Mario Domenichelli [versione del testo con evidenziazione dei punti salienti]
Il polemos sul canone letterario europeo all’inizio del terzo millennio. Colonizzazioni,
decolonizzazioni, postcolonizzazioni, migrazioni, ibridazioni culturali.
Il capitolo nono di The Age of Extremes di Eric Hobsbawm, l’ultimo volume della sua
monumentale storia globale, porta un titolo, Cultural Revolution, di estremo interesse a proposito
del dibattito sul canone, strettamente connesso, o coincidente, con quei fenomeni che sono stati
chiamati «culture wars» (H. L. Gates, 1992). Il capitolo è introdotto da due epigrafi, la prima tratta
da una recensione di Paul Barman – pubblicata su «Village Voice» - a un film di Pedro Almodovar
(La ley del deseo, 1987) ed è così concepita: «Nel film, Carmen Maura ha il ruolo di un uomo che ,
attraverso un’operazione chirurgica, cambia sesso ma che, a causa di un infelice storia d’amore con
suo padre, non vuole più avere a che fare con gli uomini e inizia dunque una relazione lesbica (si
suppone) con una donna, il cui ruolo è affidato a un celebre travestito madrileno». La seconda
epigrafe è tratta da Pierre Bourdieu e vi si dice di come «le dimostrazioni di gruppo di maggiore
successo non sono necessariamente quelle che mobilitano un maggior numero di soggetti, ma quelle
che attraggano l’interesse dei giornalisti. Con poca esagerazione si potrebbe dire che cinquanta
dimostranti intelligenti che riescono a organizzare un evento di successo e cinque minuti in
televisione, avranno altrettanto effetto politico quanto mezzo milioni di dimostranti». Le due
epigrafi dispiegano chiaramente il punto di vista di Hobsbawm: da una parte l’attenzione alla
sessualità, alla questioni di gender, all’amore, alle relazioni famigliari, a nuove tipologie di
famiglia, spesso allargate, e, dall’altra, l’importanza dei mass media nella creazione, mediazione
della cultura di riferimento, anche in chiave di globalizzazione. Un altro aspetto della rivoluzione
culturale dell’ultimo Novecento è ovviamente la formazione di comunità multietniche e dunque
multiculturali attraverso le migrazioni che portano pezzi di mondo altro dentro al mondo
occidentale, a volte come effetto di ritorno della lunga fase di colonizzazione iniziata nel
Cinquecento, altre volte semplicemente come risposta all’invasione culturale dell’Occidente in altre
parti del mondo; negli Stati Uniti, ovviamente, la cultura afro-americana, è fin dall’origine un tratto
nazionale e identitario, attraverso la tratta e l’impiego degli schiavi nelle piantagioni del meridione
a partire dal secolo XVII.
Le considerazioni che precedono costituiscono una premessa necessaria per capire quale sia
il territorio nel quale ci si avventura quando si affronta il lungo dibattito sul canone letterario
particolarmente acceso tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta a partire dagli Stati Uniti con la messa
in questione del modello di integrazione definito melting pot, e più in generale dalle aree anglofone
nel periodo postcoloniale e che, tuttavia, ha poi toccato in diversi modi anche la cultura europea,
tedesca, italiana, francese, spagnola, o di lingua e tradizione europea, le aree francofone e quelle
iberofone. Non può sfuggire, guardando indietro dalla prima decade del terzo millennio, la
coincidenza temporale tra quella che è stata definita la mood postmoderna (Ceserani, 1997;
Hutcheon,, 1989) e il dibattito in questione. Per iniziare a parlarne e giungere anche a una
definizione del canone, della sua funzione e del suo funzionamento, si deve considerare che uno dei
tratti più caratteristici del postmoderno è la forte componente scettica. Ancora Hobsbawm scrive
(1994, 516) che tutte le versioni di postmodernismo trovano il tratto comune in un quintessenziale
scetticismo a proposito dell’esistenza di una realtà oggettiva, o comunque di una definizione
sicura e concorde della stessa. In realtà non tanto è in discussione la realtà oggettiva di per sé, ma
il fatto che ogni rappresentazione di essa è soggettiva, e che la realtà stessa nel modo in cui è
percepita è comunque rappresentazione. Una delle conseguenze più rilevanti di questo tipo di
approccio è ciò che Gianni Vattimo (1985) ha chiamato «posthistoria», caratterizzata da quella che
Lyotard (1979, 1986) definisce la crisi delle grandi narrazioni, dei grand récits, o che più tardi il
neostoricismo americano chiama master fictions. La storia stessa è una narrazione che può essere
analizzata con gli strumenti della retorica e della critica letteraria (Hayden White, 1973,
1978,1987); la storia stessa, qualunque storia, non può che articolare nelle sue figure, nei suoi
personaggi, nelle vicende una filosofia della storia e dunque una teleologia. Per Lyotard, come si
diceva, la storia è, o è stata, la narrazione in molteplici versioni di un mito di emancipazione e
progresso, o di fuga dallo stato di necessità, verso una qualche salvezza, o verso la libertà. La storia
della letteratura, come di tutte le altre arti, come la storia delle idee non è qualcosa di diverso,
di staccato dalla storia tout court, è parte della storia stessa e obbedisce allo stesso statuto, essa
si scrive verso se stessa, sicché nel suo incipit, teleologicamente deve essere già contenuto
l’explicit. La storia effettuale, die wirkliche Geschichte, per usare l’espressione di Nietzsche in
Aurora, secondo Lyotard si è incaricata di dimostrare l’illusorietà del mito di emancipazione, e tutta
la storia di conseguenza, in quanto strutturata come grande narrazione, è essa stessa illusoria. In
realtà, bisogna dire, non è che, così, il mito dell’emancipazione, il sogno della libertà, sia finito,
anzi, si è venuto frammentando e dunque moltiplicando: l’avvento dello spirito, o la fine della storia
con la fine della lotta di classe, hanno ceduto il passo a rivendicazioni, agoni, più locali, localizzati,
particolareggiati, se non settoriali, che riguardano gender, gruppi minoritari ed etnia nelle società
sempre più spesso conflittualmente multiculturali dell’Occidente. Un secondo principio importante
è che la storia ufficiale, di cui la storia delle idee e della cultura è, quasi inevitabilmente, una
strategia discorsiva di dominio o di critica allo stesso, adesione a un discorso egemone, o volontà di
imposizione di un altro discorso egemone, di un cultura egemone, o di rovesciamento di rapporti tra
cultura egemone e culture subalterne, da cui scaturisce la scrittura stessa della storia come
strumento di dominio sul tempo (passato e dunque presente e pertanto anche futuro) sulle umane
vicende, sulla memoria che ne viene registrata e conservata. Si tratta di una prospettiva
gramsciana, mediata attraverso Raymond Williams (1979), ed Edward Said (1978, 1993). Il
controllo della storia, secondo questa prospettiva, attraverso il dominio sulle rappresentazioni
e dunque sulla memoria culturale è uno dei più importanti, se non il più importante
strumento di formazione del consenso attorno al o ai poteri costituiti nel presente; il dominio
sulle rappresentazioni, attraverso i mass media, è ciò che dà forma istantanea alla percezione del
mondo in cui viviamo. In questa chiave i confini tra letteratura come campo specifico del letterario,
e storia, o filosofia, o antropologia, o persino le scienze così dette esatte, sono estremamente labili;
dopo una cinquantina d’anni non c’è forse trattato di storia che non divenga letteratura. Ciò che è
chiaro in questa prospettiva è che la letteratura partecipa in modo primario alla costruzione
dell’apparato culturale egemonico e dunque alla creazione di consenso. La letteratura ne è anzi
stata lo strumento privilegiato fino all’avvento di altri mezzi di comunicazione di massa, come
radio, cinema, televisione e oggi il web infinitamente interconnesso come segno virtuale della
globalizzazione stessa. Così la letteratura ha avuto funzione fondamentale per esempio nella
costruzione delle identità nazionali, delle identità di casta, di gruppo, e il canone – dato che
ogni storia letteraria non può che strutturare un canone – è di fatto, se non la totalità
dell’immaginario, o della memoria culturale di una collettività, ciò che ne definisce i tratti
salienti e modellizzanti, indicando in altri termini la forma stessa della vita per come essa
viene ideologicamente ed epocalmente percepita. Bourdieu (1993, 42) parla di un «monopolio
della legittimità letteraria, cioè tra le altre cose, il monopolio del potere di dire con autorità chi
può definirsi scrittore, o per metterla in altro modo, il monopolio del potere di consacrare
produttori o prodotti (trattiamo di un mondo di credenze in cui lo scrittore consacrato è colui che
ha il potere di consacrare e ottenere consenso quando egli stesso consacri un autore, un’opera,
attraverso una prefazione, una recensione, un premio)».
Canone viene dal greco kanon che indica una canna, e con essa l’unità di misura, il metro di
giudizio. Così il kanon nel periodo alessandrino definisce la lista degli autori canonici, dei
modelli di riferimento. Il termine definisce poi anche il canone biblico, e cioè quei libri della
Bibbia e dei Vangeli che costituiscono Antico e Nuovo Testamento come libro sacro e dunque
logos, parola di Dio (con l’espunzione, per esempio dei Vangeli per l’appunto non canonizzati). Nel
canone letterario, dunque, stanno i valori identitari che danno forma alla comunità, e a ogni
soggetto che ne fa parte. Non solo quelli estetici, ma anche quelli etici, l’ideale dover essere, e
spesso il tragitto di formazione che definisce i tratti dell’appartenenza alla comunità, il senso stesso
dell’appartenenza che è anche il segno primo dell’identità, l’ethos così come l’ethnos. Il canone
ovviamente fornisce oltre che modelli di rappresentazione della realtà esterna, anche modelli di
discorso interiore, come si parla con sé, si conversa con sé, come si rappresentino memoria,
emozioni, affetti, e fluire del pensiero. Così in genere il canone definisce nel suo complesso,
attraverso la mimesi, i diversi modi di rappresentazione, le poetiche collettive epocali
dell’esistenza, l’estetica, l’etica, l’assiologia, ciò che è desiderabile ed elegante, ciò che non lo è,
ciò che è politicamente corretto, ciò che invece non lo è. Il canone, infine, è l’elenco di quegli
autori, quelle opere, i classici, che vengono considerati i modelli estetici di una determinata
tradizione, e con i quali ogni nuovo autore colloquia, che imita, con cui si misura.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso e poi con sempre più forza negli anni centrali
del postmoderno, Ottanta e Novanta, tutto ciò, nello scetticismo che caratterizza la mood
postmoderna è stato negato, messo in dubbio, decostruito, destrutturato sotto la pressione di
nuove istanze, rivendicative di voci ammutolite e obliate, poiché il canone in qualche modo si
edifica come una serie di monumenti sopra una molteplicità di voci e scritture soppresse
(Thompson,1963; Greenblatt e Gallagher, 2000). Le voci delle donne, nell’idea femminista, le voci
omosessuali, lesbiche, quelle che testimoniano di un altro desiderio, di un altro voler-dover essere,
di una diversa estetica o poetica dell’esistere, di un disagio e di un senso di alterità, definendo
dunque la necessità di negoziare nuovo consenso attorno a queste istanze, così come attorno a
quelle portate dalle voci dei migranti, o dalle voci heifened nelle cultura in lingua inglese, italoamericano, cino-.americano, ispano-americano, chicano, ma anche le voci pakistane, indiane,
indiano occidentali, native americans, nella lunga e certo non esaurita epoca postcoloniale, se non,
a seconda dei punti di vista e delle situazioni, neocoloniale.
Si può dunque parlare di un canone letterario europeo? Questa domanda ne porta di
conseguenza un’altra: c’è un ‘identità comune europea? C’è dunque un’identità europea su cui
fondare una storia della letteratura europea? E che a sua volta scopra nessi identitari nella comune
memoria, certo anche la memoria delle differenze? Vi sono nessi comuni, emblemi, simboli, generi
di scrittura, ed è chiaro che esiste una tradizione europea nella quale possiamo riconoscerci. Una
letteratura europea che si esprime in lingue diverse eppure in una lingua comune. Rinvio su questo
problema al saggio di Krysdtina Kujawinska Courtney su Literature and European Identity
Contexts che fa parte di un più ampio lavoro di gruppo sulla questione dell’identità europea. Si
tratta di tre volumi, Studies in Cultural Perspectives (in cui sta il saggio della Courtney), Political
Change and the European Union e National and Ethnic Identiy in the European Context. Si tratta
dei risultati di una ricerca finanziata dalla Comunità Europea (programma “Tempus Phare”,
pubblicati dalla Łódź University Press nel 2001, e corredati da un interessante Glossary, un
glossario che ci mostra come, al di là dei problemi linguistici, si parli comunque uno stesso
linguaggio (Krysdtina Kujawinska Courtney, 2001). Esiste dunque una comune memoria
culturale? E se la risposta è che sì, esiste, non è questo un assunto pericoloso, totalizzante se
non si supera la vecchia idea di Kultur , o Weltliteratur comunque eurocentrica, per aprirsi alle
interrogazioni della multietnicità e del multiculturalismo? Esiste dunque un canone letterario
europeo? Esiste un temario europeo? Esiste una scrittura europea? Ed è possibile scrivere una
storia comparata della letteratura europea attenta alle differenze, e alla molteplicità delle
esperienze?. Se la letteratura è uno strumento identitario, se i temi e i modi sono quella della koiné,
se la koiné non è intesa in senso strettamente linguistico (al di là delle aree di contiguità linguistica,
la romanza, la germanica, la slava, la greca ). allora in quei temi e modi e stereotipi e luoghi comuni
(i koinoi topoi), in quelle forme, in quei generi (koinoi tropoi) in quel comune pensare, e sentire,
nella misura in cui è comune, sta la risposta ai nostri interrogativi soprattutto in clima di
mondializzazione, di globalizzazione. Questo clima tende ad appiattire le differenze, a fare parlare
tutti la stessa lingua (l’inglese più o meno aeroportuale che si sente spesso), ma certo non lo stesso
linguaggio culturale. Di converso la letteratura si apre a istanze diverse, alle istanze di differenze
con più forza affermate. E le nostre sintassi letterario culturali, le nostre grammatiche e morfologie
letterario-culturali, i nostri temari anche subiscono le spinte contrastanti della globalizzazione e
dell’affermazione delle differenze come nuova serie di temi, generi., modi comuni, anch’essi
europei, pur nell’ibridazione alla quale sempre più ci si dovrà abituare. Poiché è vero che la cultura
europea ha colonizzato, militarmente e culturalmente, l’intero pianeta, ma anche ne è stata
modificata, e anche l’esperienza della globalizzazione del resto è percepita localmente, con
differenze locali. Qual è la risposta della cultura europea di fronte alle nuove istanze portate
dall’emigrazione, dal multiculturalismo, dalla multietnicità che ci troveremo, ci troviamo, si
trovano già i professori delle medie e medie superiori ad affrontare come nuova esperienza?
Ed è utile insegnare letteratura europea, e programmare un percorso culturale europeo
comune nelle scuole di primo e secondo grado, e questo al fine di creare la coscienza di una
comune appartenenza attraverso una comune memoria culturale, in una visione tuttavia
attenta alle differenze? Poiché il canone europeo, se c’è, non può non avere questa funzione di
formazione della consapevolezza di una comune identità. Non si tratta di una esigenza nuova.
Madame de Staël, con la sua lettera Sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni su «Biblioteca
Italiana» nel gennaio del 1816, inizia un dibattito che si pone esattamente nello stesso tempo di
insorgenza dei nazionalismi. Vale la pena di ricordare in breve il dibattito italiano di quegli anni,
con la risposta di Berchet, entusiasticamente romantico e traduttofilo, ed esterofilo (La lettera
semiseria, certo, dello stesso anno), ma anche gli attacchi contro Madame de Staël su «Le Novelle
Letterarie», sullo «Spettatore», e la difesa, o le difese di Di Breme, e ancora Berchet sul
«Conciliatore» nel 1818. Vale la pena di notare che la formulazione «letterature europee»,
esattamente corrisponde al problema che stiamo analizzando. Visconti, sul «Conciliatore», scrive un
saggio sul Romanticismo (quel termine, Romanticismo, nell’Ottocento italiano è curiosamente
vicino a cosmopolitismo europeo), o meglio alcune Idee elementari sulla poesia romantica, che
hanno come presupposto tutto il dibattito precedente, vecchio di un paio d’anni (nn, 23-28,
novembre- dicembre 1818). Su «Antologia» nel novembre del 1829 Giuseppe Mazzini scriveva un
lungo articolo Per una letteratura europea, a cui, sempre su «Antologia» rispondeva Apprandino
Arrivabene, Contro una letteratura cosmopolita, nel novembre del 1832. Niccolò Tommaseo
riprendeva il problema con una breve risposta, Per una letteratura cosmopolita, nello stesso mese
di novembre. Quello che è certo, comunque, proprio al momento di insorgenza dei nazionalismi e
degli irredentismi, è che il Romanticismo, nato in Germania e in Inghilterra, è un fenomeno comune
europeo, come del resto, ciò che è da dare più per scontato, l’Illuminismo (Kostiewiczowa, 2002)
Ma anche le periodizzazioni delle epoche del gusto che precedono, il Rinascimento, il Barocco, si
diffondono non solo nell’ Europa occidentale fino alla Boemia, e a Praga capitale imperiale alla fine
del Cinquecento ( Wildowá Tosi, Cosentino, 2001), ma anche in tutto l’Est europeo, fino alla
Polonia e alla Russia (Brogi Bercoff, 1996; Michalowska, 2002, Garzaniti, 2005).
Il Romanticismo è, naturalmente, l’exemplum più ovvio di unità culturale d’Europa. Nata in
Germania, sviluppata in Inghilterra e in Francia, la nuova sensibilità si spande poi attraverso
l’incredibile successo di Byron in tutta Europa, dal Portogallo alla Russia di Puškin. In Portogallo
l’esplosione del Romanticismo è connessa al 1821, e alla pubblicazione del Camões di Almeida
Garret; nelle letterature scandinave a riviste come ««Polyphemus» di Hammarskoeld ed altri (a
partire dal 1809), «Phosphorus», pubblicata dal 1810 a Upsala da Atterbottom e dal suo circolo, con
la tesi di un radicale rinnovamento delle letterature nazionali, tra il i 1812 e il 1823, «Poetisk
Kalendar», tra il 1813 e il 1824; «Svensk Literature Tidning» dei “fosforiti” Hammarskold e
Palmblad. In Boemia il Romanticismo esplode nel 1818 con Inizi della Poesia Ceka in cui
Frantisheck Palàki e Pavel Safàrik parlavano non tanto degli inizi della poesia Ceka, ma degli inizi
della nuova poesia e reclamavano una letteratura rinnovata che fosse espressione dell’irredentismo
boemo. In Ungheria il vettore di quello che diventa un vero e proprio mot d’ordre fu la rivista
«Aurora» (a partire dal 1822) , curata da Caroly Kisfaludy. In Polonia il Romanticismo come in
Italia, del resto, è connesso con il reducismo dei legionari napoleonici e dunque con l’irredentismo
polacco di Witwicki, di Cyprian Godsbki; di Timowsky, soprattutto di Franciszeck Wzyk che
pubblica un articolo del 1815, sulla Poesia in genere, che è il manifesto del Romanticismo polacco,
anche se fu solo dopo la pubblicazione di De L’Allemagne in polacco («Giornale di Wilna», 181516) che si iniziò a parlare di Romanticismo. Anche in Spagna il termine romantico appare per la
prima volta negli stessi anni, ed esattamente nella «Crónica Literaria e Cientifica di Madrid», il 26
giugno del 1818; prima si usava il termine romanesco, che fino al 1814 non aveva un significato
definito, e stava per ‘strano’, ‘esagerato’, ‘estremo’. Il Romanticismo, ovviamente, fenomeno
comune, o parola d’ordine che definisce una qualche vaga sensibilità, ha, per esempio, da un punto
di vista politico, risvolti assai contradditori, rivoluzionari e del tutto reazionari o conservatori. Nel
1814 c’è in Spagna una controversia che sta a dimostrare come, esattamente allo stesso modo, il
romantico possa essere reazionario e nostalgico, oppure progressista e rivoluzionario. In ogni caso
nel segno dell’esilio, del perduto: forse in ogni caso nella tensione verso una patria nella mente, la
patria dei poeti: si tratta della polemica
tra José Joaquin de Mora Sanchez, direttore della
«Cronica» e Joahnn Niklaus Böhl, un tedesco che viveva a Cadice. Mora era un liberale, mentre
Boehl un monarchico e un reazionario. Böhl identificava il Romanticismo con la letteratura
cristiana in opposizione al classicismo pagano, insomma un poco alla Schlegel, come capita del
resto anche, siamo nel 1823 – con Romanticismo di Monteggia («El Europeo» di Barcellona)
seguito da Analysis de la question alidada entre romanticos y clacicistas (novembre 1823).
Monteggia usa «romantico» come parola unica contro romancesco, romanesco, romanticista. Mora
dal canto suo propugnava una poesia classicista e razionalista, ancora di marca illuminista. E
insomma, come si vede, è certo vero che si tratta di diversi Romanticismi, e non di un solo
Romanticismo, ma il fenomeno riguarda l’intera Europa, ed è anzi una delle marche
identitarie europee proprio nel momento in cui sorgono i nazionalismi, gli irredentismi, dopo le
guerre napoleoniche.
Sorge qui un ulteriore problema, poiché se c’è un canone europeo, legato alla storia comune,
alla comune memoria culturale, esso è però per molti versi e fino a un certo punto coincidente con il
canone letterario occidentale che dunque include anche le Americhe anglofona, iberofona, e
francofona (la letteratura québecoise) dove ugualmente si sviluppano Illuminismo e Romanticismo,
così come, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ovunque in Occidente, a partire
dalla grande capitale culturale di quegli anni Parigi, ovunque, in Europa occidentale come in
Europa orientale e nelle Americhe si succedono Decadentismo, Simbolismo, Naturalismo,
Avanguardie. E si può pensare a un canone occidentale che non comprenda per esempio
l’americano Walt Whitman, il russo futurista Majakowskji, i futuristi polacchi (la rivista “I
formisti”, fondata nel 1917 a Cracovia da Czyzewsky), oppure la scrittura cubista dell’Americana
esule a Parigi Gertrude Stein o di Hemingway, o il posmoderno dell’argentino Borges, del
venezuelano Garcia Marquez, del messicano Octavio Paz?
Come dimostrano ampiamente le storie e antologie di letteratura italiana per le scuole
superiori (da Ceserani e De Federicis, Il materiale e l’immaginario, a Luperini e Cataldi, La
scrittura e l’interpretazione), insegnare una letteratura nazionale significa pensarla nel quadro
di riferimento della tradizione e della storia d’Europa e d’Occidente, in un clima, certo lontano
dall’essere ancora risolto, di superamento dei nazionalismi, o addirittura dell’idea di nazione ‘una e
indivisibile’ nata nelle diverse situazioni politiche, tra la fine del Quattrocento e il Sette e Ottocento.
Ma una storia letteraria d’Europa, e dunque un canone europeo, deve ancora procedere per
nazioni (il Rinascimento in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, nel Nord Europa)?
Oppure si tratta di lavorare soprattutto sui nessi, le mediazioni, la storia delle traduzioni, i
reciproci influssi tentando di costruire una vera e propria rete dell’Immaginario europeo, una
memoria culturale d’Europa, definire la tradizione europea (pur nel rispetto delle differenze, e dei
localismi)? In altri termini si tratta ancora oggi semplicemente di raccogliere e ampliare l’eredità del
comparatismo illuminista (lo Juan Andrés di Dell’origine, progresso e stato attuale d’ogni
letteratura, 1728-1798) o romantico (Ludwig Wachler, Handbuch der algemeinen Geschichte der
literarischen Kultur (Manuale di storia generale della cultura letteraria), 1804-05, ampliata 1833;
Simond de Sismondi, De la littérature du Midi d’Europe, 1813; Friedrich Schlegel, Storia della
letteratura antica e moderna (Geschichte der alten und neuen Literatur, 1812), positivista alla
maniera della Geistesgeschichte del Georg Brandes delle Hovedstrømninger i det nittende
Aarhundredes Litteratur (Le Grandi correnti letterarie del secolo decimonono, 1872-1890), opere
tutte che dividono la storia letteraria e culturale per nazioni e considerano i fenomeni culturali sullo
sfondo dato dell’idea di nazione, e di stirpe (dunque, per esempio, eliminando l’Italia, e non solo nel caso di Brandes - come ininfluente o inimportante, dal quadro del Romanticismo che invece è
proprio uno dei grandi momenti unificanti della cultura europea, visto che non c’è nazione dal
Portogallo alla Russia che non abbia entro la prima metà dell’Ottocento un suo manifesto
romantico)? O si tratta di seguire ancora il modello Hauseriano di Sozialgeschichte
(Sozialgeschichte der Kunst und Literatur (Storia sociale dell’arte e della letteratura, 1951),
tenendo conto della tradizione tutto sommato sette-ottocentesca da cui scaturisce e che porta a
maturazione (p. e. Allgemeine Theorie der schönen Künste (teoria generale delle belle arti, 177174) di Johann Georg Sulzer, L’appendice collettiva ancora al Sulzer: Charakter der vornhmsten
Dichter aller Nationen (Carattere dei principali poeti di tutte le nazioni), la Geschichte der
Literatur , 1805-11di J. G. Eichhorn, la Geschichte der Poesie und Beredsamkeit (1801-1819) di
Friedrich Bouterwerk, e ancora il Karl Rosenkranz dello Handbuch einer allgemeinen Geschichte
der Poesie, 1832-33)?
Oggi, la situazione politica europea, cerca fondamento non solo nell’economia, ma nella
memoria culturale, non tanto per superare gli stati nazionali, quanto per identificare una radice
comune che permetta di dire che gli europei parlano in diverse lingue tuttavia uno stesso
linguaggio culturale; così, forse, la necessità di questo fondamento culturale comune, esprime
l’esigenza di uno studio davvero comparativo, e di un insegnamento letterario, di
conseguenza, svolto sullo sfondo dei frequenti sfalsamenti delle periodizzazioni, che evidenzi
la comunanza di generi, modi e filoni di scrittura; la persistenza dei temi; i passaggi, i nessi e i
nodi problematici, i go-betweens, le storie editoriali, i modi di passaggio (viaggiatori,
traduttori), la fortuna e l’influenza delle opere da un paese all’altro, da una lingua all’altra,
da una cultura e una tradizione nazionali a un’altra per capire quali siano i fattori comuni,
come la letteratura abbia costituito anche nell’epoca dei nazionalismi, e anche nello stesso
nazionalismo, comunque un linguaggio comune europeo espresso in diverse lingue. La prima
questione, dunque, è se esista un’identità Europea. E, se c’è, quale tipo di relazione si ponga tra
questa e le identità nazionali formatesi in un lungo arco di tempo, dall’epoca delle monarchie
centralizzate in Inghilterra, in Francia, in Spagna, fino alle identità nazionali che nascono con il
crollo dell’antico regime, dopo la rivoluzione francese e con le guerre napoleoniche (Italia,
Ungheria, Polonia, ma anche Boemia oggi divisa in repubblica Ceca e Repubblica slovacca) e
tenendo conto, naturalmente, della funzione unificante, conflittualmente tale spesso, dell’Impero. E’
finita l’epoca dei nazionalismi nonostante il sanguinoso residuo della secolare questione balcanica
nell’ultimo tratto del Novecento? Poiché parlare di identità nazionale unitaria per la ex-Jugoslavia,
dopo le guerre etniche della fine secolo scorso, e con la questione non ancora chiusa, sarebbe
certamente fuori luogo. Del resto pensare, ampliando la prospettiva, a un’unità della cultura europea
su base identitaria per un continente squassato per secoli da uno stato di guerra perenne e, a partire
dalla fine del Seicento, da ripetute rivoluzioni in Inghilterra, in America, in Francia, in Germania, e
da irredentismi, in Italia, come nell’Est europeo (diviso tra impero russo e austroungarico)
coinciderebbe con il pensare l’unità europea come un’identità paradossalmente costruita su un
perenne stato di conflitto. E tuttavia, è vero che anche le guerre, e i contrasti, gli odii, gli stereotipi
dello straniero hanno contribuito a fondare le identità nazionali anche contro, o in diversità
dall’altro. Così un’unità culturale europea esiste, senza però che ci sia accordo su ciò che si intende
per cultura europea. La letteratura certo ha contribuito a costruire una comunità culturale, e forse
anche un’idea di Europa come comunità ideale, immaginata, oltre che quella di un’identità europea
fondata sulle divisioni nazionalistiche e agitata da una perpetua conflittualità.
E’importante il ruolo avuto dalla letteratura nella costruzione delle identità nazionali in un
lungo arco di tempo che va dall’affermazione delle monarchie centralizzate tra Tre-Quattrocento in
Francia, Inghilterra, Spagna, fino agli irredentismi Ottocenteschi ribelli all’Impero austroungarico
(Italia, Ungheria), o a quello russo (Polonia).
Forse non è proprio un caso che la ricerca di una cifra unitaria della letteratura, e della
cultura d’Europa riceva un forte impulso proprio negli anni che seguono il secondo grande
conflitto europeo (e mondiale). Basterà ricordare come nelle grandi opere dei filologi romanzi che
fondano lo statuto delle ricerche di letteratura comparata, Curtius, Auerbach, Spitzer, la marca
europea divenga importante, e indichi di per sé il segno genetico dell’Occidente, a partire dalla
Romania, l’area dell’Impero romano, e del latino e dunque dai suoi influssi e sviluppi nelle lingue
d’Italia, Francia, Spagna, ma anche Germania, Inghilterra. Così Auerbach, nell’introduzione a
Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel medioevo (1958), parla dell’Europa
come soggetto della sua ricerca, dell’Europa che egli tenta di cogliere come Geistesgeschichte, ciò
che evidentemente era già vero nella sua conclusione a Mimesis (1946) in cui si parla di letteratura
occidentale, intendendo evidentemente letteratura europea; così come Curtius in Letteratura
europea e medioevo latino (1948), muove dalla letteratura europea per individuare nell’area e nella
cultura tardo latina e romanza, una cifra comune all’intero Occidente, e la stessa prospettiva
troviamo in T. S. Eliot, in quelle conversazioni radiofoniche in tempo di guerra poi pubblicate in
tedesco nel 1946 (da Karl Haber a Berlino) sotto il titolo Die Einheit der Europäischen Kultur.
Dobbiamo aggiungere che, da una parte, quando si parla di letteratura europea spesso pare che si
intenda soprattutto l’Europa occidentale, con particolare riferimento a Italia (soprattutto
Umanesimo e Rinascimento e avanguardia primo novecentesca); Spagna (soprattutto siglo de Oro),
Francia (soprattutto dalla fine del Cinquecento al Novecento), Inghilterra (soprattutto dalla fine del
Cinquecento al Novecento), Germania (soprattutto dal Sette al Novecento), e poi Austria
(soprattutto il periodo della finis Austriae nel primo Novecento) e ovviamente la relativa area
linguistica allargata all’oriente Europeo), a cui si tratta di aggiungere la Russia (Ottocento e il primo
Novecento) e gli Stati Uniti (Ottocento e prima metà del Novecento). Dunque il canone letterario
nel mondo globalizzato parrebbe essere soprattutto quello eurocentrico, quello occidentale, poiché è
difficile negare i rapporti di derivazione e influenza reciproca, tra Europa e le antiche colonie
americane o quelle anglosassoni in Australia, Nuova Zelanda, e francesi in Oceania. Fra queste
nazioni si costituisce un insieme di contiguità, di scambi che ci permettono di individuare con
facilità dei nessi che costituiscono una rete percorribile e spesso percorsa. Ma rimangono fuori di
fatto dagli usuali percorsi, ad eccezione di alcune opere e autori che sono entrati in modo più o
meno stabile in un problematico canone europeo, nazioni come il Portogallo, l’Olanda, le nazioni
scandinave, e quelle dell’Est Europeo. E la Turchia, che pure potrebbe considerarsi europea, almeno
a partire dalla riforma di Ataturk nel primo dopoguerra (1922) rimane in un orizzonte piuttosto
remoto. Il problema è ovviamente la tradizione classico-giudaico-cristiana, quella stessa a cui fa
riferimento l’Auerbach di Mimesis, che dà un’identità riconoscibile e permette inclusioni ed
esclusioni. Ma siamo proprio certi che l’Islam non faccia, a sua volta, parte della tradizione
europea, una volta che ricordiamo, ad esempio, come Cordova, la città di Averroè, ma anche
dell’ebreo Maimonide (che ne fu peraltro cacciato dagli arabi), sia stata una delle capitali culturali
europee? Così si considerino, oggi, le aree ex coloniali di anglofonia e francofonia, in Africa, in
India, che hanno, attraverso la lingua in cui scrivono gli autori di quelle aree, comunque rapporti di
continuità e/o di ibridazione più o meno stretti con la tradizione occidentale. E, ancora, data la
radice comune classico-ebraica (Olivier Cosma, 2003; Vassilis Lambropoulos, 1993), quella da cui
parte per esempio Mimesis, la grande indagine di Auerbach sulla rappresentazione della realtà in
Occidente, non entrano nel canone occidentale, nella memoria culturale anche la grande tradizione
classica greco-latina, per altri versi morta con le lingue in cui si esprimeva, e il canone biblico e,
infine, la mitologia germanica?
Un’altra questione strettamente connessa al canone è quella che riguarda la storia delle
politiche linguistiche da melting pot imposte nell’ambito delle politiche egemoniche di alcune
delle nazioni europee che abbiamo considerato (ivi inclusa l’Italia postunitaria). Del resto è evidente
il ruolo dell’apprendimento delle lingue connesso allo studio delle letterature e culture europeee
nella definizione di una cittadinanza europea integrata, e cioè, multilingue e multiculturale, intesa
come mosaico Ma la questione è resa ancora più complessa dai fenomeni della globalizzazione,
specie dai flussi migranti che pongono, e porranno nuovi problemi culturali, identitari ed educativi.
Cosa davvero significa identità, un’identità comune nonostante rilevanti differenze di memoria
culturale tra i soggetti? E che rapporto c’è tra identità nazionale, locale, personale, le minoranze, la
questione del gender? Come entra tutto questo nella formazione del soggetto all'interno di una
cultura o di una tradizione? Il fatto è che il problema teorico, per quel che possiamo vedere, per non
parlare delle soluzioni pratiche, è ancora interamente da costruire.
Vi sono diversi e diversamente negoziati modelli di integrazione, da quello più vecchio del
melting pot americano, a quelli a mosaico delle politiche multiculturali di Canada e Australia. Tutte
esperienze che affrontano issues di fronte alle quali ci si ritrova nella prima decade del terzo
millennio anche in Europa, a partire dalle frontiere spagnole con il Nord Africa, da quelle italiane
con l’est europeo e ancora con l’Africa; e si pensi alle analoghe soluzioni americana e spagnola di
erigere delle vere e proprie barriere fisiche, reti, muri, alle frontiere messicano-americana e ispanomarocchina, per tentare di limitare l’emigrazione clandestina. Negli anni Ottanta le politiche di
integrazione australiane e canadesi erano all’avanguardia (ma certo non si può non notare come gli
aborigeni australiani siano stati del tutto marginalizzati, e come imprigionati nel silenzio,
ammutoliti, e non si può non notare come anche in Canada gli Hinnuits, di conseguenza ai molti
referendum sull’indipendenza del Québec, abbiamo avanzato polemicamente un’analoga richiesta).
E certo il melting pot americano, se mai ha funzionato come idea di integrazione culturale, certo
non pare avere più oggi la stessa potenzialità. Tutte queste esperienze hanno mostrato la corda, sulla
base di un rifiuto più o meno accentuato dell’altro, su base culturale, e provocato dal timore di una
perdita dell’identità nazionale. L’educazione linguistica, la lingua, è naturalmente importante in
tutto questo discorso, poiché la lingua non è un veicolo sterilizzato dei valori culturali che
porta, e l’uso dell’inglese come lingua generale del mercato ovviamente non può che implicare
comunque un rapporto con la tradizione di quella lingua, anche con il suo canone letterario, o
più generalmente culturale, storicamente stratificato, e attivo nel presente nella lingua stessa,
nel sistema di valori che vi si esprimono.
È uscito, nel 2005 La nuova America di Samuel P. Huntington, l’autore di quel libro
‘profetico’, forse anche foriero di sciagure, che è Scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale.
Un libro ‘profetico’, certo, perché enuncia i termini di uno scontro di culture che evidentemente,
prima che preoccupare, pare eccitare forme di jingoism – come si diceva nell’Inghilterra tardovittoriana – per definire il diritto-dovere della razza bianca (anglosassone) alla colonizzazione e alla
civilizzazione nei paesi ‘selvaggi’, o di ‘inferiore’ cultura collettiva, con un’idea ‘inferiore’ di
comunità. Se, per lungo tempo, il white man’s burden, il fardello dell’uomo bianco, di cui parlava
Kipling, è stato quello di portare la luce della vera religione, o poi della razionalità occidentale
come idee fondanti del diritto alla conquista e allo sfruttamento coloniale, oggi, per difendere i
nostri valori, e la nostra idea di comunità, si tratta di esportare democrazia e democratizzare il
mondo. Cosa c’entri tutto questo con il canone letterario europeo, quello che discende dalla
tradizione europea, e che porta il sistema di valori europeo, e che Bloom formula come canone
occidentale(Bloom, 1995), è forse spiegato nel modo più chiaro dalle grandi indagini di Edward
Said (1978, 1993) che mostrano come, da una parte, tutta la cultura europea sia costruita su una
filosofia imperialista della storia, e invero sull’idea stessa di Impero (Domenichelli, 2008, ma vedi
anche Domenichelli, 2007).
Nella mood postmoderna il problema del canone letterario - come si è visto un problema non
meramente letterario, o estetico, ma culturale e identitario, e invero un problema di potere e di
formazione di consenso attraverso la memoria culturale - si pone come rapporto di relazione e
opposizione al fenomeno di frammentazione se di non vera e propria soppressione dell’idea di
canone letterario in Nord America come segno della frammentazione dell’identità collettiva
americana, dell’identità, dunque che è un dato culturale, una costruzione culturale. Così essere
americani evidentemente non implica più un’identità linguistica, tanto meno un’identità culturale o,
se sì, si tratta di una bizzarra identità che trova la sua specificità soprattutto nell’aggregazione delle
differenze, e delle conflittualità, ma anche nell’adesione esplicita o implicita ai valori ‘americani’,
ciò che si tratterà di spiegare.
L’aggressione al canone letterario anglo-americano e, con esso, al canone occidentale
in America, ma, di fatto, al canone europeo tout court nel postmoderno, è all’origine di Morte
di una disciplina (2003) di Gayatri Spivak, che ha a che fare esattamente con la globalizzazione, e
dunque con il nuovo ordine mondiale, con la frammentazione delle identità, di quella
nordamericana in primo luogo, e dunque con la crisi del canone occidentale, e cioè del canone delle
letterature comparate nel vecchio senso molto europeo di Weltliteratur. La tesi conclusiva di Spivak
è che, dalla morte di una disciplina, le letterature comparate, come fenice, lo studio della letteratura
può rinascere dalle sue ceneri: «La nuova letteratura comparata – citiamo dalla conclusione – deve
minare persistentemente e ripetutamente e decostruire la tendenza definitiva del dominante di
appropriarsi dell’emergente. Non si deve lasciare costituire dalle richieste del solo
multiculturalismo liberale» (118). Che vi sia in questo assunto una patente contraddizione è ai nostri
occhi ovvio, e anche inevitabile, dato l’assunto stesso, poiché quei termini «minare», «decostruire»,
soprattutto «decostruire», così come «dominante», «emergente», provengono proprio da quel
multiculturalismo liberale, sono il lessico del multiculturalismo liberale, quello a cui si riferisce
Jameson (1991) con l’espressione «logica del tardo capitalismo», anzi quelle espressioni ne
costituiscono il gergo, appartengono dunque al lessico del multiculturalismo liberale che si vorrebbe
superare, se non liquidare. In verità, quello che occorrerebbe a Spivak, per dare altra solidità al suo
assunto, sarebbero nuove parole, un nuovo lessico, nomi nuovi, un nuovo linguaggio. Una seconda
osservazione è che, pare a noi, né i canoni nazionali europei né il canone europeo, dopo la tempesta
che l’ha investito negli Ottanta e Novanta, sembra averne patito gravi conseguenze, se non qualche
nuovo inserimento, e qualche scomparsa. Il fatto è piuttosto che accanto agli studi letterari
tradizionali che non si sono affatto vaporizzati ma rimangono in qualche modo prevalenti, sono
sorti altri terreni di indagine, gli studi culturali nei quali non tanto l’idea di canone viene
distrutta, ma piuttosto moltiplicata, con la creazione di canoni femminili, canoni postcoloniali,
canoni etnici, di studi della letteratura del Commonwealth, francofonia, anglofonia, che non
sostituiscono, ma si aggiungono piuttosto agli studi d’area e alla comparatistica più
tradizionale.
Il canone europeo, su cui si fonda lo stesso canone occidentale, eurocentrico, come
Weltliteratur, è dunque strettamente connesso all’identità collettiva, o alle identità collettive,
fondate su una memoria culturale, e dunque alle differenti identità nazionali maturate in Europa in
un periodo variabile tra Tre, Quattro e Otto-Novecento e, in America, a partire dalla colonizzazione,
ma che prende forma identitaria forte soprattutto verso la metà dell’Ottocento. Si tratta comunque
della tradizione europea, o se si vuole occidentale (Europa, Americhe, Continente australe,
Oceania), che sentiamo, con tutte le differenze, come crescita a partire da una stessa radice unitaria
(quella definita da Curtius, Auerbach, Spitzer, Eliot e quell’idea di classico di Eliot, 1944, così ben
analizzata da Frank Kermode, 1975). Il canone letterario, la lista dei grandi autori, costituisce
questa memoria, ed è la chiave d’accesso all’immaginario collettivo e, dunque, è stato un
potente strumento di formazione identitaria e linguistica. Il canone, ovviamente, è stato lo
strumento anche di una colonizzazione culturale e linguistica che in tempi diversi ha unificato,
spesso con un’imposizione forzata, e mai pienamente accettata, nazioni come la Gran Bretagna, la
Francia, l’Italia, gli Stati Uniti, la Spagna e anche, naturalmente, le terre di conquista coloniale,
certo con diversità tuttavia uniformate dall’imposizione ‘ovvia’ di una lingua comune con effetti
certo diversi, poiché, per esempio, l’ibridazione culturale è un tratto forte delle culture latinoamericane, molto più, e in modo meno apparentemente conflittuale, di quanto non lo sia di quella
nordamericana. Ma, comunque sia, il canone coincide con la memoria culturale che sopprime
altre memorie culturali, la forma del passato e della tradizione che impedisce l’accesso se non
in modo mediato, ad altre identità, memorie e tradizioni soppresse. Il canone è stato lo
strumento e l’affermazione di un’egemonia culturale su altre culture subalterne e dunque
tacitate. Ma anche la discussione sul canone, la culture war, scaturisce dalla cultura occidentale
stessa, caratterizzata dalla critica (al governo e alle forme di governo) che risale alla Riforma
protestante prima, e poi, naturalmente all’Illuminismo, come ci dice Foucault (1978, 1997, 2001).
La stessa crisi del canone, anche nelle sue componenti postcoloniali, ed etniche, per non
parlare delle questioni di gender, nasce dall’evoluzione della cultura occidentale nel
postmoderno. Oggi, naturalmente, il ruolo della letteratura e del canone, ciò che decide della
rilevanza del dibattito su di esso, è molto meno importante di quanto non fosse nell’era preradiofonica, pretelevisiva e preelettronica, ciò che non attutisce minimamente l’asperità del conflitto
e della battaglia che si combatte nel campo letterario, come campo di potere editoriale, accademico.
Così sono sorti e si sono moltiplicati soprattutto in area anglosassone i nuovi dipartimenti di studi
interculturali, i nuovi posti di insegnamento universitario su ethnic, women, gay, lesbian,
postcolonial studies, con l’idea alla maniera di Spivak che la letteratura – certo non solo quella
comparata, ma ogni letteratura d’area - come disciplina a sé- sia morta cedendo il passo a visioni
più culturali più complesse in una prospettiva costantemente politica. Ma le cose non sono così
semplici e le aree di resistenza a questa prospettiva sono molteplici, e non solo in ambito
meramente culturale, ma con rilevanti risvolti politici.
Il libro di Huntington, il cui titolo originale è un’interrogazione, Who are we?, ripropone in
modo problematico la questione dell’identità americana nell’America degli studi etnici e
multiculturali, della presa di coscienza di gruppi minoritari, o repressi, donne, gay, e naturalmente
tutte le componenti etniche la cui identità è stata rifusa nel melting pot WASP, nella mentalità
borghese e protestante, nell’etica del lavoro, nel puritanesimo inscritto nelle origini della civiltà
nordamericana. Ci interessa il libro di Huntington perché pone un problema che, se non è già nel
nostro presente è con molta probabilità nel nostro futuro, il futuro d’Europa e anche quello italiano,
perché si tratterà di un’Europa sempre più meteca e meticcia, sempre più fortemente ibridata. Dal
punto di vista letterario, se solo pensiamo alla scrittura caraibica di Garcia Marquez, a Cien años de
soledad, a De L’amor y otros demonios, a El amor en el tiempo del cólera, dovremmo dire che la
prospettiva, da un punto di vista letterario, è entusiasmante, ma ci rendiamo conto che vi sono punti
di vista diversi dal nostro che considera tutta la cultura europea, la tradizione, come stratificazione
di ibridazioni di cultura oltre che di geni, di razza, e dunque frutto di meticciato. Noi crediamo
dunque che «il sangue d’Europa», per usare un vecchio titolo di Jaime Pintor, il che sta a dire la
cultura d’Europa, la sua scrittura, sia frutto di infinite ibridazioni. Lingua, tradizioni, memoria
culturale, ciò che significa identità, sono fenomeni mutevoli soggetti al tempo, vivono attraverso le
mutazioni, e senza mutare muoiono.
Huntington in Who are we? non parla di letteratura, né si pone il problema del canone
letterario americano, oppure occidentale, ma quella domanda identitaria in una situazione di fatto
multiculturale è una domanda di fondamento. Se ci chiediamo chi siamo, e dunque a quale
collettività, a quale comunità apparteniamo, poniamo esattamente la questione della nostra memoria
collettiva e dei valori in essa depositati su cui si fonda l’idea stessa di comunità. Ci chiediamo,
dunque, anche su quali memorabilia (e cioè esattamente il canone delle varie arti e modi e generi di
scrittura) la nostra memoria culturale si fondi, di quali tracce mnestiche (i testi certo, e le relazioni
tra di essi) si componga. Dobbiamo anche porci il problema di quale sia il rapporto tra una cultura e
la lingua che la esprime, o se non siano, inevitabilmente, ed esattamente la stessa cosa. Che cosa è,
per esempio, la cultura americana? Che cosa è la cultura europea, come si differenziano, o a quale
punto della storia registrata si differenziano? Quali sono i problemi a cui va incontro la certezza
identitaria collettiva nel mondo della globalizzazione e frammentazione? Gli Americani, così come
gli italiani, i tedeschi, gli spagnoli, i francesi parlano una lingua, diverse lingue che esprimono, o
esprimevano, o hanno espresso dunque forme di monocultura e dal punto di vista letterario,
tradizioni, canoni, molto rigidi e facilmente espulsivi dei corpi estranei. Ma riproponiamo la
questione di fondo: c’è un’identità europea, c’è dunque un canone europeo a fronte di lingue
diverse? E quale lingua, o quali lingue saranno le lingue d’Europa, tutte? Siamo di fronte al
mito di Babele che certo, come che sia, non può essere risolto dal libro di George Steiner (1975) e
che non investe solo la mera comunicazione linguistica, ma anche la persino maggiore difficoltà di
intercomprensione culturale. E se davvero si trattasse di una identità affermata attraverso nessi
comuni, attraverso un canone comune, discretamente variabile a seconda del luogo e del tempo, non
sarebbe, dati i trascorsi imperiali e imperialistici, un retaggio della Kultur razzista? Di una cultura
convinta della propria superiorità su ogni altra cultura, variamente e a vario titolo considerata
barbara, e dunque da eliminare, cancellare, come antidemocratica? Queste interrogazioni vanno
considerate sullo sfondo dei processi storici attraverso cui si costruisce l’idea di democrazia
come vero e proprio fondamento occidentale, e resultante in specie dal succedersi di conflitti e
rivoluzioni che, dalla fine del Seicento, porta al tipo di comunità politica dei doveri e dei diritti
individuali, e di governo e di visione del mondo che è parte, se non l’intero, del comune
retaggio occidentale.
Identità è un termine che apre un’area di enorme complessità che ha a che fare con la
persona, con la psiche, con la stabilità psichica, con il genere, cioè il sesso e la sessualità, l’età,
l’educazione, le esperienze, il luogo, l’ethos, l’ethnos, la lingua o anche le lingue che si parlano, con
la lingua materna in primis, e infine con l’appartenenza collettiva più ampia, l’idea di comunità
nella quale è inscritta l’idea di identità. L’identità, la preoccupazione per l’identità è stata
decisiva sia nella formazione del canone, sia nella frammentazione dello stesso. Identità è un
termine tardo-novecentesco che è o può diventare, sicuramente è stato, una vera e propria arma di
distruzione di massa. Gli esempi, tra guerre di religione, guerre tra stati, guerre tra varie regioni di
stati scissionisti, e poi identificazione di nemici interni, e lager, e shoah, e pulizie etniche, sono
davvero tanto vari e diffusi da ricordarci che la storia è l’incubo di cui parla Stephen Dedalus
nell’Ulisse di Joyce, anche questo incubo parte evidentemente di ciò che chiamiamo la nostra
identità collettiva.
Who are we?, la domanda posta da Huntington, e la formazione tra Seicento e Novecento
non solo dell’identità americana, ma oggi, perfino a maggior ragione, anche di quella europea o, in
senso più ampio, occidentale, dunque ci interessa. Ci interessa anche la risposta di Huntington che è
la riproposizione in altra chiave del melting pot WASP, attraverso una sua dissoluzione e
ridefinizione che ne garantisce la persistenza. Il fatto è che la mood postmoderna e globalizzante è
all’origine americana e WASP, nella cultura del denaro, dei simboli della ricchezza, nell’etica del
lavoro, nella radice protestante, WASP, per l’appunto, dello spirito del capitalismo nella sua
diffusione globale. Il relativismo culturale, e le aperture all’altro paiono porre in crisi lo stesso
contratto sociale su cui si fonda l’idea occidentale di comunità. Così, con un qualche paradosso che
nega ciò che parrebbe affermare, «Classe, razza, religione, origine, cultura svaniscono, o si
offuscano, perdono importanza alla luce dei diritti naturali che ha dato agli esseri umani interessi
comuni e li ha resi veramente fratelli» (Alan Bloom, 1987, 27). La luce dei diritti naturali è quella,
ovviamente, che scaturisce dal sistema occidentale dei valori. Così la cultura occidentale (sempre
più WASP, neoliberista, e neocapitalista in America del Nord come nella multinazionale Europa,
nonostante le ricorrenti crisi finanziarie ed economiche, non è una delle culture in America e in
Occidente, è la cultura, la tradizione che ha fatto la nazione (Huntington), ed è anche da noi il
discorso egemone a cui ogni altro discorso non può che essere subalterno. In questo tipo di contesto
ogni tendenza centrifuga, è relativista, se non nichilista, e in questo, a noi pare, la prospettiva di
Alan Bloom si oppone al multiculturalismo nel nome degli stessi grandi valori e della filosofia della
storia che sono sottesi a tutta la ricerca di Huntington. In fondo per Alan Bloom, così come per
Huntington, come del resto, andando all’opposto dello spettro ideologico d’Occidente, per Jameson,
o perfino per Said, la cultura occidentale è il quadro di riferimento nel quale costruire qualsiasi
discorso per un verso o per il verso esattamente contrario, e la ratio di ognuno di questi
discorsi, il metro di giudizio è ancora quello critico nato con l’Illuminismo. Non è questa, del
resto, anche la prospettiva di un pensatore certo non di sinistra, come Alain Finkelkraut ne La
défaite de la pensée (1987)? Non tutto il canone occidentale tradizionale ovviamente testimonia di
quei valori, ma quei valori sono testimoniati dal modo in cui esso è percepito come storia che vi
costruisce, nella filosofia della storia che lo sottende.
Non c’è propriamente un canone nazionale, ma certamente c’è un canone globale, in
realtà occidentale, nelle scienze, nella musica, nelle arti figurative. C’è in modo però più
dialettico, conflittuale in letteratura, perché, forse fra tutte queste cose, la letteratura ha avuto
forse la maggiore forza identitaria, perché è in lingua, e una lingua che veicola valori, quei
valori su cui si fonda l’ethos, si caratterizza l’ethnos su cui si fonda l’identità. E l’identità
occidentale, americana, latino-americana, nella comune radice europea, che a sua volta affonda
nella classicità greco romana come nel canone ebraico-cristiano, è comunque frammentata dalle
questioni etniche. Si tratta di chiedersi, allora, se il diffondersi dell’inglese come lingua franca, se la
necessità di parlare inglese per le comunicazioni internazionali non definisca, con una nuova forma
di analfabetismo, già, anche delle condizioni di discriminazione linguistica, come è probabile che
sia; e si tratta anche di chiedersi se l’inglese, anche lingua franca, vuota di contenuti, non veicoli
comunque, di per sé, i valori WASP che anche l’Europa ha fatto suoi, l’etica disperata del lavoro,
l’idea del mondo come mercato globale, l’idea americana di democrazia connessa alle sue radici
puritane, da una parte, e alla sua etica protestante (Weber, 1904, 1906; Sombart, 1913, Tawny,
1923); se, insomma, insieme all’inglese, non si stia diffondendo anche una visione del mondo e
del chi siamo, connessa al trionfo dell’ideologia borghese e democratica, americana; se lo
stesso multiculturalismo non sia strettamente connesso a certi esiti, tuttavia oggi in serio
pericolo, dell’ideologia borghese maturata tra Otto e estremo Novecento. Se, insomma, la
stessa crisi del canone, nel moltiplicarsi delle istanze identitarie, etniche e sessuali, ma non più di
classe né di differenza sociale, cosa questa macroscopicante bizzarra, dato che il vero problema a
noi pare stare comunque nelle differenze di classe e di casta, e di censo, se la stessa crisi del canone,
dicevamo, non stia all’interno, non fuori, come istanza esplosiva, ma dentro come istanza
ricostitutiva e difensiva dell’ideologia capitalista, o neo capitalista nella tarda modernità. Scrive
Huntington che il problema è il moltiplicarsi di queste istanze, la messa in crisi dell’inglese, e della
cultura che esso veicola come paradossale nuovo tratto fondante di una nuova identità che aggreghi,
tuttavia nel mantenimento delle differenze, le diverse etnie che compongono la popolazione
americana (Cf. Who are We? cap. 1, La crisi dell’identità nazionale, e tutta la parte quarta:
Rinnovare l’identità. Huntington mostra, statistiche alla mano come le politiche bilinguistiche siano
state a più riprese bocciate da numerosi referendum, cfr. p. 201). Naturalmente si dovrebbe dire che
il tratto culturale unitario WASP non è esattamente quello che più si presta a logiche multiculturali
paritarie. In quel discorso, totalizzante, ogni altro discorso, ogni altra cultura e differenza è solo
minoritaria e può essere accettata solo attraverso un negoziato in cui il discorso minoritario, altro,
rimanga comunque subalterno, rispetto ai valori fondanti.
Il canone letterario è stato uno degli strumenti scolastici di formazione dell’identità, non
l’unico certo, ma certo importante nell’epoca della scolarizzazione di massa e della scolarizzazione
obbligata. La letteratura del resto, dall’antica Roma, anzi da Omero a noi, ha avuto spesso in
modo esplicito la funzione di formazione di modelli linguistici e culturali per la koiné, la
comunità dei parlanti e anche dei meno-parlanti, o degli altro-parlanti, destinati a parlare, e a
scrivere, spesso con l’handicap del suono “barbaro”, “altro”, en petit nègre, come si dice in francese
in modo politicamente certo poco corretto, nella lingua-cultura unica.
Ovviamente i mutamenti e i rivolgimenti politici hanno a che fare in modo diretto con le
variazioni del canone. Un esempio, naturalmente è quello della letteratura russa. Dopo il 1989 e la
caduta del muro di Berlino, anzi dopo il fallito putsch militare del 1991 che pone di fatto fine
all’esperienza del socialismo reale, e dell’Unione sovietica, tutto il canone definito politicamente
per strategia egemonico culturale dal vecchio regime è sottoposto a rapida revisione, sulla base di
un altro sistema di valutazione di ciò che meglio esprime l’anima russa, o comunque le esigenze
dell’epoca postmoderna (Garzaniti 2005).
Huntington dimentica la letteratura, ma nella questione dell’educazione linguistica che egli
pone, la questione della letteratura è implicita. Del resto se non ne parla Huntington, come si diceva,
ne parla Harold Bloom in The Western Canon (1995). Ora è evidente che, nel canone
comparatistico, il canone occidentale di Harold Bloom sia contemplato da un punto di vista angloamericano. Ciò non può stupire: se il libro fosse stato fatto in Italia da un italiano la prospettiva
sarebbe stata diversa e anche la scelta degli Auctores caratterizzanti, diversa, e certo diversa sarebbe
stata la prospettiva anche in Francia, o in Germania, o in Russia, o in Spagna perché è chiaro che il
canone occidentale non è un’entità oggettiva, e varia a seconda del luogo, dell’ethnos e dunque
anche dell’ethos. Harold Bloom pone Shakespeare al centro del canone occidentale, non pone
Dante, il cui apporto è definito, già in indice, «singolare». Ed è Chaucer a testimoniare nel canone
di Bloom, l’ emergere della classe media, mentre Boccaccio è relegato in secondo piano, come
reference book. Petrarca non c’è, non c’è in indice, come landmark e punto di orientamento, anche
se ovviamente è nel background, ma il canone petrarchesco nella cultura aristocratica europea è
fondamentale ed è davvero di capillare diffusione paneuropea. Nell’era aristocratica, Harold Bloom
inserisce Cervantes, Montaigne e Molière, e dunque Milton, ancora Shakespeare e poi Samuel
Johnson – che mai a un italiano né a un francese né a uno studioso tedesco sarebbe venuto in mente
di considerare comparativamente curriculare a questo livello. Alla fine dell’era aristocratica, giunge
Goethe a sigillarla con l’epica borghese di Wilhelm Meisters Lehrjarhe.
Si capisce subito che non si tratta del canone di allora, ma di ora, e di un canone
occidentale angloamericano, non stilato da una qualsiasi altra sponda dell’Atlantico, certo
non il tipo di canone che andrebbe bene a qualsiasi studioso italiano, o francese, o tedesco, o
spagnolo. Allora, nell’era aristocratica, come dice del resto anche Harold Bloom, il canone
anglosassone, Chaucer, Shakespeare e Milton compresi, era meno rilevante. Molto rilevanti, di
contro, anche in Inghilterra autori italiani divenuti là canonici, come Petrarca, Ariosto, Tasso,
Castiglione, Pietro Aretino, Machiavelli, Stefano Guazzo, Della Casa. Ariosto viene citato due volte
da Bloom, Tasso mai, né mai vengono citati Aretino, Machiavelli, Guazzo, della Casa. Petrarca, la
cui fortuna europea, la cui canonicità all’interno del canone aristocratico è indubbia, tanto da
doversi chiedere se non sia per caso Petrarca e non Shakespeare al centro del canone aristocratico,
occupa sì un suo spazio nel canone di Bloom, ma certo non proporzionale alla sua fortuna Europea
tra Cinque e Settecento. Del resto, nel Cinquecento, Carlo V diceva che parlava in spagnolo con
Dio, in italiano con le donne, in francese con gli uomini, in tedesco con i cavalli; in inglese, Carlo
V, dato anche che l’Inghilterra non era parte dei suoi domini, non parlava proprio con nessuno e, in
realtà, fino all’inizio del Settecento non si può dire che la cultura inglese esercitasse la pressione
egemonica che inizia a esercitare con l’Illuminismo.
Il problema, centrale dal punto di vista di storia del canone occidentale, è quello del
succedersi, per varie cause, sinergie, o semplicemente forze inerziali, delle egemonie culturali
e linguistiche, che Harold Bloom non pone e nemmeno intende porre. Ma il termine egemonia
è proprio quello che ci permette di capire ciò di cui stiamo trattando. Nel canone aristocratico
europeo, per esempio, c’è un lungo periodo – tra Trecento e Seicento - di egemonia culturale
italiana, e dell’italiano, seguito da un periodo di egemonia della cultura francese del Seicento e del
Settecento, l’Académie, les bienséances, il grande teatro regolare francese di quegli anni Corneille,
Molière, Racine, ma fino agli idéologues, a Voltaire, a Rousseau. Les bienséances dell’Académie
hanno assai rilevanza in Inghilterra alla fine del Seicento, nel periodo della restaurazione
postcromwelliana, così come in Italia, in Austria con la tragedia, la tragicommedia eroica, il
melodramma – i libretti di Metastasio per esempio – su cui si cantavano in Austria – e in tutta
Europa - in italiano libretti scritti alla maniera francese, su musiche di italiani, tedeschi, austriaci.
Ci si deve poi chiedere se Bloom sappia che, oltre a Goethe c’è un Settecento tedesco
importante per il resto d’Europa e da cui parte il Romanticismo, e del quale Bloom non tiene
minimamente conto. In realtà a Bloom non interessa esattamente la restituzione della verità
storica, diciamo. Quello che gli interessa è una prospettiva di filosofia della storia, non molto
diversa da quella di Huntington, sulla base della quale disporre i suoi materiali, altri escludendone, e
che, in ogni caso, si sviluppi come preparazione all’avvento della democrazia, che è ovviamente
quella americana, e verso l’età democratica che è interamente anglosassone: Wordsworth e Austen,
e Whitman, certo – il bardo democratico, come centro dell’era democratica e del canone americano,
o meglio al centro del canone tout court, del canone unico e globalizzato, insieme alla lingua in cui
si esprime. Poi Dickinson (che, caso mai è nel canone novecentesco, visto che nell’Ottocento non la
si conosceva), e poi Dickens (Casa desolata? E perché?) e George Eliot (e perché?) – perché non
Thackeray? Perché non Emily Brontë…, o Charlotte Brontë? Sempre per rimanere in ambito
inglese. E infine, come bizzarro rappresentante dell’era democratica Bloom nomina Tolstoj che, in
linea di massima, parla di aristocratici, e di crisi dell’aristocrazia, essendo lui stesso un aristocratico.
Dopo Ibsen, il diluvio, evidentemente, l’Età del caos (parte IV: Freud, Joyce, Proust, Woolf, Kafka,
Borges, Neruda, Pessoa – “il Whitman lusitano” come lo chiama Harold Bloom-, Beckett, Joyce.. e
su tutti ancora e sempre al centro, Shakespeare.
Così noi in questo canone occidentale di Harold Bloom certo non possiamo riconoscerci più di
quanto potrebbe un francese o un tedesco, o uno spagnolo, né possiamo riconoscere la nostra
memoria culturale, o se sì solo in modo scentrato, come per la deformazione indotta da un prisma.
Forse – verrebbe da dire - non bisogna esagerare l’importanza dell’elaborazione di Harold Bloom.
Dopotutto si tratta di un canone occidentale per undergraduates americani, e in questa chiave tutto
si spiega e non ci si pongono problemi irrilevanti. Comunque sia si tratta di un canone retrodatato, e
già sotto aggressione nel momento stesso in cui, nel 1994, viene enunciato. Il canone parrebbe non
aver molto resistito nell’America delle emergenze etniche, di gender, postcoloniali ecc., e insomma
della spinta multiculturale, ma spesso abbiamo l’impressione che, in fondo, il canone letterario
occidentale in America, tanto meno in Europa, sia tutt’altro che finito. Forse è inutile dire che i
diversi canoni nazionali in Europa, in Francia, come in Italia e in Germania, o in Spagna hanno
avuto ben poco turbamento dalla culture war sul canone, e caso mai solo attraverso il percorso di
emancipazione delle donne che è un buon punto di riferimento e che ci fa capire come, in ogni caso,
non sia mai una questione ristrettamente nazionale, ma come il problema venga posto globalmente.
Si pensi per esempio a una enciclopedia della letteratura femminile come Women’s Literature A-Z
diretta da Claire Buck, uscita nel 1992, e in paperback nel 1994 ma che ancora continua a far testo e
nella quale figurano donne di ogni epoca e di ogni paese da Malak ‘Abdel ‘Aziz, la poetessa
egiziana autrice di Canti di gioventù, Said della sera, Mar del Silenzio, Toccare il cuore delle cose e
ha come seconda voce «Aboriginal Women’s poetry in Australia», e come terza «Aboriginal
Women’s writers in Australia», e allinea poi scrittrici e poetesse di ogni parte del mondo.
Corrisponde a questa all-inclusiveness anche l’altro dizionario della letteratura in lingua inglese del
1983 (A Guide to Twentieth Century Literature in English, diretta da Blamires, 1983) le cui voci si
riferiscono ad autori inglesi, irlandesi, scozzesi, australiani, neozelandesi, canadesi, caraibici,
gambiani, ghanesi, indiani, irlandesi, kenioti, neozelandesi, nigeriani, pakistani, sud-Africani,
cingalesi, ugandesi, somali. Vi sono nomi diventati canonici non solo nelle letterature di lingua
inglese, ma nello stesso canone occidentale, come quelli di Jean Rhys, l’autrice di Wide Sargasso
Sea (1966) una riscrittura in chiave femminile ed etnica di un classico della letteratura vittoriana
come Jane Eyre di Charlotte Brontë), il poeta nobel Derek Walcott (di Santa Lucia nei Carabi) i
nigeriani Chinua Achebe (Things fall Apart, 1958), Wole Soynka (Death and the King’s Horsemen,
1975, Ogun Abibiman, 1976, Aké, the Years of Chilhood, 1981) Amos Tutuola (The Palm Wine
Drunkard, 1952; My Lfe in the Bush of Ghosts, 1954, The Witch Herbalist of the Remote Town,
1981), o Bessie Head (South-Africa -The Collector of Treasures, 1977). Tutti questi libri se non
canonici nel senso più stretto sono divenuti comunque canonici negli studi postcoloniali europei o
euroamericani. Canonico sicuramente è divenuto, per un qualche verso, anche un classico di queste
letteratura dell’ibridazione, il Salman Rushdie dei Versetti satanici così come di Midnight’s
Children (1981). E forse non è del tutto inutile notare che Vidiadhar Surajprasad Naipaul, lo
scrittore di A House for Mr Biswas (1959), Mr Stone and the Knights Companion (1963), A Bend in
the River (1979) The Enigma of Arrival è amato dai conservatori che vedono in lui un difensore
della causa universale (occidentale), ed è considerato dai radicali un traditore; Rushdie è apprezzato
in Occidente come difensore della democrazia, ma certo meno in Asia, fatwah lanciata da Komeini,
a parte, per questa stessa ragione. Come che sia sono tutti testi che entrano nel canone postmoderno
e postcoloniale come Suburbia (1990), The Black Album (1995), Intimacy (1998) di Hanif Kureishi,
e o se si vuole più di recente, Khaled Hosseini, lo scrittore Afgano (in inglese), autore di Kite
Runner (2003), e A Thousand Splendid Suns (2007).
Del resto basta controllare sommariamante una lista dei vincitori dell’importante Booker
Prize: vi si trovano spesso nelle liste dei finalisti Achebe, V. S. Naipaul, Rushdie. Coetzee, lo
scrittore sudafricano, poi emigrato negli Stati Uniti e in Australia vince due volte (Life and Times of
Michael K., 1983; Disgrace, 1999), Rushdie vince una volta (Midnight’s Children), ma è tre volte
finalista, V. S. Naipaul, del resto collezionista di altri premi, vince il Booker Prize una volta, come
la scrittrice canadese femminista Margaret Atwood. Tutti questi autori sono divenuti canonici nel
postmoderno; ciò che testimonia forse del potere delle case editrici, ma soprattutto, a nostro modo
di vedere di una mood culturale che a suo modo procede a canonizzazioni alternative, e che
comunque mette con forza questi libri sul mercato occidentale. Anche per il premio Pulitzer,
importante in America quanto il Booker Prize, troviamo nel 1983 come vincitrice la Alice Walker
di The Color Purple (1982), nel 1987 vincono il play Fences di August Wilson, Thomas and
Beulah (poesia) di Rita Dove, nel 1988 Toni Morrison con Beloved, tutti scrittori afro-americani.
Premi a parte, continua comunque ad esserci, con qualche nuovo inserimento, e qualche
affondamento nell’oblio, un canone occidentale variabile localmente, a seconda cioè dei canoni
nazionali e di ciò che in essi si ritiene classico, sicché dunque la temuta, o desiderata frana del
canone occidentale, o dei vari canoni nazionali, o addirittura la loro vaporizzazione, sicuramente
non c’è stata. Sicuramente c’è stata invece una proliferazione di canoni, per così dire paralleli, o di
resistenza, o alternativi, negli studi interculturali seconda un’opposizione di criteri di giudizio. Il
canone occidentale allinea una serie di monumenti classici (T. S. Eliot, Tradition and Individual
Talent, 1920) con discrete variazione epocali che non pongono in dubbio la centralità di Dante,
Shakespeare, Ariosto, Cervantes, Lope de Vega, Goethe, Stendhal, Hugo, Flaubert, Tolstoj,
Dostoevskij, Kafka nella memoria culturale dell’Occidente sulla base del loro valore letterario
(estetico); a questo valore negli studi culturali, o interculturali si oppone il valore invece culturale e
identitario con riferimento a gruppi o a classi di soggetti, e con l’idea che ogni giudizio di valore
estetico è ideologico e di fatto è riconducibile a strategie di egemonia culturale in una forma di
totale relativismo nel quale possono dunque emergere le voci sepolte dalla storia, le voci
ammutolite, tacitate, represse. L’azione anticanonica, o per usare in modo ampliato un termine
inventato da Said, l’azione di resistenza letteraria, può anche assumere i connotati di una
mera opera di negazione, ma le modalità di intervento sul canone sono anche di diverso tenore
e diversa strategia: 1) negazione del valore ‘culturale’ di un classico sulla base dell’ideologia
che esprime (così Hemingway che esprime valori ‘virili’ eroici e di conflitto certo non è amato
dalla critica femminista, e Kipling, che esprime pienamente l’ideologia dell’imperialismo
euroamericano alla chiusa dell’Ottocento, primo Novecento, certamente viene espulso dal canone
antimperialista, o usato come exemplum negativo); 2) uso di un classico attraverso la sua
riscrittura che ne piega le ragioni ideologiche a nuove tesi, come le riscritture postmoderne,
spesso parodie, spesso di segno valore mutato: le riscritture de La tempesta di Shakespeare sono
forse il caso più ovvio nel campo degli studi postcoloniali (a partire da Aymé Césaire, Une
Tempête, 1968,) l’ultima parte di un trittico su La tragédie de la colonization, la cui prima parte
riscrive lo shakespeariano King Lear in La tragédie du roi Christophe, 1964, e Rimbaud in Une
saison au Congo, 1966), ma vogliamo ricordare anche Opera Wanyosi (rappr. 1977, pubbl. nel1981
di Soynka, riscrittura della settecentesca Opera del mendicante di John Gay e della Dreigroschen
Opera di Brecht tratta dall’opera di Gay. 3) Scoperta di nuovi soggetti esclusi dal canone dei
classici (donne, gay, minoranze etniche la cui opera viene rivalutata sulla base di una
prospettiva diversa da quella imperialista, eteromaschiocentrico, patriarcale ecc.). Questi
nuovi soggetti possono rivelarsi compatibili con il canone tradizionale, o con esso del tutto
incompatibili, sulla base di giudizi di valore letterario, laddove sulla base del loro valore culturale
essi possono assumere piena dignità, se non di classici, il termine viene ovviamente evitato negli
studi culturali, di testimoni importanti di identità, di parti della memoria culturale rimosse dal
canone, dalla storia ufficiale.
Nel moltiplicarsi delle identità che non si tacitano, ma emergono, Huntington dice che la
soluzione non è quella di rinunciare a un fondamento comune, ma quella invece di arroccarsi
nell’impegno comune per il mantenimento del credo americano (cf. 9). In quella filosofia della
storia, in quel declinare di tutto verso l’età democratica, sta non solo il senso del canone occidentale
di Harold Bloom, sta il credo americano, nelle sue origini bianche, anglosassoni e protestanti.
L’America dice Huntington è spesso bilingue, e dunque almeno biculturale, anglo-ispanica, ma
questa non è un’istanza percorribile, e insomma si tratta di convenire sull’opportunità in fondo di
un’intesa su un fondamento comune, in inglese, certo, con ciò che la lingua veicola, e dunque con la
memoria culturale di quella lingua.
Può offrire un utile confronto con la situazione attuale il Manuale comparativo delle
letterature straniere corredato di esempi, con speciale riguardo alle genti ariane, a cura di Guido
Mazzoni e Paolo Emilio Pavolini, pubblicato da Barbera a Firenze nel 1915. Il testo (scolastico)
parte da degli specchietti: prospetto generale delle lingue ariane e loro genealogia, e prospetto delle
lingue semitiche, ci accorgiamo che ci troviamo di fronte a ciò che si intendeva per Weltliteratur,
eurocentrica, per certi versi, e ovviamente, ma attenta anche ad altre espressioni letterarie (ad
esclusione tuttavia delle lingue orientali). Ci sono Chaucer, Shakespeare, Milton, ma ci sono anche
le cose che Harold Bloom relega sullo sfondo e che per noi non lo sono affatto, come per esempio
Petrarca; c’è Walter Scott, che Bloom trascura, c’è Whitman, ma nel complesso la presenza angloamericana è limitata. Se consideriamo The March of Literature di Ford Madox Ford, (1938),
abbiamo una prospettiva comparatistica assai più ampia, e di tipo, in genere, anglo-francese. I
grandi italiani o spagnoli ci sono, ma a partire dal Sei- Settecento, ovviamente, con l’appassire delle
rispettive egemonia culturali, le espressioni letterarie spagnole e italiane, con qualche eccezione,
quasi non esistono.
Mi stupisce, per esempio, che T. S. Eliot, di cui pure molto si parla nel libro di Harold
Bloom, non vi abbia tuttavia il ruolo centrale che ci si aspetterebbe e non appaia in indice come
punto di riferimento essenziale nemmeno nell’«Età del Caos», dato che The Waste Land ne sarebbe
stata l’epitome. E ancora, a noi pare che la Bibbia non sia solo un fluido che scorre nelle vene
dell’intera cultura occidentale, la Bibbia - a partire dalla sue traduzioni protestanti: Wycliff, Lutero,
Calvino, Diodati, e ovviamente, la Bibbia di re Giacomo - diventa un libro europeo, e anzi legato
all’identità religiosa, alle tradizioni nazionali, alla memoria culturale delle nazioni, una stessa,.
Cristiana, eppure, come sappiamo, diversa.
Il canone, insomma, essendo uno spettro stratificato di identità, ethos e luogo, viene
organizzato a seconda delle identità che si intende esso venga a rispecchiare, o a formare. Il canone
Americano, come si diceva, nella generale crisi identitaria, e nella frammentazione delle istanze
identitarie si è esso stesso frantumato, e si è moltiplicato: c’è un canone per i women’s studies, per
gli studi gay, gli studi lesbici, ci sono canoni con il trattino – afro-americano, italo-americano,
ispano-americano, cino-americano -, intendiamo con questo non canoni della tradizione dei paesi
d’origine, ma i canoni invece formatisi in America, o là definiti e variati. La cultura angloamericana si dà sempre più come panorama multiculturale, da una parte, e dall’altra in tutte quelle
differenze afferma l’identità forte e WASP in ciò che conta, e l’afferma attraverso la lingua unica.
In Europa certamente resistono le culture tradizionali: resiste il canone francese,
durissimamente e resiste anche il canone italiano, resiste il canone tedesco, indubbiamente resiste il
canone spagnolo, resiste anche il canone inglese – questi ultimi due, tuttavia, con una maggiore
componente di nuove entries di autori canonizzati dell’America latina e dell’ex impero britannico.
Come si diceva, nelle antologie letterarie prodotte in Italia, per le scuole superiori, la
presenza di altre letterature nazionali occupa degli spazi, per così dire, in appendice ai vari capitoli a
correnti, ed epoche culturali. Poiché è dato per assodato, almeno formalmente, che nulla si può
veramente capire di una cultura nazionale se non in rapporto ad altre culture geograficamente o
storicamente e culturalmente contigue, o con le quali c’è stata frequentazione culturale, alternarsi di
periodi d’egemonia continentale (Italia, Francia, Inghilterra, Spagna, Germania). Del resto è chiaro
che Shakespeare poco si capisce senza capire l’Italia rinascimentale, e, più in genere tutto il canone
dei classici, i modelli, e poco si capisce Manzoni se non nel contesto di un discorso transnazionale
sul romanzo storico all’inizio dell’Ottocento. Se, insomma, da una parte, la tenuta del canone molto
dipende dalla concezione che si ha, se se ne ha, del multiculturalismo, o dell’interculturalismo, e
dalle distanze che si prendono dal melting plot per avvicinarsi all’idea di mosaico di diversità e
differenze, in paesi non più monolingue e non più monoculturali, dall’altra parte ciò che in realtà
accade è che i canoni nazionali in Europa continuano a resistere, sia nell’insegnamento dei classici
nazionali anche se sempre più in rapporto con una fitta rete di riferimenti transnazionali, che nella
proposizione di modelli a cui gli scrittori possano fare riferimento per riconoscersi nella propria
tradizione, e identificarsi con la propria memoria culturale, ma che, come si è visto, coinvolgono
spesso anche l’altro, lo straniero, il dominato, che ritrova in quei modelli una sua possibilità di
discorso ibridato e di ‘resistenza’.
L’enunciazione canonica di Harold Bloom si vuole ovviamente connettere all’enunciazione
di un’identità globale dell’Occidente. Quella enunciazione è legata all’egemonia della cultura
anglo-americana a partire almeno dal Settecento, e sempre più pronunciata e forte fino ai giorni
nostri, e tanto più forte e pronunciata tanto più apparentemente messa in crisi dalle logiche
postmoderne del tardo capitalismo. La cultura che si esprime nell’inglese che, è questo il punto, si
dà come lingua franca globale in cui trovano spazio quelle istanze per essere globalizzate come
frammentazione indotta dalle logiche tardo-capitaliste di cui parla Jameson, nelle quali non solo si
frantuma prima ancora di formarsi un fronte comune, ma tutto può essere inglobato e, come dire,
anglicizzato. Persino la Bibbia non è più tanto un testo ebraico, almeno nel canone di Bloom, è
un testo nell’inglese di re Giacomo, e Dante stesso che entra nel canone vi si trasforma in un
autore del mondo anglosassone, così come può capitare del resto a Plutarco, a Petronio, come
a Castiglione, Ariosto, Tasso nelle memorabili traduzioni rinascimentali che fanno di quelle
opere parte integrante della memoria culturale d’Europa, certo, ma anche della stessa
Inghilterra. Ma non è solo, o non soltanto questione dei vecchi e grandi libri, è anche
questione delle nuove scritture ibridate con l’inglese. Nelle logiche dell’egemonia non c’è solo
l’espansione; il dominio si esplica anche, o soprattutto, attraverso l’appropriazione,
l’appropriazione dei libri dell’altro nei termini della cultura che se ne appropria. Si può studiare il
canone europeo, oppure occidentale, muovendo dal senso di provvisorietà che ne perturba l’idea
stessa, e solleva al tempo stesso, forti resistenze culturali e volontà di conservazione. Il punto è che
è inscritto nel canone non solo un’identità storicamente stratificata, ma anche quella di una
“comunità immaginata”, sempre in formazione e mutamento, secondo la definizione di
Benedict Anderson (1991; Ascari, 2005). C’è tuttavia da chiedersi se quelle comunità interculturali
non siano già ‘immaginate’ come utopia nell’immaginario imperiale e globale, e tardo capitalista
per tornare a Jameson, e previste, e promosse nell’immaginario, ancora borghese, bianco,
anglosassone e protestante, e democratico in quello stretto senso del termine. Se, in altri termini,
come dicevamo all’inizio a proposito di Spivak, il problema non sia davvero cercare altri nomi per
le cose.
Ma, in fondo, il punto è che la nostra identità culturale stessa, quella autoctona, come
quella acquisita, è nel canone, in quelle parole, in quei nomi, in quella idea di bellezza, in
quella nostalgia di memoria, nei suoni della lingua della madre, certo, ma anche nella lingua
d’esilio ed esiliante nel momento stesso in cui si pronuncia. Nella natura stessa del canone, è
inscritto il mutare, l’ibridarsi, perché poi dopotutto, siamo tutti meticci, e meticci sono i nostri
libri. Ed è dunque in questa consapevolezza che si tratta di operare, e rinominare anche il già
nominato, ridefinire confini, mappature, vie di attraversamento. Si tratta di sapere che la lingue
stesse che usiamo pongono limiti, confini, esilii, discriminazioni, portano visioni del mondo in
cui ci si può trovare, senza nemmeno saperlo, intrappolati. Il canone suggerisce una qualche
dimensione monumentale e mortuaria, poiché è poco soggetto al tempo e alla mutevolezza delle
cose anche se a al tempo e alla mutevolezza delle cose porta testimonianza. Tuttavia esso è capace,
è sempre stato capace di mutare con la storia, moltiplicarsi, entrare in comparazione, e può
anch’esso, quale che ne sia il grado di rigidità e purezza ‘immaginato’ dalle posizioni più
conservatrici, testimoniare di antiche ibridazioni, e mutazioni. Tutto questo certo non basta,
perché certo non basta più la letteratura. Si tratta di affrontare comparativamente anche altri
linguaggi, visivi, uditivi, di potenza inaudita nella creazione di consenso. Si tratta di fondare una
nuova critica delle rappresentazioni e considerare, seguendo il Michel Foucault di Nietzsche,
l’idéologie l’histoire, il nuovo lavoro storico, o semplicemente il buon lavoro storico come il
lavoro di scavo e scoperta di chi vede la storia stessa come carnevale, la storia della cultura
come carnevale e come smascheramento al tempo stesso.
Il canone, la nostra memoria culturale va preservata, prestando tuttavia attenzione al suo
potenziale d’alienazione: la sfilata delle maschere ci attrae, ci diverte, ci commuove, ci riporta le
storie, i modelli che noi sentiamo fare parte di quello che siamo stati, e siamo diventati,
diventeremo, facendo attenzione al pericolo che sta nelle maschere stesse, al loro potere ideologico
che è come un sottile, spesso impercettibile veleno dell’intelligenza. Si tratta di percepire, di
riuscire a percepire il canone, in ogni caso, come prodotto di potere, in cui il potere si
manifesta, per ragioni autocelebrative, per esigenze di controllo, per esigenze di formazione di
consenso, come potere di controllo sulle rappresentazioni, e che agisce non solo e non tanto
dall’esterno, ma all’interno del soggetto, del suo percorso di formazione, della sua identità
stessa, perché avere potere sulle rappresentazioni significa avere potere sui meccanismi di
formazione dell’identità, personale e collettiva, il potere dunque di plasmare la storia.
Nota Hobsbawm in The Age of Extremes, al quale dunque torniamo (capitolo diciassette, la
morte delle avanguardie) come alla chiusa del secolo ventesimo, in Europa fosse già chiaro come
l’Europa (occidentale) non fosse più il luogo delle high arts. Hobsbawm, naturalmente, non
considera la fondamentale unitarietà di America, Americhe e tradizione europea, e insiste dunque su
New York che diviene il luogo delle arti visive (almeno nel momento della Pop Art, certo, e anche
dell’Iperrealismo), sul fatto che il cinema è in molta parte americano, sul fatto che il romanzo latino
americano, la letteratura latino americana a partire dagli anni Settanta occupa uno spazio di enorme
rilevanza. Ma non ci sono solo le Americhe, in realtà, il problema non è quello che la grande arte
europea ha ceduto il passo ad altri continenti; il problema vero sono le altre memorie e tradizioni
culturali, e i fenomeni di ibridazione: il cinema di Kurosawa, il cinema indiano. Nel 1986 il
nigeriano Wole Soynka, ebbe il nobel; ai giorni nostri il cinema cinese, il che sta a dire la
cultura cinese, come l’economia cinese, occupa spazi sempre più rilevanti. Il problema è
dunque che non solo il canone europeo e non solo in letteratura è sotto aggressione epocale, è,
invece, come del resto non poteva non essere, il canone occidentale delle high arts nel suo
complesso ad essere posto in questione. Ci si deve domandare oggi, dunque, se l’arte
occidentale, non parli un linguaggio obsolescente, e capace di sopravvivere solo attraverso la
propria ripetizione, le parodie, le riscritture, o, come nel caso dell’opera lirica,
sostanzialmente attraverso le esecuzioni di un canone ormai fissato, e di fatto, nella sua
vitalità produttiva esaurito. Il canone delle lingue morte (Latino e Greco) è ovviamente finito,
anche se, in un canone occidentale i grandi tragici greci, o i commediografi latini, o Omero,
Eschilo, Sofocle, Euripide, oppure, Orazio, Virgilio, Lucrezio, Tacito certo non possono non
esserci, come non può non essercela Bibbia, il cui canone, come ben si capisce, per quanto continui
a parlarci, è esaurito e fissato una volta per tutte. Il grande momento delle high arts come scultura e
pittura, del resto, pare a noi, pure sembra fissato e non più soggetto ad aggiunte, a new entries alla
pari con i grandi canonizzati del passato. Il canone dei ‘classici’ è la lista di quegli scrittori che
vengono letti in classe, a scuola, e fanno parte del bagaglio di memoria culturale sul quale riposa
l’identità collettiva dei soggetti, e la loro appartenenza a un gruppo in qualche modo d’élite, il
gruppo acculturato (Bourdieu), poiché la cultura è certamente un marker di classe sociale, di casta
d’appartenza, di gruppo, ed è un privilegio. Questo canone è sempre stato in movimento, con alcune
stelle fisse ed altre per così caduche, e nuove entries. Ma oggi, il concetto stesso di canone, da
una parte sembra vaporizzato, dall’altra parte offre una resistenza ostinata e si rifiuta di
essere messo da parte, resiste non solo per forza inerziale, perché corrisponde a ciò che
garantisce di avere una storia collettiva e dunque un’identità, e resiste in quelle nazioni
europee che più fortemente in base ai valori rappresentati dal canone hanno raccontato tutta
la propria storia, come variante della master fiction da cui si declina ogni finzione occidentale.
Così nel canone italiano si declina, si continua a declinare in modo ternario: Dante, Petrarca,
Boccaccio; Poliziano, Pulci, Boiardo; Machiavelli, Ariosto, Tasso; nel Seicento solo il Marino,
poco il Tassoni, ma si sa, il Seicento, il barocco è il periodo della decadenza italiana; nel Settecento,
L’Arcadia, soprattutto Metastasio e Parini; nell’Ottocento, con l’inizio del risorgimento nazionale,
ancora triadi: Foscolo, Manzoni, Leopardi (ma non, in genere, per esempio, Nievo, che certo non
può non esserci, ma rimane sullo sfondo, comunque ‘minore’ rispetto a tanta concorrenza);
Carducci (con una qualche tendenza a decadere dal canone), Pascoli, D’Annunzio, Capuana, De
Roberto, Verga; Marinetti e il futurismo, l’avanguardia, certo i crepuscolari: Gozzano, Corazzini,
Govoni, certamente Campana, e poi Ungaretti, Montale ( con Quasimodo decanonizzato; magari
Svevo, mentre sono caduti fuori dal canone Vittorini e Pavese e, ci parrebbe, per il momento anche
Moravia); certamente nel postmoderno Calvino, Pasolini, quindi Eco e il Nome della Rosa, oltre
parrebbe difficile andare anche se nei testi appaiono i gruppi e le esperienze della transavanguardia,
con i loro rapporti internazionali. Non diciamo che questo è il solo itinerario italiano possibile, il
solo programma possibile, ma con qualche modifica, qualche espunzione, questo rimane il canone
scolastico, dei classici, anche se ovviamente, nelle antologie del Novecento appaiono anche altri
nomi (Sereni, per esempio, o Saba, o Luzi). Che, accanto a, o al posto di questi nomi, a queste
letture (anche i testi sono canonizzati dai testi scolastici) ne possano figurare altri è probabile
e auspicabile, ma poche saranno comunque le donne (magari le petrarchiste tra quattro e
Cinque, più improbabilmente le arcadi nel Settecento; assai difficilmente scrittrici come
Sibilla Aleramo, Gianna Manzini, Anna Banti avranno spazio). In realtà, già così il canone
tanto si allunga da diventare difficilmente praticabile da un punto di vista didattico; che, di solito,
vi siano nei testi scolastici riquadri dedicati al romanzo europeo nel Settecento, nell’Ottocento
o all’avanguardia in Francia o in Germania va da sé; che questi riquadri poi vengano poco
frequentati, insegnati, quando non rimangano in genere lettera morta, è invece altamente
probabile. Mentre è possibile che dal canone dei minori (certamente ne esiste uno) vengano
ripescati per esempio De Amicis (Cuore) e Collodi (Pinocchio) e se qualche insegnante si avventura
a leggere, a insegnare De Roberto, insegnerà poi anche Tomasi di Lampedusa. Insomma il canone
scolastico dei classici, da leggere in classe, è tanto rigido nella sostanza da dare l’idea di essere
‘morto’ quanto l’opera lirica, e vivo solamente nella ripetizione. Nella ripetizione e nella
riscrittura del resto, come si diceva, il postmoderno recupera per intero la tradizione dandole
eventualmente altra valenza. La riscrittura dunque è una chiave interessante, poiché si tratta
esattamente di quelle esecuzioni del canone che lo rivitalizzano, magari attraverso la
leggerezza dell’ironia, o attraverso la parodia, rovesciandone il messaggio, o mostrando che
nel testo vi sono delle opacità attraverso cui si può accedere a una molteplicità di altri passati
rimossi. Sicché spesso l’anticanone, è ciò che rivitalizza il canone stesso. E spesso le scritture
esotiche, come quelle di, per fare un esempio, Salman Rushdie, o quelle di Malouf, o quelle di
Tahar Ben Jelloun, o di altri, sono scritture ibride, come del resto quella, assai consapevolmente
tale, di Gabriel Garcia Marquez. Nella letteratura italiana questo tipo di esperienza è forse già
iniziata, ma certamente non si è consumata, poiché poche sono ancora le voci (tantomeno quelle di
successo) dei migranti, o dei figli di migranti che scrivono in italiano, magari con diverso ‘accento’.
Ma torna al proposito, e nella prospettiva di un non improbabile futuro letterario delle patrie lettere,
quello che scrivono S. Rushdie and E. West (1997), i curatori del Vintage Book of Indian Writing:
1947-1997 (p. xiv-xv): «C’è crescente eccitazione nel mondo editoriale occidentale per le voci
emergenti dell’India […]. Comunque, almeno in Inghilterra, gli scrittori britannici sono spesso
castigati dai recensori per la loro mancanza di verve e di ambizioso stile indiano. E pare che
l’Oriente si stia imponendo all’Occidente, piuttosto che il contrario. Sì, l’inglese è il più potente dei
mezzi di comunicazione, e non dovremmo rallegrarci nel vedere la maestria di questi artisti nel
padroneggiarlo, e nel veder crescere la loro capacità di influire sugli altri? […] Una dimensione
letteraria importante è quella che la letteratura è un mezzo per conversare con il mondo intero.» E,
ancora: «Il realismo stendhaliano di Rohinton Mistry, il naturalismo più leggero, e più rapido
nell’affascinante prosa di Vikram Seth, l’eleganza con cui Upamanyu Chatterjee osserva il mondo
sociale, la maniera flamboyant di Vikram Chandra, il gusto per il gioco linguistico di I. Allan Sealy
and Shashi Tharoor, il tocco di favola in Mukul Kesavan.» (xxi, xxii). Ma quel realismo alla
Stendhal, quel naturalismo, quelle maniere flamboyantes molto suggeriscono quanto il canone
europeo continui a vivere anche in quelle scritture.
Si tratta di ricchezza e affermazione di diversità, di ibridazioni preziose da cui certo possono
nascere spettacolari fantastiche ed esotiche, arabesche, orientali crescite. Ma si tratta anche di una
radicale messa in questione del principium della cultura occidentale, il ruolo stesso della ragione
critica e dunque anche di una critica della ragione, o della razionalità pur sempre occidentale, e
interpretata come eurocentrismo. C’è, per esempio, in Amuta, come anche in Achebe (Things fall
Apart, 1958), o in Yambo Ouologuem (Le devoir de la violence, 1968), o in Bessie Head (The
Collector of Treasures, 1977) un rifiuto dell’approccio antropologico, sentito come razzista,
comunque coloniale. Si ha l’impressione che in questo rifiuto della razionalità occidentale, della
razionalità d’Europa, della ragione ‘libera’ e ‘liberatrice’, scettica e indagatrice, ma strumentale, ed
oeconomica, secondo la perdurante prospettiva illuminista e le logiche del capitalismo e
neocapitalismo, un rifiuto che ben possiamo comprendere, vi sia tuttavia un punto di conflitto non
facilmente risolvibile, e una distanza che certo non pare poter essere facilmente colmata.
Scrive Foucault di come l’archivio, certo l’archivio delle scritture, definisce la legge di
un contenitore che determina il dicibile lo scrivibile. L’archivio è il sistema che governa
l’apparire degli enunciati come eventi unici, monumenti, memorabilia di maggiore o minor
valore a seconda della intensità e dello spessore e della frequenza e del numero delle relazioni
mantenute come di quelle cancellate che ogni enunciato intrattiene con il sistema dell’archivio
nel suo insieme mutevole. Non si tratta semplicemente di un accumulo informe e amorfo, ma di un
sistema di relazioni che determinano, in un momento o nell’altro, valore e attualità. L’archivio non
è il canone letterario nel senso stretto del termine, anche se il canone fa parte dell’archivio e
intrattiene con l’archivio tutte quelle relazioni, mantenute, cancellate, ritrovate, ricordate,
obliate, riportate alla luce, o abbandonate che costituiscono la legge dell’archivio e ne definiscono
la gerarchia certo discretamente mutevole. L’archivio è l’immaginario culturale, l’insieme
virtualmente infinito delle tracce mnestiche, degli engrammi [Tracce mnemoniche che si
formano nel sistema nervoso in seguito all' esperienza e all'apprendimento] che costituiscono la
memoria culturale, la gerarchia che è anche una gerarchia di valori, certo mutevoli, nella
quale una comunità riconosce con la forma attraverso cui si rappresenta il tempo, la propria
identità come continuità attraverso discontinuità e fratture. Il canone europeo, da questo
punto di vista, è esattamente il senso del passato d’Europa e della sua identità che vi è
radicata. Il canone è uno strumento di potere, di formazione di consenso, certamente, e ciò
richiama la critica anche più corrosiva, parte anch’essa delle leggi connettive, di addizione,
combinazione, sottrazione, attraverso cui funziona l’archivio. Si tratta, per l’Europa,
evidentemente, di mettere insieme archivi spesso, se non per grandi linee, considerati come separati
e particolari. Ma se l’Europa vuole essere davvero qualcosa di più di un’entità mercantile e
monetaria, l’Europa degli interessi materiali, se vuole diventare una polis, e non rimanere uno
spazio geografico, deve avere una certezza sulla propria identità collettiva, e attivare dunque la
propria comune memoria culturale, comporre, mettere insieme il proprio comune archivio, farne un
reticolo che già percepiamo, ma solo per porzioni, per grandi linee. Ciò che ancora non basta.
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Mario Domenichelli [versione del testo con evidenziazione dei punti