Caltanissetta, 29 agosto 2015 Convegno Regionale Animatori Vocazionali “Ci prende in mezzo al popolo e ci invia al popolo” (E.G. 268) Quale pastorale vocazionale, per un annuncio di Misericordia e Gratitudine? Nico Dal Molin Direttore Ufficio Nazionale per la pastorale delle vocazioni – CEI C’è una sola parola, forse un po’ abusata, ma che brilla come una vecchia moneta: “Grazie!” (Pablo Neruda) 1. La pastorale vocazionale… sfida permanente per la Chiesa Parlare di pastorale vocazionale oggi, ma forse potremmo dire semplicemente, parlare di pastorale, significa imparare a leggere una realtà in un gioco continuo di “chiaro-scuri”, di luci e di ombre. Dovremmo anche noi riconoscere con verità che “accanto a situazioni difficili, che pur è necessario guardare con coraggio e verità, vanno registrati alcuni segnali di ripresa, soprattutto dove si formulano proposte chiare e forti di vita cristiana. (PVMS n. 2) Questa prospettiva di positività e di incoraggiamento è il “cantus firmus” che colloca la pastorale vocazionale in un orizzonte costante di sfide e di speranza. Richiamando la “magna charta” della PV, il documento “Nuove vocazioni per una nuova Europa”,1 dobbiamo continuare a ripeterci che l’obiettivo ultimo dell’annuncio del Vangelo della Vocazione, è la “crescita di una nuova cultura vocazionale”, che sola può essere il terreno fecondo in cui il Seminatore esce a seminare, senza incontrare né un terreno arido, né una strada pietrosa, né dei rovi spinosi che stritolano in una abbraccio di morte il seme, ma piuttosto un terreno buono, dove ogni vocazione può essere accolta, valorizzata e amata. A. L’icona dei “tre strani pellegrini” E’ il racconto di un viaggio compiuto da tre pellegrini un po’ particolari, che scrutano come astronomi i cieli e trovandovi un segno misterioso ed affascinante, partono dal lontano Oriente seguendo la luce di una stella, e giungono ad incontrare la debolezza e la fragilità di un piccolo 1 Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa (In verbo tuo), 1997 1 Bambino, nella lontana terra di Betlemme di Giuda: è “il viaggio dei magi”, così come ce lo propone l’evangelista Matteo in 2,1-12. C’è una suggestiva ed originale rielaborazione del poeta inglese Thomas Stearns Eliot, circa questa strana avventura dei tre pellegrini partiti dall’oriente.2 Quanta verità in questo viaggio dei “magi”: in essi è riflessa l’immagine dell’uomo inquieto che cerca, che si muove, che indaga per scoprire la gioia e la novità di cui il suo cuore ha bisogno. E’ il pellegrinaggio della vita, ma è anche il pellegrinaggio della fede: la fede non è solo sapere, perché anche i dottori della legge, riuniti a consulto nel palazzo di Erode, conoscono bene la profezia di Michea. Occorre partire e affrontare il disagio di quello che si lascia e l’incognita precarietà di una strada che non si conosce, spinti dal desiderio e dalla sete della verità. Tutto questo nel segno di una “stella luminosa”, che Dio pone lungo il cammino di ciascuno di noi: una persona, una testimonianza, un evento, una parola, una sofferenza e ciascuno può trovarsi, finalmente, a tu per tu con il volto di Dio. Quando ognuno di noi comincia il proprio viaggio, la mente è piena di attese e di sogni giovanili: vorremmo trovare pace e risposta ai dubbi e agli interrogativi che sempre ci portiamo dentro e ci assillano. Se cerchiamo con sforzo e tenacia, due sono i tesori che potremo raggiungere: la Verità e il Bene. Non è sempre facile ed immediato capire il senso di queste parole, ma con l’aiuto di qualche persona saggia e amante della vita, possiamo intravedere in esse realizzato anche il nostro immenso desiderio di Consapevolezza e Felicità. B. La fatica della scelta Vivere una scelta vocazionale, oggi, presuppone una dedizione che impegni tutta la vita in maniera stabile e radicale. Essa si snoda per tappe che non possono essere bruciate, né alcuna di esse può divenire l’ultima e la definitiva. Molte persone hanno oramai perso il senso della propria vita come appello e chiamata; non hanno in sé una progettualità che le porti a cercare, a trovare in quello che dicono e in quello che fanno il gusto dell'esistere. La mancanza dichiarata o tacita di una progettualità di vita, porta a forme di pura rassegnazione o di fatalismo pessimistico; di attività frenetica, disordinata, caotica che altro non è se non la compensazione di un vuoto interiore. Il nihilismo e il fatalismo sono sempre in agguato, come ospiti inquietanti. Uno scrittore assai rappresentativo di questo modo di pensare e di vivere è il romanziere austriaco Thomas Bernhard: per lui l’uomo è totalmente immerso nel freddo, nel gelo e nella nebbia. Siamo tutti come animali assiderati, intrappolati da un gelo onnipresente; nessuna verità esiste. 3 2 La rielaborazione di questo racconto è tratta da Thomas S. Eliot, Poesie: Ariel Poems, RCS – Corriere della Sera, Milano 2004, pp. 184-187. 3 Thomas Bernhard (Heerlen, 9 febbraio 1931 – Gmunden, 12 febbraio 1989) è stato uno scrittore, romanziere e drammaturgo austriaco, oltre che poeta e giornalista. È tra i massimi autori della letteratura contemporanea non solo di lingua tedesca. Cf la sua opera Il freddo. Una segregazione (Die Kälte. Eine Isolation), tr. Anna Ruchat (Milano: Adelphi, 1991). 2 Come non richiamare, quasi come antidoto, la simbologia stupenda delle lampade nuziali che illuminano la notte fonda in attesa dello Sposo, nella parabola del Vangelo delle 10 vergini (Mt 25,1-13)? “Quanto paurosa è la notte della vita, non squarciata dal bagliore di una lampada! E’ necessario avere con sé una riserva d’olio perché le nostre lampade risplendano. E’ necessario avere dentro di sé molto amore, per riscaldare le nostre notti fredde”. E’ questa la risposta che Francois Mauriac 4 dà all’uomo freddo e assiderato di Thomas Bernhard e che diviene la metafora più efficace della sfida al nihilismo. 2. Annunciatori forti e miti del Vangelo della Vocazione Se non siamo persone innamorate della nostra Vocazione, non saremo capaci di cogliere in profondità la bellezza e l’originalità di tutte le altre Vocazioni che, insieme, formano il patrimonio di ricchezza della Chiesa. Tutto ciò richiede una crescita interiore nella - Umiltà, come consapevolezza della propria povertà e del proprio limite che possono divenire risorsa di accoglienza. - Gratuità: per farci costantemente memoria che “tutto è grazia”. Nel “Diario di un curato di campagna” di Georges Bernanos, questo è la bellezza dell’epilogo finale.5 Il giovane parroco di Ambricourt si scopre malato di cancro. Morirà poco dopo, in casa di un ex compagno di seminario, prete spretato che ha abbandonato il sacerdozio. A lui chiede l'assoluzione finale dei suoi peccati. L'amico accondiscende, anche se non nasconde il suo turbamento per il fatto che il giovane parroco sia venuto a morire proprio nella sua casa di peccato. "Che cosa importa? Tutto è grazia", replica il sacerdote morente che scopre come l'itinerario della sua esistenza sia stato sempre guidato dalla Grazia. - Passione: come “full immersion” in un servizio di annuncio e di accompagnamento fondato sulla promessa che sia riassume nella straordinaria sintesi proposta da Fëdor M. Dostoevskij6: “Non la forza, ma la bellezza, quella vera, salverà il mondo.” Ci sono di aiuto le parole di Papa Benedetto XVI°: “Siate seminatori di fiducia e di speranza. E’ infatti profondo il senso di smarrimento che spesso vive la gioventù di oggi. Non di rado le parole umane sono prive di futuro e di prospettiva, prive anche di senso e di sapienza. Eppure, questa può essere l’ora di Dio!”7 4 François Charles Mauriac (Bordeaux, 11 ottobre 1885 – Parigi, 1º settembre 1970) fu uno scrittore e giornalista francese, premio Nobel per la letteratura nel 1952; vincitore del Grand Prix du Roman, fu anche membro dell'Académie française, giornalista e critico letterario per Le Figaro e decorato con la Legion d'onore. Per la citazione cf “Il fuoco sulla terra”, Logos («Biblioteca universale cristiana»), Roma 1989. 5 Georges Bernanos, scrittore francese, è nato a Parigi il 20 febbraio 1888 e morto a Neuilly-sur-Seine il 5 luglio 1948. Diario di un curato di campagna è un romanzo da lui scritto nel 1936 e pubblicato nella collana Oscar Mondadori, Milano 2002. 6 Fëdor Michajlovič Dostoevskij, (Mosca, 30 Ottobre 1821 – San Pietroburgo, 28 gennaio 1881), è stato uno scrittore e filosofo russo. È considerato uno dei più grandi romanzieri russi dell'Ottocento e in generale di ogni tempo. Il romanzo l’Idiota (1869) è pubblicato dalle ed. Feltrinelli (curatore G. Pacini), Milano 2002. 3 La nostra testimonianza sarà davvero persuasiva se, con gioia e verità, saprà raccontare la bellezza, lo stupore della vita e la meraviglia donata perché siamo innamorati di Dio e della sua scelta. 3. La scelta di vita come un Sì d'Amore Come non ricordare il personaggio fantasioso e accattivante nato dalla fantasia di J.M. Barrie e riportato poi in numerosi film che si sono lasciati affascinare dal singolare personaggio di Peter Pan? 8 Dietro la facciata di questo adolescente scanzonato e pieno di allegria per la vita, costantemente alla ricerca di prendersi gioco del povero Capitan Uncino (che sembra il carnefice, ma in realtà è la vittima), ci sta una verità sapienziale di estrema attualità: Peter Pan è l’eterno ragazzo che non vuole crescere e assumere alcuna responsabilità nella vita, come tante statistiche anche recenti ci indicano. Questa analisi è suffragata da una ricerca molto pungente e lucida di Dan Kiley, il quale vede in questa parabola di vita la situazione di molti uomini che hanno paura di crescere e la definisce, in maniera alquanto fantasiosa, la sindrome di Peter Pan, come oramai è ben conosciuta e accertata. E' Peter Pan che risveglia il bambino o l'adolescente che c'è dentro di noi e che non vogliamo abbandonare, perché si tratta di una situazione priva di responsabilità ed impegno costante, quindi assai gratificante. Ecco allora l’importanza di far emergere alcune condizioni importanti, anzi essenziali, per vivere questo progetto di radicalità e di dono, per non essere degli eterni Peter Pan, immobilizzati nel “dolce far niente”. Si tratta innanzitutto di andare alla ricerca, con verità, del perché ultimo delle nostre scelte, di cercare una loro purificazione e riformulazione. E' una ricerca condotta con concretezza e lucidità sulla vita stessa, per non cadere nel facile illusionismo delle parole, per cui spesso giochiamo a rimpiattino con la verità che è in noi stessi. Non basta tuttavia mettere a nudo le nostre motivazioni, è anche importante dare loro delle radici profonde. E' quindi un gesto di abbandono, di docilità e di fede. E' il coraggio per il più e il coraggio per il meno… La prima forma di coraggio richiede la sopportazione di una tensione di rinuncia e di distacco, il senso della fedeltà, la “parresìa” di cui parla s. Paolo come espressione di una fiducia che sa osare. Il coraggio per il meno richiede invece l'accettazione profonda della propria debolezza e vulnerabilità, si concretizza nella scelta di essere, a nostra volta, gli anawìm di Dio e di vivere la dinamica dei servi inutili. 7 Dal discorso del Papa in occasione del Convegno Vocazionale Europeo – Roma, 4 luglio 2009 8 Cf. Dan Kiley, Gli uomini che hanno paura di crescere: la sindrome di Peter Pan, Rizzoli, Milano 1985. E’ assai interessante e soprattutto innovativa, la modalità con cui si avvicina al personaggio di Peter Pan, il film “Neverland”, che ripropone le vicende storiche e biografiche della nascita del personaggio stesso di Peter Pan, ripercorrendo la vicenda umana e letteraria-teatrale del suo autore J. M. Barrie. 4 E’ la capacità di vivere una concentrazione sull'Uno e una apertura a tutti. Il concentrarsi, rientrando in se stessi o, come la chiama Teilhard De Chardin, la “incentrazione”, dà ordine alla propria vita, la unifica, la porta all'essenzialità e sobrietà interiore. E' una riconciliazione totale con le contraddizioni e le lacerazioni del nostro cuore. L'apertura a tutti è invece il segno di un'ospitalità piena, di una benevolenza fatta accoglienza; non è passare velocemente accanto all'altro, o vivere in quel box di cristallo, di cui già abbiamo parlato, in cui ci si vede, ma non ci si sente né ci si tocca. E' lasciare che l’altro, ogni altro, entri e riposi con pace e tranquillità, nel nostro cuore che lo sa accogliere. E' un dire sì, rispettoso e totale, al proprio corpo Questo significa accettare la propria corporeità e la propria sessualità, educarla ma anche lasciarla parlare, perché la sessualità è il linguaggio del nostro corpo. E tutto questo è altrettanto importante anche in una scelta di Amore Consacrato e di Celibato. E' una valorizzazione completa, anche se alternativa, delle potenzialità corporee presenti in noi. Non è più il culto del corpo, ma è l’amore di un corpo che si dona. E questa è una forma di vera povertà, ma anche di grande ricchezza interiore e di vita. Una scelta radicale come il seguire Gesù, domanda una mentalità nuova (cf Mt 16,21-27). E’ un sapersi mentalizzare non per l'autorealizzazione, ma per la perdita; non è più lavorare per vedere dei risultati, ma magari perché altri possano raccogliere quanto si è seminato. Non è più un calcolo di quanto posso dare e di quanto invece devo tenere per me, ma subentra la logica di un dono senza condizioni, nella gratuità. E' capacità di distacco e rinuncia; una specie di morte a se stessi per poter dare più frutto, come la vite che si lascia potare (cf Gv 15). E' un lasciarsi modellare per diventare dei modellatori; un lasciarsi svuotare per potersi poi riempire. Un accettare la propria croce, senza subirla, per entrare nella dinamica della Resurrezione. E' chiaro che a queste indicazioni, per vivere un progetto di donazione, ne potremmo aggiungere molte altre. Tuttavia, mi pare che esse costituiscano una buona pista di orientamento perché ogni risposta alla chiamata per il Regno non sia da superuomini, ma da uomini e donne nella pienezza della loro umanità e anche fragilità, accolta e riconciliata dalla misericordia di Dio. 9 4. Uno sguardo aperto sul prossimo futuro… guardando al Convegno Ecclesiale di Firenze A partire dalla “Traccia di lavoro” proposta alla Diocesi e alle comunità cristiane per il prossimo Convegno di Firenze, (Novembre 2015), vorrei qui proporre qualche input di cammino per la pastorale vocazionale, alla luce dei cinque verbi che propongono le vie verso la costruzione di una umanità nuova. Uscire: ognuno di noi ha il proprio mondo di riferimento; esso permette degli ancoraggi chiari, ma può essere anche in limite, se tutto è racchiuso in quella stessa ottica. Qui sorge un problema: come mai le nostre comunità cristiane faticano ad uscire dalle proprie 9 Tutto ciò si iscrive in una riscoperta delle profonde dinamiche insite nel Vangelo; cf. C. Rocchetta, Teologia della tenerezza: un vangelo da riscoprire, ed. Dehoniane, Bologna 2000. 5 impostazioni, per vivere con più parresìa e coraggio l’apertura? Il rischio sembra realmente quello di una inerzia strutturale; veniamo imbrigliati dalla routine delle cose “di sempre” da portare avanti, dalla fatica o dalla paura di pensarci in maniera diversa. Quali possono essere alcune ricadute per il nostro servizio di pastorale vocazionale? - La fatica di una comunione progettuale e operativa, necessariamente creativa, che ci costringa a lasciare la sicurezza del nostro ramo, per cominciare a volare in maniera più libera. - Alcuni pregiudizi , seppur involontariamente, talvolta bloccano delle opportunità di intesa e collaborazione, e non abbattono tutti gli steccati. Tutti noi abbiamo i nostri ambiti di attività, ma in essi, ipotizzando delle collaborazioni o progettualità condivise, si tende a privilegiare le relazioni con cui viviamo meglio una personale empatia. Tuttavia, le relazioni empatiche non sempre sono le più efficaci, perché potremmo perdere di vista alcuni obiettivi importanti da perseguire con altre dimensioni pastorali. - Ci frena la ripetitività dei nostri moduli, il tornare sulla formula che Papa Francesco stigmatizza in Evangelii Gaudium: "Si è sempre fatto così". - Con gratitudine e stupore posso dire che in Pastorale Vocazionale alcune cose stanno cambiando, alla luce di un deciso cambio generazionale e di una più vibrante carica motivazionale che trova riscontro in tutti i nostri appuntamenti nazionali, regionali o diocesani. Annunciare: la gente ha bisogno di parole e di gesti che indirizzino lo sguardo a Dio. Questa è la finalità di ogni annuncio e di ogni impegno pastorale. E la pastorale vocazionale, nella sua essenza, è annuncio e proposta educativa. Ciò richiede energia e agilità in questa testimonianza: cosa manca alle nostre comunità, ma anche ai nostri Centri diocesani di pastorale vocazionale, per mostrare questa agilità che porta a vivere vie nuove di proposta e ad esprimere quella energia vitale ed ecclesiale coinvolgente, che fa appello ad una “fedeltà creatrice”? Abitare: non è sufficiente uscire, ma è necessario abitare la nostra quotidianità e i nostri luoghi di vita; ciò significa una presenza solidale. Il rischio del nostro impegno è quello di ancorarci ad un eccesso di “attivismo”. Siamo preoccupati delle nostre proposte, ma lo Spirito e la Chiesa oggi ci richiedono una reale attenzione a chi condivide un pezzetto di strada con noi. Dovremmo ritrovare il senso di una “chiesa di popolo”. La chiesa è diventata molto razionale, ma poco vicina alla gente. La richiesta è di una chiesa più calda e più vicina, e questo ci interpella direttamente sulla modalità di fare le nostre proposte e/o di organizzare i nostri eventi. Una reale difficoltà della pastorale, oggi, è legata alle molte proposte, alcune delle quali si sovrappongono fra di loro o potrebbero essere realizzate insieme. C’è sicuramente bisogno di trovare più coordinamento e sinergia tra aree affini tra loro. E tuttavia mi chiedo: è solo una questione di coordinamento o non dovremmo andare più in profondità, mettendo a nudo le reali motivazioni che spesso stanno alla base delle nostre proposte? È tempo non di creare nuovi giardini, ma di prenderci cura delle rose che già ci sono. Educare: il punto prospettico è chiaro; significa educare a compiere “scelte responsabili”. Questa è una dinamica tipicamente vocazionale, perché legata al “discernimento”, ma investe trasversalmente tutta la dimensione umana ed ecclesiale. 6 Significa anche il primato della relazione, di nuove e rinnovate “alleanze educative”: per esempio, nell’ambito vocazionale, è essenziale un lavoro in rete tra CDV diocesani e Vita consacrata, mentre spesso si cammina su sentieri paralleli e molto autoreferenziali. L’arte del camminare insieme non si improvvisa, domanda un concreto “training” di apprendimento; ciò significa privilegiare la via della gratuità e la cultura dell’essere “persone generanti”. Che cosa significa oggi proporre e vivere una “pastorale generativa”? Non è facile lavorare insieme: cosa significa questo e perché avviene? Sembra che manchi “la grammatica del lavorare insieme”; forse ci sarebbe bisogno di apprendere una certa metodologia per farlo con gusto e con efficacia. La traccia del Convegno non usa la parola “vocazione”, ma non è questo il problema: non è un dizionario in cui ognuno vorrebbe ritrovare le voci più vicine alla sua sensibilità e al suo lavoro. Ciò che conta è che parla di “educare alle scelta”, in un contesto di un uomo contemporaneo che, come direbbe M. Heidegger, vive la “dislocazione”, il “non esserci”, il “non senso della sua vita”. Un uomo drammaticamente senza vocazione! “Educare alle scelte” significa uno sforzo di accompagnamento e di discernimento, per il quale siamo spesso poco preparati e a cui potremmo più attenzione anche nei nostri incontri. Trasfigurare: è offrire il nostro lavoro per restituirlo trasfigurato. La Domenica, in questo contesto, diviene lo spazio di umanità e di celebrazione della persona, oltre che della celebrazione del Giorno del Signore. Il primato della liturgia, della preghiera, della Eucarestia e dei Sacramenti, andrebbe rievangelizzato come una via privilegiata di annuncio. In questo senso penso alla domenica come ad un momento profondamente vocazionale , perché comunità vere e vitali, capaci di mostrare la gioia del loro ritrovarsi insieme nel nome del Signore, sono appellanti e attraenti. “Lo Spirito delle Beatitudini si comprende dentro a questa cornice” – afferma la Traccia. Per trovare una parola equivalente a “Vocazione” e significativa per il linguaggio d’oggi, trovo interessante la parola “Beatitudine”: la vocazione è un comprendere ed un realizzare quella particolare Beatitudine che il Signore ha affidato a ciascuno di noi, a partire dalla universale chiamata battesimale (Lumen Gentium, cap. 5). Le Beatitudini, proposte come via per seguire il Signore, come discepoli veri e disposti a tutto, non si esauriscono nella proposta, seppur stupenda, del discorso della Montagna. Ogni evangelista ha le sue peculiari Beatitudini e questo lascia intuire una splendida regola di vita spirituale e umana: ognuno di noi è chiamato, nella vita, a cercare e a trovare la sua particolare Beatitudine; quella fatta per lui, che gli si addice per il suo modo di essere, di fare, di pensare, di pregare, di credere all'Amore e di vivere la Speranza. Questa è una strada assolutamente personale ed originale. A partire da questa constatazione, possiamo anche affermare che scoprire, nella vita, la propria Beatitudine da credere e da vivere, significa anche trovare la via della propria personale e particolare Vocazione e... felicità del cuore. 7 5. Grati perché amati dal Dio della Misericordia “Impariamo a dire ‘Grazie’. Grazie a Dio… Grazie agli altri. Noi lo insegniamo ai bambini, ma poi lo dimentichiamo!” Sono parole che Papa Francesco ha ripetuto in più di una circostanza e che ci aiutano a posizionare il tema della Gratitudine tra le dimensioni essenziali delle nostre relazioni e di tutta la nostra esistenza. Come non ricordare, allora, il racconto del Vangelo di Luca (17,11-19)? Gesù sta salendo verso Gerusalemme, con il passo deciso, per rendere testimonianza al Padre, costi quel che costi. Gli apostoli non sanno che il loro Maestro già intuisce la deriva della sua missione e che questa sensazione, invece di abbatterlo, non fa’ che motivarlo e spingerlo al dono totale di sé. Dieci lebbrosi lo aspettano all'ingresso di un villaggio: nove giudei e un samaritano insieme. La lebbra è una malattia terribile e devastante, che marcisce il corpo, lo spirito e le relazioni. I rabbini dicevano che un lebbroso era come un morto e poteva solo contaminare chi lo toccava; e che la lebbra era la massima punizione che Dio infliggeva al peccatore. La sofferenza li ha uniti, ma la guarigione li separerà. Insieme pregano Gesù di poterli risanare, ed egli, appena li vede, subito, senza aspettare un secondo di più, li guarisce. La fretta di Gesù ci ricorda un verso bellissimo del poeta e sacerdote polacco Jan Twardowski (1915-2006): “Affrettiamoci ad amare, le persone se ne vanno così presto!”. Gesù li guarisce tutti, ma uno solo, un samaritano, torna da Lui a ringraziarlo. C’è anche la lebbra della ingratitudine! Il nostro sguardo, un po' assuefatto dalle cose scontate e dovute, non sa più aprirsi alla gratitudine. Come sarebbe bello vedere uscire dai nostri incontri, dalle nostre chiese almeno ogni tanto - qualcuno che torna a casa lodando e ringraziando Dio a gran voce. “Il mondo ha belle montagne e verdi prati, cieli spettacolari e laghi sereni. Dispone di un numero sufficiente di lussureggianti foreste, campi fioriti e spiagge di sabbia. E’ pieno di stelle e di promesse di nuove albe e tramonti ogni giorno. Ma ciò di cui il mondo ha più bisogno, è gente che apprezzi e sappia dire « grazie» per questo” (Michael Josephson). Se si riconosce che la nostra vita è un dono, che non abbiamo fatto proprio nulla per esistere, non possiamo che rispondere alla nostra storia, al nostro oggi e al nostro futuro con la gratitudine. «Eccomi esistere grazie alla tua bontà, che prevenne tutto ciò che mi hai dato di essere e da cui hai tratto il mio essere... Da Te dipende la mia felicità» (S. Agostino, Confessioni 13, 1,1). Entrare nella fresca logica della gratitudine significa semplicemente scegliere di stare dentro alla vita, che ha il volto della nostra famiglia, dei nostri amici, dei nostri gruppi, delle nostre comunità cristiane. Riprendiamo il contatto vitale con una delle parole più belle del linguaggio e delle nostre relazioni: «grazie». Nell’esprimere profonda gratitudine a don Giuseppe e alla sua équipe che ha lavorato per donare a tutti noi questo bellissimo incontro regionale, vi rivolgo un augurio particolare di buon cammino per un anno ricco di Misericordia e di Gratitudine, e lo faccio attraverso le parole di P. Davide M. Turoldo: “Io vorrei tanto dare una cosa al mio Signore, ma non so che cosa... Ecco, la vita che mi hai ridato, te la rendo nel canto di grazie”. 8