baden-Powell è proprio impostando un giusto rapporto
con l’ambiente che è possibile risolvere il problema di come conciliare l’educazione individuale con
quella sociale. Se non è possibile infatti sviluppare completamente l’individuo al di fuori di una
dimensione sociale e civica, non è neppure possibile formare un cittadino utile alla società senza
svilupparlo nel medesimo tempo come uomo, nel senso più alto e profondo del termine. Individuo e
società non sono in contrasto fra di loro ma devono essere considerati come due realtà
complementari.
Mi sembra, che da un lato sia necessario insistere sull’opportunità che lo scautismo sia
aperto alla cultura del nostro tempo, non quindi arroccato su posizioni di difesa, oppure
dimissionario o in posizione di subordinazione passiva di fronte al nuovo, sapendosi mettere in
gioco, cercando di comprendere e di interpretare gli avvenimenti, aperto al dialogo e alla
comprensione. Dall’altro occorre che, riaffermando uno degli aspetti qualificanti della propria
tradizione educativa, lo scautismo sia sempre attento a ritrovare il significato della centralità della
persona, senza con ciò voler privilegiare l’individuo seguendo una suggestione radicale
particolarmente di moda, figlia della filosofia del consumismo.
Vittorio Pranzini, Scout Proposta Educativa, 1982, n.26, p.43
La dimensione politica della Comunità capi
Il mio punto di partenza è costituito dal presupposto che la scelta di essere uomini e donne
di fede ha inevitabilmente una posizione dominante nella vita di una Comunità capi di capi
educatori credenti. In base a questo presupposto ritengo pertanto che non sia possibile, pur nel
rispetto della sostanziale diversità delle prospettive, delle dimensioni esistenziali e delle
collocazioni antropologiche, tenere in queste comunità del tutto separate, quasi fossero variabili fra
loro indipendenti, l’ispirazione religiosa e le scelte politiche.
Facendo riferimento ad una serie di situazioni concrete, con le quali la maggior parte dei
lettori è stata certamente confrontata, mi pare di poter pienamente confermare l’ormai non nuova
osservazione secondo la quale le scelte di fede disgiunte dall’impegno politico di farsi carico dei
problemi dell’uomo, denunciamo il rifiuto del Vangelo, come altrettanto mistificante va definito il
modo di essere di quella Comunità capi che, persa di vista l’essenza dell’uomo creatura di Dio,
esaurisca tutte le sue risorse di attività di esclusiva ispirazione sociale. Per procedere nella direzione
indicata, mi pare utile cercare di identificare, prescindendo dalle diverse militanze politiche dei
capi, alcuni punti fermi sui quali tutti (capi e Comunità capi) si riconoscano e concordino. Ho così
isolato quattro connotazioni politiche delle Comunità capi che dovrebbero essere di largo se non
totale consenso. Le espongo una dopo l’altra.
I quattro contrassegni politici delle Comunità capi
Il primo. La Comunità capi è una comunità di cambiamento. Lo spirito di questo
cambiamento è quello che in un precedente numero di R/S Servire ho definito “esplorazione del
possibile”. In una Comunità di capi credenti esso dovrebbe innanzitutto tradursi in una perenne
tensione di ricerca del Regno, secondo la logica delle parole di Luca: “Non temere piccolo gregge
poiché è piaciuto al Padre vostro di dare a voi il Regno: vendete quanto possedete e datelo in
elemosina. Fatevi delle borse che non si consumano, un tesoro inesauribile nel Cielo dove nessun
ladro si avvicina e non c’è tignola che roda perché dov’è il vostro tesoro là sarà pure il vostro
cuore” (Lc 12, 32-34). Che significato possono avere queste frasi del Vangelo per una Comunità di
capi credenti? Che bisogna essere disposti ad un impegno profondo e decisivo per realizzare una più
grande giustizia nel mondo.
Una Comunità capi che non faccia crescere al suo interno e non trasmetta alle unità del
gruppo questa volontà di costruire un mondo diverso e migliore, da ai suoi membri ed agli altri una
educazione sbagliata e priva di respiro universale. In altri termini lo sforzo al quale ognuno di noi
come persona e tutti insieme come comunità è chiamato è quello di aut educarsi e di educare a
sottrarsi alla dominante logica mercantile che tende ad assorbire ogni pensiero ed ogni attesa.
Per esprimere sinteticamente questo contrassegno politico delle Comunità capi si potrebbe
pensare che esse si riconoscono in un atteggiamento politico che antepone il progresso della
giustizia alla conservazione dei beni e delle strutture e questo con tanto maggiore vigore e
perseveranza in questo momento di simboli in franti, di smarrimento e di reflusso assai propizio per
le lusinghe di chi, in nome di un ambiguo realismo che privilegia le opulente vetrine sfavillanti di
luci alla continua conversione verso un più grande amore per gli altri, strumentalizza la stanchezza
dei giovani per consolidare i privilegi acquisiti.
Secondo contrassegno. Le Comunità capi fanno la scelta dei poveri. Questo secondo punto
è strettamente correlato con la prima opzione. È infatti solo la scelta dei poveri quella che rende
possibile il cambiamento. I protagonisti della logica e del sistema mercantile possono infatti
anch’essi aspirare al progresso sociale ed a nuove conquiste dell’uomo sulla natura ma per
realizzare il suo disegno il mondo del potere e della ricchezza ha bisogno di strutture stabili. Ai
poveri non va pertanto un’attenzione condiscendente o compassionevole bensì quella
considerazione che conviene a coloro che costituiscono la struttura portante del Regno che avanza
malgrado gli sforzi di quanti, pur proclamandone l’impaziente attesa, cercano con ogni mezzo di
tenerlo lontano.
Per un credente il vero e definitivo superamento della lotta di classe coincide con l’avvento
del Regno. È per questo che per una Comunità capi capace di fare in modo coerente, perdurante ed
a livello autenticamente profondo la scelta del povero, sarà più facile far confluire nell’unico grande
progetto politico dell’essere tutti gli interventi operativi ispirati alla “non violenza”, dall’
“educazione non emarginante” e dall’ “obiezione di coscienza”.
Terzo contrassegno. La Comunità capi crede nell’utopia. Se la Comunità capi è
un’autentica comunità di credenti, non dovrebbe essere capace di sottrarsi agli stimoli di chi “ha
fame e sete di giustizia”, come non dovrebbe stancarsi di interrogare se stessa sul sistema sociale, la
struttura politica e la concezione economica capaci di assicurare una più grande giustizia nel
mondo. Oggi queste strutture e questo sistema non esistono in nessun Paese come non sono mai
esistite nella storia dell’uomo. Forze avverse si sono sempre ed ovunque manifestate rendendo il
cammino dell’umanità verso questo traguardo particolarmente tormentato e difficile. Senza una
speranza utopica in una umanità migliore e, nel contempo, senza una precisa volontà di mescolarsi
con la storia accettandola anche nella sua deludente realtà, una comunità di credenti farà molta
fatica a diventare protagonista di giustizia, correndo, inoltre, il grande rischio di rimanere dal,la
parte di chi la giustizia la proclama ma non la pratica.
Nel contesto delle contraddizioni e delle tensioni che stiamo vivendo, dove c’+ sempre
meno spazio per gli specialisti dell’analisi, non dovrebbe esistere valida giustificazione per una
Comunità capi insensibile alla sua vocazione per un diretto, concreto impegno politico illuminato
dalla speranza in un sistema sociale più giusto, più umano, più liberante di quelli che oggi stanno
sotto i nostri occhi.
Quarto contrassegno. La Comunità capi è una comunità nella quale il “bene comune”
viene difeso pagando di persona..
Nello scenario sociopolitico nel quale si muove oggi il nostro Paese, occorre che ognuno
ritrovi il significato e l’impegno nei suoi rispettivi ruoli di studente, di operaio, di dipendente, di
professionista e di dirigente per dare, prima che sia troppo tardi ed essere anche senza garanzie di
ritorno sui suoi investimenti di energia e di intelligenza, al servizio del bene comune.
Un avvertimento che ritengo importante. Non si tratta di trasformare le Comunità capi in
“gruppi giovanili per la promozione dell’efficienza”, ma di non diventare insensibili al monito che
viene a tutti rivolto dalla democrazia, la quale, per poter sopravvivere, ha bisogno dell’efficacia
delle sue istituzioni e di un accettabile grado di integrazione operativa tra i suoi cittadini. Chi pensa
di risolvere la grande crisi del Paese affidando solo alle strutture i compiti che spettano agli uomini,
non ragiona in termini di democrazia e forse non crede in essa.
Liberazione-versus-ghettizzazione politica delle Comunità capi
Trasformando queste quattro scelte politiche di fondo in progetti operativi comunitari, una
Comunità capi diventa soggetto politico. Ciò non vuol dire assolutamente che essa si trasforma in
un luogo di militanza politica.
Se in altri termini per essere bene accetti in una Comunità capi occorre fare dichiarazione
di fede ideologica e se, dopo averla fatta, ci si accorge che si sta instaurando un processo di evidente
o nascosta emarginazione perché la personale scelta politica è diversa da quella dominante, allora
questa comunità tradisce il suo spirito ed il suo ruolo.
Quarto contrassegno
La Comunità capi, soggetto politico, sceglie le dimensioni del suo intervento avendo come
obiettivo privilegiato il territorio di una o più delle sue componenti: quartiere, circondario,
istituzioni civili, chiesa locale, ecc.
La scelta è intima parte del progetto che la Comunità capi ha assegnato a se stessa ed alle
unità del gruppo. Se la possibilità di tradurre in azioni concrete i valori che guidano le Comunità
capi ad essere per e con l’uomo presente nella sua storia, sono molteplici, il taglio del
coinvolgimento politico è univoco e costante: quello educativo.
È solo questo infatti ciò che ci consente di mettere in valore la nostra sensibilità, la nostra
competenza e, assieme, il “nostro specifico” che ci identifica e ci qualifica. È il nostro segno di
riconoscimento ed il nostro substrato comune che ci fa riconoscere.
È a questo momento che si perviene al più importante cambiamento di prospettiva nei
confronti dell’impegno politico dei capi e delle loro comunità. L’identificazione fra fare educazione
e fare politica, che riassumeva fino a poco tempo fa l’opzione sociale del capo, si arricchisce, nello
spirito dei quattro comuni contrassegni di cui sopra, con un impegno più grande a dare
testimonianza, attraverso l’azione educativa, della “sete e fame di giustizia!” delle Comunità capi.
L’educazione diventa cioè uno strumento anche politico per il miglioramento della
condizione umana laddove questa è più fortemente carente.
Vittorio Ghetti, R/S Servire, 1979, n.1, pp.42-46
Qualificare una presenza
Ma l’azione educativa può esaurire la presenza di una Comunità capi nel territorio?
Nell’intento di richiamare l’attenzione su questa dimensione dell’associazione, i due
interventi che seguono - Lele Rossi (1994) e Marco Pietripaoli (1994) propongono di andare oltre:
- dedicare tempo anche ad elaborare proposte per la Chiesa e per la società del nostro
territorio;
- allargare la Comunità capi a chi può aiutarla ad essere partecipe e propositiva anche
nell’ambiente esterno;
- collaborare o promuovere uno specifico impegno sociale nel territorio.
Grazia Bellini Palmerini (1994) reinterpreta invece il bisogno di ritrovare una dimensione
di presenza nel territorio richiamando la Comunità capi al dialogo e alla collaborazione con
l’ambiente stesso, partecipando alle istituzioni sociali ed ecclesiali ed esponendo pubblicamente il
proprio Progetto educativo.
Un’immodesta proposta
La Comunità capi è l’espressione più importante con cui gli adulti dell’Agesci si
propongono all’esterno. Qualcuno di noi, non proprio di primo pelo, ricorderà l’enfasi con cui,
specie in anni passati, si parlava di presenza nel territorio come di una delle priorità del nostro
essere associazione. Era una formula, forse un po’ complessa ed abusata, che però indicava
soprattutto il bisogno di radicare la presenza e l’azione educativa in un ampio spazio; uno spazio
maggiore rispetto a quello occupato dalla proposta rivolta ai ragazzi; era l’esigenza di tardurre il
nostro fare politica attraverso l’educazione, o meglio, partendo dall’educazione.
In tutto ciò la Comunità capi occupa un posto centrale: è il luogo in cui gli adulti vivono più
intensamente rispetto a tutti gli altri livelli associativi l’esperienza comunitaria; è la realtà più a
contatto con un territorio omogeneo; è, perciò, l’entità maggiormente in grado di essere presente
con proposte originali nell’ambiente esterno (nel territorio, appunto).
L’azione educativa, come pressoché ogni attività di volontariato, ha bisogno di un contesto
ambientale in grado di favorirla, o perlomeno di non ostacolarla. Come capi scout sappiamo bene
che il nostro compito è anche quello di aggiustare i cocci. Ma saremmo degli sciocchi, e forse
qualcosa di peggio, se non ci sforzassimo di impedire che quei cocci si formino. Detto fuori di
metafora: se ci accorgiamo che l’ambiente in cui i nostri ragazzi vivono produce in loro effetti
negativi, è certamente opportuno aiutarli a rimediare a quei guasti. Ma allo stesso tempo sarebbe
utile impedire che quegli effetti si producano. Provate, ad esempio, ad applicare questo discorso
all’uso della televisione, alla concezione della sessualità, alla gestione dei luoghi di divertimento dei
giovani, al concetto di libertà e così via, e poi traetene le conseguenze.
La Chiesa e la società dimostrano oggi, sempre di più, di aver bisogno di richiami ai valori e
di progetti per realizzarli. L’Agesci, soprattutto alla base - cioè nelle Comunità capi - ha e
comunque deve avere la competenza per farlo. I valori di lealtà, di responsabilità individuale,
l’attenzione intelligente all’ambiente, la capacità di vivere correttamente il senso di libertà e di
comunità, sono solo alcuni esempi che indicano un patrimonio che l’associazione sa tradurre in
modo attuale, e cioè vicino all’uomo di oggi, e che non può essere rinchiuso all’interno delle sedi
scout.
Per realizzare tutto ciò non è sufficiente l’impegno individuale, ma è necessaria un’azione
collettiva. Invece la Comunità capi può essere in grado di assumersi questo impegno e realizzarlo
con buone probabilità di riuscita. Occorre allora che la “terza dimensione” diventi un obiettivo reale
e sentito dalle Comunità capi, a cui sacrificare, se è il caso (in termini di tempo, non di qualità)
parte delle energie riversate sulle altre due dimensioni. Non sarebbe forse possibile che una riunione
ogni tre sia dedicata alle proposte che possiamo/dobbiamo fare alla Chiesa e alla società nel notro
territorio? Questo ci permetterebbe anche di “asciugare” il modo di lavorare sugli altri versanti,
rivolgendolo solo all’essenziale.
È però forse opportuno anche un ripensamento della struttura chiamata “Comunità capi”.
Credo che il momento di mettere in discussione uno dei nostri punti fermi (quasi una linea del
Piave) che oggi proclama: “in Comunità capi solo chi fa servizio con i ragazzi”. Penso invece che
sia utile –se non necessario – che in comunità ci anche chi la aiuta a essere partecipe e propositiva
anche in realtà esterne: chi le permette di essere là dove si individuano i bisogni della gente e si
cerca di trovare soluzioni complessive; là dove la Chiesa elabora progetti di impegno e proposta per
tutti; là dove si studiano linee culturali per far vivere meglio la gente. A me pare una prospettiva
non semplice, ma affascinante e necessaria.
Lele Rossi, Scout Proposta Educativa, 1994, n.19, pp.4-5
Più vicini alla gente
Dai molti interventi pubblicati recentemente su PE sull’argomento, ho avuto conferma che
dall’interno e dall’esterno dell’associazione giungono riflessioni e richiami sempre più frequenti
affinché la scelta politica del Patto Associativo non sia limitata a realizzare una generica
educazione, ma che si concretizzi in progetti ed iniziative che, nati a fine educativo, siano
pubblicamente a favore delle esigenze del territorio diventando così azione politica.
Tutto ciò mi sembra vitale per lo scautismo italiano che, a mio parere, necessita di essere
sempre più vicino alla gente.
Ogni Comunità capi (d’intesa con le unità del gruppo) potrebbe individuare un bisogno, una
mancanza, possibilmente nel proprio territorio) e, in collaborazione con altri gruppi, associazioni,
enti pubblici, volontari organizzi un impegno continuativo (impresa, servizio) garantendo o facendo
garantire un miglioramento della qualità della vita dei cittadini, tra cui anche i propri associati.
Realizzare ciò non è facile: sappiamo quanto siamo poco abituati a utilizzare la dimensione
politica del nostro fare educazione, a partecipare e a promuovere la partecipazione alle decisioni per
il bene comune, a collaborare con altre organizzazioni.
Lele Rossi, nel n.19 (pp.4-5) dice che, per poter rendere concreto e positivo il nostro
impegno verso il proprio territorio, è opportuno che nelle Comunità capi vi siano dei capi che come
proprio servizio aiutino le loro stesse comunità a realizzare progetti sociali. Questa modalità
organizzativa, che vedo già sperimentata in alcune Comunità capi, mi sembra molto interessante,a
due condizioni:
1. La progettazione, la realizzazione e la verifica del progetto sociale vanno compiute con i
ragazzi, rendendoli attori del cambiamento locale. L’impegno continuativo nell’impresa o nel
servizio deve essere subordinato (o meglio, coordinato) alle finalità del Progetto educativo della
Comunità capi: la gestione politica deve essere strettamente intrecciata con quella educativa.
2. L’intervento va preceduto e accompagnato da un serio lavoro formativo per i capi,
riguardo:
- ai temi scelti (ambiente, sanità, famiglia, servizi sociali, internazionale, pace,
economia, …);
- ai modi per gestirli educativamente, a partire dallo spirito del metodo scout per
trovare nuovi modi e strumenti e per riscoprirne di tradizionali;
- ai modi di co-gestirli con altre organizzazioni pubbliche e del privato sociale (come
gestire i rapporti politici e sociali di partnership-compartecipazione?)
Il ruolo di questo capo dovrebbe essere proprio quello di aiutare a tenere insieme la
dimensione politica con quella educativa e formativa. Darsi una risposta organizzativa può aiutare
molto le Comunità capi in cui c’è motivazione a questo impegno, ma anche una scarsa capacità
gestionale.
Marco Pietripaoli, Scout Proposta Educativa, 1994, n.32, pp.10-11
In piazza
Al centro del nostro pensiero stanno i ragazzi che ci sono affidati: a loro serve davvero che
la Comunità capi sia in rapporto con l’esterno? E con quale esterno? E perché? Non sarà una delle
solite idee di qualche cervellone Agesci, che poi toccherà a noi realizzare?
I ragazzi hanno bisogno di concretezza, di un luogo vero in cui l’ideale si incarni, in cui la
spinta a fare possa realizzarsi e allontani così il fantasma dell’impotenza. Hanno bisogno di buona
armonia fra genitori e capi, per non dover difendere gli uni dalle critiche degli altri. Hanno bisogno
di essere rinforzati dall’approvazione dei genitori e capi sulle tappe del cammino in cui si
impegnano, per essere sicuri che è un cammino importante, sul quale molti occhi li seguono e li
accompagnano. Hanno bisogno che la loro vita di parrocchiani non sia in alternativa alla loro vita di
scout, e di non dover scegliere fra la riunione ed il catechismo. Devono sapere che non
appartengono ad una conventicola chiusa con regole strane, ma ad una famiglia grande, che
abbraccia paesi e razze diverse intorno a ideali comuni.
Devono conoscere il mondo intorno e imparare a leggerne la complessità, per essere
protagonisti e non pedine. Hanno bisogno di vedere che la promessa del Salmo 90 “rafforza per noi
l’opera delle nostre mani…”, si realizza per tutti, se noi presteremo mani, piedi e cuore alla
Provvidenza.
Poiché sappiamo queste cose, come Comunità capi siamo chiamati a cercare un dialogo e
una comunicazione, a volte una collaborazione, con tutti gli ambiti di realtà che ci circondano.
Allora quando andremo alle riunioni del consiglio di quartiere, di cui magari facciamo parte in una
commissione, o al consiglio pastorale della nostra parrocchia, parteciperemo avendo ben presenti le
necessità dei nostri ragazzi, i nostri programmi, le nostre ricchezze e i nostri bisogni. Così non
correremo il rischio di dover progettare a tavolino ed inventare le occasioni in cui far sperimentare
ai ragazzi situazioni concrete, né di usare le necessità degli altri per le nostre necessità.
Così anche l’incontro con i genitori non si limiterà ad una comunicazione di date e
programmi (basterebbe una circolare), ma sarà un incontro vero e un confronto fra persone che
hanno strumenti diversi, ma finalità molto vicine.
Alcune Comunità capi presentano ogni anno il proprio Progetto educativo ai genitori, altri lo
presentano anche in parrocchia e nel quartiere. Qualche gruppo organizza dibattiti, anche pubblici,
su questioni contraddizioni educative. Qualcuno invita esperti, o partecipa ad iniziative simili
organizzate da altri; oppure presenta l’Associazione ai genitori nuovi. Qualche Comunità capi
prevede nel proprio Progetto educativo di collaborare con altri enti e associazioni sulla base di
progetti sul mondo o sulla città; qualche altra decide di garantire la propria presenza per più anni, ad
esempio, in un campo nomadi. O si mette a disposizione per emergenze e necessità contingenti.
Tutto ciò, e molto altro, certamente non per protagonismo, ma per stabilire rapporti veri e
non solo formali con la realtà. Perché, come capi, abbiamo un animo da giardinieri, e sappiamo che
i fiori più belli e forti non crescono sotto vetro con temperature controllate e noiosamente miti, ma
al sole, alla pioggia, al vento e con radici piantate saldamente nella terra.
Grazia Bellini Palmerini, Scout Proposta Educativa, 1994, n.30, p.14
Un leader? No, un Capo gruppo che anima
La funzione dell’animazione della Comunità capi tra i
compiti del Capo gruppo
Una comunità, se è tale, non ha bisogno di un dirigente, ma richiede qualcuno
che la animi, richiamandola e sostenendola nel suo sforzo di costruire legami e
impegni per la crescita di tutti
Scompare l’animatore, si esalta l’animazione
Una Comunità di adulti educatori scout ha bisogno di un leader? Nell’esperienza
dell’Agesci, dopo una prima fase in cui si identifica una figura autonoma di animatore della
Comunità capi, si enuclea invece una funzione di animazione attribuita al Capo gruppo.
Per animazione non si intende una sovraordinazione bensì un’azione di coordinamento, di
aiuto alla sintesi, di impulso e promozione delle attività (con particolare riguardo alla formazione
permanente), di cerniera con l’associazione e con l’esterno, che riposa sull’autorevolezza del
prescelto.
Nei documenti ufficiali che seguono si evidenzia come lo Statuto del 1979 avesse assegnato
al Capo gruppo l’animazione, unitamente al rapporto con altri gruppi e l’Associazione e alla
gestione organizzativa e amministrativa del gruppo (mentre i rapporti con gli ambienti esterni sono
responsabilità di tutta la Comunità capi).
Nello Statuto del 1988, modificato anche in seguito all’approvazione di una mozione sul
Capo gruppo e di numerose innovazioni nella Formazione Capi, si aggiunge tra le responsabilità
del Capo gruppo la cura dell’attuazione degli scopi della Comunità capi e dei rapporti esterni (nel
contempo si stabilisce che in tutti i testi associativi la locuzione “Animatore di Comunità capi”
venga sostituita con “Capo gruppo”).
Nello Statuto del 1990 si chiarisce che i rapporti con altri Gruppi e l’Associazione devono
avvenire in particolare nell’ambito della Zona, riportando la cura dei rapporti con ambienti esterni
alla responsabilità di tutta la Comunità capi.
Nel Consiglio Generale del 1991 si approva infine una mozione che riformula la figura del
Capo gruppo come sintesi/cerniera tra associazione, singolo Capo e territorio, operando nella
triplice veste di Capo, quadro e formatore. Il Capo gruppo ha, per la sua autorevolezza, la fiducia
della Comunità capi sulla base delle esperienze associative e della sua capacità di: animare adulti;
richiamare la Comunità capi alla fedeltà ai valori e alle scelte dell’Agesci; promuovere una lettura
efficace della realtà e dei suoi bisogni.
Marina De Checchi (2006) sottolinea la delicatezza del rapporto fra Comunità capi e Capo
gruppo, che non si nomina né si elegge, ma si “esprime”, richiedendosi al prescelto uno spessore
educativo, formativo e di governo estremamente rilevante (e quindi occorre un’idonea formazione
al ruolo).
Statuto Agesci 1979
Art. 13: gli adulti in servizio associativo presenti nel Gruppo formano la Comunità capi che
ha per scopo:
- l’approfondimento dei problemi educativi;
- la formazione permanente dei Capi in quanto educatori;
- l’analisi e l’inserimento nell’ambiente locale per adottare una conseguente linea
educativa;
- la cogestione del Progetto educativo, al fine di assicurare l’omogeneità e la continuità
nell’applicazione del metodo.
La Comunità capi, nelle forme che ritiene più opportune:
- esprime un Capo e/o una Capo gruppo;
- affida gli incarichi di Capo unità;
- propone alla competente Autorità Ecclesiastica la nomina dell’Assistente Ecclesiastico
di Gruppo e degli Assistenti Ecclesiastici di Unità;
- cura i rapporti con gli ambienti educativi nei quali vivono i ragazzi e le ragazze
(famiglia, scuola, parrocchia, ecc.). In particolare cura i rapporti con quanti (persone o
Enti) sono interessati alla presenza dell’Associazione nell’ambito della realtà locale.
Il Capo gruppo e/o la Capo gruppo e l’Assistente di Gruppo – avvalendosi dell’aiuto della
Comunità capi – curano in particolare:
- l’animazione della Comunità capi
- i rapporti con gli altri gruppi e con l’Associazione;
- la gestione organizzativa ed amministrativa del Gruppo.
Il Capo gruppo e/o la Capo gruppo ha la responsabilità e la rappresentanza legale del
Gruppo.
Statuto Agesci 1979, Fiordaliso, 1979, p.7
Mozione 5/1988 “Figura e posizione del Capo gruppo”
Il Consiglio generale 1988
a seguito della ridefinizione statutaria (art. 13), avvenuta in data odierna, del ruolo e delle
funzioni del Capo gruppo, comprendente tra l’altro la conferma dell’animazione della Comunità
capi e la scelta del Capo e della Capo gruppo tra i Capi brevettati;
attira l’attenzione sulla necessità di inserire, nella revisione dell’iter di Formazione Capi già
prevista per il Consiglio generale 1989, una modifica dell’art. 79 del Regolamento Formazione Capi
che potrebbe basarsi sui seguenti orientamenti:
i momenti di formazione per Capi Gruppo dovrebbero essere previsti sia a livello
nazionale che regionale;
essi non dovrebbero dare diritto alla nomina a Capo;
essi dovrebbero essere aperti ai soli Capi brevettati;
chiede che il Comitato centrale studi od affretti la pubblicazione di sussidi a stampa sul
servizio di Capo gruppo;
decide che, ovunque ricorre nei testi associativi, la locuzione Animatore di Comunità capi
venga sostituita con Capo gruppo.
Scout-Proposta Educativa, 1988, suppl. al n.19, p.20
Statuto Agesci 1988
Art. 13: gli adulti in servizio associativo presenti nel Gruppo formano la Comunità capi che
ha per scopo:
- l’approfondimento dei problemi educativi;
- la formazione permanente dei Capi in quanto educatori;
- l’analisi e l’inserimento nell’ambiente locale per adottare una conseguente linea
educativa;
- la cogestione del Progetto educativo, al fine di assicurare l’omogeneità e la continuità
nell’applicazione del metodo.
La Comunità capi, nelle forme che ritiene più opportune:
- esprime un Capo e/o una Capo gruppo;
- affida gli incarichi di servizio nelle Unità;
- propone alla competente Autorità Ecclesiastica la nomina dell’Assistente Ecclesiastico
di Gruppo e degli Assistenti Ecclesiastici di Unità;
- cura i rapporti con gli ambienti educativi nei quali vivono i ragazzi e le ragazze
(famiglia, scuola, parrocchia, ecc.).
Il Capo gruppo e la Capo gruppo – d’intesa con l’Assistente di Gruppo e avvalendosi
dell’aiuto della Comunità capi – curano in particolare:
- l’attuazione degli scopi e l’animazione della Comunità capi
- i rapporti con gli altri gruppi e con l’Associazione; in particolare nell’ambito della Zona;
-
i rapporti con associazioni, enti ed organismi civili ed ecclesiali presenti nel territorio in
cui agisce il Gruppo:
- la gestione organizzativa ed amministrativa del Gruppo.
Il Capo gruppo e la Capo gruppo hanno la rappresentanza legale del Gruppo.
Statuto Agesci 1979, Fiordaliso, 1988, p.5-6
Statuto Agesci 1990
Art. 15: gli adulti in servizio associativo presenti nel Gruppo formano la Comunità capi che
ha per scopo:
a) l’approfondimento dei problemi educativi;
b) la formazione permanente dei Capi in quanto educatori;
c) l’analisi e l’inserimento nell’ambiente locale per adottare una conseguente linea
educativa;
d) l’elaborazione e la gestione del Progetto educativo, al fine di assicurare l’omogeneità
e la continuità nell’applicazione del metodo.
La Comunità capi, nelle forme che ritiene più opportune:
a) esprime tra i Capi della Comunità capi, un Capo e/o una Capo gruppo (ambedue se si
tratta di un Gruppo misto);
b) affida gli incarichi di servizio nelle Unità;
c) propone alla competente Autorità Ecclesiastica la nomina dell’Assistente
Ecclesiastico di Gruppo e degli Assistenti Ecclesiastici di Unità;
d) cura i rapporti con gli ambienti educativi nei quali vivono i ragazzi e le ragazze
(famiglia, scuola, parrocchia, ecc.).
Il Capo gruppo e la Capo gruppo – d’intesa con l’Assistente di Gruppo e avvalendosi
dell’aiuto della Comunità capi – curano in particolare:
a) l’attuazione degli scopi e l’animazione della Comunità capi
b) i rapporti con gli altri gruppi e con l’Associazione; in particolare nell’ambito della
Zona;
c) i rapporti con associazioni, enti ed organismi civili ed ecclesiali presenti nel territorio
in cui agisce il Gruppo:
d) la gestione organizzativa ed amministrativa del Gruppo.
Il Capo gruppo e la Capo gruppo hanno la rappresentanza legale del Gruppo.
Statuto Agesci 1990, Fiordaliso, 1990, p.6
Mozione 21/1991 “Formazione capi - 5”
Il Consiglio generale 1991,
considerata la mozione del Consiglio generale 1989 sulla riformulazione della figura del
Capo gruppo;
delibera che la formazione dei Capi Gruppo non sia più compresa nell’iter di Formazione
capi;
approva nella nuova formulazione il documento “Ruolo e formazione dei Capi Gruppo”;
dà mandato al Comitato centrale di tradurre tale documento in una proposta organica di
formazione tenendo conto anche delle esperienze attualmente in corso e
lo impegna a presentare tale proposta al Consiglio generale 1993 unitamente alle opportune
proposte di modifica e di integrazione allo Statuto e al Regolamento.
Scout-Proposta Educativa, 1991, n.30, p.27
Allegato 6/1991 “Ruolo e formazione dei Capi Gruppo”
1.Premessa
La mozione del Consiglio generale 1989 chiedeva di “riformulare la figura del Capo
gruppo” partendo dalla centralità della Comunità capi e di integrare i momenti e i contenuti della
formazione dei Capi Gruppo nella “Formazione quadri e formatori”.
2. Lo scenario: un Capo gruppo per quale Comunità capi
Valutando l’evoluzione che la Comunità capi ha avuto dalla sua nascita ad oggi, emergono
alcuni aspetti che ci sembra definiscano e caratterizzino più di altri il ruolo della Comunità capi nel
contesto associativo attuale.
Essi sono:
l’aspetto educativo: è il luogo che ha per protagonisti i ragazzi (essi sono al centro
del pensare e dell’agire della Comunità capi);
l’aspetto formativo: la Comunità capi è una comunità educante (autoeducativa), ma
non di vita (cioè esclusiva, l’unica che il capo frequenti); fornisce stimoli ai singoli componenti per
la formulazione e verifica del “Progetto del Capo”;
l’aspetto comunitario: è un luogo di preghiera e di incontro con gli altri, dove gli
eventuali conflitti vengono gestiti positivamente attraverso il dialogo e la valorizzazione delle
diversità;
l’aspetto di gestione e corresponsabilità: in essa si elabora e si gestisce il Progetto
educativo di Gruppo; in essa vengano affidati gli incarichi di Capo gruppo e di Capo unità;
l’aspetto territoriale: è l’ambiente principale di collegamento con il territorio nelle
sue diverse articolazioni;
l’aspetto associativo: è la cellula vitale della struttura associativa e garantisce la sua
democraticità.
Le nostre Comunità capi hanno oggi consapevolezza che il loro intervento educativo si
svolge attraverso il “progetto” e che ciò vuol dire aver presente, da un lato:
Il progetto - La sua attuazione - La sua verifica
e dall’altro:
I limiti - Il tempo - Le risorse
3. Il ruolo del Capo gruppo
In questa situazione acquista sempre più importanza la figura Capo gruppo come
sintesi/cerniera tra associazione, singolo capo e territorio.
Per questo motivo il suo ruolo è insieme di capo, di quadro e di formatore.
Capo, per esperienza e formazione, in quanto vive in prima persona i valori della Legge
scout, ha fatto le scelte del Patto Associativo ed il suo operare è funzionale al bene dei ragazzi.
Quadro, in quanto facente parte della struttura funzionale e organizzativa che l’associazione
si è data per il suo funzionamento; in quanto garante sia all’interno che all’esterno delle scelte
contenute nel Progetto educativo di Gruppo.
Formatore, in quanto la Comunità capi è l’ambito principale di formazione capi; è là che
avviene il trapasso delle nozioni, lo stimolo e la verifica dell’iter.
4. Il profilo
Il Capo gruppo si configura quindi come colui che, all’interno della Comunità capi, è
riconosciuto autorevole perché ha saputo fare sintesi concrete tra la proposta educativa scout e la
sua vita e ha la fiducia dichiarata degli altri capi.
Caratteristiche di base del Capo gruppo sono:
una esperienza associativa acquisita di Capo unità;
la capacità di animare adulti;
la capacità di richiamare la Comunità capi ad essere fedele alle scelte espresse nel
Patto Associativo e nel Progetto educativo del Gruppo;
saper suscitare una lettura efficace della realtà e dei suoi bisogni.
5. La formazione del Capo gruppo
Proprio per l’originalità del suo ruolo il Capo gruppo deve aver completato l’iter. Necessita,
inoltre, di una formazione specifica che gli consenta di cogliere gli aspetti della vita associativa nel
suo insieme (trasversalità) e gli permetta di acquisire tutte le competenze e strumenti necessari per
svolgere il suo servizio in associazione.
Per questo al Capo gruppo si offrono occasioni ed eventi specifici di formazione che non
sono compresi nell’iter istituzionale:
occasioni di formazione nel ruolo attraverso una normale vita in Zona che implica
dialogo, confronto e verifica sul proprio ruolo e su quello della Comunità capi;
eventi di formazione al ruolo svolti prevalentemente a: livello regionale o
interregionale (su orientamento della Formazione capi Nazionale) che
- lo aiutino a rendersi veramente conto dei propri compiti istituzionali sia verso la Comunità
capi che verso gli altri ambiti associativi, verso la realtà civile ed ecclesiale del proprio
territorio;
- gli offrano conoscenze e competenze circa le modalità e le tematiche dell’animazione degli
adulti: non è sufficiente l’esperienza acquisita come Capo unità per lavorare con degli altri
capi.
Scout-Proposta Educativa, 1991, n.30, p.27
Quadri speciali: un occhio all’identità del capogruppo secondo lo Statuto
ed un altro alla realtà delle Comunità capi
Capogruppo è innanzitutto un capo. Non si eccepisce nulla su questo, ma se per curiosità
andassimo a leggere lo Statuto (lo so, è noioso, è verboso…) prosaicamente vedremo che lo status
di capo viene definito in base a quattro requisiti tra cui, il secondo, è l’aver compiuto l’iter
specifico.
A rigor di logica e di coerenza bisognerebbe pensare allora che chi non è in regola con l’iter
non dovrebbe svolgere questo servizio. Per esperienze diretta, se un qualsiasi quadro associativo
non avesse concluso l’iter di formazione, non sarebbe né eletto né nominato.
Come la mettiamo allora con il fatto che in associazione ci sono capigruppo che sono
sprovvisti di nomina a capo?
Il capogruppo è un quadro e come tutti i quadri non può rimanere a capo della struttura per
più di sei anni consecutivi.
Come la mettiamo con tutti quei capigruppo che ricoprono questo servizio da molti anni
senza che nessuno eccepisca alcunché? Accetteremmo un responsabile di Zona o una Capo Guida
per otto anni senza soluzione di continuità? Giammai. Lasceremmo scoperto quell’incarico piuttosto
che macchiarci di una decisione tanto antidemocratica!
Come viene individuato poi questo quadro? Lo Statuto conia un’espressione verbale mai
usata in nessun altro caso: il capogruppo non si nomina, non si elegge, ma la Comunità capi lo
“esprime”.
Che cosa significa? Nella lingua italiana, questo verbo ha attinenza all’area della
comunicazione, significa manifestare, portare all’esterno ciò che si prova, ma non dice nulla circa la
modalità della decisione. In effetti, come avviene questa “espressione”? Qualche Comunità capi lo
elegge a scrutinio segreto, qualcuna per acclamazione, qualche altra per sorteggio, qualche altra per
anzianità, altre per esperienza, altre, conferito l’incarico una volta … è per sempre, pressoché a vita.
Forse è il caso di pensare che questo capogruppo sia un “capo” e un “quadro” un po’
speciale?
Certamente sì. E tutti noi talvolta fingiamo di non vedere, perché se dovessimo applicare
correttamente lo Statuto ci troveremmo come Associazione in serie difficoltà.
Altro problema: quello della formazione. Il gruppo, primo livello associativo, primo
elemento della struttura associativa che dà giustificazione a tutti gli altri, è il nucleo fondamentale
della nostra associazione e tutti si preoccupano molto dell’inadeguatezza dei capigruppo che non
riescono ad essere all’altezza dei “nuovi oneri strategici ed operativi” perché con “competenze
spesso impari e inadeguate” (v. Atti Convegno zone, pag. 11. “Formazione dei Capigruppo”,
settembre 2005 – Bracciano).
L’associazione si aspetta da loro “uno spessore educativo, formativo, e di governo
estremamente delicato” (v. Atti, come sopra).
E’ interessante dare uno sguardo ai “nodi problematici” riportati negli Atti del Convegno (p.
18) per capire che lo stato delle cose è, come minimo, preoccupante.
Sembra di essere catapultati in quelle situazioni strampalate che la vita ogni tanto offre di
vivere: qualcuno si infortuna, è lì al suolo inerte e tanti intorno gridano, urlano, imprecano fanno
congetture sul suo stato di salute, ma ce ne fosse uno che prestasse realmente soccorso!
Il dubbio che assale sempre in questi casi è: ma sarà veramente così? (…)
Marina De Checchi, Scout-Proposta Educativa, 2006, n. 13, pp.14-16
Animare, che impegno!
Ma cosa vuol dire animare una Comunità di adulti educatori scout?
Occorrono doti di organizzazione e coordinamento, di "anticipazione dell’avvenire
possibile ", di promozione della creatività. Occorrono capacità di unire il gruppo, di interpretare i
suoi obiettivi e di favorire lo scambio di informazioni con l’esterno (Gualtiero Zanolini, 1978).
L’animatore è un Capo ed è un punto di riferimento e di confronto per tutta la Comunità; è
un Capo che sa cogliere le valenze educative dietro ad ogni attività, che cura la coerenza tra
progetto e continuità dell’azione della Comunità capi nella sua storia, nel metodo, nei Capi. E’
colui che tiene alta la tensione morale in Comunità (Vittorio Ghetti e Federica Frattini, 1982). E’
da rilevare che per questi autori, in quella fase della storia associativa, l’animatore non era
ritenuto un quadro, proprio per accentuare il fatto che egli è uno tra gli altri nella Comunità capi).
Negli altri interventi che seguono sono quindi enfatizzati altri aspetti della figura e delle
funzioni di animazione:
mediatore, che favorisce la crescita dei singoli Capi basandosi sulla propria maturità, su
un atteggiamento positivo e disponibile, sulla competenza, sulla vicinanza e rispetto verso tutti
(Tony Marra, 1986);
sollecitatore e coordinatore, in quanto esperto del metodo, rivelatore delle tensioni
personali (operando per " giocarle" in positivo), cerniera associativa (Michele Pandolfelli, 1987).
Dinamica di gruppo
L’animatore e il gruppo
L’animatore appare prima di tutto come un bisogno del gruppo sia si tratti di un gruppo
molto strutturato e fortemente organizzato, sia che si tratti di un gruppo spontaneo e debolmente
organizzato: l’animatore sorge sia per costituire il gruppo quando è in via di realizzarsi, sia per
confermarlo quando è già esistente. Organizza, coordina, aiuta il gruppo a trovare i mezzi per
raggiungere il suo scopo, gli permette di prendere coscienza della pluralità degli scopi e dei conflitti
possibili fra questi.
È la coscienza organizzatrice del gruppo che ha bisogno di lui come di un polo di crescita e
di supporto per vivere l’esperienza dei propri progetti, dei propri problemi. Così l’animatore assume
varie funzioni nel gruppo ed in particolare quelle che lo definiscono: l’animatore aiuta ad inventare
le soluzioni che soddisfano in modo adeguato i bisogni del gruppo. Crea, sempre con gli altri.
Ascolta, prima con tutto con umiltà gli altri e i loro bisogni e li aiuta affinché trovino essi stessi le
soluzioni. Così egli è al centro del conflitto e delle aspirazioni. Per questo motivo egli è, allo stesso
tempo, prezioso e contestabile perché se vede chiaro, e deve veder chiaro per continuare ad
animare, non è detto che il suo modo di vedere sia sempre giusto.
La sua visione non è soltanto una percezione, cioè una interpretazione, è anche
un’anticipazione.
L’animatore è così oggi un uomo nuovo poiché la previsione è un atteggiamento nuovo del
nostro tempo; esso richiede una informazione molteplice ed una capacità contraddittoria di
adattarsi, di contestare, di far prendere coscienza agli altri di questa necessità attitudine
contraddittoria della nostra società. Gli altri sono i membri di un gruppo e sono gli altri gruppi.
L’invenzione dell’avvenire non è un atto isolato, ma collettivamente determinato e scelto. Nel
proprio gruppo l’animatore rappresenta l’avvenire del gruppo o piuttosto gli avveniri possibili; la
scelta appartiene al gruppo ed è la condizione della sua animazione. (…)
L’innovazione che promuove nel gruppo è innovazione per tutti. L’informazione che
promuove nel gruppo è una informazione per tutti. L’informazione che riceve da alti gruppi e da
altri animatori è una informazione per tutti.
La sintesi si realizza alla base, cioè nell’ambiente e nei gruppi di base.
Parlare di animatore, di animazione, è usare un linguaggio moderno; sono, infatti, queste
parole che esprimono una realtà nuova della società di oggi. Perché nuova? Perché l’animatore vive
nel gruppo e per il gruppo e rappresenta, quindi, da un lato il superamento dell’individualismo che
ha caratterizzato la nostra educazione (o almeno quella di molti di noi) e, dall’altro, la vittoria sul
timore inconscio che ciascuno di noi ha, di perdere la propria autorità nel momento stesso in cui
chiede un contributo agli altri.
Tutta la nostra educazione, infatti, ci ha orientati alla competitività. Nell’infanzia, i voti a
scuola; da giovani, i concorsi; poi la lotta per affermarsi professionalmente; ci hanno abituati a
lavorare individualmente ed anzi a lottare contro gli altri per prevalere. Meno conosciuti sono gli
altri, meno informazioni hanno, minori saranno le probabilità che avranno di scavalcarci.
L’animatore invece, non lavora contro gli altri, ma con gli altri, per gli altri.
Egli, innanzi tutto, considera il lavoro di gruppo un’occasione per rispondere ai bisogni
fondamentali dei membri del gruppo: manifestare liberamente le proprie opinioni e tenere conto di
quelle degli altri, partecipare, lavorare insieme e sentirsi membri attivi di una equipe, esprimere la
propria intelligenza per raggiungere degli obiettivi, sentirsi rispettati dagli altri e, quindi, rispettare
se stessi.
L’animatore, inoltre, è l’interprete delle aspirazioni e degli obiettivi del gruppo ed anzi si
adopera affinché gli obiettivi di fondo – per il cui raggiungimento il gruppo si è formato – vengano
scoperti ed esattamente percepiti dai membri del gruppo.
Nel contempo, l’animatore è il tramite tra il gruppo e la società in cui il gruppo opera;
tramite sia del gruppo verso la società, sia di questa verso il gruppo.
L’informazione che egli riceve dalla società, dagli altri gruppi, dagli latri animatori è una
informazione per tutto il gruppo e viceversa.
Per la posizione focale che occupa, l’animatore prima degli altri è in grado di conoscere e,
quindi, di intravedere ed anticipare varie scelte e soluzioni che potranno influire e determinare il
futuro del gruppo; ma la scelta definitiva spetta al gruppo e solo se ciò avviene il gruppo potrà dirsi
animato.
Ecco, dunque, una caratteristica saliente del nostro gruppo, in prospettiva, della società cui
aspiriamo: l’invenzione dell’avvenire non più come atto isolato, ma come atto collettivamente
voluto e determinato.
È assodato che una delle cause di insoddisfazione dei membri del gruppo - tale da portare
alla disgregazione del gruppo stesso – è la mancanza di conclusioni pratiche o di realizzazioni
concrete: per tal motivo, nell’animatore si sviluppa la costante preoccupazione dell’efficacia.
Egli, come abbiamo detto, è il mediatore dei bisogni dei singoli e l’appagatore di tali
bisogni; l’interprete degli obiettivi del gruppo e il tramite tra il gruppo e la società; l’anticipatore del
futuro che il gruppo si sceglierà: per essere tutto questo, deve essere un uomo di azione.
Perché l’azione non diventi imposizione, è necessario che essa si traduca in un determinato
modo di operare, scaturente da alcune qualità che l’animatore deve possedere: egli cioè deve
percepire, armonizzare e spingere gli altri ad agire.
Gualtiero Zanolini, Fondo Zanolini, Convegno della Zona Roma Salario, 1978
La Comunità capi e il suo animatore
L’animatore di Comunità capi come capo di adulti, le cui qualità e competenza assicurano
l’impegno di tutti i capi per una continuità educativa nel Gruppo.
La Comunità capi è esposta ad alcuni rischi, tutti conseguenti al fatto che la Comunità capi
è una comunità e quindi soggetta, accanto a fattori di arricchimento e di crescita esistenti nel fatto
stesso di essere insieme, ai pericoli di mimetizzazione, alla tentazione di sfuggire e di nascondersi
ed alla tendenza e non attribuirsi specifiche responsabilità.
Se questi rischi devono essere ben presenti ad ogni membro della Comunità capi, chi più di
ogni altro è chiamato a prevenirli, a farne prendere coscienza alla comunità ed a combatterli, è
l’animatore della Comunità capi.
Per rimanere nell’ottica dei rischi una prima fondamentale qualità dell’animatore è quella
di essere un capo nel senso più pieno della parola. Un capo e non un quadro associativo, in quanto a
diretto contatto con giovani adulti da educare, in quanto responsabile della crescita di singole
persone, in quanto direttamente coinvolto come punto di riferimento e di confronto.
Nel dire che l’animatore di Comunità capi è un capo, una precisazione si impone, e cioè
che l’animatore di Comunità capi è un capo di adulti.
Quando si ritiene assai auspicabile – laddove le dimensioni della Comunità capi lo
giustificano – non abbia ruolo di capo in unità del Gruppo, ma faccia, per così dire, a pieno tempo
l’animatore, questo esprime la necessità che l’animatore, come peraltro ogni altro Capo, abbia le
competenze e lo stile tipici del suo ruolo di formatore di adulti.
L’animatore di Comunità capi, l’abbiamo accennato, è un punto di riferimento e di
confronto all’interno della Comunità. E’ verosimile che i suoi giudizi, le sue valutazioni di fatti, di
situazioni e di persone abbiano un peso ed una risonanza nella Comunità (sarebbe molto
preoccupante il contrario).
Per essere coerente colla sua funzione educativa, l’animatore deve saper cogliere, nel suo
ruolo di interprete della realtà, le valenze educative che esistono dietro e all’interno di ogni evento
umano. (…)
Deve essere continua preoccupazione dell’animatore di Comunità capi che quanto si
manifesta e si sviluppa sul piano educativo e progettuale in seno alla Comunità si irradi e venga
puntualmente ripreso nelle unità del Gruppo e questo senza interferire nella gestione delle unità, ma
per dare a tutto il processo educativo del Gruppo una base ispiratrice comune. Non tocca
all’animatore chiedere ai Capi di rendere conto delle loro modalità di gestione delle unità, è invece
specifica responsabilità dell’animatore assicurarsi del continuo, costante impegno del Capo che si
basa la continuità educativa del Gruppo, la quale si compone di tre elementi:
Continuità storica. ciò significa tener conto delle origini, delle vicende, degli
uomini e delle donne che ci hanno preceduto per ancorare la vita del Gruppo a
un passato che diventa promessa di avvenire.
-
Continuità del metodo: siamo tutti convinti che sia questo uno dei ruoli
fondamentali della Comunità capi e quindi del suo animatore. Contrapposto
all’esasperato franchismo che può rendere assai difficoltoso lo stesso dialogo tra
Capi, lo spirito della Comunità capi tende invece ad una visione unitaria di tutto
l’arco di età sul quale si avvera la formazione scout, sottolineando più gli
strumenti educativi che uniscono i capi che quelli che li separano a seconda
delle Branche. Continuità del metodo vuol dire saper vedere, oltre agli obiettivi
intermedi, gli obiettivi educativi comuni dello Scautismo.
Infine continuità dei Capi: ciò significa riuscire tutti insieme a rispettare i valori
essenziali del Progetto educativo, evitando dannosi salti di aree di interesse
prioritario che sottraggono inevitabilmente forza ed impatto alla proposta
educativa.
Il clima della Comunità capi è un clima di tensione morale. Di questa tensione di tutti i
membri della Comunità capi l’anima è, per definizione, l’animatore che, lungi dall’essere un
giudice o un censore, si preoccupa molto di più che i Capi facciano delle scelte di crescita e molto
meno di quale natura siano queste scelte. Da qui la discorso della responsabilità personale il passo è
breve. La Comunità capi non può essere né un gruppo spontaneo né un’alternativa alla discoteca: è
un luogo che ha una ragione di esistere finché quanti la frequentano si interpellano sul loro compito
di credenti e di uomini che hanno fatto la scelta di servire. In altre parole di uomini che si sentono
responsabili delle scelte fatte e della loro realizzazione.
Vittorio Ghetti e Federica Frattini, R/S Servire, 1982, n.5, pp.39-40
Non è un arbitro di pugilato
Il clima della Comunità capi non deve essere mai privo di cambiamenti: né consolidato in
una asettica pace duratura né tanto meno deve essere un perenne combattimento di idee e persone.
E’invece, un continuo susseguirsi di dinamiche al suo interno, con la compresenza di delicati
equilibri e radicate amicizie tra i suoi componenti.
Nel primo caso la Comunità diverrebbe a lungo tempo un ambiente statico e raffermo,
dove le idee nuove non troverebbero nemmeno la spazio per il confronto costruttivo ed il pensiero
(e comportamento) dei Capi verrebbe ad essere massificato per la pace ed il bene comune o per la
paura di rinunciare a parte delle proprie convinzioni. Si verificherebbe un fuggi-fuggi conscio ed
inconscio al fine di allontanare ogni possibile occasione in cui ci si potrebbe (ri)scoprire con i punti
di riferimento essenziali non sempre comuni. Dominerebbe l’inerzia.
Nella seconda situazione, invece, prevale lo stile ed il ritmo del cammino. Le difficoltà
incontro alle quali la Comunità si dirige divengono ogni giorno più aspre, difficili ed imprevedibili,
ma danno sale alla vita, sapore al nostro essere scout, convinzione al nostro Servizio.
Ben vengano, quindi, i delicati equilibri se alla base di essi permangono la stima e la
serietà della nostra azione educativa.
Altrettanto benvenute saranno le radicate amicizie se non condizioneranno il dono di noi
stessi al Servizio scelto con la Partenza.
E’ su questa sensibile compresenza che l’Animatore di Comunità capi è chiamato al suo
vasto gioco di mediatore ed animatore.
Col suo servizio, l’Animatore si trova in una posizione centrale al suo interno della
Comunità capi e sarà suo compito favorire il libero sviluppo e la libera acquisizione di contenuti da
parte di ogni singolo Capo e della Comunità globalmente intesa. (…)
Per essere protagonista di tutto questo, all’Animatore potranno bastare le proprie doti
innate, ma dovrà chiamare in campo il risultato del suo cammino formativo e la sua autoeducazione
sempre in corso.
I tratti essenziali di un buon Animatore dovranno essere rappresentati da:
- una personalità matura, consapevole, cioè, delle proprie possibilità culturali e dei suoi
sentimenti, delle sue capacità e dei suo limiti, al fine di possedere un comportamento autentico nei
rapporti con gli altri.
- Una considerazione ed un atteggiamento positivo nei confronti degli altri membri della
Comunità.
- La disponibilità a non risolvere da solo, o con l’aiuto secondario degli altri, i problemi
che sorgono nella Comunità.
- La competenza, accompagnata da una giusta e sana dose di sicurezza
- La capacità di esprimere affetto e rispetto nei confronti di tutti i membri del Gruppo.
Un Animatore insomma, che non potrà essere l’arbitro di un lungo incontro di pugilato
oppure la figura stanca ed inutile di un patetico scautismo di secondo ordine, ma colui che sa
cogliere ed interpretare le gioie e le amarezze di chi vuol saper servire con l’aiuto della Comunità.
Tony Marra, Scout-Proposta Educativa, 1986, n. 30, p.58
Un povero Cristo: un identikit dell’Animatore di Comunità capi e delle
sue “croci”
Chi è l’animatore di Co.Ca?
E’ un povero Cristo?
Spesso lo diventa, quando porta su di sé la fatica di condurre una riunione di Comunità
capi, magari dopo le riunioni di unità, quando gli “adulti” del gruppo si comportano peggio dei
Lupetti e delle Coccinelle. O quando cerca di ritrovare un filo continuità nell’attività delle Unità,
che sembrano andare ognuna per conto suo.
E’ certo un ruolo ed un servizio importante, ma forse ancora troppo sottovalutato in
Agesci. Non è da affidare a Capi di primo pelo, ma forse non deve neanche spettare di diritto (come
pure accade) ai vecchi Capi storici ormai prossimi alla pensione.
Proviamo allora a fare un identikit di questo “povero Cristo”:
è un Capo che ha una certa esperienza di servizio, possibilmente maturata in
Branche diverse, che ha ancora spirito e voglia di fare ed ha acquisito un senso
di appartenenza associativa (lavora, anche con la critica, per costruire l’Agesci
di domani);
ha doti di sintesi, capacità organizzativa, intuito delle persone, capacità di saper
usare, quando servono, la diplomazia e la franchezza; sa trovare i modi giusti di
trattare con altri adulti al di fuori della Comunità capi (genitori, parroco ecc.)
non è un accentratore ma sa invece organizzare il lavoro richiamando tutti alla
responsabilità comune di gestire insieme la Comunità capi.
E le sue “croci” quasi quotidiane?
Potremmo raggrupparle in quattro filoni:
l’Animatore come sollecitatore e coordinatore. non è quello che decide il
programma della Comunità capi: piuttosto è uno che cerca di “pensare prima”,
venendo alle riunioni dopo aver sondato umori e suggerimenti e portando quindi
proposte concrete, che facilitano la discussione e le decisioni. Cerca altresì di
fare in modo che su ogni questione si decida con chiarezza, con l’indicazione di
obiettivi, scadenze, incarichi; sarà lui quindi che ricorderà a tutti quello che è
stato deciso e gli incarichi di ciascuno;
l’Animatore come esperto del metodo per condurre un gruppo di adulti. E’ uno
che studia un po’ di dinamica di gruppo e modi di lavoro tali da stimolare la
partecipazione attiva di tutti, aiutare a far venire meglio a galla i problemi e
quindi ad assumere decisioni più consapevolmente (importanti sono ad esempio
le modalità d’impostazione e verifica del Progetto educativo);
-
-
l’Animatore come rivelatore delle tensioni personali. Dal suo intuito e dai suoi
rapporti con i Capi cerca di cogliere quelle tensioni nelle e tra le persone che
possono risultare negative innanzitutto per la loro crescita e quindi per l’azione
educativa del gruppo. Si sforza quindi di trovare le occasioni per farle emergere
ed affrontarle (tutti insieme? con attività di Comunità capi o con altri impegni
personali?) perché possano giocare come fattore di crescita per la persona
interessata e per gli altri, quindi migliorare la qualità del servizio con i ragazzi
(questa funzione può risultare delicata soprattutto in occasione dalla formazione
delle staff);
l’Animatore come cerniera. Cura l’informazione sugli avvenimenti associativi,
sugli eventi di vita ecclesiale e del quartiere, quindi stimola e organizza la
partecipazione dei membri della Comunità capi (pertanto coordina più in
generale il ruolo associativo, ecclesiale e sociale delle Comunità capi; facendo
anche un po’ di “pubbliche relazioni” a livello di Gruppo). (…)
Michele Pandolfelli, Scout-Proposta Educativa, 1987, n. 6, p.22
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Comunità Capi volume 2 - Centro Documentazione