Mieloma multiplo 15 Stefania Oliva, Mario Boccadoro INTRODUZIONE ED EPIDEMIOLOGIA Il mieloma multiplo (MM) è una discrasia plasmacellulare maligna caratterizzata dalla proliferazione clonale di plasmacellule maligne nel midollo osseo e da accumulo di linfociti B e plasmacellule sintetizzanti immunoglobuline monoclonali o frazioni di queste nel sangue e/o nelle urine (Kyle e Rajkumar, 2005). Tale patologia rappresenta l’1% di tutti i tumori e il 13% delle neoplasie ematologiche. Nei Paesi occidentali l’incidenza annuale, corretta per età, è pari a 5,6 casi su 100.000 abitanti (Altekruse et al., 2007). L’età media alla diagnosi è approssimativamente di 70 anni e l’incidenza aumenta notevolmente con l’età: il 37% dei pazienti ha meno di 65 anni, il 26% ha un’età compresa tra i 65 e i 74 anni e il 37% ha un’età maggiore di 75 anni (Kristinsson et al., 2007; Brenner et al., 2008). La gammopatia monoclonale di incerto significato (MGUS) e il mieloma asintomatico o smoldering (SMM) rappresentano i diretti precursori del mieloma multiplo e sono caratterizzati dall’assenza di manifestazioni cliniche (Kyle e Kumar, 2009a; Rajkumar et al., 2007). La prevalenza della MGUS si attesta al 4% dei soggetti caucasici sopra i 50 anni di età, con rischio annuale di progressione verso mieloma maligno dell’1% all’anno (Kyle et al., 2006; Berenson et al., 2010; Dispenzieri et al., 2010). Il MM costituisce una patologia attualmente non guaribile e con un’alta probabilità di recidiva; tuttavia, è tipicamente sensibile, sia alla diagnosi sia al momento della recidiva, a una varietà di farmaci citotossici. Sfortunatamente però, le risposte sono transitorie e la patologia non risulta pertanto eradicabile. Negli ultimi vent’anni sono stati effettuati numerosi progressi nella cura del mieloma grazie all’introduzione del trapianto autologo di cellule staminali periferiche e più recentemente con l’avvento di nuovi farmaci come talidomide, lenalidomide e bortezomib. Inoltre, negli ultimi anni è notevolmente migliorata la conoscenza del microambiente midollare e della patogenesi della malattia, creando le basi per lo sviluppo di farmaci ancora più innovativi e con diversi meccanismi di azione (Hideshima e Anderson, 2002). Questi nuovi approcci terapeutici hanno determinato un miglioramento della sopravvivenza globale; il tasso di sopravvivenza a 5 anni è passato dal 25% nel 1975 al 34% nel 2003 (Brenner et al., 2008) e, in pazienti di età inferiore ai 60 anni, il tasso di sopravvivenza a 10 anni è approssimativamente del 30% (Kumar et al., 2008c). Come conseguenza dell’allungamento della vita media nella popolazione normale, si prevede un possibile incremento dei casi di MM. L’eziologia è sconosciuta, non sono stati individuati finora fattori di rischio legati allo stile di vita, al tipo di lavoro o ai rischi ambientali. Come possibili fattori di rischio sono stati ipotizzati una predisposizione genetica, l’esposizione a radiazioni ionizzanti o a sostanze chimiche, il fumo di tabacco, l’obesità e l’assunzione di alcol. Nessuno di questi fattori è stato però finora correlato in maniera significativa alla patogenesi del MM (Alexander et al., 2007). BIOLOGIA Le plasmacellule (PC) sono linfociti B post centro germinativo caratterizzate da un elevato stadio di differenziazione; tali cellule hanno superato i fisiologici processi di maturazione dei linfociti B (selezione antigenica nel centro germinativo, switch delle catene pesanti immunoglobuliniche [IgH] e ipermutazioni somatiche), si sono differenziate in plasmablasti e sono migrate nel midollo osseo dove sono diventate PC mature (Shapiro-Shelef e Calame, 2005; Tarte et el., 2003; Kuehl e Bergsagel, 2002). La trasformazione delle PC in un clone neoplastico è caratterizzata da alterazioni molecolari che si sommano in un processo “multi-step” e da cambiamenti che avvengono a livello del microambiente midollare. Sulla base di quanto osservato finora, si ritiene che il mieloma multiplo derivi, nella maggior parte dei casi, da una situazione benigna rappresentata da MGUS, la quale progredisce in SMM e infine nel mieloma sintomatico (MM). Le alterazioni molecolari precoci, condivise dalle cellule che costituiscono la MGUS e il MM, sono le traslocazioni dei geni per le catene pesanti delle immunoglobuline, l’iperdiploidia, la delezione del cromosoma 13 e la deregolazione del gene della ciclina D1 (Chng et al., 2007; Chiecchio et al., 2009; Fonseca et al., 2009; Chng e Fonseca, 2009; Bergsagel et al., 2005b); le analisi in FISH hanno infatti identificato traslocazioni IgH nel 40-50% delle MGUS e nel 50-70% delle cellule di MM (Avet-Loiseau et al., 2002). Le traslocazioni coinvolgenti il gene delle immunoglobuline sono frequenti e causano la giustapposizione del cromosoma 14 (q32.33) con altre regioni cromosomiche specifiche, determinando l’iperespressione di alcuni oncogeni (per esempio, MAF [t(14;16)(q32.33;23)] 611 612 Ca pito lo 15 M ielo m a m u lt ip lo o MMSET sul cromosoma 4p16.3). Oltre ad avere un ruolo patogenetico, le alterazioni cromosomiche sono considerate anche uno dei più importanti fattori prognostici: per esempio, i pazienti che presentano traslocazione t(4;14), delezione 17p13 e anomalie del cromosoma 1 identificate con metodica FISH presentano una ridotta sopravvivenza globale (OS). Con l’affinarsi delle tecniche diagnostiche di laboratorio, sono state descritte numerose altre alterazioni, mutazioni geniche e traslocazioni secondarie, implicate sia nella progressione della patologia sia nell’insorgenza tardiva e che includono anomalie cariotipiche in MYC, l’attivazione di NRAS e KRAS, le mutazioni in FGFR3 e TP53, l’inattivazione degli inibitori delle chinasi dipendenti da cicline CDKN2A e CDKN2C (Avet-Loiseau et al., 2007; Kuehl e Bergsagel, 2002; Bergsagel e Kuehl, 2005a), le deregolazioni epigenetiche che producono alterazioni nell’espressione di microRNA e la modificazione della metilazione genica. Tali anomalie geniche possono anche determinare un’alterazione dell’espressione delle molecole di adesione sulle cellule di mieloma causando un’alterata risposta agli stimoli proliferativi nel microambiente midollare. Oltre alle alterazioni specifiche della cellula tumorale, la progressione da MGUS a MM avviene a causa di un’interazione fra PC e cellule del microambiente: i recettori presenti sulla superficie cellulare come le integrine, le caderine, le selectine e le CAM (molecole di adesione cellulare) stimolano infatti la crescita tumorale, la sopravvivenza, la migrazione e la resistenza farmacologica delle cellule mielomatose. Inoltre, l’adesione delle cellule mielomatose a quelle emopoietiche e stromali induce la secrezione di citochine e fattori di crescita (interleuchina-6, il fattore di crescita endoteliale vascolare [VEFG], il fattore di crescita insulino-simile 1, i membri della superfamiglia del fattore di necrosi tumorale [TNF], il TGF-b1 e l’interleuchina-10) tramite meccanismi autocrini e paracrini (Podar et al., 2002). L’interazione fra PC e microambiente ha un ruolo patogenetico non solo nella crescita delle cellule tumorali, ma anche nel danno osseo: le cellule tumorali producono numerose citochine che inibiscono gli osteoblasti (inibizione della via di segnalazione intracellulare Wnt) e attivano gli osteoclasti (amplificazione della via di RANK e azione della MIP1a [macrophage inflammatory protein 1 a]) e di conseguenza attivano i meccanismi di riassorbimento osseo (Roccaro et al., 2009). Anche l’angiogenesi è fortemente alterata e gioca un ruolo fondamentale nel determinare uno stimolo proliferativo e nel causare resistenza ai farmaci, acuendo la densità microvascolare del midollo osseo e producendo le tipiche anomalie strutturali dei vasi (Castoldi e Liso, 2007). DIAGNOSI Negli stadi iniziali del MM difficilmente si riscontrano sintomi di rilievo e il mieloma in fase ancora asintomatica può essere diagnosticato in maniera casuale, durante un esame del sangue di routine nel quale si riscontrano alterazioni del quadro proteico. I criteri diagnostici delle discrasie plasmacellulari più comuni sono stati recentemente aggiornati. GAMMOPATIA MONOCLONALE DI SIGNIFICATO INCERTO La MGUS è la più comune discrasia plasmacellulare, interessa l’1% circa della popolazione con più di 50 anni e la sua incidenza aumenta con l’aumentare l’età. È caratterizzata dalla proliferazione di un singolo clone di plasmacellule secernenti una proteina monoclonale (M). Ciascuna proteina M è costituita da una catena polipeptidica pesante (g per le IgG, a per le IgA, m per le IgM, d per le IgD e e per le IgE) e da una singola catena leggera (k o l). È una condizione asintomatica caratterizzata da: ●● ●● ●● proteina monoclonale <3 g/dL; plasmacellule monoclonali nel midollo osseo <10%; assenza di danno di organo attribuibile alle PC (Rajkumar et al., 2006). La MGUS è associata a un rischio di progressione in MM di circa l’1% annuo. Il riscontro di MGUS è perlopiù accidentale, in seguito all’esecuzione dell’elettroforesi delle proteine sieriche (SPEP) o urinarie (UPEP) per un controllo di routine. Nei pazienti con tale patologia vi è un unanime consenso ad astenersi da effettuare alcuna terapia, mantenendo solo un’attenta osservazione. I soggetti possono essere stratificati in base al rischio (basandosi sull’entità del picco monoclonale, sul tipo di componente monoclonale, sulla percentuale di plasmacellule nel midollo e sul rapporto delle catene leggere libere sieriche) per decidere la frequenza dei controlli di follow-up: nei pazienti considerati a basso rischio è indicata una visita 6 mesi dopo la diagnosi e poi ogni 2 anni o in presenza di sintomi fino all’eventuale progressione; negli altri soggetti la prima visita di controllo è indicata dopo 6 mesi dalla diagnosi e poi ogni anno (Kyle et al., 2011; Bladé et al., 2010). SMOLDERING mieloma Il SMM rappresenta circa il 15% dei nuovi MM diagnosticati. È una condizione asintomatica che può essere diagnosticata accidentalmente ed è caratterizzata da: ●● ●● ●● proteina monoclonale >3 g/dL; infiltrato plasmacellulare monoclonale a livello midollare >10%; assenza di danno di organo attribuibile alla proliferazione delle PC. Il rischio di evoluzione verso il mieloma multiplo è 10% per anno per i primi 5 anni, 3% per anno per i successivi 5 anni e 1-2% per anno nei successivi 10 anni. Pertanto, i pazienti devono essere inizialmente seguiti ogni 2-3 mesi dopo la diagnosi, se si manifesta stabilità di malattia ogni 4-6 mesi per 1 anno e poi ogni 6-12 mesi. Come per la MGUS, l’entità e il tipo di proteina monoclonale sono correlati con il rischio di progressione (Kyle e Rajkumar, 2009b; Kyle et al., 2010). Mieloma SINTOMATICO A differenza di altre patologie neoplastiche, la terapia del MM va iniziata solo quando vi sia evidenza di danno di organo. Il MM sintomatico è definito dalla presenza di: Ca pi to l o 1 5 M i eloma multi plo ●● ●● componente monoclonale nel siero o nelle urine (nei pazienti con componente monoclonale non riscontrabile è indicata la ricerca delle catene leggere libere); infiltrazione di PC a livello midollare maggiore del 10% e/o diagnosi istologica di plasmacitoma. Non è richiesta al fine diagnostico una specifica concentrazione di proteina M nel siero e nelle urine; una piccola percentuale di pazienti infatti non presenta livelli evidenziabili di proteina M pur in presenza di infiltrazione plasmacellulare midollare e danno di organo (mieloma non secernente). Evidenza di danno di organo attribuibile alla proliferazione plasmacellulare (criteri CRAB): ●● ●● ●● ●● iperCalcemia (calcemia >11,5 mg/dL [2,88 mmol/L]); insufficienza Renale (creatininemia >2 g/dL [177 micromol/L]); Anemia (emoglobina <10 g/dL o <2 g rispetto al limite inferiore dell’intervallo di normalità); Bone disease (malattia ossea) caratterizzata dalla presenza di lesioni litiche, osteopenia severa o fratture patologiche (Kyle et al., 2010). Segni di malattia sintomatica sono inoltre le infezioni batteriche ricorrenti (>2 episodi/anno), il riscontro di amiloidosi associata a mieloma e l’iperviscosità sintomatica (Bird et al., 2011). PLASMACITOMA Il plasmacitoma solitario è una manifestazione rara ed è caratterizzato da: ●● ●● ●● ●● lesione solitaria ossea o a livello dei tessuti molli (nella maggior parte dei casi localizzata nel tratto respiratorio superiore anche se è possibile il coinvolgimento in qualsiasi organo) con evidenza alla biopsia di plasmacellule monoclonali; aspirato midollare non suggestivo per diagnosi di MM; assenza di lesioni ossee identificate con Rx scheletro e RM colonna; assenza di danno di organo attribuibile alla proliferazione plasmacellulare. Il trattamento standard è rappresentato da radioterapia sulla massa. I pazienti sono a rischio di progressione in MM in particolar modo in caso di associata presenza di proteina monoclonale, soprattutto se persiste dopo la terapia radiante (Rajkumar et al., 2006). Un recente studio ha analizzato l’incidenza dei plasmacitomi extramidollari localizzati nei tessuti molli (dal 7% al 18% nel MM di nuova diagnosi, fino al 20% nel MM in recidiva), le sedi di più frequente riscontro sono classificate in tre gruppi: ●● ●● crescita localizzata (masse di tessuto patologico originate dalla localizzazione ossea focale quali vertebre, coste, sterno e cranio); disseminazione per via ematogena (localizzazioni singole o multiple sottocutanee, noduli in sede epatica, mammella, rene, linfonodi, sistema nervoso centrale); ●● localizzazioni in sedi di pregressi interventi chirurgici (laparotomia, inserzione di cateteri, interventi chirurgici ossei e fratture ossee). Sono tuttora in corso numerosi studi sulla valutazione prognostica di tali pazienti, su quali schemi terapeutici siano più idonei (in particolare sul confronto fra le localizzazioni ossee e quelle extraossee); alcuni di questi studi analizzano i meccanismi di adesione cellulare delle cellule di mieloma, i meccanismi di crescita nei siti extramidollari, la chemiosensibilità ai nuovi farmaci in commercio e l’efficacia del trapianto autologo nel paziente giovane (Bladé et al., 2011). PRESENTAZIONE CLINICA E WORK-UP DIAGNOSTICO I sintomi del mieloma in fase attiva sono caratterizzati dall’instaurarsi di due eventi principali: l’infiltrazione di organi o tessuti da parte delle PC mielomatose e l’eccessiva produzione di immunoglobuline monoclonali. L’anemia, presente nel 78% circa dei pazienti, è generalmente correlata all’infiltrazione mielomatosa del midollo osseo e/o all’insufficienza renale. L’astenia è l’espressione più significativa dello stato anemico dei pazienti (Birgegard et al., 2006). L’insufficienza renale si manifesta tra il 20% e il 40% dei pazienti con una nuova diagnosi di malattia e sino al 50% in fase di progressione, riportando un elevato tasso di mortalità (Kyle et al., 2003; Eleutherakis-Papaiakovou et al., 2007); tale quadro è causato principalmente dal danno tubulare dovuto a un eccessivo carico di proteine escrete tramite ultrafiltrazione glomerulare, le catene leggere possono precipitare a livello intratubulare, depositarsi a livello della membrana basale dei tubuli o dei glomeruli o determinare danno diretto o mediato da enzimi lisosomiali sulle cellule tubulari. Il quadro morfofunzionale più frequente è rappresentato dal rene da mieloma, la cui manifestazione clinica più comune è l’insufficienza renale cronica, sono meno frequenti la malattia da catene leggere e l’amiloidosi. Altri fattori concorrono all’instaurarsi della lesione renale, come la disidratazione, l’ipercalcemia e l’impiego di farmaci nefrotossici (Dimopoulos et al., 2008). Il rischio di danno renale è inoltre direttamente proporzionale al livello di escrezione urinaria di catene leggere libere (FLC), ma non è attribuibile alla classe delle catene leggere (Drayson et al., 2009). Le lesioni osteolitiche derivanti, come detto precedentemente, dalla proliferazione delle plasmacellule maligne nella cavità midollare e dalla secrezione di citochine sono responsabili del dolore osseo: l’80% dei pazienti alla diagnosi mostra tali lesioni e il 58% lamenta dolore osseo (Kyle et al., 2003). Un interessamento osseo, focale o diffuso è a volte causa, oltre che del dolore, di fratture patologiche, compressione midollare e ipercalcemia. Nelle fasi iniziali di malattia tali lesioni sono prevalentemente localizzate allo scheletro assile (colonna vertebrale, coste, sterno e bacino) mentre nelle fasi più avanzate possono coinvolgere anche le ossa lunghe e la volta cranica. All’esame radiologico le lesioni osteolitiche hanno il classico 613 614 Ca pito lo 15 M ielo m a m u lt ip lo aspetto a stampo, rotondeggianti e con margini netti in assenza di reazione periostale (Castoldi e Liso, 2007). Le infezioni rappresentano la prima causa di morte in pazienti affetti da mieloma multiplo e il 20% dei pazienti ne è affetto già nelle prime fasi della patologia. Il rischio infettivo è aumentato in pazienti con malattia attiva, però diminuisce progressivamente con l’ottenimento della risposta terapeutica (Nucci e Anaissie, 2009). Ad aumentare la suscettibilità alle infezioni di questi pazienti concorrono il deficit di immunoglobuline policlonali e dunque funzionanti indotto dalla retro-inibizione mediata dalle immunoglobuline monoclonali, la presenza di un deficit immunitario correlato alle chemioterapie immunosoppressive e la neutropenia indotta dalla ridotta produzione midollare (Castoldi e Liso, 2007); si verifica così un deficit immunitario sia umorale sia cellulare. Broncopolmoniti batteriche e infezioni da herpes zoster sono particolarmente frequenti. La sindrome da iperviscosità (5-10% dei pazienti affetti da MM) si può sviluppare in pazienti con alti livelli sierici di paraproteina in particolare nel mieloma IgA, IgG1 e IgG3; questi pazienti presentano livelli di viscosità plasmatica aumentati e i sintomi si manifestano generalmente quando la viscosità ematica supera i 4 o 5 mPa; ciò accade di norma quando i valori di IgM superano i 30 g/L, quelli di IgA i 40 g/L e quelli di IgG i 60 g/L (Metha e Singhal, 2003). I sintomi includono cefalea, vertigini, parestesie, sonnolenza fino al coma, epistassi, sintomi emorragici, alterazioni della vista e dispnea secondaria a insufficienza cardiaca. L’ipercalcemia acuta si manifesta con un quadro dominato dall’alterazione del sistema nervoso centrale, in particolare nelle sue funzioni superiori con alterazione dello stato di coscienza, confusione sino al coma, debolezza muscolare, costipazione, sete, poliuria e conseguente disidratazione, accorciamento dell’intervallo QT e insufficienza renale acuta. In tali pazienti è necessario instaurare un trattamento precoce volto sia a eliminare o attenuare la causa sottostante, sia a ridurre i livelli di calcemia plasmatici per minimizzare il danno renale. Eterogenee ma relativamente frequenti sono le manifestazioni neurologiche in pazienti affetti da MM. Dolori neuropatici e deficit sensoriali/motori secondari a compressione radicolare rappresentano la principale causa di manifestazioni neurologiche, alla comparsa dei crolli vertebrali possono conseguire compressioni spinali associate a fenomeni di paraplegia, emiplegia o sintomatologia radicolare, disturbi del sensorio sino al coma intervengono in pazienti con sindrome da iperviscosità (Castoldi e Liso, 2007). La compressione del midollo spinale si verifica nel 5% dei pazienti a causa di foci extramidollari della malattia (Kyle, 1975). La sintomatologia varia a seconda dell’estensione e della sede della compressione e della sua entità. Comunemente può comprendere ipoestesia e anestesia nel dermatomero corrispondente alla compressione, parestesie, difficoltà alla deambulazione e perdita del controllo sfinteriale. In tutti i pazienti con diagnosi di MM devono essere eseguiti alcuni esami per permettere una corretta e uniforme stadiazione e per seguire l’andamento della malattia. I test di laboratorio comprendono: ●● ●● ●● ●● emocromo completo con formula leucocitaria, conta piastrinica e striscio periferico. Circa il 50% dei pazienti presenta alla diagnosi un valore di Hb <10 g/dL e l’anemia è generalmente normocromica e normocitica; dosaggio di uremia, creatinina ed elettroliti sierici che consente di compiere una valutazione della funzionalità renale; livelli di lattico deidrogenasi (LDH) e b2-microglobulina sierica che costituiscono indici della massa tumorale (sono anche importanti marcatori prognostici); calcemia e albuminemia plasmatici. La componente proteica monoclonale (M-protein) deve essere misurata sia nel siero sia nelle urine. Nel siero viene eseguita un’analisi quantitativa delle immunoglobuline (IgG, IgA, IgM), l’elettroforesi delle proteine sieriche (SPEP) e urinarie (UPEP) sul campione di urine delle 24 ore e l’immunofissazione che permette di determinare la classe della proteina monoclonale e di individuare minime quantità di proteine monoclonali non rilevabili con l’elettroforesi. L’analisi delle catene leggere libere (FLC) sieriche consente di identificare i casi di pazienti affetti da mieloma multiplo non secernente (immunofissazione sierica e urinaria negativa) o oligosecernente (mieloma capace di secernere solo una piccola quantità di proteina M nel siero e/o nelle urine), così come nei casi di mieloma multiplo micromolecolare. In pazienti in cui la proteina M sia misurabile nelle urine, il dosaggio delle FLC non può sostituire l’immunofissazione sulle urine delle 24 ore (Rajkumar et al., 2005). L’esame radiografico dello scheletro permette l’identificazione di lesioni osteolitiche. Altre tecniche radiologiche possono essere di supporto alla diagnosi di MM e includono la risonanza magnetica nucleare, la tomografia assiale computerizzata e la tomografia a emissione di positroni, che sfrutta quale radionuclide il fluorodesossiglucosio marcato con 18F (18F-FDG) (PET) integrata con la tomografia computerizzata (PET/TC) (PET/TC scan). La RM e la PET/TC hanno maggiore sensibilità diagnostica rispetto all’esame radiografico tradizionale. Sono dunque indicate in tutti quei pazienti in cui la Rx sistematica scheletrica risulti negativa, ma in presenza di sintomatologia comunque sospetta per localizzazione di malattia. La RM dello scheletro assiale è inoltre utile nella valutazione della natura e dell’estensione del tessuto patologico che origina dalle lesioni ossee, nella rilevazione di lesioni asintomatiche, nello studio dettagliato di aree scheletriche sede di dolore e nel sospetto di compressone midollare. In aggiunta, l’esecuzione della RM è indicata in pazienti con mieloma multiplo non secernente per la valutazione iniziale del quadro clinico e durante il follow-up per valutare la risposta al trattamento. Il ruolo della PET/TC, invece, è tutt’ora da chiarire: è infatti una tecnica dotata di elevata sensibilità e specificità nell’identificazione della presenza di lesioni ossee mielomatose e/o di un coinvolgimento midollare alla diagnosi. Può quindi essere utilizzata per differenziare un quadro di MGUS, in cui l’esame risulterà negativo, o per identificare masse di tessuto patologico extraosseo e/o infezioni (Dimopoulos et al., 2009). Ca pi to l o 1 5 M i eloma multi plo La valutazione dell’infiltrazione midollare da parte della cellule neoplastiche prevede l’esecuzione di una biopsia midollare e di un aspirato midollare che permettano di confermare la presenza delle plasmacellule monoclonali. In presenza di un sospetto plasmacitoma è necessario prelevare un campione bioptico del tessuto sede di lesione per confermarne la diagnosi. Il fenotipo delle plasmacellule è identificato mediante esame citofluorimetrico (flow cytometry) e/o tecnica immunoistochimica, su sezioni di materiale prelevato tramite biopsia, per confermare la presenza di plasmacellule monoclonali e per meglio quantificare il coinvolgimento midollare. Tabella 15.1 Classificazione del mieloma multiplo secondo Durie e Salmon Stadio Tutti i seguenti: Hb >10 g/dL Calcemia normale Struttura ossea normale o lesione litica solitaria Bassa produzione di componente M IgG <5 g/dL IgA <3 g/dL BJ <4 g/24 ore I Lo studio del midollo osseo alla diagnosi deve includere l’analisi cromosomica tramite FISH. Allo stato attuale delle conoscenze dunque, lo studio FISH deve includere la ricerca delle traslocazioni t(4;14), t(14;16), t(11;14), la delezione 17p13, la delezione del cromosoma 13 ed eventualmente l’amplificazione del cromosoma 1 (Raja et al., 2010). II III STADIAZIONE E PROGNOSI L’impiego di parametri laboratoristico-strumentali direttamente influenzati dall’entità dell’infiltrato tumorale ha consentito a Durie e Salmon di proporre, circa 35 anni fa, un sistema di stadiazione a cui ancora oggi si fa riferimento per confrontare i risultati dei protocolli terapeutici (Tab. 15.1) (Durie e Salmon, 1975). <0,5 1012/m2 0,5-1,2 1012/m2 Uno o più dei seguenti: >1,2 1012/m2 Hb <10 g/dL Calcemia >12 mg% Lesioni litiche multiple Elevata produzione di componente M IgG >7 g/dL IgA >5 g/dL BJ >12 g/24 ore Tabella 15.35 International staging system (ISS) I fattori prognostici universalmente accettati sono: l’International Staging System (ISS): è un modello di stratificazione molto semplice, potente e riproducibile che permette di classificare i pazienti in tre classi in base ai valori di b2-microglobulina e albumina alla diagnosi. Oltre a essere di facile esecuzione, questa classificazione tiene in considerazione due diverse caratteristiche del tumore: la b2-microglobulina sierica riflette la massa tumorale e la funzionalità renale, mentre i valori di albumina sono correlati agli effetti dell’interleuchina-6 prodotta dal microambiente midollare osseo a livello del fegato. Come rappresentato in tabella 15.2, a seconda dei valori di questi due parametri ciascun paziente viene classificato in uno dei seguenti stadi: ●● stadio I con una sopravvivenza media di 62 mesi; ●● stadio II con una sopravvivenza media di 44 mesi; ●● stadio III con una sopravvivenza media di 29 mesi (Greipp et al., 2005); Nessuno dei criteri dello stadio I e III N. cellule A o B (A: funzionalità renale normale, creatinina <2 mg/dL, azotemia <30 mg%; B: funzionalità renale alterata). Modificata da: Durie BG, Salmon SE. A clinical staging system for multiple myeloma. Correlation of measured myeloma cell mass with presenting clinical features, response to treatment, and survival. Cancer 1975;36(3):842-854. Sebbene dal punto di vista istologico vi sia una certa omogeneità, l’andamento clinico del MM è abbastanza eterogeneo: alcuni pazienti hanno una malattia che si presenta da subito estremamente aggressiva, con una sopravvivenza di pochi mesi nonostante le terapie, mentre altri pazienti possono vivere per più di 10 anni riuscendo a controllare la malattia per lunghi periodi. Questo aspetto ha spinto i ricercatori a valutare marcatori prognostici che potessero predire la sopravvivenza e di conseguenza stratificare i pazienti al momento della diagnosi in gruppi con differente prognosi. Occorre ricordare che tali fattori sono stati individuati prima dell’avvento dei nuovi farmaci e appare quindi chiaro come siano necessari nuovi studi per confermarne la validità o identificare altri marcatori più adatti alle nuove terapie. ●● Parametri Stadio Criteri mOS (mesi) I b2-microglobulina <3,5 mg/L albumina ≥3,5 mg/L 62 II Pazienti in stadio non I 44 e non III* III b2-microglobulina ≥5,5 mg/L 29 mOS: mediana di sopravvivenza. (*) Due categorie: b2-microglobulina <3,5 mg/L ma albumina <3,5 mg/L; b2-microglobulina 3,5-5,5 mg/L indipendentemente dal valore di albumina. Modificata da: Greipp PR, San Miguel J, Durie BG et al. International staging system for multiple myeloma. J Clin Oncol 2005;23:3412-3420. ●● le anomalie cromosomiche hanno dimostrato di avere un impatto sulla sopravvivenza dei pazienti con MM. Una prognosi peggiore è stata riscontrata nei pazienti con presenza di una traslocazione coinvolgente i geni della catena pesante delle immunoglobuline t(4;14), t(14;16), t(14;20) con delezione del 17p13 o delezione del 13. Al contrario, una prognosi migliore è stata osservata in presenza di t(11;14), t(6;14) o di iperdiploidia (Avet-Loiseau et al., 2007; Gertz et al., 2005; Zhan et al., 2006). 615 616 Ca pito lo 15 M ielo m a m u lt ip lo Risultati preliminari sembrano mostrare come i nuovi farmaci quali il bortezomib e la lenalidomide possono superare la cattiva prognosi legata alla delezione del cromosoma 13 e alla traslocazione t(4:14). L’impatto negativo di queste alterazioni cromosomiche sull’andamento clinico non sembra essere modificato dalla chemioterapia intensiva con autotrapianto (Gertz et al., 2005). Le indagini di gene expression profiling hanno migliorato la stratificazione dei pazienti e la stadiazione prognostica, ma non sono ancora da considerare esami di routine (Carrasco et al., 2006; Shaughnessy et al., 2007). Altri parametri che si associano a una prognosi peggiore sono costituiti da un indice di proliferazione delle plasmacellule maggiore del 3%, il riscontro di cellule con morfologia plasmoblastica, gli alti livelli di LDH e un alterato rapporto delle catene leggere (Fonseca e San Miguel, 2007; Fonseca et al., 2009). In tutti i pazienti con una nuova diagnosi di MM è quindi utile ricercare le traslocazioni t(4;14) e t(14;16), la delezione del 17p13, e la misurazione di b2-microglobulina e dell’albumina per meglio definire la prognosi. Da segnalare che al momento non esiste una terapia basata sui fattori di rischio (Stewart et al., 2007). TERAPIA SCELTA TERAPEUTICA Un concetto cardine nella scelta della terapia nei pazienti con discrasie plasmacellulari è l’evidenza che iniziare un trattamento chemioterapico in pazienti con MM asintomatico non determina un aumento della sopravvivenza rispetto all’iniziare il trattamento al momento della comparsa dei sintomi o del danno di organo. I pazienti con MM sintomatico devono essere invece trattati immediatamente e lo schema terapeutico deve essere scelto basandosi sulle caratteristiche del paziente (per esempio, età e presenza di comorbilità) e sulle attuali evidenze scientifiche. I pazienti con meno di 65 anni e senza comorbilità rilevanti in anamnesi sono candidati a una chemioterapia ad alte dosi con supporto di cellule staminali autologhe. Studi randomizzati hanno infatti mostrato come vi sia una maggiore percentuale di risposte e una più lunga sopravvivenza nei pazienti trattati con chemioterapia ad alte dosi rispetto ai pazienti trattati con chemioterapia convenzionale (Bensiger, 2008). Nonostante in molti Paesi europei il cut-off di età per considerare un paziente eleggibile al trapianto sia 65 anni, l’età biologica e quella cronologica non sempre sono equivalenti: pertanto l’eleggibilità dovrebbe essere valutata soprattutto sulla base dell’età biologica. Gli altri fattori, oltre l’età, che si devono prendere in considerazione sono il performance status e le comorbilità: funzionalità cardiaca (elettrocardiogramma ed ecocardiogramma normali, New York Heart Association [NYHA] di classe I/ II) funzione polmonare normale (Rx torace, spirometria e capacità di diffusione normale), funzionalità epatica e renale normale. Per tale motivo l’opzione del trapianto può essere considerata efficace e sicura anche per pazienti fino a 70 anni in condizioni cliniche tali da poter tollerare il trapianto di cellule staminali (Kumar et al., 2008a). Il trapianto di cellule staminali con un regime di condizionamento a intensità ridotta (melfalan 100 mg/m2 anziché 200 mg/m2) dovrebbe essere preso in considerazione nei pazienti con età compresa tra 65 e 75 anni in condizioni cliniche ottimali o nei pazienti con età inferiore a 65 anni con comorbilità che controindicano il trapianto a dosi standard (Palumbo e Anderson, 2011). Il trapianto è preceduto da una terapia di induzione: pertanto, farmaci altamente tossici nei confronti delle cellule staminali, come le nitrosouree e gli alchilanti (per esempio, il melfalan), andrebbero evitati prima della raccolta delle cellule staminali, poiché potrebbero danneggiare le riserve midollari. Il trattamento standard nei pazienti non candidabili al trapianto è attualmente rappresentato dalla chemioterapia standard (melfalan + prednisone-MP) in associazione ai nuovi farmaci (talidomide o bortezomib: MPV, MPT), il cui impiego è stato correlato con un significativo aumento della sopravvivenza libera da eventi (EFS) e della sopravvivenza globale (OS) nonché un miglioramento della qualità di vita dei pazienti. Numerosi studi negli ultimi anni e altri ancora in corso valutano l’efficacia di nuove associazioni chemioterapiche che comprendono uno o più nuovi farmaci. La risposta alle terapie fa riferimento ai criteri elaborati dall’International Myeloma Working Group (IMWG) (Tab. 15.33) (Durie et al., 2006). La figura 15.1 e le tabelle 15.4-15.7 riassumono i regimi di chemioterapia attualmente utilizzati, rispettivamente nei pazienti giovani e nei pazienti anziani o non candidabili al trapianto e le risposte ottenute nei diversi studi clinici. Pazienti con MM (nuova diagnosi) Pazienti candidabili al trapianto Pazienti non candidabili al trapianto • VD + • VD (3-6 cicli) • MPT (6-12 cicli) • VD (8 cicli) • ciclofosfamide • Lenalidomide (4 cicli) • VMP (9 cicli) • Rd (sino a progressione) • doxorubicina • talidomide • lenalidomide • MPR-R (9 cicli + mantenimento con lenalidomide) ASCT Mantenimento con lenalidomide o talidomide sino a progressione/intolleranza FIG. 15.1 Algoritmo terapeutico nei pazienti con nuova diagnosi di mieloma multiplo. ASCT: trapianto autologo di cellule staminali; MM: mieloma multiplo; MPR-R: melfalan, prednisone, lenalidomide più lenalidomide in mantenimento; MPT: melfalan, prednisone, talidomide; Rd: lenalidomide, desametasone a basso dosaggio; VD: bortezomib, desametasone; VMP: melfalan, prednisone, bortezomib. Modificata da: Palumbo A, Anderson K. Multiple Myeloma. Engl J Med 2011;364:1046-1060. Ca pi to l o 1 5 M i eloma multi plo Tabella 15.3 Criteri di risposta alla terapia elaborati dall’IMWG Criteri di valutazione CR (remissione completa) Immunofissazione negativa, scomparsa dell’eventuale plasmacitoma, ≤5% di plasmacellule a livello midollare sCR (stringent CR) Ai criteri delle CR vanno aggiunti: rapporto catene leggere nella norma, assenza di plasmacellule clonali a livello midollare (in immunoistochimica e immunofluorescenza) VGPR (very good partial remission) Proteina monoclonale riscontrabile all’immunofissazione ma non all’elettroforesi oppure riduzione della proteina monoclonale sierica ≥90% e livelli di proteina monoclonale urinaria <100 mg/24 ore PR (remissione parziale) ≥50% di riduzione della proteina monoclonale sierica e riduzioni delle proteine monoclonali urinarie ≥90% o <200 mg/24 ore oppure, se i livelli di proteina monoclonale nel siero e nelle urine non siano misurabili, riduzione ≥50% nella differenza tra i livelli di catene leggere coinvolte e non coinvolte oppure, se non sono misurabili né la proteina monoclonale né le catene leggere libere nel siero, è richiesta una riduzione ≥50% dell’infiltrato plasmacellulare. In presenza di plasmacitoma è necessaria una riduzione ≥50% del tessuto del plasmacitoma SD (stable disease) Non soddisfa i criteri per CR, VGPR, PR, PD PD (malattia in progressione) Aumento ≥25% dei seguenti parametri: componente monoclonale sierica o urinaria, differenza tra i livelli di catene leggere coinvolte e non coinvolte, percentuale delle plasmacellule midollari. Sviluppo di nuove lesioni ossee o peggioramento di quelle presenti oppure plasmacitoma, ipercalcemia Recidiva clinica Sviluppo di nuovo plasmacitoma tissutale o comparsa di nuove lesioni ossee, incremento dimensionale del noto plasmacitoma o delle lesioni ossee, inteso come aumento di almeno il 50% (e almeno 1 cm) delle dimensioni, ipercalcemia, riduzione Hb di almeno 2 g/dL, incremento creatinina >2 mg/dL Recidiva da CR Ricomparsa della proteina M nel siero e/o nelle urine all’immunofissazione o elettroforesi, comparsa >5% di plasmacellule nel midollo osseo, comparsa di qualsiasi altro segno di progressione (nuovo plasmacitoma, lesioni ossee, ipercalcemia) Modificata da: Durie BG, Harousseau JL, Miguel JS et al. International uniform response criteria for multiple myeloma. Leukemia 2006;20:1467-1473. TERAPIA DI PRIMA LINEA NEI PAZIENTI GIOVANI Terapie di induzione La terapia ad alte dosi seguita da supporto di cellule staminali emopoietiche è ancora considerata il trattamento standard secondo i risultati di numerosi studi clinici randomizzati, i quali hanno dimostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto alla chemioterapia convenzionale (Attal et al., 1996). L’obiettivo della terapia di induzione consiste nell’arrestare la crescita tumorale e la progressione del danno di organo associato. A tal fine, si ricerca la massima riduzione della massa tumorale, poiché la risposta che precede l’ASCT è correlata alla sopravvivenza post-trapianto (Kim et al., 2009). Pazienti affetti da MM sintomatico e candidabili al trapianto con cellule staminali emopoietiche vengono solitamente trattati con 4 cicli di terapia di induzione (Stewart et al., 2009); negli anni Novanta, il regime VAD era considerato lo standard: il tasso di risposte parziali (PR) al VAD variava fra il 55% e il 60% e solo un piccolo numero di pazienti (fra il 3% e il 13%) otteneva remissioni complete (CR) (Alexanian et al., 1990). Lo studio ha poi dimostrato come la risposta dopo induzione al VAD non avesse alcun impatto sui risultati ottenuti dopo il trapianto. Recentemente i nuovi farmaci sono stati incorporati negli schemi di induzione pretrapianto allo scopo di migliorare le risposte, in particolare le quote di CR che si traducono in un aumento di risposte anche post-trapianto. Di seguito vengono illustrati alcuni dei principali studi. Terapie a base di talidomide La talidomide, usata negli anni Sessanta come sedativo ipnotico, negli ultimi anni è stata impiegata nella terapia di alcune patologie neoplastiche, in particolare il MM. L’uso di talidomide come terapia di induzione è stato indagato inizialmente in combinazione con il solo desametasone (TD): tale regime si è dimostrato superiore allo standard VAD e all’uso del desametasone da solo in termini di “PR rate” (risposte superiori alla PR), ma non di CR, comprese in un range del 4-10% (Cavo et al., 2005; Rajkumar et al., 2009) (si veda tabella 15.4). Uno studio recente ha dimostrato l’efficacia del TD incorporato nello schema doppio autotrapianto in termini di un maggior numero di CR, VGPR, un allungamento del tempo alla progressione (TTP), e un prolungamento della PFS rispetto a coloro i quali avevano effettuato un regime di induzione secondo schema VAD seguito da doppio autotrapianto di cellule staminali emopoietiche autologhe (ASCT) (Cavo et al., 2009). Il gruppo di studio olandese (Stichting Hemato-oncologie voor Volwassenen Nederland [HOVON]) ha invece confrontato 2 bracci diversi di induzione, il primo con talidomidedoxorubicina-desametasone (TAD), il secondo con VAD, seguiti entrambi da alte dosi di melfalan. I pazienti venivano poi ulteriormente randomizzati a ricevere mantenimento con interferone-a (braccio A) e talidomide (braccio B). La talidomide ha permesso di ottenere un significativo incremento di “PR rate” rispetto al braccio VAD sia prima sia dopo il trapianto, riportando le seguenti risposte: ≥PR: 617 618 Ca pito lo 15 M ielo m a m u lt ip lo Tabella 15.4 Schemi terapeutici di induzione e risultati attesi nei pazienti giovani Induzione Regimi e dosi Risposte Sopravvivenza Autore VAD •• VCR: 0,4 mg giorni 1-4 •• Dox: 9 mg/m2 giorni 1-4 •• Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20 per 3-4 cicli da 4 settimane CR: 2% ≥VGPR: 15-24% ≥PR: 54-71% PFS: 90% a 12 mesi OS: 95% a 12 mesi Cavo et al., 2005; Harousseau et al., 2010 TD •• Thal: 200 mg/die •• Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20; o 40 mg/die per 4 giorni ogni settimana per i primi 2 mesi, poi 1 volta al mese per 2 mesi per 3-4 cicli da 3-4 settimane CR: 4-10% ≥VGPR: 30-43% ≥PR: 63-76% PFS/TTP: 61% a 4 anni OS: 69% a 5 anni Cavo et al., 2005; Rajkumar et al., 2009; Cavo et al., 2009 TAD •• Thal: 200-400 mg nei giorni 1-28 •• Dox: 9 mg/m2 giorni 1-4 •• Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20 per 3 cicli da 4 settimane CR: 4% ≥VGPR: 33% ≥PR: 77% TTP: 22,6 mesi OS: NA Lokhorst et al., 2008; Lokhorst et al., 2010 CTD •• Ctx: 500 mg/sett os •• Thal: 100 mg/die o 200 mg/die •• Dex 40 mg/die giorni 1-4 e 12-15 os per 6 cicli da 3 settimane CR: 13% ≥VGPR: 43% ≥PR: 82% OS: NR PFS mediana: 34 mesi Morgan et al., 2012 VD •• Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11 •• Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12 cicli 1-2; giorni 1-4 cicli 3-4 per 4 cicli da 4 settimane CR: 15% ≥VGPR: 39% ≥PR: 82% PFS mediana: 36 mesi OS: 81% a 3 anni Harousseau et al., 2010 VTD •• Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11 •• Thal: 200 mg/die •• Dex: 40 mg giorni 1-2, 4-5, 8-9, 11-12 per 6 cicli da 3 settimane CR: 35% ≥VGPR: 60% ≥PR: 85% PFS mediana: 56 mesi OS: 74% a 4 anni Rosinol et al., 2012 VCD •• Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1,4,8,11 •• Ctx: 900 mg/mq •• Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12 cicli 1-2; giorni 1-4 cicli 3-4 per 3 cicli da 3 settimane CR: 12,5% PR rate: 84% PFS: NA OS: NA Knop et al., 2009 PAD •• Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11 •• Dox: 9 mg/m2 giorni 1-4 •• Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20 per 3 cicli da 4 settimane CR: 7% ≥VGPR: 42% ≥PR: 78% PFS mediana: 35 mesi OS: 61% a 5 anni Sonneveld et al., 2010 RD/Rd •• Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20 ogni 28 giorni •• Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1, 8, 15, 22 ogni 28 giorni ≥VGPR: 50% vs 40% ≥PR: 79% vs 68% PFS: 19,1 vs 25,3 mesi OS: 75% vs 87% a 2 anni Rajkumar et al., 2010 Bor: bortezomib; CR: risposta completa; CTD: ciclofosfamide-talidomide-desametasone; Dex: desametasone; Dox: doxorubicina; Ctx: ciclofosfamide; Len: lenalidomide; NA: non disponibile; NR: non registrato; OS: sopravvivenza globale; PAD: bortezomib-doxorubicina-desametasone; PFS: sopravvivenza libera da progressione; PR: risposta parziale; RD: lenalidomide-alte dosi di desametasone; Rd: lenalidomide-basse dosi di desametasone; TAD: talidomide-doxorubicina-desametasone; TD: talidomide-desametasone; Thal: talidomide; TTP: tempo alla progressione; VAD: vincristina-doxorubicina-desametasone; VCD: bortezomib-ciclofosfamide-desametasone; VCR: vincristina; VD: bortezomib-desametasone; VGPR: very good partial response; VTD: bortezomib-talidomide-desametasone. 84% vs 76% (p = 0,02), ≥VGPR: 54% vs 44% (p = 0,03), EFS mediana: 34 vs 22 mesi (p <0,001), OS mediana: 73 vs 60 mesi (p = 0,77) (Lokhorst et al., 2008; Lokhorst et al., 2010). Il “Medical Research Council (MRC) Myeloma IX trial” ha confrontato invece l’associazione di ciclofosfamide, talidomide e desametasone (CTD) come schema di induzione, con ciclofosfamide, vincristina, doxorubicina e desametasone (CVAD). Con il regime CTD sono state riportate quote significativamente maggiori di “PR rate” pretrapianto (82%) e post-trapianto (91%) e CR pretrapianto (13%) e post-trapianto (50%) rispetto al gruppo CVAD (PR rate: 71% e 90%, CR: 8% e 37%, rispettivamente pretrapianto e post-trapianto; p = 0,008) (Morgan et al., 2012b). Dall’analisi di tutti questi studi la combinazione TD appare subottimale, ma l’aggiunta di un altro farmaco che- mioterapico, come la ciclofosfamide o l’antraciclina, pare migliorare i risultati ottenuti. Terapie a base di bortezomib Il bortezomib è un nuovo farmaco antitumorale largamente utilizzato in numerosi schemi di induzione che agisce inibendo un complesso multicatalitico intracellulare chiamato proteasoma, responsabile della degradazione dei prodotti cellulari. Il gruppo francese di studio del mieloma (Intergroupe Francophone du Myélome, IFM), ha valutato la combinazione bortezomib-desametasone (VD) in uno studio randomizzato il cui braccio di controllo prevedeva l’utilizzo di VAD, e ha ottenuto risultati significativamente superiori con il VD sia per quanto riguarda le risposte post-induzione e Ca pi to l o 1 5 M i eloma multi plo Tabella 15.5 Studi principali della terapia a lungo termine con talidomide dopo ASCT Studio Terapia di induzione/ASCT Schema di mantenimento PFS/EFS Sopravvivenza Autore T2 •• Induzione: chemioterapia vs chemioterapia + talidomide •• Doppio ASCT •• Consolidamento: chemioterapia vs chemioterapia + talidomide IFN + talidomide (100 mg/die il I anno, 50 mg a giorni alterni dal II anno in poi) NA NA Barlogie et al., 2008 IFM 99-02 Doppio ASCT No mantenimento vs pamidronato vs pamidronato + talidomide (50-400 mg/die) NA NA Attal et al., 2006 MRC IX trial Pazienti giovani: CTD vs CVAD → ASCT Pazienti anziani: MP vs CTD ridotto No mantenimento vs talidomide (50 mg/die aumentati a 100 mg/die dopo 4 settimane) HR: 1,36; IC 95% 1,15-1,61; p <0,001 No differenze (p = 0,40) Morgan et al., 2012 ALLG trial Singolo ASCT Prednisone vs prednisone + talidomide (200 mg/die per 12 mesi) PFS a 3 anni 23% vs OS: 75% vs 86% 42% (p <0,001) (p = 0,004) Spencer et al., 2009 MY.10 NCIC ASCT No mantenimento vs prednisone + talidomide 200 mg/die PFS: 17 vs 28 mesi (p <0,0001) OS a 4 anni 60% vs 68% Stewart et al., 2010 HOVON 50 VAD vs TAD → ASCT IFN-α vs talidomide 50 mg/die PFS: 25 vs 34 mesi (p <0,001) OS: 60 vs 73 mesi (p = 0,77) Lokhorst et al., 2010 CTD: ciclofosfamide-talidomide-desametasone; CVAD: ciclofosfamide-vincristina-adriamicina-desametasone; EFS: sopravvivenza libera da eventi; HR: hazard ratio; IC: intervallo di confidenza; IFN: interferone; MP: melfalan-prednisone; NA: non disponibile; OS: sopravvivenza globale; PFS: sopravvivenza libera da progressione; TAD: talidomide-doxorubicina-desametasone; VAD: vincristina-doxorubicina-desametasone. Tabella 15.6 Studi principali con lenalidomide come terapia continuativa (sia nel giovane sia nel paziente non candidabile ad ASCT) Studio Regimi e dosi Risposte Sopravvivenza Autore RD/Rd Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1-4, 9-12, 17-20 ogni 28 giorni Len: 25 mg giorni 1-21; Dex: 40 mg giorni 1, 8, 15, 22 ogni 28 giorni ≥VGPR: 50% vs 40% ≥PR: 79% vs 68% PFS: 19,1 vs 25,3 mesi OS: 75% vs 87% a 2 anni Rajkumar et al., 2010 MPR-R MPR 9 cicli in induzione, Len: 10 mg/die giorni 1-21 o placebo fino a progressione ≥PR: 77% CR: 16% PFS: 55% a 2 anni Palumbo et al., 2010b IFM 2005-02 Consolidamento post-ASCT con Len: 25 mg/die per 21 giorni per 2 mesi seguito da mantenimento con Len da 1 mg/die a 15 mg/die per 21 giorni vs placebo fino a recidiva NA PFS: 42 mesi OS: 81% a 4 anni dalla diagnosi Attal et al., 2010 CALGB 100104 Mantenimento post-ASCT con lenalidomide da 10 mg/die a 15 mg/die dopo 3 mesi fino a progressione di malattia NA PFS: 42,3 mesi 11 deceduti Mc Carthy et al., 2011 PAD-MEL 100 RP-R PAD in induzione- doppio trapianto (MEL 100) seguito da consolidamento Len 25 mg/die per 21 giorni + prednisone 50 mg a giorni alterni seguito da mantenimento Len 10 mg/die per 21 giorni fino a ricaduta di malattia >VGPR 82% (dopo LP-L) CR: 66% PFS: 69% a 2 anni OS: 86% a 2 anni Palumbo et al., 2010c MM-09 Len 25 mg/die per 21 giorni + desametasone 40 mg g 1-4, 9-12, 17-20 per i primi 4 cicli poi solo giorni 1-4 vs placebo + desametasone fino a progressione di malattia >PR 61% CR: 14% TTP: 11 mesi OS: 29 mesi Weber et al., 2007 MM-010 Len 25 mg/die per 21 giorni + desametasone 40 mg g 1-4, 9-12, 17-20 per i primi 4 cicli poi solo giorni 1-4 vs placebo + desametasone fino a progressione di malattia >PR 60% CR: 15% TTP: 11 mesi OS: NR Dimopoulos et al., 2007 CR: risposta completa; Dex: desametasone; Len: lenalidomide; MPR: melfalan-prednisone-lenalidomide; NA: non disponibile; OS: sopravvivenza globale; PAD: bortezomibdoxorubicina-desametasone; PFS: sopravvivenza libera da progressione; PR: risposta parziale; TTP: tempo alla progressione; VGPR: very good partial response. 619 620 Ca pito lo 15 M ielo m a m u lt ip lo Tabella 15.7 Attuali regimi terapeutici e risultati nei pazienti anziani o nei giovani non eleggibili al trapianto autologo Trattamento Regimi e dosi Risposte Sopravvivenza Autore MP Mel: 0,25 mg/kg giorni 1-7; Pdn: 2 mg/kg giorni 1-4 per 12 cicli da 6 settimane o Mel: 0,25 mg/kg giorni 1-4; Pdn: 2 mg/kg giorni 1-4 per 9 cicli da 28 o 42 giorni CR: 1-2% ≥PR: 41-50% PFS/TTP: 45-48% a 24 mesi OS: 63-70% a 24 mesi Facon et al., 2007; Ludwig et al., 2009 MPT Mel: 0,25 mg/kg giorni 1-4; Pdn: 2 mg/kg giorni 1-4; Thal: 100-400 mg/die per 12 cicli da 6 settimane o Mel: 4 mg/m2 giorni 1-7; Pdn: 40 mg/m2 giorni 1-7 per 6 cicli da 4 settimane; Thal: 100 mg/die fino a ricaduta o PD o Mel: 0,25 mg/kg giorni 1-4; Pdn: 1 mg/kg giorni 1-5; Thal: 200 mg/die per 8 cicli da 4 settimane seguiti da Thal: 50 mg/die fino a PD CR: 2-16% ≥PR: 42-76% PFS/TTP: 50% a 14-28 mesi OS: 50% a 28-52 mesi Palumbo et al., 2006; Palumbo et al., 2008; Facon et al., 2007; Hulin et al., 2009; Wijermans et al., 2010; Waage et al., 2010 TD Thal: 200 mg/die; Dex: 40 mg giorni 1-4, 15-18 per 9 cicli da 28 giorni CR: 2% ≥PR: 68% PFS/TTP: 41% a 24 mesi OS: 61% a 24 mesi Ludwig et al., 2009 VMP Mel: 9 mg/m2 giorni 1-4; Pdn: 60 mg/m2 giorni 1-4; CR: 22-30% Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11, 22, 25, 29, 32 ≥PR: 71-82% per i primi 4 cicli da 6 settimane; giorni 1, 8, 15, 22 per i successivi 5 cicli da 6 settimane o Bor: 1,3 mg/m2 giorni 1, 4, 8, 11, 22, 25, 29, 32 per il primo ciclo da 6 settimane; giorni 1, 8, 15, 22 per i successivi 5 cicli da 6 settimane PFS/TTP: 50-72% a 24 mesi OS: 72-87% a 36 mesi San Miguel et al., 2008; Mateos et al., 2010 VTP T: 100 mg/die; P: 60 mg/m2 giorni 1-4; V: 1,3 mg/m2 CR: 27% 2 volte/sett (giorni 1, 4, 8, 11, 22, 25, 29 e 32) per un ≥PR: 79% ciclo da 6 settimane, seguite da 1/sett (giorni 1, 8, 15 e 22) per 5 cicli da 5 settimane PFS/TTP: 61% a 24 mesi OS: 84% a 24 mesi Mateos et al., 2010 CTD C: 500 mg giorni 1, 8, 15; T: 100-200 mg/die; D: 40 mg giorni 1-4, 12-15 in un ciclo da 3 settimane CR: 23% ≥PR: 82% PFS/TTP: ND OS: ND Morgan et al., 2012 VMPT M: 9 mg/m2 giorni 1-4; P: 60 mg/m2 giorni 1-4; V: 1,3 mg/m2 giorni 1, 8, 15, 22; T: 50 mg giorni 1-42 per 9 cicli da 5 settimane seguiti da Bor: 1,3 mg/m2 ogni 15 giorni e T: 50 mg/die come mantenimento CR: 38% ≥PR: 89% PFS/TTP: 60% a 36 mesi OS: 88% a 36 mesi Palumbo et al., 2010a MPR Mel: 0,18-0,25 mg/kg giorni 1-4; Pdn: 2 mg/kg giorni 1-4 per 9 cicli da 4 settimane; Len: 5-10 mg/die giorni 1-21 fino a ricaduta o PD CR: 18% ≥PR: 45% PFS/TTP: 55% a 24 mesi OS: 92% a 12 mesi Palumbo et al., 2010b Rd R: 25 mg/die giorni 1-21; d: 40 mg giorni 1, 8, 15, 22 in un ciclo da 4 settimane CR: ND ≥PR: 70% PFS/TTP: ND OS: 87% a 24 mesi Rajkumar et al., 2010 Bor: bortezomib; CR: risposta completa; Dex: desametasone; Dox: doxorubicina; EFS: sopravvivenza libera da eventi; Len: lenalidomide; Mel: melfalan; Mel100: melfalan 100 mg/m2; MP: melfalan-prednisone; MPR: melfalan-prednisone-lenalidomide; MPT: melfalan-prednisone-talidomide; NA: non disponibile; OS: sopravvivenza globale; PAD: bortezomib-doxorubicina-desametasone; Pdn: prednisone; PFS: sopravvivenza libera da progressione; PLD: doxorubicina peghilata liposomiale; PR: risposta parziale; R: lenalidomide; Rd: lenalidomide-basse dosi di desametasone; RD: lenalidomide-alte dosi di desametasone; RP: lenalidomide-prednisone; TAD: talidomide-doxorubicinadesametasone; TD: talidomide-desametasone; T: talidomide; Thal: talidomide; TTP: tempo alla progressione; VAD: vincristina-doxorubicina-desametasone; VCR: vincristina; VD: bortezomib-desametasone; VGPR: very good partial response; VMP: bortezomib-melfalan-prednisone; VTD: bortezomib-talidomide-desametasone. post-trapianto sia per la PFS e la OS a 3 anni (si veda tabella 15.37) (Harousseau et al., 2010). Attualmente sono in corso numerosi studi in cui il bortezomib è integrato in schemi a base di tre farmaci: l’Italian Myeloma Network (Gruppo Italiano Malattie Ematologiche dell’Adulto, GIMEMA) ha condotto un confronto fra le combinazioni bortezomib-talidomide-desametasone (VTD) e TD somministrati prima e dopo il doppio autotrapianto: i recenti risultati indicano una superiorità in termini di CR + nCR, CR + VGPR e di PFS nei pazienti trattati con VTD rispetto al TD (Cavo et al., 2010) (si veda tabella 15.4). Uno studio di fase III condotto dal gruppo di studio spagnolo sul mieloma (Programa Para El Estudio y la Terapèutica de las Hemopatìas Malignas y Grupo Espanol de Mieloma, PETHEMA/GEM) ha confrontato le risposte ottenute dopo induzione con VTD con quelle ottenute dopo TD o VBMCP/VBAD (vincristina, carmustina, melfalan, ciclofosfamide; prednisone/vincristina, carmustina, doxorubicina e desametasone) seguiti da 2 cicli di bortezomib, e ha così dimostrato un maggior numero di CR post-induzione nel gruppo VTD (35%) rispetto a VBCP/VBAD (21%) e TD (14%) (p = 0,0001) (Rosinol et al., 2012). Lo schema VTD è stato valutato anche nell’ambito della Total Therapy 3 (TT3) dal gruppo americano di Arkansas. In questo studio il VTD è stato associato come terapia di induzione a un regime polichemioterapico in infusione Ca pi to l o 1 5 M i eloma multi plo continua (cisplatino, doxorubicina, ciclofosfamide e etoposide, PACE). Nel post-trapianto i pazienti ricevevano successivo mantenimento con VTD o bortezomib, lenalidomide e desametasone (VRD). I risultati ottenuti sono incoraggianti: con un follow-up mediano di 39 mesi, la EFS a 4 mesi era del 71% e la OS a 4 anni del 78% (Barlogie et al., 2008a). In aggiunta a questi studi, il French Myeloma Group ha presentato i risultati di un trial che dimostra la superiorità della combinazione vTD nei confronti di quella contenente bortezomib/desametasone (VD); un ulteriore dato interessante emerso dallo studio è che l’utilizzo di una dose inferiore di bortezomib (v: 1 mg/m2), paragonata alle dosi precedentemente utilizzate nello studio del regime VTD (V: 1,3 mg/m2), è in grado di ridurre l’incidenza di neuropatia periferica, con tassi di CR + VGPR post-induzione e post-trapianto significativamente maggiori nel braccio vTD rispetto al braccio VD (Moreau et al., 2011). Lo studio di fase III del gruppo HOVON e dei GermanSpeaking Myeloma Multicenter Group (GMMG), paragona l’induzione con bortezomib, doxorubicina e desametasone (PAD) con lo standard VAD, con successivo mantenimento post-trapianto con talidomide per i pazienti braccio VAD e bortezomib per i pazienti braccio PAD. I risultati mostrano risposte migliori in termini di CR, ≥VGPR e ≥PR nel gruppo di pazienti trattato con il regime di induzione PAD rispetto al VAD (36% vs 24%, p <0,001; 76% vs 56%, p <0,001; 90% vs 83%, p = 0,002) (Sonneveld et al., 2010; Sonneveld et al., 2012). Infine, è in corso uno studio di fase II/III del gruppo tedesco del mieloma (Deutsche Studienngruppe Multiples Myelom, DSMM) che sta analizzando l’associazione bortezomibciclofosfamide-desametasone (VCD) come terapia di induzione: risultati preliminari ottenuti su 200 pazienti (PR rate: 84%, CR: 12,5%, mortalità correlata alla terapia: 1%) hanno confermato l’efficacia di tale schema terapeutico già dimostrata in precedenti trial sia nei pazienti di nuova diagnosi sia nei pazienti ricaduti/refrattari (Davies et al., 2007; Reeder et al., 2009; Knop et al., 2009). Per ottimizzare il trattamento di induzione e migliorare la tollerabilità e la compliance è stata recentemente valutata la combinazione di bortezomib, lenalidomide e desametasone (VRD) sostituendo la talidomide con la lenalidomide: il disegno dello studio prevedeva che dopo almeno 4 cicli di terapia i pazienti che ottenevano perlomeno una PR erano avviati ad autotrapianto, altrimenti procedevano con lo schema VRD per 8 cicli totali seguiti da mantenimento. In particolare, il 42% dei pazienti ha potuto eseguire il trapianto autologo, i risultati ottenuti in termini di “PR rate”, risposte ≥VGPR e ≥CR/nCR sono stati del 100%, 57% e 21% rispettivamente dopo solo 4 cicli di induzione (Richardson et al., 2010). Al fine di migliorare ulteriormente la prognosi dei pazienti affetti da MM, sono state sperimentate anche associazioni farmacologiche costituite da quattro farmaci (bortezomib, talidomide, desametasone con o senza ciclofosfamide; bortezomib, lenalidomide, desametasone con o senza ciclofosfamide) (Kumar et al., 2012). Tuttavia, l’introduzione di un quarto farmaco in questo studio non ha dimostrato una maggiore efficacia, ma una maggiore tossicità. Terapie a base di lenalidomide La lenalidomide è un analogo della talidomide e i risultati iniziali sembrano indicare che sia più efficace e con un diverso profilo di tossicità, in particolare una minore neuropatia periferica rispetto alla molecola capostipite. Un esteso studio di fase III del gruppo Eastern Cooperative Oncology (ECOG) ha confrontato la lenalidomide in combinazione con due diverse dosi di desametasone nei pazienti alla diagnosi. Il primo braccio della randomizzazione prevedeva lenalidomide 25 mg nei giorni 1-21 con alte dosi di desametasone (40 mg nei giorni 1-4, 9-12 e 17-20 ogni 28 giorni [RD]) il secondo braccio invece lenalidomide con basse dosi di desametasone (40 mg nei giorni 1, 8, 15 e 22 ogni 28 giorni [Rd]). Nonostante un più elevato tasso di risposte nei pazienti trattati con RD (PR rate 79% vs 68%, p = 0,008; ≥VGPR 42% vs 24%, p = 0,008), la PFS mediana e la OS a 1 e a 2 anni sono risultate significativamente superiori nel gruppo Rd: PFS 25,3 vs 19,1 mesi, p = 0,026 e OS a 2 anni 87% vs 75%, p = 0,0002 rispettivamente nei gruppi Rd e RD (Rajkumar et al., 2010). Una Landmark analysis a 4 mesi ha valutato la OS a 3 anni in tre sottogruppi di pazienti: 4 mesi di terapia con schema Rd nel primo gruppo (OS: 55%), 4 mesi di terapia con Rd seguito da trapianto autologo nel secondo (OS: 92%) e Rd fino a progressione/tossicità nel terzo (OS: 79%). I risultati di questa analisi suggeriscono l’importanza di proseguire il trattamento nel tempo o di un’opzione a breve durata ma seguita da trapianto autologo (Rajkumar et al., 2010). Un altro studio di fase II esamina la combinazione di lenalidomide con ciclofosfamide e desametasone, riportando i seguenti risultati: PR rate 80%, ≥VGPR 40%, ≥CR/nCR 2% (Kumar et al., 2008b). Le combinazioni di lenalidomide con altri farmaci sono state precedentemente descritte nel paragrafo relativo al bortezomib. Ruolo del trapianto autologo di cellule staminali periferiche Allo stato attuale, il ASCT, preceduto dalla terapia di induzione con nuovi farmaci, costituisce il gold standard terapeutico per i pazienti giovani. La terapia ad alte dosi (HDT), basata solitamente sull’utilizzo di melfalan 200 mg/m2, seguita dalla reinfusione di cellule staminali periferiche, ha dimostrato un prolungamento di PFS e di OS se paragonata alla terapia standard in numerosi studi randomizzati condotti dai gruppi francese (IFM) e inglese (MRC) (Attal et al., 1996; Child et al., 2003). Gli studi americani (SWOG 9321), francesi (MAG91) e spagnoli (PETHEMA-94) hanno tutti confermato il beneficio del trapianto in termini di risposte e di EFS, ma i dati su OS sono discordanti (Barlogie et al., 2006a; Fermand et al., 2005; Bladé et al., 2005). Il ASCT può essere eseguito sia precocemente, successivamente cioè alla terapia di induzione, sia alla prima recidiva di malattia. Tali opzioni sono state vagliate in un trial randomizzato francese i cui risultati in termini di OS sono equiparabili. Tuttavia, il ASCT eseguito precocemente sembra associato 621 622 Ca pito lo 15 M ielo m a m u lt ip lo a una migliore qualità di vita, intesa come tempo trascorso in assenza di sintomi ed effetti collaterali legati alle terapie (Fermand et al., 1998). Studi recenti, inoltre, hanno mostrato come una malattia in progressione (PD) in seguito alla terapia di prima linea non precluda una buona risposta all’autotrapianto (Hahn et al., 2003; Kumar et al., 2004). Il ruolo del doppio trapianto autologo (“tandem ASCT”) rimane ancora non del tutto chiarito. Le linee guida JNCCN (Anderson et al., 2011) raccomandano di raccogliere e criopreservare sufficienti cellule staminali per l’esecuzione di un doppio ASCT, il quale rappresenta una valida opzione terapeutica soprattutto per quei pazienti che non raggiungono una risposta al primo trapianto almeno pari a una VGPR, entro i 6 mesi del primo ASCT, come dimostrato dal gruppo francese IFM e dal gruppo italiano (Attal et al., 2003; Cavo et al., 2007). La possibilità di eseguire un doppio ASCT dopo la terapia di induzione anziché un solo ASCT è stata vagliata in 5 studi randomizzati: i risultati differiscono tra loro soprattutto per le difformità strutturali tra gli studi e sebbene la EFS sia più duratura nei pazienti sottoposti a trapianto tandem nella maggior parte degli studi, un beneficio in termini di OS è stato osservato solo in 2 di essi. Attualmente quindi, l’IMWG (International Myeloma Working Group) suggerisce di considerare il doppio trapianto per quei pazienti in cui non si ottenga una risposta almeno pari a una VGPR dopo il primo ASCT. Inoltre, dosi intermedie di melfalan (da 100 a 140 mg/m2) seguite dalla reinfusione di cellule staminali periferiche, rappresentano una valida opzione nei pazienti fra i 65 e i 70 anni, o pazienti giovani con importanti comorbilità (Palumbo et al., 2010c; Palumbo et al., 2009). Il ruolo del trapianto allogenico è discutibile nel MM, a causa di un’elevata morbilità, soprattutto correlata a GVHD (graft versus host disease) cronica e mortalità da trapianto (TRM), oltre alla difficoltà a identificare un donatore compatibile, e ha fino a ora limitato il suo utilizzo, soprattutto in pazienti di età avanzata, che costituiscono la maggior parte dei soggetti affetti da MM. Tre studi hanno riportato una TRM fra il 34% e il 54%, una EFS tra il 22% e il 36% e una OS fra il 28% e il 44% con un follow-up mediano fra i 5 e i 7 anni (Barlogie et al., 2006a; Lokhorst et al., 2003; Hunter et al., 2005). La selezione del paziente idoneo ad allotrapianto rappresenta il primo passo volto a limitare le complicanze e a tal proposito vengono utilizzati degli “score” di comorbilità; la selezione deve inoltre tener presente lo stato di malattia pretrapianto poiché i risultati sono superiori nei pazienti in prima remissione di malattia rispetto ai pazienti che non hanno raggiunto la CR e/o recidivati (Maloney et al., 2003; Crawley et al., 2005). Nello studio di Corradini, l’acquisizione della remissione molecolare post-trapianto era associata a un basso rischio di ricaduta e questo dato ha permesso di concludere che anche lo stato di malattia nella fase post-trapianto è decisivo per mantenere la malattia sotto controllo (Corradini et al., 2003). Accanto al trapianto mieloablativo sono stati condotti numerosi studi che prevedono un condizionamento non mieloablativo, al fine di ridurre la morbilità indotta dalla chemioterapia ad alte dosi, pur mantenendo l’effetto graftversus-tumor (graft-versus-myeloma, “GVm”). Per esempio, il gruppo di Seattle ha utilizzato un approccio sequenziale con autotrapianto seguito da un allotrapianto a ridotta intensità T-depleto e con basse dosi TBI (total body irradiation). La TRM al giorno 100 era dello 0%, mentre la OS e la PFS a 48 mesi erano del 69% e 45% rispettivamente, con una bassa incidenza di GVHD acuta ma un’alta incidenza di GVHD cronica (Maloney et al., 2003). Risultati simili sono riportati in altri studi di fase II, nei quali è dimostrata una correlazione fra GVHD cronica, remissione completa di malattia e OS/PFS (Le Blanc et al., 2001; Perez Simon et al., 2003; Mohty et al., 2004; Gerull et al., 2005). Lo studio retrospettivo EBMT (Crawley et al., 2005) ha invece mostrato risultati migliori nei pazienti con minor GVHD cronica, controllata grazie a T-deplezione delle sacche, ma ciò era associato a più alte quote di recidive. Questo ha permesso di concludere come vi sia un’intima correlazione fra GVm e GVHD e che le procedure atte a limitare la graft possano influenzare negativamente il controllo della malattia a lungo termine. Per quanto riguarda il trapianto da donatore non familiare (MUD allo-SCT) numerosi studi retrospettivi hanno dimostrato una più alta TRM se comparati a pazienti allotrapiantati da donatore familiare, per tale motivo c’è un unanime consenso a riservare l’allogenico da MUD solo nel corso di studi clinici controllati (Shaw et al., 2003). In uno studio randomizzato il trapianto allogenico è risultato superiore al trapianto autologo (Bruno et al., 2007; Giaccone et al., 2011). Dopo l’introduzione dei nuovi farmaci, il trapianto allogenico è considerato un’opzione meno attraente e il suo uso è sconsigliato al di fuori di protocolli clinici. Rimane da valutare in studi randomizzati il suo impiego, in associazione ai nuovi farmaci, nei pazienti ad altissimo rischio (per esempio, con delezione del cromosoma 17). Consolidamento e mantenimento La fase di consolidamento (solitamente da 2 a 4 cicli di una combinazione di farmaci dopo induzione) e il ruolo del mantenimento (terapia in continuo fino a progressione di malattia) sono tuttora in fase di sperimentazione. Per molti anni sono stati utilizzati interferone e/o corticosteroidi come terapia di mantenimento dopo il trapianto autologo. L’utilizzo è stato poi abbandonato visti i numerosi effetti collaterali e il modesto vantaggio in termini di sopravvivenza. L’impiego di nuovi farmaci (in particolare le formulazioni orali di talidomide e lenalidomide) ha rinnovato il concetto del mantenimento come procedura finalizzata a prolungare la durata delle risposte ottenute dopo il trapianto: i principali studi e i relativi risultati in cui è stata utilizzata talidomide di mantenimento dopo ASCT sono illustrati nella tabella 15.5: il gruppo IFM è stato il primo a dimostrare che l’utilizzo di talidomide post-ASCT è correlato a un miglioramento delle risposte se confrontato con l’impiego del solo pamidronato o la sola osservazione (Attal et al., 2006); il gruppo australiano ha ottenuto risultati simili paragonando la talidomide (somministrata per 12 mesi) più prednisone (fino a progressione), con il prednisone da solo (Spencer et al., 2009); tre studi hanno dimostrato benefici in termini di PFS e OS utilizzando il Ca pi to l o 1 5 M i eloma multi plo mantenimento con talidomide (Attal et al., 2006; Spencer et al., 2009; Barlogie et al., 2008b; Barlogie et al., 2010); uno studio ha riportato un prolungamento di PFS ma non di OS in diversi sottogruppi di pazienti con differenti profili citogenetici (Morgan et al., 2012a). Dal punto di vista della tossicità, i principali effetti collaterali emersi nei diversi studi sono la neuropatia periferica, l’astenia e la stipsi. Una delle principali cause di interruzione del trattamento è infatti la neurotossicità, il rischio di eventi tromboembolici, al contrario, non è risultato particolarmente elevato, diversamente da quanto può verificarsi durante l’induzione. La principale difficoltà nel paragonare tutti gli studi è determinata dal fatto che in alcuni la talidomide veniva somministrata già in fase di induzione, in altri solo durante il mantenimento, dopo induzione con chemioterapia standard. I dati sembrerebbero pertanto suggerire che, per minimizzare gli eventi avversi correlati a un’esposizione prolungata, la terapia con talidomide dopo induzione potrebbe avere un ruolo soprattutto in termini di consolidamento, interrompendo il trattamento dopo ottenimento della massima risposta possibile (Palumbo e Anderson, 2011; Ludwig et al., 2012). Il ruolo del bortezomib come terapia di consolidamento/ mantenimento è ancora in fase di definizione. È possibile che, analogamente alla talidomide, possa avere un ruolo soprattutto come consolidamento, considerato il fatto che una sua prolungata somministrazione è gravata dal potenziale rischio di neuropatia periferica. Lo studio GIMEMA ha dimostrato come la combinazione di bortezomib, talidomide e desametasone (VTD) come consolidamento migliori le risposte ottenute con il trapianto (il 30,5% dei pazienti non in CR prima del consolidamento l’hanno poi successivamente raggiunta dopo consolidamento, rispetto a un 16,7% del braccio TD, p = 0,030) (Cavo et al., 2012). Il gruppo Hovon ha analizzato il bortezomib come terapia di mantenimento ogni 15 giorni dopo il trapianto: i risultati indicano un miglioramento nelle quote CR dal 31% al 49% (Sonneveld et al., 2012). Per quanto riguarda la lenalidomide (si veda tabella 15.6) il diverso profilo di tossicità, tale da permetterne l’utilizzo più a lungo rispetto al capostipite, la rende un farmaco più adatto a una terapia di mantenimento, e ciò ha dato il via a numerosi studi sul suo impiego in post-trapianto: lo studio francese di fase III IFM2005-02 ha dimostrato, dopo un follow-up mediano di 34 mesi dalla randomizzazione e 44 mesi dalla diagnosi, che il consolidamento con lenalidomide migliora la risposta, mentre il mantenimento migliora la PFS (PFS mediana 24 mesi dalla randomizzazione nel braccio A, mantenimento con placebo, contro i 42 mesi dalla randomizzazione nel braccio B, mantenimento con lenalidomide, fino a recidiva, HR: 0,5, p <10-8) (Attal et al., 2010). In uno studio multicentrico di fase III, dopo un periodo di follow-up mediano di 17,5 mesi dall’ASCT, i pazienti in terapia continua con lenalidomide hanno mostrato una PFS mediana significativamente superiore rispetto al placebo (42,3 vs 21,8 mesi, rispettivamente) e una riduzione del 60% del rischio di progressione della malattia o di morte (p <0,0001) (Mc Carthy et al., 2011). La terapia di mantenimento con lenalidomide è stata ben tollerata, con tossicità ematologiche maneggevoli, assen- za di neurotossicità, assenza di incremento del rischio tromboembolico o infettivo. Tuttavia, è stato osservato un incremento dell’incidenza di seconde neoplasie primitive. Sono quindi necessari ulteriori studi per valutare il vero rischio di tale evento avverso, per comprendere quali siano i fattori di rischio correlati a esso e per sviluppare strategie atte a prevenirlo. TERAPIA ALLA DIAGNOSI NEL PAZIENTE ANZIANO O NEL GIOVANE NON ELEGGIBILE AL TRAPIANTO AUTOLOGO La terapia standard per pazienti non candidabili ad autotrapianto è stata, per più di trent’anni, la combinazione melfalan-prednisone (MP). Il tasso di risposte parziali a tale terapia era di circa il 50% e la mediana di sopravvivenza è di 2-3 anni (Kyle e Rajkumar, 2008). Nell’ultima decade, l’introduzione dei nuovi farmaci come talidomide, bortezomib e lenalidomide, variamente combinati con desametasone e MP, ha sostituito l’associazione MP. Attualmente, la terapia standard in pazienti non candidabili ad ASCT è rappresentata dall’associazione di melfalan e prednisone con talidomide e bortezomib (MPT/VMP). TERAPIE A BASE DI TALIDOMIDE Melfalan, prednisone, talidomide Sei studi randomizzati han- no dimostrato la superiorità della combinazione melfalanprednisone-talidomide (MPT) nei confronti dello schema standard MP. Nonostante le differenze tra le dosi e gli schemi di trattamento, la combinazione MPT ha prodotto maggiori risposte, con un aumento della PFS. L’impatto sulla OS è risultato variabile nei diversi studi (Guldbrandsen et al., 2008; Palumbo et al., 2006; Palumbo et al., 2008; Wijermans et al., 2010) con un significativo prolungamento solo in 2 di questi (Facon et al., 2007; Hulin et al., 2009). Una recente metanalisi ha integrato i risultati dei 6 studi, includendo così 1.682 pazienti, e ha evidenziato un incremento della PFS mediana pari a 5,4 mesi e l’aumento della OS mediana di 6,6 mesi rispetto allo schema MP (Waage et al., 2010; Fayers et al., 2011). Gli schemi MPT hanno mostrato una discreta tollerabilità, i più importanti eventi avversi di grado 3-4 erano la neutropenia (tra il 16% e il 48%), la neuropatia periferica (tra il 6% e il 20%) e il tromboembolismo venoso (VTE) (fra il 3% e il 12%). Altri disturbi molto comuni sono l’astenia, la stipsi e, negli anziani, le aritmie (bradicardia, in particolare). I dati emersi da questi 5 trial clinici randomizzati dimostrano come lo schema MPT sia superiore allo schema MP e quindi sia da considerarsi lo standard di terapia nei pazienti con più di 65 anni o in chi non possa essere sottoposto ad autotrapianto. Il dosaggio ottimale di talidomide viene inoltre adattato e bilanciato fra efficacia e tollerabilità; da quando è stata introdotta, infatti, c’è stato un progressivo calo dai 400 mg/die ai 50 mg/die dello studio Hovon-50. 623 624 Ca pito lo 15 M ielo m a m u lt ip lo Attualmente, riassumendo quelli che sono i risultati dei diversi studi, il dosaggio raccomandato varia tra i 50 e i 100 mg/die. TERAPIE A BASE DI BORTEZOMIB Melfalan, prednisone e bortezomib Lo studio Velcade as Initial Standard Therapy Assessment (VISTA) ha confrontato la combinazione di melfalan-prednisone-bortezomib (VMP) con lo standard MP e ha confermato la superiorità del primo rispetto al secondo in termini di risposta (≥ PR: 71% e 35% rispettivamente, CR: 30% e 4%, p <0,001), di tempo alla progressione (TTP) (mediano: 24 e 16,6 mesi rispettivamente, p <0,001) e di OS (a 3 anni: 72% e 59% rispettivamente, p = 0,00329). Gli eventi avversi di grado 3-4 erano maggiori nel gruppo VMP (53% vs 44%, p = 0,02) con un’incidenza più elevata nei primi cicli di terapia e nei pazienti con più di 75 anni rappresentati soprattutto da trombocitopenia, neutropenia, neuropatia periferica e infezioni (in particolare la riattivazione dell’herpes zoster virus per cui si raccomanda sempre un’adeguata profilassi) (San Miguel et al., 2008). Un recente aggiornamento dello studio VISTA ha confermato i benefici in termini di OS del VMP (68,5% a 3 anni di followup mediano) rispetto al MP (54,0% a 3 anni di follow-up mediano) (Delforge et al., 2012). Bortezomib, talidomide e prednisone Uno studio randomizza- to ha paragonato il nuovo standard VMP con l’associazione di bortezomib-talidomide-prednisone (VTP) come terapia di induzione; seguiti da mantenimento con bortezomibprednisone (VP) nel gruppo VMP e bortezomib-talidomide (VT) nel gruppo VTP. Le risposte erano simili nei due gruppi: ≥PR nel 79% dei pazienti trattati con VMP e VTP, CR del 22% versus il 27% rispettivamente (p = non significativo). Dopo un follow-up mediano di 22 mesi non vi erano differenze significative tra i due gruppi di trattamento in termini di TTP a 2 anni (VMP 75% vs VTP 70%), PFS (VMP 71% vs VTP 61%) e OS (VMP 81% vs VTP 84%). I pazienti trattati con VTP presentavano un maggior numero di eventi avversi non ematologici di grado 3-4, in particolare cardiaci, eventi tromboembolici e neuropatia periferica e ciò si traduceva in un numero maggiore di pazienti che usciva dallo studio per tossicità. Nel gruppo VMP le maggiori tossicità osservate erano neutropenia, trombocitopenia e infezioni. Durante la terapia di mantenimento le CR aumentavano dal 25% (rispetto a quelle ottenute con sola terapia di induzione) al 42% senza significative differenze nei gruppi VT e VP (46% e 38%) (Mateos et al., 2010). Bortezomib, talidomide, melfalan e prednisone Dati recenti di uno studio randomizzato di fase III che ha paragonato la combinazione di 4 farmaci, MP talidomide e bortezomib (VMPT) seguito da mantenimento con bortezomib e talidomide, con lo standard VMP, mostrano delle risposte superiori nel gruppo VMPT: ≥PR (89% vs 81%, p = 0,01), ≥VGPR (59% vs 50%, p = 0,03) e quote di CR (38% vs 24%, p = 0,0008) nei due gruppi rispettivamente; così come una PFS a 2 anni superiore nel gruppo VMPT (70% vs 58,2%, p = 0,008). Le tossicità non erano significativamente diverse nei due gruppi a eccezione di neutropenie di grado 3-4 e delle complicanze cardiache riscontrate in maggior misura nel gruppo VMPT rispetto al VMP (Barlogie et al., 2006b). Lo studio italiano ha inoltre valutato la possibilità di infusioni a dosaggio ridotto con infusioni di bortezomib settimanali anziché bisettimanali (schema 1,8,15,22 anziché 1,4,8,11) e ciò ha permesso una riduzione della neurotossicità (dal 24% al 6% nel gruppo VMPT e dal 14% al 2% nel gruppo VMP) senza pregiudicare l’efficacia della terapia (le CR erano ridotte dal 27% al 20% nel gruppo VMP ma non nel gruppo VMPT: 36% vs 39%) (Palumbo et al., 2010a). Nei pazienti di età superiore ai 75 anni o nei giovani con neuropatia periferica preesistente, l’opzione settimanale anziché bisettimanale, e l’introduzione della formulazione sottocute che risulta meno neurotossica permettono di sfruttare i vantaggi di un trattamento prolungato, senza peggioramento della tossicità. TERAPIE A BASE DI LENALIDOMIDE Lenalidomide e desametasone L’associazione di lenalido- mide con alte dosi di desametasone (RD) è stata analizzata in uno studio di fase III e confrontata con il desametasone da solo: nonostante una maggior quota di risposte (ORR: 78% vs 48, p <0,001) e un prolungamento della PFS a un anno (78% vs 52%, p = 0,002) nel gruppo RD, non vi era differenza significativa nei due gruppi in termini di OS. I pazienti trattati con RD presentavano maggiore neutropenia di grado 3-4 (21% vs 5%) ed eventi tromboembolici nonostante l’adeguata profilassi con aspirina (23,5 vs 5%, p <0,001) (Zonder et al., 2010). Come già riportato in precedenza per i pazienti giovani di nuova diagnosi, la maggiore tossicità correlata al desametasone ha impedito di proseguire con lo schema RD e ha evidenziato come l’uso prolungato di basse dosi con Rd fino a progressione o fino a che tollerato possa essere considerato come una valida opzione nei pazienti anziani data l’efficacia e la tollerabilità (Rajkumar et al., 2010). Lenalidomide, melfalan e prednisone (MPR) Nei pazienti non candidabili al trapianto, l’uso a lungo termine della lenalidomide riduce il rischio di progressione di malattia utilizzando un profilo di terapia maneggevole in termini di tossicità come dimostrato da uno studio randomizzato di fase III in cui 459 pazienti con nuova diagnosi di MM di età superiore ai 65 anni venivano randomizzati in un braccio che riceveva lenalidomide (R) in continuo al dosaggio di 10 mg al giorno dopo induzione con melfalan (M), prednisone (P), e R (MPR-R), un secondo braccio che riceveva solo MPR senza successivo mantenimento e un terzo braccio che riceveva solo MP. I risultati hanno dimostrato che la combinazione MPR-R riduce il rischio di progressione del 58% rispetto all’associazione MP (hazard ratio [HR] = 0,423; p <0,001). La PFS è risultata superiore nei pazienti che ricevevano R in continuo rispetto a dosi fisse di MP indipendentemente dal sesso, dallo stadio, dalla funzionalità renale o dal valore alla diagnosi della b2-microglobulina. Un’analisi “Landmark” che ha poi paragonato MPR-R con MPR ha dimostrato che il mantenimento con R riduceva il rischio di progressione del 69% rispetto al placebo (HR = 0,314; p <0,001). Indipendentemente poi dalla risposta ottenuta dopo induzione, i pazienti trattati con R in mantenimento avevano una PFS prolungata rispetto al gruppo placebo. Il mantenimento con R è stato inoltre ben tollerato se lo si paragona con Ca pi to l o 1 5 M i eloma multi plo il gruppo placebo, con pochi eventi avversi di grado 3-4 e minima tossicità cumulativa, 3% di trombocitopenia rispetto al 2% del placebo, 2% di neutropenia rispetto a 0% e 1% di trombosi venosa profonda rispetto a 0%. Per tali motivi, lo schema MPR seguito da mantenimento con lenalidomide può essere considerato un nuovo regime standard dei pazienti di età superiore ai 65 anni o nei giovani non eleggibili al trapianto (Palumbo et al., 2010b). TERAPIA DEI PAZIENTI RICADUTI/REFRATTARI Per MM recidivato si intende la ricomparsa, dopo un periodo di tempo più o meno lungo di remissione, dei segni e dei sintomi che ne contraddistinguono il quadro clinico, in tale situazione si rende necessario iniziare tempestivamente una terapia di salvataggio. Il mieloma refrattario invece è definito come malattia non responsiva alla terapia di induzione o alla terapia di salvataggio, o che vada incontro a PD entro i 60 giorni dall’ultima terapia. La terapia va iniziata, come per i pazienti alla diagnosi, quando ricompaiano i segni e i sintomi del danno di organo (criteri CRAB) o anche in presenza del solo raddoppiamento della componente monoclonale nell’arco di 2 mesi; il solo aumento della percentuale di plasmacellule a livello midollare non giustifica l’inizio della terapia, così come un lento incremento della componente monoclonale. I fattori prognostici più importanti sono la qualità e la durata della risposta alla precedente terapia: se la recidiva avviene dopo 2 anni dall’inizio della prima linea o dopo 1 anno nei pazienti recidivati/refrattari, si ritiene opportuno ripetere il medesimo trattamento. In alternativa, nei pazienti con malattia recidivante, si procede a intraprendere un nuovo regime di farmaci che permetta di ottenere buoni risultati in termini sia di risposta sia di intervallo libero da malattia. I regimi terapeutici più utilizzati prevedono l’uso di corticosteroidi in associazione a talidomide, lenalidomide o bortezomib. Eventualmente, al fine di incrementare il tasso di risposta pur tenendo in considerazione la maggiore tossicità, è possibile aggiungere una antraciclina alle combinazioni suddette. Inoltre, è da vagliare l’opzione trapiantologica nei pazienti che hanno mantenuto una buona risposta nel tempo o in coloro non precedentemente trattati con le alte dosi (Richardson et al., 2007a). Lo studio APEX del 2005 ha condotto all’approvazione dell’uso del bortezomib in pazienti in recidiva di malattia; la sola somministrazione di bortezomib ha dimostrato una superiore efficacia, in termini di PR (38% vs 18%) e OS a 1 anno (80% vs 66%), paragonata alla somministrazione di alte dosi di desametasone (Richardson et al., 2007b). Un successivo studio di fase III ha comparato bortezomib con bortezomib/doxorubicina liposomiale peghilata (PLD) in pazienti con MM recidivato o refrattario. Un incremento del TTP (6,5 vs 9,3 mesi), della PFS (6,5 vs 9,0 mesi) e una maggiore durata della risposta alla terapia (7,0 vs 10,2 mesi) erano riportati nel braccio bortezomib/doxorubicina liposomiale peghilata (Orlowski et al., 2007). Due studi di fase III hanno invece comparato l’efficacia della somministrazione di lenalidomide/desametasone con alte dosi di desametasone: i tassi di risposta (PR + CR: 60-61% vs 24-19,9%), il TTP (11,3-11,1 vs 4,7 mesi) e l’OS (29,6 vs 20,2 mesi) suggeriscono la superiorità del primo gruppo rispetto al secondo, e pertanto la combinazione Rd è stata approvata per i pazienti con MM recidivato (Weber et al., 2007; Dimopoulos et al., 2007). Studi su pazienti trattati con regimi contenenti talidomide o lenalidomide in prima linea e nuovamente trattati con farmaci immunomodulanti (IMiD; talidomide, lenalidomide, pomalidomide) alla recidiva hanno mostrato come l’utilizzo di un differente IMiD, possa comunque indurre una risposta. In particolare, questo è stato confermato per il più recente farmaco immunomodulante, pomalidomide, se somministrata successivamente a talidomide e lenalidomide (Madan et al., 2010; Madan et al., 2011). L’efficacia di bortezomib e lenalidomide, inoltre, sembra essere potenziata dalla concomitante somministrazione di un terzo agente, come melfalan, ciclofosfamide o doxorubicina: il ricorso a un regime costituito dalla combinazione di 3 farmaci può quindi essere considerato per aumentare l’efficacia quando i regimi standard siano esauriti o la malattia resistente alla terapia (Palumbo et al., 2009; van de Donk et al., 2010). CONCLUSIONI E PROSPETTIVE FUTURE Se si guarda al disegno degli studi clinici in corso si osserva un profondo cambiamento rispetto a pochi anni or sono. Nella maggior parte degli studi, sia per i soggetti giovani sia per gli anziani, la terapia si divide in blocchi con una fase di induzione, una di consolidamento e a seguire una di mantenimento. Gli obiettivi sono di indurre la massima citoriduzione e quindi di consolidare e mantenere nel tempo le risposte ottenute in modo tale da ritardare la ricomparsa dei segni e dei sintomi della patologia. Nuovi farmaci con migliore tolleranza hanno consentito di potenziare la fase di induzione e di prolungare la fase di consolidamento/ mantenimento. La scelta del miglior trattamento per ogni singolo paziente deve essere guidata dai risultati degli studi clinici randomizzati; inoltre, sono da tenere presenti l’età biologica, le comorbilità e il profilo di tossicità dei diversi regimi terapeutici. Continui progressi delle conoscenze sulle basi patogenetiche e molecolari della malattia hanno portato a una miglior stratificazione prognostica e nuove opportunità terapeutiche: nuovi inibitori del proteasoma (carfilzomib), nuovi farmaci immunomodulanti (pomalidomide), le cosidette “target therapies” (inibitori del NF-kB, MAPK e AKT), i farmaci epigenetici (inibitori delle istondeacetilasi vorinostat e panobinostat) e gli anticorpi monoclonali umanizzati (elotuzumab e siltuximab). Come integrare questi nuovi trattamenti, in che dosi e in quale sequenza per ottenere i migliori risultati sarà il lavoro a cui saranno chiamati i ricercatori clinici nei prossimi anni. 625 626 Ca pito lo 15 M ielo m a m u lt ip lo BIBLIOGRAFIA Alexander DD, Mink PJ, Adami HO et al. Multiple Myeloma: a review of the epidemiologic literature. INT J Cancer 2007;120:40-61. Alexanian R, Barlogie B, Tucker S. VAD-based regimens as primary treatment for multiple myeloma. Am J Hematol 1990;33:86-89. 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