QUADERNI
del
Consiglio Superiore della Magistratura
CORSI DI FORMAZIONE E DI AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE
PER I MAGISTRATI
IL DIRITTO COMUNITARIO
E LA
COOPERAZIONE PENALE
ROMA, 26 novembre 1° dicembre 1973
FRASCATI, 4-8 luglio 1994 - 26-27 settembre 1996
14-16 aprile 1997 - 18-21 giugno 1997
QUADERNI DEL
CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Anno 1998, Numero 102
Pubblicazione interna per l’Ordine giudiziario
curata dalla Nona commissione tirocinio
e formazione professionale
INDICE
Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PRIMA SEZIONE
FONTI NORMATIVE
Trattato C.E.
Artt. 5, 138 C, da 155 a 188 C, 205, 209, 209 A, 213 . . . . . . .
19
Diritto derivato
Tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee
Regolamento (Euratom, Ce) n. 2185/96 del Consiglio dell’11
novembre 1996 relativo ai controlli ed alle verifiche sul posto
effettuati dalla Commissione ai fini della tutela degli interessi
finanziari delle Comunità europee contro le frodi e altre irregolarità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
35
Regolamento (Ce, Euratom) n. 2988/95 del Consiglio del 18
dicembre 1995 relativo alla tutela degli interessi finanziari
delle comunità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Trattato U.E.
Titolo VI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
51
Atti adottati nell’ambito del Titolo VI del Trattato U.E.
Atto del Consiglio del 29 novembre 1996 che stabilisce, sulla
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base dell’art. K.3 sull’Unione europea, il protocollo concernente l’interpretazione, in via pregiudiziale, da parte della
Corte di giustizia delle Comunità europee . . . . . . . . . . . . . . .
56
Atto del Consiglio del 27 settembre 1996 che stabilisce un protocollo della convenzione relativa alla tutela degli interessi
finanziari delle Comunità europee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
61
Atto del Consiglio del 26 luglio 1995 che stabilisce la convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
68
(Progetto del) secondo protocollo della convenzione relativa
alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee
stabilito in base all’art. K.3 del Trattato sull’Unione Europea
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SECONDA SEZIONE
DIRITTO COMUNITARIO
Il rapporto tra giudice comunitario e giudice nazionale nel
quadro dell’art. 177 del Trattato, l’ordinanza di remissione
all’alta Corte di Giustizia
(Paolo Mengozzi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
89
Il rapporto tra giudice comunitario e giudice nazionale nel
quadro dell’art. 177 del Trattato, l’ordinanza di remissione
all’alta Corte di Giustizia
(Fausto Capelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
115
Profili di rapporti tra Diritto comunitario e Diritto penale
(Silvio Riondato) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
131
La concorrenza tra giurisdizione italiana e giurisdizione
straniera. La rinuncia alla giurisdizione
(Andrea Ragozzino) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
145
Il primato del diritto comunitario sul diritto interno. I rapporti tra norme comunitarie e norme degli Stati membri
6
nella prospettiva della Corte di Giustizia delle Comunità
Europee e della Corte Costituzionale
(Enrico Adriano Raffaelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
169
La protezione degli interessi finanziari delle Comunità
Europee
(Alberto Perduca) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
195
Il diritto dell’equo processo nella giurisprudenza della Corte
Europea dei Diritti dell’uomo
(Maria Teresa Saragnano) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
207
Frodi Comunitarie. Dal corpus iuris al nuovo programma di
lavoro della Commissione Europea
(Alessandro Butticè) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
237
La tutela degli interessi finanziari della Comunità Europea.
Il ruolo delle autorità giudiziarie nazionali e del servizio
antifrode della Commissione Europea
(Stefano Manacorda) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
251
TERZA SEZIONE
COOPERAZIONE PENALE
Le rogatorie internazionali: rogatorie all’estero
(Piercamillo Davigo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
275
Le rogatorie internazionali: rogatorie all’estero
(Pasquale Longarini) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
293
L’estradizione: problematiche interpretative ed applicative
(Eugenio Selvaggi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
389
L’estradizione passiva: procedimento; misure cautelari
(Giovandomenico Lepore) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
403
Effetti delle sentenze penali straniere. Esecuzione all’estero
di sentenze penali italiane
(Giovanni Giacalone) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
429
7
L’accordo relativo all’applicazione, tra gli Stati membri
delle Comunità europee, della convenzione del Consiglio
d’Europea sul trasferimento delle persone condannate
(Maria Luisa Padelletti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
455
Libera circolazione dei capitali e lotta la riciclaggio. L’assistenza internazionale in materia di indagini finanziarie,
sequestro e confisca dei proventi di reato
(Lucia Rossi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
479
Le frodi Comunitarie. Profili politico-criminali della tutela
delle finanze comunitarie
(Stefano Manacorda) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
489
La cooperazione giudiziaria in materia penale
(Lorenzo Salazar) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
517
Le esperienze giudiziarie di contrasto alle frodi nel settore
agroalimentare
(Giovanni Russo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
547
8
Questo numero dei Quaderni è dedicato alle problematiche
nascenti dalla applicazione del diritto comunitario, ai rapporti tra il
giudice comunitario ed il giudice nazionale ed alla cooperazione giudiziaria nel settore penale.
Il Consiglio Superiore della Magistratura da molti anni riserva al
diritto comunitario un notevole spazio nella attività di formazione dei
magistrati nella consapevolezza che la dimensione transnazionale del
crimine e le nuove realtà istituzionali seguite al trattato istitutivo della
Comunità Europea, impongono al giudice penale una attenzione al
primato del diritto comunitario sul diritto interno ed ai rapporti con
le autorità giudiziarie straniere.
Risulta dagli atti che il primo corso in diritto comunitario è stato
svolto a Roma nel novembre del 1973, mentre nell’ultimo quadriennio
gli argomenti della cooperazione penale e della tutela penale degli
interessi finanziari della Comunità Europea sono stati trattati con
appositi seminari ed inseriti come argomenti di approfondimento in
altri incontri di studio.
A partire dal 1997 il Consiglio Superiore della Magistratura ha
deciso di organizzare anche corsi decentrati di diritto comunitario,
per approfondire nelle singole sedi di Corti di Appello le problematiche nascenti dalla cooperazione penale in materia di assistenza giudiziaria, di rogatorie internazionali e di estradizioni. Sono stati già
effettuati seminari presso le Corti di Appello di Bologna, Trieste,
Venezia, Napoli, Firenze, Reggio Calabria, Messina, Palermo e
Cagliari.
Si è deciso di accorpare nella pubblicazione cinque corsi di formazione che si sono occupati dell’argomento.
1° corso: “Rapporto tra ordinamento giuridico della C.E.E. (Diritto
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Comunitario) e l’ordinamento giuridico nazionale”. Roma - 26 novembre-1° dicembre 1973.
2° corso: “Incidenza del diritto comunitario e del diritto internazionale sul processo penale”. Frascati - 4-8 luglio 1994.
3° corso: “Diritto Comunitario e Cooperazione penale”. Frascati 26-28 settembre 1996.
4° corso: “Diritto Comunitario e Cooperazione penale”. Frascati 14-16 aprile 1997.
5° corso: “Tutela interessi finanziari della Comunità Europea”. Frascati - 18-21 giugno 1997.
ed è parsa opportuna la scelta di pubblicare solo le relazioni che sembrano aderenti alle problematiche più attuali, pur apprezzando i considerevoli contributi forniti da tutti gli interventori.
Sono state inoltre selezionate alcune relazioni tenute nei primi
corsi decentrati di Diritto Comunitario.
Il materiale di studio è stato suddiviso in tre sezioni, ed è preceduto dall’intervento introduttivo tenuto dal Consigliere Gioacchino
IZZO a Venezia il 23 maggio 1997 nel corso di Diritto comunitario
decentrato.
La prima è dedicata ad una raccolta delle fonti normative indispensabili per la materia.
La seconda sezione è stata dedicata alla raccolta delle relazioni
che hanno affrontato le tematiche di diritto comunitario ed il suo rapporto con il diritto interno, nonché alla protezione degli interessi
finanziari della Comunità europea.
La terza sezione è stata dedicata allo studio degli aspetti processuali relativi alla cooperazione penale.
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INTRODUZIONE (*)
In coincidenza con il quarantennale della legislazione esecutiva
del Trattato C.E.E. il Consiglio Superiore della Magistratura ha individuato nel diritto comunitario l’oggetto dell’iniziativa di decentramento della formazione dei magistrati che prende oggi avvio a Venezia.
Il richiamo per così dire “celebrativo” non è certamente la ragione fondante di questa scelta di coniugare un forte impulso all’approfondimento del diritto comunitario con l’adozione di un modulo di
formazione decentrato, per di più caratterizzato da una prima, timida
apertura alla partecipazione degli Avvocati.
Maggior peso ha avuto piuttosto la volontà di rispondere positivamente all’iniziativa della Commissione Europea che con l’Azione
Robert SCHUMAN ha inteso rilanciare l’attività di formazione degli
operatori giuridici nella materia del diritto comunitario.
Il modulo si iscrive in un’azione che il C.S.M. sta portando avanti nella protratta assenza di provvedimenti legislativi che attivino
finalmente un’articolata struttura di formazione permanente della
magistratura. Una formazione che sia immune da rischi di omologazione culturale e che privilegi l’ampiezza e la pluralità dei contributi
culturali. Per realizzarla il Consiglio ha sollecitato al massimo le sue
risorse interne, giovandosi del prezioso apporto del suo Comitato
Scientifico.
Ma l’odierna sperimentazione pilota non avrebbe potuto realizzarsi senza l’entusiasmo e l’apporto intelligente delle colleghe Graziana CAMPANATO e Luisa NAPOLITANO cui va il merito di avere non
solo partecipato all’impostazione scientifica del corso, ma, soprattut-
(*) Intervento introduttivo del corso di diritto comunitario decentrato - Venezia
23 maggio 1997 - Cons. Giacchino IZZO.
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to, di aver assicurato le risorse prevalentemente distrettuali utili ad
una positiva realizzazione del corso stesso.
Esteso il ringraziamento del Consiglio a tutti gli altri che hanno
contribuito a livello locale alla realizzazione dell’iniziativa vorrei limitare la mia introduzione di merito sui temi oggi in discussione al versante penalistico che presenta in atto significative novità. Anche se,
per vero, molti stimoli al dibattito originano dal tema più generale del
primato del diritto comunitario che risente fortemente, dopo le due
sentenze della Corte Costituzionale n. 384/1994 e n. 94/1995 (sul ricorso in via principale per espungere leggi regionali in fieri contrarie al
diritto comunitario) ed il dibattito che ne è seguito, della diversità di
impostazione metodologica data allo stesso tema rispettivamente
dalla nostra Corte Costituzionale, tesa a sottolineare la distinzione tra
i due ordinamenti ed a ragionare sulla base di detta separazione, e
dalla Corte di Giustizia, portata invece ad esaltare la reciproca integrazione dei due ordinamenti e la posizione privilegiata di quello
comunitario.
Volendo contenere al massimo questa mia presentazione non mi
soffermerò nei temi che il prof. RIONDATO illustrerà nella sua relazione, mi occuperò soltanto di un particolare segmento di quel settore in cui più ampia e penetrante sta diventando la cooperazione tra
gli stati membri della U.E che è certamente quello relativo alla protezione quanto più efficace ed omogenea degli interessi finanziari della
Comunità.
È noto come ai sensi dell’art. 209 A del Trattato la tutela di detti
interessi rientra in primo luogo nella responsabilità degli Stati membri, ma con il regolamento (C.E., Euratom) n. 2988/1995 del 18
dicembre 1995 si è predisposto un quadro giuridico comune a tutti i
settori di attività della Comunità proprio al fine di incrementare la
ridetta tutela.
Sotto il profilo sostanziale il fulcro dell’azione sanzionatoria si
rinviene nella Convenzione di Bruxelles del 26 luglio 1995 che all’art.
1 individua nella frode comunitaria ed in “qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa all’utilizzo od alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegna la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale della C.E.E.” l’oggetto delle condotte da reprimere.
In detta Convenzione si impegnano gli stati membri a cooperare
“in modo effettivo all’inchiesta, ai procedimenti giudiziari ed all’esecuzione della pena comminata, per esempio per mezzo dell’assistenza
giudiziaria, dell’estradizione, del trasferimento dei procedimenti o del-
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l’esecuzione delle sentenze pronunciate all’estero in un altro Stato
membro”.
Come appare evidente dal testo richiamato può ritenersi possibile
un adeguamento alla Convenzione non solo per il tramite di una fattispecie incriminatrice del tipo dell’art. 640-bis cod. pen., la cui oggettività giuridica è posta ad espressa protezione del bilancio comunitario,
ma anche con disposizioni connotate da minore specificità, restando
peraltro necessaria una comune natura dolosa delle fattispecie incriminatrici attuative.
La condotta fraudolenta potrà attingere il versante delle entrate
(ad es. tasse, diritti di dogana, prelievi agricoli) e delle spese comunitarie che sono tali in quanto ascrivibili a fondi provenienti dal bilancio generale della C.E. o da quest’ultima direttamente o indirettamente gestiti.
Quanto alle entrate si pone il problema del se possa detta nozione
considerarsi estesa ai contributi percentuali che ciascun Stato membro è tenuto a versare sulla base imponibile complessiva dell’I.V.A.
nazionale.
Benché sul piano testuale una soluzione positiva risulti difficilmente sostenibile può dirsi che resta questione aperta e di grande interesse per gli operatori quella di verificare se le frodi fiscali in tema di
I.V.A., consumate nel nostro Paese, rientrino tra quelle azioni meritevoli della suddetta cooperazione, dal momento che attraverso detta
frode si riduce la base imponibile di I.V.A. e quindi indirettamente il
contributo dell’Italia al bilancio comunitario, contributo che è rapportato alla misura dell’1,4% della complessiva base imponibile I.V.A.
La tesi negativa si fonda sull’argomento tratto dalla suddetta
estraneità dell’I.V.A. dal novero delle risorse proprie del bilancio
comunitario, mentre quella positiva fa leva sull’incidenza effettiva
che la richiamata condotta fraudolenta ha sugli interessi finanziari
della C.E. provocandone una certa, anche se a volte modesta, compromissione.
Sul versante procedurale è di significativa importanza il recentissimo regolamento n. 2185 dell’11 Novembre 1996 (in vigore dal 1°
gennaio 1997) relativo ai controlli ed alle verifiche sul posto, dentro o
fuori della Comunità, effettuati dalla Commissione europea contro le
frodi ed altre irregolarità lesive degli interessi finanziari della stessa
Comunità.
Detta normativa, di portata generale e direttamente applicabile in
ciascuno degli Stati membri, è soprattutto funzionale ad una reciproca assistenza amministrativa antifrode tra la Commissione europea e
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gli Stati membri, assistenza ispirata ad un principio di leale collaborazione ed alla salvaguardia delle disposizioni applicabili in ciascun
Stato membro relative alla tutela degli interessi essenziali della propria sicurezza.
Nell’esercizio del richiamato potere di controllo e verifica dovranno rispettarsi i diritti fondamentali delle persone coinvolte, nonché le
norme relative al segreto di ufficio ed alla protezione dei dati personali, ma i controllori della Commissione, nel loro potere di accesso
alle informazioni, non potranno incontrare limiti diversi da quelli
eventualmente opponibili ai controllori nazionali.
Il potere investigativo della Commissione, qualora vi sia un pericolo di scomparsa degli elementi di prova o l’opposizione degli operatori economici onerati dal controllo, dovrà essere assistito dall’adozione da parte degli Stati membri di provvedimenti cautelari o di esecuzione necessari in base alle rispettive legislazioni.
Questo articolato e penetrante potere di inchiesta amministrativa
ha anche ricadute sul versante giudiziario penale.
Ed infatti, secondo un modello in parte ripreso dalla previsione di
utilizzo in procedure giudiziarie dei dati riservati emersi in sede di
reciproca assistenza nell’applicazione della disciplina doganale ed
agricola (Regolamento n.15 del 13 Marzo 1997), è espressamente previsto che le relazioni redatte dai controllori della Commissione, purché tengano conto dei requisiti di procedura previsti dalla legislazione
nazionale dello stato membro interessato “costituiscono, alla stessa
stregua ed alle medesime condizioni di quelle predisposte dai controllori amministrativi nazionali, elementi di prova che possono essere
ammessi nei procedimenti amministrativi o giudiziari dello Stato
membro in cui risulti necessario utilizzarle”.
Così definita, con norme direttamente operante nel nostro ordinamento, l’utilizzabilità come prova penale delle relazioni redatte dai
controllori della Commissione, va sottolineata l’assoggettabilità dell’attività di quest’ultimi “alla stessa stregua ed alle medesime condizioni” della identica attività svolta da controllori nazionali.
Ne consegue che quando nel corso della verifica emergono indizi
di realtà scatteranno le garanzie previste dall’art. 220 disp. att. cod.
proc. pen., inosservate le quali si avranno le conseguenze vizianti l’acquisizione a voi tutti note.
Quanto infine ai meccanismi di acquisizione al processo della
relazione può richiamarsi la problematica emergente in dottrina e giurisprudenza sull’acquisizione del processo verbale di constatazione
che è il tipico atto conclusivo della verifica fiscale, articolato con una
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pluralità di indicazioni (tempo della verifica e soggetti agenti; notizie
generali sul soggetto verificato; esame documentale e risultati dei controlli) in gran parte simili a quelle rinvenibili nella relazione dei controllori della Commissione.
Un piccolo tassello sembra essersi aggiunto alla possibilità di
armonizzazione fra le azioni giudiziarie dei vari Stati membri atto a
prevenire il formarsi di isole di immunità penale e contrastare i “corsari” degli illeciti finanziari la cui assoluta mobilità si rapporta purtroppo agli impacci di una asfittica cooperazione giudiziaria.
L’Italia si fa anche per tal verso più Europea, secondo una logica
di superamento delle sovranità nazionali che rivela la sua positività in
particolare in questi momenti in cui istanze localistiche sembrano
volerci costringere ad approdi diversi.
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PRIMA SEZIONE
FONTI NORMATIVE
TRATTATO CHE ISTITUISCE
LA COMUNITÀ EUROPEA
Articolo 5
Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest’ultima nell’adempimento dei propri compiti.
Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere
la realizzazione degli scopi del presente trattato.
Articolo 138 C (*)
Nell’ambito delle sue funzioni, il Parlamento europeo, su richiesta
di un quarto dei suoi membri, può costituire una commissione temporanea d’inchiesta incaricata di esaminare, fatte salvi i poteri conferiti dal presente trattato ad altre istituzioni o ad altri organi, le denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del
diritto comunitario, salvo quando i fatti di cui trattasi siano pendenti
dinanzi ad una giurisdizione e fino all’espletamento della procedura
giudiziaria.
La commissione temporanea d’inchiesta cessa di esistere con il
deposito della sua relazione.
Le modalità per l’esercizio del diritto d’inchiesta sono fissate di
comune accordo dal Parlamento europeo, dal Consiglio e dalla Commissione.
Sezione III. – La Commissione
155. Al fine di assicurare il funzionamento e lo sviluppo del mercato comune nella Comunità, la Commissione:
(*) Secondo comma così modificato dall’articolo G.40 TEU.
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– vigila sull’applicazione delle disposizioni del presente Trattato e
delle disposizioni adottate dalle istituzioni in virtù del Trattato stesso;
– formula raccomandazione o pareri nei settori definiti dal presente Trattato, quando questo esplicitamente lo preveda ovvero quando la
Commissione lo ritenga necessario;
– dispone di un proprio potere di decisione e partecipa alla formazione degli atti del Consiglio e del Parlamento europeo, alle condizioni previste dal presente Trattato;
– esercita le competenze che le sono conferite dal Consiglio per l’attuazione delle norme da esso stabilite.
156. La Commissione pubblica ogni anno, almeno un mese prima
dell’apertura della sessione del Parlamento europeo, una relazione
generale sull’attività della Comunità (1).
157. 1. la Commissione è composta di diciassette membri, scelti in
base alla loro competenza generale e che offrano ogni garanzia di indipendenza.
Il numero dei membri della Commissione può essere modificato
dal Consiglio, che delibera all’unanimità.
Soltanto cittadini degli Stati membri possono essere membri della
Commissione.
La Commissione deve comprendere almeno un cittadino di ciascun
Stato membro, senza che il numero dei membri cittadini di uno stesso Stato sia superiore a due.
2. I membri della Commissione esercitano le loro funzioni in piena
indipendenza nell’interesse generale della Comunità.
Nell’adempimento dei loro doveri, essi non sollecitano né accettano
istruzioni da alcun Governo né da alcun organismo. Essi si astengono da
ogni atto incompatibile con il carattere delle loro funzioni. Ciascuno Stato
membro si impegna a rispettare tale carattere e a non cercare di influenzare i membri della Commissione nell’esecuzione dei loro compiti.
I membri della Commissione non possono, per la durata delle loro
funzioni, esercitare alcun’altra attività professionale, rimunerata o
meno. Fin dal loro insediamento, essi assumono l’impegno solenne di
rispettare, per la durata delle loro funzioni e dopo la cessazione di
(1) Articolo così inserito dall’art. G 48 del Trattato sull’Unione Europea. Il precedente art. 156 era stato abrogato dall’art. 19 del trattato di fusione dell’8 aprile 1965.
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queste, gli obblighi derivanti dalla loro carica, ed in particolare i doveri di onestà e delicatezza per quanto riguarda l’accettare, dopo tale
cessazione, determinate funzioni o vantaggi. In caso di violazione
degli obblighi stessi, la Corte di giustizia, su istanza del Consiglio o
della Commissione, può, a seconda dei casi, pronunciare le dimissioni d’ufficio alle condizioni previste dall’art. 160 ovvero la decadenza
dal diritto a pensione dell’interessato o da altri vantaggi sostitutivi (2).
158. 1. I membri della Commissione sono nominati, per una durata di cinque anni, secondo la procedura prevista al paragrafo 2, fatte
salve, se del caso, le disposizioni dell’art. 144.
Il loro mandato è rinnovabile.
2. Previa consultazione del Parlamento europeo, i Governi degli
Stati membri designano, di comune accordo, la persona che intendono nominare Presidente della Commissione.
I Governi degli Stati membri, in consultazione con il Presidente
designato, designano le altre persone che intendono nominare membri della Commissione.
Il Presidente e gli altri membri della Commissione così designati
sono soggetti, collettivamente, ad un voto di approvazione da parte del
Parlamento europeo. Dopo l’approvazione del Parlamento europeo, il
Presidente e gli altri membri della Commissione sono nominati, di
comune accordo, dai Governi degli Stati membri.
3. I paragrafi 1 e 2 si applicano per la prima volta al Presidente e
agli altri membri della Commissione il cui mandato inizia il 7 gennaio
1995.
Il Presidente e gli altri membri della Commissione il cui mandato
inizia il 7 gennaio 1993 sono nominati di comune accordo dai Governi degli Stati membri. Il loro mandato scade il 6 gennaio 1995 (3).
159. A parte i rinnovamenti regolari e i decessi, le funzioni dei
membri della Commissione cessano individualmente per dimissioni
volontarie o d’ufficio.
L’interessato è sostituito per la restante durata del suo mandato da
un nuovo membro, nominato di comune accordo dai Governi degli
(2) Articolo così inserito dall’art. G 48 del Trattato sull’Unione Europea. Il precedente art. 157 era stato abrogato dall’art. 19 del trattato di fusione dell’8 aprile 1965.
(3) Articolo così inserito dall’art. G 48 del Trattato sull’Unione Europea. Il precedente art. 158 era stato abrogato dall’art. 19 del trattato di fusione dell’8 aprile 1965.
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Stati membri. Il Consiglio, deliberando all’unanimità, può decidere
che non vi è motivo di procedere ad una sostituzione.
In caso di dimissioni o di decesso, il Presidente è sostituito per la
restante durata del suo mandato. Per la sua sostituzione si applica la
procedura prevista dall’art. 158, paragrafo 2.
Salvo in caso di dimissioni d’ufficio, previste dall’art. 160, i membri
della Commissione restano in carica fino a quando non si sia provveduto alla loro sostituzione (4).
160. Qualsiasi membro della Commissione che non risponda
più alle condizioni necessarie all’esercizio delle sue funzioni o che
abbia commesso una colpa grave può essere dichiarato dimissionario dalla Corte di giustizia, su istanza del Consiglio o della Commissione (5).
161. La Commissione può nominare uno o due Vicepresidenti tra i
suoi membri (6).
162. 1. Il Consiglio e la Commissione procedono a reciproche consultazioni e definiscono di comune accordo le modalità della loro collaborazione.
2. La Commissione stabilisce il proprio regolamento interno allo
scopo di assicurare il proprio funzionamento e quello dei propri servizi alle condizioni previste dai trattati. Essa provvede alla pubblicazione del regolamento (7).
163. Le deliberazioni della Commissione sono prese a maggioranza del numero dei suoi membri, previsto dall’art. 157.
La Commissione può tenere una seduta valida solo se è presente il
numero dei membri stabilito nel suo regolamento interno (8).
(4) Articolo così inserito dall’art. G 48 del Trattato sull’Unione Europea. Il precedente art. 159 era stato abrogato dall’art. 19 del trattato di fusione dell’8 aprile 1965.
(5) Articolo così inserito dall’art. G 48 del Trattato sull’Unione Europea. Il precedente art. 160 era stato abrogato dall’art. 19 del trattato di fusione dell’8 aprile 1965.
(6) Articolo così inserito dall’art. G 48 del Trattato sull’Unione Europea. Il precedente art. 161 era stato abrogato dall’art. 19 del trattato di fusione dell’8 aprile 1965.
(7) Articolo così inserito dall’art. G 48 del Trattato sull’Unione Europea. Il precedente art. 162 era stato abrogato dall’art. 19 del trattato di fusione dell’8 aprile 1965.
(8) Articolo così inserito dall’art. G 48 del Trattato sull’Unione Europea. Il precedente art. 163 era stato abrogato dall’art. 19 del trattato di fusione dell’8 aprile 1965.
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Sezione IV. – La Corte di Giustizia.
164. La Corte di Giustizia assicura il rispetto del diritto nella interpretazione e nell’applicazione del presente Trattato.
165. La Corte di giustizia è composta di tredici Giudici.
La Corte di giustizia si riunisce in seduta plenaria. Essa può, tuttavia, creare nel suo ambito delle sezioni, ciascuna delle quali sarà
composta di tre o cinque Giudici, allo scopo di procedere a determinati provvedimenti di istruttoria o di giudicare determinate categorie di affari, alle condizioni previste da un regolamento a tal fine
stabilito.
La Corte di giustizia si riunisce in seduta plenaria qualora lo richieda uno Stato membro o un’istituzione della Comunità che è parte nell’istanza.
Ove ciò sia richiesto dalla Corte di giustizia, il Consiglio, deliberando all’unanimità, può aumentare il numero dei Giudici e apportare i necessari ritocchi ai commi secondo e terzo del presente articolo
e all’art. 167, secondo comma (9).
166. La Corte di Giustizia è assistita da sei avvocati generali (10).
L’avvocato generale ha l’ufficio di presentare pubblicamente, con
assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate
sugli affari sottoposti alla Corte di Giustizia, per assistere quest’ultima
nell’adempimento della sua missione, quale è definita dall’art. 174.
Ove ciò sia richiesto dalla Corte di Giustizia, il Consiglio, deliberando alla unanimità, può aumentare il numero degli avvocati generali e apportare i necessari ritocchi all’art. 167 terzo comma.
167. I giudici e gli avvocati generali, scelti tra personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza, e che riuniscano le condizioni
richieste per l’esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria competenza,
sono nominati di comune accordo per sei anni dai governi degli Stati
membri.
(9) Articolo così modificato dall’art. G 49 del Trattato sull’Unione Europea.
(10) Così modificato dalla Decisione del Consiglio del 30 marzo 1981 e dal trattato di adesione della Spagna e del Portogallo del 1985.
23
Ogni tre anni si procede a un rinnovamento parziale dei giudici.
Esso riguarda alternativamente sette o sei giudici (11).
Ogni tre anni si procede a un rinnovamento parziale degli avvocati
generali. Esso riguarda ogni volta tre avvocati generali (11).
I giudici e gli avvocati generali uscenti possono essere nuovamente
nominati.
I giudici designano tra loro, per tre anni, il presidente della Corte
di Giustizia. Il suo mandato è rinnovabile.
168. La Corte di Giustizia nomina il cancelliere, di cui fissa lo statuto.
168 A. 1. Alla Corte di giustizia è affiancato un Tribunale competente a conoscere in primo grado, con riserva di impugnazione dinanzi alla
Corte di giustizia per i soli motivi di diritto e alle condizioni stabilite
dallo statuto, di talune categorie di ricorsi determinate conformemente
al paragrafo 2. Il Tribunale di primo grado non è competente a conoscere delle questioni pregiudiziali sottoposte ai sensi dell’art. 177.
2. Su richiesta della Corte di giustizia e previa consultazione del
Parlamento europeo e della Commissione, il Consiglio, deliberando
all’unanimità, fissa le categorie di ricorsi di cui al paragrafo 1 e la
composizione del Tribunale di primo grado e adotta gli adattamenti e
le disposizioni complementari necessari allo statuto della Corte di giustizia. Salvo decisione contraria del Consiglio, le disposizioni del presente trattato relative alla Corte di giustizia, in particolare le disposizioni del protocollo sullo statuto della Cort di giustizia, sono applicabili al Tribunale di primo grado.
3. I membri del Tribunale di primo grado sono scelti tra persone che
offrano tutte le garanzie d’indipendenza e possiedano la capacità per l’esercizio di funzioni giurisdizionali; essi sono nominati di comune accordo
per sei anni dai Governi degli Stati membri. Un rinnovo parziale ha luogo
ogni tre anni. I membri uscenti possono essere nuovamente nominati.
4. Il Tribunale di primo grado stabilisce il proprio regolamento di
procedura di concerto con la Corte di Giustizia. Tale regolamento è
sottoposto all’approvazione unanime del Consiglio (12).
(11) Articolo così modificato dall’art. G 50 del Trattato sull’Unione Europea. L’articolo era stato aggiunto dall’art. 11 dell’Atto unico europeo.
(12) Articolo così modificato dalla Decisione del Consiglio del 30 marzo 1981 e
dal trattato di adesione della Spagna e del Portogallo del 1985.
24
169. La Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia
mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente
Trattato, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo
Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni.
Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di Giustizia.
170. Ciascuno degli Stati membri può adire la Corte di Giustizia,
quando reputi che un altro Stato membro ha mancato a uno degli
obblighi a lui incombenti in virtù del presente Trattato.
Uno Stato membro, prima di proporre contro un altro Stato membro un ricorso fondato su una pretesa violazione degli obblighi che a
quest’ultimo incombono in virtù del presente Trattato, deve rivolgersi
alla Commissione.
La Commissione emette un parere motivato dopo che gli Stati interessati siano stati posti in condizione di presentare in contraddittorio
le loro osservazioni scritte e orali.
Qualora la Commissione non abbia formulato il parere nel termine
di tre mesi dalla domanda, la mancanza del parere non osta alla
facoltà di ricorso alla Corte di Giustizia.
171. 1. Quando la Corte di Giustizia riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù del
presente trattato, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che
l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia comporta.
2. Se ritiene che lo Stato membro in questione non abbia preso
detti provvedimenti, la Commissione, dopo aver dato a tale Stato la
possibilità di presentare le sue osservazioni, formula un parere motivato che precisa i punti sui quali lo Stato membro in questione non si
è conformato alla sentenza della Corte di giustizia.
Qualora lo Stato membro in questione non abbia preso entro il termine fissato dalla Commissione i provvedimenti che l’esecuzione della
sentenza della Corte comporta, la Commissione può adire la Corte di
giustizia. In questa azione essa precisa l’importo della somma forfettaria o della penalità, da versare da parte dello Stato membro in questione, che consideri adeguato alle circostanze.
La Corte di giustizia, qualora riconosca che lo Stato membro in
questione non si è conformato alla sentenza da essa pronunciata,
può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una
penalità.
25
Questa procedura lascia impregiudicate le disposizioni dell’art.
170 (13).
172. I regolamenti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio e dal Consiglio in virtù delle disposizioni del presente trattato possono attribuire alla Corte di giustizia una competenza giurisdizionale anche di merito per quanto riguarda le sanzioni previste nei regolamenti stessi (14).
173. La Corte di giustizia esercita un controllo di legittimità sugli
atti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio,
sugli atti del Consiglio, della Commissione e della B.C.E. che non
siano raccomandazioni o pareri (15), nonché sugli atti del parlamento
europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi.
A tal fine, la Corte è competente a pronunciarsi sui ricorsi per l’incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione del presente trattato o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione,
ovvero per sviamento di potere, proposti da uno Stato membro, dal
Consiglio o dalla Commissione.
La Corte è competente, alle stesse condizioni, a pronunciarsi sui
ricorsi che il Parlamento europeo e la B.C.E. propongono per salvaguardare le proprie prerogative.
Qualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle stesse condizioni, un ricorso contro le decisioni prese nei suoi confronti e contro le decisioni che, pur apparendo come un regolamento o una decisione presa nei
confronti di altre persone, la riguardano direttamente ed individualmente.
I ricorsi previsti dal presente articolo devono essere proposti nel
termine di due mesi a decorrere, secondo i casi, dalla pubblicazione
dell’atto, dalla sua notificazione al ricorrente ovvero, in mancanza, dal
giorno in cui il ricorrente ne ha avuto conoscenza (16).
174. Se il ricorso è fondato, la Corte di Giustizia dichiara nullo e
non avvenuto l’atto impugnato.
(13) Articolo così modificato dall’art. G 51 del Trattato sull’Unione Europea.
(14) Articolo così modificato dall’art. G 52 del Trattato sull’Unione Europea.
(15) Sulla esenzione del Consiglio europeo, istituito dall’art. 2 dell’Atto unico
europeo, e degli organi per la cooperazione europea in materia di politica estera (art.
30 Atto unico europo) dalla giurisdizione della Corte v. art. 31 dell’Atto unico europeo.
(16) Articolo così modificato dall’art. G 53 del Trattato sull’Unione Europea.
26
Tuttavia, per quanto concerne i regolamenti, la Corte di Giustizia,
ove lo reputi necessario, precisa gli effetti del regolamento annullato
che devono essere considerati come definitivi.
175. Qualora in violazione del presente trattato, il Parlamento
europeo, il Consiglio o la Commissione si astengano dal pronunciarsi,
gli Stati membri e le altre istituzioni della Comunità possono adire la
Corte di giustizia per far constatare tale violazione.
Il ricorso è ricevibile soltanto quando l’istituzione in causa sia
stata preventivamente richiesta di agire. Se, allo cadere di un termine di due mesi da tale richiesta, l’istituzione non ha preso posizione, il ricorso può essere proposto entro un nuovo termine di
due mesi.
Ogni persona fisica o giuridica può adire la Corte di Giustizia
alle condizioni stabilite dai commi precedenti per contestare ad
una delle istituzioni della Comunità di avere omesso di emanare
nei suoi confronti un atto che non sia una raccomandazione o un
parere.
La Corte di giustizia è competente, alle stesse condizioni, a pronunciarsi sui ricorsi proposti dalla B.C.E. nei settori che rientrano
nella sua competenza o proposti contro di essa (17).
176. L’istituzione o le istituzioni da cui emana l’atto annullato o la
cui astensione sia stata dichiarata contraria al presente trattato sono
tenute a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza
della Corte di Giustizia comporta.
Tale obbligo non pregiudica quello eventualmente risultante dall’applicazione dell’art. 215, secondo comma.
Il presente articolo si applica anche alla B.C.E. (18).
177. La Corte di giustizia è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale,
a) sull’interpretazione del presente trattato,
b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità o della B.C.E.,
(17) Articolo così modificato dall’art. G 54 del Trattato sull’Unione Europea.
(18) Articolo così modificato dall’art. G 55 del Trattato sull’Unione Europea.
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c) sull’interpretazione degli statuti degli organismi creati con atto
del Consiglio, quando sia previsto dagli statuti stessi (19).
Quando una questione del genere è sollevata dinanzi a una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora
reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla questione.
Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni
non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale
giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia (20).
178. La Corte di Giustizia è competente a conoscere delle controversie relative al risarcimento dei danni di cui all’art. 215, secondo comma.
179. La Corte di Giustizia è competente a pronunciarsi su qualsiasi controversia tra la Comunità e gli agenti di questa, nei limiti e alle
condizioni determinati dallo statuto o risultanti dal regime applicabile a questi ultimi.
180. La Corte di giustizia è competente, nei limiti sotto specificati
a conoscere delle controversie in materia di:
a) esecuzione degli obblighi degli Stati membri derivanti dallo Statuto della Banca europea per gli investimenti. Il Consiglio di amministrazione della Banca dispone a tale riguardo dei poteri riconosciuti
alla Commissione dall’art. 169;
b) deliberazioni del Consiglio dei Governatori della Banca europea
per gli investimenti. Ciascuno Stato membro, la Commissione e il
Consiglio di amministrazione della Banca possono proporre un ricorso in materia, alle condizioni previste dall’art. 173;
c) deliberazioni del Consiglio di amministrazione della Banca europea per gli investimenti. I ricorsi avverso tali deliberazioni possono
(19) V. il protocollo adottato a Lussemburgo il 3 giugno 1971 (l. 19 maggio 1975,
n. 180) che ha attribuito alla Corte di Giustizia la competenza per l’interpretazione
della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 sulla competenza giurisdizionale e sull’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
(20) Articolo così modificato dall’art. G 56 del Trattato sull’Unione Europea.
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essere proposti, alle condizioni fissate dall’art. 173, soltanto dagli Stati
membri o dalla Commissione e unicamente per violazione delle norme
di cui all’art. 21, paragrafo 2 e paragrafi da 5 a 7 inclusi, dello statuto
della Banca;
d) esecuzione, da parte delle Banche centrali nazionali, degli obblighi derivanti dal presente trattato e dallo statuto del S.E.B.C. Il Consiglio della B.C.E. dispone al riguardo, nei confronti delle banche centrali nazionali, dei poteri riconosciuti alla Commissione dall’art. 169
nei confronti degli Stati membri. Quando la Corte di giustizia riconosca che una Banca centrale nazionale ha mancato ad uno degli obblighi ad essa incombenti in virtù del presente trattato, essa è tenuta a
prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte
di giustizia comporta (21).
181. La Corte di Giustizia è competente a giudicare in virtù di una
clausola compromissoria contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato dalla Comunità o per conto di questa.
182. La Corte di Giustizia è competente a conoscere di qualsiasi
controversia tra Stati membri in connessione con l’oggetto del presente Trattato, quando tale controversia le venga sottoposta in virtù di un
compromesso.
183. Fatte salve le competenze attribuite alla Corte di Giustizia dal
presente Trattato, le controversie nelle quali la Comunità sia parte non
sono, per tale motivo, sottratte alla competenza delle giurisdizioni
nazionali.
184. Nell’eventualità di una controversia che metta in causa un
regolamento adottato congiuntamente dal Parlamento europeo e dal
Consiglio o un regolamento del Consiglio, della Commissione o della
B.C.E., ciascuna parte può, anche dopo lo spirare del termine previsto
dall’art. 173, quinto comma, valersi dei motivi previsti dall’art. 173,
secondo comma, per invocare dinanzi alla Corte di giustizia l’inapplicabilità del regolamento stesso (22).
(21) Articolo così modificato dall’art. G 57 del Trattato sull’Unione Europea.
(22) Articolo così modificato dall’art. G 58 del Trattato sull’Unione Europea.
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185. I ricorsi proposti alla Corte di Giustizia non hanno effetto
sospensivo. Tuttavia la Corte può, quando reputi che le circostanze lo
richiedano, ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato.
186. La Corte di Giustizia, negli affari che le sono proposti, può
ordinare i provvedimenti provvisori necessari.
187. Le sentenze della Corte di Giustizia hanno forza esecutiva alle
condizioni fissate dall’art. 12.
188. Lo Statuto della Corte di Giustizia è stabilito con un Protocollo separato.
Il Consiglio, deliberando all’unanimità su richiesta della Corte di
Giustizia e previa consultazione della Commissione e del Parlamento
europeo, può modificare le disposizioni del titolo III dello statuto.
La Corte di Giustizia stabilisce il proprio regolamento di procedura. Tale regolamento è sottoposto all’approvazione unanime del Consiglio.
Sezione V. – La Corte dei conti (23)
188 A. La Corte dei conti assicura il controllo dei conti.
188 B. 1. La Corte dei conti è composta di dodici membri.
2. I membri della Corte dei conti sono scelti tra personalità che
fanno o hanno fatto parte, nei rispettivi paesi, delle istituzioni di controllo esterno o che posseggono una qualifica specifica per tale funzione. Essi devono offrire tutte le garanzie d’indipendenza.
3. I membri della Corte dei conti sono nominati per un periodo di
sei anni dal Consiglio, che delibera all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo.
Tuttavia, nelle prime nomine, quattro membri della Corte dei conti,
designati a sorte, ricevono un mandato limitato di quattro anni.
I membri della Corte dei conti possono essere nuovamente nominati.
(23) L’intera Sezione (art. 188 A-188 C) è stata così inserita dall’art. G 59 del Trattato sull’Unione Europea.
30
I membri designano tra di loro, per tre anni, il Presidente della
Corte dei conti. Il mandato del Presidente è rinnovabile.
4. I membri della Corte dei conti esercitano le loro funzioni in
piena indipendenza, nell’interesse generale della Comunità.
Nell’adempimento dei loro doveri, essi non sollecitano né accettano istruzioni da alcun Governo né da alcun organismo. Essi si astengono da ogni atto incompatibile con il carattere delle loro funzioni.
5. I membri della Corte dei conti non possono, per la durata delle
loro funzioni, esercitare alcun’altra attività professionale, remunerata
o meno. Fin dal loro insediamento, essi assumono l’impegno solenne
di rispettare, per la durata delle loro funzioni e dopo la cessazione di
queste, gli obblighi derivanti dalla loro carica ed in particolare i doveri di onestà e delicatezza per quanto riguarda l’accettare, dopo tale
cessazione, determinate funzioni o vantaggi.
6. A parte i rinnovamenti regolari e i decessi, le funzioni dei membri della Corte dei conti cessano individualmente per dimissioni
volontarie o per dimissioni d’ufficio dichiarate dalla Corte di giustizia
conformemente alle disposizioni del paragrafo 7.
L’interessato è sostituito per la restante durata del mandato.
Salvo il caso di dimissioni d’ufficio, i membri della Corte dei conti restano in carica fino a quando non si sia provveduto alla loro sostituzione.
7. I membri della Corte dei conti possono essere destituiti dalle loro
funzioni oppure essere dichiarati decaduti dal loro diritto alla pensione o
da altri vantaggi sostitutivi soltanto se la Corte di giustizia constata, su
richiesta della Corte dei conti, che essi non sono più in possesso dei requisiti richiesti o non soddisfano più agli obblighi derivanti dalla loro carica.
8. Il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, fissa le condizioni di impiego, in particolare stipendi, indennità e pensioni, del Presidente e dei membri della Corte dei conti. Esso fissa altresì, deliberando a
maggioranza qualificata, tutte le indennità sostitutive di retribuzione.
9. Le disposizioni del protocollo sui privilegi e sulle immunità delle
Comunità europee applicabili ai Giudici della Corte di giustizia sono
applicabili anche ai membri della Corte dei conti.
188 C. 1. La Corte dei conti esamina i conti di tutte le entrate e le
spese della Comunità. Esamina del pari i conti di tutte le entrate e le
spese di ogni organismo creato dalla Comunità, nella misura in cui
l’atto costitutivo non escluda tale esame.
La Corte dei conti presenta al Consiglio e al Parlamento europeo
una dichiarazione in cui attesta l’affidabilità dei conti e la legittimità
e la regolarità delle relative operazioni.
31
2. La Corte dei conti controlla la legittimità e la regolarità delle
entrate e delle spese, ed accerta la sana gestione finanziaria.
Il controllo delle entrate si effettua in base agli accertamenti ed ai
versamenti delle entrate alla Comunità.
Il controllo delle spese si effettua in base agli impegni ed ai pagamenti.
Tali controlli possono essere effettuati prima della chiusura dei
conti dell’esercizio di bilancio considerato.
3. Il controllo ha luogo tanto sui documenti quanto, in caso di
necessità, sul posto, presso le altre istituzioni delle Comunità e negli
Stati membri. Il controllo negli Stati membri si effettua in collaborazione con le istituzioni nazionali di controllo o, se queste non hanno
la necessaria competenza, con i servizi nazionali di controllo o, se queste non hanno la necessaria competenza, con i servizi nazionali competenti. Tali istituzioni o servizi comunicano alla Corte dei conti se
intendono partecipare al controllo.
I documenti e le informazioni necessari all’espletamento delle funzioni della Corte dei conti sono comunicati a questa, su sua richiesta,
dalle altre istituzioni delle Comunità e dalle istituzioni nazionali di
controllo o, se queste non hanno la necessaria competenza, dai servizi nazionali competenti.
4. Dopo la chiusura di ciascun esercizio, la Corte dei conti stende
una relazione annua. Questa è trasmessa alle altre istituzioni della
Comunità ed è pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Comunità
europee, accompagnata dalle risposte delle istituzioni alle osservazioni della Corte dei conti.
La Corte dei conti può inoltre presentare in ogni momento le sue osservazioni su problemi particolari sotto forma, tra l’altro, di relazioni speciali, e dare pareri su richiesta di una delle altre istituzioni della Comunità.
Essa adotta le relazioni annue, le relazioni speciali o i pareri a maggioranza dei membri che la compongono.
Essa assiste al Parlamento europeo e il Consiglio nell’esercizio della
loro funzione di controllo dell’esecuzione del bilancio.
Articolo 205 (*)
La Commissione cura l’esecuzione del bilancio, conformemente
(*) Così modificato dall’articolo G, punto 73, del T.U.E.
32
alle disposizioni del regolamento stabilito in esecuzione dell’articolo
209, sotto la propria responsabilità e nei limiti dei crediti stanziati, in
conformità del principio della buona gestione finanziaria.
Il regolamento prevede le modalità particolari secondo le quali ogni
istituzione partecipa all’esecuzione delle proprie spese.
All’interno del bilancio, la Commissione può procedere, nei limiti e
alle condizioni fissate dal regolamento stabilito in esecuzione dell’articolo 209, a trasferimenti di crediti, sia da capitolo a capitolo, sia da
suddivisione a suddivisione.
Articolo 209 (*)
Il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo e parere della
Corte dei conti:
a) stabilisce i regolamenti finanziari che specificano in particolare
le modalità relative all’elaborazione ed esecuzione del bilancio ed al
rendimento ed alla verifica dei conti;
b) fissa le modalità e la procedura secondo le quali le entrate di
bilancio previste dal regime delle risorse proprie della Comunità sono
messe a disposizione della Commissione e determina le misure da
applicare per far fronte eventualmente alle esigenze di tesoreria;
c) determina le norme ed organizza il controllo della responsabilità
dei controllori finanziari, ordinatori e contabili.
Articolo 209 A (**)
Gli Stati membri adottano, per combattere le frodi che ledono gli
interessi finanziari della Comunità, le stesse misure che adottano per
combattere le frodi che ledono i loro interessi finanziari.
Fatte salve altre disposizioni del presente trattato, gli Stati membri
coordinano l’azione intesa a tutelare gli interessi finanziari della
(*) Così modificato dall’articolo G, punto 76, del T.U.E.
(**) Così inserito dall’articolo G, punto 77, del T.U.E.
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Comunità contro le frodi. A tal fine essi organizzano, con l’aiuto della
Commissione, una stretta e regolare cooperazione tra i servizi competenti delle rispettive amministrazioni.
Articolo 213
Per l’esecuzione dei compiti affidatile, la Commissione può raccogliere tutte le informazioni e procedere a tutte le necessarie verifiche,
nei limiti e alle condizioni fissate dal Consiglio conformemente alle
disposizioni del presente trattato.
34
DIRITTO DERIVATO
REGOLAMENTO (EURATOM, C.E.) N. 2185/96 DEL CONSIGLIO
dell’11 novembre 1996 relativo ai controlli e alle verifiche sul posto
effettuati dalla Commissione ai fini della tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee contro le frodi e altre irregolarità.
(G.U., L. 292./L2, 15 novembre 1996)
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato che istituisce la Comunità europea, in particolare
l’articolo 235,
visto il trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica, in particolare l’articolo 203,
vista la proposta della Commissione (1),
visto il parere del Parlamento europeo (2),
(1) considerando che il potenziamento della lotta contro la frode
ed altre irregolarità commesse a danno del bilancio comunitario è
essenziale per la credibilità della Comunità;
(2) considerando che dall’articolo 209 A del trattato risulta che la
tutela degli interessi finanziari delle Comunità rientra in primo luogo
nella responsabilità degli Stati membri, fatte salve altre disposizioni
del trattato;
(3) considerando che il regolamento C.E., Euratom) n. 2988/95 del
Consiglio, del 18 dicembre 1995, relativo alla tutela degli interessi
finanziari delle Comunità europee (3), ha predisposto un quadro giuridico comune a tutti i settori di attività della Comunità;
(4) considerando che l’articolo 1, paragrafo 2 del suddetto regolamento definisce la nozione di “irregolarità” e che nel sesto considerando di tale regolamento si precisa che le condotte che danno luogo
a irregolarità comprendono le condotte fraudolente, quali definite
nella convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle
Comunità europee (4);
(5) considerando che detto regolamento ha previsto, all’articolo
10, la successiva adozione di disposizioni generali supplementari in
materia di controlli e verifiche in loco;
(6) considerando che, per ragioni di efficacia e fatti salvi i controlli
effettuati dagli Stati membri a norma dell’articolo 8 del regolamento
(C.E. Euratom) n. 2988/95, occorre adottare, in materia di controlli e
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verifiche da effettuare sul posto da parte della Commissione, disposizioni generali supplementari che lascino impregiudicata l’applicazione delle normative comunitarie settoriali di cui all’articolo 9, paragrafo 2 del suddetto regolamento;
(7) considerando che l’attuazione delle disposizioni del presente
regolamento dipende dall’individuazione degli obiettivi che ne giustificano l’applicazione soprattutto quando, per l’entità della frode, che
non si limita ad un solo paese ed è spesso dovuta a reti organizzate, o
per la specificità della situazione in uno Stato membro, tali obiettivi
non possono, per la gravità del danno arrecato agli interessi finanziari delle Comunità o alla credibilità dell’Unione, essere realizzati in
maniera ottimale dai soli Stati membri e possono quindi essere meglio
realizzati a livello comunitario;
(8) considerando che i controlli e le verifiche sul posto non possono eccedere quanto necessario per garantire la corretta applicazione
del diritto comunitario;
(9) considerando peraltro che essi sono effettuati in modo da lasciare impregiudicate le disposizioni applicabili in ciascuno Stato membro
relative alla tutela degli interessi essenziali della sicurezza dello Stato;
(10) considerando che, in base al principio di fedeltà comunitaria
posto dall’articolo 5 del trattato C.E. e alla luce della giurisprudenza
della Corte di giustizia e delle Comunità europee; è opportuno che le
amministrazioni degli Stati membri e i servizi della Commissione
cooperino lealmente fornendosi l’assistenza necessaria per la preparazione e l’esercizio dei controlli e delle verifiche sul posto;
(11) considerando che si devono definire le condizioni d’esercizio
dei poteri dei controllori della Commissione;
(12) considerando che tali controlli e verifiche sul posto si effettuano nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte e
delle norme relative al segreto d’ufficio e alla protezione dei dati personali; che, in proposito, è necessario che la Commissione provveda
affinché i suoi controllori rispettino le disposizioni comunitarie e
nazionali relative alla protezione dei dati personali, in particolare
quelle previste dalla direttiva 95/46/C.E. del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche
con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (5);
(13) considerando che, per consentire una lotta efficace alla frode
e ad altre irregolarità, i controlli della Commissione devono essere
effettuati presso operatori economici che potrebbero essere implicati
direttamente o indirettamente nell’irregolarità di cui trattasi e presso
36
coloro che potrebbero essere da questa interessati; che, in caso di
applicazione delle disposizioni del presente regolamento, occorre che
la Commissione vigili affinché tali operatori economici non siano sottoposti contemporaneamente, per gli stessi fatti, ad analoghi controlli
e verifiche effettuati dalla Commissione o dagli Stati membri in base
a normative comunitarie settoriali o a legislazioni nazionali;
(14) considerando che i controllori della Commissione devono
poter accedere a tutte le informazioni sulle operazioni in questione
alle stesse condizioni alle quali vi accedono i controllori amministrativi nazionali; che i rapporti dei controllori della Commissione, sottoscritti, se del caso, dai controllori nazionali, devono essere redatti
tenendo conto delle esigenze procedurali previste dalla legislazione
dello Stato membro interessato, che essi devono costituire elementi di
prova ammissibili nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello
Stato membro in cui risulti necessario utilizzarli e devono avere lo
stesso valore attribuito alle relazioni redatte dai controllori amministrativi nazionali;
(15) considerando che, qualora vi sia un rischio di scomparsa
degli elementi di prova o qualora gli operatori economici si oppongano ad un controllo o ad una verifica sul posto da parte della Commissione, spetta agli Stati membri prendere i provvedimenti cautelari o di
esecuzione necessari in base alle rispettive legislazioni;
(16) considerando che il presente regolamento non pregiudica la
competenza degli Stati membri in materia di repressione dei dati né le
norme relative alla reciproca assistenza giudiziaria tra Stati membri
in materia penale;
(17) considerando che, per l’adozione del presente regolamento, i
soli poteri d’azione previsti dai trattati sono quelli degli articoli 235 del
trattato C.E. e 203 del trattato C.E.E.A.,
HA ADOTTATO IL PRESENTE REGOLAMENTO:
Articolo 1
Il presente regolamento stabilisce le disposizioni generali supplementari a norma dell’articolo 10 del regolamento (C.E., Euratom) n.
2988/95 applicabili ai controlli e alle verifiche amministrativi effettuati sul posto dalla Commissione ai fini della tutela degli interessi finanziari delle Comunità contro le irregolarità come definite dall’articolo
1, paragrafo 2 di detto regolamento.
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Fatte salve le disposizioni delle normative comunitarie settoriali,
il presente regolamento si applica a tutti i settori di attività della
Comunità.
Esso non pregiudica la competenza degli Stati membri in materia
di azioni penali né le norme relative alla reciproca assistenza giudiziaria tra Stati membri in materia penale.
Articolo 2
A norma del presente regolamento la Commissione può procedere a controlli e verifiche sul posto:
– per ricercare irregolarità gravi, irregolarità transnazionali o irregolarità in cui possono essere implicati operatori economici che esplicano la loro attività in vari Stati membri,
– oppure per ricercare irregolarità, qualora in uno Stato membro
la situazione esiga, in un caso particolare, il rafforzamento di controlli e verifiche sul posto per migliorare l’efficacia della tutela degli interessi finanziari e assicurare così un livello di protezione equivalente
all’interno della Comunità,
– oppure a richiesta dello Stato membro interessato.
Articolo 3
La Commissione, se decide di procedere a controlli e verifiche sul
posto a norma del presente regolamento, vigila affinché presso gli operatori economici in questione non si proceda contemporaneamente,
per gli stessi fatti, ad analoghi controlli e verifiche sulla base di normative comunitarie settoriali.
Inoltre, essa tiene conto dei controlli che lo Stato membro sta
effettuando o ha effettuato, per i medesimi fatti, presso gli operatori
economici interessati in base alla propria legislazione.
Articolo 4
I controlli e le verifiche sul posto sono preparati e svolti dalla
Commissione in stretta collaborazione con le autorità competenti
dello Stato membro interessato, che sono informate in tempo utile
dell’oggetto, delle finalità nonché del fondamento giuridico dei controlli e delle verifiche in modo da poter fornire tutta l’assistenza necessaria. A tal fine gli agenti dello Stato membro interessato possono partecipare ai controlli e alle verifiche sul posto.
38
Inoltre, se lo Stato membro interessato lo desidera, i controlli e le
verifiche sul posto sono effettuati congiuntamente dalla Commissione
e dalle autorità competenti dello Stato stesso.
Articolo 5
I controlli e le verifiche sul posto sono effettuati dalla Commissione presso gli operatori economici ai quali possono essere applicate le misure o le sanzioni amministrative comunitarie a norma dell’articolo 7 del regolamento (C.E., Euratom) n. 2988/95 quando sussistano ragioni per ritenere che siano state commesse delle irregolarità.
Per facilitare alla Commissione l’esercizio dei controlli e delle verifiche, gli operatori sono tenuti a permettere l’accesso ai locali, terreni,
mezzi di trasporto e altri luoghi adibiti ad uso professionale.
Nella misura in cui ciò sia strettamente necessario per accertare
l’esistenza di un’irregolarità, la Commissione può effettuare controlli
e verifiche sul posto presso altri operatori economici interessati, per
avere accesso alle pertinenti informazioni da questi detenute circa i
fatti oggetto dei controlli e delle verifiche sul posto.
Articolo 6
1. I controlli e le verifiche sul posto sono effettuati, sotto l’autorità
e la responsabilità della Commissione, da suoi funzionari od agenti
debitamente abilitati, in appresso denominati “i controllori della Commissione”. A tali controlli e verifiche possono assistere le persone che
gli Stati membri hanno messo a disposizione della Commissione in
qualità di esperti nazionali distaccati.
I controllori della Commissione esercitano i loro poteri su presentazione di una abilitazione scritta, nella quale sono indicate la loro
identità e qualifica, corredata di un documento che indica l’oggetto e
lo scopo del controllo o della verifica sul posto.
Fatto salvo il diritto comunitario applicabile, essi sono tenuti a
rispettare le norme di procedura previste dalla legislazione dello Stato
membro interessato.
2. Previo accordo dello Stato membro interessato, la Commissione può chiedere l’assistenza di agenti di altri Stati membri in qualità
di osservatori e può ricorrere, a fini di assistenza tecnica, ad organismi esterni che agiscano sotto la sua responsabilità.
La Commissione vigila affinché tali agenti ed organismi presenti-
39
no tutte le garanzie in fatto di competenza tecnica, di indipendenza e
di rispetto del segreto professionale.
Articolo 7
1. I controlli della Commissione hanno accesso, alle medesime
condizioni dei controllori amministrativi nazionali e nel rispetto delle
legislazioni nazionali, a tutte le informazioni e alla documentazione
relative alle operazioni di cui trattasi necessarie ai fini del buon svolgimento dei controlli e delle verifiche sul posto. Essi possono utilizzare gli stessi mezzi materiali di controllo di cui si avvalgono i controllori amministrativi nazionali e in particolare possono prendere copia
dei documenti pertinenti.
I controlli e le verifiche sul posto possono riguardare in particolare:
– i libri e i documenti professionali, come fatture, capitolati d’appalto, ruolini paga, distinte dei lavori, estratti di conti bancari detenuti dagli operatori economici;
– i dati informatici;
– i sistemi e i metodi di produzione, di imballaggio e di spedizione;
– il controllo fisico della natura e del volume delle merci o delle
azioni svolte;
– il prelievo e la verifica dei campioni;
– lo stato di avanzamento dei lavori o degli investimenti finanziati, l’utilizzazione e la destinazione degli investimenti portati a termine;
– i documenti contabili e di bilancio;
– l’esecuzione finanziaria e tecnica dei progetti sovvenzionati.
2. Se necessario, spetta agli Stati membri, su richiesta della Commissione, prendere gli adeguati provvedimenti cautelari previsti dalla
legislazione nazionale, in particolare per salvaguardare gli elementi di
prova.
Articolo 8
1. Le informazioni comunicate o ottenute sotto qualsiasi forma
a norma del presente regolamento sono coperte dal segreto professionale e beneficiano della tutela accordata alle informazioni analoghe dalla legislazione nazionale dello Stato membro che le ha ricevute e dalle disposizioni corrispondenti applicabili alle istituzioni
comunitarie.
40
Tali informazioni non possono essere comunicate a persone diverse da quelle che nell’ambito delle istituzioni comunitarie o negli Stati
membri vi hanno accesso in ragione delle loro funzioni, né possono
essere utilizzate dalle istituzioni comunitarie per fini diversi dall’efficace tutela degli interessi finanziari della Comunità in ad altri fini le
informazioni raccolte da agenti soggetti alla sua autorità e partecipanti come osservatori a norma dell’articolo 6, paragrafo 2 a controlli
e verifiche sul posto, esso chiede il consenso dello Stato membro in cui
tali informazioni sono state raccolte.
2. La Commissione comunica quanto prima all’autorità competente dello Stato membro sul cui territorio sono stati effettuati i controlli o le verifiche sul posto, qualsiasi fatto o sospetto relativo ad irregolarità di cui ha avuto conoscenza nel corso del controllo o della verifica sul posto. Ad Ogni modo la Commissione è tenuta a informare la
suddetta autorità circa i risultati di tali controlli e verifiche.
3. I controlli della Commissione provvedono affinché le loro relazioni di controllo e verifica siano redatte tenendo conto dei requisiti di
procedura previsti dalla legislazione nazionale dello Stato membro
interessato. Gli elementi materiali e di prova raccolti, di cui all’articolo 7, sono acclusi come allegati a tali relazioni. Le relazioni così redatte costituiscono, alla stessa stregua e alle medesime condizioni di
quelle predisposte dai controllori amministrativi nazionali, elementi
di prova che possono essere ammessi nei procedimenti amministrativi o giudiziari dello Stato membro in cui risulti necessario utilizzarle.
Tali relazioni sono valutate in base alle medesime regole applicabili
alle relazioni amministrative redatte dai controllori amministrativi
nazionali ed hanno identico valore. In caso di controllo congiunto a
norma dell’articolo 4, secondo comma, i controllori nazionali che
hanno partecipato all’operazione sono invitati a controfirmare la relazione redatta dai controllori della Commissione.
4. La Commissione provvede affinché i suoi controllori, nell’ambito dell’applicazione del presente regolamento, rispettino le disposizioni comunitarie e nazionali relative alla protezione dei dati personali,
in particolare quelle previste dalla direttiva 95/46/C.E. del Parlamento
europeo e del Consiglio.
5. In caso di controlli e verifiche sul posto eseguiti al di fuori del
territorio della Comunità, le relazioni sono redatte dai controllori
della Commissione in condizioni che permetterebbero loro di costituire elementi di prova che possono essere ammessi nei procedimenti
amministrativi o giudiziari dello Stato membro in cui risulti necessario utilizzarle.
41
Articolo 9
Ove gli operatori economici di cui all’articolo 5 si oppongano ad
un controllo o ad una verifica sul posto, lo Stato membro interessato
presta ai controllori della Commissione, in base alle disposizioni
nazionali, l’assistenza necessaria per consentire lo svolgimento della
loro missione di controllo e di verifica sul posto.
Ove occorre, spetta agli Stati membri prendere le misure necessarie, nel rispetto del diritto nazionale.
Articolo 10
Il presente regolamento entra in vigore il terzo giorno successivo
alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee.
Esso si applica a decorrere dal 1° gennaio 1997.
Il presente regolamento è: obbligatorio in tutti i suoi elementi e
direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri.
Fatto a Bruxelles, addì 11 novembre 1996.
Per il Consiglio Il Presidente R. QUINN
42
REGOLAMENTO (C.E., EURATOM) N. 2988/95 DEL CONSIGLIO
del 18 dicembre 1995 relativo alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità.
(G.U., L. 312/1, 23 dicembre 1995)
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato che istituisce la Comunità europea, in particolare
l’articolo 235,
visto il trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica, in particolare l’articolo 203,
vista la proposta della Commissione (1),
visto il parere del Parlamento europeo (2),
considerando che all’esecuzione del bilancio generale delle Comunità europee, finanziato con risorse proprie, provvede la Commissione nei limiti degli stanziamenti concessi e in conformità dei principi
di una buona gestione finanziaria; che, per assolvere tale compito, la
Commissione coopera strettamente con gli Stati membri;
considerando che oltre la metà delle spese della Comunità è versata ai destinatari tramite gli Stati membri;
considerando che le modalità di tale gestione decentrata e di sistemi di controllo sono regolate da disposizioni dettagliate diverse a
seconda delle politiche comunitarie in questione; che occorre tuttavia
combattere in tutti i settori contro le lesioni agli interessi finanziari
delle Comunità;
considerando che l’efficacia di tale lotta contro gli atti lesivi degli
interessi finanziari delle Comunità richiede la predisposizione di un
contesto giuridico comune a tutti i settori contemplati dalle politiche
comunitarie;
considerando che le condotte che danno luogo a irregolarità nonché le misure e sanzioni amministrative relative sono previste in normative settoriali conformi al presente regolamento;
considerando che le condotte di cui sopra comprendono le condotte fraudolente, quali definite nella convenzione relativa alla tutela
degli interessi finanziari delle Comunità europee;
considerando che le sanzioni amministrative comunitarie debbono assicurare un’adeguata tutela di tali interessi; che occorre stabilire
regole generali da applicarsi a tali sanzioni;
considerando che il diritto comunitario prevede sanzioni
amministrative comunitarie nel quadro della politica agricola
43
comune; che tali sanzioni dovranno anche essere previste in altri
campi;
considerando che le misure e sanzioni comunitarie adottate
nel quadro della realizzazione degli obiettivi della politica agricola comune costituiscono parte integrante dei regimi di aiuto; che
esse hanno una finalità propria la quale lascia impregiudicata, sul
piano del diritto penale, la valutazione da parte delle autorità
competenti degli Stati membri della condotta degli operatori economici interessati; che la loro efficacia deve essere garantita dall’applicazione immediata della norma comunitaria nonché dalla
piena applicazione di tutte le misure comunitarie, giacché l’adozione di misure conservative non abbia consentito di conseguire
tale obiettivo;
considerando che, in virtù dell’esigenza generale di equità e del
principio di proporzionalità, nonché alla luce del principio “ne bis in
idem” occorre prevedere, nel rispetto dell’“acquis” comunitario e delle
disposizioni previste dalle normative comunitarie specifiche esistenti
al momento dell’entrata in vigore del presente regolamento, adeguate
disposizioni per evitare il cumulo delle sanzioni pecuniarie comunitarie e delle sanzioni penali nazionali irrogate per gli stessi fatti alla stessa persona;
considerando che, ai fini dell’applicazione del presente regolamento, un procedimento penale può essere considerato concluso qualora l’autorità nazionale competente e l’interessato abbiano concluso
una transazione;
considerando che il presente regolamento si applica lasciando
impregiudicata l’applicazione del diritto penale degli Stati membri;
considerando che il diritto comunitario obbliga la Commissione e
gli Stati membri di vigilare acché le risorse di bilancio delle Comunità
siano utilizzate ai fini previsti; che è opportuno prevedere regole
comuni che si applichino in via complementare rispetto alla normativa vigente;
considerando che i trattati non prevedono poteri specifici necessari ai fini dell’adozione di disposizioni materiali di portata orizzontale relative ai controlli, alle misure e alle sanzioni al fine di assicurare
la tutela degli interessi finanziari delle Comunità; che pertanto occorre far ricorso all’articolo 235 del trattato C.E. e all’articolo 203 del trattato C.E.E.A.;
considerando che le disposizioni generali aggiuntive relative ai
controlli e alle verifiche in loco saranno adottate successivamente,
44
HA ADOTTATO IL PRESENTE REGOLAMENTO:
TITOLO I
Principi generali
Articolo 1
1. Ai fini della tutela degli interessi finanziari delle Comunità
europee è adottata una normativa generale relativa a dei controlli
omogenei e a delle misure e sanzioni amministrative riguardanti irregolarità relative al diritto comunitario.
2. Costituisce irregolarità qualsiasi violazione di una disposizione
del diritto comunitario derivante da un’azione o un’omissione di un
operatore economico che abbia o possa avere come conseguenza un
pregiudizio al bilancio generale delle Comunità o ai bilanci da queste
gestite, attraverso la diminuzione o la soppressione di entrate provenienti da risorse proprie percepite direttamente per conto delle Comunità, ovvero una spesa indebita.
Articolo 2
1. I controlli e le misure e sanzioni amministrative sono istituiti
solo qualora risultino necessari per garantire la corretta applicazione
del diritto comunitario. Essi devono avere carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo per assicurare un’adeguata tutela degli interessi
finanziari delle Comunità.
2. Nessuna sanzione amministrativa può essere irrogata se non è
stata prevista da un atto comunitario precedente all’irregolarità. In
caso di successiva modifica delle disposizioni relative a sanzioni
amministrative contenute in una normativa comunitaria si applicano
retroattivamente le disposizioni meno rigorose.
3. Le disposizioni del diritto comunitario determinano la natura e
la portata delle misure e sanzioni amministrative necessarie alla corretta applicazione della normativa considerata, in funzione della natura e della gravità dell’irregolarità, del beneficio concesso o del vantaggio ricevuto e del grado di responsabilità.
4. Fatto salvo il diritto comunitario applicabile, le procedure relative all’applicazione dei controlli, delle misure e sanzioni comunitari
sono disciplinate dal diritto degli Stati membri.
45
Articolo 3
1. Il termine di prescrizione delle azioni giudiziarie è di quattro
anni a decorrere dall’esecuzione dell’irregolarità di cui all’articolo 1,
paragrafo 1. Tuttavia, le normative settoriali possono prevedere un
termine inferiore e comunque non inferiore a tre anni.
Per le irregolarità permanenti o ripetute, il termine di prescrizione decorre dal giorno in cui cessa l’irregolarità. Per i programmi pluriennali, il termine di prescrizione vale comunque fino alla chiusura
definitiva del programma.
La prescrizione delle azioni giudiziarie è interrotta per effetto di
qualsiasi atto dell’autorità competente, portato a conoscenza della
persona interessata, che abbia natura istruttoria o che sia volto a perseguire l’irregolarità. Il termine di prescrizione decorre nuovamente
dal momento di ciascuna interruzione.
Tuttavia, la prescrizione è acquisita al più tardi il giorno in cui sia
giunto a scadenza un termine pari al doppio del termine di prescrizione senza che l’autorità competente abbia irrogato una sanzione,
fatti salvi i casi in cui la procedura amministrativa sia stata sospesa a
norma dell’articolo 6, paragrafo 1.
2. Il termine di esecuzione della decisione che irroga sanzioni
amministrative è di tre anni. Esso decorre dal giorno in cui la decisione diventa definitiva.
I casi di interruzione e di sospensione sono disciplinati dalle pertinenti disposizioni di diritto nazionale.
3. Gli Stati membri mantengono la possibilità di applicare un termine più lungo di quello previsto rispettivamente al paragrafo 1 e al
paragrafo 2.
TITOLO II
Misure e sanzioni amministrative
Articolo 4
1. Ogni irregolarità comporta, in linea generale la revoca del vantaggio indebitamente ottenuto:
– mediante l’obbligo di versare o rimborsare gli importi dovuti o
indebitamente percetti;
– mediante la perdita totale o parziale della garanzia costituita a
sostegno della domanda di un vantaggio concesso o al momento della
percezione di un anticipo.
46
2. L’applicazione delle misure di cui al paragrafo 1 è limitata alla
revoca del vantaggio indebitamente ottenuto aumentato, se ciò è previsto, di interessi che possono essere stabiliti in maniera forfettaria.
3. Gli atti per i quali si stabilisce che hanno per scopo il conseguimento di un vantaggio contrario agli obiettivi del diritto comunitario
applicabile nella fattispecie, creando artificialmente le condizioni
necessarie per ottenere detto vantaggio, comportano, a seconda dei
casi, il mancato conseguimento oppure la revoca del vantaggio stesso.
4. Le misure previste dal presente articolo non sono considerate
sanzioni.
Articolo 5
1. Le irregolarità intenzionali o causate da negligenza possono
comportare le seguenti sanzioni amministrative:
a) il pagamento di una sanzione amministrativa;
b) il versamento di un importo superiore alle somme indebitamente percette o eluse aumentato, se del caso, di interessi; tale importo complementare, determinato in base a una percentuale da stabilire
nelle pertinenti normative, non può superare il livello assolutamente
necessario a conferirgli carattere dissuasivo;
c) la privazione, totale o parziale, di un vantaggio concesso dalla
normativa comunitaria anche se l’operatore ne ha beneficiato indebitamente soltanto in parte;
d) l’esclusione o la revoca dell’attribuzione del vantaggio per un
periodo successivo a quello dell’irregolarità;
e) la revoca temporanea di un’autorizzazione o di un riconoscimento necessari per poter beneficiare di un regime di aiuti comunitari;
f) la perdita di una garanzia o cauzione costituita ai fini dell’osservanza delle condizioni previste da una normativa o la ricostituzione dell’importo di una garanzia indebitamente liberata;
g) altre sanzioni, di carattere esclusivamente economico, aventi
natura e portata equivalenti, contemplate dalle normative settoriali
adottate dal Consiglio in funzione delle necessità proprie del settore di
cui trattasi e nel rispetto delle competenze di esecuzione conferite alla
Commissione del Consiglio.
2. Fatte salve le disposizioni delle normative settoriali vigenti al
momento dell’entrata in vigore del presente regolamento, le altre irregolarità possono unicamente dar luogo alle sanzioni non assimilabili
ad una sanzione penale previste al paragrafo 1, purché tali sanzioni
siano indispensabili per la corretta applicazione della normativa.
47
Articolo 6
1. Fatte salve le misure e sanzioni amministrative comunitarie adottate sulla base dei regolamenti settoriali esistenti all’entrata in vigore del
presente regolamento, l’imposizione delle sanzioni pecuniarie, quali le
sanzioni amministrative, può essere sospesa con decisione dell’autorità
competente qualora sia stato avviato, per gli stessi fatti, un procedimento
penale contro la persona interessata. La sospensione del procedimento
amministrativo sospende il termine di prescrizione di cui all’articolo 3.
2. Se il procedimento penale non è proseguito, riprende corso il
procedimento amministrativo già sospeso.
3. Allorché il procedimento penale è concluso, riprende corso il
procedimento amministrativo già sospeso purché ciò non sia contrario ai principi generali del diritto.
4. Allorché il procedimento amministrativo è ripreso, l’autorità
amministrativa provvede affinché sia irrogata una sanzione almeno
equivalente a quella prevista dalla normativa comunitaria, potendo
tener conto di qualsiasi sanzione irrogata dall’autorità penale per gli
stessi fatti alla stessa persona.
5. Le disposizioni di cui ai paragrafi da 1 a 4 non si applicano alle
sanzioni pecuniarie che costituiscono parte integrante dei regimi di
sostegno finanziario e possono essere applicate indipendentemente ad
eventuali sanzioni penali se, e nella misura in cui, non sono assimilabili a tali sanzioni.
Articolo 7
Le misure e sanzioni amministrative comunitarie possono applicarsi agli operatori economici di cui all’articolo 1, ossia alle persone
fisiche o giuridiche, nonché agli altri organismi cui il diritto nazionale riconosce capacità giuridica, che abbiano commesso l’irregolarità.
Possono parimenti applicarsi alle persone che hanno partecipato all’esecuzione dell’irregolarità, nonché a quelle tenute a rispondere della
medesima o a evitare che sia commessa.
TITOLO III
Controlli
Articolo 8
1. Gli Stati membri adottano, secondo le disposizioni legislative,
48
regolamentari e amministrative nazionali, le misure necessarie per
assicurare la regolarità e l’effettività delle operazioni che coinvolgono
gli interessi finanziari delle Comunità.
2. Le misure di controllo sono adeguate alle specificità di ciascun
settore e sono proporzionate agli obiettivi perseguiti. Esse tengono
conto delle prassi e delle strutture amministrative esistenti negli Stati
membri e sono stabilite in modo tale da non dar luogo a vincoli economici e a costi amministrativi eccessivi.
La natura e la frequenza dei controlli e delle verifiche in loco che
gli Stati membri debbono eseguire, nonché le relative modalità della
loro esecuzione sono stabilite, se del caso, dalle normative settoriali,
al fine di garantire l’applicazione uniforme ed efficace delle normative in questione e, in particolare, di prevenire ed individuare le irregolarità.
3. Le normative settoriali contengono le disposizioni necessarie
per assicurare un controllo equivalente mediante il ravvicinamento
delle procedure e dei metodi di controllo.
Articolo 9
1. Fatti salvi i controlli eseguiti dagli Stati membri secondo le
disposizioni legislative, regolamentari e amministrative nazionali e
fatti salvi i controlli eseguiti dalle istituzioni comunitarie secondo le
disposizioni del trattato C.E., in particolare l’articolo 188 C, la Commissione fa eseguire, sotto la propria responsabilità, la verifica:
a) della conformità delle pratiche amministrative con le norme
comunitarie;
b) dell’esistenza dei documenti giustificativi necessari e della loro
concordanza con le entrate e le spese delle Comunità di cui all’articolo 1;
c) delle condizioni in cui sono eseguite e verificate tali operazioni
finanziarie.
2. Inoltre, essa può effettuare controlli e verifiche sul posto alle
condizioni previste dalle normative settoriali.
Prima di effettuare i controlli e le verifiche, secondo la normativa
in vigore, la Commissione ne informa lo Stato membro interessato in
modo da ottenere tutta l’assistenza necessaria.
Articolo 10
Saranno successivamente adottate disposizioni generali supplementari in materia di controlli e verifiche in loco secondo le procedu-
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re di cui all’articolo 235 del trattato C.E. e all’articolo 203 del trattato
C.E.E.A..
Articolo 11
Il presente regolamento entra in vigore il terzo giorno successivo
alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee.
Il presente regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e
direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri.
Fatto a Bruxelles, addì 18 dicembre 1995.
Per il Consiglio Il Presidente J. BORRELL FONTELLES
50
TRATTATO
SULL’UNIONE EUROPEA
TITOLO VI
Disposizioni relative alla cooperazione
nei settori della giustizia e degli affari interni
Articolo K
La cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni è
disciplinata dalle seguenti disposizioni.
Articolo K.1
Ai fini della realizzazione degli obiettivi dell’Unione, in particolare della libera circolazione delle persone, fatte salve le competenze
della Comunità europea, gli Stati membri considerano questioni di
interesse comune i settori seguenti:
1) la politica di asilo;
2) le norme che disciplinano l’attraversamento delle frontiere
esterne; degli Stati membri da parte delle persone e l’espletamento dei
relativi controlli;
3) la politica d’immigrazione e la politica da seguire nei confronti
dei cittadini dei paesi terzi:
a) le condizioni di entrata e circolazione dei cittadini dei paesi
terzi nel territorio degli Stati membri;
b) le condizioni di soggiorno dei cittadini dei paesi terzi nel territorio degli Stati membri, compresi il ricongiungimento delle famiglie
e l’accesso all’occupazione;
c) la lotta contro l’immigrazione, il soggiorno e il lavoro irregolare di cittadini dei paesi terzi nel territorio degli Stati membri;
4) la lotta contro la tossicodipendenza, nella misura in cui questo
settore non sia già contemplato dai punti 7, 8 e 9;
5) la lotta contro la frode su scala internazionale, nella misura in
cui questo settore non sia già contemplato dai punti 7, 8 e 9;
6) la cooperazione giudiziaria in materia civile;
7) la cooperazione giudiziaria in materia penale;
8) la cooperazione doganale;
51
9) la cooperazione di polizia ai fini della prevenzione e della lotta
contro il terrorismo, il traffico illecito di droga e altre forme gravi di
criminalità internazionale, compresi, se necessario, taluni aspetti di
cooperazione doganale, in connessione con l’organizzazione a livello
dell’Unione di un sistema di scambio di informazioni in seno ad un
Ufficio europeo di polizia (Europol).
Articolo K.2
1. I settori contemplati dall’articolo K.1 vengono trattati nel rispetto della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e
della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951,
tenendo conto della protezione che gli Stati membri concedono alle
persone perseguitate per motivi politici.
2. Il presente titolo non osta all’esercizio delle responsabilità
incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna.
Articolo K.3
1. Nei settori di cui all’articolo K.1, gli Stati membri si informano
e si consultano reciprocamente, in seno al Consiglio, per coordinare la
loro azione, essi instaurano a tal fine una collaborazione tra i servizi
competenti delle loro amministrazioni.
2. Il Consiglio può,
– su iniziativa di qualsiasi Stato membro o della Commissione nei
settori di cui ai punti da 1 a 6 dell’articolo K.1,
– su iniziativa di qualsiasi Stato membro nei settori di cui ai punti
7, 8 e 9 dell’articolo K.1:
a) adottare posizioni comuni e promuovere, nella forma e secondo le procedure appropriate, ogni cooperazione utile al conseguimento degli obiettivi dell’Unione;
b) adottare azioni comuni, nella misura in cui gli obiettivi dell’Unione, data la portata o gli effetti dell’azione prevista, possono
essere realizzati meglio con un’azione comune che con azioni dei
singoli Stati membri; esso può decidere che le misure, di applicazione di un’azione comune siano adottate a maggioranza qualificata;
c) fatto salvo il disposto dell’articolo 220 del trattato che istituisce
la Comunità europea, elaborare convenzioni di cui raccomanderà l’a-
52
dozione da parte degli Stati membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.
Salvo disposizioni contrarie previste da tali convenzioni, le
eventuali misure di applicazione di queste ultime sono adottate in
seno al Consiglio a maggioranza dei due terzi delle Alte Parti Contraenti.
Le convenzioni possono prevedere che la Corte di giustizia sia
competente per interpretarne le disposizioni e per comporre le controversie connesse con la loro applicazione, secondo modalità che
saranno precisate dalle medesime convenzioni.
Articolo K.4
1. È istituito un comitato di coordinamento composto di alti funzionari che, oltre a svolgere un ruolo di coordinamento, ha il compito:
– di formulare pareri per il Consiglio, a richiesta di quest’ultimo o
di propria iniziativa;
– di contribuire, fatto salvo l’articolo 151 del trattato che istituisce
la Comunità europea, alla preparazione dei lavori del Consiglio nei
settori contemplati dall’articolo K.1 e, alle condizioni di cui all’articolo 100 D del trattato che istituisce la Comunità europea, nei settori
contemplati dall’articolo 100 C di detto trattato.
2. La Commissione è pienamente associata ai lavori nei settori di
cui al presente titolo.
3. Il Consiglio delibera all’unanimità, tranne che per le questioni
di procedura e tranne nei casi in cui l’articolo K.3 preveda espressamente una regola di voto diversa.
Qualora le deliberazioni del Consiglio richiedano la maggioranza
qualificata, ai voti dei membri è attribuita la ponderazione prevista
all’articolo 148, paragrafo 2, del trattato che istituisce la Comunità
europea e le deliberazioni sono valide se hanno ottenuto almeno sessantadue voti favorevoli, espressi da almeno dieci membri (*).
Articolo K.5
Nelle organizzazioni internazionali e in occasione delle conferen-
(*) Secondo comma dei paragrafo 3 così modificato dall’articolo 15 dell’AA
A/FIN/SVE nella versione che risulta dall’articolo 8 della DA AA A/FIN/SVE.
53
ze internazionali cui partecipano, gli Stati membri esprimono le posizioni comuni adottate in applicazione delle disposizioni del presente
titolo.
Articolo K.6
La presidenza e la Commissione informano regolarmente il
Parlamento europeo dei lavori svolti nei settori che rientrano nel presente titolo.
La presidenza consulta il Parlamento europeo sui principali aspetti dell’attività nei settori di cui al presente titolo e si adopera affinché
le opinioni del Parlamento europeo siano tenute in debito conto.
Il Parlamento europeo può rivolgere al Consiglio interrogazioni o
raccomandazioni. Esso procede ogni anno ad un dibattito sui progressi compiuti nell’attuazione delle disposizioni di cui al presente
titolo.
Articolo K.7
Le disposizioni del presente titolo non ostano all’instaurazione o
allo sviluppo di una cooperazione più stretta tra due o più Stati membri, sempre che tale cooperazione non sia in contrasto con quella prevista nel presente titolo né la ostacoli.
Articolo K.8
1. Le disposizioni di cui agli articoli 137, 138, da 139 a 142, 146,
147, da 150 a 153, da 157 a 163 e 217 del trattato che istituisce la
Comunità europea si applicano alle disposizioni concernenti i settori
di cui al presente titolo.
2. Le spese amministrative che le istituzioni devono sostenere per
le disposizioni relative ai settori di cui al presente titolo sono a carico
del bilancio delle Comunità europee.
Il Consiglio può altresì:
– decidere all’unanimità che le spese operative dovute all’attuazione di dette disposizioni siano a carico del bilancio delle Comunità
europee; in tal caso si applica la procedura di bilancio prevista dal
trattato che istituisce la Comunità europea;
– o constatare che tali spese devono essere a carico degli Stati
membri, eventualmente secondo un criterio di ripartizione da stabilirsi.
54
Articolo K.9
Il Consiglio, deliberando all’unanimità su iniziativa della Commissione o di uno Stato membro, può decidere di rendere applicabile
l’articolo 100 C del trattato che istituisce la Comunità europea ad azioni pertinenti a settori contemplati dall’articolo K.1, punti da 1 a 6,
decidendo nel contempo le relative condizioni di voto. Esso raccomanda agli Stati membri di adottare tale decisione conformemente
alle loro rispettive norme costituzionali.
55
ATTI ADOTTATI NELL’AMBITO
DEL TITOLO VI DEL TRATTATO U.E.
ATTO DEL CONSIGLIO
del 29 novembre 1996
che stabilisce, sulla base dell’articolo K.3 del trattato sull’Unione
europea, il protocollo concernente l’interpretazione, in via pregiudiziale,
da parte della Corte di giustizia e delle Comunità europee, della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee
(97/C 151/01)
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato sull’Unione europea, in particolare l’articolo K.3,
paragrafo 2, lettera c),
considerando che, a norma dell’articolo K.3, paragrafo 2, lettera c)
le convenzioni elaborate in base all’articolo K.3 del trattato sull’Unione europea possono prevedere che la Corte di giustizia sia competente per interpretarne le disposizioni e per risolvere le controversie connesse con la loro applicazione, secondo modalità che saranno precisate dalle medesime convenzioni,
HA DECISO di concludere il protocollo il cui testo è riportato in
allegato, firmato in data odierna dai rappresentanti dei governi degli
Stati membri dell’Unione europea,
RACCOMANDA che detto protocollo sia adottato dagli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali.
Fatto a Bruxelles, addì 29 novembre 1996.
Per il Consiglio Il Presidente OWEN
ALLEGATO
PROTOCOLLO
concluso in base all’articolo K.3 del trattato sull’Unione europea,
concernente l’interpretazione, in via pregiudiziale, da parte della Corte
di giustizia delle Comunità europee, della convenzione relativa alla
tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee.
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LE ALTE PARTI CONTRAENTI,
HANNO CONVENUTO le disposizioni che seguono, che sono allegate alla convenzione:
Articolo 1
La Corte di giustizia delle Comunità europee è competente, alle
condizioni stabilite dal presente protocollo, a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione della convenzione relativa alla tutela
degli interessi finanziari delle Comunità europee e del protocollo di
detta convenzione, concluso il 27 settembre 1996 (1), in appresso
denominato aprimo protocollo”.
Articolo 2
1. Ciascuno Stato membro può, tramite una dichiarazione presentata all’atto della firma del presente protocollo o in qualsiasi altro
momento successivo a detta firma, accettare la competenza della
Corte di giustizia delle Comunità europee a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione della convenzione relativa alla tutela
degli interessi finanziari delle Comunità europee e del primo protocollo alle condizioni definite al paragrafo 2, lettera a) o al paragrafo 2,
lettera b).
2. Qualsiasi Stato membro, che presenti la dichiarazione di cui al
paragrafo 1, può precisare che:
a) ogni organo giurisdizionale di detto Stato membro, avverso le
cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto
interno, ha la facoltà di chiedere alla Corte di giustizia delle Comunità
europee di pronunciarsi, in via pregiudiziale, su una questione sollevata in un giudizio pendente dinanzi ad essa e relativa all’interpretazione della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari
delle Comunità europee e del primo protocollo, qualora tale organo
giurisdizionale reputi necessaria una decisione su questo punto per
emanare la sua sentenza,
ovvero
b) ogni organo giurisdizionale di detto Stato membro ha la
facoltà di chiedere alla Corte di giustizia delle Comunità europee di
(1) G.U. n. C 313 del 23 ottobre 1996, pag. 1.
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pronunciarsi, in via pregiudiziale, su una questione sollevata in un
giudizio pendente dinanzi ad essa e relativa all’interpretazione della
convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e del primo protocollo, qualora tale organo giurisdizionale reputi necessaria una decisione su questo punto per emanare la
sua sentenza.
Articolo 3
1. Si applicano il protocollo sullo statuto della Corte di giustizia
delle Comunità europee e il regolamenfo di procedura della Corte
stessa.
2. In base allo statuto della Corte di giustizia delle Comunità europee, qualsiasi Stato membro ha la facoltà di presentare memorie o
osservazioni scritte alla Corte di giustizia delle Comunità europee nelle cause di cui è investita a norma dell’articolo 1, indipendentemente dal fatto che si sia avvalso o meno della dichiarazione di cui
all’articolo 2.
Articolo 4
1. Il presente protocollo è sottoposto agli Stati membri per l’adozione secondo le rispettive norme costituzionali.
2. Gli Stati membri notificano al depositario il compimento delle
procedure richieste dalle rispettive norme costituzionali per l’adozione del presente protocollo, nonché le dichiarazioni presentate a norma
dell’articolo 2.
3. Il presente protocollo entra in vigore novanta giorni dopo la notifica di cui al paragrafo 2 da parte dello Stato membro dell’Unione europea alla data dell’adozione da parte del Consiglio dell’atto che stabilisce
il presente protocollo, che proceda per ultimo a tale formalità. Tuttavia,
la sua entrata in vigore avverrà non prima di quella della convenzione
relativa alla protezione degli interessi finanziari delle Comunità europee.
Articolo 5
1. Il presente protocollo è aperto alla firma di ogni Stato che
divenga membro dell’Unione europea.
2. Gli strumenti di adesione sono depositati presso il depositario.
3. Fa fede il testo del presente protocollo, nella lingua dello Stato
membro aderente, stabilito dal Consiglio dell’Unione europea.
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4. Il presente protocollo entra in vigore nei confronti dello Stato
membro aderente novanta giorni dopo la data di deposito del suo strumento di adesione, oppure alla data di entrata in vigore del presente
protocollo, se quest’ultimo non è ancora entrato in vigore allo scadere
del suddetto periodo di novanta giorni.
Articolo 6
Qualsiasi Stato che divenga membro dell’Unione europea e che
aderisca alla convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari
delle Comunità europee a norma dell’articolo 12 di tale convenzione è
tenuto ad accettare le disposizioni del presente protocollo.
Articolo 7
1. Ogni Stato membro, Alta parte contraente, può proporre emendamenti del presente protocollo. Qualsiasi proposta di emendamento
è trasmessa al depositario, che la comunica al Consiglio.
2. Gli emendamenti sono decisi dal Consiglio che ne raccomanda
l’adozione agli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali.
3. Gli emendamenti così adottati entrano in vigore a norma delle
disposizioni dell’articolo 4.
Articolo 8
1. Il Segretario generale dei Consiglio dell’Unione europea è depositario del presente protocollo.
2. Il depositario pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità
europee le notifiche, gli strumenti o le comunicazioni relativi al presente protocollo.
DICHIARAZIONE
relativa all’adozione simultanea della convenzione relativa alla
tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e del protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale da parte della
Corte di giustizia delle Comunità europee di detta convenzione.
I rappresentanti dei governi degli Stati membri dell’Unione europea riuriiti in sede di Consiglio,
al momento della firma dell’atto che stabilisce il protocollo con-
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cernente l’interpretazione, in via pregiudiziale, da parte della Corte di
giustizia delle Comunità europee della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee,
nell’intento di garantire un’interpretazione il più possibile efficace
ed uniforme di detta convenzione fin dalla sua entrata in vigore,
si dichiarano pronti a prendere le opportune misure per garantire
la conclusione simultanea e tempestiva delle procedure nazionali di
adozione della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e del protocollo concernente la sua interpretazione.
Dichiarazione a norma dell’articolo 2
All’atto della firma del presente protocollo, hanno dichiarato di
accettare la competenza della Corte di giustizia delle Comunità europee secondo le modalità previste dall’articolo 2:
la Repubblica francese, l’Irlanda e la Repubblica portoghese
secondo le modalità previste dall’articolo 2, paragrafo 2, lettera a);
la Repubblica federale di Germania, la Repubblica ellenica, il
Regno dei Paesi Bassi, la Repubblica d’Austria, la Repubblica di Finlandia ed il Regno di Svezia secondo le modalità previste dall’articolo
2, paragrafo 2, lettera b).
DICHIARAZIONE
La Repubblica federale di Germania, la Repubblica ellenica, il
Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica d’Austria, si riservano il diritto
di prevedere nella loro legislazione interna che, qualora una questione
relativa all’interpretazione della convenzione relativa alla tutela degli
interessi finanziari delle Comunità europee e del primo protocollo sia
sollevata in un giudizio pendente davanti ad un organo giurisdizionale nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale sia tenuto ad
adire la Corte di giustizia delle Comunità europee.
Per il Regno di Danimarca ed il Regno di Spagna la/le dichiarazione/i sarà/anno resa/e al momento dell’adozione.
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ATTO DEL CONSIGLIO
del 27 settembre 1996
che stabilisce un protocollo della convenzione relativa alla tutela
degli interessi finanziari delle Comunità; europee
(96/C 313/01)
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato sull’Unione europea, in particolare l’articolo K.3,
paragrafo 2, lettera c),
considerando che, ai fini del conseguimento degli obiettivi dell’Unione europea, gli Stati membri considerano la lotta contro la criminalità, che lede gli interessi finanziari delle Comunità europee, una
questione di interesse comune che rientra nella cooperazione istituita
dal titolo VI del trattato;
considerando che il Consiglio, con il suo atto del 26 luglio 1995,
ha stabilito quale primo dispositivo la convenzione relativa alla tutela
degli interessi finanziari delle Comunità europee, che riguarda più in
particolare la lotta contro le frodi che ledono tali interessi;
considerando che occorre in una seconda fase completare la suddetta convenzione con un protocollo che riguardi segnatamente la
lotta contro gli atti di corruzione nei quali sono coinvolti funzionari
sia nazionali che comunitari e che ledono o possono ledere gli interessi finanziari delle Comunità europee,
DECIDE che è stabilito il protocollo il cui testo figura in allegato,
firmato in data odierna dai rappresentanti dei governi degli Stati
membri dell’Unione;
NE RACCOMANDA l’adozione da parte degli Stati membri
conformemente alle loro rispettive norme costituzionli.
Fatto a Bruxelles, addì 27 settembre 1996.
Per il Consiglio il Presidente M. LOWRY
Articolo 1
Definizioni
Ai fini del presente protocollo si intende per:
1) a) “funzionario”: qualsiasi funzionario sia “comunitario” che
“nazionale”, ivi compreso qualsiasi funzionario nazionale di un altro
Stato membro;
b) “funzionario comunitario”:
– qualsiasi persona che rivesta la qualifica di funzionario o di
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agente assunto per contratto ai sensi dello statuto dei funzionari delle
Comunità europee o del regime applicabile agli altri agenti delle
Comunità europee;
– qualsiasi persona comandata dagli Stati membri o da qualsiasi
ente pubblico o organismo privato presso le Comunità europee, che vi
eserciti funzioni corrispondenti a quelle esercitate dai funzionari o
dagli altri agenti delle Comunità europee.
Sono assimilati ai funzionari comunitari i membri e il personale
degli organismi costituiti secondo i trattati che istituiscono le Comunità europee cui non si applica lo statuto dei funzionari delle Comunità europee o il regime applicabile agli altri agenti delle Comunità
europee;
c) “funzionario nazionale”: il “funzionario” o il “pubblico ufficiale” secondo quanto definito nel diritto nazionale dello Stato membro
in cui la persona in questione riveste detta qualifica ai fini dell’applicazione del diritto penale di tale Stato membro.
Tuttavia, nel caso di procedimenti giudiziari che coinvolgono un
funzionario di uno Stato membro avviati da un altro Stato membro,
quest’ultimo ha l’obbligo di applicare la definizione di “funzionario
nazionale” soltanto nella misura in cui tale definizione è compatibile
con il suo diritto interno;
2) “convenzione”: la convenzione, stipulata sulla base dell’articolo
K.3 del trattato sull’Unione europea, relativa alla tutela degli interessi
finanziari delle Comunità europee il 26 luglio 1995 (1).
Articolo 2
Corruzione passiva
1. Ai fini del presente protocollo vi è corruzione passiva quando il
funzionario deliberatamente, direttamente o tramite un terzo, sollecita o riceve vantaggi di qualsiasi natura, per sé o per un terzo, o ne
accetta la promessa, per compiere o per omettere un atto proprio delle
sue funzioni o nell’esercizio di queste, in modo contrario ai suoi doveri di ufficio, che leda o che potrebbe ledere gli interessi finanziari delle
Comunità europee.
2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie ad assicurare che le condotte di cui al paragrafo 1 costituiscano illeciti penali.
(1) G.U. n. C 316 del 27 novembre 1995, pag. 49.
62
Articolo 3
Corruzione attiva
1. Ai fini del presente protocollo vi è corruzione attiva quando una
persona deliberatamente promette; o dà, direttamente o tramite un
terzo, un vantaggio di qualsiasi natura ad un funzionario, per il funzionario stesso o per un terzo, affinché questi compia o ometta un atto
proprio delle sue funzioni o nell’esercizio di queste, in modo contrario
ai suoi doveri d’ufficio, che leda o che potrebbe ledere gli interessi
finanziari delle Comunità europee.
2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie ad assicurare che le condotte di cui al paragrafo 1 costituiscano illeciti penali.
Articolo 4
Assimilazione
1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché ai
sensi del diritto penale nazionale le qualificazioni degli illeciti che corrispondono a una delle condotte di cui all’articolo 1 della convenzione
e, commessi da suoi funzionari nazionali nell’esercizio delle loro funzioni, siano applicate allo stesso modo ai casi in cui gli illeciti vengono
commessi da funzionari comunitari nell’esercizio delle loro funzioni.
2. Ciascuno Stato membro prende le misure necessarie affinché ai
sensi dei diritto penale nazionale le qualificazioni di illeciti di cui al
paragrafo 1 del presente articolo e agli articoli 2 e 3, commessi da
Ministri del governo, dai membri eletti del parlamento, dai membri
degli organi giudiziari supremi o dai membri della Corte dei conti nell’esercizio delle rispettive funzioni, o nei confronti di questi, siano
applicabili allo stesso modo ai casi in cui gli illeciti sono commessi da
membri della Commissione delle Comunità europee, del Parlamento
europeo, della Corte di giustizia e della Corte dei conti delle Comunità
europee rispettivamente nell’esercizio delle loro funzioni, o nei confronti di questi.
3. Qualora uno Stato membro abbia adottato norme speciali per
atti o omissioni di cui i ministri del suo governo devono rispondere
per la particolare posizione politica che occupano nello Stato, il paragrafo 2 del presente articolo può non applicarsi a dette norme, a condizione che lo Stato membro assicuri che i membri della Commissione delle Comunità europee sono essi pure soggetti alla norme penali
di attuazione degli articoli 2, 3 e 4, paragrafo 1.
4. I paragrafi 1, 2 e 3 lasciano salve le disposizioni applicabili in
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ciascuno Stato membro per quanto attiene alla procedura penale e
alla determinazione delle giurisdizioni competenti.
5. Il presente protocollo si applica nel pieno rispetto delle pertinenti disposizioni dei trattati che istituiscono le Comunità europee, del
protocollo sui privilegi e sulle immunità delle Comunìtà europee, dello
statuto della Corte di giustizia, nonché dei testi adottati in applicazione delle stesse per quanto attiene alla soppressione delle immunità.
Articolo 5
Sanzioni
1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie; per assicurare che i comportamenti di cui agli articoli 2 e 3, nonché la complicità e l’istigazione relativa a tali comportamenti siano passibili di
sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, comprendenti,
almeno nei casi gravi, pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione.
2. Il paragrafo 1 lascia impregiudicato l’esercizio, da parte delle
autorità competenti, dei poteri disciplinari nei confronti dei funzionari nazionali o dei funzionari comunitari. Nella determinazione della
sanzione penale da infliggere, le giurisdizioni nazionali possono prendere in considerazione, conformemente ai principi del loro diritto
nazionale, qualsiasi sanzione disciplinare già inflitta alla stessa persona per lo stesso comportamento.
Articolo 6
Competenza
1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per stabilire la sua competenza sugli illeciti da esso costituiti a norma degli articoli 2, 3 e 4 nei casi in cui:
a) l’illecito è commesso, in tutto o in parte, nel suo territorio,
b) l’autore dell’illecito è un suo cittadino o un suo funzionario,
c) l’illecito è commesso nei confronti di una delle persone di cui
all’articolo 1, o di uno dei membri delle istituzioni di cui all’articolo 4,
paragrafo 2, che è suo cittadino,
d) l’autore dell’illecito è un funzionario comunitario al servizio di
un’istituzione delle Comunità europee o di un organismo costituito
secondo i trattati che istituiscono le Comunità europea, e che ha sede
nello Stato membro interessato.
2. Qualsiasi Stato membro può dichiarare, all’atto della notifica di
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cui all’articolo 9, paragrafo 2, che non applica o che applica solo in
particolari casi o condizioni una o più norme di competenza di cui al
paragrafo 1, lettere b), c) e d).
Articolo 7
Rapporto con la convenzione
1. Le disposizioni dell’articolo 3, dell’articolo 5, paragrafi 1, 2 e 4 e
dell’articolo 6 della convenzione si applicano come se vi fosse un riferimento alle condotte di cui agli articoli 2, 3 e 4 del presente protocollo.
2. Si applicano altresì al presente protocollo le seguenti disposizioni della convenzione:
– l’articolo 7, fermo restando che, salvo indicazione contraria
all’atto della notifica di cui all’articolo 9, paragrafo 2 del presente protocollo, qualsiasi dichiarazione ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2
della convenzione vale anche per il presente protocollo,
– l’articolo 9,
– l’articolo 10.
Articolo 8
Corte di giustizia
1. Qualsiasi controversia tra Stati membri in merito all’interpretazione o all’applicazione del presente protocollo deve, in una prima fase, essere esaminata in sede di Consiglio secondo la procedura di cui al titolo VI
del trattato sull’Unione europea, al fine di giungere ad una soluzione.
Se entro sei mesi non si è potuto trovare una soluzione, la Corte
di giustizia delle Comunità europee può essere adita da una delle parti
della controversia.
2. Qualsiasi controversia, relativa all’articolo 1, ad eccezione del
punto 1, lettera c), e agli articoli 2, 3, 4 e all’articolo 7, paragrafo 2,
terzo trattino del presente protocollo, tra uno o più Stati membri e la
Commissione delle Comunità europee che non sia stato possibile risolvere mediante negoziato può essere sottoposta alla Corte di giustizia
delle Comunità europee.
Articolo 9
Entrata in vigore
1. Il presente protocollo è sottoposto all’adozione degli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali.
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2. Gli Stati membri notificano al Segretario generale del Consiglio dell’Unione europea il compimento delle procedure richieste
dalle rispettive norme costituzionali per l’adozione del presente protocollo.
3. Il presente protocollo entra in vigore novanta giorni dopo
la notifica di cui al paragrafo 2 da parte dello Stato, membro dell’Unione europea al momento dell’adozione da parte del Consiglio dell’atto che stabilisce il presente protocollo, che procede per ultimo a
detta formalità. Tuttavia, se la convenzione non è entrata in vigore a
quella data, il protocollo entra in vigore nello stesso giorno in cui entra
in vigore la convenzione stessa.
Articolo 10
Adesione di nuovi Stati membri
1. Il presente protocollo è aperto all’adesione di ogni Stato che
diventi membro dell’Unione europea.
2. Fa fede il testo del presente protocollo nella lingua dello Stato
aderente predisposto dal Consiglio dell’Unione europea.
3. Gli strumenti d’adesione sono depositati presso il depositario.
4. Il presente protocollo entra in vigore nei confronti di ogni Stato
che vi aderisca novanta giorni dopo il deposito del suo strumento d’adesione, ovvero alla data dell’entrata in vigore del presente protocollo,
se questo non è ancora entrato in vigore al momento dello scadere di
detto periodo di novanta giorni.
Articolo 11
Riserve
1. Non è ammessa alcuna riserva, ad eccezione di quelle previste
dall’articolo 6, paragrafo 2.
2. Lo Stato membro che abbia formulato una riserva può ritirala
in qualsiasi momento in tutto o in parte, notificandolo al depositario.
Il ritiro prende effetto alla data di ricezione della notifica da parte del
depositario.
Articolo 12
Depositario
1. Il Segretario generale del Consiglio dell’Unione europea è depositario del presente protocollo.
66
2. Il depositario pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità
europee lo stato delle adozioni e delle adesioni, le dichiarazioni e le
riserve nonché qualsiasi altra notificazione relativa al presente protocollo.
In fede di che, i plenipotenziari hanno apposto le loro firme in
calce al presente protocollo.
Fatto in un esemplare unico nelle lingue danese, finlandese, francese, greca, inglese, irlandese, italiana, olandese, portoghese, spagnola, svedese e tedesca, ciascuna di esse facente ugualmente fede, che è
depositato negli archivi del Segretariato generale del Consiglio dell’Unione europea.
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ATTO DEL CONSIGLIO
del 26 luglio 1995
che stabilisce la convenzione relativa alla tutela degli interessi
finanziari delle Comunità europee
(95/C 316/03)
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA
visto il trattato sull’Unione europea, in particolare l’articolo K.3,
paragrafo 2, lettera c),
considerando che, ai fini del conseguimento degli obiettivi dell’Unione europea, gli Stati membri considerano la lotta contro le frodi
che ledono gli interessi finanziari delle Comunità europee una questione di interesse comune che rientra nella cooperazione istituita dal
titolo VI del trattato;
considerando che, per lottare con il massimo vigore contro tali
frodi, è necessario stabilire un primo testo di convenzione, da completarsi, a breve termine, con un altro strumento giuridico in modo di
migliorare l’efficacia della protezione penale degli interessi finanziari
delle Comunità europee;
DECIDE che è stabilita la convenzione il cui testo figura nell’allegato, firmata in data odierna dai rappresentanti dei governi degli Stati
membri dell’Unione;
RACCOMANDA l’adozione della stessa da parte degli Stati membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.
Fatto a Bruxelles, addì 26 luglio 1995.
Per il Consiglio Il Presidente J.A. BELLOCH JULBE
ALLEGATO
CONVENZIONE
elaborata in base all’articolo K.3 del trattato sull’Unione europea
relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee
LE ALTE PARTI CONTRAENTI della presente convenzione, Stati
membri dell’Unione europea,
FACENDO RIFERIMENTO all’atto del Consiglio dell’Unione europea del 26 luglio 1995;
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DESIDEROSE di far sì che le loro legislazioni penali contribuiscano efficacemente alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee;
PRENDENDO NOTA che la frode ai danni delle entrate e delle
spese della comunità in molti casi non si limita ad un unico paese, ma
è spesso l’opera di organizzazioni criminali;
CONVINTE che la tutela degli interessi finanziari delle Comunità
europee esige che ogni condotta fraudolenta che leda tali interessi
debba dar luogo ad azioni penali e richieda che sia a tal fine adottata
una definizione comune;
CONVINTE della necessità di rendere tali condotte passibili di
sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, fatta salva l’applicazione di altre sanzioni in taluni casi opportuni, e di prevedere,
almeno nei casi gravi, delle pene privative della libertà che possano
comportare l’estradizione;
RICONOSCENDO che le imprese svolgono un ruolo importante
nei settori finanziati dai bilanci comunitari, e che le persone che esercitano un potere decisionale nelle imprese non dovrebbero sfuggire
alla responsabilità penale in determinate circostanze,
DECISE a combattere insieme la frode che lede gli interessi finanziari delle Comunità europee assumendosi obblighi in materia di competenza giurisdizionale, di estradizione e di reciproca cooperazione,
HANNO CONVENUTO LE SEGUENTI DISPOSIZIONI
Articolo 1
Disposizioni generali
1. Ai fini della presente convenzione costituisce frode che lede gli
interessi finanziari delle Comunità europee:
a) in materia di spese, qualsiasi azione od omissione intenzionale
relativa:
– all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o di documenti
falsi, inesatti o incompleti cui consegua il percepimento o la ritenzione illecita di fondi provenienti dal bilancio generale delle Comunità
europee o dai bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di
esse;
– alla mancata comunicazione di un’informazione in violazione di
un obbligo specifico cui consegua lo stesso effetto;
– alla distrazione di tali fondi per fini diversi da quelli per cui essi
sono stati inizialmente concessi;
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b) in materia di entrate, qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa:
– all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti
falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di
risorse del bilancio generale delle Comunità europee o dei bilanci
gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse;
– alla mancata comunicazione di un’informazione in violazione di
un obbligo specifico cui consegua lo stesso effetto;
– alla distrazione di un beneficio lecitamente ottenuto, cui consegua lo stesso effetto.
2. Fatto salvo l’articolo 2, paragrafo 2, ciascuno Stato membro
prende le misure necessarie e adeguate per recepire nel diritto penale
interno le disposizioni del paragrafo 1, in modo tale che le condotte da
esse considerate costituiscano un’illecito penale.
3. Fatto salvo l’articolo 2, paragrafo 2, ciascuno Stato membro
prende altresì le misure necessarie affinché la redazione o il rilascio
intenzionale di dichiarazioni o di documenti falsi, inesatti o incompleti cui conseguano gli effetti di cui al paragrafo 1 costituiscano illeciti penali qualora non siano già punibili come illecito principale ovvero a titolo di complicità, d’istigazione o di tentativo di frode quale definita al paragrafo 1.
4. Il carattere intenzionale di un’azione o di un’omissione di cui
ai paragrafi 1 e 3 può essere dedotto da circostanze materiali oggettive.
Articolo 2
Sanzioni
1. Ogni Stato membro prende le misure necessarie affinché le condotte di cui all’articolo 1 nonché la complicità, l’istigazione o il tentativo relativi alle condotte descritte all’articolo 1, paragrafo 1 siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno, nei casi di frode grave, pene privative della libertà
che possono comportare l’estradizione, rimanendo inteso che dev’essere considerata frode grave qualsiasi frode riguardante un importo
minimo da determinare in ciascuno Stato membro. Tale importo
minimo non può essere superiore a 50.000 E.C.U..
2. Tuttavia, uno Stato membro può prevedere per i casi di frode
di lieve entità riguardante un importo totale inferiore a 4.000 E.C.U.,
che non presentino aspetti di particolare gravità secondo la propria
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legislazione, sanzioni di natura diversa da quelle previste al paragrafo 1.
3. Il Consiglio dell’Unione europea, deliberando all’unanimità,
può variare l’importo di cui al paragrafo 2.
Articolo 3
Responsabilità penale dei dirigenti delle imprese
Ciascuno Stato membro prende le misure necessarie per consentire che i dirigenti delle imprese ovvero qualsiasi persona che eserciti
il potere di decisione o di controllo in seno ad un’impresa possano
essere dichiarati penalmente responsabili, secondo i principi stabiliti
dal diritto interno, per gli atti fraudolenti commessi ai danni degli
interessi finanziari delle Comunità, quali definiti all’articolo 1, commessi da persona soggetta alla loro autorità per conto dell’impresa.
Articolo 4
Competenza
1. Ciascuno Stato membro prende le misure necessarie per istituire la propria competenza giurisdizionale sugli illeciti penali da esso
costituiti a norma dell’articolo 1 e dell’articolo 2, paragrafo 1, qualora:
– la frode, la partecipazione ad una frode o il tentativo di frode che
leda gli interessi finanziari delle Comunità europee è commesso in
tutto o in parte sul suo territorio, ivi compreso il caso di frode i cui
proventi sono stati ottenuti in tale territorio;
– una persona che si trova sul suo territorio concorre intenzionalmente ovvero istiga una siffatta frode sul territorio di qualsiasi altro
Stato;
– l’autore dell’illecito è un cittadino dello Stato membro in questione, e, al tempo stesso, la legislazione dello Stato membro può prevedere che la condotta sia altresì punibile nel paese in cui ha avuto
luogo.
2. All’atto della notificazione di cui all’articolo 11, paragrafo 2, ciascuno Stato membro può dichiarare che esso non applica la regola
enunciata al paragrafo 1, terzo trattino del presente articolo.
Articolo 5
Estradizione ed esercizio dell’azione penale
1. Ciascuno Stato membro che, in virtù della propria legislazione,
71
non estrada i propri cittadini prende le misure necessarie a stabilire la
propria competenza giurisdizionale per gli illeciti penali da esso costituiti ai sensi dell’articolo 1 e dell’articolo 2, paragrafo 1, qualora siano
state commesse da suoi cittadini fuori del proprio territorio.
2 Ciascuno Stato membro deve, qualora uno dei propri cittadini
sia presunto colpevole di aver commesso in un altro Stato membro un
illecito penale consistente in una condotta quale descritta all’articolo
1 e all’articolo 2, paragrafo 1 e non estradi tale persona verso tale altro
Stato membro unicamente a cagione della nazionalità, sottoporre la
questione al giudizio delle proprie autorità competenti ai fini dell’esercizio dell’azione penale, se ne ricorrono i presupposti. Per consentire l’esercizio delle azioni penali i fascicoli, gli atti istruttori e gli
oggetti riguardanti l’illecito sono inoltrati secondo le modalità previste
all’articolo 6 della convenzione europea di estradizione. Lo Stato
membro richiedente è informato delle azioni penali avviate e dei loro
risultati.
3. Uno Stato membro non può rifiutare l’estradizione per un atto
fraudolento che leda gli interessi finanziari delle Comunità europee
unicamente perché si tratta di un reato in materia di tasse o di dazi
doganali.
4. Ai fini del presente articolo, l’espressione “cittadino di uno Stato
membro” è interpretata in conformità di qualsiasi dichiarazione fatta
da quest’ultimo ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera b) della
convenzione europea di estradizione e del paragrafo 1, lettera c) del
medesimo articolo.
Articolo 6
Cooperazione
1. Se una frode, quale definita all’articolo 1, costituisce un illecito
penale e riguarda almeno due Stati membri, questi cooperano in modo
effettivo all’inchiesta, ai procedimenti giudiziari e all’esecuzione della
pena comminata, per esempio per mezzo dell’assistenza giudiziaria,
dell’estradizione, del trasferimento dei procedimenti o dell’esecuzione
delle sentenze pronunciate all’estero in un altro Stato membro.
2. Qualora più Stati membri hanno la competenza giurisdizionale
per un illecito e ciascuno di essi può validamente esercitare l’azione
penale sulla base degli stessi fatti, gli Stati membri interessati collaborano per decidere quale di essi debba perseguire l’autore o gli autori dell’illecito con l’obiettivo di centralizzare, se possibile, le azioni in
un unico Stato membro.
72
Articolo 7
Ne bis in idem
1. Gli Stati membri applicano, nel loro diritto penale interno, il
principio “ne bis in idem”, in virtù del quale la persona che sia stata
giudicata con provvedimento definitivo in uno Stato membro non può
essere perseguita in un altro Stato membro per gli stessi fatti, purché
la pena eventualmente applicata sia stata eseguita, sia in fase di esecuzione o non possa essere più eseguita ai sensi della legislazione dello
Stato che ha pronunciato la condanna.
2. All’atto della notificazione di cui all’articolo 11, paragrafo 2, ciascuno Stato membro può dichiarare di non essere vincolato dal paragrafo 1 del presente articolo in uno o più dei casi seguenti:
a) quando i fatti oggetto della sentenza straniera sono avvenuti sul
suo territorio, in tutto o in parte. In quest’ultimo caso questa eccezione non si applica se i fatti sono avvenuti in parte sul territorio dello
Stato membro nel quale la sentenza è stata pronunciata;
b) quando i fatti oggetto della sentenza straniera costituiscono un
illecito contro la sicurezza o contro altri interessi egualmente essenziali di quello Stato membro;
c) quando i fatti oggetto della sentenza straniera sono stati commessi da un pubblico ufficiale di quello Stato membro in violazione
dei doveri del suo ufficio.
3. Le eccezioni che hanno costituito oggetto di una dichiarazione ai
sensi del paragrafo 2 non si applicano quando lo Stato membro di cui si
tratta ha, per gli stessi fatti, richiesto l’esercizio dell’azione penale all’altro Stato membro o concesso l’estradizione della persona in questione.
4. Rimangono salvi gli accordi bilaterali o multilaterali conclusi
tra gli Stati membri in materia e le pertinenti dichiarazioni.
Articolo 8
Corte di giustizia
1. Qualsiasi controversia tra Stati membri in merito all’interpretazione o all’applicazione della presente convenzione deve, in una prima
fase, essere esaminata in sede di Consiglio secondo la procedura di cui
al titolo VI del trattato sull’Unione europea, al fine di giungere ad una
soluzione.
Se entro sei mesi non si è potuto trovare una soluzione, la Corte
di giustizia delle Comunità europee può essere adita da una delle parti
della controversia.
73
2. Qualsiasi controversia, relativa agli articoli 1 o 10 della presente convenzione tra uno o più Stati membri e la Commissione delle
Comunità europee che non sia stato possibile risolvere mediante negoziato, può essere sottoposta alla Corte di giustizia.
Articolo 9
Disposizioni interne
Nessuna disposizione della presente convenzione osta a che gli
Stati membri adottino disposizioni di diritto interno ulteriori rispetto
agli obblighi da questa derivanti.
Articolo 10
Comunicazione
1. Gli Stati membri comunicano alla Commissione delle Comunità europee il testo delle disposizioni con cui traspongono nel loro
diritto interno gli obblighi che loro incombono in virtù delle disposizioni della presente convenzione.
2. Ai fini dell’applicazione della presente convenzione, le alte parti contraenti definiscono in seno al Consiglio dell’Unione europea, le informazioni che gli Stati membri devono comunicarsi o scambiarsi tra loro ovvero tra loro e la Commissione, nonché le modalità della loro trasmissione.
Articolo 11
Entrata in vigore
1. La presente convenzione è sottoposta agli Stati membri per l’adozione secondo le rispettive norme costituzionali.
2. Gli Stati membri notificano al segretario generale del Consiglio
dell’Unione europea il compimento delle procedure richieste dalle rispettive norme costituzionali per l’adozione della presente convenzione.
3. La presente convenzione entra in vigore novanta giorni dopo la
notifica di cui al paragrafo 2 da parte dello Stato membro che procede per ultimo a detta formalità.
Articolo 12
Adesione
1. La presente convenzione è aperta all’adesione di ogni Stato che
diventi membro dell’Unione europea.
74
2. Fa fede il testo della convenzione nella lingua dello Stato membro aderente stabilito dal Consiglio dell’Unione europea.
3. Gli strumenti d’adesione sono depositati presso il depositario.
4. La presente convenzione entra in vigore nei confronti di ogni
Stato che vi aderisca novanta giorni dopo il deposito del suo strumento d’adesione ovvero alla data dell’entrata invigore della presente convenzione, se questa non è ancora entrata in vigore al momento dello
scadere di detto periodo di novanta giorni.
Articolo 13
Depositario
1. Il segretario generale del Consiglio dell’Unione europea è depositario della presente convenzione.
2. Il depositario pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità
europee lo stato delle adozioni e delle adesioni, le dichiarazioni e le
riserve nonché qualsiasi altra notificazione relativa alla presente convenzione.
75
(PROGETTO DEL) SECONDO PROTOCOLLO DELLA
CONVENZIONE RELATIVA ALLA TUTELA DEGLI
INTERESSI FINANZIARI DELLE COMUNITÀ EUROPEE
STABILITO IN BASE ALL’ARTICOLO K.3 DEL TRATTATO
SULL’UNIONE EUROPEA
Nella sessione del 26 maggio 1997 il Consiglio ha raggiunto
un accordo politico sul progetto di protocollo in oggetto.
ACCORDO DEL CONSIGLIO
che stabilisce il secondo protocollo della convenzione relativa alla
tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee
IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA,
visto il trattato sull’Unione europea, in particolare l’articolo K.3,
paragrafo 2, lettera c),
considerando che, ai fini del conseguimento degli obiettivi dell’Unione europea, gli Stati membri considerano la lotta contro la criminalità che pregiudica gli interessi finanziari delle Comunità europee
una questione di interesse comune che rientra nella cooperazione istituita dal titolo VI del trattato;
considerando che il Consiglio, con atto del 26 luglio 1995 (1), ha
stabilito quale primo dispositivo la convenzione relativa alla tutela
degli interessi finanziari delle Comunità europee, che riguarda più in
particolare la lotta contro le frodi che ledono tali interessi;
considerando che il Consiglio, con l’atto del 27 settembre 1996 (2),
ha stabilito, come seconda fase, un protocollo alla convenzione che
riguarda segnatamente la lotta contro gli atti di corruzione nei quali
sono coinvolti funzionari sia nazionali che comunitari e che ledono o
possono ledere gli interessi finanziari delle Comunità europee;
considerando che occorre completare ulteriormente la convenzione con un secondo protocollo che riguardi segnatamente la responsabilità delle persone giuridiche, la confisca e il riciclaggio di denaro
nonché la cooperazione tra gli Stati membri e la Commissione ai fini
della tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e della
(1) G.U. n. C 316, del 27 novembre 1995, pag. 48.
(2) G.U. n. C 313, del 23 ottobre 1996, pag. 1
76
protezione dei dati personali ad essi connessi,
DECIDE che è stabilito il secondo protocollo il cui testo figura in
allegato, firmato in data odiema dai rappresentanti dei governi degli
Stati membri dell’Unione;
NE RACCOMANDA l’adozione da parte degli Stati membri
conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.
Secondo protocollo della convenzione relativa alla tutela degli
interessi finanziari delle comunità europee stabilito in base
all’articolo K.3 del trattato sull’Unione Europea.
LE ALTE PARTI CONTRAENTI del presente protocollo, Stati
membri dell’Unione europea,
FACENDO RIFERIMENTO all’atto del Consiglio dell’Unione europea del...,
DESIDEROSE di far si che le loro legislazioni penali contribuiscano efficacemente alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee;
RICONOSCENDO l’importanza della convenzione relativa alla
tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 26 luglio
1995 nella lotta contro la frode ai danni delle entrate e delle spese della
Comunità;
RICONOSCENDO l’importanza del protocollo della suddetta convenzione, adottato il 27 settembre 1996, nella lotta contro la corruzione che lede o può ledere gli interessi finanziari delle Comunità europee;
CONSAPEVOLI del fatto che gli interessi finanziari delle Comunità europee possono essere lesi o minacciati da atti compiuti per
conto di persone giuridiche e da atti finalizzati al riciclaggio dei proventi di attività illecite;
CONVINTE dell’esigenza di adattare, laddove necessario, le legislazioni nazionali per prevedere la responsabilità delle persone giuridiche nei casi di frode o corruzione attiva e riciclaggio di denaro compiuti per un loro beneficio, che ledono o possono ledere gli interessi
finanziari delle Comunità europee;
CONVINTE inoltre della necessità di adattare, laddove necessario,
le legislazioni nazionali per perseguire il riciclaggio dei proventi di atti
di frode o corruzione che ledono o possono ledere gli interessi finanziari delle Comunità europee e permettere la confisca dei proventi di
tali atti di frode o corruzione;
CONVINTE della necessità di adattare, laddove necessario, le
77
legislazioni nazionali al fine di impedire il rifiuto dell’assistenza
reciproca unicamente perché i reati contemplati dal presente protocollo riguardano o sono considerati reati in materia di tasse o di dazi
doganali;
RILEVANDO che la cooperazione tra gli Stati membri è già contemplata dalla convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, del 26 luglio 1995, ma che è necessaria
altresì, fatti salvi gli obblighi risultanti dalla normativa comunitaria,
l’adozione di disposizioni appropriate affinché la cooperazione tra gli
Stati membri e la Commissione garantisca un’azione efficace contro la
frode, la corruzione attiva e passiva ed il riciclaggio di denaro ad esse
connesso, che ledono o possono ledere gli interessi finanziari delle
Comunità europee, compreso lo scambio di informazioni tra gli Stati
membri e la Commissione;
CONSIDERANDO che, al fine di incoraggiare e facilitare lo scambio di informazioni, è necessario garantire una protezione adeguata
dei dati personali;
CONSIDERANDO che lo scambio di informazioni non dovrebbe
ostacolare le indaginl in corso e che è pertanto necessario prevedere la
tutela del segreto istruttorio;
CONSIDERANDO che occorre elaborare disposizioni appropriate
sulla competenza della Corte di giustizia;
CONSIDERANDO infine che è opportuno rendere applicabili le
disposizioni pertinenti della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, del 26 luglio 1995, a taluni
atti contemplati dal presente protocollo,
HANNO CONVENUTO LE SEGUENTI DISPOSIZIONI:
Articolo 1
Definizioni
Ai fini del presente protocollo si intende per:
a) “convenzione” la convenzione stipulata sulla base dell’articolo
K.3 del trattato sull’Unione europea relativa alla tutela degli interessi
finanziari delle Comunità europee, il 26 luglio 1995 (3);
b) “frode” le condotte descritte all’articolo 1 della convenzione;
c) – “corruzione passiva” le condotte di cui all’articolo 2 del pro-
(3) G.U. n. C 316 del 27 novembre 1995, pag. 49.
78
tocollo della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari
delle Comunità europee, stabilito in base all’articolo K.3 del trattato
sull’Unione europea il 27 settembre 1996 (4);
– “corruzione attiva” le condotte di cui all’articolo 3 dello stesso
protocollo;
d) “persona giuridica” qualsiasi entità che sia tale in forza del
diritto nazionale applicabile, ad eccezione degli Stati o di altre istituzioni pubbliche nell’esercizio dei pubblici poteri e delle organizzazioni internazionali pubbliche;
e) “riciclaggio di denaro” la condotta definita nel terzo trattino
dell’articolo 1 della direttiva del Consiglio 91/308/C.E.E. del 10 giugno
1991 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo
di riciclaggio dei proventi di attività illecite (5), in relazione ai proventi della frode, almeno nei casi gravi, e della corruzione attiva o
passiva.
Articolo 2
Riciclaggio di denaro
Ciascuno Stato membro prende i provvedimenti necessari affinché il riciclaggio di denaro costituisca illecito penale.
Articolo 3
Responsabilità delle persone giuridiche
1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché le
persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili della frode,
della corruzione attiva e del riciclaggio di denaro commessi a loro
beneficio da qualsiasi persona che agisca individualmente o in quanto parte di un organo della persona giuridica, che detenga un posto
dominante in seno alla persona giuridica, basati
– sul potere: di rappresentanza di detta persona giuridica, o
– sull’autorità di prendere decisioni per conto della persona giuridica, o
– sull’esercizio del controllo in seno a tale persona giuridica,
(4) G.U. n. C 313 del 23 ottobre 1996, pag. 2.
(5) G.U. n. L 166 del 28 giugno 1991, pag. 77.
79
nonché della complicità, dell’istigazione a commettere tale frode,
corruzione attiva o riciclaggio di denaro o del tentativo di commettere tale frode.
2. Oltre ai casi già previsti al paragrafo 1, ciascuno Stato membro
adotta le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano
essere dichiarate responsabili quando la carenza di sorveglianza 6
controllo da parte di uno dei soggetti di cui al paragrafo 1 abbia reso
possibile la perpetrazione di una frode, di un atto di corruzione attiva
o di riciclaggio di denaro a beneficio della persona giuridica da parte
di una persona soggetta alla sua autorità.
3. La responsabilità della persona giuridica ai sensi dei paragrafi
1 e 2 non esclude l’azione penale contro le persone fisiche, che siano
autori, istigatori o complici della frode, della corruzione attiva o del
riciclaggio di denaro.
Articolo 4
Sanzioni per le persone giuridiche
1. Ciascuno Stato membro prende i provvedimenti necessari affinché la persona giuridica dichiarata responsabile ai sensi dell’articolo
3, paragrafo 1 sia passibile di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, che includono sanzioni pecuniarie o di natura penale o amministrativa e possono includere altre sanzioni, tra cui:
a) misure di esclusione dal godimento di un vantaggio o aiuto
pubblico;
b) misure di divieto temporaneo o permanente di esercitare un’attività commerciale;
c) assoggettamento a sorveglianza giudiziaria;
d) provvedimenti giudiziari di scioglimento.
2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie afffinché
una persona giuridica dichiarata responsabile ai sensi dell’articolo 3,
paragrafo 2 sia passibile di sanzioni o di misure effettive, proporzionate e dissuasive.
Articolo 5
Confisca
Ciascuno Stato membro adotta le misure che gli consentono il
sequestro e, fatti salvi i diritti dei terzi in buona fede, la confisca
o la privazione degli strumenti e proventi della frode, della corruzione attiva o passiva e del riciclaggio di denaro o di proprietà del
80
valore corrispondente a tali proventi. Gli strumenti o proventi o
altre proprietà sequestrati o confiscati sono utilizzati dallo Stato
membro in questione in conformità della sua legislazione nazionale.
Articolo 6
Reati in materia di tasse o di dazi doganali
Uno Stato membro non può rifiutare l’assistenza giudiziaria per
quanto riguarda la frode, la corruzione attiva e passiva e il riciclaggio
di denaro per il solo fatto che si tratti di un reato in materia di tasse o
di dazi doganali, o sia considerato tale.
Articolo 7
Cooperazione con la Commissione delle Comunità europee.
1. Gli Stati membri e la Commissione cooperano reciprocamente
nel settore della lotta contro la frode, la corruzione attiva e passiva ed
il riciclaggio di denaro.
A tal fine, la Commissione presta l’assistenza tecnica e operativa
di cui le autorità nazionali competenti possono aver bisogno per facilitare il coordinamento delle loro indagini.
2. Le autorità competenti degli Stati membri possono scambiare
con la Commissione elementi di informazione per facilitare l’accertamento dei fatti e garantire un’azione efficace contro la frode, la corruzione attiva e passiva e il riciclaggio di denaro. La Commissione e le
autorità nazionali competenti tengono conto, per ogni caso specifico,
delle esigenze del segreto istruttorio e della protezione dei dati. A tal
fine uno Stato membro, quando fornisce informazioni alla Commissione, può stabilire condizioni specifiche per il loro uso da parte della
Commissione o di un altro Stato membro cui tali informazioni possono essere comunicate.
Articolo 8
Responsabilità della Commissione in materia di protezione dei dati
La Commissione assicura che, nell’ambito dello scambio di informazioni previsto dall’articolo 7, paragrafo 2, venga osservato, in materia di trattamento dei dati personali, un livello di protezione equivalente a quello previsto dalla direttiva 95/46/C.E. del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle per-
81
sone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché
alla libera circolazione di tali dati (6).
Articolo 9
Pubblicazione delle disposizioni sulla protezione dei dati
Le disposizioni adottate concernenti gli obblighi derivanti dall’articolo 8 sono pubblicate nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee.
Articolo 10
Trasferimento dei dati ad altri Stati membri e paesi terzi
1. Fatte salve le condizioni di cui all’articolo 7, paragrafo 2, la Commissione può trasferire a qualsiasi altro Stato membro dati personali ottenuti da uno Stato membro nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’articolo 7. La Commissione informa lo Stato membro che ha fomito le informazioni della sua intenzione di procedere ad un siffatto trasferimento.
2. Alle stesse condizioni la Commissione può trasferire a qualsiasi Stato terzo dati personali ottenuti da uno Stato membro nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’articolo 7, purché lo Stato membro
che ha fornito le informazioni si sia dichiarato d’accordo in merito a
detto trasferimento.
Articolo 11
Autorità di controllo
Un’autorità designata o istituita al fine di esercitare le funzioni di
controllo indipendente della protezione dei dati sui dati personali
detenuti dalla Commissione nell’ambito delle sue funzioni ai sensi del
trattato che istituisce la Comunità europea è competente a esercitare
le stesse funzioni per quanto riguarda i dati personali detenuti dalla
Commissione conformemente al presente protocollo.
Articolo 12
Rapporto con la convenzione
1. Le disposizioni degli articoli 3, 5 e 6 della convenzione si
(6) G.U. n. L 281, del 23 novembre 1995, pag. 31.
82
applicano anche alle condotte di cui all’articolo 2 del presente protocollo.
2. Al presente protocollo si applicano altresì le seguenti disposizioni della convenzione:
– l’articolo 4, fermo restando che, salvo indicazione contraria
all’atto della notifica di cui all’articolo 16, paragrafo 2 del presente
protocollo, qualsiasi dichiarazione ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2
della Convenzione vale anche per il presente protocollo;
– l’articolo 7, fermo restando che il principio “ne bis in idem” si
applica anche alle persone giuridiche e che, salvo indicazione contraria all’atto della notifica di cui all’articolo 16, paragrafo 2 del presente
protocollo, qualsiasi dichiarazione ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2
della convenzione vale anche per il presente protocollo,
– l’articolo 9;
– l’articolo 10.
Articolo 13
Corte di giustizia
1. Qualsiasi controversia tra Stati membri in merito all’interpretazione o a l’applicazione del presente protocollo deve, in una prima
fase, essere esaminata in sede di Consiglio secondo la procedura di cui
al titolo VI del trattato sull’Unione europea, al fine di giungere ad una
soluzione.
Se entro sei mesi non si è potuto trovare una soluzione, la Corte
di giustizia può essere adita da una delle parti della controversia.
2. Qualsiasi controversia, relativa all’applicazione dell’articolo 2,
in relazione all’articolo 1, lettera e), e degli articoli 7, 8, 10 e 12, paragrafo 2, quarto trattino del presente protocollo, tra uno o più Stati
membri e la Commissione che non sia stato possibile risolvere
mediante negoziato, può essere sottoposta alla Corte di giustizia, trascorso un periodo di sei mesi a decorrere dalla data in cui una delle
parti ha comunicato all’altra l’esistenza di una controversia;
3. Il protocollo concluso in base all’articolo K.3 del trattato sull’Unione europea concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da
parte della Corte di giustizia delle Comunità europee della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità euro-
(7) G.U. n. C 151, del 20 maggio 1997, pag. 1.
83
pee, del 29 novembre 1996 (7), si applica al presente protocollo, fermo
restando che una dichiarazione fatta da uno Stato membro conformemente all’articolo 2 di detto protocollo è valida anche per il presente
protocollo a meno che lo Stato membro interessato faccia una dichiarazione in senso contrario all’atto della notifica di cui all’articolo 16,
paragrafo 2 del presente protocollo.
Articolo 14
Responsabilità extracontrattuale
Ai fini del presente protocollo la responsabilità extracontrattuale
della Comunità è disciplinata dall’articolo 215, secondo comma del
trattato che istituisce la Comunità europea applicabile l’articolo 178
del medesimo trattato.
Articolo 15
Controllo giurisdizionale
1. La Corte di giustizia è competente a pronunciarsi sui ricorsi
proposti da qualsiasi persona fisica o giuridica contro le decisioni
della Commissione prese nei suoi confronti o contro le decisioni che
la riguardano direttamente ed individualmente, in violazione dell’articolo 8 o di qualsiasi disposizione adottata in applicazione del suddetto articolo ovvero per sviamento di potere.
2. L’articolo 168 A, paragrafi 1 e 2, l’articolo 173, quinto comma,
l’articolo 174, primo comma, l’articolo 176, primo e secondo comma,
gli articoli 185 e 186 del trattato che istituisce la Comunità europea,
nonché lo statuto della Corte di giustizia della Comunità europea si
applicano mutatis mutandis.
Articolo 16
Entrata in vigore
1. Il presente protocollo è sottoposto all’adozione degli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali.
2. Gli Stati membri notificano al Segretario Generale del Consiglio
dell’Unione europea l’espletamento delle procedure richieste dalle
rispettive norme costituzionali per l’adozione del presente protocollo.
3. Il presente protocollo entra in vigore novanta giorni dopo la
notifica di cui al paragrafo 2 da parte dello Stato membro dell’Unione
europea al momento dell’adozione dell’atto che stabilisce il protocol-
84
lo, che procede per ultimo a detta formalità. Tuttavia, se la convenzione non è entrata in vigore a quella data, il protocollo entra in vigore
nello stesso giorno in cui entra in vigore la convenzione stessa.
4. L’applicazione dell’articolo 7, paragrafo 2 è tuttavia sospesa se e
finché la pertinente istituzione delle Comunità europee non ha assolto l’obbligo di pubblicazione delle disposizioni sulla protezione dei
dati di cui all’articolo 9 ovvero se non sono soddisfatti i termini di cui
all’articolo 11 relativi all’autorità di controllo.
Articolo 17
Adesione di nuovi Stati membri
1. Il presente protocollo è aperto all’adesione di ogni Stato che
diventi membro dell’Unione europea.
2. Fa fede il testo del presente protocollo nella lingua dello Stato
aderente predisposto dal Consiglio dell’Unione europea.
3. Gli strumenti d’adesione sono depositati presso il depositario.
4. Il presente protocollo entra in vigore, nei confronti di ogni Stato
che vi aderisca, novanta giomi dopo il deposito dello strumento d’adesione, ovvero alla data dell’entrata in vigore.del presente protocollo, se
questo non è ancora entrato in vigore al momento dello scadere di
detto periodo di novanta giorni.
Articolo 18
Riserve
1. Ciascuno Stato membro può riservarsi il diritto di considerare
illecito penale il riciclaggio in relazione ai proventi dei reati di corruzione attiva e passiva solo nei casi gravi di corruzione attiva e passiva.
Lo Stato membro che formuli una siffatta riserva informa il depositario all’atto della notifica di cui all’articolo 16, paragrafo 2, fornendo
dettagli sulla portata della riserva. Tale riserva è valida per un periodo
di cinque anni a decorrere dalla notifica e può essere rinnovata una
volta per altri cinque anni.
2. All’atto della notifica di cui all’articolo 16, paragrafo 2, la
Repubblica d’Austria può dichiarare di non essere vincolata dagli articoli 3 e 4. Tale dichiarazione cessa di avere effetto dopo cinque anni
dalla data di adozione dell’atto che istituisce il presente protocollo.
3. Non sono ammesse altre riserve ad eccezione di quelle previste
all’articolo 12, paragrafo 2, primo e secondo trattino.
85
Articolo 19
Depositario
1. Il Segretario Generale del Consiglio dell’Unione europea è depositario del presente protocollo.
2. Il depositario pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità
europee lo stato delle adozioni e delle adesioni, le dichiarazioni e le
riserve nonché qualsiasi altra notificazione relativa al presente protocollo.
IN FEDE DI CHE, i plenipotenziari sottoscritti hanno apposto le
loro firme in calce al presente protocollo.
Fatto a .........., il .........., in un unico esemplare in lingua danese,
finlandese, francese, greca, inglese, irlandese, italiana, olandese, portoghese, spagnola, svedese e tedesca, tutti i testi facenti ugualmente
fede, esemplare depositato negli archivi del Segretariato generale del
Consiglio dell’Unione europea.
Dichiarazione comune relativa all’articolo 13, paragrafo 2
Gli Stati membri dichiarano che il riferimento nell’articolo 13,
paragrafo 2, all’articolo 7 del protocollo si applica solo alla cooperazione tra la Commissione da un lato e gli Stati membri dall’altro e
lascia impregiudicata la discrezionalità degli Stati membri nel fornire
informazioni nel corso delle indagini giudiziarie.
86
SECONDA SEZIONE
DIRITTO COMUNITARIO
IL RAPPORTO TRA GIUDICE COMUNITARIO E
GIUDICE NAZIONALE NEL QUADRO DELL’ART. 177
DEL TRATTATO, L’ORDINANZA DI REMISSIONE
ALL’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA
Relatore:
prof. Paolo MENGOZZI
Ordinario di diritto delle Comunità Europee nell’Università di Bologna
1. Il ruolo della competenza pregiudiziale che la Corte di Giustizia esercita ex art. 177 del Trattato C.E. nel processo di precisazione del diritto comunitario.
L’esercizio della competenza pregiudiziale attribuita alla Corte
di Giustizia dall’art. 177 del Trattato C.E., con la funzione che ha di
assicurare l’uniforme interpretazione ed applicazione del diritto
comunitario, concorre ampiamente all’attuazione del mandato che
l’art. 164 dello stesso Trattato attribuisce alla Corte di “assicurare”
il “rispetto del diritto” nel processo di integrazione europea. Esso è
particolarmente importante, non solo perché le pronunce adottate
ai sensi di detto art. 177 superano di molto la metà di quelle che la
stessa ha reso dall’inizio del suo funzionamento ad oggi, ma anche
per i coinvolgimenti che ha importato e per gli effetti che ha determinato.
Quanto al primo punto, l’esercizio della competenza in questione,
con il raccordo che ha realizzato tra i procedimenti giudiziari nazionali e l’esplicazione della funzione giudiziaria comunitaria, ha contribuito notevolmente al determinarsi di due rilevanti sviluppi: il connotarsi degli individui e delle imprese come soggetti dell’ordinamento comunitario; il riferimento non solo agli Stati membri, ma anche
più puntualmente agli organi giudiziari in essi operanti dei doveri di
cooperazione a cui l’art. 5 del Trattato C.E. dà luogo con il sancire
che “gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e
particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal
presente trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della
Comunità. Essi facilitano quest’ultima nell’adempimento dei propri
compiti”.
89
Quanto al secondo punto, le sentenze pregiudiziali della Corte
hanno avuto un ruolo determinante nell’affermarsi di un intendimento della diretta applicabilità del diritto comunitario come superiorità
di questo sul diritto interno e di tutta una ulteriore serie di principi
che hanno costituito ad un tempo l’elemento motore ed il portato della
rilevante evoluzione che ha connotato detto diritto.
2. Il raccordo tra giudici nazionali e Corte di Giustizia seguito all’adattamento degli ordinamenti degli Stati membri all’art. 177 del Trattato C.E..
L’art. 177 del Trattato attribuisce alla Corte di Giustizia la competenza in questione stabilendo quanto segue:
“la Corte di Giustizia è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale,
a) sull’interpretazione del presente trattato,
b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità,
c) sull’interpretazione degli statuti degli organismi creati con atto
del Consiglio, quando sia previsto dagli statuti stessi.
Quando una questione del genere è sollevata davanti a una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora
reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla
questione.
Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti ad un giudice nazionale, avverso le cui decisioni non
possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di Giustizia”.
I criteri secondo i quali la Corte è, così, chiamata ad esercitare e
concretamente esercita la funzione pregiudiziale sono improntati ad
un’idea di tendenziale distinzione delle sue competenze rispetto a
quelle dei giudici nazionali.
Occorre precisare subito perché e in che senso in materia si deve
parlare di una “tendenziale” distinzione di competenze. Per farlo bisogna partire dal dato che l’art. 177 del Trattato C.E.E. non ha posto in
essere una nuova determinazione unitaria della disciplina delle competenze dell’uno e dell’altro ordine di giudici quale si potrebbe avere
all’interno di un unico ordinamento giuridico. Sul piano strutturale e
formale l’ordinamento giudiziario degli Stati membri resta completamente distinto da quello comunitario; i giudici nazionali non vengono
90
ad inserirsi in un contesto totalizzante quale potrebbe aversi ove si
fosse in presenza di un fenomeno di tipo federale. Non si deve, pertanto, desumere dal linguaggio utilizzato dalla Corte, secondo la quale
l’art. 177 darebbe luogo ad una “ripartizione” di competenze (sentenza 29 novembre 1978, c. 83/78, Pigs Marketing Board), l’esistenza di
una competenza – esclusiva – della Corte di Giustizia ad interpretare
il diritto comunitario contrapposta ad una competenza – esclusiva –
dei giudici nazionali ad applicarlo.
Il fatto che i due ordini di giudici, nel senso predetto, restino distinti non significa però che il loro raccordo si sia esaurito e si esaurisca nei
puri termini della lettera dell’art. 177. Come è stato precisato nella pronuncia che la Corte di Giustizia ha reso nel 1978 nel caso Simmenthal,
le situazioni giuridiche stabilite a carico di questa e dei giudici nazionali
sono risultate arricchite dall’operare del principio di cooperazione sancito dall’art. 5 del Trattato C.E.. Detto arricchimento si è tradotto nel
realizzarsi tra di loro di un rapporto che può puntualmente essere qualificato come un rapporto di attiva collaborazione reciproca.
Il carattere attivo di detta collaborazione ha trovato manifestazione tecnica concreta innanzitutto in una prassi secondo la quale i giudici nazionali vogliono accompagnare la comunicazione alla Corte
comunitaria del provvedimento di rinvio con un trasferimento alla
stessa del fascicolo di causa dal quale possono il più delle volte essere
tratti elementi sufficientemente illustrativi delle questioni di fatto e di
diritto del caso. Detta prassi, che a prima vista potrebbe apparire di
rilievo limitato al piano fattuale, ha creato i presupposti per un disancoramento dell’operare della Corte dal modo formale in cui i quesiti
che le sono rivolti sono formulati e per un costante sforzo della stessa
volto a dare ad essi un effetto utile ai fini dell’esercizio della sua funzione nell’ambito delle competenze attribuitele dal Trattato.
Tale atteggiamento della Corte ha trovato espressione sin dal
primo caso di applicazione dell’art. 177, la sentenza del 6 aprile 1962
(c. 13/61, Bosch). Nel caso era stata sollevata un’eccezione all’esercizio
della giurisdizione della Corte in ragione del fatto che il provvedimento di rinvio le aveva richiesto di pronunciarsi sulla validità ex art. 85.2
di una clausola contrattuale contenente una proibizione di esportazione imposta dalla Bosch ai suoi clienti. Si eccepiva che la pronuncia
della Corte su un tale quesito avrebbe implicato non soltanto un’interpretazione, ma anche un’applicazione dell’art. 85. La Corte, prendendo un indirizzo in seguito costantemente mantenuto, non ha dichiarato irricevibile la domanda perché eccedente i limiti della propria
giurisdizione; pur non accedendo alla richiesta di una pronuncia trop-
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po ampia (il provvedimento nazionale di rinvio in sostanza le chiedeva di pronunciarsi sulla applicazione concreta dell’art. 58, lasciata dal
Trattato alla competenza del giudice nazionale), ha ritenuto di potere
essa stessa, sulla base di tutti gli elementi materiali a sua disposizione, riformularla in modo da poterla considerare in sintonia con l’art.
177.
Il coordinamento attivo tra Corte di Giustizia e giudici nazionali
risultato dall’importanza che per l’una e per gli altri ha assunto il principio di cooperazione di cui all’art. 5 del Trattato ha, peraltro, trovato
una ulteriore, distinta manifestazione nel fatto che la Corte ha esercitato e continua ad esercitare la propria funzione secondo moduli non
burocratico-formali, improntati ad una idea di sacralità e definitività
delle proprie formule, ma in termini ampiamente dialogici e improntati ad una idea di sostanziale condivisione di una comune responsabilità per la realizzazione della giustizia. Quando, ad esempio, è stata
richiesta, nel caso Foglia c. Novello II, di ritornare su un proprio rigetto della richiesta di pronunciarsi, ha respinto la seconda domanda non
limitandosi a dichiarare infondati gli elementi nuovi addotti a sostegno della seconda richiesta, ma ha invitato il giudice nazionale a prospettare eventualmente elementi decisamente nuovi dichiarando la
propria disponibilità, nel caso di ottenimento di elementi del genere,
a riconsiderare anche per una terza volta la questione interpretativa
sottopostale.
3. La pretesa esclusività della competenza interpretativa della Corte di
Giustizia.
Le precisazioni compiute nel paragrafo precedente a proposito del
senso in cui deve intendersi esista una tendenziale distinzione di competenze tra Corte di Giustizia e giudici nazionali non possono non
indurre a prestare cauta attenzione all’assunto, spesso avanzato, secondo il quale il raccordo stabilito tra Corte di Giustizia e giudici nazionali si realizzerebbe attraverso la attribuzione di una competenza esclusiva alla Corte di Giustizia ad interpretare il diritto comunitario.
Se in linea con dette esigenze di cautela si considera attentamente il tenore complessivo dell’art. 177 non può sfuggire che il secondo
comma di detta disposizione lascia ai giudici non di ultima istanza la
libertà di procedere all’interpretazione del diritto comunitario. L’ampia valorizzazione che dell’art. 177 è stata fatta e l’importante funzione che essa ha avuto per la precisazione del diritto comunitario e la
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tutela dei diritti individuali, per quanto importanti essi siano, non possono cancellare un tale dato. In relazione a tutti i casi in cui i giudici
non di ultima istanza non facciano ricorso all’art. 177, la loro possibilità giuridica di procedere all’interpretazione del diritto comunitario
non può essere in alcun modo messa in discussione. Quanto sopra
non toglie però che tra la interpretazione di una disposizione di diritto comunitario che può essere fornita dai giudici nazionali e quella
fornita dalla Corte di Giustizia esista comunque una differenza: la
prima resta una interpretazione pura e semplice, suscettibile di venire
impugnata per essere eventualmente portata in via obbligatoria dai
giudici di ultima istanza alla Corte di Giustizia; la seconda si connota,
invece, come una interpretazione autoritativa capace, come vedremo
in appresso, di avere effetti giuridici rilevanti oltre che per i giudici
nazionali che l’hanno proposta, anche per tutti gli altri.
I giudici nazionali di ultima istanza, peraltro, come avrò modo di
evidenziare più dettagliatamente subito in appresso riferendo della
pronuncia adottata dalla Corte di Giustizia nel caso CILFIT, devono
comunque potere esplicare una qualche interpretazione del diritto
comunitario, non foss’altro per determinare se una “questione” di
diritto comunitario effettivamente sussista e se essa sia rilevante ai fini
del giudizio davanti ad essi pendente.
Quanto sopra ha ben colto la Corte Costituzionale italiana precisando nel tempo la propria posizione sul tema dei rapporti tra diritto
interno e diritto comunitario. Essa, invero, mentre in un passaggio di
una pronuncia del 1977 (sentenza n. 163 del 29 dicembre 1977, Soc.
U.N.I.L.-I.T. c. Amministrazione delle Finanze, Soc. Ariete c. Amministrazione delle Finanze) aveva, senza che assumesse alcun rilievo per
la decisione del caso, definito come “esclusiva” “l’interpretazione data
dalla Corte di Giustizia delle Comunità nell’ambito della propria competenza... sancita dall’art. 177 del Trattato di Roma”, una siffatta
aggettivazione ha accuratamente evitato, precisando che la Corte è
“interprete qualificata” del diritto comunitario in una successiva pronuncia (n. 113 del 23 aprile 1985, BECA S.p.A. e altri c. Amministrazione Finanziaria dello Stato) resa in un caso con riferimento al quale
detta definizione aveva un rilievo decisivo. E tale definizione della
Corte di Giustizia meramente come “interprete qualificata” ha significativamente confermato in modo molto puntuale nelle successive sentenze n. 232 del 13 aprile 1989 (S.p.A. FRAGD c. Amministrazione
delle Finanze) e n. 389 del 4-11 luglio 1989.
Un potere di interpretare il diritto comunitario da parte dei giudici nazionali, se quindi per le ragioni suddette si deve ritenere essere
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sempre stato lasciato dall’art. 177 concorrere con quello della Corte di
Giustizia, vive come tale oggi più che mai dacché la Corte di Giustizia,
anche perché sempre più chiamata ad operare, tende a riconoscere
loro più ampi spazi di attività.
4. La portata dell’obbligo di rinvio dei giudici nazionali di ultima istanza: il caso CILFIT.
Come ricordato nel paragrafo precedente, l’art. 177 distingue tra i
giudici nazionali di ultima istanza, “tenuti” a rivolgersi alla Corte ogni
qualvolta la risoluzione di una questione di diritto comunitario risulti
necessaria per la loro pronuncia, e gli altri giudici nazionali, per i
quali prevede una semplice facoltà in tal senso. I giudici nazionali
hanno però spesso prestato rilevante resistenza al carattere apparentemente rigido di tale distinzione. Ad un’interpretazione restrittiva
dell’obbligo dei giudici di ultima istanza, anche se non hanno avuto
rilevante seguito concreto, sono state improntate, ad esempio, le guidelines adottate in materia dalla Corte di Appello britannica nel 1974
(volte a porre limiti all’uso del rinvio pregiudiziale) e il riferimento che
i giudici francesi hanno fatto e fanno, in materia, alla dottrina dell’acte clair (dottrina a cui tradizionalmente si fa ricorso nel diritto francese per ovviare all’obbligo ivi vigente per il giudice di chiedere all’esecutivo l’interpretazione di disposizioni di accordi internazionali).
Il darsi di pratiche nazionali del tipo di cui sopra ha occasionato
una richiesta, da parte degli stessi giudici nazionali, di una precisazione da parte della Corte di Giustizia circa la loro conformità allo spirito dell’art. 177. La Corte di Giustizia ha avuto modo di pronunciarsi
su di essa nella sentenza del 6 ottobre 1982 (c. 283/81, CILFIT). In
quel caso la Corte di Cassazione italiana chiedeva, tra l’altro, se un
giudice nazionale, nei confronti della cui decisione non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, sia sempre obbligato a
rimettere alla Corte di Giustizia la decisione di una questione di diritto comunitario davanti a lui sollevata oppure possa considerare il proprio obbligo di rinvio limitato alle ipotesi in cui esista un ragionevole
dubbio interpretativo. La Corte di Giustizia, prendendo posizione sul
punto, ha precisato che l’obbligo previsto dal III comma dell’art. 177
diviene privo di contenuto se “la disposizione comunitaria di cui è
causa ha già costituito oggetto di interpretazione”, cioè quando la questione sollevata sia materialmente identica ad un’altra già proposta e
decisa, ovvero sussista una “giurisprudenza costante dalla Corte” che
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risolva il punto di diritto in questione. Inoltre, riprendendo in parte la
dottrina francese dell’acte clair, ha ritenuto che l’obbligo di rinvio non
sussista quando la corretta applicazione del diritto comunitario si
imponga “con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata”. Precisando
però ulteriormente, la Corte ha puntualizzato che il giudice nazionale
non deve procedere con un approccio puramente nazionalistico, ma
deve “maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe
anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di Giustizia”; ed
ha poi aggiunto che occorre sempre prestare attenzione, oltre che a
fattori quali ad esempio il contesto, la terminologia e le finalità delle
specifiche disposizioni da applicare, allo stato di evoluzione dell’intero sistema giuridico comunitario in cui esse si collocano.
Come ben si comprende, l’interpretazione restrittiva che i giudici
nazionali di ultima istanza hanno dato dell’obbligo sancito a loro carico dall’art. 177, nonostante le opportune ed importanti precisazioni e
puntualizzazioni volgenti a preservare lo spirito comunitario con il
quale questo deve essere applicato, non è stata smentita dalla Corte di
Giustizia. Questa, probabilmente, ha considerato di poter largamente
condividere l’atteggiamento dei giudici nazionali anche per coerenza
con l’obbligo di cooperazione, per la promozione del rispetto del diritto comunitario, che, nella pronuncia resa nel 1978 nel caso Simmenthal essa ha ritenuto questi abbiano. Per essa, evidentemente, l’operare di un tale obbligo dà garanzie sufficienti che il principio di attivo coordinamento reciproco, destinato ad ispirare il rapporto tra Corte
di Giustizia e giudici nazionali, possa essere rispettato anche senza che
l’obbligo di rinvio dei giudici di ultima istanza sia illimitato.
5. Il giudice nazionale e il sindacato di validità degli atti comunitari
nella pronuncia resa dalla Corte di Giustizia nel caso Fotofrost.
Il raccordo tra giudici comunitari e giudici statali nella procedura
pregiudiziale assume connotati peculiari quando si tratti di rinvii concernenti la validità degli atti comunitari. Il ruolo dei giudici nazionali
in questo distinto ambito è stato portato all’attenzione della Corte dal
Finanzgericht della Repubblica federale Tedesca, su rinvio da parte
della quale la Corte di Giustizia si è pronunciata il 22 ottobre 1987 nel
caso Fotofrost (c. 314/85).
Il Finanzgericht si trovava di fronte al problema di applicare o
meno, sotto il profilo di una incompatibilità con un regolamento del
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Consiglio, una decisione della Commissione che escludeva l’esentabilità di una partita di binocoli dai dazi doganali che devono essere
pagati in relazione a prodotti importati da Paesi terzi. Richiesta di precisare se il diritto comunitario ammetta o meno l’esistenza di un potere siffatto in capo al giudice nazionale, la Corte di Giustizia si è trovata a dovere accertare se una apparenza di soluzione positiva del problema, risultante dalla lettera del sopra riportato secondo comma dell’art. 177, potesse trovare conforto nella qualità di “véritables juges
communautaires” che vari autori ritengono debba essere riconosciuto
ai giudici degli Stati membri, anche in ragione del fatto che la Corte di
Giustizia nel caso Simmenthal ha ritenuto che essi, ai sensi dell’art.
del Trattato, sono direttamente tenuti a collaborare per l’attuazione
del diritto comunitario.
L’art. 177 del Trattato C.E.E., in realtà, col prevedere, al secondo
comma, che i giudici in questione “possano” – e non “debbano” come
quelli di ultima istanza – domandare alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla questione, si presta a far pensare che essi siano
ammessi a svolgere un sindacato sugli atti comunitari; e un tale potere può indubbiamente risultare ragionevole sia loro attribuito ove la
chiamata diretta dei giudici nazionali all’esercizio di obblighi comunitari possa effettivamente ritenersi idonea a configurarli come dei
“giudici comunitari” anche agli effetti della soluzione del problema in
considerazione. La questione, come ha rilevato l’Avv. Gen. Mancini
nelle conclusioni che ha presentato nel caso, era certamente una delle
più scabrose in quanto, certamente anche sotto la suggestione dei
principi enunciati dalla Corte di Giustizia nel caso Simmenthal, ad
essa alcuni giudici nazionali avevano già dato soluzione affermativa.
La Corte ha preso decisamente posizione negativa sulla questione;
ha così evitato di aderire e dare rilevante concretezza all’altisonante
qualificazione che, con riferimento, appunto, al sindacato di legittimità
degli atti comunitari, in dottrina e nella giurisprudenza degli Stati membri si era data alle più alte funzioni che ai giudici di questi ultimi viene
a risultare attribuita per effetto dell’operare del diritto comunitario.
Gli argomenti che nel corso del procedimento davanti alla Corte
di Giustizia erano stati avanzati a sostegno dell’esistenza di una competenza concorrente dei giudici nazionali a conoscere della validità
degli atti comunitari erano essenzialmente i seguenti: 1) il fatto che
l’art. 177 preveda un potere e non un dovere dei giudici di merito di
rinviare le questioni in materia alla Corte di Giustizia; 2) la deviazione che la stessa disposizione presenta rispetto al corrispondente art.
41 del Trattato C.E.C.A., il quale espressamente stabilisce che “soltan-
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to la Corte è competente a giudicare, a titolo pregiudiziale, della validità degli atti dell’Alta Autorità e del Consiglio, qualora una controversia proposta davanti a un tribunale nazionale metta in causa tale
validità”; 3) la necessità di non esagerare il rischio di un’applicazione
divergente del diritto comunitario che potrebbe risultare dal riconoscimento di un sindacato di legittimità diffuso, stante la possibilità di
arrivare sempre, in ultima istanza, ad una decisione della Corte comunitaria, e stante la mancanza di rilevanza generale di una decisione del
giudice nazionale; 4) il fatto che la stessa Corte, formulando dei suggerimenti per la elaborazione del testo del Trattato di Unione Europea,
abbia avanzato una proposta di inserire in questo una disposizione
escludente un potere concorrente di sindacato di legittimità da parte
dei giudici nazionali, proposta ritenuta come logicamente implicante
che attualmente i giudici siano provvisti di un siffatto potere.
La Corte ha ribattuto tutti gli argomenti di cui sopra e dato soluzione negativa al problema che le è stato posto. Partita dall’osservanza che l’art. 177, nonostante quanto possa apparire dalla sua lettera, è
formulato in termini che sono solo il frutto di un errore materiale dei
suoi redattori, ha ritenuto che esso non abbia risolto la questione del
potere dei giudici nazionali di sindacare la validità degli atti comunitari. Ha ritenuto, innanzitutto, la soluzione adottata imposta dalla
necessità di un’applicazione uniforme del diritto comunitario, rilevando che le divergenze fra le giurisdizioni degli Stati membri quanto alla
validità degli atti comunitari sarebbero suscettibili di compromettere
l’unità del diritto comunitario e di attentare all’esigenza fondamentale della sicurezza giuridica; ha poi ritenuto necessario considerare che
il ricorso pregiudiziale per l’apprezzamento della validità di un atto è
stato concepito dai redattori del Trattato come facente parte, assieme
al ricorso per annullamento, di un sistema completo di vie di ricorso
e di procedure destinate, nel loro insieme, ad affidare alla Corte di
Giustizia il controllo esclusivo della legalità degli atti delle istituzioni
comunitarie. E a questi argomenti ne ha aggiunto un altro, di non
secondario interesse: ha osservato che il riconoscimento di un carattere esclusivo alla competenza della Corte di Giustizia a conoscere
della validità degli atti comunitari è confortato dal fatto che nella procedura svolgentesi davanti a questa: a) le istituzioni comunitarie sono
messe in condizione, in virtù dell’art. 20 del Protocollo sullo Statuto
della Corte di Giustizia, di intervenire in giudizio per fornire a questa
ogni utile elemento di giudizio; b) la stessa Corte può, in virtù dell’art.
21, 2° comma del medesimo Protocollo, domandare anche alle istituzioni che non siano già parte al procedimento di presentare tutte le
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informazioni che essa reputi necessarie; e tutto ciò mentre l’una e l’altra cosa non sono invece possibili davanti ai giudici nazionali.
L’apparenza di un’attribuzione di late funzioni comunitarie ai
giudici nazionali che poteva scaturire dalla sentenza Simmenthal e
dal carattere non esclusivo della competenza interpretativa della
Corte di Giustizia è così ridimensionata. Trattasi di una messa a
punto del rapporto tra Corte di Giustizia e giudici nazionali definitivo o puramente transitorio, legato all’importanza che la Corte in questo momento continua ad attribuire alla esigenza di promuovere l’uniforme applicazione del diritto comunitario? Non potrebbero un
domani più o meno lontano, facendosi sentire meno detta esigenza e
più quella di alleggerire il lavoro della Corte di Giustizia, determinarsi i presupposti perché dalla decisione Simmenthal possano essere
tratti corollari più ampi di quelli che ne sono stati tratti in Fotofrost?
Quello di cui sopra è un interrogativo che, senza diminuirne la
rilevanza per il presente e per il prossimo futuro, accompagna la soluzione che attualmente ha avuto il problema.
6. Il contenuto della competenza pregiudiziale della Corte in materia di
validità degli atti comunitari.
La competenza pregiudiziale in materia di validità degli atti
comunitari va innanzitutto raccordata con la competenza della Corte
a decidere i ricorsi di legittimità ai sensi dell’art. 173, che con essa
concorre ad assicurare il rispetto del principio di legalità nell’operare
delle istituzioni comunitarie. In ossequio ad un generale principio di
coerenza del sistema dei ricorsi giurisdizionali, che come si è visto ha
ispirato la sentenza Fotofrost, la Corte tende a coordinare tra loro i
due sistemi di norme: l’invalidità ai sensi dell’art. 177 può essere
dichiarata per tutti i motivi di cui all’art. 173 (incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazioni del trattato o di qualsiasi regola
di diritto relativa alla sua applicazione, sviamento di potere) ed inoltre, non operando la disciplina della legittimazione attiva prevista da
quest’ultimo (con i limiti da questa stabiliti, il rinvio per invalidità
costituisce un valido strumento di tutela offerto alle persone fisiche e
giuridiche lese da atti delle istituzioni comunitarie.
Diversamente dalle sentenze di annullamento, che dichiarano
nullo e non avvenuto l’atto impugnato, le pronunce ex art. 177 che
accolgono i motivi di invalidità si limitano a dichiarare l’atto invalido:
questo continua ad esistere (solo l’istituzione che l’ha emanato può
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revocarlo o modificarlo), ma il giudice a quo terrà conto dell’invalidità
nel caso concreto, potendo, ad esempio, annullare gli atti interni emanati in base all’atto dichiarato invalido.
7. La procedura di rinvio. Il carattere giurisdizionale dell’organo nazionale rinviante.
Abbiamo visto che, come si evince direttamente dal testo dell’art.
177, l’applicazione di quest’ultimo presuppone che una questione di
diritto comunitario “sia sollevata in un giudizio pendente davanti ad
una giurisdizione nazionale”. Importante quindi, in presenza di una
richiesta di pronuncia pregiudiziale, è stabilire se essa provenga da un
ente o da un organo qualificabile come “giurisdizione di uno degli
Stati membri ai sensi dell’art. 177 del Trattato”. La Corte di Giustizia
lo fa seguendo criteri autonomi da quelli dell’ordinamento dello Stato
membro nel cui ambito l’ente o l’organo di cui si tratta opera, anche
se a detto ordinamento occorre far riferimento per determinare quali
sono in fatto i caratteri strutturali e di funzionamento dell’ente o dell’organo in questione. Secondo la Corte di Giustizia la questione di
cosa costituisca una giurisdizione di uno Stato membro ai sensi dell’art. 177 è una questione di diritto comunitario e deve trovare soluzione in base a criteri generali applicabili a tutti gli Stati membri.
Come la Corte ha recentemente precisato nella pronuncia del 20 giugno 1987 (c. 14/87, The Times) (63.2), essa va risolta tenendo conto del
nome della struttura di cui si tratta, ma prestando attenzione al fatto
che tale struttura operi nel contesto generale di un dovere di agire in
modo indipendente ed in conformità con il diritto in casi in cui svolga funzione giudiziaria, vale a dire abbia il potere di emettere pronunce vincolanti per quanto riguarda diritti ed obblighi di individui.
Per comprendere più concretamente quando, secondo la Corte di
Giustizia, una struttura agente nell’ambito di un ordinamento di uno
Stato membro, esplichi o meno una funzione qualificabile come giudiziaria, è utile riferirsi da un lato alla pronuncia del 6 ottobre 1981 (c.
246/88, Broekmeule) (63.3) e dall’altro alla sentenza 23 marzo 1982 (c.
182/81, Nordsee) (63.4) e all’ordinanza 18 giugno 1980 (c. 138/80,
Borker) (63.5). Nel primo caso la Corte di Giustizia ha ritenuto che il
requisito in questione sussistesse in capo al comitato di appello dell’Ordine dei medici olandese per la ragione che detto comitato d’appello, pur restando un’associazione privata, esplica le sue funzioni
sulla base di una legittimazione che gli proviene da pubbliche auto-
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rità, opera con la loro assistenza, emana decisioni che seguono una
procedura in contraddittorio ed è in grado di incidere sui diritti attribuiti ai singoli dall’ordinamento comunitario, in quanto decide casi
che non potrebbero essere sollevati davanti ad una giurisdizione ordinaria. Il secondo caso concerneva una richiesta di pronuncia pregiudiziale proveniente da un tribunale arbitrale tedesco, il quale faceva
presente alla Corte di “risolvere una controversia non già secondo
equità, ma applicando la legge” e con un lodo avente nei confronti
delle parti “valore di sentenza pronunciata da un giudice ordinario”
(63.6). La Corte ha ritenuto che tali caratteristiche del tribunale arbitrale in questione, e della sua pronuncia, non fossero sufficienti per
due ordini di ragioni: innanzitutto in quanto, al momento della conclusione del contratto contenente la clausola arbitrale “i contraenti
erano liberi di affidare la soluzione delle loro eventuali controversie al
giudice ordinario o di scegliere la via dell’arbitrato inserendo nel contratto una clausola in tal senso” e poi perché il tribunale arbitrale in
oggetto costituisce un’istituzione privata a cui la Repubblica Federale
di Germania non ha affidato né concesso di fare rispettare gli obblighi
derivanti dal diritto comunitario. Per detti due ordini di ragioni la
Corte ha precisato che il nesso tra l’arbitrato in questione e l’organizzazione dei mezzi di impugnazione ordinaria non è abbastanza stretto perché l’arbitro possa qualificarsi “giurisdizione di uno Stato membro ai sensi dell’art. 177”. Nel caso Borker, infine, si trattava di una
richiesta di pronuncia pregiudiziale deliberata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Parigi: questo chiedeva alla Corte l’interpretazione di una disposizione del Trattato e di una direttiva del Consiglio, al
fine di potere rispondere alla domanda di un avvocato francese relativa alle condizioni di esercizio della sua attività a titolo di prestazione
di servizi dinnanzi a qualsiasi organo giurisdizionale dei vari Stati
membri (una pronuncia del Tribunale di Colonia aveva infatti dichiarato inammissibile la rappresentanza dell’interessato della parte civile
in un processo penale). La Corte ha dichiarato la propria incompetenza affermando che “la Corte può essere adita, in forza dell’art. 177, soltanto da un giudice chiamato a pronunciarsi nell’ambito di un procedimento destinato a sfociare in una decisione di indole giurisdizionale”; una tale circostanza ha ritenuto non verificatasi nel caso di specie
in ragione del fatto che il Consiglio dell’Ordine era chiamato a decidere non già su una controversia in base alla competenza attribuitagli
dalla legge, bensì sulla domanda volta ad ottenere una dichiarazione
relativa ad una controversia.
Gli esempi pratici concretati dalle pronunce riportate, come risul-
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terà evidente dal tenore di queste ultime, non sono sufficienti a risolvere tutti i problemi di applicazione di quei criteri generali che la
Corte segue in materia e che all’inizio di questo paragrafo ha indicato
come essa ha sintetizzato nel recente caso “The Times” (63.7). Giusto
per limitarmi all’ultima tra le pronunce illustrate (63.8), il fatto che la
Corte abbia declinato la propria competenza perché nel caso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati non si trovava in presenza di una
domanda relativa ad una controversia non dice espressamente che il
consiglio dell’Ordine, qualora fosse chiamato a decidere su una controversia siffatta, dovrebbe essere considerato una giurisdizione
nazionale. Un orientamento in tal senso potrebbe però ritenersi implicito (63.9) nel linguaggio della stessa Corte or ora riferito, stando
almeno a quella che può essere una sua logica interpretazione a contrario.
Un analogo orientamento, passando dal livello comunitario a
quello nazionale, si può ritenere risulti implicito nella posizione che
ha preso il 12 dicembre 1985 il Consiglio Nazionale degli Architetti italiano con riferimento ad un problema di applicazione dell’art. 25 del
Trattato, problema che il ricorrente chiedeva al Consiglio nazionale di
devolvere alla Corte comunitaria (63.10). Disattendendo detta richiesta, il Consiglio ha dichiarato di non ritenerla ammissibile, esistendo
per il ricorrente “la possibilità di conseguire la tutela dei diritto da lui
invocati in una superiore istanza giurisdizionale italiana, vale a dire la
Corte di Cassazione, contro le cui decisioni potrà essere eventualmente invocata la giurisdizione comunitaria”. A parte l’evidente confusione che la pronuncia contiene tra inammissibilità di un rinvio ex art.
177 e non dovere del giudice di non ultima istanza di effettuare tale
rinvio, essa non può, invero, non essere intesa come un importante
riconoscimento che, in fatto – e quindi anche agli effetti dell’applicazione dell’art. 177 –, un Consiglio Nazionale come quello degli architetti, quando delibera sui diritti sanciti a favore di un professionista
dal diritto comunitario, costituisce una istanza giurisdizionale nazionale, anche se non superiore.
8. La reazione della Corte di Giustizia a controversie fittizie. Il primo e il
secondo caso ‘Foglia c. Novello’.
Per un lungo tempo la Corte di Giustizia ha provveduto a dare
automaticamente seguito alle questioni di interpretazione del diritto
comunitario rinviatele ex art. 177 dai giudici nazionali senza procede-
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re ad alcun riscontro circa i caratteri della questione postale. Questo
atteggiamento è successivamente mutato, prima con le pronunce che
ha adottato nei casi Foglia e Novello I e II, poi con quelle che ha posto
in essere nei più recenti casi Meilicke, Lorenço Dias, Telemarsicabruzzo e Enderby.
Nella pronuncia che ha reso l’11 marzo 1980 nel caso Foglia c.
Novello I (c. 104/79), la Corte ha improvvisamente proceduto ad una
precisazione, se non ad un cambiamento del proprio atteggiamento.
Nella fattispecie un commerciante di vini (il sig. Pasquale
Foglia) ed un trasportatore avevano inserito in un contratto per il
trasporto di vini dall’Italia in Francia una clausola ai termini della
quale al primo non sarebbero state addebitate eventuali imposte pretese dalle autorità italiane o francesi e “contrarie alla libera circolazione delle merci nei due Paesi o comunque non dovute”. Il trasportatore, concretamente richiesto in Francia di eseguire una prestazione del tipo previsto da detta clausola del contratto, ne aveva chiesto
ed ottenuto il rimborso all’esportatore italiano; questi, a sua volta,
chiedeva di essere reintegrato dalla cliente (la sig.ra Mariella Novello) per cui conto aveva provveduto a far consegnare la partita di vino
in Francia. Quest’ultima resisteva alla pretesa invocando una clausola del proprio contratto di acquisto dal Foglia corrispondente a
quella contenuta nel contratto di trasporto e sostenendo l’incompatibilità con il diritto comunitario della legge francese sulla base della
quale il tributo in oggetto era sollevata davanti al pretore di Bra’, il
quale sospendeva il giudizio sul punto per rinviare la questione alla
Corte di Giustizia. Quest’ultima ha negato di essere competente a
pronunciarsi ritenendo trattarsi di una controversia fittizia; a motivazione del proprio assunto la Corte ha affermato quanto segue:
“la funzione che l’art. 177 del trattato affida alla Corte di Giustizia
è quella di fornire ai giudici della Comunità gli elementi di interpretazione del diritto comunitario loro necessari per la soluzione di controversie oggettive loro sottoposte. Se mediante accorgimenti del tipo
di quelli sopra descritti la Corte fosse obbligata a pronunciarsi, si arrecherebbe pregiudizio al sistema dell’insieme dei rimedi giurisdizionali di cui dispongono i singoli per tutelarsi contro l’applicazione di leggi
nazionali contrarie alle norme del Trattato”.
La Corte di Giustizia ha avuto modo di esaminare nuovamente il
caso Foglia c. Novello poco tempo dopo l’adozione della sentenza
dell’11 marzo 1980. Il Pretore di Bra’, invero, non si è acquietato sulla
pronuncia ottenuta; ha ritenuto di poter riproporre la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia ipotizzando che dalla formulazione
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della sua prima ordinanza di rinvio fosse sorto un malinteso, legato ad
una non sufficiente evidenziazione del fatto che, nel caso, la questione di diritto comunitario insorgeva nel quadro di una procedura, frequente in diritto italiano, nel corso della quale la signora Novello
aveva presentato “una domanda, entro certi limiti autonoma, di sentenza dichiarativa”. Tenendo presente che la questione sollevata si
inseriva strettamente in un procedimento volgente ad ottenere una
pronuncia dichiarativa, secondo il Pretore di Bra’ la Corte di Giustizia
avrebbe potuto non ritenere, come invece ha fatto, che la questione
fosse artificiale.
La Corte, anziché trincerarsi nella lettera dell’articolo 177, ha
ribadito la posizione precedentemente assunta affermando di non
potersi pronunciare in quanto la questione le era rivolta “nell’ambito
di schemi processuali precostituiti dalle parti al fine di indurla a pronunciarsi su taluni problemi di diritto comunitario non rispondenti ad
una necessità obiettiva inerente alla definizione di una controversia”.
Il linguaggio non è così duro come nella prima sentenza (ove la Corte
aveva indicato la controversia come non “effettiva”, e quindi artificiale o fittizia); ma la sostanza è sempre la stessa.
In coerenza con la prassi sopra descritta caratterizzata da una non
autolimitazione della Corte di Giustizia alla mera interpretazione del
diritto comunitario, essa ha qualificato la funzione a cui è chiamata ex
art. 177 asserendo che detta disposizione le affida “il compito non di
esprimere pareri a carattere consultivo su questioni generali o ipotetiche, ma di contribuire all’amministrazione della giustizia negli Stati
membri”.
8. (segue) Il passaggio della Corte di Giustizia ad una affermazione di
una non necessità di sue pronunce quando i giudici nazionali non la
mettano in condizione di fornire una interpretazione utile e non dimostrino la necessità di una pronuncia pregiudiziale agli effetti della
soluzione del caso concreto.
La posizione della Corte di Giustizia in queste due pronunce si è
imperniata principalmente sulla preoccupazione di assicurare un
equilibrato funzionamento del sistema di rimedi giurisdizionali a
disposizione dei privati, delle istituzioni comunitarie e degli Stati
membri per l’assicurazione del rispetto del diritto della Comunità.
Essa costituisce una inequivoca reazione al dato che la controversia in
questione fosse una controversia di fatto promossa dall’ambiente degli
103
esportatori di vino italiani al fine di ottenere indirettamente dalla
Corte di Giustizia una censura sostitutiva: a) di quella che il governo
italiano o la Commissione C.E.E. avrebbero potuto ottenere direttamente ove l’uno o l’altra avessero deciso di promuovere un’azione di
infrazione nei confronti della Francia o, b) di una pronuncia con la
quale i giudici francesi riconoscessero un diritto degli esportatori italiani a non subire le imposte francesi a cui erano stati indebitamente
sottoposti. È perché ha ritenuto che dei privati, con l’intendo indicato,
avessero instaurato una controversia fittizia che la Corte di Giustizia,
a chiusura della motivazione della propria presa di posizione, lasciando sullo sfondo la propria frase relativa alla sua funzione di fronte ai
giudici nazionali, ha vibratamente rilevato che “se mediante accorgimenti del tipo di quelli sopra descritti la Corte fosse obbligata a pronunciarsi, si arrecherebbe pregiudizio al sistema dell’insieme dei
rimedi giurisdizionali di cui dispongono i singoli per tutelarsi contro
l’applicazione di leggi nazionali contrarie alle norme del Trattato”.
Restava da vedere se dette due pronunce costituissero un atteggiamento eccezionale o se costituissero invece rilevante manifestazione di un più generale orientamento espressione di quel principio
di cooperazione attiva, di attivo e leale coordinamento reciproco,
che si è affermato come cardine dell’applicazione dell’art. 177 del
Trattato. Le pronunce che la corte ha reso successivamente il 16
luglio 1992 nei casi Meilicke (in seduta plenaria) e Dias (Va Camera),
il 26 gennaio 1993 nelle cause riunite Telemarsicabruzzo (in seduta
plenaria) e il 19 marzo 1993 nella causa Banchero inducono a ritenere che le cose stiano decisamente nel secondo senso.
Le più recenti pronunce, mentre hanno confermato che la Corte di
Giustizia, quando richiesta di pronuncia pregiudiziale, “deve, in principio, pronunciarsi”, hanno però precisato che i giudici nazionali: a) devono porre la Corte di Giustizia in grado di fornire loro una interpretazione del diritto comunitario utile, b) devono, prima del provvedimento di
rinvio ai giudici del Lussemburgo, determinare chiaramente i fatti del
caso, affrontare e risolvere le questioni di puro diritto nazionale e, c)
illustrare le ragioni per cui essi considerano una risposta ai loro quesiti
necessaria per la soluzione della controversia a loro sottoposta.
9. Le conseguenze che la Corte ha desunto dalla violazione da parte dei
giudici interni degli obblighi loro imposti dall’art. 177.
Dalle precisazioni di cui sopra la Corte di Giustizia ha poi desun-
104
to una serie di conseguenze pratiche il cui svolgimento a tratti successivi si può cogliere assai bene se si confrontano: a) la pronuncia
che essa ha reso nel caso Meilicke con le conclusioni presentate nello
stesso caso dall’Avvocato Generale Tesauro, b) la medesima pronuncia con la posizione che la stessa Corte ha preso nel caso Telemarsicabruzzo e, c) quest’ultima con quella successivamente presa nel caso
Banchero.
a) Nel caso Meilicke la questione su cui la Corte era chiamata a
pronunciarsi dal Landgericht di Hannover concerneva la compatibilità con il diritto comunitario della teoria dei “conferimenti in natura
dissimulati” elaborata dalla Corte Costituzionale tedesca con riferimento al diritto bancario. Nella causa pendente in Germania, il Meilicke, un giurista che aveva combattuto con vari libri e saggi detta teoria, aveva impugnato il rifiuto opposto dall’organo amministrativo di
una banca – di cui possedeva un’unica azione – di fornire informazioni relativamente ad un aumento di capitale sociale sottoscritto da una
banca creditrice ed all’utilizzazione degli importi da essa versati che
riteneva fossero stati utilizzati proprio per rimborsare i debiti della
società nei confronti della banca sottoscrittrice, realizzando, appunto,
un’operazione (vietata) di conferimento in natura dissimulato. Come
hanno puntualmente rilevato i commentatori della pronuncia (FUMAGALLI L., in DCSI, 1993, pp. 113 e KENNEDY T., in ELR, 1993, pp.
126), nel caso in cui la teoria della Corte Costituzionale tedesca fosse
stata ritenuta contraria al diritto comunitario e quindi inapplicabile,
le pretese del ricorrente sarebbero state prive di fondamento. Il Meilicke aveva sostenuto nel processo tedesco proprio la tesi dell’incompatibilità; perciò aveva dato segno di avere agito in giudizio unicamente per ottenere conferma delle sue tesi scientifiche.
Il Landgericht lo aveva assecondato; aveva rinviato la questione
alla Corte di Giustizia motivando di farlo nell’interesse della certezza
giuridica.
L’Avvocato Generale, a fronte di queste peculiarità del caso e della
motivazione data dal Landgericht al proprio rinvio alla Corte di Giustizia, si era limitato: a) ad esprimere la sua spiacevole impressione
che la procedura di cui all’art. 177 fosse stata usata non in piena sintonia con il suo scopo e, b) a rilevare che la curiosa posizione del ricorrente nella causa principale avrebbe potuto condurre a ritenere che
egli in fatto era sprovvisto di un interesse a promuovere il giudizio iniziato e che non si era in presenza di una controversia. A suo avviso,
però, l’accertamento dell’esistenza di un interesse del ricorrente e di
105
una controversia doveva essere lasciato alla competenza dei giudici
tedeschi, i quali avrebbero dovuto accertarla secondo le norme procedurali del loro diritto nazionale.
La Corte non ha per niente seguito questa posizione. Dando un
senso concreto a quanto afferma quando statuisce che essa, ove
richiesta ex art. 177, “deve, in principio, pronunciarsi”, ha rilevato
che, nel caso, era stata richiesta di pronunciarsi su una questione di
carattere ipotetico senza che le fossero messi a disposizione gli elementi di fatto e di diritto necessari perché essa potesse fornire una
risposta utile. Ne ha tratto la conseguenza che non era necessario per
essa pronunciarsi sulla questione sottopostale dal Landgericht di
Hannover.
Come si noterà, la Corte, discostandosi dalle conclusioni dell’Avvocato generale nei termini in cui si è discostata, è passata decisamente dalla connotazione di rifiuti – eccezionali – di pronunciarsi ex
art. 177 come sanzione nei confronti di privati che imbastiscano controversie nazionali fittizie, espressa nei casi Foglia c. Novello, all’affermazione di un principio di funzione utile che tende ad assorbire la
considerazione delle iniziative processuali dei privati in quella dell’atteggiamento dei giudici nazionali.
b) Il passaggio dall’uno all’altro atteggiamento si fa completo con
la pronuncia che la Corte ha reso nel caso Telemarsicabruzzo. In detta
pronuncia non è contenuto alcuno dei riferimenti al comportamento
delle parti nel giudizio nazionale che si trovano invece in Meilicke;
tutta l’attenzione è accentrata sulle ordinanze di rinvio. Richiamato
che la Commissione ha fatto osservare che “le ordinanze di rinvio sono
particolarmente laconiche e avare di particolari quanto agli elementi
di fatto e di diritto che consentirebbero di identificare lo scopo delle
questioni poste e quindi di comprenderne il senso e la portata”, la
Corte ribadisce che “l’esigenza di giungere ad un’interpretazione del
diritto comunitario che sia utile per il giudice nazionale impone” (si
sottolinea l’“impone”) “che quest’ultimo definisca l’ambito di fatto e di
diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che si spieghino
almeno le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate”. E conclude: “Di conseguenza, non occorre statuire sulle questioni proposte”.
c) La posizione che la Corte ha preso nel caso Telemarsicabruzzo
anche se manifesta un segno di sviluppo rispetto a quelle precedenti in
ragione dell’uso di quell’espressione “impone” che si è sottolineata,
continua a mantenere elementi di cautela in ragione della conclusione
106
a cui arriva. In sintonia con una più generale linea caratterizzata da
uno sforzo di rapportarsi ai giudici interni in modo da convincerli
piuttosto che imporre loro, ex abrupto, nuove regole, la Corte si preoccupa di presentare l’applicazione che fa del principio, dia reciproca
cooperazione come fonte di un’autolimitazione per se stessa. Al fatto
che un’interpretazione del diritto comunitario utile per il giudice
nazionale “imponga” che quest’ultimo definisca “l’ambito di fatto e di
diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate o che esso spieghi
almeno le ipotesi di fatto su cui tali questioni sono fondate” riconduce soltanto che, per essa, “di conseguenza, non occorre statuire” sulle
questioni che le sono state proposte.
Nel frattempo però, da un lato, il carico della Corte sta aumentando in modo molto rilevante e, d’altro lato l’affermazione che essa
ha fatto secondo cui l’art. 177 impone degli oneri ai giudici nazionali
non ha determinato reazioni, è stata inequivocabilmente assorbita. La
Corte si è fatta coraggio, ha fatto l’ultimo passo: con la pronuncia che
ha reso il 19 marzo 1993 nel caso Banchero ha smesso di esprimersi
in termini di autolimitazione. Rilevato che nel caso il giudice nazionale non aveva soddisfatto le esigenze di specificazione dei motivi di
fatto e di diritto del rinvio che rendono possibile una utile interpretazione del diritto comunitario, ha dichiarato, ai sensi dell’art. 92 del
regolamento di procedura, “la manifesta irrecivibilità delle questioni
pregiudiziali sottoposte”.
10. Il collegamento con i principi generali di cooperazione e di “checks
and balances” degli sviluppi giurisprudenziali analizzati nei due precedenti paragrafi.
Quanto rilevato a proposito degli sviluppi giurisprudenziali che si
sono considerati negli ultimi due paragrafi conduce ad osservare che
vale per l’art. 177 ciò che vale per la maggior parte delle norme comunitarie e più in generale per qualsiasi norma giuridica: il vero contenuto di una disposizione giuridica risulta non solo dal suo mero significato letterale, ma anche dal suo attivo inserirsi nel sistema in cui è
destinata ad operare. L’inserirsi dell’art. 177 nell’intero sistema giuridico comunitario ha portato necessariamente il primo a coordinarsi
con principi fondamentali di diritto comunitario, quali il principio di
cooperazione di cui all’art. 5 del Trattato ed il principio di “checks and
balances” che caratterizza i rapporti tra le istituzioni comunitarie, e
allo stesso modo non può non caratterizzare anche i rapporti tra Corte
107
di Giustizia e giudici nazionali. Il raccordarsi dell’art. 177 con detti
principi ha fatto sì che il contenuto da riconoscersi concretamente al
primo si ispiri ampiamente a quel criterio di reciproco e leale coordinamento attivo di cui ho detto. È conforme al congiunto confluire dell’incidenza di detti principi sul funzionamento dell’art. 177 che la
Corte di Giustizia assuma delle posizioni improntate ad un’idea di
fiducia nei confronti dei giudici nazionali temperata dagli oneri che
essa ha individuato a loro carico e dalla sanzione di irricevibilità che
alla fine di un lento e cauto sviluppo è venuta a sancire espressamente operi in relazione a rinvii pregiudiziali da loro operati quando questi non siano posti in essere con rispetto di detti oneri. Non quindi un
generale, automatico accoglimento dei quesiti dei giudici nazionali ed
un eccezionale diniego di competenza a conoscerli da parte della
Corte di Giustizia, ma piuttosto un costante riferirsi del rapporto tra
gli uni e l’altra ad un criterio di reciproco e leale coordinamento attivo di cui il primo ed il secondo fenomeno (l’accoglimento e la dichiarazione di irricevibilità) sono naturale e conseguente espressione.
11. Gli effetti delle pronunce interpretative della Corte di Giustizia.
L’effetto diretto di una pronuncia interpretativa della Corte ex art.
177 è quello di vincolare il giudice a quo (indicato spesso anche come
‘giudice della causa principale’) a conformarsi, nel decidere del caso
concreto, alle soluzioni dei problemi di diritto in essa contenute.
Degli effetti delle pronunce interpretative si è già detto illustrando la pronuncia della Corte di Giustizia nel caso CILFIT: in
quel caso la Corte ha ritenuto che le proprie sentenze abbiano efficacia erga omnes, quanto meno nel senso di far venir meno l’obbligo di rinvio incombente ai giudici nazionali di ultima istanza, non
solo quando la questione davanti ad essi sollevata “sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale”, ma
anche in presenza di una “giurisprudenza costante della Corte che
risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità tra le materie del contendere”. Occorre ora aggiungere
che quanto così fatto in termini negativi, unicamente all’effetto di
delimitare gli obblighi dei giudici degli Stati membri, la Corte ha,
peraltro, fatto anche in termini positivi, attribuendo esplicitamente effetti generali a tutti i suoi giudizi preliminari, salva però sempre la possibilità dei giudici nazionali di riproporre la questione
108
anche alla luce di elementi nuovi e la libertà per essa di cambiare
la stessa giurisprudenza.
Degli effetti indiretti delle sentenze in questione si è poi parlato
sopra, illustrando l’accoglimento che le posizioni della Corte di Giustizia in materia di diretta applicabilità hanno trovato nella giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana e di quella tedesca: la
prima, vale la pena di ripeterlo, ha affermato che il principio da essa
accolto, secondo il quale la normativa comunitaria che soddisfi al
requisito dell’immediata applicabilità entra e permane in vigore nel
nostro territorio senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge
ordinaria dello Stato, vale anche per le statuizioni risultanti da tutte
le sentenze della Corte di Giustizia (e quindi anche da quelle interpretative); la seconda, con linguaggio ancora più ampio, ha statuito
che le decisioni interpretative “vincolano tutte le giurisdizioni degli
Stati membri investite della medesima questione, anche se in casi
diversi”.
Le posizioni di cui sopra dei giudici nazionali e della Corte di
Giustizia, vale la pena ora di rilevarlo, coincidono. Grazie a detta
coincidenza un elemento importante, che è proprio dell’esperienza
relativa agli ordinamento di common law e che in altri ordinamenti,
come quelli italiano e tedesco, era accettato con effetti del tutto
peculiari e limitati alle sentenze delle Corti Costituzionali, è entrato
inequivocabilmente nell’esperienza giuridica di tutta l’area comunitaria: il valore di precedenti attribuito a determinate pronunce giudiziali (quali, appunto, sono le sentenze della Corte di Giustizia). È
attribuito loro con effetti particolarmente rilevanti: con gli stessi
effetti di una loro applicabilità in luogo del diritto nazionale anche
posteriore (subordinata soltanto al darsi del requisito della diretta
applicabilità delle statuizioni in esse contenute) riconosciuta alle
disposizioni contenute nel Trattato e negli atti normativi in esso previsti; e, peraltro, con effetti che nelle pronunce in questione, stante
la loro natura puramente interpretativa, prescindono da un riscontro del fatto che le affermazioni di principio in esse contenute sono
praticamente utilizzate per la soluzione di un caso concreto (facendole così sfuggire a quelle forti limitazioni a cui nei sistemi di common law è tradizionalmente soggetta per la regola del precedente,
per effetto della distinzione che in essi, appunto, prestandosi riguardo all’applicazione dei principi nei casi concreti, si fa tra ratio decidendi e obiter dicta, considerandosi questi ultimi non vincolanti perché, appunto, non utilizzati concretamente per la soluzione di un
caso concreto).
109
12. (segue) Gli effetti nel tempo delle interpretazioni pregiudiziali.
Distinto dal problema dell’efficacia soggettiva delle sentenze interpretative è quello della loro efficacia nel tempo. A questo secondo problema la Corte di Giustizia ha dato una soluzione di carattere generale che, però, ha, in casi particolari, integrato con aggiustamenti suggeriti dal caso di specie.
La soluzione generale data al problema dalla Corte è coerente con
il carattere interpretativo delle pronunce di cui si tratta: trattandosi di
sentenze che interpretano, ad esse la Corte, appunto in via generale,
attribuisce efficacia retroattiva a partire dal momento di entrata in vigore della norme e degli atti di diritto comunitario a cui si riferiscono.
Quanto agli aggiustamenti di cui sopra, essi si sono sostanziati in un
accompagnamento (dapprima apparso decisamente eccezionale e poi
meno) della retroattività con una possibilità che in casi del tutto particolari ciascuna sentenza interpretativa possa essa stessa stabilire diversamente i suoi effetti nel tempo. La Corte ha infatti affermato nella sentenza 8 aprile 1976 (c. 43/73, Defrenne) che “considerazioni imprescindibili
di certezza del diritto” impedivano nel caso di rimettere in discussione i
rapporti relativi al passato e che di conseguenza l’intepretazione contenuta nella sentenza non poteva essere fatta valere “a sostegno di rivendicazioni relative a periodi... anteriori” alla sentenza stessa, con eccezione di
chi avesse già promosso un’azione giudiziaria. La Corte può quindi limitare la retroattività delle proprie sentenze interpretative, quando ciò sia
richiesto dalla necessità di soddisfare un principio ispirato ad una idea di
certezza giuridica, che opera a tutela di tutti i soggetti dell’ordinamento
comunitario: il principio di tutela del legittimo affidamento.
13. L’importante prospettiva di integrazione delle competenze della Corte
scaturita da una recente applicazione dell’art. 186 del Trattato.
Un’ultima competenza che vale la pena di sottolineare per il contributo che il suo esercizio può dare al superamento dei limiti delle
attribuzioni della Corte di Giustizia, è prevista dall’art. 186 del Trattato. A termini di detta disposizione la Corte “negli affari che le sono
proposti, può ordinare i provvedimenti provvisori necessari”.
La disposizione ha mostrato chiaramente le sue potenzialità nella
procedura che ha portato all’ordinanza adottata dalla Corte il 27 settembre 1988 nella causa 194/88 (Commissione C.E.E. c. Repubblica
italiana). Si era in presenza nel caso di un’omissione da parte dell’Ita-
110
lia della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee di un bando di gara di un consorzio italiano per l’aggiudicazione
di lavori riguardanti la costruzione e la gestione di un forno inceneritore di rifiuti solidi urbani.
La Commissione ritenendo che tale omissione concretasse una
violazione da parte dell’Italia della direttiva n. 17/305 che coordina le
procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici, ha richiesto da parte della Corte l’applicazione dell’art. 186. Lo ha fatto notando che probabilmente per timore di rappresaglie, comunque, di non
poterne trarre vantaggi per il futuro, i concorrenti non intervenuti
nella gara poiché non informati dalla Gazzetta Ufficiale, non avevano
espresso alcuna reazione davanti all’autorità italiana; in siffatta circostanza solo una sua richiesta alla Corte di una misura d’emergenza
avrebbe potuto sospendere la procedura e mettere la situazione al
riparo da una irreversibilità che altrimenti l’aggiudicazione e l’esecuzione dei lavori avrebbero potuto procurare.
Il Governo italiano si era difeso invocando la necessità e l’urgenza
che a suo avviso esistevano nel caso di dare sollecitamente inizio ai
lavori per il pericolo che la sanità pubblica avrebbe corso qualora non
si fosse provveduto senza indugio a dare inizio ai lavori.
Chiamata così a decidere se dar maggior rilievo all’urgenza invocata dalla Commissione o a quella della ristrutturazione dell’inceneritore, la Corte pur riconoscendo “la parità della situazione sotto il profilo dei pericoli che potrebbero derivare per la sanità pubblica e per
l’ambiente dall’osservanza di ulteriori termini nello svolgimento dei
lavori di ristrutturazione” ha dato rilievo al fatto che “il consorzio
responsabile dei lavori, è esso stesso all’origine di questa situazione
per la sua lentezza nel provvedere in materia. Attribuita importanza a
quest’ultimo rilievo ha accolto – il ricorso della Commissione facendo
proprio l’argomento di questa – secondo cui l’osservanza della direttiva costituisce una grave lesione della legalità comunitaria, considerata in particolare che, una declarazione di illegittimità pronunciata
dalla Corte in base all’art. 169 del Trattato non può far venir meno il
danno subito dalle imprese stabilite in alti Stati membri che siano
rimaste escluse dalla partecipazione alla gara”.
Assumendo l’atteggiamento di cui sopra la Corte di Giustizia, oltre
aver ulteriormente sottolineato il rilievo che nel ritmo accelerato del
perfezionamento di un unico mercato interno sta assumendo l’antico
principio “chi è causa del suo mal pianga se stesso”, ha lasciato trasparire un’orientamento che risulta opportuno sottolineare a conclusione
di questa trattazione relativa alle competenze della Corte di Giustizia:
111
l’orientamento a considerare le competenze illustrate nei precedenti
paragrafi non isolatamente e staticamente, ma tutte alla luce della funzione attribuitale dall’art. 164 del Trattato di assicurare il rispetto attribuitale dall’art. 164 del Trattato di assicurare il rispetto del diritto
comunitario e in quanto tali, capaci di essere integrate al limite del
logicamente possibile anche da un’applicazione dell’art. 186 quale
quella fatta con la pronuncia del 27 settembre 1988 nei confronti dell’Italia.
Con quest’ultima pronuncia quella facoltà che l’art. 186 del Trattato attribuisce alla Corte e che poteva apparire come un modesto
ammennìcolo delle sue principali prerogative si profila come un elemento capace di evolversi e di precisarsi in una sorta di potere pretorio di injunction in sintonia con la larga funzione che le è assegnata
dall’art. 164 del Trattato.
14. Gli effetti delle sentenze pregiudiziali sulla validità degli atti comunitari.
Il sindacato degli atti comunitari nell’ambito di una procedura pregiudiziale può dare luogo, come si è visto sopra, ad una sentenza che
dichiara “invalido” l’atto esaminato. La dichiarazione di invalidità,
indubbiamente vincolante nei confronti del giudice a quo, può considerarsi efficace erga omnes, tale quindi da assumere effetti simili ad un
annullamento ex 173? Su tale problema, sottopostole in un rinvio pregiudiziale dal Tribunale di Roma, la Corte si è pronunciata il 13 maggio 1982 (c. 66/80, International Chemical Corporation). Procedendo
ad un’interpretazione teleologica e sistematica dell’art. 177, e rilevato
che le competenze che questo le attribuisce hanno lo scopo essenziale
di garantire l’uniforme applicazione del diritto comunitario, la Corte
ha affermato che “quest’applicazione uniforme è necessaria non solo
quando il giudice nazionale sia in presenza di (una questione interpretativa), ma del pari quando esso si trovi di fronte ad una contestazione
relativa alla validità di un atto delle istituzioni”. In questo caso, inoltre,
alle suddette esigenze “si aggiungono esigenze particolarmente imperiose di certezza del diritto”. Di conseguenza, ha affermato la Corte, “la
sentenza... che accerti, in forza dell’art. 177 del Trattato, l’invalidità di
un atto di un’istituzione sebbene abbia come diretto destinatario solo
il giudice che si è rivolto alla Corte, costituisce per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare tale atto non valido ai fini di
una decisione ch’esso debba emettere”.
112
Al pari di quanto avviene per i rinvii interpretativi, i giudici nazionali possono tuttavia in ogni caso sollevare una questione già risolta,
in particolare “qualora sussistessero questioni relative ai motivi, alla
portata ed eventualmente alle conseguenze dell’invalidità precedentemente accertata”.
15. (segue) Gli effetti nel tempo delle pronunce pregiudiziali sulla validità degli atti comunitari.
La Corte di Giustizia ha preso posizione sul problema della determinazione degli effetti nel tempo delle sentenze pregiudiziali di validità a partire dalle pronunce del 15 ottobre 1980 (noti come casi “semi di mais”).
Mentre con riferimento agli effetti di pronunce ex art. 177 che
siano meramente interpretative il Trattato nulla si può ritenere
disponga, per quanto riguarda le pronunce pregiudiziali sulla validità
la stessa Corte si è trovata di fronte ad una disposizione, l’art. 174, II
comma, a proposito del quale si è necessariamente posto il problema
di chiarire se potesse trovare applicazione e, in caso positivo, a quale
titolo. La Corte ha affermato al riguardo che “l’applicazione analogica
dell’art. 174, II comma, è necessaria per gli stessi motivi che sono alla
base di tale disposizione” e, di conseguenza, che nel caso in oggetto
non era possibile “rimettere in discussione” gli effetti degli atti dichiarati invalidi “per il periodo anteriore alla data della... sentenza”.
Contro la possibilità di una applicazione analogica della disposizione si era sostenuto che questa doveva essere esclusa per due ordini
di ragioni: innanzitutto per il carattere speciale del rimedio giurisdizionale previsto dall’art. 173 rispetto a quello di cui all’art. 177 e l’accorparsi dell’art. 174, II comma (assieme all’art. 176) al primo e non al
secondo; e poi perché la facoltà accordata alla Corte dall’art. 174 si
presenta come una deroga espressa alle conseguenze normali di un
annullamento, di guisa che l’estensione della sua applicazione a una
situazione completamente diversa appare contestabile.
Con la decisione del 27 febbraio 1985 (c. 112/83, Societé des
produits de mais) la Corte ha però decisamente respinto un tale
ordine di idee; precisando il proprio pensiero su detti argomenti
rispetto a quanto aveva fatto nella precedente pronuncia del 15
ottobre 1980, ha completamente superato detti argomenti; ha
escluso la necessità di fare ricorso all’analogia, ritenendo che “qualora esigenze imperative lo impongano, l’art. 174, II comma, attribuisce alla Corte un potere discrezionale per determinare in con-
113
creto, di volta in volta, quali effetti di un regolamento annullato
debbano essere tenuti fermi”.
Il II comma dell’art. 174 trova quindi direttamente applicazione,
in quanto il sistema dei procedimenti giudiziali stabiliti dal Trattato,
lungi dal dare specificità ed autonomia all’un procedimento rispetto
all’altro, caratterizza entrambi come “due modalità del controllo di
legalità organizzato dal Trattato”, imponendo, di conseguenza, l’applicazione diretta dell’art. 174 anche in relazione ad accertamenti di
invalidità effettuati ai sensi del II comma dell’art. 177.
Un’interpretazione sistematica sorretta da una considerazione
pragmatica e realistica degli obiettivi economici e sociali del processo di integrazione europea ha così indotto la Corte a ritenere che le
esigenze di certezza giuridica espresse dall’art. 174, II comma con
riferimento al procedimento di cui all’art. 173 non possono non
imporsi direttamente anche con riferimento ai procedimenti ex II
comma dell’articolo 177. Se la considerazione dell’unità di funzione
del controllo esplicato dai due tipi di procedimenti ha costituito la
motivazione dominante dell’applicazione diretta della disposizione
in questione, l’impulso che le è venuto da un’interpretazione sistematica dell’ordinamento comunitario quale risulta anche dal caso
Defrenne, non ha certo costituito un motivo irrilevante dell’atteggiamento assunto.
Le reazioni di molte giurisdizioni nazionali, che ritenevano violati i diritti di difesa delle parti nel processo principale dalla semplice
efficacia ex nunc delle sentenze, possono considerarsi superate da più
recenti sentenze della Corte, quale quella del 15 gennaio 1986 (c.
41/84, Pinna), in cui si afferma che “spetta (alla Corte) determinare se
una deroga (alla limitazione dell’efficacia temporale) può essere disposta a favore, vuoi dell’attore dinanzi al giudice nazionale, vuoi di qualsiasi altro soggetto che abbia agito nello stesso modo prima dell’accertamento d’invalidità”.
L’idea di promuovere un irrobustimento dell’economia comunitaria a fronte di quelle degli Stati terzi ha indotto i redattori del Trattato non solo a lasciare che criteri di competenza esorbitanti continuino
ad operare in relazione a convenuti domiciliati in Stati terzi, ma
anche, e più innovativamente, a far loro includere nella Convenzione
la previsione di una riconoscibilità in via di principio a pronunce poste
in essere nel quadro dell’esercizio di una competenza giurisdizionale
del genere (84).
114
IL RAPPORTO TRA GIUDICE COMUNITARIO E
GIUDICE NAZIONALE NEL QUADRO DELL’ART. 177
DEL TRATTATO, L’ORDINANZA DI REMISSIONE
ALL’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA
Relatore:
prof. Fausto CAPELLI
Direttore del Collegio Europeo di Parma
PORTATA ED EFFICACIA IN ITALIA
DEI PROVVEDIMENTI COMUNITARI
1. Premesse.
Come è noto, la normativa comunitaria si applica, all’interno degli
Stati membri, a ritmo sempre più intenso in tutti i settori economici,
dal settore agricolo a quello industriale e commerciale, nonché in
materia di libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e
dei servizi (pensiamo alle banche, alle società di assicurazioni), in
materia di concorrenza, di aiuti di stato, in materia di trasporti e in
vari altri campi.
Non c’è quindi settore della vita economica degli Stati membri che
non sia attualmente influenzato dalla normativa comunitaria.
Fin dagli inizi si sono resi conto dell’importanza di questa normativa soprattutto gli operatori economici che devono osservarla e che
quindi si trovano a diretto contatto con le problematiche europee.
Successivamente, anche altri soggetti hanno avuto modo di constatarne la rilevanza sotto i più diversi profili.
Come sappiamo, questa normativa, quando risulta contenuta nei
regolamenti comunitari e, in casi particolari, anche nelle direttive
C.E.E., non solo è direttamente applicabile, ma in caso di conflitto con
disposizioni nazionali, anche posteriori, è destinata a prevalere nei
confronti di esse.
Ciò è stato riconosciuto dalle massime autorità giudiziarie dei
Paesi membri: dalla Corte Costituzionale Tedesca, alla Corte di Cassazione Belga.
Gli Stati membri che hanno aderito alla Comunità Europea dopo
115
il 1957, hanno introdotto successivamente, nei loro ordinamenti, specifiche disposizioni normative che consentono di riconoscere la prevalenza della norma comunitaria direttamente applicabile rispetto a
quella nazionale.
Possiamo quindi affermare che, dal punto di vista giuridico, noi
abbiamo in Europa una situazione comparabile a quella esistente
all’interno di uno Stato Federale, nel quale, come è noto, la normativa
federale prevale rispetto alla normativa degli Stati federati.
Se è vero che negli Stati federali esistono autorità federali in grado
di imporre a tutti i soggetti giuridici l’osservanza della normativa federale diversamente da quanto avviene nella Comunità Europea, è anche
vero che all’interno di ciascun Stato membro della C.E.E., i giudici
nazionali hanno il potere di imporre a tutti i soggetti (ivi compreso il
proprio Stato) l’osservanza della normativa comunitaria.
Il risultato appena descritto, realizzato sotto il profilo giuridico,
ha notevolmente accelerato il processo di integrazione anche sotto il
profilo politico-economico.
Vediamo ora come vengono adottati i provvedimenti in sede
comunitaria: regolamenti e direttive.
2. Come vengono adottati i provvedimenti a Bruxelles.
Per semplificare al massimo l’esposizione cercando di essere il più
possibile chiari e sintetici, vediamo in che modo è stata adottata una
direttiva comunitaria, quella ad esempio sugli appalti pubblici di servizi, partendo dalla prima proposta fino alla sua definitiva approvazione. Allo stesso modo vengono adottati, pur con le necessarie differenze, gli altri provvedimenti comunitari (compresi i regolamenti).
L’iniziativa spetta alla Commissione C.E.E che è l’organo esecutivo, il “governo” della Comunità. La Commissione dispone di numerose direzioni generali, competenti per le diverse materie, equiparabili ai
ministeri del nostro governo. La direzione generale terza è competente per il mercato interno. Questa direzione ha quindi preparato tutte
le proposte di direttive in materia di appalti pubblici. I funzionari di
tale direzione, coadiuvati da comitati consultivi formati da esperti dei
vari Stati membri, hanno elaborato quindi la proposta di direttiva
sugli appalti pubblici di servizi. Una volta redatto il testo definitivo,
sotto il profilo tecnico-giuridico, la proposta è stata ufficialmente
approvata dalla Commissione C.E.E. come istituzione comunitaria.
Tale proposta è stata quindi inviata al Consiglio dei Ministri C.E.E.,
116
organo formato dai Ministri competenti per la materia trattata e, quindi, nel nostro caso, dai Ministri per i lavori pubblici dei vari Stati
membri.
La proposta è stata subito pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
C.E.E., serie “C” (Comunicazioni). Nella Gazzetta Ufficiale C.E.E.
serie “L” (Legislazione) è stata invece pubblicata la direttiva una volta
definitivamente adottata (così come è avvenuto: cfr. G.U.C.E. L. 209
del 24 luglio 1992).
Dal punto di vista della trasparenza, credo che il metodo seguito
dalla Comunità, per far conoscere a tutti la propria attività, sia veramente esemplare. Il Consiglio dei ministri, ricevuta la proposta, l’ha
inviata per un parere sia al Parlamento europeo sia al Comitato economico e sociale (C.E.S.: formato dai rappresentanti delle categorie
operative: imprenditori, professionisti, sindacati dei lavoratori etc. di
tutti gli Stati membri).
Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht occorrerà anche
il parere del Comitato delle Regioni degli Stati membri.
Ricevuti i pareri dal Parlamento europeo e del C.E.S., il Consiglio
dei Ministri ha restituito la proposta con i predetti pareri alla Commissione C.E.E. la quale ha riformulato il testo tenendo conto dei
pareri medesimi ed ha presentato una nuova proposta al Consiglio dei
Ministri.
Il Consiglio dei Ministri, su tale nuova proposta, ha raggiunto la
maggioranza qualificata necessaria per prendere la cosiddetta “posizione comune”.
Per “posizione comune” si intende, in sostanza, una decisione che
attesti l’accordo del Consiglio dei Ministri sulla proposta della Commissione.
A questo punto interviene nuovamente il Parlamento europeo al
quale il Consiglio dei Ministri trasmette la posizione comune. Il Parlamento europeo, in questa fase svolge una funzione molto importante ed ha quattro possibilità. Nei tre mesi successivi può accettare
espressamente la posizione comune del Consiglio oppure non manifestare alcuna opinione. In tal caso il Consiglio dei Ministri potrà approvare definitivamente il provvedimento, già deciso in posizione comune, sempre a maggioranza qualificata.
Ma il Parlamento europeo può anche rigettare la posizione comune. In tal caso, se il Consiglio dei Ministri vuole approvare definitivamente il provvedimento deve votarlo all’unanimità. Orbene, poiché l’unanimità, fra dodici Stati membri, è difficilissima da raggiungere e,
mancando l’unanimità, il provvedimento non può passare, il Parla-
117
mento fa ricorso di regola all’ultima possibilità: propone cioè opportuni emendamenti al testo approvato dal Consiglio dei Ministri in
posizione comune.
A questo punto prende avvio una “navette” tra Parlamento europeo, Consiglio dei Ministri e Commissione C.E.E. finché gli atti, continuamente sottoposti a perfezionamenti e a revisioni, non assumano
la versione ultima per essere definitivamente approvati da Consiglio
dei Ministri a maggioranza qualificata.
Una procedura siffatta, chiamata procedura di cooperazione dall’Atto unico europeo che l’ha introdotta dal 1° luglio 1987, è stata
seguita anche per l’approvazione della direttiva sugli appalti pubblici
di servizi, presa qui ad esempio. Questo genere di procedura ha fatto
aumentare notevolmente i poteri del Parlamento europeo, che in precedenza svolgeva soltanto una funzione consultiva.
È bene quindi che non si dimentichi dove si fanno e come si fanno
le leggi che poi ci ritroviamo sulla Gazzetta ufficiale del nostro Stato.
3. L’efficacia dei provvedimenti comunitari.
Come già accennato nelle premesse, i provvedimenti comunitari, una
volta adottati e regolarmente entrati in vigore, dispiegano la loro efficacia
giuridica vincolante all’interno degli ordinamenti degli Stati membri.
I provvedimenti C.E.E. giuridicamente vincolanti, secondo l’art.
189 del Trattato di Roma, sono: (a) i regolamenti; (b) le direttive; (c) le
decisioni.
Esaminiamone la portata e l’efficacia separatamente.
a. I regolamenti – I regolamenti sono in sostanza le “leggi” della
Comunità europea. Sono direttamente applicabili in tutti gli Stati
membri, possono imporre obblighi e far sorgere diritti in capo a tutti
i soggetti giuridici sia pubblici che privati.
Quando fanno sorgere diritti a favore dei singoli, questi possono
farli valere davanti ai giudici nazionali che sono tenuti a tutelarli.
La giurisprudenza dei giudici nazionali con riferimento all’efficacia dei regolamenti comunitari è ormai sterminata.
Per quanto riguarda l’Italia, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 168/1991, ha definitivamente confermato la sua precedente giurisprudenza relativa al problema dei conflitti tra normativa comunitaria e normativa nazionale.
Secondo la Corte Costituzionale, che conferma la celebre sentenza
118
GRANITAL n. 170 del 1984, quando il giudice italiano, di qualunque
ordine e grado, si trova di fronte ad un caso di conflitto tra normativa
comunitaria direttamente applicabile e legge interna, egli deve applicare
la normativa comunitaria, evitando di applicare la legge interna anche se
posteriore ed anche se comportante sanzioni di carattere penale.
b. Le direttive – Non altrettanto agevole è stato invece il riconoscimento dell’efficacia delle direttive comunitarie. Senza scendere in dettagli eccessivamente tecnici, ci limitiamo a fornire alcune indicazioni
essenziali sull’attuale giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di
efficacia delle direttive e sull’ordinamento seguito dall’autorità giudiziaria italiana.
La Corte di giustizia, nell’intento di spingere gli Stati membri a
dare un’attuazione corretta e tempestiva alle direttive comunitarie, ha
da tempo consentito ai singoli di invocare le disposizioni di una direttiva nei confronti degli Stati membri inadempienti. Secondo questa
giurisprudenza, pertanto, uno Stato membro che non abbia correttamente o tempestivamente attuato una direttiva, non può pretendere di
imporre ai cittadini l’osservanza della propria legge interna, che risulta in vigore proprio perché esso è inadempiente.
Se avesse infatti correttamente attuato la direttiva, in tal caso la
normativa interna sarebbe stata cambiata. La direttiva, pertanto, può
dispiegare efficacia soltanto nei rapporti tra Stato membro e cittadino, e, quindi, può dispiegare unicamente un’efficacia “verticale”.
Al contrario, la direttiva non correttamente né tempestivamente
trasposta, non potrà dispiegare alcuna efficacia “orizzontale”, nel
senso che non potrà essere invocata da un soggetto nei confronti di un
altro soggetto che non sia lo Stato (o un Ente ad esso equiparato).
E ciò perché il soggetto contro il quale la direttiva viene ad essere
invocata, non ha alcuna responsabilità per la mancata o scorretta trasposizione della direttiva nell’ordinamento interno.
Questa è, in sintesi, la giurisprudenza della Corte di giustizia. Per
quanto riguarda la giurisprudenza italiana, bisogna riconoscere che la
giurisprudenza della Corte Costituzionale (ed anche quella di vari giudici di merito) è stata favorevole a riconoscere alle direttive anche
un’efficacia orizzontale (cfr. sentenza della Corte Costituzionale n.
64/90 in Diritto comunitario e degli Scambi internazionali, 1990, p. 449,
con commento di Lucia S. ROSSI).
È probabile che, con il passare del tempo, riducendosi i casi di
inadempimento da parte degli Stati membri, il problema dell’efficacia
delle direttive non trasposte diventi meno acuto.
119
c. Le decisioni – Il riconoscimento dell’efficacia delle decisioni
C.E.E. ha posto qualche problema in Italia con riferimento alle
decisioni adottate dalla Commissione C.E.E. in materia di aiuti. È
da ritenere però che le difficoltà siano soprattutto dovute alla scarsa conoscenza del diritto comunitario da parte dei giudici. Anche
questo inconveniente potrà essere progressivamente eliminato grazie ad una maggiore diffusione delle conoscenze in materia comunitaria.
4. Conclusioni.
L’applicazione del diritto comunitario in Italia e in Europa non
incontra più veri ostacoli di natura giuridica che possano in qualche
modo preoccupare.
Per quanto riguarda l’autorità giudiziaria, si tratta ora di svolgere
un’attività sistematica di formazione che sia in grado di diffondere
una conoscenza sempre più approfondita del diritto comunitario tra i
giudici di ogni ordine e grado.
ALLEGATO
GIURISPRUDENZA COMUNITARIA
I. SENTENZE E COMMENTI
RASSEGNA DELLE SENTENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
RELATIVE ALLE MODALITÀ DI APPLICAZIONE DEL RINVIO
PREGIUDIZIALE EX ART. 177 C.E.E.
Anni 1989/90 in ordine cronologico partendo dalle sentenze più recenti
Sentenza del 13 novembre 1990 in causa n. 106/89
Marleasing SA c. La Comercial Internacional de Alimentacion SA
Direttiva n. 68/151 C.E.E. del Consiglio relativa al coordinamen-
120
to delle garanzie richieste alle società negli Stati membri: art.
11 – Interpretazione – Diritti in capo ai singoli – Obblighi del
giudice
La Corte respinge la possibilità per un singolo di avvalersi di una
direttiva nei confronti di una legge nazionale, dato che una direttiva non
può di per sé stessa creare obblighi in capo ai singoli e, di conseguenza,
non può essere invocata come tale nei confronti del soggetto privato di
cui al giudizio a quo.
Tuttavia, applicando il diritto nazionale, sia che si tratti di disposizioni anteriori o posteriori alla direttiva, la giurisdizione nazionale chiamata a interpretarla è tenuta a farlo per quanto possibile alla luce del
testo e delle finalità della direttiva per conseguire il risultato dalla stessa
perseguito e conformarsi in tal modo dall’art. 189, terzo comma del Trattato C.E.E.
(in Raccolta, 1990, p. 4135; v. CAPELLI, Portata ed efficacia delle direttive C.E.E. in
materia societaria, in Riv. Le Società, 1991, n. 4, p. 440).
Sentenza dell’8 novembre 1990 in causa n. 231/89
Krystina Gmurzynska c. Oberfinanzdirektion Köln
Competenza della Corte – Diritto nazionale che fa rinvio al diritto comunitario – Tariffa doganale comune
La Corte si è dichiarata competente nell’ambito dell’art. 177 C.E.E.,
a pronunciarsi sull’interpretazione delle norme di diritto comunitario,
quando quest’ultimo si applica ad una fattispecie concreta in conseguenza di un rinvio da parte della legge nazionale al diritto comunitario
stesso.
Infatti, la norma legislativa tedesca rilevante in materia di esenzioni
o riduzioni Iva contiene un rinvio al reg. C.E.E. n. 2658/87 del Consiglio
del 23 luglio ’87, relativo alla nomenclatura tariffaria e statistica e alla
tariffa doganale comune.
La Corte ha quindi deciso che la tariffa doganale deve essere
interpretata nel senso che un oggetto d’arte consistente in una placca
d’acciaio, ricoperta di smalti colorati, costituisce un oggetto d’ornamento fatto interamente a mano ai sensi della posizione tariffaria
97.01 della T.D.C..
(in Raccolta, 1990, p. 4003)
121
Sentenza dell’11 ottobre 1990 in causa n. 196/89
Procedimento penale c. Nepoli e Crippa
Misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative – Normativa italiana sui formaggi – Competenza della Corte
In via preliminare si deve osservare che non spetta alla Corte, in base
all’art. 177 C.E.E. pronunziarsi sulla compatibilità di una normativa
nazionale con il Trattato. Essa è però competente a fornire al giudice
nazionale tutti gli elementi di interpretazione di diritto comunitario che
possono consentirgli di valutare tale compatibilità ai fini della soluzione
della causa di cui è investito.
(in Raccolta, 1990, p. 3647, punto 8 motiv.; cfr. inoltre, questa Rivista, 1990, p.
623)
Sentenza del 18 ottobre 1990 in cause riunite n. 297/88 e n.
197/89
Massam Dzodzi c. Stato belga
Competenza della Corte – Diritto nazionale che fa rinvio al diritto comunitario – Diritto di soggiorno – Diritto di dimora Direttiva n. 64/221 del 5 febbraio 1964
I quesiti oggetto del rinvio erano diretti ad ottenere un’interpretazione della Corte circa l’applicabilità della normativa comunitaria di attuazione degli artt. 48, 52, 59 del Trattato (artt. 8, 9 Dir. 64/221) alla situazione di una cittadina di provenienza di un Paese terzo, nella sua sola
qualità di coniuge di un cittadino dello Stato membro nel quale intendeva stabilirsi.
Pur trattandosi di una fattispecie rilevante solo per il diritto interno
la Corte ha motivato la sua competenza dichiarando che “né da termini
dell’art. 177 C.E.E. né dall’oggetto del procedimento in esso previsto deriva che gli autori del Trattato abbiano inteso escludere dalla competenza
della Corte i rinvii pregiudiziali vertenti su una disposizione comunitaria
nel caso concreto in cui il diritto nazionale di uno Stato membro rinvia
al contenuto di questa disposizione per determinare le regole applicabili
ad una situazione puramente interna a questo Stato” (par. 36 motiv.).
(in Raccolta, 1990, p. 3763; cfr. questa Rivista, 1991, p. 88)
122
Sentenza del 20 settembre 1990 in causa n. 192/89
Sevince c. Staatssecretaris van Justice
Accordo d’Associazione C.E.E. – Turchia – Decisione del Consiglio
d’Associazione – Effetto diretto
La Corte è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale (sull’Accordo nella fattispecie: Accordo d’Associazione C.E.E. - Turchia stipulato conformemente agli artt. 228 e 238 C.E.E.), in quanto atto emanato
da una delle istituzioni comunitarie, essa è ugualmente competente a
pronunciarsi sull’interpretazione delle decisioni adottate dall’organo istituito dall’Accordo medesimo e incaricato di dare a questo attuazione.
(in Raccolta, 1990, p. 3461, punto 10 motiv.; cfr. questa Rivista, 1991, p. 87).
Sentenza del 19 giugno 1990 in causa n. 213/89
The Queen c. Secretary of State of Transport ex parte: Factortame Ltd
Diritti derivanti da disposizioni comunitarie – Competenza dei
giudici nazionali ad adottare provvedimenti provvisori in caso di
rinvio pregiudiziale
La Corte ha riconosciuto l’obbligo del giudice nazionale di disapplicare la norma di diritto nazionale che si opponga al riconoscimento del
potere di emanare provvedimenti provvisori in caso di controversie comportanti l’applicazione di norme comunitarie, motivando che “una tale
interpretazione è confermata dal sistema instaurato in virtù dell’art. 177
C.E.E., il cui effetto utile sarebbe diminuito se la giurisdizione nazionale, che sospende il giudizio fino a che la Corte non risponda al quesito
pregiudiziale, non potesse accordare misure provvisorie destinate a
rimanere in vigore fino alla sentenza adottata dalla stessa giurisdizione
nazionale a seguito della pronuncia della Corte”.
(in Raccolta, 1990, p. 2433; cfr. TESAURO, Tutela cautelare e diritto comunitario,
in Riv. it. dir. pubb. comun., 1992, p. 131).
Sentenza del 22 maggio 1990 in causa n. 70/88
Parlamento europeo c. Consiglio
123
Legittimazione del Parlamento europeo a proporre ricorso diretto all’annullamento di atti del Consiglio – Art. 173 C.E.E.
L’introduzione di un rinvio pregiudiziale per la valutazione della
validità di un atto o il ricorso alla Corte da parte degli Stati o di privati
diretto all’annullamento di questo atto restano semplici eventualità sul
verificarsi delle quali il Parlamento europeo non può contare.
(in Raccolta, 1990, p. 2041)
Sentenza del 22 maggio 1990 in causa n. 332/88
S.A. Alimenta c. S.A. Doux
Restrizioni agli scambi intracomunitari – Motivi di polizia sanitaria – Carne di volatili – Parere emanato da un esperto veterinario
– Effetti giuridici
Non compete alla Corte, nel quadro dell’art. 177 C.E.E., di valutare i
fatti della causa principale o di entrare nel merito di un parere emesso da
un esperto, ma in presenza di una questione formulata in termini generali sull’effetto giuridico di un parere essa è tenuta a fornire alla giurisdizione nazionale gli elementi di interpretazione necessari per permettere a detta giurisdizione di risolvere la controversia.
(in Raccolta, 1990, p. 2077).
Sentenza del 27 marzo 1990 in causa n. 315/88
Procedimento penale c. Bagli Pennacchiotti
Competenza della Corte – Competenza del giudice nazionale –
Normativa relativa all’elaborazione dei Vqprd e Vmqprd (vini di
qualità prodotti in regioni determinate e vini spumanti di qualità
prodotti in regioni determinate)
Per fornire una soluzione utile al giudice che ha sollevato una questione pregiudiziale, la Corte può essere indotta a prendere in considerazione
norme di diritto comunitario alle quali il giudice nazionale non ha fatto
riferimento nel formulare la questione (cfr. sent. del 20 marzo ’86, Tissier,
n. 35/85, in Raccolta, p. 1207). Per contro, spetta al giudice nazionale deci-
124
dere se la norma comunitaria, così come è stata interpretata dalla Corte in
virtù dell’art. 177 C.E.E. si applichi non al caso sottoposto al suo giudizio.
(in Raccolta, 1990, punto 10 motiv., p. 1323)
Sentenza del 7 marzo 1990 in causa n. 69/88
Krantz c. Ontvanger
Competenza della Corte – Misure di effetto equivalente – Potere
di sequestro da parte dell’Amministrazione finanziaria sui beni
venduti a rate con riserva di proprietà
È necessario ricordare in via preliminare che non spetta alla Corte,
nel quadro dell’art. 177 C.E.E., pronunciarsi sulla compatibilità delle
disposizioni nazionali con il Trattato. Essa, tuttavia, è competente a fornire alla giurisdizione nazionale tutti gli elementi di interpretazione pertinenti al diritto comunitario che possono permettere di valutare tale
compatibilità ai fini della decisione della causa di cui è investito.
(in Raccolta, 1990, p. 583, punto 7 motiv.)
Sentenza del 22 febbraio 1990 in causa n. 221/88
Ceca c. Fallimento Busseni
Art. 41 Ceca – Competenza della Corte – Crediti derivanti dall’applicazione dei prelievi sulla produzione di carbone e acciaio
La Corte ha dichiarato la propria competenza a conoscere di un rinvio pregiudiziale per interpretazione del Trattato Ceca o degli atti emanati in forza di questo. Il Trattato Ceca non detta alcuna regola esplicita
sull’esercizio di un potere d’interpretazione della Corte. Interpretazione e
validità: il sindacato di validità (art. 41 Ceca) di un atto implica necessariamente la sua previa interpretazione.
(in Raccolta, 1990, p. 495, punti 9-11 motiv.).
Sentenza dell’8 febbraio 1990 in causa n. 320/88
Statessecretaris van Financien c. Shipping and Forwarding Enterprise
125
VI Direttiva Iva art. 5 n. 1 – Cessione di un immobile – Trasferimento economico del bene – Competenza del giudice nazionale
Spetta (tuttavia) al giudice nazionale, nella ripartizione dei compiti
stabilita dall’art. 177 C.E.E., applicare le norme di diritto comunitario,
così come interpretate dalla Corte, al caso concreto. Infatti, una siffatta
applicazione non può essere effettuata senza una valutazione dei fatti in
causa nel loro complesso. Spetta al giudice nazionale determinare, caso
per caso, in relazione alla singola fattispecie, se viene trasferito il potere
di disporre di un bene come proprietario, ai sensi dell’art. 5, n. 1, della
sesta direttiva Iva.
(in Raccolta, 1990, p. 285, punti 11-13 motiv.)
Ordinanza del 26 gennaio 1990 in causa n. 286/88
Falciola Angelo S.p.A. c. Comune di Pavia
Compatibilità della legge nazionale con il diritto comunitario –
Incompetenza della Corte
La Corte ha dichiarato la propria incompetenza. La questione infatti non riguardava in alcun modo il diritto comunitario materialmente in
causa davanti al giudice nazionale (direttive 71/304 e 305 C.E.E. in
materia di appalti pubblici) ma era diretta solo a far valutare le reazioni
psicologiche dei giudici nazionali di fronte alla legge italiana adottata per
stabilire la loro responsabilità in caso di errori giudiziari suscettibili di
provocare azioni risarcitorie.
(in Raccolta, 1990, p. 191)
Sentenza del 9 gennaio 1990 in causa n. 337/88
S.A. Fattoria c. Amministrazione delle Finanze dello Stato
Regolamenti n. 49/81 e 57/81 del Consiglio relativi ai metodi di
cooperazione amministrativa destinati ad attuare nel periodo
transitorio la libera circolazione delle merci negli scambi fra la
Grecia e gli altri Stati membri – Retroattività
126
Data la ripartizione delle competenze disposta dall’art. 177 del Trattato spetta unicamente al giudice nazionale definire l’oggetto delle questioni che egli intende sottoporre alla Corte.
(in Raccolta, 1990, p. 1)
Sentenza del 13 dicembre 1989 in causa n. 322/88
Grimaldi c. Fonds des maladies professionnelles
Raccomandazioni in materia di malattie professionali – Effetto
vincolante – Competenza della Corte
La Corte in via preliminare ha ribadito la propria competenza a
statuire sull’interpretazione di una raccomandazione, atto non vincolante, ai sensi dell’art. 177 C.E.E. Ex art. 177 C.E.E. la Corte è competente a decidere in via di interpretazione sugli atti adottati dalle istituzioni comunitarie senza alcuna eccezione e ciò a differenza di quanto
dispone l’art. 173 C.E.E. relativo ai ricorsi per annullamento di atti
comunitari.
(in Raccolta, 1989, p. 4407; v. Rapporto italiano a cura di F. Capelli, in The 1992
Challenge at National Level, Baden Baden, 1989, p. 466).
Sentenza del 23 novembre 1989 in causa n. 150/88
Eau de Cologne c. Provide s.r.l.
Normativa nazionale relativa alla commercializzazione di prodotti cosmetici – Competenza della Corte
La Corte che ha dovuto giudicare la legittimità di una legge italiana
sollevata da un tribunale tedesco ha respinto le obiezioni del Governo
italiano e riconosciuto la propria competenza sostenendo:
a) il ricorso è ammissibile perché la causa non appare fittizia come
nella fattispecie risolta con la sentenza 16 dicembre 1981, Foglia/Novello, causa 244/80;
b) emerge da una costante giurisprudenza (causa 91/127/83, Heineken, sentenza 9 ottobre 1984) che se deve risolvere questioni miranti
127
a consentire al giudice nazionale di valutare la conformità con il diritto comunitario di disposizioni nazionali, la Corte può fornire gli elementi interpretativi del diritto comunitario.
(in Raccolta, 1989, p. 3891; cfr. punto 12 motiv.)
Sentenza del 17 ottobre 1989 in causa n. 109/88
Handels - Kontorfunktionaerernes Fourbund c. Dansk Arbejdsgiven
forening
Tribunal d’arbitrage categoriel – Giurisdizione ai sensi art.
177 C.E.E. – Eguaglianza lavoratori di sesso maschile e femminile
La Corte ha esaminato il carattere di “giurisdizione” ai sensi dell’art. 177 C.E.E. del Tribunale d’arbitrato di categoria previsto dalla
legge danese (n. 317 del 13 giugno 1973). Poiché ai sensi delle disposizioni nazionali la competenza e la composizione di tale organismo
è sottratta alla volontà e alla disponibilità delle parti, la Corte ne ha
riconosciuto il carattere di giurisdizione competente ad adire la
Corte di giustizia in via pregiudiziale, ai sensi dell’art. 177 C.E.E.
(in Raccolta, 1989, p. 3199)
Sentenza del 13 luglio 1989 in cause riunite n. 110/88, n. 241/88 e
n. 242/88
LUCAZEAU e altri c. Sacem
Sentenza del 13 luglio 1989 in causa n. 395/87
Pubblico Ministero c. Jean Louis Tournier
Concorrenza – Diritti d’autore – Contratti di rappresentanza reciproca – Poteri giudice nazionale
Lo stabilire se sia effettivamente intervenuta una concertazione vietata dal Trattato dipende dalla valutazione di talune presunzioni e dalla
128
valutazione di taluni documenti e altri mezzi di prova. Nell’ambito della
ripartizione delle competenze contemplata dall’art. 177 del Trattato, tale
compito spetta ai giudici nazionali.
(in Raccolta,1989, p. 2811 e p. 2521, punto 19 motiv.)
Sentenza del 25 maggio 1989 in causa n.1 5/88
Maxi Di S.p.A. c. Ufficio del Registro di Bolzano
Imposte indirette sulla raccolta capitali – Competenza della Corte
Nell’ambito del procedimento 177 C.E.E. la Corte non è competente
a pronunciarsi sulla compatibilità di una norma nazionale con il diritto
comunitario. Tuttavia la Corte può fornire al giudice nazionale gli elementi di interpretazione del diritto C.E.E. che gli consentiranno di risolvere la questione giuridica che deve conoscere.
(in Raccolta, 1989, p. 1391, punto 9 motiv.).
Sentenza del 22 settembre 1988 in causa n. 228/87
Procedimento penale c. ignoti
Dir. 80/778 C.E.E. del 15 luglio 1980 sulla qualità delle acque
destinate al consumo umano – Competenza della Corte
La Corte può ricavare dal testo delle questioni formulate dal giudice
a quo, tenuto conto dei dati da questi forniti, gli elementi relativi all’interpretazione del diritto comunitario al fine di consentire a detto giudice
di risolvere il problema giuridico sottopostogli.
(in Raccolta, 1988, p. 5099, punto 7 motiv.)
129
PROFILI DI RAPPORTI
TRA DIRITTO COMUNITARIO E DIRITTO PENALE
Relatore:
dott. Silvio RIONDATO
Università degli studi di Padova
1. L’individuazione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto
penale dipende essenzialmente dalla risoluzione del problema se ed
eventualmente in che limiti la C.E. sia dotata di competenza penale
(potestà punitiva comunitaria). Vale a dire: se ed eventualmente in che
limiti la sovranità penale nazionale sia rimasta intatta, a seguito dei
vari trattati comunitari che hanno dato vita alla “costituzione comunitaria” (1).
Talune sintetiche considerazioni preliminari si impongono,
riguardo all’apprezzamento del problema stesso, senza che qui ci si
possa soffermare ulteriormente, come pure meriterebbe.
In primo luogo, si rammenta che la Comunità ha soltanto le competenze che le sono attribuite tramite i relativi trattati (principio della
limitata attribuzione di competenze). Peraltro, l’interpretazione dei
trattati, per come si è determinata nel diritto vivente, è di tipo estensivo e financo analogico, e fa leva soprattutto sul raggiungimento degli
scopi comunitari dai quali, tramite i testi che descrivono le competenze “espresse” o “esplicite”, si desumono competenze implicite.
Comunque, soltanto sulla base delle competenze esistenti la fonte
comunitaria legittimamente produce diritto comunitario derivato
(tramite regolamenti e direttive, per quel che quì soprattutto interessa), e sempre che risultino rispettati ulteriori limiti, come il principio
di sussidiarietà dell’azione comunitaria (art. B T.U.E.; art. 3B T.C.E.),
nonché i diritti umani fondamentali ed inviolabili che ormai formano
parte integrante del diritto comunitario, in quanto principi generali
del diritto comunitario (art. 164 T.C.E.; art. F par. 2 T.U.E.).
(1) RIONDATO, Competenza penale della Comunità europea. Problemi di attribuzione attraverso la giurisprudenza, Padova, 1996. Lasceremo a parte, e qui soltanto
accennata, l’ipotesi che fattispecie penali siano previste direttamente nei trattati.
131
In secondo luogo, è importante notare che la soluzione del problema se una data competenza penale spetti alla Comunità potrebbe
variare, tra l’altro, secondo che si assuma il punto di vista del diritto
comunitario o il punto di vista del diritto nazionale. Non è escluso un
conflitto tra ordinamenti, sulla specifica questione. Va ricordato, in
estrema sintesi, che il diritto comunitario pretende la supremazia
(perfino) sulle costituzioni nazionali (primato del diritto comunitario,
e, a date condizioni, sua diretta applicabilità e diretta efficacia; di conseguenza, obbligo di disapplicazione del diritto nazionale incompatibile col diritto comunitario), mentre queste ultime a loro volta pretendono di legittimare le manifestazioni di supremazia del diritto comunitario, conferendo efficacia ai trattati, e sempre nei limiti del conferimento.
Un eventuale conflitto sarà risolto da ciascun interprete (sindacato diffuso sulla validità delle norme), e in particolare da ogni giudice,
secondo la propria concezione del diritto. Non esiste, infatti, né un
superiore diritto “scritto” né una superiore autorità costituita, che
siano destinati a stabilire con efficacia erga omnes la ripartizione di
competenze tra comunità e Stati membri (ovvero: quando sia da applicare il diritto nazionale e quando il diritto comunitario).
Più in particolare, il giudice è al contempo giudice nazionale e giudice comunitario, dall’uno e dall’altro ordinamento chiamato a proprio giudice. Il giudice stabilisce quale sia l’ordinamento competente.
Egli è il fattore del “co-ordinamento” (2), quando decide i rapporti di
prevalenza. E la decisione rimane ancorata al caso concreto. Si pensi
all’ipotesi in cui il giudice si trovi di fronte a due contrastanti sentenze, una della Corte Costituzionale e una della Corte di Giustizia C.E.,
magari da lui stesso sollecitate a pronunziarsi su di una questione concernente il caso in decisione, come p. es. proprio la questione sulla
competenza penale comunitaria. Quale delle due farà valere, e secondo quali criteri? Pare affacciarsi la conclusione che, di fronte a due
rivendicazioni di sovranità, il terzo che decide finisce col proporsi
quale vero sovrano.
Su queste basi, può fin d’ora agevolmente comprendersi che, se il
diritto comunitario aprisse una dimensione pluralistica del diritto penale (o la incrementasse, ammesso che tale dimensione già per altri versi
(2) Sul “coordinamento” cfr. anche quanto ritiene la Corte Costituzionale italiana
(8 giugno 1984, n. 170, Foro it., 1984, I, 2062).
132
esista), allora ne deriverebbe l’acuirsi di delicate questioni in tema di
conoscenza e quindi certezza del diritto penale. Tali questioni devono
rimanere qui soltanto accennate, anche perché a noi interessa, piuttosto,
evidenziare l’esistenza di termini sulla base dei quali esse effettivamente
si propongono all’attenzione dell’operatore del diritto comunitario.
In questa prospettiva, può già in sede introduttiva trovar luogo
l’avvertenza che i problemi penalistici che siano suscitati dal diritto
comunitario non tollerano soluzioni fondate su acritiche applicazioni
di pregiudiziali concezioni vertenti sul canone di legalità penale, specie se si tratta di impiegare il canone di legalità penale e statale. Basti
dire, al riguardo, che nel momento del confronto e in quello della scelta tra la legalità comunitaria e la legalità statale, la legalità costituisce
non già il principio di soluzione, bensì parte del problema di diritto.
2. Affrontiamo il tema, in primo luogo, nella prospettiva comunitaria, muovendo dalle ipotesi di più manifesta e nota incidenza del
diritto comunitario in ambito penale.
L’opinione corrente tende in prevalenza ad affermare che alla C.E.
non è stata attribuita competenza penale. L’assunto è, tuttavia, contraddetto, tra l’altro, dal riconoscimento che il diritto comunitario
esercita un’influenza sul diritto penale nazionale, per effetto del suo
primato e della sua diretta ed immediata applicabilità. Se si ammette
che il diritto penale nazionale risulti modificato per influsso del diritto comunitario, allora una competenza penale comunitaria esiste.
2.1. Ciò risulta vero con riferimento alla competenza penalenegativa (restrizione dell’area della punibilità; c.d. effetto negativo).
Infatti, si riconosce, quanto meno, che il diritto comunitario, in forza
del suo primato e della diretta applicabilità, comporti la disapplicazione da parte del giudice di norme penali incriminatrici nazionali, p.
es. quando conferisca diritti incompatibili con limitazioni penalmente rilevanti. L’antigiuridicità penale dipende, allora, dal diritto comunitario.
Non vale sostenere in contrario che è il legislatore penale nazionale a stabilire la rilevanza penale dei diritti scaturenti dalla fonte
comunitaria, p. es. tramite l’art. 51 c.p. (esercizio del diritto). Infatti,
in ipotesi, il diritto di fonte comunitaria opera in senso scriminante
anche se la legislazione penale nazionale lo vieta, perché un divieto del
genere deve essere disapplicato da parte del giudice interno, essendo
incompatibile col diritto comunitario.
La Corte di Giustizia C.E. ha puntualmente respinto una rivendi-
133
cazione di sovranità penale avanzata dall’Italia, secondo cui il diritto
penale spetterebbe esclusivamente agli Stati e, quindi, il diritto comunitario da sé non potrebbe influire sull’applicazione (negativa nel caso)
del diritto penale di uno Stato membro. Secondo la Corte, invero, “l’efficacia del diritto comunitario non può variare a seconda dei diversi
settori del diritto nazionale nei quali esso può spiegare effetti” (3).
Dunque, il diritto comunitario spiega di per sé effetti in ambito
penale. La norma comunitaria comporta una rilevanza penale che le è
originariamente attribuita dal legislatore comunitario, e non dal legislatore nazionale. Insomma, vi è un primato comunitario “penale”.
2.2. La questione si pone allo stesso modo con riferimento alla
competenza penale-positiva (estensione dell’area della punibilità;
effetto c.d. positivo). La dottrina non ha mancato di rilevare che già il
senso della perentoria, menzionata sentenza S.A.I.L. si estende anche
verso la competenza penale-positiva, secondo una pretesa penale
comunitaria per cui il diritto penale nazionale non godrebbe di una
forza di resistenza superiore a quella di altri settori giuridici nazionali, almeno stando a quel che ne ritiene la Corte di Giustizia (4).
Vi sono ulteriori ed anche più significativi dati che testimoniano
di una pretesa punitiva trasfusa nel diritto comunitario, che si incardina su di una potestà punitiva ovvero, in termini più moderni, competenza penale comunitaria.
2.2.1. Si pensi ad una fattispecie incriminatrice contenente un elemento normativo che una norma comunitaria sia in grado di integrare. Supponiamo, per esempio, semplificando per ora quanto effettivamente è stabilito, che sia punito “chiunque abbandona rifiuti tipo x”,
e che una nozione di “rifiuto tipo x” sia determinata da diritto comunitario direttamente applicabile (determinato, eventualmente, in
modo diverso dal diritto nazionale), secondo la competenza e politica
ambientale comunitarie.
Vi è ragione di ritenere che, dato il contenuto, il primato e la diretta applicabilità del diritto comunitario, la norma penale sia integralmente “in mano” comunitaria.
(3) C.G.C.E., 21 marzo 1972, 82/71, S.A.I.L., Raccolta, 1972, 119. Conf. C.G.C.E.,
27 febbraio 1986, 238/84, Röser, Raccolta, 1986, 795.
(4) GRASSO, Comunità europee e diritto penale, Milano, 1989, 259.
134
Per sfuggire a questa conclusione gli oppositori della competenza
penale comunitaria sostengono che, pur ammesso che la Comunità
disponga del precetto penalmente rilevante, tuttavia essa non disporrebbe della pena che resterebbe esclusivamente ancorata alla competenza statale, anzitutto per quanto concerne l’“an”. Taluno, peraltro, si
spinge fino ad impiegare, per spiegare il fenomeno della commissione
tra diritto comunitario e diritto nazionale in ambito penale, la figura
dell’interlegalità o meglio internormatività penale. Tuttavia, gli interpreti più rigorosi precisano che la stessa qualificazione penale concernente il precetto – che è data solo dalla pena – rientra nel dominio
statale. Il precetto comunitario sarebbe dotato di rilevanza penale per
volontà esclusivamente statale.
Orbene, l’obiezione in esame risulterebbe fondata, a parte ogni
altro rilievo, se si riuscisse a dimostrare che il diritto comunitario non
consente di disapplicare, per incompatibilità col diritto stesso, una
norma nazionale abrogativa o comunque modificativa (in questo caso,
in bonam partem) di una norma incriminatrice sulla quale influisca
una norma comunitaria. Ma il diritto comunitario ha già sviluppato
indicazioni che inducono quanto meno a dubitare in senso contrario.
Precisamente, emerge l’esistenza di un principio comunitario di penalizzazione e di un obbligo di penalizzazione da parte degli Stati, la cui
inadempienza non solo può trovare sanzione tramite le procedure di
giudizio contro lo Stato membro, ma anche può essere prevenuta tramite le procedure che presiedono alla disapplicazione del diritto
nazionale incompatibile col diritto comunitario, compreso il meccanismo della questione pregiudiziale di cui all’art. 177 T.C.E.
Più in dettaglio, si consideri anzitutto che la Corte di Giustizia
C.E., nella causa detta del “mais greco” (5), ha chiaramente riconosciuto, sulla base dell’art. 5 T.C.E. (obbligo di fedeltà, o meglio solidarietà comunitaria) l’obbligo per gli Stati (compresi i relativi organi), di
perseguire con concreta adeguatezza, sotto il profilo sostanziale e procedurale, le violazioni del diritto comunitario, “in termini analoghi a
quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed
importanza” e comunque in termini tali “da conferire alla sanzione un
carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva”.
Secondo la Corte, gli Stati sono tenuti, all’occorrenza, ad impiegare le
(5) C.G.C.E., 21 settembre 1989, 68/88, Commissione/Repubblica ellenica, Riv.
trim. dir. pen. economia, 1993, 570.
135
norme penali di cui già dispongono, e se del caso a crearne di nuove e
a far debitamente funzionare un apparato che assicuri anzitutto l’effetto general-preventivo. Come la Corte ha pure in seguito ribadito (6),
l’art. 5 T.C.E. obbliga “Gli Stati membri ad adottare tutte le misure,
atte a garantire, se necessario anche penalmente, la portata e l’efficacia del diritto comunitario”, e reciprocamente impone alle istituzioni
comunitarie di collaborare lealmente con gli Stati membri e in particolare con le autorità giudiziarie penali incaricate di vigilare sull’applicazione e sul rispetto del diritto comunitario nell’ordinamento giuridico nazionale.
Inoltre, da altre pronunzie di desume che il diritto comunitario
preclude la previsione/irrogazione di pene sproporzionate per difetto,
tanto che la Corte ha perfino fatto obbligo ai giudici nazionali di trovare nel proprio ordinamento sanzioni “non simboliche” per le violazioni attinenti all’ambito comunitario (7).
Questa ed altra giurisprudenza comunitaria instaurano un nesso
di dipendenza del diritto penale nazionale dal diritto penale comunitario, secondo un principio comunitario di penalizzazione desunto
dall’art. 5 cit. La Corte di Giustizia ha ormai ben mostrato di poter
esercitare un sindacato sia sull’attribuzione (o non-attribuzione) del
carattere penale, da parte dello Stato membro, ad un certo illecito, sia
sulla tecnica di incriminazione in genere, sia sui livelli di pena (8). La
dottrina e la giurisprudenza ancora non hanno del tutto afferrato l’ampiezza dei poteri che la Corte si riconosce, soprattutto sul primo punto
(9). Si suole ritenere che lo Stato membro sia lasciato “libero” nella
scelta dei mezzi sanzionatori adeguati. Ma (anche) questa libertà
trova limiti, non è arbitrio, perché l’adeguatezza è sindacabile.
Pertanto, una volta formatosi diritto penale nazionale che assicura tutela al bene (o, come si usa dire, al diritto) comunitario, la norma
nazionale di modifica o abrogativa della norma penale potrebbe risultare incompatibile con il menzionato art. 5 T.C.E. Alla stregua della
(6) C.G.C.E., 13 luglio 1990, 2/88, Zwartveld, Raccolta, 1990, 3365.
(7) Cfr. C.G.C.E., 10 aprile 1984, 14/83, Von Colson/Land Nordrhein-Westfalen,
Raccolta, 1984, 1891; C.G.C.E. 10 aprile 1984, 79/83, Doritz HARZ/Deutsche Tradax
GmbH, Raccolta, 1984, 1921.
(8) Ult. ind. in RIONDATO, Competenza penale, cit., 30 ss., 97 ss. e passim.
(9) V., per esempio, di recente, MASSÈ, L’influence du droit communautaire sur le
droit pénal français, in Revue sc. crim. dr. pen. comp. 1996, 945 (ivi indicazioni di giurisprudenza francese).
136
giurisprudenza della Corte non pare, infatti, senz’altro da escludere
che l’art. 5 cit., per i profili che qui interessano, sia dotato di diretta ed
immediata applicabilità.
A quest’ultimo riguardo, si noti che in punto di diritto statale e di
incompatibilità tra quest’ultimo e il diritto comunitario è competente il
giudice interno, il quale è inoltre competente ad interpretare il diritto
comunitario, trattati compresi. Il giudice può (o deve, se è di ultima istanza e ne è richiesto) anche sollevare una questione pregiudiziale ex art. 177
T.C.E., questione vertente sull’interpretazione del diritto comunitario, nel
qual caso il giudice stesso è vincolato all’interpretazione fornitagli da
parte della Corte di Giustizia. L’art. 177 T.C.E. prevede, così, uno “strumento di cooperazione tra la Corte di Giustizia e i giudici nazionali” (10).
Com’è noto, nella procedura ex art. 177 cit., la Corte – che a rigore non è
competente ad interpretare il diritto nazionale né a pronunziarsi sulla
validità dalla legge nazionale – può fornire al giudice interno elementi
interpretativi del diritto comunitario che consentirà al giudice stesso di
pronunciarsi in tema di compatibilità di leggi (ed anche di pratiche amministrative nazionali) con il diritto comunitario, compresi i principi generali del diritto e i principi in genere del diritto comunitario, ai fini della
disapplicazione del diritto nazionale. La Corte, però, ha ormai instaurato
un regime per cui essa finisce, in buona sostanza, con l’esaminare il diritto statale dal punto di vista degli obblighi di diritto comunitario (11).
In questo contesto, l’art. 5 cit., che fissa i menzionati obblighi, può
assumere rilevanza quale parametro di riferimento per il giudizio di
incompatibilità. Con ciò si chiarisce la ragione per cui può dubitarsi
che la norma penale sfugga al dominio comunitario, e non solo per la
parte precettiva, ma anche per la parte sanzionatoria.
Gli esiti più appariscenti di tale dominio potrebbero individuarsi con
riferimento a fattispecie incriminatrici che rinviino direttamente al diritto comunitario, come il recente art. 53 D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (12),
o fattispecie che comunque tutelino beni giuridici comunitari, come
(10) C.G.C.E., 26 gennaio 1990, 286/88, Falciola/Comune di Pavia, Raccolta, 1990,
191.
(11) V., per tutti, BALLARINO, Lineamenti di diritto comunitario, 5a ed., Padova,
1996, 119 ss.
(12) Traffico illecito di rifiuti: “Chiunque effettua spedizioni dei rifiuti elencati
negli allegati II, III e IV del Regolamento C.E.E. 259/63 del Consiglio del 1° febbraio
1993 in modo tale da integrare il traffico illecito, così come definito dall’articolo 26 del
medesimo Regolamento, è punito...”.
137
nelle ipotesi previste dal codice penale agli artt. 316-bis (malversazione a
danno delle comunità europee) e 640-bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni comunitarie).
2.2.2. L’influenza del diritto comunitario sul diritto penale (che a
seguito dell’influenza sarebbe errato definire propriamente) “statale”
dimostrano che in prospettiva comunitaria non è fondata l’affermazione secondo cui la creazione della pena rispetto ad una data violazione non spetta al diritto comunitario. Semmai, può dirsi che finora,
di fatto, il diritto comunitario si vale, appropriandosene, di strutture
normative penali sorte in ambito nazionale, e che ciò è conforme ai
trattati, secondo quanto ne ritiene la Corte di Giustizia. Ma in sostanza tale diritto stabilisce che una certa pena si collega ad un certo precetto, e viceversa: si tratta, perciò, di un fenomeno creativo, sia pur
scandito secondo particolari modalità che ne costituiscono anche il
limite interno. Il fenomeno si vede bene rispetto a certi regolamenti ai
quali la dottrina attribuisce un effetto estensivo dell’area della punibilità nazionale (13). Essi si innestano sulle strutture normative penali
nazionali, ampliandone la portata.
Altra questione è stabilire se soltanto quella finora descritta, e pur
con tutte le varianti che essa potrebbe comportare, sia la forma di
manifestazione penalistica del diritto comunitario. Ci si chiede se
diritto penale comunitario derivato “self-executing” possa sgorgare
dalla fonte comunitaria anche senza ancorarsi al supporto nazionale,
p. es. tramite un regolamento contenente proprie norme incriminatrici e proprie pene. Il problema riguarda e si esaurisce sul piano delle
attribuzioni di competenza contenute nei trattati, poiché finora non
risulta diritto penale comunitario derivato del genere in esame.
È appena il caso di notare che dal fatto che tale diritto penale non
risulti, non può senz’altro desumersi che manchi la relativa competenza comunitaria. Per il resto, è sufficiente ricordare che il tenore
non solo testuale di talune norme dei trattati depone nel senso dell’attribuzione di competenze penali alla Comunità. Più importante in
questa sede è affrontare una certa ulteriore obiezione generale che si
agita contro il riconoscimento o comunque l’esercizio di competenze
penali comunitarie, compresa l’influenza anzidetta.
2.2.3. Una grave obiezione al dispiegamento del diritto penale sul
(13) Sul punto, RIONDATO, Competenza, cit., 116 ss.
138
versante penalistico consiste nell’affermazione che lo stesso diritto
comunitario, tramite il menzionato recepimento dei diritti umani fondamentali, precluderebbe la creazione di diritto penale a fonti non fornite di diretta legittimazione democratica, come sarebbero gli organi
legislativi comunitari. Consiglio e Commissione. Fino a quando il parlamento europeo non sia dotato di potestà legislativa, il diritto comunitario non potrebbe consistere in diritto penale (legalità penale parlamentare democratica).
La questione è molto delicata e complessa, e investe tra l’altro il
modo di apprezzare la democraticità dell’impianto comunitario. Al
riguardo può qui soltanto notarsi che il Parlamento europeo, oltre che
poteri consultivi e in genere di partecipazione al processo legislativo,
ha ormai in taluni settori un vero e proprio potere di veto, sicché il suo
consenso informato è in certi casi essenziale. Almeno in questi casi,
non si vede la ragione di negare la legittimità del diritto penale comunitario, sul piano comunitario, in termini di democrazia.
Per il resto, ci si può limitare ad osservare in generale che l’obiezione in esame è dotata di un notevole “effetto boomerang”, per così
dire: allo stato attuale, in ambito comunitario il difetto di legittimazione democratica riguarda piuttosto l’assenza di adeguate norme e
sanzioni penali di diritto comunitario derivato – assenza di cui si è
detto –, che non la presenza di norme comunitarie penalmente rilevanti e comunque il riconoscimento di competenze penali comunitarie. Proprio il Parlamento europeo reclama da anni legislazione penale comunitaria, e riconosce competenze penali comunitarie (che il
Consiglio persiste a non esercitare), oltre che l’obbligo degli Stati
membri di creare una effettiva tutela penale dei beni giuridici comunitari e in particolare delle risorse finanziarie (14).
Pertanto, almeno in linea di tendenza la posizione del Parlamento
europeo sulla questione penalistica coincide con quella della Corte di
Giustizia (e perciò, oltretutto, incrementa la legittimazione della stessa
Corte, quest’ultima potendo giovarsi del sostegno del parlamento, nel
riconoscere competenze penali. Al fine di superare questo dato si
dovrebbe pervenire a negare al Parlamento europeo una sufficiente rappresentatività, il che non pare ai più seriamente sostenibile e comunque
(14) Risoluzione 24 ottobre 1991 (GUCE 25 novembre 1991, N. C 305/106).
Risoluzione 11 marzo 1984 (GUCE 28 marzo 1994, C 334). Ult. ind. in RIONDATO,
Competenza penale, cit., 224.
139
apre il campo ai più disparati criteri di valutazione: tra l’altro, se si
dovesse impiegare un criterio di ispirazione comparatistica – come talvolta fa la Corte di giustizia anche in tema di diritti fondamentali,
basandosi sulle tradizioni costituzionali comuni –, e considerare quindi
il grado di legittimazione democratica pertinente al diritto penale nei
vari ordinamenti degli Stati membri, risulterebbe che in taluni Stati il
diritto penale non sgorga necessariamente dalla fonte parlamentare.
In definitiva, più plausibile è ritenere che il problema della competenza penale e di quanto ne deriva sia più politico che giuridico. In
questa luce trova credito l’opinione secondo cui gli Stati membri, tramite i loro rappresentanti in Consiglio, non sono disposti a tollerare
esiti troppo sviluppati di un diritto penale comunitario che, dispiegandosi in campo economico, e quindi attingendo la criminalità c.d.
dei colletti bianchi, finirebbe probabilmente anche per investire il crimine di coloro che rivestono cariche politiche, così assoggettando ad
un forte potere di controllo comunitario i detentori della (perciò decaduta) sovranità statale. L’argomento della democrazia non è in grado
di mascherare che l’opposizione alla competenza penale comunitaria
deriva da ben altri e forse non altrettanto nobili interessi.
3. Delineato il punto di vista comunitario, può ora scendersi all’esame della prospettiva nazionale, non senza però aver preliminarmente notato che l’idea secondo cui esiste un prospettiva nazionale di
considerazione del diritto comunitario confligge con la stessa valenza
“comune” che tale diritto comporta: se il diritto è comune, dovrà valere allo stesso modo per tutti, e non potrà concepirsi che in realtà esistano tanti diritti comunitari quanto sono gli Stati membri, ogni Stato
adattando il diritto comunitario al proprio anziché viceversa.
Altrimenti, è meglio parlare di diritto nazionale, o di rinvio al diritto
comunitario per regolare situazioni di rilievo puramente interno – il
che, peraltro, sia detto per inciso, dal punto di vista comunitario ancora non farebbe cessare l’ingerenza comunitaria (15), sicché l’ipotesi
del conflitto non è esclusa.
3.1. La progressiva, effettiva affermazione del diritto comunitario
in Italia è avvenuta più che altro sulla base di sempre più evolutive
(15) C.G.C.E., 24 gennaio 1991, Proc. pen./Tomatis e Fulchiron, Raccolta, 1991,
127.
140
pronunzie della Corte Costituzionale. Dato fondante è il recepimento
consentito dall’art. 11 Cost., attuato tramite le leggi di ratifica dei trattati, e sempre che risulti mantenuta la conformità ad essenziali principi nazionali – i principi costituzionali c.d. supremi, cioè diritti e
principi fondamentali, irrinunciabili. La sovranità è limitata ma non
rinunciata, quindi la sovranità sul limite rimane.
Il diritto comunitario non è immediatamente sindacabile da parte
della Corte Costituzionale alla stregua dei fini stabiliti dall’art. 11 Cost.
e dei principi supremi, ma in buona sostanza lo diventa tramite il sindacato sulle leggi di esecuzione dei trattati comunitari, compreso il sindacato “in parte qua”. Senonché, finora non si è dato che la Corte, nella
pur copiosa giurisprudenza sul tema comunitario, abbia effettivamente
precluso il dispiegamento di qualche norma comunitaria, mentre invece è stato ormai recepito in complesso un sistema di funzionamento
che, quanto meno a livello sub-costituzionale, rispecchia quello voluto
dal diritto comunitario. Comunque, l’individuazione dei tratti costituzionali inderogabili implica delicati bilanciamenti tra i valori internazionalistici e i valori interni, che la Costituzione al contempo esprime.
Quanto al diritto penale comunitario, la Corte Costituzionale
non si è ancora pronunciata. Anche in ambito penalistico, il problema della competenza comunitaria si risolve tramite la Corte
Cost. e secondo i limiti sopra indicati. Si tratta, tra l’altro, di stabilire se tra i principi supremi sia da annoverare il principio di legalità penale democratico-parlamentare, desumibile dall’art. 25
Cost., se quindi sia necessaria (sufficiente) o no una certa legittimazione democratica del diritto comunitario che pretenda di investire la penalizzazione. La dottrina tende a riprodurre la stessa
obiezione di fondo che già abbiamo esaminato, il deficit democratico comunitario. Ma non pare sia radicalmente da escludersi che
di volta in volta la normativa comunitaria debba essere valutata
secondo il menzionato bilanciamento di valori costituzionali, che
potrebbe condurre ad un certo riconoscimento della valenza penalistica del diritto comunitario.
La questione di costituzionalità può investire, tramite la legge di
esecuzione del trattato, e per contrasto con i principi supremi, sia la
norma comunitaria penale-positiva, sia – qualora sia ammetta il sindacato su norme penali di favore, come entro certi limiti fa in genere
la giurisprudenza – la norma comunitaria penale-negativa.
3.2. I regolamenti comunitari hanno forza di legge, e per il principio del primato prevalgono sia sulle leggi anteriori che su quelle suc-
141
cessive, che vanno disapplicate se incompatibili. In ambito penale, i
problemi più importanti si pongono con riferimento alla rilevanza penale-positiva delle norme regolamentari, in tema di influenza del diritto
comunitario sul diritto penale nazionale (c.d. internormatività penale).
L’importanza penalistica del regolamento dipende dalla soluzione
del problema della competenza penale comunitaria, e in particolare
dalla misura della consentita operatività della norma regolamentare
tutte le volte che essa sia astrattamente in grado di ancorarsi alla
norma incriminatrice, influendo sul precetto, tramite un elemento
normativo della fattispecie, compresi i casi in cui la norma incriminatrice rinvii alla norma di legge nazionale, o a normativa amministrativa nazionale, alle quali il regolamento comunitario potrebbe sostituirsi per effetto di un meccanismo di disapplicazione.
Chi muove dall’obiezione del deficit democratico, tende a riconoscere alla norma regolamentare soltanto un ruolo penalistico parificato a quello rivestito dalla normativa nazionale di rango amministrativo, che si darebbe, tra l’altro, nelle ipotesi riconducibili alla figura della
norma penale c.d. in bianco – sarebbe ammesso sia un limitato rinvio
per profili strettamente tecnici al diritto comunitario, sia l’eventualità,
negli stessi limiti, della sostituzione della norma comunitaria alla
norma amministrativa nazionale per effetto della disapplicazione di
quest’ultima. Per il resto, il regolamento non sarebbe in grado di valere quanto la legge nazionale, ne tanto meno di sostituirsi ad essa venendo così a mutare il testo stesso della norma incriminatrice (legalità).
Può notarsi che a conclusioni analoghe in punto di rilevanza penale della disapplicazione, nel senso cioè di escluderla almeno quando la
norma penale nazionale rinvii a determinate leggi nazionali, può giungersi anche dal punto di vista comunitario, in ossequio al principio
comunitario di legalità penale (“fondamento giuridico chiaro e inequivoco” che la Corte di Giustizia ha in più occasioni ribadito anche
valutandone collegamenti col principio di consapevolezza (16).
3.3. Già per pacifica giurisprudenza comunitaria, la direttiva
comunitaria non è in grado da sé di estendere l’area della punibilità
nazionale.
(16) V., per esempio, C.G.C.E., 25 settembre 1984, 177/83, Karl Könecke GmbH &
Co. KG, Raccolta, 1984, 3291; C.G.C.E., 13 febbraio 1979, 85/76, Hoffmann-La Roche
& Co. AG/Commissione, Raccolta, 1979, 553. Cfr., per ult. ind., RIONDATO,
Competenza penale, cit., 99, 176.
142
Il problema più attuale posto dalle direttive deriva dalla pratica,
invalsa soprattutto in giurisprudenza, di interpretare le norme penali
nazionali, alla luce delle direttive, in senso estensivo della punibilità
(si tratta di una specie del genere “interpretazione conforme al diritto
comunitario”, interpretazione “obbligata” già in forza del menzionato
art. 5 T.C.E.). Proprio di recente la Corte di Giustizia ha affrontato
questo tema, ed ha affermato (perfino) che la legge penale non può
essere applicata in modo estensivo a discapito dell’imputato, per il
principio di legalità penale e in genere per il principio di certezza del
diritto, i quali ostano “a che siano intentati procedimenti penali a
seguito di un comportamento il cui carattere censurabile non risulti in
modo evidente dalla legge “ (17).
AGGIORNAMENTO BIBLIOGRAFICO
(con riferimento alla sezione “Dottrina” di C.S.M., Corsi decentrati di diritto comunitario, Diritto comunitario - Cooperazione penale, vol. I, 1997, p. 493 ss.).
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BALLARINO T., Lineamenti di diritto comunitario e dell’Unione europea, 5a ed., Padova
(CEDAM), 1997, 227-231.
RIONDATO S., Competenza penale della Comunità europea. Problemi di attribuzione
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BERNARDI A., La difficile integrazione tra diritto comunitario e diritto penale: il caso
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144
LA CONCORRENZA TRA
GIURISDIZIONE ITALIANA E GIURISDIZIONE STRANIERA.
LA RINUNCIA ALLA GIURISDIZIONE
Relatore:
dott. Andrea RAGOZZINO
Funzionario addetto all’Ufficio Estradizioni e Rogatorie internazionali
del Ministero di Grazia e Giustizia
1. Premessa
La tematica della concorrenza fra giurisdizione italiana straniera
è da inquadrare con riferimento ai principi generali che regolano i
rapporti internazionali tra Stati, introdotti nel nostro ordinamento
dall’articolo 10 della Costituzione, in forza del quale l’ordinamento
giuridico italiano deve conformarsi alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute.
Tali principi generali derivano da comportamenti comunemente
osservati nelle relazioni tra Stati e consolidati nel tempo, tanto da
assumere rilevanza giuridica sul piano internazionale.
Essi vengono normalmente richiamati nelle convenzioni internazionali, costituendone la base interpretativa e applicativa.
Segnatamente, occorre riferirsi ai principi generali su cui si fondano i rapporti internazionali in materia penale e, fra questi, ai principi che incidono in forma limitativa sull’esercizio della giurisdizione.
Tali sono certamente il principio di specialità in materia di estradizione e il principio relativo alle immunità di diritto internazionale.
Accanto ad essi è da collocare il cosiddetto principio della giurisdizione della bandiera, per il quale coloro che fanno parte di organismi militari sono soggetti alla giurisdizione dello Stato di appartenenza della forza armata quando si trovano a svolgere il proprio servizio
in un altro Stato (l’espressione “giurisdizione della bandiera” viene
altresì utilizzata con riferimento ai reati commessi a bordo di navi
mercantili, per indicare la giurisdizione dello Stato cui la nave appartiene).
Non è certo che questo principio possa in realtà ritenersi elevato
a regola generale di diritto internazionale, considerato che il tratta-
145
mento delle forze armate di uno Stato in servizio nel territorio di un
altro Stato trova normalmente disciplina in specifici accordi diretti fra
gli Stati interessati.
Il principio viene peraltro richiamato dall’art. 236 del codice penale militare di guerra, in base al quale “sono soggette esclusivamente
alla giurisdizione militare dei rispettivi Corpi di operazione le persone
appartenenti a detti Corpi o da essi dipendenti, qualunque sia il territorio dove i Corpi si trovano o la nazionalità degli imputati”. La norma
si riferisce alle ipotesi in cui Corpi nazionali operano nel territorio di
uno Stato alleato, o viceversa. Vengono tuttavia fatti salvi eventuali
diversi accordi fra lo Stato italiano e lo Stato alleato.
Il principio della giurisdizione della bandiera ha ricevuto espressa
delimitazione applicativa attraverso la Convenzione fra i Paesi aderenti al Trattato del Nord Atlantico sullo “status” delle loro Forze
Armate, sottoscritta a Londra il 19 giugno 1951, con l’introduzione del
sistema della concorrenza di giurisdizione fra Stati.
Attraverso tale sistema si è operato il contemperamento del principio della giurisdizione della bandiera con l’esigenza di salvaguardia
della sovranità territoriale degli Stati nell’espressione dell’esercizio
della giurisdizione.
Il sistema consiste nell’attribuzione di giurisdizione sia allo Stato
sul cui territorio determinati reati sono stati commessi sia allo Stato
cui appartiene la forza armata della quale l’autore del reato fa parte,
con disciplina dei limiti circa l’esercizio di tale giurisdizione concorrente.
Va altresì precisato, in sede di premessa, che il fenomeno della
concorrenza di giurisdizione tra Stati deve essere tenuto distinto da
quello della cosiddetta litispendenza internazionale, atteso che il
primo scaturisce da una convenzione internazionale che espressamente lo prevede e lo disciplina, mentre il secondo è fenomeno puramente occasionale, derivante da circostanze in cui due o più Stati in
forza dei propri ordinamenti interni – e non sulla base di una convenzione internazionale – si trovano ad esercitare la propria giurisdizione
in ordine a uno stesso fatto per tutti costituente reato.
2. La concorrenza di giurisdizione tra Stati. La Convenzione tra i Paesi
aderenti al Trattato del Nord Atlantico sullo “status” delle loro Forze
Armate. sottoscritta a Londra il 19 giugno 1951.
La concorrenza di giurisdizione tra Stati trova oggi peculiare
146
manifestazione nei rapporti fra i Paesi aderenti al Trattato del Nord
Atlantico sottoscritto a Washington il 4 aprile 1949 (N.A.T.O ).
Detti Paesi hanno sottoscritto una convenzione finalizzata a disciplinare lo status degli appartenenti alle loro forze armate che, in seguito
ad accordi, prestano il proprio servizio nel territorio di uno Stato diverso da quello di appartenenza, comunque aderente al trattato N.A.T.O.
La convenzione, sottoscritta a Londra il 19 giugno 1951 e resa esecutiva in Italia con Legge 30 novembre 1955, n. 1335, contiene l’indicazione dei doveri e delle prerogative attribuite ai militari N.A.T.O. in
servizio fuori dal proprio Stato di origine, nonché delle limitazioni di
sovranità cui gli Stati aderenti hanno inteso assoggettarsi per favorire
il buon andamento e lo sviluppo della collaborazione stabilita con il
Trattato del Nord Atlantico.
La materia dell’attribuzione della giurisdizione e dei limiti nell’esercizio della medesima è dettagliatamente regolata dall’articolo VII
della convenzione.
In primo luogo, tale articolo sancisce il principio della concorrenza di giurisdizione fra lo Stato cui appartiene la forza armata, denominato Stato di origine, e lo Stato sul cui territorio la forza armata –
e il personale civile dipendente – si trova di stanza o di passaggio,
denominato Stato di soggiorno. In particolare, è riconosciuto alle
Autorità militari dello Stato di origine il diritto di esercitare poteri di
giurisdizione penale, nel territorio dello Stato di soggiorno, nei confronti di tutte le persone sottoposte alle proprie leggi militari; parimenti è riconosciuto alle Autorità dello Stato di soggiorno il diritto di
esercitare la giurisdizione, per i reati commessi sul proprio territorio,
sugli appartenenti alla forza armata o al personale civile dello Stato di
origine, nonché sulle persone a carico di costoro (con tale accezione si
intendono il coniuge ed i figli a carico).
In secondo luogo, la normativa determina le fattispecie in cui la
giurisdizione è attribuita in via esclusiva allo Stato di origine o a quello di soggiorno. Lo Stato di origine ha giurisdizione esclusiva nei confronti di tutte le persone sottoposte alle sue leggi militari, per i fatti
che costituiscono reato secondo la propria legislazione ma non secondo quella dello Stato di soggiorno, compresi quelli contro la propria
sicurezza (individuati nei reati di tradimento, sabotaggio, spionaggio
e violazione delle leggi relative ai segreti ufficiali dello Stato e ai segreti della difesa nazionale). Specularmente è determinata la giurisdizione esclusiva dello Stato di soggiorno nei confronti degli appartenenti
alle forze armate o al personale civile dello Stato di soggiorno, nonché
delle persone a carico.
147
Per tutti gli altri reati viene seguito il principio della giurisdizione concorrente, ma l’articolo VII della convenzione determina puntualmente le fattispecie in cui il diritto di esercitare la giurisdizione è
attribuito in via prioritaria allo Stato di origine, al di fuori delle quali
il diritto di esercizio prioritario appartiene sempre allo Stato di soggiorno.
Nel dettaglio, lo Stato di origine ha diritto di priorità nell’esercizio
della giurisdizione concorrente per i reati commessi dai militari o dal
personale civile, o dalle persone a carico di costoro, unicamente contro la proprietà o la sicurezza del medesimo; contro la persona o la
proprietà degli appartenenti alla forza armata e al personale civile e
degli individui a loro carico; nonché per i reati derivanti da atti od
omissioni commessi nell’esecuzione del servizio.
Con tale disciplina la convenzione risolve a monte i conflitti
potenziali derivanti dal regime di giurisdizione concorrente.
Tale regime trova piena manifestazione concreta nella facoltà
attribuita allo Stato che vanta il diritto di priorità di rinunciare a valersene, consentendo all’altro Stato l’esercizio della propria giurisdizione
che senza la rinuncia sarebbe impedito.
L’articolo VII della convenzione di Londra prevede, da un lato, la
rinuncia mediante decisione unilaterale dello Stato avente diritto, con
obbligo di tempestiva comunicazione all’altro Stato, il quale riacquista, di conseguenza, il pieno potere di esercizio della giurisdizione.
D’altro canto è altresì contemplata la possibilità di addivenire ad un
accordo fra gli Stati diretto ad attribuire l’effettivo esercizio della giurisdizione concorrente rispetto a ciascun caso concreto. L’accordo è promosso dallo Stato che ha giurisdizione ad esercizio subordinato, mediante espressa richiesta all’altro Stato di rinuncia al diritto di priorità.
La disciplina convenzionale prevede che le richieste di rinuncia
vengano esaminate “benevolmente” dalle Autorità dello Stato avente il
diritto di priorità, specie se da parte dello Stato richiedente venga
attribuita particolare importanza alla rinuncia, con evidente richiamo
allo spirito di piena collaborazione fra gli Stati, in assenza del quale il
funzionamento dell’impianto normativo sarebbe comunque compromesso.
L’accoglimento della richiesta di rinuncia al diritto di priorità
dovrebbe, secondo chi scrive, comportare l’impegno per lo Stato
richiedente ad instaurare il procedimento penale, atteso che la convenzione mira a regolare l’esercizio effettivo della giurisdizione in
regime di concorrenza e che la rinuncia non sembra potersi semplicemente equiparare ad una manifestazione di disinteresse da parte dello
148
Stato rinunciante all’accertamento della responsabilità penale. Infatti,
l’art. VII, paragrafo 6, lettera b) della convenzione contempla il dovere delle Parti contraenti di informarsi reciprocamente sul seguito dato
ai procedimenti.
È inoltre da considerare che secondo la normativa convenzionale
(art. VII, paragrafo 8), quando il procedimento penale è stato definito,
in conformità delle disposizioni della convenzione, dalle Autorità dello
Stato di origine o dello Stato di soggiorno mediante decisione di assoluzione o di condanna – e in quest’ultimo caso la pena sia in corso di
esecuzione o sia già stata eseguita, ovvero sia intervenuto provvedimento di clemenza (grazia) –, è vietato a tutti gli Stati contraenti far
luogo a nuovo giudizio per lo stesso fatto nei confronti della medesima persona (ne bis in idem).
Si potrebbe quindi ritenere che, in caso di inerzia dello Stato che
ha formulato la richiesta di rinuncia al diritto di priorità di giurisdizione, allo Stato rinunciante non sia impedito l’esercizio della giurisdizione, nonostante la rinuncia. Sembrerebbe infatti indicativa la
considerazione che l’articolo VII della convenzione si esprime solo in
termini di divieto di nuovo giudizio.
Accanto all’impianto normativo in materia di ripartizione, concorrenza ed esercizio della giurisdizione, l’articolo VII della convenzione di Londra contiene una serie di disposizioni aventi lo scopo di
assicurare il concreto funzionamento di tale impianto mediante forme
di collaborazione fra gli Stati semplificate e più ampie rispetto a quelle tradizionalmente proprie dei rapporti internazionali in campo
penale. È prevista reciproca assistenza fra le Autorità dello Stato di
origine e di soggiorno, senza particolari formalità, per l’arresto nel territorio dello Stato di soggiorno delle persone da sottoporre a giudizio
sulla base della disciplina convenzionale e per la loro consegna alle
Autorità dello Stato che deve esercitare la giurisdizione; per lo svolgimento delle indagini, la raccolta e produzione delle prove del reato, il
sequestro e la eventuale consegna dei corpi di reato, senza la necessità
di osservare le forme delle rogatorie internazionali.
Inoltre, è contemplato che le Autorità dello Stato di origine, qualora abbiano a disposizione un militare o un elemento civile su cui lo
Stato di soggiorno debba esercitare la giurisdizione, sono tenute ad
assicurarne la custodia fino a quando non sia iniziato il procedimento penale nello Stato di soggiorno medesimo. Quest’ultimo, a sua
volta, deve provvedere alla sollecita notifica alle Autorità dello Stato di
origine dell’arresto di qualsiasi militare o elemento civile o persona a
carico.
149
È altresì previsto che le Autorità dello Stato di soggiorno “esaminino con benevolenza” – e quindi prescindano da particolare formalità e adottino determinazioni improntate alla massima collaborazione – le richieste delle Autorità dello Stato di origine di assistenza nell’esecuzione delle pene detentive da queste inflitte, in conformità delle
disposizioni convenzionali, sul territorio dello Stato di soggiorno.
Infine è determinata una serie di diritti riconosciuti alle persone
perseguite innanzi alle Autorità dello Stato di soggiorno, che queste
ultime sono tenute a garantire (articolo VII, paragrafo 9), fra i quali è
opportuno qui segnalare il diritto ad ottenere un sollecito giudizio;
all’informazione circa i capi di imputazione a carico prima del dibattimento; al confronto con i testimoni a carico; ad ottenere la comparizione dei testimoni a discarico anche in forma coattiva, se ciò rientra
nei poteri delle Autorità dello Stato di soggiorno; a comunicare con un
rappresentante del Governo del proprio Stato di appartenenza e, qualora le norme processuali lo consentano, ad ottenere la presenza del
rappresentante medesimo in dibattimento.
3) La concorrenza di giurisdizione fra Stato italiano e Stato estero. L’applicazione in Italia dell’articolo VII della Convenzione tra i Paesi aderenti al Trattato del Nord Atlantico sullo “status” delle loro Forze
Armate. Il regolamento approvato con D.P.R. 2 dicembre 1956 n.
1666.
L’applicazione in Italia della normativa di cui all’art. VII della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 è disciplinata dal regolamento
approvato con D.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666 (pubblicato in G.U. n.
70 del 10 marzo 1957).
Secondo il regolamento, l’Autorità governativa deputata a rappresentare lo Stato italiano nell’attuazione della suddetta normativa nei
rapporti con gli altri Stati che sono Parti della convenzione è il Ministro
di Grazia e Giustizia, così come avviene nella generalità dei rapporti
internazionali in materia-penale. Il Ministro riceve le istanze di rinuncia alla priorità di giurisdizione spettante allo Stato italiano presentate
dallo Stato di origine; richiede all’autorità giudiziaria competente per
ciascun procedimento penale, se lo ritiene opportuno, di far luogo alla
rinuncia alla prioritaria giurisdizione italiana; formula alle Autorità
dello Stato di origine le istanze di rinuncia alla giurisdizione prioritaria
spettante a quest’ultimo; formula alle stesse Autorità le dichiarazioni di
giurisdizione esclusiva o prioritaria dello Stato italiano.
150
La facoltà attribuita al Ministro di Grazia e Giustizia, basata sulla
normativa convenzionale, di dar luogo alla rinuncia alla giurisdizione
da parte dello Stato italiano è stata oggetto di dubbi di legittimità
costituzionale. La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità della disciplina convenzionale in materia e di
quella applicativa di quest’ultima, contenuta nel regolamento sopra
richiamato, con gli articoli 25, comma 1, 101, 102, 104 e 112 della
Costituzione.
Con due sentenze, emesse in data 14-27 giugno 1973 (pubblicata
in Giur. Cost. 1973, p. 975) e in data 26 settembre-12 ottobre 1990
(pubblicata in Cass. pen. 1991, p. 1000, n. 766) la Corte Costituzionale ha dichiarato l’infondatezza e l’inammissibilità delle questioni sollevate.
Con riferimento all’art. 25 Cost., i giudici di merito avevano eccepito che la facoltà del Ministro (potere esecutivo) di rinunciare alla
priorità di giurisdizione dello Stato italiano, in qualità di Stato di soggiorno, costituisse sottrazione dell’imputato al giudice naturale precostituito per legge.
La Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione –
prospettata rispetto all’art. 2 della legge di ratifica ed esecuzione della
convenzione di Londra (legge 30 novembre 1955, n. 1335) – motivando che la convenzione contempera il principio della obbligatorietà e
territorialità della legge penale con la consuetudine generale internazionale della giurisdizione della bandiera, anche al fine di evitare il
doppio giudizio nei casi di concorso di giurisdizione; che lo spostamento di competenza a favore del giudice straniero, anch’esso precostituito per legge, attraverso la facoltà attribuita al Ministro di Grazia
e Giustizia, non costituisce violazione della norma costituzionale (sentenza del 1973); che il principio di cui all’art. 25, comma 1, Cost,
essendo posto a garanzia della assoluta imparzialità degli organi giudiziari, disciplina le competenze dei giudici all’interno dell’ordinamento ed è pertanto estraneo alla fattispecie convenzionale, che regola invece il coordinamento tra le giurisdizioni di diversi Stati, determinando se debba esserci giurisdizione nello Stato italiano; che il
potere di rinuncia alla giurisdizione non è vietato da alcun principio
costituzionale né è precluso dal legislatore ordinario, ma, al contrario,
la Costituzione – articoli 10, 11 e 26 – contiene significativi esempi
della disponibilità dell’ordinamento alla cooperazione internazionale
sia in materia penale che in ogni altro campo (sentenza del 1990).
Con riferimento agli artt. 101, 102, 104 e 112 Cost, è stato eccepito che la facoltà del Ministro di determinare la rinuncia alla giurisdi-
151
zione darebbe luogo a sottrazione arbitraria del procedimento al giudice naturale, consentendo al Ministro di scegliere l’organo più idoneo
a “jurisdicere”, senza possibilità per l’organo giurisdizionale di sindacare il merito della decisione ministeriale, e violerebbe inoltre il principio della obbligatorietà dell’azione penale.
La Corte Costituzionale, avendo rilevato che la censura riguarda
norme di natura regolamentare quelle del regolamento approvato con
D.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666 – ha dichiarato inammissibile la questione sollevata, motivando che il riscontro della legittimità di tali
norme non spetta alla Corte medesima, ma è riservato al giudice chiamato ad applicarle, come per ogni atto amministrativo (sentenza del
1990).
È importante in questa sede osservare come la Corte Costituzionale non abbia rilevato aspetti di incostituzionalità nella disciplina
contenuta nell’art. VII della Convenzione di Londra, che pertanto può
considerarsi conforme al nostro ordinamento, anche tenuto conto dell’attuale sviluppo dei rapporti di collaborazione internazionale in
materia penale.
Tale osservazione dovrebbe costituire necessaria premessa nella
valutazione della legittimità del regolamento applicativo della disciplina, con la conseguenza che i provvedimenti con cui il Ministro di
Grazia e Giustizia si vale della facoltà di rinuncia alla prioritaria giurisdizione italiana non dovrebbero essere ritenuti illegittimi se perfettamente rispondenti al dettato della normativa convenzionale.
Quanto all’attribuzione al Potere esecutivo della suddetta facoltà
di rinuncia, stabilita con le norme del regolamento applicativo, si può
ritenere che tragga la propria legittimità dalla disciplina convenzionale, nella parte in cui prevede che le Autorità dello Stato cui spetta il
diritto di priorità nell’esercizio della giurisdizione valutino “benevolmente” le istanze di rinuncia al diritto presentate dalle Autorità dell’altro Stato. Trattasi, evidentemente, di valutazione di natura politica,
attribuibile pertanto, secondo il nostro ordinamento, solo al Potere
esecutivo. L’individuazione nella specie del competente organo del
Potere esecutivo nel Ministro di Grazia e Giustizia è conforme a quanto avviene nello svolgimento della generalità delle relazioni internazionali in materia penale (estradizioni, rogatorie, trasferimenti in
ambito internazionale di persone condannate, ecc.), ove al Ministro
medesimo sono attribuiti specifici poteri di natura discrezionale se
non politica.
Diversamente, del resto, la disciplina dell’art. VII della convenzione di Londra, ancorché dichiarata legittima, sarebbe di fatto inappli-
152
cabile e la sua mancata applicazione darebbe luogo a responsabilità
internazionale dello Stato italiano.
Va comunque registrato che la posizione assunta dalla Corte
Costituzionale è stata oggetto di critica ad opera di parte della dottrina. È stato rilevato, in particolare, che la Corte, nel motivare la conclusione circa l’infondatezza della questione relativa alla compatibilità
della disciplina prevista dall’art. VII della convenzione di Londra con
i principi costituzionali in materia di giurisdizione, avrebbe trascurato di considerare che la rinuncia alla giurisdizione italiana non comporterebbe, secondo la convenzione, l’obbligo di esercizio della concorrente giurisdizione da parte dello Stato di origine, il quale potrebbe anche non esercitarla. Pertanto la rinuncia non darebbe luogo allo
spostamento dell’esercizio della giurisdizione dallo Stato italiano –
come Stato di soggiorno – allo Stato di origine, bensì semplicemente
alla cessazione del procedimento avviato in Italia, con possibile, ma
non certa, instaurazione del procedimento nello Stato di origine (sul
punto, Cfr. PETTA, La Costituzione e la convenzione sullo status delle
truppe N.A.T.O., in Giur. cost., 1973, p. 977; SALAZAR, Nuovo riconoscimento da parte del Giudice delle Leggi del principio La loi suit le drapeau, in Cass. pen., 1991, p. 1004).
L’obiezione potrebbe essere superata ove si ritenesse consentito
l’esercizio della giurisdizione, nonostante la rinuncia al diritto di priorità, in caso di inerzia dello Stato a beneficio del quale la rinuncia è
stata effettuata.
Si potrebbe inoltre osservare che, considerando la normativa dell’art. VII della convenzione di Londra come sistema limitativo del
principio internazionale della giurisdizione della bandiera, qualora si
sostenesse che tale normativa fosse in contrasto con la Costituzione
altrettanto dovrebbe ritenersi riguardo allo stesso principio della giurisdizione della bandiera.
4) Segue: la disciplina interna in materia di rinuncia al diritto di priorità nell’esercizio della giurisdizione da parte dello Stato italiano.
Il regolamento del 1956 determina, all’art. 1, le modalità di esercizio della facoltà di rinuncia alla prioritaria giurisdizione spettante allo
Stato italiano come Stato di soggiorno. È previsto che le istanze di
rinuncia presentate dalle Autorità dello Stato di origine debbano essere dirette al Ministro di Grazia e Giustizia, o attraverso il Ministero
degli Affari Esteri, oppure tramite il Procuratore della Repubblica
153
presso il più vicino Tribunale, che le inoltra, con un rapporto informativo, al Procuratore Generale, il quale, a sua volta, le trasmette al
Ministro di Grazia e Giustizia con le proprie osservazioni.
Della presentazione dell’istanza deve essere data immediata
comunicazione alla Procura della Repubblica competente per il procedimento.
Occorre precisare, a questo punto, che l’applicazione concreta
della convenzione di Londra da parte italiana si svolge quasi totalmente, salvo pochi casi, nei rapporti con gli Stati Uniti d’America.
Nella pratica, le istanze di rinuncia alla prioritaria giurisdizione
italiana vengono presentate dall’Ufficio legale del comando della
Forza armata statunitense cui il militare appartiene.
Tali Forze armate sono stanziate in caserme loro assegnate, dislocate nel territorio nazionale.
Le istanze sono indirizzate al Ministro di Grazia e Giustizia normalmente per il tramite della Procura della Repubblica che procede a
carico del militare statunitense e copia delle istanze è inviata direttamente, per conoscenza, al Ministero di Grazia e Giustizia.
L’Ufficio giudiziario che riceve l’istanza a sua volta la trasmette,
con la documentazione informativa riguardante il caso, alla Procura
Generale, che provvede all’inoltro al Ministero di Grazia e Giustizia –
Direzione Generale degli Affari Penali – Ufficio II – esprimendo il proprio parere in ordine all’opportunità o meno di far luogo alla rinuncia
alla giurisdizione.
Accade talvolta che il Ministero di Grazia e Giustizia riceva la copia
dell’istanza di rinuncia inviatagli per conoscenza dal Comando militare statunitense prima dell’istanza medesima, indirizzata tramite l’Ufficio giudiziario procedente. In tali circostanze, il Ministero si rivolge
immediatamente alla competente Procura generale richiedendo la
documentazione informativa sul caso ed il parere sopra indicato.
Ricevuta la documentazione, il Ministero di Grazia e Giustizia la
trasmette a quello degli Affari Esteri (Direzione Generale degli Affari
Politici, Ufficio IV – N.A.T.O.) affinché possa esprimere il proprio
parere – obbligatorio ma non vincolante, a mente dell’art. 1, comma 4,
del regolamento del 1956 – sull’opportunità o meno, sotto il profilo
esclusivamente politico, di far luogo alla rinuncia alla prioritaria giurisdizione italiana.
Pervenuto il parere del Dicastero degli Affari Esteri, il Ministro di
Grazia e Giustizia decide in merito all’istanza di rinuncia, con proprio
provvedimento motivato, formulando richiesta all’Autorità giudiziaria
competente per il procedimento, per il tramite del Procuratore Gene-
154
rale, di rinuncia al diritto di priorità nell’esercizio della giurisdizione
spettante allo Stato italiano; ovvero manifestando la propria volontà
di non far luogo alla rinuncia a tale diritto.
Nella prassi, le decisioni assunte dal Ministro sono state orientate
in senso conforme ai pareri espressi dalla Procura Generale e dal
Ministero degli Affari Esteri, salvo casi particolari.
Tali decisioni, inoltre, sono state tendenzialmente di segno positivo, con accoglimento delle istanze di rinuncia alla prioritaria giurisdizione italiana, riguardo alle fattispecie di reato di scarsa gravità, mentre sono state di segno negativo, con affermazione della giurisdizione
italiana e conseguente rigetto delle istanze di rinuncia, relativamente
a reati ritenuti gravi (es.: violenza carnale, omicidio colposo conseguente a sinistro stradale).
Appare opportuno registrare, in questa sede, la tendenza da parte
di alcune Procure Generali ad esprimere parere negativo in merito alla
rinuncia alla prioritaria giurisdizione italiana allorché ritengano la
necessità di salvaguardare le pretese risarcitorie delle persone offese
dal reato, o comunque delle parti civili.
In proposito, sembra utile fare qui brevemente cenno alla normativa dell’art. VIII, paragrafo 6, della convenzione di Londra, in materia
di risarcimento dei danni cagionati da fatti illeciti degli appartenenti
alla forza armata o al personale civile fuori dallo svolgimento del proprio servizio.
È da premettere che, sulla base della richiamata disposizione, le
parti offese hanno possibilità di presentare domanda di risarcimento
al Ministero della Difesa – Direzione Generale del Contenzioso, Divisione VIII –.
Secondo la normativa convenzionale, le Autorità dello Stato di
soggiorno – per lo Stato italiano il Ministero della Difesa – esaminano
le domande di risarcimento e – previa istruttoria sul caso – provvedono alla quantificazione del danno, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, compreso il comportamento tenuto nelle specifiche fattispecie dalle persone offese. Le stesse Autorità redigono quindi in merito a ciascun caso rapporto circa l’entità del danno, inoltrandolo alle Autorità dello Stato di origine. Queste ultime decidono senza
ritardo se offrire o meno il risarcimento a titolo volontario.
Se il risarcimento viene effettivamente offerto e la relativa somma
viene accettata dalla persona richiedente come indennizzo integrale,
le Autorità dello Stato di origine procedono direttamente al pagamento, informandone le Autorità dello Stato di soggiorno.
Nella pratica, nelle relazioni con gli Stati Uniti d’America, le Auto-
155
rità di quello Stato corrispondono normalmente il risarcimento quando riconoscono l’effettiva responsabilità dell’appartenente alla forza
armata.
È infine da precisare che per i danni causati da comportamenti
degli appartenenti alla forza armata dello Stato di origine, o al personale civile, nell’esecuzione del servizio, il risarcimento viene corrisposto all’avente diritto direttamente dal Ministero della Difesa, al quale
le Autorità dello Stato di origine corrispondono, a loro volta, il 75 %
della somma (articolo VIII, paragrafo 5 della convenzione di Londra).
Sempre l’articolo VIII, paragrafo 6, della convenzione dispone
comunque, alla lettera d), che non è precluso ai tribunali dello Stato
di Soggiorno procedere contro gli appartenenti alla forza armata o al
personale civile dello Stato di origine se – e fino al momento in cui –
non vi sia stato pagamento a titolo di integrale soddisfacimento della
domanda di risarcimento.
In conclusione, può ragionevolmente desumersi che, quanto
meno nei casi in cui la responsabilità da fatto illecito del militare o elemento civile dello Stato di soggiorno (non invece delle persone a carico) appaia incontestabile, la tutela risarcitoria delle parti offese è adeguatamente garantita dal meccanismo di cui all’art. VIII, paragrafo 6,
della convenzione di Londra.
Proseguendo nella disamina della normativa interna applicativa
della convenzione di Londra, è da rilevare che, in base a quanto dispone l’art. 1, comma 5, del regolamento approvato con D.P.R. 2 dicembre 1956, n. 1666, il Ministro di Grazia e Giustizia non può esercitare
la facoltà di rinuncia alla prioritaria giurisdizione italiana dopo che
sia stato notificato all’imputato il decreto che dispone il giudizio (Il
testo dell’articolo 1 del regolamento, precedente al nuovo codice di
procedura penale, fa riferimento al decreto di citazione per il dibattimento di primo grado).
Perché tale facoltà possa essere concretamente esercitata dal
Ministro su istanza delle Autorità dello Stato di origine, è certamente
indispensabile che queste siano informate dell’esistenza dei procedimenti penali a carico degli appartenenti alla propria forza armata o al
personale civile prima della notifica a costoro del decreto che dispone
il giudizio, in modo tale che le Autorità dello Stato di origine possano
avere tempo sufficiente a presentare le istanze di rinuncia.
Al riguardo, occorre richiamare il disposto dell’art. 7 del regolamento, secondo cui il capo dell’ufficio giudiziario che ha ordinato o
compiuto un atto che debba essere notificato o comunicato alle Autorità dello Stato di origine, deve inviare copia dei documenti o le infor-
156
mazioni da notificare alla Procura Generale, che provvede a portare
sollecitamente l’atto o le informazioni a conoscenza delle Autorità
militari dello Stato di origine dalle quali dipende la persona a cui l’atto o le informazioni si riferiscono. È altresì previsto che l’arresto dei
militari e degli elementi del personale civile dello Stato di origine,
nonché delle persone a carico di costoro, sia immediatamente comunicato al Comando da cui i soggetti arrestati dipendono, ovvero al più
vicino comando o ufficio dello Stato di origine, ad opera dell’Autorità
giudiziaria che ha disposto la cattura o dell’ufficiale di Polizia giudiziaria che ha proceduto all’arresto. È da osservare che l’obbligo di sollecita comunicazione dell’arresto è espressamente disposto dall’articolo VII, paragrafo 5 b) della convenzione di Londra.
Con circolare in data 25 marzo 1957, n. 786/357, il Ministero di
Grazia e Giustizia ha invitato le Procure Generali ad aver cura di predisporre un sistema di trasmissione (delle notificazioni e comunicazioni) che consenta la dimostrazione, ove necessario, che le notificazioni sono state eseguite e le comunicazioni sono state effettuate.
Nella suddetta circolare è stato precisato che l’obbligo della immediata comunicazione alle Autorità dello Stato di origine vada riferito
anche all’arresto in flagranza operato da agenti di Polizia giudiziaria e
che la comunicazione debba essere data dall’ufficiale di Polizia giudiziaria, sia che abbia proceduto alla cattura in esecuzione di un ordine
o di propria iniziativa, sia nel caso in cui abbia avuto in consegna la
persona arrestata in flagranza, informando dell’avvenuta comunicazione la competente Autorità giudiziaria (che dovrebbe a sua volta
provvedere alla comunicazione qualora Ufficiale non vi avesse provveduto).
Sempre secondo la circolare, con la comunicazione dell’arresto
dovrebbe essere data notizia alle Autorità dello Stato di origine del
reato addebitato alla persona arrestata e dell’Autorità giudiziaria a
disposizione della quale l’arrestato è stato posto.
Infine, l’obbligo di comunicazione dovrebbe essere adempiuto
anche nelle ipotesi di fermo di indiziati di reato, in base alla dizione
della norma convenzionale (art. VII, paragrafo 5, lettera b), che appare riferibile a tutti i casi di privazione della libertà connessa alla
repressione dei reati.
La necessità di informare tempestivamente le Autorità dello Stato
di origine dei procedimenti penali a carico degli appartenenti alle
forze armate o al personale civile di detto Stato, ovvero delle persone
a carico di costoro, potrebbe incontrare problemi di compatibilità con
l’impianto del nuovo codice di procedura penale. In particolare, in
157
base all’art. 329 c.p.p., gli atti di indagine compiuti dal Pubblico Ministero, e quindi la notizia di reato, dovrebbero restare segreti almeno
fino a quando l’indagato non assume la qualità di imputato. Considerato quanto dispone l’art. 60 c.p.p. in merito all’assunzione di tale qualità e attesa la disposizione dell’articolo 1, comma 5, del regolamento
del 1956, emerge che l’attuale normativa interna non contempla alcuna garanzia a tutela del diritto dello Stato di origine di poter presentare in tempo utile la richiesta di rinuncia da parte dello Stato italiano al diritto di priorità di giurisdizione nei confronti delle persone
appartenenti alle forze N.A.T.O. in Italia.
Per assicurare il pieno rispetto da parte italiana dell’articolo VII
della convenzione di Londra, non sarebbe inopportuna, secondo chi
scrive, una modifica della normativa interna in modo tale da consentire allo Stato di origine la presentazione delle suddette istanze di
rinuncia entro un utile spazio di tempo, permettendo al Ministro di
Grazia e Giustizia di prenderle in esame e assumere efficacemente la
propria decisione al riguardo.
Pur tenendo conto che l’attuale normativa processuale penale è
ispirata a criteri di immediatezza e continuità, essa dovrebbe comunque essere resa sempre compatibile con tutti gli accordi internazionali in materia penale, ratificati ed in vigore, che impegnano lo Stato italiano nei confronti di tutti i Paesi che di tali accordi sono parte, in
attuazione del disposto dell’art. 10 Cost., comma 1.
Riguardo alla particolare fattispecie in esame, potrebbe anche
essere sufficiente, a parere di chi scrive, l’aggiunta di una ulteriore,
apposita disposizione nel testo dell’art 129 disp. att. c.p.p..
In ogni caso, anche in assenza di specifica modifica legislativa, è
sempre auspicabile da parte dell’Autorità giudiziaria italiana – come
del resto già avviene nella pratica rispetto alla grande maggioranza dei
casi – un orientamento diretto a favorire, nei limiti del consentito, la
piena applicazione delle disposizioni in materia di rapporti giurisdizionali con gli Stati aderenti alla convenzione di Londra, in ossequio
al principio generale di diritto internazionale “pacta sunt servanda “.
Come già precisato più sopra, il Ministro di Grazia e Giustizia
esercita la facoltà di rinuncia al diritto di prioritaria giurisdizione
spettante allo Stato italiano come Stato di soggiorno mediante richiesta in tal senso all’Autorità giudiziaria competente per il procedimento penale instaurato a carico della persona che possiede le caratteristiche indicate dall’art. VII della convenzione di Londra.
A mente dell’articolo 1, comma 6, del regolamento del 1956, il giudice, in presenza della suddetta richiesta del Ministro, deve dichiarare
158
il difetto di giurisdizione per rinuncia da parte italiana al diritto di
priorità nell’esercizio della medesima, una volta accertata la sussistenza di tutte le condizioni previste dalla legge per la validità e
ammissibilità della rinuncia.
È da ritenere pertanto, anche alla luce delle menzionate pronunce
della Corte Costituzionale, che all’Autorità giudiziaria spetti il controllo circa la legittimità della rinuncia, ma non anche la valutazione
in merito all’opportunità che si faccia luogo alla medesima. Ritenuta
la legittimità, il giudice non ha dunque il potere di respingere la richiesta del Ministro.
In base all’art. 1, ultimo comma, del regolamento del 1956 – nonché in base all’art. VII, paragrafo 6, lettera b) della convenzione di
Londra – la decisione dell’Autorità giudiziaria è comunicata alle Autorità dello Stato di origine.
La richiamata circolare del Ministero di Grazia e Giustizia del 25
marzo 1957 (paragrafo 3, punto gg) testualmente recita: “in relazione
al disposto dell’art. VII, parag. 6, comma b) della convenzione, è da
avvertire che il Procuratore della Repubblica, nei casi in cui richieda
al Giudice istruttore di disporre l’archiviazione degli atti o di emettere sentenza di non doversi procedere per qualsiasi causa, dovrà subito informare del contenuto delle proprie richieste il comando da cui
dipende il denunciato”.
Analogamente potrebbe oggi procedersi allorché il Pubblico Ministero presenti al Giudice per le indagini preliminari richiesta di archiviazione.
In ogni caso, la stessa circolare (paragrafo 2, lettera A, ultima
parte) rimette al Procuratore Generale, ai sensi dell’art. 7 del regolamento, la comunicazione all’Autorità dello Stato di origine che ha presentato l’istanza di rinuncia alla prioritaria giurisdizione italiana della
pronuncia del giudice sulla richiesta del Ministro, non appena la pronuncia diventi definitiva, con contestuale informativa al Ministero di
Grazia e Giustizia.
5) Segue: diritto di priorità nell’esercizio della giurisdizione spettante
allo Stato di origine.
In ordine alle fattispecie in cui il diritto di priorità nell’esercizio
della giurisdizione spetti allo Stato di origine, la disciplina interna non
è altrettanto puntuale come per i casi di diritto prioritario di giurisdizione dello Stato italiano come Stato di soggiorno.
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Allorché l’Autorità giudiziaria italiana abbia avviato procedimento penale riguardo a reati per i quali sussista diritto di priorità dello
Stato di origine nell’esercizio della giurisdizione, secondo la richiamata circolare ministeriale (paragrafo 2, punto B) dovrebbe far luogo
alla sospensione del procedimento, trasmettendo al Ministero di Grazia e Giustizia le informazioni necessarie a consentire al Ministro di
presentare eventualmente alle Autorità dello Stato di origine istanza di
rinuncia al diritto di priorità di giurisdizione, a mente dell’art. 2 del
regolamento del 1956.
Se il Ministro decide di non presentare tale istanza di rinuncia,
della decisione viene nella prassi data comunicazione alla Procura
Generale. Conseguenza della decisione è il difetto di giurisdizione da
parte del giudice italiano.
Qualora invece il Ministro presenti l’istanza di rinuncia, affinché
il procedimento penale avanti all’Autorità giudiziaria italiana possa
proseguire è necessario attendere la decisione di accoglimento dell’istanza da parte delle Autorità dello stato di origine; mentre in caso di
rigetto avrebbe luogo il difetto di giurisdizione.
La rinuncia dello Stato di origine al diritto di priorità nell’esercizio della giurisdizione viene resa nota al Ministro di Grazia e Giustizia (art. VII, lettera c), della convenzione di Londra e art. 6 del regolamento del 1956), il quale provvede a trasmetterla senza indugio all’Autorità giudiziaria competente.
È pratica costante da parte dei Comandi delle forze armate degli
Stati Uniti d’America presentare all’ufficio giudiziario italiano procedente dichiarazione recante affermazione motivata del diritto di giurisdizione prioritaria spettante agli Stati Uniti come Stato di origine,
informandone il Ministero di Grazia e Giustizia.
Appare ragionevole ritenere che l’Autorità giudiziaria, qualora
versi in dubbio in merito alle circostanze che diano luogo al diritto di
priorità di giurisdizione dello Stato di origine, possa richiedere alle
Autorità di quest’ultimo informazioni al riguardo, sia che abbia ricevuto dichiarazione affermativa del diritto di priorità sia che non abbia
ricevuto tale dichiarazione.
È tuttavia altrettanto ragionevole ritenere che non possa essere
oggetto di contestazione da parte dell’Autorità giudiziaria l’espressa
dichiarazione delle Autorità dello Stato di origine circa la perpetrazione del reato ascritto al militare o all’elemento civile durante l’esecuzione del servizio.
Su questo punto, la circolare del Ministero di Grazia e Giustizia,
n. 786/357 del 25 marzo 1957, precisa che “in ottemperanza a quanto
160
concordato in sede di definizione della convenzione di Londra, la
determinazione della circostanza relativa all’esercizio di mansioni
ufficiali è fatta dal Comando da cui il militare dipende, che dovrà
inviare all’Autorità giudiziaria una formale dichiarazione in tal senso”
(punto 4, lettera m).
In una specifica fattispecie, l’Autorità giudiziaria ha inteso valutare se il reato fosse o meno riconducibile all’esecuzione del servizio
individuando in base alle circostanze del caso concreto i limiti dell’attività funzionalmente ricollegabile all’esecuzione del servizio, per concludere con l’affermazione del travalicamento di tali limiti mediante la
condotta delittuosa.
A parte la considerazione che l’interpretazione sopra esposta condurrebbe ad escludere in linea di principio il diritto di priorità dello
Stato di origine nell’esercizio della giurisdizione derivante dall’esecuzione del servizio da parte del militare, atteso che appare difficile
immaginare come una condotta delittuosa – eventualmente anche colposa – possa mai ritenersi funzionalmente collegata all’esecuzione del
servizio; sembra opportuno sottolineare che l’art. VII, paragrafo 3, lettera a), mira a determinare con certezza i criteri di attribuzione del
diritto di giurisdizione prioritaria, eliminando i potenziali conflitti in
materia. Lo scopo della normativa può essere raggiunto soltanto attraverso un’interpretazione univoca di tali criteri di attribuzione, da
osservare rispetto a tutti i casi concreti.
Riguardo al criterio costituito dall’attività di servizio, l’esigenza
di certezza può essere salvaguardata soltanto allorché sia l’Autorità
dello Stato di origine da cui direttamente dipende il militare o l’elemento civile a chiarire quando il soggetto abbia agito nell’esecuzione del servizio e quando invece abbia agito fuori dall’esecuzione del
servizio.
Nello stesso senso si è espresso rispetto alla concreta fattispecie
appena descritta il Ministero degli Affari esteri, chiamato ad esprimere la propria posizione.
6) Segue: il diritto di giurisdizione esclusiva
Il regolamento del 1956 non contiene specifici riferimenti alle fattispecie di giurisdizione esclusiva dello Stato italiano come Stato di
soggiorno e di giurisdizione esclusiva dello Stato di origine.
In relazione alle ultime la circolare del Ministero di Grazia e Giustizia del 27 marzo 1957 (paragrafo 1) osserva che non è previsto alcun
161
intervento degli organi italiani, se non a titolo di assistenza (art. VII,
paragrafo 6, lettera a) e che gli atti eventualmente pervenuti alle Autorità italiane o assunti dalle medesime sono da trasmettere alla Procura Generale per l’inoltro alle Autorità militari dello Stato di origine.
Allorché il giudice sia stato investito del procedimento, deve
dichiarare il difetto di giurisdizione dello Stato italiano.
Riguardo alle fattispecie di giurisdizione esclusiva dello Stato italiano come Stato di soggiorno, è naturalmente applicabile la normativa – sia della convenzione che del regolamento del 1956 – circa la sollecita notificazione alle Autorità militari dello Stato di origine dell’arresto del militare, elemento civile o persona a carico.
L’Autorità giudiziaria italiana competente per il procedimento
deve in ogni caso osservare la disposizione dell’art. VII, paragrafo 9,
della convenzione, relativa ai diritti attribuiti ai soggetti sottoposti a
procedimento penale da parte delle Autorità dello Stato di soggiorno,
nonché quella dell’art. 5 del regolamento del 1956, in base alla quale il
giudice deve dare tempestivo avviso del giorno fissato per il dibattimento al comandante del reparto a cui la persona sottoposta a procedimento appartiene – e se ciò non sia possibile, ovvero in caso di
urgenza, al comando o ufficio dello Stato di origine più vicino – affinché un rappresentante del Governo dello Stato di origine possa essere
presente al dibattimento.
Il rappresentante ha diritto ad intervenire anche al dibattimento a
porte chiuse, salva l’esclusione della pubblicità del dibattimento a
tutela del segreto politico o militare.
7) Segue: la reciproca assistenza fra le Autorità dello Stato di soggiorno
e le Autorità dello Stato di origine.
Con riferimento alle disposizioni dell’art. VII della convenzione di
Londra relative alla collaborazione che le Autorità dello Stato di soggiorno e quelle dello Stato di origine debbono reciprocamente prestarsi, onde garantire il funzionamento dell’impianto normativo in
materia di giurisdizione concorrente, in base all’art. 8 del regolamento del 1956 possono essere dirette alla Procura Generale le richieste
dello Stato di origine volte ad ottenere assistenza nell’arresto dei militari o elementi civili sui quali questo debba esercitare la giurisdizione,
così come le richieste di assistenza per lo svolgimento di inchieste, per
la ricerca di prove, per il sequestro e la consegna di elementi di prova
e le richieste di assistenza per l’esecuzione delle condanne a pene
162
detentive pronunciate dalle Autorità dello Stato di origine nel territorio dello Stato di soggiorno (art. VII, paragrafo 7, lettera b).
Al Procuratore Generale è attribuito il potere discrezionale di
provvedere nella maniera ritenuta più opportuna affinché venga dato
luogo all’assistenza richiesta.
Nei casi di flagranza o urgenza, la richiesta di assistenza ai fini
dell’arresto, della conservazione delle prove del reato e della prevenzione dei reati possono essere rivolte ai locali organi di Polizia giudiziaria, con immediata comunicazione alla Procura Generale presso la
più vicina Corte di Appello.
Riguardo all’assistenza che deve essere fornita dalle Autorità dello
Stato di origine alle Autorità dello Stato di soggiorno, è qui da segnalare, oltre quella relativa all’arresto nel territorio di quest’ultimo dei
militari o elementi civili sui quali lo Stato di soggiorno medesimo
debba esercitare la propria giurisdizione, quella concernente la custodia dei militari o elementi civili che si trovino a disposizione dello
Stato di origine, fino all’inizio del procedimento penale da parte delle
Autorità dello Stato di soggiorno.
È dubbio entro quali limiti questa forma di assistenza debba essere fornita dalle Autorità dello Stato di origine.
In una specifica fattispecie l’Autorità giudiziaria italiana si è trovata a dover esercitare la propria giurisdizione, riconosciuta dalle
Autorità dello Stato di origine, nei confronti di un militare che, dopo
aver commesso il reato in Italia, ma prima di venire individuato come
autore di tale reato, era stato trasferito all’estero, dove era stato giudicato dalle Autorità dello Stato di origine e condannato per il reato
medesimo.
Da parte italiana si è proceduto a richiedere alle Autorità dello Stato
di origine la consegna del militare ai sensi dell’art. VII, paragrafo 5, lettera c) della convenzione di Londra, considerato che il militare si trovava a disposizione delle Autorità di quello Stato, non potendosi ritenere
rilevante la circostanza che il militare non si trovasse più nel territorio
italiano, atteso che la norma in questione non subordina il dovere della
custodia alla presenza dell’autore del reato nello Stato di soggiorno.
Quanto alla circostanza che il militare era stato giudicato da parte
dell’Autorità dello Stato di origine, si è sostenuto che essa non avrebbe
dato luogo alla violazione del principio del “ne bis in idem” sancito dall’art. VII, paragrafo 8, della convenzione di Londra, per irrilevanza del
suddetto giudicato determinata dal fatto che lo Stato di origine avrebbe dovuto astenersi dall’esercizio della giurisdizione, non avendo lo
Stato italiano rinunciato al proprio diritto di giurisdizione prioritaria.
163
La tesi italiana è stata ulteriormente argomentata considerando
che la mancata assistenza di cui all’art. VII, paragrafo 5, lettera c), da
parte delle Autorità dello Stato di origine avrebbe impedito allo Stato
italiano il legittimo esercizio del proprio diritto di giurisdizione prioritaria, comportando una rinuncia forzosa a tale diritto.
Benché la posizione assunta da parte italiana fosse ampiamente
supportata dalla normativa dell’art. VII, paragrafo 5, lettera b) della
convenzione di Londra, le Autorità dello Stato di origine hanno ritenuto di non poter procedere alla consegna del militare alle Autorità
italiane, riferendosi, anziché alla suddetta disposizione, a quella della
lettera a) del medesimo paragrafo – obbligo di assistenza per l’arresto
e la consegna all’Autorità avente il diritto di prioritaria giurisdizione
del militare o elemento civile (o persona a carico) che si trova nel territorio dello Stato di soggiorno – per concludere con l’affermazione
della carenza del potere dello Stato di origine di procedere alla consegna di un imputato non più presente nel territorio dello Stato di soggiorno.
Le stesse Autorità hanno inoltre osservato, contrariamente alla
tesi italiana, che il procedimento penale in Italia a carico del militare
avrebbe comportato la violazione del principio del “ne bis in idem”, di
cui all’art VII, paragrafo 8, della convenzione di Londra, non tenendo
conto che il giudizio avanti all’Autorità del medesimo Stato di origine
non era in realtà conforme alla normativa convenzionale, dal momento che il diritto di esercitare la giurisdizione apparteneva in via prioritaria allo Stato italiano (il caso è stato diplomaticamente risolto con
successiva rinuncia da parte italiana all’esercizio della prioritaria giurisdizione, considerato che il militare era stato pesantemente condannato dall’Autorità giudiziaria militare del proprio Paese e che la parte
lesa era stata risarcita).
8) Le divergenze fra le Parti della convenzione di Londra nell’interpretazione o applicazione della normativa convenzionale.
In base all’art. XVI della convenzione di Londra, le divergenze che
dovessero intervenire fra gli Stati che hanno aderito alla convenzione
medesima in ordine all’interpretazione o all’applicazione della normativa convenzionale devono essere risolte, in primo luogo, mediante
trattativa diretta, senza ricorso al giurisdizione estranee.
Qualora le divergenze non trovassero soluzione attraverso la trattativa diretta, è possibile sottoporle al Consiglio del Nord Atlantico.
164
Non si sono verificati nella pratica, in Italia, casi in cui è stato
necessario ricorrere al suddetto organo. Pertanto non sono precisate
le modalità attraverso le quali potrebbe interpellarsi il Consiglio del
Nord Atlantico né si è a conoscenza della procedura che seguirebbe il
Consiglio qualora fosse investito per la soluzione di eventuali divergenze.
In generale può ritenersi che la collaborazione finora attuata fra
lo Stato italiano e gli altri Stati che sono parte della convenzione di
Londra nell’applicazione della normativa prevista dall’art. VII ha dato
risultati soddisfacenti.
9) Concorrenza di giurisdizione fra tribunali nazionali e Tribunale internazionale competente per gravi violazioni del diritto umanitario commesse nei territori della ex Jugoslavia.
Sembra opportuno concludere la presente trattazione con un
breve accenno alla concorrenza fra giurisdizione dei tribunali nazionali e giurisdizione del Tribunale internazionale competente per gravi
violazioni del diritto umanitario commesse nei territori della ex Jugoslavia dal 1991, prevista dall’art. 9 dello Statuto del suddetto Tribunale internazionale.
Il Tribunale, che ha sede a L’Aja, è stato istituito con risoluzione
827 (1993) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed è dotato
di un proprio statuto, allegato alla richiamata risoluzione (pubblicata
in G.U., serie generale, numero 304, del 29 dicembre 1993).
Esso ha il potere di perseguire i responsabili di gravi violazioni
delle convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 (si tratta delle quattro
convenzioni dirette a regolare il trattamento dei feriti e dei prigionieri di guerra e a tutelare la popolazione civile in tempo di guerra); della
violazione di leggi e usi di guerra; di genocidio, di crimini contro l’umanità commessi nell’ambito di un conflitto armato internazionale o
interno.
Nell’ambito delle proprie competenze, il Tribunale internazionale
ha giurisdizione concorrente con i tribunali nazionali, con diritto di
priorità nell’esercizio della giurisdizione (art. 9 dello statuto del Tribunale internazionale). In ogni fase del procedimento può richiedere
formalmente al tribunale nazionale di rimettere alla propria competenza il procedimento penale, in conformità alle norme dello statuto.
In base all’art. 10 dello statuto, una corte nazionale non può giudicare per gravi violazioni del diritto umanitario rispetto alle quali
165
abbia competenza il Tribunale internazionale persone che siano già
state giudicate da quest’ultimo (ne bis in idem).
Le persone già giudicate da una corte nazionale per i reati di cui
sopra possono essere successivamente giudicate dal Tribunale internazionale solo se i fatti sono stati qualificati come reato comune oppure se i procedimenti sono stati svolti avanti ad una corte nazionale
priva di imparzialità o indipendenza, o con il fine di sottrarre l’imputato a eventuali responsabilità penali internazionali, ovvero se i fatti
non sono stati perseguiti con la dovuta diligenza.
In questi casi, il Tribunale internazionale deve tener conto delle
pene scontate per gli stessi fatti in forza delle condanne pronunciate
dalle corti nazionali.
Con Decreto Legge 28 dicembre 1993, n. 544 (pubblicato in
G.U., serie generale, numero 304, del 29 dicembre 1993), convertito
con la Legge 14 febbraio 1994, n. 120, sono state emanate disposizioni in materia di cooperazione con il Tribunale internazionale in
esame. In base all’art. 3, in caso di richiesta di trasferimento del
procedimento penale da parte del Tribunale internazionale, il giudice italiano competente deve dichiarare con sentenza in camera di
consiglio l’improcedibilità, per esistenza della prioritaria giurisdizione del Tribunale internazionale, se quest’ultimo procede per lo
stesso fatto e se tale fatto è stato commesso nel territorio della ex
Repubblica federativa socialista di Jugoslavia a partire dal 1° gennaio 1991.
Avverso la sentenza può essere proposto ricorso per cassazione,
che ha effetto sospensivo.
Il giudice del procedimento deve quindi trasmettere gli atti al
Ministero di Grazia e Giustizia per l’inoltro al Tribunale internazionale.
Il procedimento avanti all’Autorità giudiziaria italiana viene riaperto se il Procuratore del Tribunale internazionale decide di non formulare l’atto di accusa, o se questo non viene confermato dal giudice
del Tribunale internazionale, ovvero se tale giudice dichiara la propria
incompetenza (art. 4 D.L. cit.).
La persona giudicata in via definitiva dal Tribunale internazionale non può essere sottoposta a nuovo giudizio avanti all’Autorità giudiziaria italiana per lo stesso fatto. Qualora il procedimento sia iniziato, il giudice deve pronunciare sentenza di proscioglimento o di
non luogo a procedere, enunciandone la causa del dispositivo (art. 5
D.L. cit.).
Devono immediatamente essere comunicate al Tribunale interna-
166
zionale le iscrizioni ex art. 335 c.p.p. delle notizie di reato per le quali
la competente Autorità giudiziaria ritiene sussistere la giurisdizione
concorrente del Tribunale internazionale medesimo, accompagnate
da una sommaria esposizione dei fatti (art. 6, comma 1, D.L. cit.).
Su domanda del Tribunale internazionale, al fine di eventuale
richiesta di trasferimento del procedimento, l’Autorità giudiziaria italiana deve trasmettere una sommaria esposizione dei fatti delittuosi e
gli atti del procedimento non coperti dal segreto o quelli dei quali il
Pubblico Ministero consente la pubblicazione ex art. 329, comma 2,
c.p.p. (art. 6 D.L. cit.).
Le richieste di cooperazione da parte del Tribunale internazionale sono ricevute dal Ministero di Grazia e Giustizia, che ne cura il
seguito.
167
IL PRIMATO DEL DIRITTO COMUNITARIO
SUL DIRITTO INTERNO. I RAPPORTI TRA NORME
COMUNITARIE E NORME DEGLI STATI MEMBRI
NELLA PROSPETTIVA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
DELLE COMUNITÀ EUROPEE E DELLA
CORTE COSTITUZIONALE
Relatore:
dott. Enrico Adriano RAFFAELLI
Avvocato del Foro di Milano
SOMMARIO: I) Il diritto comunitario e l’ordinamento giuridico comunitario: a) le varie
categorie di norme comunitarie, b) gli atti delle Istituzioni in particolare, c) la
ripartizione delle competenze: – II) L’evoluzione del diritto comunitario attraverso il procedimento del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia – III) I
rapporti tra le norme comunitarie e quelle nazionali: a) la legittimità costituzionale della legge che ha dato esecuzione ai Trattati e b) l’applicabilità diretta delle norme comunitarie; – IV) Il primato del diritto comunitario; – V) La
diversa prospettiva della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale.
I) Il diritto comunitario e l’ordinamento giuridico comunitario:
a) Le varie categorie di norme comunitarie.
Quello che comunemente viene definito “diritto comunitario” è un
complesso di norme di natura profondamente diversa tra loro. Nell’ambito del diritto comunitario si possono infatti distinguere almeno
tre categorie di norme (1), e precisamente:
– I trattati internazionali che hanno dato vita alle Comunità Europee (C.E.C.A., C.E.E., e C.E.E.A.), quelli che sono intervenuti successivamente tra gli Stati membri e gli accordi internazionali conclusi dalle
Comunità con Stati terzi; queste norme, come tutte le norme di diritto
internazionale, creano diritti ed obblighi tra gli Stati contraenti (2).
(1) v. POCAR, “Il Diritto delle Comunità Europee”, Milano, 1991, pp. 3 ss.
(2) La Corte di Giustizia nelle sentenze Van Gend en Loos in causa 26/62 del 5
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– Le norme relative all’organizzazione interna delle Comunità; alcune sono contenute nei Trattati istitutivi, altre sono invece emanate
dalle stesse Istituzioni comunitarie.
– Le norme emanate dalle Istituzioni comunitarie (Consiglio e Commissione Europea) in virtù dei poteri loro conferiti dai Trattati. Queste norme a differenza delle precedenti incidono, come vedremo, sui
sistemi giuridici degli Stati membri (3).
Si tratta di tre categorie di norme, ciascuna con caratteristiche
proprie che danno luogo a problematiche diverse e decisamente
nuove. In particolare il fenomeno costituito dal rapporto tra norme
comunitarie e norme nazionali è complesso e senza precedenti; gli
ordinamenti nazionali si sono trovati a fronteggiare situazioni dai
contorni, come vedremo, assolutamente non delineati.
Inoltre con i Trattati istitutivi gli Stati membri hanno dato vita ad
un ordinamento giuridico a sé stante, autonomo rispetto all’ordinamento internazionale e agli ordinamenti degli Stati membri (POCAR,
MONACO, GIULIANO, ecc.).
b) Gli atti delle Istituzioni in particolare.
Le norme che in base ai Trattati possono essere emanate dalle Istituzioni comunitarie sono destinate ad avere efficacia all’interno degli
ordinamenti nazionali. La peculiarità di queste norme costituisce uno
dei principali caratteri di novità e distinzione delle Comunità rispetto
alle organizzazioni internazionali tradizionali (4).
Gli atti in considerazione sono quelli elencati nell’art. 189 C.E.
ove si prevede che: “per l’assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dal presente Trattato il Parlamento europeo congiuntamente con il Consiglio, il Consiglio e la Commissione adottano regolamenti e direttive, prendono decisioni e formulano raccomandazioni e
pareri”.
febbraio 1963 e Costa in causa 6/64 del 15 luglio 1964 ha invece affermato che i Trattati si distinguono dai comuni Trattati di diritto internazionale.
(3) In base alla classificazione adottata da Tesauro, le prime due categorie costituirebbero le c.d; “norme primarie” del sistema giuridico comunitario, mentre la terza
darebbe origine al “diritto comunitario derivato” in grado di incidere in modo rilevante sugli ordinamenti giuridici interni e sulle posizioni giuridiche dei singoli v. G.
TESAURO “Diritto comunitario”, Padova, 1995, pp. 61 e ss.
(4) v. POCAR, op. cit., p. 222.
170
I caratteri degli atti aventi contenuto normativo possono così riassumersi:
– i regolamenti: sono gli atti più importanti emanati dalle Istituzioni comunitarie, hanno portata generale e sono obbligatori in tutti i
loro elementi oltreché direttamente applicabili in ciascuno degli Stati
membri;
– le direttive: sono destinate agli Stati membri, vincolano gli Stati
membri cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, ma fanno salva la competenza degli organi nazionali in merito alla
forma ed ai mezzi (5).
– le decisioni: hanno portata individuale, cioè si rivolgono ad un
soggetto, Stato o singoli privati, e sono obbligatorie in tutti i loro elementi per i destinatari da esse designati.
c) La ripartizione delle competenze.
Le Comunità (6) non hanno una competenza di carattere generale potendo agire soltanto nell’ambito di quanto previsto dai Trattati
istitutivi. In tale ambito si riscontra una limitazione della sovranità
degli Stati membri e una delega o trasferimento di competenza dagli
Stati membri alle Comunità (7). Sul territorio delle Comunità, che
coincide con la somma dei territori dei vari Stati membri, opereranno
(5) È ormai peraltro pacifico che anche talune direttive possano produrre alla
stessa stregua dei Regolamenti effetti diretti all’interno degli ordinamenti nazionali (v.
infra p. 16). In particolare sono state ritenute di efficacia immediata le disposizioni di
direttive che: a) hanno un contenuto prevalentemente negativo nel senso che non prevedano a carico del destinatario obblighi di fare; b) ribadiscono un obbligo già contenuto nei Trattati e già produttivo di effetti immediati; c) abbiano un contenuto particolareggiato, cioè contengano una disciplina talmente minuziosa da escludere qualsiasi
discrezionalità degli Stati destinatari in ordine alla loro attuazione.
(6) Secondo POCAR, op. cit. pp. 7 e ss., le Comunità sono soggetti di diritto internazionale come è comprovato: – dall’autonomia delle Comunità rispetto agli stati
membri: a) possono pretendere dagli Stati il rispetto degli obblighi che i Trattati
impongono agli Stati e b) possono imporre agli Stati membri nuovi obblighi nell’ambito dei poteri loro conferiti dai Trattati; – dall’autonomia finanziaria delle Comunità
che rivestono un vero e proprio potere impositivo; – dall’autonomia con la quale le
Comunità si muovono nel piano delle relazioni internazionali dal momento che – ad
esempio – stipulano accordi con Paesi terzi e partecipano alle organizzazioni internazionali con una propria individualità rispetto a quella degli Stati membri.
(7) v. CAPORTORTI, “Il Diritto Comunitario dal punto di vista del giudice nazionale”, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1977, pp. 497 e ss.
171
quindi sia le norme nazionali che quelle comunitarie. In ogni caso, la
coesistenza del diritto comunitario e dei diritti nazionali è tale da
escludere la trasformazione del primo in diritto nazionale, trasformazione che ne sottrarrebbe l’interpretazione da parte della Corte di Giustizia (8).
La ripartizione delle competenze tra le Comunità e gli Stati membri viene effettuata sulla base del principio delle competenze di attribuzione sancito dall’art. 3 C.E.: le Comunità sono competenti soltanto
nell’ambito di quanto espressamente previsto nei Trattati.
Per determinare poi se la competenza conferita dai Trattati alle
Comunità abbia carattere esclusivo o concorrente con quella degli
Stati membri bisognerà guardare al contenuto delle norme (9). Di particolare rilievo e a questo riguardo l’art. 236 C.E. di cui viene fatto un
uso estensivo – il quale supera la eventuale mancata attribuzione esplicita di poteri d’azione alla Comunità in un settore specifico conferendo al Consiglio un generale potere di adottare tutte le azioni che risultano necessarie “per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità”.
Il Trattato di Maastricht ha inserito nel Trattato C.E. l’art. 3B che
introduce formalmente il principio della sussidiarietà che concerne
proprio la ripartizione delle competenze tra la Comunità e gli Stati
membri.
In base a tale principio, al quale a dire il vero le Istituzioni comunitarie si sono sempre ispirate, le Istituzioni comunitarie possono
agire solo quando l’intervento della Comunità appare indispensabile,
altrimenti sono gli Stati membri a dovere adottare tutte le misure
necessarie per il perseguimento dei fini del Trattato.
Consegue da quanto precede che quando la competenza della
Comunità è esclusiva l’azione da parte delle Istituzioni comunitarie
non potrà che essere necessaria. Quando invece la competenza è
(8) v. SANTAMARIA, Diritto commerciale comunitario, Milano, 1995, pp. 3 e ss.
(9) Un’elencazione delle materie nelle quali la Comunità Europea ha competenza
esclusiva e di quelle nelle quali ha invece competenza concorrente si trova in TESAURO “Diritto Comunitario”, Padova, 1995 pp. 72 e ss. La Comunità ha competenza esclusiva in materia di agricoltura, trasporti commerciali con i Paesi terzi e nelle materie
relative alle quattro libertà fondamentali (libertà di circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali), mentre la competenza è concorrente ad esempio nel
campo della politica economica e monetaria, della politica sociale oltreché nei casi di
cui all’art. 100 C.E.
172
concorrente la Comunità dovrà, in applicazione del principio della
sussidiarietà, valutare per caso la necessità o meno di un suo intervento (10).
Quel che rileva ai fini del nostro esame è che si possono creare
situazioni di conflitto tra i due ordinamenti, quello comunitario e
quello nazionale, sia quando norme nazionali regolano materie nelle
quali la Comunità ha competenza esclusiva, come pure quando, nelle
materie nelle quali la competenza è concorrente, norme nazionali
sono in contrasto con le norme comunitarie (11). Le delicate questioni che tali situazioni determinano hanno dato luogo a una rilevante
giurisprudenza che esamineremo qui di seguito.
II) L’evoluzione del diritto comunitario attraverso il procedimento del
rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
I Trattati istitutivi delle Comunità non contengono una disciplina
completa capace di regolare tutte le fattispecie che possono essere sottoposte alla Corte di Giustizia, talché questa per risolvere queste questioni
fa riferimento ai principi comuni del diritto interno degli Stati membri.
Con questo procedimento la Corte finisce con il creare norme giuridiche necessarie per lo svolgimento della sua attività nell’ambito
delle competenze che le sono state conferite dai Trattati.
Questa funzione della Corte quale creatrice di diritto costituisce
una peculiarità dell’ordinamento comunitario particolarmente significativa. È infatti generalmente riconosciuto che tale funzione della
Corte ha determinato in maniera particolare l’evoluzione del diritto
comunitario (12).
Tale attività della Corte viene svolta in particolare nell’ambito
(10) In particolare, in ogni atto comunitario emanato in applicazione del principio della sussidiarietà, dovrebbe essere precisata la ragione in base alla quale si ritiene
che l’intervento della Comunità sia indispensabile.
(11) Ad esempio una legge nazionale con una direttiva emanata sulla stessa materia dalla comunità.
(12) Nonostante l’attività creatrice di diritto della Corte sia confinata entro l’ambito di interpretazione dei Trattati, essa si è spesso spinta fino ad incidere sull’attività
delle istituzioni, contribuendo quindi all’elaborazione del diritto europeo. Sul punto v.
CAPOTORTI, “Il diritto comunitario non scritto”, in Diritto Comunitario, 1983, pp. 409
e ss.
173
delle competenze che le sono attribuite ai sensi dell’art. 177 C.E. il cui
testo è il seguente:
“La corte di Giustizia è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale,
a) sull’interpretazione del presente Trattato;
b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità e della B.C.E.;
c) sull’interpretazione degli statuti degli organismi creati con atto del
Consiglio, quanto sia previsto dagli statuti stessi;
Quando una questione del genere è sollevata davanti a una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi
necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto,
domandare alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla questione.
Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non
possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di Giustizia”.
Questa competenza della Corte di Giustizia in materia di giurisdizione non contenziosa (13) verte sulla interpretazione delle norme del
diritto comunitario (14) e sulla validità degli atti emanati dalle Istituzioni comunitarie.
Si tratta di una competenza a carattere esclusivo intesa ad evitare
che le norme comunitarie vengano interpretate in maniera diversa
all’interno della Comunità in modo da garantire l’uniforme applicazione delle norme comunitarie in tutta l’area comunitaria.
(13) La Corte di Giustizia ha anche una giurisdizione contenziosa in quanto è
competente a dirimere le controversie concernenti: a) i comportamenti degli Stati
membri (art. 169 C.E.); b) la legittimità degli atti delle Istituzioni comunitarie (art.
173 C.E.); c) il comportamento omissivo delle Istituzioni comunitarie (i c.d. ricorsi in
carenza) (art. 175 C.E.); d) la responsabilità della Comunità (art.1 78 C.E.); e) dispute
tra Stati membri rimesse alla Corte in virtù di compromesso (art. 182 C.E.); f) qualsiasi disputa tra la Comunità ed i suoi agenti (art. 179 C.E.); g) la Banca Europea per
gli Investimenti (art. 180 C.E.). Inoltre, in base a numerosi regolamenti, la Corte è
competente a dirimere controversie relative a sanzioni irrogate dalle istituzioni comunitarie.
(14) La Corte può interpretare, oltre agli atti della Commissione e del Consiglio e
alle norme dei Trattati, anche le proprie sentenze data la loro particolare efficaca che
secondo alcuni le potrebbe far considerare come aventi efficacia erga omnes. La particolare efficacia delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia è stata riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 113 del 23 aprile 1985 di cui parleremo di seguito (v. infra p. 25).
174
Attraverso l’esercizio di questa competenza la Corte determina
infatti la portata ed il significato con i quali le norme comunitarie
entrano a far parte degli ordinamenti interni degli Stati membri.
L’applicazione delle norme comunitarie all’interno degli ordinamenti nazionali compete ai Giudici nazionali (15) i quali proprio
per questo sono stati definiti primi Giudici comunitari. Nel caso
delle Comunità assume una rilevanza del tutto particolare la necessità che i Giudici nazionali dei vari Stati membri non applichino le
norme comunitarie in maniera difforme e ciò in considerazione dei
particolari rapporti che i Trattati hanno inteso creare tra gli Stati
membri. Se per esempio le norme sulla concorrenza, i famosi artt.
85 e 86 C.E., fossero applicati in maniera diversa da Stato a Stato
si potrebbero verificare delle distorsioni alla concorrenza all’interno del Mercato Unico e addirittura si potrebbero alterare i flussi
dei capitali verso i vari Stati perché le imprese potrebbero trovare
più conveniente insediarsi in uno Stato nel quale l’Autorità Giudiziaria fa un’applicazione meno rigida delle norme antitrust comunitarie.
Si tratta dunque di una competenza meramente interpretativa che
non comprende la possibilità di esaminare la compatibilità di una
norma nazionale con il Trattato o con gli atti delle Istituzioni comunitarie (16).
– Sono i Giudici nazionali a dover valutare la rilevanza della questione di interpretazione del Trattato o delle norme da questo derivate
ai fini di decidere nel caso concreto ed anzi, come la Corte ha avuto
modo di chiarire (17), i Giudici nazionali possono adire la Corte per
(15) La Corte di Giustizia effettua una forma indiretta di controllo sull’applicazione delle norme comunitarie da parte dei Giudici nazionali nell’esercizio delle competenze di cui agli artt. 169 e 170 del Trattato C.E. L’applicazione non corretta delle
norme comunitarie da parte dei Giudici nazionali fa infatti sorgere una responsabilità
dello Stato cui appartengono i Giudici nazionali in questione.
(16) Il principio è stato affermato dalla Corte di Giustizia già con sentenza Costa
in causa 6/64 del 15 luglio 1964: “la Corte non può applicare il Trattato a un caso determinato, né statuire sulla compatibilità di una norma giuridica interna con il Trattato stesso...”. Sta peraltro di fatto che la Corte raggiunge egualmente tale risultato riconoscendosi competente a “fornire al Giudice Nazionale tutti gli elementi d’interpretazione,
che rientrano nel diritto comunitario, atti a consentirgli di pronunciarsi sulla compatibilità di dette norme con la norma comunitaria di cui trattasi” (sentenza della Corte di
Giustizia del 29 giugno 1978 in causa 154/77 nel caso Dechmann).
(17) Sentenza della Corte di Giustizia del 16 giugno 1981 in causa 126/80 nel caso
Solonia).
175
ottenere una pronuncia interpretativa anche indipendentemente dal
fatto che siano state le parti a sollevarla.
Il Giudice nazionale è quindi arbitro di valutare la rilevanza della
questione interpretativa ai fini del decidere e sulla base di questa sua
valutazione opererà o meno un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
La libertà del Giudice nazionale di decidere se operare o meno il
rinvio non è sostanzialmente limitata nemmeno per i Giudici di ultima istanza: questi infatti secondo l’art. 177 sono tenuti ad operare il
rinvio, ma tale obbligo è subordinato all’esistenza di una “questione”
sulla interpretazione della norma da applicare al caso di specie. Ebbene quando non vi è dubbio sulla norma da interpretare viene meno
anche l’obbligo di rivolgersi alla Corte (18).
D’altra parte, il Giudice nazionale è libero di operare un rinvio
pregiudiziale alla Corte anche qualora essa abbia già risolto in precedenza la questione interpretativa. L’autorità della sentenza della
Corte, infatti, è limitata al caso di specie, tuttavia in difetto di elementi nuovi, la Corte si limita ad effettuare un rinvio alla sua precedente pronuncia così dimostrando un orientamento favorevole ad
assegnare alla sentenza interpretativa una efficacia che trascende la
specifica controversia pendente davanti al Giudice nazionale che ha
adito la Corte (19).
– Oltre che sulla interpretazione delle norme comunitarie l’art.
177 conferisce alla Corte anche una competenza relativa alla validità
degli atti delle Istituzioni.
Questa competenza differisce da quella di carattere generale stabilita dall’art. 173 C.E. in quanto concerne la possibilità di far valutare nel corso di un giudizio davanti al Giudice nazionale la validità di
un atto delle Istituzioni anche in assenza dei presupposti di applicazione dell’art. 173. In questo caso però la Corte di Giustizia non annulla l’atto ma si limita a dichiararne l’invalidità in relazione al caso di
specie. Il destinatario della sentenza di accertamento della invalidità
dell’atto comunitario e il Giudice nazionale che si è rivolto alla Corte
di Giustizia, ma tale sentenza costituisce un precedente anche per
(18) La ripartizione di competenza tra Giudici nazionali (cui compete l’applicazione) e Corte di Giustizia (esclusivamente competente per la interpretazione) si è
andata via via attenuando in quanto è in atto una tendenza della Corte ad entrare nella
decisione del caso singolo. Sul punto v. POCAR, op. cit., p. 363.
(19) Sentenza della Corte di Giustizia del 27 marzo 1963 in causa 28/62.
176
qualsiasi altro Giudice nazionale che volesse considerare l’atto non
valido (20).
È aperta la questione se anche la Corte Costituzionale sia tenuta,
in quanto Giudice nazionale di ultima istanza, ad operare il rinvio alla
Corte di Giustizia. Sembrerebbe infatti che in base al sistema la Corte
Costituzionale dovrebbe rivolgersi alla Corte di Giustizia quando si
discuta della legittimità costituzionale di una norma comunitaria
immessa nell’ordinamento interno in virtù dell’ordine di esecuzione,
ma la Corte Costituzionale non ha ritenuto sino ad ora di rivolgersi
alla Corte di Giustizia in via pregiudiziale (21).
Nei casi in cui veniva sostenuta l’illegittimità costituzionale di una
norma interna per violazione di una norma comunitaria, la Corte (che
necessitava di chiarimenti sulla portata della norma comunitaria) non
ha richiesto il rinvio alla Corte, ma ha restituito gli atti al Giudice a
quo perché riconsiderasse la questione operando lui, se del caso, il rinvio alla Corte di Giustizia.
– La sentenza con la quale la Corte si pronuncia in via interpretativa obbliga lo Stato cui appartiene il Giudice nazionale richiedente e
lo stesso Giudice ad uniformarsi nella decisione del caso concreto al
principio affermato dalla Corte. Tale obbligo sussiste anche nel caso in
cui la controversia abbia per oggetto rapporti giuridici sorti o costituiti prima della sentenza interpretativa.
In questo senso si è espressa chiaramente la Corte la quale ha
affermato che la sua interpretazione resa ai sensi dell’art. 177 C.E.
“chiarisce e precisa, quando ve ne sia il bisogno, il significato e la portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto essere interessa ed
applicata dal momento della sua entrata in vigore”. Ne risulta che la
norma così interpretata può, e deve, essere applicata dal Giudice
anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza
interpretativa (22).
Nella causa Defrenne (23) la Corte ha stabilito una importante
(20) Sentenza della Corte di Giustizia del 13 maggio 1981 in causa 66/80.
(21) Sull’obbligo della Corte Costituzionale di operare il rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia ex art. 177, terzo comma C.E., v. F. SORRENTINO, “Corte di Giustizia e Corte Costituzionale”, Milano, 1970, pp. 127 e ss.
(22) Sentenze della Corte di Giustizia del 27 marzo 1980 in causa 61/79 nel caso
Denkavit e del 10 giugno 1980 in causa 811/79 nel caso Ariete.
(23) Sentenza della Corte di Giustizia dell’8 aprile 1976 in causa 43/75 nel caso
Defrenne. Il quesito sottoposto alla Corte di Giustizia concerneva l’applicabilità diretta o meno dell’art. 110 C.E. che stabilisce “l’applicazione del principio della parità
177
eccezione a questo principio prevedendo la possibilità, in via eccezionale, che la sentenza abbia efficacia ex nunc anziché ex tunc e ciò in
considerazione dei gravi sconvolgimenti che la sentenza potrebbe provocare nei rapporti giuridici stabiliti in buona fede nel passato (24),
– La Corte di Giustizia ha fatto un uso molto importante di questa
competenza interpretativa in via pregiudiziale tant’e vero che i passi più
significativi dello sviluppo dell’ordinamento comunitario sono stati
segnati proprio da sentenze della Corte di Giustizia rese ex art. 177 C.E..
– Conscia della rilevante funzione esplicata da quella norma la
Corte di Giustizia ha in passato incentivato i Giudici nazionali ad effettuare i rinvii in via pregiudiziale. Attualmente la situazione è diversa in
quanto, come vedremo, la Corte non ha più l’interesse di prima essendo ormai riuscita a far affermare con pronunce rese in via pregiudiziale tutta una serie di principi sui quali si basa l’ordinamento comunitario; tra questi rilevano in maniera particolare quello dell’efficacia diretta delle norme comunitarie aventi determinate caratteristiche e quello
della prevalenza o primato del diritto comunitario sul diritto nazionale.
A ciò si aggiunga che l’allargamento della Comunità, nonostante l’istituzione del Tribunale di Primo Grado, ha reso particolarmente oneroso il carico di lavoro della Corte di Giustizia tant’è vero che i tempi
della procedura in via pregiudiziale originariamente di 6 mesi si sono
oggi dilatati sino a 18 mesi. In questa situazione la Corte di Giustizia è
ormai decisamente orientata verso un contenimento dell’utilizzo dello
strumento del rinvio da parte dei Giudici nazionali.
In una recente comunicazione diffusa dalla Corte (25) questa
delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro”. La Corte aveva finito con l’ammettere che “nell’ignoranza del livello complessivo al quale le retribuzioni sarebbero state fissate, considerazioni imprescindibili di
certezza del diritto riguardanti il complesso degli interessi in gioco, tanto pubblici quanto
privati, ostano in modo assoluto a che vengano rimesse in discussione le retribuzioni relative al passato. Di conseguenza l’efficacia diretta dell’art. 119 non può essere fatta valere
a sostegno di rivendicazioni relative a periodi di retribuzione anteriori alla data della presente sentenza, eccezion fatta per i lavoratori che abbiano già promosso una azione giudiziaria o proposto un reclamo equipollente”.
(24) L’attribuzione dell’efficacia “ex tunc” alle sentenze della Corte di Giustizia è
stata oggetto di critiche da parte di alcuni giudici nazionali in quanto tale attribuzione
rischierebbe di pregiudicare il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale v., in tal
senso, Corte Costituzionale, sentenza del 21 aprile 1989 n. 232; Cassazione francese, sentenza del 10 dicembre 1985; Consiglio di Stato francese, sentenza del 13 giugno 1986.
(25) Comunicazione pubblicata sul Bollettino n. 34/96 della Corte di Giustizia e
del Tribunale di Primo Grado, pp. 1 ss.
178
dopo aver ricordato che “l’evoluzione dell’ordinamento giuridico
comunitario è in gran parte frutto della cooperazione instauratasi tra
la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ed i Giudici Nazionali,
nel quadro del procedimento pregiudiziale previsto dall’art. 177 C.E.”
conferma il principio (26) secondo il quale i Giudici di ultima istanza non sono tenuti ad operare il rinvio pregiudiziale su questioni
interpretative quando “esista già una giurisprudenza in materia o
quando la corretta applicazione della norma comunitaria risulti del
tutto chiara” (27), (28).
– La Corte di Giustizia contribuisce all’evoluzione del diritto
comunitario anche attraverso l’espletamento della funzione consultiva
nei confronti delle altre istituzioni comunitarie. Tale funzione, comunque, non ha carattere generale e può essere espletata unicamente in
casi tassativamente previsti dai trattati comunitari. Essa acquista particolare rilevanza in relazione agli accordi internazionali stipulati
dalla Comunità (art. 228 C.E.). Infatti, durante la fase di negoziazione
di un accordo tra le Comunità e uno o più Stati ovvero un’organizzazione internazionale, la Corte di Giustizia può essere chiamata a pronunciarsi circa la compatibilità di tale accordo con le disposizioni del
Trattato C.E. (29).
III) I rapporti tra le norme comunitarie e quelle nazionali.
La specificità delle norme comunitarie, la loro eterogeneità ma
(26) Già affermato nella sentenza del 6 ottobre 1982 in causa 283/81 nel caso
CILFIT.
(27) Nella menzionata sentenza CILFIT la Corte di Giustizia aveva precisato che
l’evidenza della interpretazione della norma deve essere valutata “in funzione delle
caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all’interno della Comunità”.
(28) Nella Comunicazione di cui alla nota 25 che precede la Corte ha colto l’occasione per precisare che per permettere alla Corte di fornire una risposta utile al Giudice nazionale la decisione di rinvio del Giudice nazionale deve contenere: a) un’esposizione degli elementi di diritto eventualmente rilevanti; b) un’esposizione dei motivi che
hanno indotto il Giudice Nazionale a sottoporre la questione alla Corte e, eventualmente, un’esposizione degli argomenti delle parti.
(29) v. BOULOUIS, “La giurisprudence de la Court de Justice des Communautés
européennes relative aux relations extérieurs des Communautés” in “Recueils des Cours,
1978, II, pp. 345 e ss.
179
soprattutto la loro idoneità ad incidere negli ordinamenti nazionali
degli Stati membri senza che peraltro i Trattati chiarissero compiutamente i rapporti tra i due ordinamenti hanno fatto sì che la prima fase
della vita della Comunità sia stata dedicata in maniera assai marcata
alla definizione di tali rapporti.
Le problematiche principali hanno riguardato a) la legittimità
costituzionale dei Trattati istitutivi, b) l’applicabilità diretta o meno di
determinate norme comunitarie, e c) la risoluzione del conflitto tra le
norme comunitarie e le norme statali con esse contrastanti.
a) La legittimità costituzionale dei Trattati.
L’Italia ha dato esecuzione ai Trattati istitutivi delle Comunità
Europee con il procedimento dell’ordine di esecuzione ed in particolare con una legge ordinaria (30).
Questo fatto ha dato luogo ad una vivace discussione ed a sentite
problematiche in quanto il ricorso alla legge ordinaria è sembrato inadeguato per dare attuazione in Italia a norme quali quelle contenute
nei Trattati capaci di avere incidenza su norme contenute nella Costituzione e quindi di rango costituzionale sovraordinato alla legge ordinaria. Da più parti si è fatto rilevare come l’ordine di esecuzione che
ha dato attuazione ai Trattati avrebbe dovuto avere la stessa forma
delle norme su cui andava ad incidere, cioè avrebbe dovuto essere
adottato con legge costituzionale (31).
Poiché l’incidenza delle norme contenute nei Trattati sulle norme
di rango costituzionale era innegabile sono state sviluppate delle tesi
capaci di preservare la legittimità costituzionale della legge che ha
dato esecuzione ai Trattati nonostante la sua natura di legge ordinaria.
Queste tesi si sono basate essenzialmente sugli artt. 10 e 11 della
Costituzione. Alcuni Autori (QUADRI) hanno fatto principalmente
appello all’art. 10 Cost. il quale al suo primo comma stabilisce:”l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
Secondo questa tesi i Trattati internazionali tra i quali vanno sicura-
(30) L. n. 1203 del 14 ottobre 1957.
(31) Cioè adottato con la procedura dell’art. 138 della nostra Carta Costituzionale che prevede maggioranze particolari ed una duplice approvazione a distanza di tre
mesi. Tale procedura all’epoca non è stata adottata dal nostro legislatore anche perché
mancavano le condizioni per potervi fare ricorso.
180
mente annoverati quelli istitutivi delle Comunità Europee dovrebbero essere attuati semplicemente in ossequio alla norma di diritto internazionale
generalmente riconosciuta per la quale pacta sunt senvanda ed, essendo
stati immessi nell’ordinamento in virtù di una norma costituzionale, essi
stessi assumerebbero un rango costituzionale; secondo questa tesi quindi
la forma dell’ordine di esecuzione, non avrebbe alcuna rilevanza.
La tesi maggioritaria che ha finito per essere accolta dalla stessa
Corte Costituzionale si è però basata sull’art. 11 Cost. secondo il quale:
“L’Italia ... consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e
la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Questo articolo, attraverso un processo di dilatazione interpretativa è stato usato per dare legittimità costituzionale alle leggi ordinarie
con le quali si è data esecuzione ai Trattati poiché, come abbiamo
visto, queste contemplano una serie di limitazioni di sovranità, tra le
quali in particolare il fatto di:
a) accettare che fonti di produzione normativa appartenenti ad
ordinamenti esterni acquistino direttamente efficacia giuridica nell’ordinamento italiano, e
b) attribuire alla Corte di Giustizia, organo giudiziario esterno,
competenze di carattere contenzioso che possono incidere addirittura
sui rapporti giuridici dei cittadini degli Stati membri (32).
Si tratta di una soluzione del problema ormai generalmente accettata (33) anche se non esente da critiche in quanto essenzialmente
basata, come si è detto, su una interpretazione estensiva, da alcuni
ritenuta eccessiva, della norma costituzionale che il legislatore costituzionale aveva pensato per organizzazioni internazionali classiche
dirette a favorire la pace, come l’Organizzazione delle Nazioni Unite
(O.N.U.), che ben poco hanno a che vedere con le Comunità caratterizzate da una marcata sovrannazionalità, da un proprio ordinamento giuridico e da finalità di sviluppo economico. Inoltre, si tratta di
un’interpretazione che, attribuendo alle norme comunitarie il rango di
(32) v. CRISAFULLI, “Fonti del Diritto (diritto costituzionale)” in Enciclopedia del
Diritto, p. 941.
(33) Già nel 1964 la Pretura di Roma (v. ord. dell’11 marzo 1964 in Giustizia Civile, 1964, III; pp. 130 e ss.) affermò che non sussisteva il problema di costituzionalità
della legge ordinaria che aveva dato esecuzione al Trattato C.E.C.A. e ciò in quanto la
C.E.C.A. risultava tra le organizzazioni internazionali di cui all’art. 11 Cost.
181
leggi ordinarie, pone il problema del contrasto di tali norme con leggi
posteriori interne incompatibili (34).
b) L’applicabilità diretta delle norme comunitarie.
L’art. 189 del Trattato C.E. stabilisce che i Regolamenti sono direttamente applicabili in tutti gli Stati membri. II Trattato però non dice molto
di più in merito ai rapporti tra norme comunitarie immediatamente efficaci e norme nazionali. Una certa rilevanza al riguardo assume l’art. 5
C.E. il quale dispone che gli Stati Membri sono tenuti: “ad adottare tutte
le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare la esecuzione
degli obblighi derivanti dal Trattato ovvero determinati dagli atti delle Istituzioni della Comunità” e ad astenersi “da qualsiasi misura che rischi di
compromettere la realizzazione degli scopi del presente Trattato”.
Si tratta peraltro di una norma di principio che pone un generico
obbligo di cooperazione. Le problematiche hanno pertanto avuto una
soluzione soltanto a livello giurisprudenziale in quanto la portata delle
norme dei Trattati aventi efficacia diretta ed immediata come pure
dell’art. 189 C.E. è stata delineata sulla base delle interpretazioni che
di queste norme ha dato la Corte di Giustizia adita in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 177 C.E..
Questa infatti nel 1963 ebbe a pronunciare una fondamentale sentenza (35) nella quale stabilì senza ombra di equivoci che le norme
comunitarie aventi efficacia immediata fossero per loro natura perfettamente atte a “produrre direttamente degli effetti sui rapporti giuridici
intercorrenti tra gli Stati membri ed i loro amministrati” senza richiedere per la loro attuazione “interventi legislativi degli Stati (36). Tale impostazione è ormai accettata non soltanto per le norme dei Trattati ma
anche per i Regolamenti di cui all’art. 189 C.E. (37) talché si può ormai
ritenere definitivamente superata la tesi secondo la quale i Regola-
(34) V. infra par. V.
(35) Sentenza della Corte di Giustizia del 2 maggio 1963 in causa 26/62 nel caso
Van En en Loos
(36) La questione sembra oggi scontata, ma al momento della pronuncia di questa sentenza non lo era affatto. Tant’è vero che gli stati membri intervenuti nel procedimento si erano tenacemente opposti a questa conclusione.
(37) Il che vale per i Regolamenti che contengono norme self-executing cioè con
un contenuto normativo capace di per sé di trovare applicazione all’interno degli Stati
membri. Quando tale carattere mancasse si renderà necessario anche per i regolamenti l’emanazione di atti interni a contenuto amministrativo o normativo per rendere possibile la loro applicazione all’interno degli Stati membri.
182
menti necessitino di atti interni specifici di esecuzione (38), (39), (40).
– Il problema si pone anche con riferimento alle direttive dettagliate cioè a quelle direttive che indicano con precisione il comportamento che lo Stato deve tenere per raggiungere quel determinato risultato voluto dalla direttiva. Se una direttiva di tale fatta non è attuata
nei termini in essa stabiliti i singoli sono portati a far valere davanti ai
Giudici nazionali la diretta applicabilità della direttiva medesima (41).
La questione è stata per lungo tempo dibattuta in quanto, come sappiamo, le direttive hanno come destinatari gli Stati membri. La Corte
Costituzionale ha comunque riconosciuto l’efficacia diretta delle direttive (42) talché allo stato la situazione può così riassumersi:
– le disposizioni provviste di effetto diretto di una direttiva non
trasposta nei termini possono essere fatte valere dal singolo solo nei
confronti dello Stato (43) (e non dei singoli) e ciò perché quello che si
(38) Infatti anche nel caso di Regolamenti che non contenendo norme self-executing rendono necessari atti interni si parla di atti di integrazione dei Regolamenti e non
di atti di esecuzione; sul punto v. POCAR, op. cit., p; 235 ss.
(39) Dal momento che i singoli possono invocare le norme comunitarie davanti al
Giudice nazionale allo scopo di veder censurato il comportamento della Pubblica
Amministrazione che non ha dato attuazione alle norme comunitarie aventi efficacia
diretta la Corte di Giustizia ha conseguentemente stabilito che la norma comunitaria
avente efficacia diretta obbliga alla sua applicazione non soltanto il Giudice nazionale, ma anche tutti gli organi della Pubblica Amministrazione (da quelli centrali a quelli periferici quali le Regioni ed i Comuni). v. sentenza della Corte di Giustizia del 22
giugno 1989 in causa 103/88 nel caso Costanzo.
(40) L’efficacia diretta dei Regolamenti comunitari supera anche il problema della
copertura finanziaria (art. 81 ultimo comma Cost.). Ciò è quanto la Corte di Giustizia
ha espressamente affermato nei confornti dello Stato italiano con riguardo ad un premio di denaro per l’abbattimento di mucche da latte. Nel caso di specie tale premio era
stato rifiutato ad un allevatore con la motivazione che non vi era stato un provvedimento interno in copertura finanziaria. La Corte decise che questo non era un motivo
che potesse far venire meno l’efficacia diretta del Regolamento: “detti Regolamenti attribuiscono il diritto di esigere il pagamento del premio senza che lo Stato membro possa
invocare le proprie leggi o la propria prassi amministrativa per opporsi al pagamento” (sentenza della Corte di Giustizia del 17 maggio 1972 in causa 93/71 nel caso Leonesio).
(41) MORBIDELLI, “Norme di principio e norme di dettaglio nelle direttive comunitarie”, in Giurisprudenza costituzionale, 1986, pp. 1962 e ss.
(42) V. sentenza della Corte Costituzionale n. 168 del 18 aprile 1991.
(43) V. sentenza della Corte Costituzionale del 22 giugno 1989 in causa 103/88 nel
caso F.lli Costanzo nella quale si stabilisce che in tutti i casi in cui talune disposizioni
di una direttiva appaiono, dal punto di vista sostanziale, incondizionatamente e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, tanto se questo non abbia trasposto tempestivamente la direttiva nel
diritto nazionale, quanto se l’abbia trasporta in modo inadeguato.
183
vuole evitare è che lo Stato inadempiente possa opporre ai singoli il
proprio inadempimento (44). Tale limitazione viene definita effetto
diretto verticale.
– Da quanto precede discende che finché una direttiva non è stata
correttamente trasposta lo Stato non può eccepire la tardività di un’azione giudiziaria avviata nei suoi confronti dal singolo al fine della
tutela dei diritti ad esso riconosciuti dalle disposizioni di tale direttiva (45).
È escluso l’effetto diretto orizzontale cioè il fatto che la norma
possa essere fatta valere dal singolo anche nei confronti dei soggetti
privati (persone fisiche e giuridiche) (46) e ciò in quanto la direttiva in
forza di quanto disposto dall’art. 189 C.E. vincola lo Stato cui è rivolta ma non crea obblighi per i singoli.
È stato rilevato al riguardo (47) che questa situazione è capace di
creare discriminazioni in quanto ad esempio una direttiva dettagliata
in materia di lavoro potrà trovare applicazione nei confronti di un
dipendente di un ente pubblico ma non di un dipendente di una
impresa privata.
Inoltre va tenuto presente che secondo la giurisprudenza della Corte
(44) V. sentenza della Corte di Giustizia del 5 aprile 1979 in causa 148/78 nel caso
Ratti nella quale si stabilisce il principio che uno Stato membro non può applicare ai
propri cittadini il proprio diritto nazionale non ancora adeguato ad una direttiva per
la quale è già scaduto il termine di adeguamento “nemmeno se commina sanzioni penali”. Nel caso di specie si verteva in tema di una normativa nazionale che stabiliva per
quanto riguarda la classificazione, l’imballaggio e l’etichettatura dei solventi, condizioni più restrittive di quelle stabilite da una direttiva; v. anche sentenza della Corte di
Giustizia del 19 gennaio 1982 in causa 8/81 nel caso Becker dove con riferimento ad
una direttiva non attuata si afferma che “non si può... negare ai singoli il diritto di far
valere quelle disposizioni che tenendo conto del loro specifico oggetto, sono atte ad essere
isolate dal contesto ed applicate come tali”.
(45) La Corte di Giustizia infatti con sentenza del 25 luglio 1991 in causa C-208/90
nel caso Emmot considerato che “finché la direttiva non è correttamente trasposta nel
diritto nazionale, i singoli non sono stati posti in grado di avere piena conoscenza dei loro
diritti” ha ritenuto che “il diritto comunitario si oppone a che le autorità competenti di
uno Stato membro facciano valere le norme di procedura nazionali relative ai termini di
ricorso nell’ambito di un’azione avviata nei loro confronti da un singolo, innanzi ai Giudici nazionali, al fine della tutela dei diritti direttamente conferiti dalla direttiva... finché
tale Stato membro non abbia trasporto correttamente le disposizioni di tale direttiva nel
suo ordinamento giuridico interno”.
(46) V. sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 1994 in causa n. C-91/92 nel
caso Faccini.
(47) v. TESAURO, op. cit., p. 117.
184
di Giustizia (48) il Giudice nazionale nell’applicare la normativa interna
deve conformarsi alla direttiva (anche se non ancora attuata) il che finisce per conferire alla direttiva anche un effetto diretto orizzontale.
Anche in relazione alle decisioni, la Corte di Giustizia si è pronunciata in senso favorevole alla loro diretta applicabilità, stabilendo
che sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita dall’art.
189 alla decisione di escludere, in generale, la possibilità che l’obbligo
da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati. In particolare, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante decisione, obbligato uno Stato membro o tutti gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero prenderlo in considerazione come norma
di diritto comunitario (49).
Con specifico riferimento alle disposizioni di carattere penale la
giurisprudenza italiana è chiaramente nel senso che in presenza di
una norma dettagliata di una direttiva anche se non attuata, la
norma nazionale contrastante non può essere applicata perché la
prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale, di cui parleremo qui di seguito, fa sì che il fatto non sia più previsto dalla legge
come reato (50).
(48) V. sentenza della Corte di Giustizia del 13 novembre 1990 in causa C-106/89
nel caso Marleasing ove si afferma che il Giudice nazionale deve interpretare il proprio
diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva “onde conseguire il
risultato perseguito da quest’ultima a conformarsi pertanto all’art. 189, terzo comma, del
Trattato”. Con la sentenza del 19 novembre 1991 in causa C-6 e 9/90 nel caso Francovich la Corte ha stabilito anche l’importante principio secondo il quale lo Stato membro “è tenuto a risarcire i danni derivanti ai singoli dalla mancata attuazione della direttiva...” che conferiva diritti ai singoli.
(49) V. sentenza della Corte di Giustizia del 6 ottobre 1970 in causa 9/790 nel caso
Franz Grad.
(50) V. sentenza Pretore di Desio del 15 gennaio 1980, in Riv. It. Dir. Proc. Pen.,
1982, p. 402; nel caso di specie l’imputato non aveva rispettato una normativa nazionale che prevedeva determinati valori per una sostanza chimica da utilizzare in un processo produttivo ed eccepiva che i valori da lui utilizzati erano comunque inferiori a
quelli stabiliti in una direttiva comunitaria non attuata alla quale peraltro egli si era adeguato. Più recentemente il Pretore di Milano con sentenza dell’8 agosto 1994 ha fatto
applicazione del principio stabilito dalla Corte di Giustizia con sentenza dell’11 luglio
1991 nelle cause riunite 87 e 89/90 nel caso Verholemn secondo il quale “... il diritto
comunitario non osta a che il Giudice nazionale valuti d’ufficio la conformità di una normativa nazionale con le disposizioni di una direttiva per la quale scaduto il termine di
attuazione, qualora l’interessato non abbia invocato davanti al Giudice il beneficio di detta
direttiva”. Il caso concerneva la contestazione della accusa relativa al superamento
185
IV) Il primato del diritto comunitario.
Risolto sulla base del richiamo all’art. 11 Cost. il problema della
legittimità costituzionale della legge ordinaria che aveva dato esecuzione ai Trattati affermata la diretta applicabilità delle norme comunitarie aventi un chiaro, preciso ed incondizionato contenuto, rimaneva aperto il problema del rapporto tra due norme, una comunitaria
e l’altra nazionale, confliggenti.
Come abbiamo visto l’ordinamento nazionale e quello comunitario, sono infatti obbligati ad integrarsi in quanto quello nazionale ha
rinunciato alla sua sovranità su alcune determinate materie che ha
lasciato alla disciplina di quello comunitario, mentre quello comunitario, non ha portata generale ma è limitato ad alcune specifiche materie. Il problema del rapporto tra le due normative, eventualmente confliggenti è quindi particolarmente importante e sentito e tocca le fondamenta della costruzione comunitaria.
Va subito detto che il problema è ora risolto dal punto di vista pratico con l’affermazione della prevalenza delle norme comunitarie su
quelle nazionali (51); ciò nondimeno un breve excursus storico relativo alle tappe del cammino percorso dalla Corte di Giustizia e soprattutto dalla Corte Costituzionale italiana per giungere alla attuale posizione appare utile per meglio comprendere le differenze di impostazione che ancora sussistono e rilevano nonostante che allo stato non
si traducano in problematiche di carattere pratico.
– La questione ebbe inizio nel 1964 quando il Giudice Conciliatore di Milano adito dall’Avv. Costa il quale sosteneva la illegittimità
della legge nazionale che aveva nazionalizzato l’E.N.E.L. per contrasto
con le norme dei Trattati istitutivi delle Comunità, sottopose alla Corte
Costituzionale la questione della costituzionalità di tale legge ed alla
dei limiti di accettabilità della tabella 1 allegata alla legge 319/76 per gli scarichi di
acqua della pubblica fognatura nelle acque superficiali”. Il Pretore ha assolto l’imputato perché il fatto non sussiste in quanto ha ritenuto che i campioni prelevati non fossero significativi perché non conformi ad una direttiva comunitaria ancorché non
attuata.
(51) Il principio del primato del diritto comunitario è contrassegnato da caratteri
tutti italiani: italiani sono stati i giudici che hanno operato i rinvii che hanno dato occasione alla Corte di pronunciarsi ed italiano era l’Avvocato Generale della Corte (prof.
Trabucchi) quando si è pronunciata e che ha teorizzato il principio della “primalité” del
diritto comunitario.
186
Corte di Giustizia (in via pregiudiziale) la sua compatibilità con i Trattati. Ebbene la Corte Costituzionale (52) da un lato confermò la legittimità costituzionale della legge ordinaria che aveva dato esecuzione
ai Trattati facendo perno sull’art. 11 della Costituzione, ma dall’altro
negò decisamente la superiorità di tale legge su qualsiasi altra legge
ordinaria. Nel caso quindi di conflitto tra una norma comunitaria
posteriore ed una legge nazionale precedente un tale conflitto poteva
essere facilmente risolto sulla base del principio cronologico secondo
il quale lex posterior derogat priori. Rimaneva peraltro scoperto il caso
opposto, cioè il caso nel quale una legge nazionale posteriore confliggesse con una norma comunitaria precedente; applicando il principio
cronologico a questo caso si arriva al risultato, non compatibile con il
diritto comunitario, che la norma comunitaria possa essere messa nel
nulla da una legge nazionale posteriore (53).
La gravità di questa pronuncia della Corte Costituzionale che in
definitiva metteva in discussione la base stessa della Comunità in
quanto sanciva la legittimità di una qualsiasi legge nazionale che avesse modificato la legge ordinaria con la quale si era data esecuzione ai
Trattati, era acuita dal fatto che la Corte di Giustizia nello stesso caso
si era pronunciata in maniera del tutto opposta (54). La Corte di Giustizia infatti riprendendo delle affermazioni già enunciate nella precedente sentenza Van Gend en Loos, aveva affermato che con il Trattato
istitutivo della Comunità gli Stati membri “hanno limitato, sia pure in
campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creati quindi un complesso di
diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi”, talché gli Stati
non possono “far prevalere contro un ordinamento da essi accettato a
condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il
quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune”. Secondo
la Corte pertanto un tale atto “in quanto incompatibile col sistema della
Comunità sarebbe del tutto privo di efficacia”.
Il contrasto era particolarmente grave e lasciava spazio alla tesi
che la costituzionalità della legge ordinaria che aveva dato esecuzione
ai Trattati fosse quantomeno dubbia.
(52) Sentenza della Corte Costituzionale n. 14 del 7 marzo 1964.
(53) La citata sentenza della Corte Costituzionale suscitò notevoli polemiche in
sede comunitaria che sfociarono nell’interrogazione parlamentare presentata il 22
maggio 1964 al Parlamento Europeo dell’On. Van der Goes Van Naters.
(54) Sentenza della Corte di Giustizia del 15 luglio 1964 in causa 6/64.
187
– Con una successiva sentenza del 1973 nel caso Frontini (55) la
Corte Costituzionale ha invece dichiarato infondata la predetta questione di legittimità costituzionale richiamandosi alla separazione fra
ordinamento comunitario e ordinamento interno. Secondo la Corte
tale separazione risolve il problema in quanto essendo le norme comunitarie emanazione di una fonte di produzione autonoma propria di un
ordinamento diverso da quello interno ad esse non si possono applicare le disposizioni costituzionali che regolano invece l’attività normativa degli organi interni dell’ordinamento nazionale italiano. Con questa
sentenza la Corte Costituzionale escludeva di poter “sindacare singoli
regolamenti, atteso che l’art. 134 della Costituzione riguarda soltanto il
controllo della costituzionalità nei confronti di leggi e atti aventi forza di
legge dello Stato e delle regioni e tali... non sono i regolamenti comunitari”. La Corte coglieva peraltro l’occasione per confermare il suo sindacato giurisdizionale sulla “perdurante compatibilità del Trattato” con i
principi fondamentali, sanciti nella nostra Carta Costituzionale, e con
i diritti inalienabili della persona umana. Con questa sentenza la Corte
si dichiarava quindi competente ad intervenire qualora i regolamenti
comunitari contenessero violazioni dei principi fondamentali.
Questa giurisprudenza della Corte Costituzionale, supera il contrasto aperto con la Corte di Giustizia determinato dalla giurisprudenza del caso Costa/E.N.E.L. ma lascia aperta la porta alla possibilità
di dichiarare venuta meno la compatibilità dei trattati con l’art. 11
della Costituzione.
– In ogni caso rimaneva da chiarire il problema dei rapporti tra le
norme dei Trattati e le norme da questi derivate con una norma nazionale posteriore con esse confliggente. Nel caso che la norma nazionale
confliggente sia preesistente abbiamo visto che trova applicazione il
principio lex posterior derogat priori; ma che ne è se le norme nazionali sono posteriori?
Abbiamo già visto che se si dovesse applicare lo stesso principio
avrebbe la prevalenza la norma nazionale in quanto le norme comunitarie sono efficaci nel nostro ordinamento grazie ad una legge ordinaria dello Stato italiano.
Dall’esigenza di risolvere questa impasse scaturisce la teorizzazione della prevalenza o primato o supremazia del diritto comunitario
rispetto a quello nazionale.
(55) Sentenza della Corte Costituzionale n. 183 del 27 dicembre 1973.
188
La tesi della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno
con esso incompatibile si fonda in primo luogo sulla giurisprudenza
della Corte di Giustizia che l’aveva affermata sin dal caso Costa/E.N.E.L.
confermandola poi ripetutamente. Secondo la Corte di Giustizia
infatti;
a) “il regolamento ha efficacia diretta ed è perciò atto ad attribuire
dei diritti che i Giudici nazionali debbono tutelare”, e
b) “l’efficacia dei regolamenti, quale la si desume all’art. 189, osta
quindi all’applicazione di qualsiasi provvedimento legislativo, sia pure
posteriore, con essi incompatibile”.
– La Corte Costituzionale non è stata insensibile a queste prese
di posizione della Corte di Giustizia e con la sentenza n. 232 del 1975
ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale per contrasto con i principi sanciti dal Trattato istitutivo a) di norme interne successive
incompatibili con quelle emanate dalle Istituzioni comunitarie,
come pure b) di norme interne di contenuto puramente riproduttivo
di quelle comunitarie: “dato che anche in questo caso esse... comportano la possibilità di differirne l’applicazione in contrasto con l’art.
189, secondo comma del Trattato di Roma, e hanno l’effetto di sottrarne la interpretazione in via definitiva alla Corte di Giustizia delle
Comunità Europee”.
Nella stessa sentenza però la Corte Costituzionale affermava chiaramente che trovandosi di fronte norme interne incompatibili con
quelle comunitarie il Giudice nazionale non aveva il potere di disapplicarle “nel presupposto di una generale prevalenza del diritto comunitaro sul diritto dello Stato”, ma era tenuto a sollevare la questione della
loro legittimità costituzionale (56).
Questa giurisprudenza della Corte Costituzionale da un lato costitutiva un rilevante passo avanti in quanto di fatto finiva con l’attribuire rango costituzionale alle norme comunitarie dal momento che le
norme interne con esse incompatibili vengano dichiarate incostituzionali perché in contrasto con l’art. 11 Cost.; dall’altro poneva il problema della necessità stabilita dalla Corte Costituzionale per il Giudice
ordinario di sollevare “la questione della legittimità costituzionale” delle
norme nazionali confliggenti con quelle comunitarie poiché non pote-
(56) Lo stesso orientamento era stato seguito dalla Corte Costituzionale nelle successive sentenze n. 205 del 28 luglio 1976 e n. 163 del 29 dicembre 1977 nelle quali era
stata ribadita la necessità di una dichiarazione di inconstituzionalità per poter disapplicare norme italiane incompatibili con precedenti norme di origine comunitaria).
189
va procedere direttamente alla disapplicazione della norma nazionale
incompatibile con quella comunitaria.
In tal modo il problema di un’applicazione differita del Regolamento comunitario cui pure la Corte Costituzionale si era dimostrata
sensibile ritornava d’attualità dati i tempi necessari per ottenere la
pronunzia della Corte Costituzionale. Si trattava ancora una volta di
una situazione che si poneva in contrasto con l’art. 189 C.E. il quale,
come abbiamo visto, stabilisce l’efficacia diretta dei regolamenti in
tutta l’area comunitaria fin dal momento della sua entrata in vigore.
– Ancora una volta quindi è dovuta intervenire la Corte di Giustizia che nel 1978 con una sentenza rimasta famosa nel caso Simmenthal (57) ha stabilito:
a) che l’applicabilità diretta del diritto comunitario comporta che
le sue norme debbano esplicare pienamente i loro effetti in maniera
uniforme in tutti gli Stati membri;
b) che in forza del principio della preminenza del diritto comunitario le disposizioni comunitarie direttamente applicabili hanno l’effetto nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri i) di rendere “ipso-jure” inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante della
legge nazionale preesistente ed anche ii) “in quanto dette disposizioni
e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle
norme interne dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi
nazionali” incompatibili con norme comunitarie;
c) che il Giudice nazionale, il quale nell’ambito della propria competenza deve applicare le disposizioni del diritto comunitario, “ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando, all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante delle
legislazioni nazionali, anche posteriori, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro
procedimento costituzionale” (58).
Questa sentenza della Corte di Giustizia che ha stabilito l’effetto c.d.
“set aside” per le norme nazionali confliggenti non è stata esente da critiche in quanto – si è fatto rilevare – con essa la Corte ha esorbitato dalle sue
(57) Sentenza della Corte di Giustizia del 3 settembre 1978 causa 106/77 nel caso
Simmenthal.
(58) La menzionata tesi della Corte di Giustizia si basava sul presupposto che le
norme interne successive incompatibili si sarebbeo “non validamente formate” e quindi dovevano essere disapplicate in favore di quelle comunitarie.
190
competenze dal momento che sono gli Stati membri a dover stabilire come
assicurare la diretta applicabilità delle norme comunitarie salvo poi
risponderne ai sensi dell’art. 169 C.E. per violazione degli artt. 5 e 189 C.E.
Comunque sia sta di fatto che con la sentenza Simmenthal la
Corte di Giustizia ancora una volta aveva raggiunto il suo scopo.
La Corte Costituzionale infatti mutò la propria posizione con la
sentenza n. 170 del 1984 (59) nella quale riconobbe che “nella materia
riservata alla sfera di competenza della Comunità il Giudice Ordinario
deve egli stesso provvedere ad assicurare la piena e continua osservanza
alle norme comunitarie direttamente applicabili... senza tenere conto
delle leggi nazionali, anteriori o successive eventualmente confliggenti e
senza quindi che sia necessario rivolgersi alla Corte Costituzionale per
far dichiarare l’illegittimità costituzionale di tali leggi”.
In sintesi la base del ragionamento giuridico della Corte Costituzionale può così riassumersi: quando il Giudice nazionale deve fare
applicazione di norme comunitarie deve riferirsi alle sole norme
comunitarie e non deve tenere conto di eventuali norme nazionali in
quanto la materia è di competenza dell’ordinamento comunitario che
è separato per quanto coordinato con quello nazionale. Tale orientamento fu poi confermato in una successiva sentenza (60), nella quale
la Corte ne estese l’ambito di applicazione affermando: “il principio
della prevalenza del diritto comunitario sulle leggi ordinarie dello Stato
vale non solo per la disciplina prodotta mediante regolamenti, ma anche
per le statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di
Giustizia”.
– Il principio del primato del diritto comunitario nel caso di
norme NON DIRETTAMENTE APPLICABILI, si traduce nell’obbligo
dello stato membro di porre in essere una normativa conforme agli
obblighi comunitari.
– Questa giurisprudenza della Corte Costituzionale definisce (61)
(59) Sentenza della Corte Costituzionale n. 170 dell’8 giugno 1984 nel caso Granital.
(60) Sentenza della Corte Costituzionale del 23 aprile 1985 n. 113 nel caso
B.E.C.A.
(61) Interessante la tesi sostenuta dal Governo italiano davanti alla Corte di Giustizia nella causa Commissione c. Repubblica Italiana n. 20/86 concernente una procedura di infrazione promossa dalla Commissione contro l’Italia per essere venuta meno
agli obblighi degli artt. 48, 52 e 59 C.E. avendo mantenuto in vigore disposizioni
nazionali con esse incompatibili. Il governo italiano ha sostenuto che data la diretta
applicabilità di tali norme comunitarie non era necessario abrogare quelle interne
191
in maniera soddisfacente per l’ordinamento comunitario questa tormentata materia dei suoi rapporti con il diritto nazionale (62).
– Un’autorevole dottrina (CONFORTI, POCAR) ha peraltro fatto
notare che allo stesso risultato si può arrivare anche semplicemente
applicando il criterio della specialità: le norme comunitarie rivestirebbero tale carattere in quanto è speciale l’atto normativo in base al
quale esse sono inserite nell’ordinamento interno.
Se pertanto le norme comunitarie sono speciali, come tali esse
vengono ad essere sottratte alle comuni regole sulla successione delle
leggi nel tempo (criterio cronologico) in base al principio per cui la
legge posteriore generale non deroga a quella precedente speciale.
L’applicazione della legge speciale è compito del Giudice, talché
non si preveda il problema del controllo di costituzionalità che resterebbe per l’ipotesi residua che il legislatore nazionale manifestasse la
deliberata volontà di porre norme contrarie all’ordinamento comunitario. Tale tesi, comunque, non è facilmente conciliabile con la menzionata pronunzia della Corte di Giustizia nel caso 20/86 secondo la
quale vi sarebbe un obbligo dello Stato membro di abrogare la normativa nazionale confliggente con quella comunitaria.
Questa estensione del principio del primato alle sentenze, interpretative della Corte di Giustizia, alla quale quindi anche la Corte Costituzionale riconosce la natura di creatrice di diritto, permette al Giudice nazio-
incompatibili in quanto le prime sono prevalenti. La Corte non ha accolto questa difesa del Governo Italiano sostenendo che “la facoltà degli amministrati di far valere davanti ai Giudici nazionali disposizioni del Trattato direttamente applicabili costituisce una
garanzia minima e non è di per sé sufficiente ad assicurare la piena applicazione del Trattato”. Questo perché la Corte vuole dare certezza al diritto comunitario di modo che i
singoli siano non solo i formali destinatari ma anche i sostanziali beneficiari del sistema giuridico comunitario.
(62) Con la sentenza Factortrame (sentenza della Corte di Giustizia del 19 giugno
1990 in causa C-213/89), la Corte ha stabilito una ulteriore conseguenza del primato
del diritto comunitario e cioè che una norma nazionale che impedisse l’adozione di un
provvedimento provvisorio sarebbe illecita. La Corte ha infatti affermato: “la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe del pari ridotta se una norma di diritto nazionale
potesse impedire al Giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto
comunitario di concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronunzia giurisdizionale sulla esistenza di diritti invocati in forza del diritto
comunitario. Ne consegue che in una situazione del genere il Giudice è tenuto a disapplicare la norma di diritto nazionale che sola osti alla concessione di provvedimenti provvisori”.
192
nale di tenere conto di tutto l’insieme del diritto comunitario nella applicazione di questo in luogo delle norme nazionali con esso contrastanti.
V) La diversa prospettiva della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale.
Il lungo travaglio della Corte Costituzionale italiana ha alla fine
condotta ad un risultato che dal punto di vista pratico non differisce
sostanzialmente da quello cui era giunta la Corte di Giustizia sin dal
lontano 1964 con la sentenza Costa.
Rimangono peraltro fondamentalmente diversi i metodi per giungere a questo risultato e le conseguenze che le due Corti attribuiscono
a tale risultato.
La Corte Costituzionale tende infatti ad accentuare la distinzione tra
i due ordinamenti e fonda anzi le sue decisioni sulla separazione tra i due
ordinamenti, mentre la Corte di Giustizia sottolinea l’integrazione tra i
due ordinamenti ed il rango privilegiato che in questo sistema rivestirebbero le norme comunitarie rispetto a quelle nazionali (63). In particolare,
mentre la Corte Costituzionale basa la sua impostazione sulla valenza
costituzionale della legge di esecuzione dei Trattati quasi da evidenziare
l’origine nazionale della forza di cui sono dotate le norme comunitarie e la
conseguente possibilità di un ripensamento del legislatore nazionale, la
Corte di Giustizia sottolinea invece che le norme comunitarie di forza propria in virtù della scelta incondizionata, definitiva ed irreversibile operata dagli Stati membri con i Trattati istitutivi delle Comunità (64).
(63) Le divergenze tra i metodi seguiti dalle Corte Costituzionale e dalla Corte di
Giustizia per giungere all’affermazione del primato del diritto comunitario in dottrina
si rispecchiano nella divisione tra i sostenitori della teoria dualista per i quali l’ordinamento comunitario e i singoli stati membri sarebbero due ordinamenti separati che si
coordinano tra loro e i sostenitori della teoria monista per i quali esisterebbe un unico
ordinamento sovranazionale al cui livello inferiore si situano gli Stati membri.
(64) Secondo la Corte di Giustizia la lettera e lo spirito del Trattato rendono
impossibile per gli Stati membri di far prevalere una loro successiva disposizione normativa su un ordinamento accettato da loro su base di reciprocità: “tutti gli Stati hanno
aderito al Trattato alle stesse condizioni definitivamente e senza altre riserve diverse all’infuori di quelle espresse nei protocolli nazionali (sent. della Corte di Giustizia del 22 giugno 1965 nelle cause riunite 9 e 58/65 nel caso San Michele). La Corte di Giustizia
infatti già con la sentenza Costa del 1964 aveva chiaramente affermato: “il diritto derivante dal Trattato, una fonte indipendente di norme, non potrebbe, a causa della sua speciale ed originale natura, essere superata da disposizioni di norme interne, ... senza esse-
193
Anche recentemente (65) la Corte Costituzionale ha riconfermato il
suo orientamento secondo il quale le norme derivanti da atti normativi
della Comunità Europea possono derogare a norme interne di rango costituzionale purché non contenenti principi fondamentali o diritti inalienabili
della persona umana (66). Questa diversità di impostazione pone i presupposti perché si possa riaprire un nuovo conflitto dalle conseguenze imprevedibili e dirompenti. Alcune avvisaglie si sono già viste recentemente nell’ordinamento di un altro Stato membro, la Germania, nel quale, come in
Italia, l’evoluzione del diritto comunitario era stata sofferta e travagliata.
La Corte Costituzionale tedesca ha infatti affermato (67) che gli
atti adottati dalle Istituzioni comunitarie sulla base di un’interpretazione estensiva delle norme dei Trattati non sarebbero efficaci in Germania. Questa sentenza mina alla radice la costruzione comunitaria
che, come abbiamo visto, si basa sul fatto che il diritto comunitario sia
applicato uniformemente in tutto il mercato unico e che soltanto la
Corte di Giustizia possa (artt. 173 e 177 C.E.) pronunciarsi sulla illegittimità di un atto comunitario (68).
re privato del suo carattere di diritto comunitario e senza che si pongano in discussione
le stesse basi legali della Comunità”.
(65) Sentenza della Corte Costituzionale n. 117 del 31 marzo 1994 nella quale la
Corte ha peraltro precisato che le norme di origine comunitaria, pur potendo derogare a norme interne di rango costituzionale, non possono essere qualificate come atti
aventi valore costituzionale alla stregua dell’ordinamento nazionale.
(66) Si tratta, peraltro, di una sentenza che suscita delle perplessità in quanto non
chiarisce chi dovrebbe esercitare il controllo che, in base alla sentenza Frontini del 27
dicembre 1973 esorbiterebbe dalle competenze della Corte Costituzionale.
(67) Sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 12 ottobre 1993; sul punto v.
GAJA, “Introduzione al Diritto Comunitario”, p. 84.
(68) Nella citata Comunicazione del 9 dicembre 1996 (v. supra nota 25) dopo aver
ribadito che la Corte di Giustizia è competente a statuire sulla validità degli atti delle
Istituzioni Comunitarie viene precisato che mentre i Giudici nazionali hanno la possibilità di respingere i motivi di invalidità dedotti dinanzi ad essi, essi debbono sempre
effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia qualora intendano pronunciarsi sulla validità di un atto comunitario (v. sent. della Corte di Giustizia del 22 ottobre 1987 in causa C-314/85 nel caso Foto-Frost) chiarendo nel contempo che ove il Giudice nazionale “nutra gravi perplessità in ordine alla validità di un atto della Comunità
sul quale è fondato un atto interno, può in via eccezionale sospendere temporaneamente
l’applicazione di tale atto e adottare ogni altro provvedimento provvisorio al riguardo. Egli
è tenuto in tal caso, a deferire la questione di validità alla Corte di Giustizia indicando i
motivi per i quali ritiene che l’atto comunitario sia invalido” (v. al riguardo le sentenze
della Corte di Giustizia del 21 febbraio 1991 in cause C-143/88 e C-92/89 nel caso
Zucherfabrik e del 9 novembre 1995 in causa C-465/93 nel caso Atlanta).
194
LA PROTEZIONE DEGLI INTERESSI FINANZIARI
DELLE COMUNITÀ EUROPEE
Relatore:
dott. Alberto PERDUCA
Magistrato fuori del ruolo organico, in servizio presso
Commissione europea-Coordinamento della lotta antifrode, Bruxelles
1. La vocazione internazionale ed organizzata delle frodi al bilancio
comunitario.
Il sistema di protezione degli interessi finanziari comunitari va
considerato come esperienze di contrasto ad un tipo di criminalità
economica con forte vocazione transanazionale, da realizzarsi attraverso una accresciuta integrazione tra gli ordinamenti e gli apparati di
controllo e repressione all’interno dell’U.E..
Si tratta di una esperienza, di settore e in via di affinamento, che
nasce e si sviluppa sulla base del convergente e crescente interesse
degli Stati membri e delle Istituzioni comunitarie a tutelare un bilancio, comune non solo perché alimentato da risorse prodotte nel territorio comunitario ma anche perché strumento fondamentale delle
politiche economiche e sociali dell’U.E..
Il volume e la tipologia del bilancio ne confermano la vulnerabilità alle aggressioni fraudolente e rendono assolutamente evidente la
necessità di risposte coordinate.
Il 18 dicembre 1996 il Parlamento europeo approva per l’esercizio
1997 il bilancio generale dell’U.E. che fissa in oltre 82 miliardi di Ecu
il volume generale delle entrate (cfr. G.U.C.E., L. 144, 14 febbraio
1997).
Meno di due mesi prima, il 24 ottobre 1996 la Corte dei Conti delle
Comunità europee adotta la relazione sull’esercizio finanziario 1995
dove le entrate, superiori ai 75 miliardi di Ecu, risultano esser alimentate per il 19,2% dalle c.d. risorse proprie tradizionali, soprattutto dazi e prelievi agricoli, e per il 52,1% dalla risorsa provenente dall’Iva. Quanto alle spese, esse assorbono oltre 36,5 miliardi di Ecu per
il sostegno della Politica agricola comune e 26,5 miliardi di Ecu per le
azioni strutturali (cfr. G.U.C.E., C. 340, 12 novembre 1996).
195
Secondo l’ultimo rapporto ufficiale europeo l’importo complessivo
delle frodi accertate nel 1995 supera 1 miliardo di Ecu, con un’incidenza sul bilancio comunitario dell’ordine dell’1,4% (v. Commissione
europea, Protezione degli interessi finanziari della Comunità. Lotta contro la frode. Relazione annuale 1995, Bruxelles Lussemburgo, 1996, 8).
La cifra, già di per sé preoccupante, non dà ovviamente un quadro
esauriente del fenomeno che, come per tutte le manifestazioni di
devianza criminale, beneficia di una quota oscura, difficilmente quantificabile ma verosimilmente importante.
Più chiaro, e ragione di allarme ulteriore, è per contro, il progressivo spazio occupato dai casi di frode a dimensione organizzata e
transnazionale.
Induce ad una simile constatazione innazitutto l’analisi di alcuni
dati statistici sempre riferiti al 1995: per le frodi alle entrate, al 2% dei
casi accertati corrisponde il 66% degli importi; e per le frodi alle spese
all’8% dei casi corrisponde il 74% degli importi (v. Commissione europea, cit., 21).
E del resto l’esperienza investigativa, sia essa nazionale o comunitaria, penale o amministrativa, si deve sempre più confrontare con
manovre fraudolente dai profitti illeciti enormi programmate da gruppi dotati di notevoli disponibilità finanziarie, capaci di mobilitare
risorse umane e logistiche notevolissime, collaudati nell’organizzare
molteplici centri di azione nell’Unione al di fuori, nonché pronti a
sfruttare le differenze e financo le incompatibilità esistenti nei diversi
ordinamenti.
Al riguardo il caso del contrabbando di sigarette è illuminante.
Un tempo fenomeno tipicamente italiano, oggi esso sembra investire una parte cospicua dell’U.E.. Secondo un recente (e ritenuto
attendibile) studio della Confederazione europea dei dettaglianti di
tabacco, in Austria e Spagna la quota di mercato occupata dalle sigarette di importazione clandestina è pari al 15%; in Italia all’11,5%; e in
Germania, al 10%.
Del resto proprio per quest’ultimo Paese il ministro dell’Economia
ha dovuto ammettere che il fisco federale nel 1995 a causa del contrabbando di sigarette ha subito perdite per 1 miliardo di marchi (pari
a 500 milioni di Ecu).
L’incremento del volume d’affari delittuoso si accompagna all’infittirsi ed all’incrociarsi delle rotte di transito delle merci, delle transazioni e dei profitti illeciti.
In questa singolare geografia, oltre ai Paesi di destino del tabacco
lavorato, ricorrono pressoché costantemente la Svizzera, i più impor-
196
tanti porti di Belgio, Olanda, non poche Repubbliche dell’Europa
orientale e centrale, Gibilterrra ma anche Andorra, Cipro, le Isole Vergini e le Isole Cayman (v. Parlamento europeo. Commissione di inchiesta sul regime del transito comunitario, Rapporto definitivo e raccomandazioni, Lussemburgo, 1997, vol. I, 67 ss.).
Il contrabbando di sigarette è forse la più emblematica ma di certo
non l’unica forma di frode al bilancio comunitario a privilegiare lo scenario planetario.
Lo stesso vale, infatti, per non poche grandi frodi nel settore dell’esportazione di prodotti agroalimentari che beneficiano di contributi comunitari (le c.d. restituzioni); ed ancora per le frodi all’Iva nelle
transazione intracomunitarie che per loro natura coinvolgono operatori di diversi Paesi.
Di fronte a questo contesto, sempre meno episodico, risulta assiomatica la proposizione che gli Stati da soli non sono in grado di fornire risposte adeguate.
2. La mutua assistenza amministrativa antifrode.
La necessità di un impegno comune per la protezione del bilancio
comunitario è pienamente avvertita dal Trattato sull’Unione europea,
firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992.
L’art. 209 A del Trattato U.E. sancisce al comma 2 che “... gli Stati
membri coordinano l’azione intesa a tutelare gli interessi finanziari
della Comunità contro le frodi. A tal fine essi organizzano, con l’aiuto
della Commissione, una stretta e regolare cooperazione tra i servizi
competenti delle rispettive amministrazioni”.
La disposizione sviluppa, sullo specifico terreno del contrasto alle
frodi al bilancio comunitario, il principio secondo cui spetta agli Stati
il compito di assicurare, con la reciproca collaborazione e con il supporto della Commissione europea, il perseguimento dei fini istituzionali dell’Unione.
Nel diritto comunitario derivato tale generale obbligo antifrode
assume forme di assistenza sia informativa che operativa.
La prima si fonda sulla convinzione che è davvero impensabile e
impraticabile qualsivoglia efficace risposta alle frodi senza disporre di
una rapida circolazione di notizie utili all’interno del territorio dell’U.E..
Così, ad es., ai fini della corretta applicazione della disciplina
comunitaria doganale e della politica agricola, la mutua assistenza
197
amministrativa prevede un articolato sistema di flusso, anche informatizzato, di dati tra gli Stati membri e la Commissione europea (v.
Regolamento (C.E.) n. 515/97 del Consiglio del 13 marzo 1997,
G.U.C.E., L. 8/21, 22 marzo 1997).
Analoghe procedure sono attive per lo scambio di informazioni
sulle transazioni intracomunitarie al fine di contenere i rischi di frode
all’Iva (v. Regolamento (C.E.E.) n. 218/92 del 27 gennaio 1992,
G.U.C.E., L. 24, 1° febbraio 1992).
In questo contesto si inserisce altresì l’obbligo degli Stati membri
di segnalare periodicamente alla Commissione europea i casi di irregolarità o frode che sono stati constatati sul piano amministrativo o
giudiziario nei diversi comparti del bilancio comunitario, come ad es.
nella politica agricola comune (v. Regolamento (C.E.) del Consiglio n.
595/91 del 4 marzo 1991, G.U.C.E., L. 67, 14 marzo 1991), nelle risorse
proprie (v. Regolamento (C.E.E., EURATOM) n. 1552/89 del Consiglio
del 29 maggio 1989, G.U.C.E., L. 155, 7 giugno 1989) e nei fondi strutturali (v. Regolamento (C.E.) n. 1681/94 della Commissione dell’11
luglio 1994, G.U.C.E., L. 178, 12 luglio 1994).
La centralizzazione presso l’Istituzione comunitaria di tutti questi
dati ed il loro esame globale mira, attraverso l’analisi del rischio, all’adozione di misure legislative e di interventi amministrativi più efficaci per la prevenzione e l’accertamento delle frodi nonché per il recupero di quanto indebitamente ottenuto da parte dei frodatori.
Talora, ed è il caso della politica agricola comune finanziata dal
Feoga-garanzia, il flusso di informazioni dagli Stati membri alla Commissione è modellato anche sull’esigenza di individuare tempestivamente gli operatori economici inaffidabili nei cui confronti assumere
iniziative di autotutela a gravità progressiva, quali l’intensificazione
dei controlli, la sospensione dei contributi in corso e financo l’esclusione da quelli futuri (v. Regolamento (C.E.) n. 1469/95 del Consiglio del
22 giugno 1995, G.U.C.E., L. 145, 29 giugno 1995).
Come accennato, insieme a quella informativa, la legislazione
comunitaria conosce altresì una collaborazione operativa tra i servizi
amministrativi antifrode, siano essi nazionali o comunitari.
Così, in materia di politica agricola comune e doganale, si prevedono attività di sorveglianza o di inchiesta da compiersi ad opera delle
autorità di uno Stato su richiesta delle corrispondenti autorità di un
altro Stato con la possibilità che funzionari di quest’ultimo partecipino direttamente alle operazioni (v. Regolamento (C.E.) n. 515/97, cit.).
Quanto ai rapporti tra Commissione europea e Stati membri essi
possono per lo più ricondursi al paradigma della reciprocità.
198
In particolare, per il settore delle risorse proprie, da un lato la
Commissione può partecipare ai controlli effettuati dagli Stati su sua
richiesta e dall’altro questi ultimi assistono l’Istituzione comunitaria
nell’esecuzione delle verifiche che ha disposto in via autonoma (v.
Regolamento (C.E.E., EURATOM) n. 1552/89, cit.).
Regole simili presiedono le inchieste per assicurare la regolarità
delle operazioni finanziate dai fondi di sostegno della politica agricola comune (v. Regolamento (CEE) n. 729/70 del Consiglio del 21 aprile
1970, G.U.C.E., L. 92, 28 aprile 1970).
Il principio di stretta collaborazione tra gli Stati membri e la Commissione europea trova ancora di recente conferma in una prospettiva di migliore definizione e rafforzamento delle competenze antifrode
dell’Istituzione comunitaria.
Più precisamente alla Commissione viene riconosciuto il generale
potere, quando “... sussistano ragioni per ritenere che siano state commesse delle irregolarità...”, di procedere a verifiche sul posto, dentro e
fuori della Comunità, nella misura in cui essa è in grado di fornire un
valore aggiunto all’efficacia investigativa dei singoli servizi nazionali.
E ciò vale innanzitutto per i casi di frode grave, transnazionale ed
organizzata.
Si tratta di un potere che, sebbene di natura amministrativa, riveste notevole ampiezza consentendo esso l’accesso a tutta la documentazione ufficiale concernente le operazioni sospette (, se “strettamente
necessario”, anche presso terzi) nonché il controllo tecnico-fisico delle
operazioni medesime e dei luoghi ove esse si svolgono.
Nel rispetto di quanto affermato dal cit. art. 209 A comma 2 del
Trattato di Maastricht le iniziative della Commissione debbono
comunque essere gestiti d’intesa e con l’assistenza degli Stati membri
(v. Regolamento (EURATOM, C.E.) n. 2185/96 del Consiglio dell’11
novembre 1966, G.U.C.E., L. 292, 15 novembre 1996).
3. La mutua assistenza amministrativa antifrode e la giustizia penale.
La mutua assistenza amministrativa operante in funzione antifrode all’interno dell’Unione merita attenzione anche per le connessioni
che presenta con l’intervento penale.
Da un punto di vista generale essa si rivela quale modello di collaborazione più avanzato rispetto alla cooperazione giudiziaria come
sino ad oggi s’è sviluppata.
La creazione di un quadro normativo comune, la messa in opera
199
di procedure per lo scambio di informazioni, l’adozione di moduli
operativi associati e l’allestimento di strutture comunitarie di supporto, costituiscono gli assi peculiari di una strategia orientata verso il
superamento della frammentarietà delle risposte nazionali.
Tale sistema, oltre che offrire interessanti spunti di riflessione alla
riforma dei meccanismi della cooperazione giudiziaria, da subito può
fornire utili contributi anche al lavoro delle autorità giudiziarie.
I risultati delle inchieste gestite dai servizi nazionali e comunitari
sono naturalmente finalizzati alla verifica di responsabilità d’ordine
amministrativo.
Al riguardo va ricordato che per la tutela degli interessi finanziari
della Comunità europea già esiste un nucleo di diritto sanzionatorio
comunitario che si fa pure carico di tipicizzare un ampio ventaglio di
sanzioni da comminare in caso di accertate irregolarità intenzionali o
colpose.
Si tratta di sanzioni a prevalente contenuto economico che comprendono, tra l’altro, il pagamento di somme di denaro, la perdita
delle garanzie prestate, l’interdizione temporanea o definitiva dai vantaggi previsti dalla normativa comunitaria (v. Regolamento (C.E.
EURATOM) n. 2988/95 del Consiglio del 18 dicembre 1995, G.U.C.E., L.
312, 23 dicembre 1995).
Al riscontro delle condizioni giustificanti l’applicazione di queste
sanzioni sono appunto deputate le inchieste amministrative i cui risultati, peraltro, non si esauriscono necessariamente nell’ambito delle
responsabilità amministrative.
Nel diritto comunitario antifrode non mancano, infatti, i casi in
cui non viene esclusa la possibilità di un travaso degli elementi di
prova raccolti in ambito amministrativo nei procedimenti penali.
Così, ad es., per le informazioni che gli Stati membri si scambiano sulle transazioni intracomunitarie al fine di contenere i rischi di
frode all’Iva è ammessa l’eventualità di un loro utilizzo in procedure
giudiziarie (v. Regolamento (C.E.E.) n. 218/92, cit.).
Analogamente, per i dati comunicati nel quadro della assistenza
tra gli Stati e la Commissione per assicurare la corretta applicazione
della disciplina doganale ed agricola, il carattere riservato dei medesimi non è di ostacolo al loro impiego anche nelle azioni penali intraprese per le violazioni a tale disciplina (v. Regolamento (C.E.) n.
515/97, cit.).
Nel recente riassetto generale delle facoltà di inchiesta della Commissione, inoltre, si prevede esplicitamente che le relazioni sull’attività
svolta, da redigere da parte dei suoi funzionari in conformità alla legi-
200
slazione dello Stato interessato dai controlli, “... costituiscono, alla
stessa stregua ed alle medesime condizioni di quelle predisposte dai
controllori amministrativi nazionali, elementi di prova che possono
essere ammessi nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello
Stato membro in cui risulti necessario utilizzarle...” (v. Regolamento
(EURATOM, C.E.) n. 2185/96 cit.).
Quanto infine alla questione dell’acquisibilità da parte delle giustizie penali delle informazioni che sono nella disponibilità della Commissione, è sufficiente il richiamo alla ordinanza resa il 13 luglio 1990
dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee ove con estrema chiarezza si stabilisce che “... tutte le istituzioni comunitarie ed in particolare la Commissione, cui l’art. 155 del Trattato affida il compito di vigilare sull’applicazione delle disposizioni del Trattato e delle disposizioni adottate dalle Istituzioni in virtù del Trattato stesso, hanno l’obbligo di concorrere attivamente con il giudice nazionale che agisce per
reprimere infrazioni ad una disciplina comunitaria, il quale domandi
comunicazione di elementi informativi relativi alla materialità dei
fatti che costituiscono dette infrazioni, comunicandogli documenti ed
autorizzando i propri dipendenti a deporre come testi nel procedimento nazionale...”.
4. Le iniziative adottate dall’Unione europea per la protezione penale
degli interessi finanziari comunitari.
La risposta penale contro le aggressioni al bilancio comunitario
non rientra a tutt’oggi tra le competenze comunitarie.
La proposizione è in sé controvertibile. E tuttavia non si può ignorare che nell’ambito dell’Unione europea da qualche anno sta crescendo l’attenzione a tale tipo di contrasto nella consapevolezza che esso
debba dispiergarsi in modo quanto più omogeneo e coordinato.
Al di là delle pressanti sollecitazioni di una realtà vieppiù allarmante, tale sensibilità è per così dire un atto dovuto dal punto di vista
giuridico-istituzionale.
L’art. 209 A del Trattato di Maastricht, che al comma 2 obbliga gli
Stati a collaborare tra di loro e con la Commissione, al comma 1 esige
altresì che gli Stati adottino “... per combattere le frodi che ledono gli
interessi finanziari della Comunità, le stesse misure che adottano per
combattere le frodi che ledono i loro interessi finanziari”.
Il dettato normativo, in forza del quale occorre assimilare sul
piano della tutela le risorse finanziarie comunitarie a quelle interne,
201
va poi letto ed integrato con il principio espresso il 21 settembre 1989
dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee secondo cui gli Stati
membri, pur conservando la scelta delle sanzioni, non soltanto “...
devono segnatamente vegliare a che le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura e per importanza...” ma anche assicurare che le sanzioni
abbiano “... un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità
dissuasiva...”.
E va ricordato ancora che la “cooperazione giudiziaria in materia
penale” rientra tra le “questioni di interesse comune” ai sensi del Titolo VI dello stesso Trattato e come tale può costituire oggetto, tra l’altro, di convenzioni elaborate dal Consiglio europeo e raccomandate
per la loro adozione agli Stati membri.
Ed è appunto quanto accade allorché il 26 luglio 1995 i “15” sottoscrivono la Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari
delle Comunità europee (v. G.U.C.E., C. 316, 27 novembre 1995).
L’accordo, estraneo alla sfera del diritto comunitario in senso proprio, necessita della ratifica per entrare in vigore in ciascun ordinamento nazionale ed occorre prendere atto che fino ad ora ciò non è
successo in nessun Stato.
La Convenzione riveste, comunque, un’importanza tutta particolare quale primo e concreto sforzo degli Stati dell’U.E. nel definire una
comune politica criminale antifrode.
Gli impegni assunti dai firmatari investono sia il diritto penale
sostanziale che quello processuale.
Quanto al primo, le Parti contraenti hanno cura di fissare preliminarmente la definizione di “frode che lede gli interessi finanziari
delle Comunità europee”, impegnandosi quindi a prevederla come
reato e a punirla con sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive”
(comprensive della pena detentiva nei casi più gravi).
Sul terreno procedurale, vengono stabiliti omogenei criteri di
determinazione della competenza giurisdizionale nazionale con l’evidente intento di evitare il rischio di vuoti nell’intervento giudiziario
contro le frodi a dimensione transnazionale. Sono confermati i principi del ne bis in idem e dell’aut dedere aut iudicare. Viene esclusa la
possibilità di rifiutare l’estradizione per un atto di frode al bilancio
comunitario “unicamente perché si tratta di un reato in materia di
tasse o di dazi doganali”. Spetta infine agli Stati di cooperare “in modo
effettivo” lungo tutto il procedimento, dalla fase dell’inchiesta a quella dell’esecuzione della pena.
202
La Convenzione è ambiziosa dal momento che disegna un
embrione di diritto penale antifrode europeo.
Nell’attuale carenza di un potere normativo in materia da parte
delle Istituzioni comunitarie, l’obiettivo è perseguito comunque nell’ambito delle finalità tipiche dell’Unione europea, per via pattizia,
assumendosi gli Stati membri l’obbligazione di criminalizzare la frode
secondo criteri comuni e di collaborare per la sua repressione in modo
da ridurre quanto più le incompatibilità tra i sistemi.
La scelta strategica espressa dalla Convenzione viene poi ribadita
dalla elaborazione di atti integrativi, uno dei quali il 27 settembre
1996 si traduce nel primo Protocollo della Convenzione relativa agli
interessi finanziari delle Comunità europee (v. G.U.C.E., C. 313, 23
ottobre 1995).
Il Protocollo, con forza giuridica pari alla Convenzione, muove
dalla constatazione che le risorse comunitarie possono essere offese o
minacciate anche da “...atti di corruzione in cui risultano coinvolti
funzionari sia nazionali che comunitari, responsabili della riscossione, della gestione o della spesa dei fondi... soggetti al loro controllo”.
E nel contempo prende atto che “... il diritto penale di vari Stati membri in materia di reati connessi all’esercizio di funzioni pubbliche in
generale e di corruzione in particolare disciplina soltanto gli atti commessi dai funzionari statali, o in cui essi risultano coinvolti, e non contempla affatto, ovvero soltanto in casi eccezionali, la condotta di funzionari comunitari o funzionari di altri membri...”.
Nell’intento di colmare un simile vuoto di tutela, tanto più grave
se si considera che la corruzione di funzionari anche non appartenenti alle amministrazioni nazionali ricorre in non pochi casi di frode a
dimensione transnazionale, il Protocollo ripropone la tecnica normativa della Convenzione.
Più precisamente obbliga gli Stati membri a prevedere come reato
la corruzione, attiva e passiva, funzionalmente connessa alla lesione,
effettiva od anche solo potenziale, del bilancio comunitario. Del delitto, da punire di nuovo con sanzioni “effettive, proporzionate e dissuasive” (e nei casi gravi privative della libertà), viene offerta una fattispecie incriminatrice-quadro in cui il soggetto punibile è non soltanto
il funzionario nazionale ma anche quello di un altro Stato membro e
comunitario.
Sotto questo profilo il Protocollo, quale concreta e peculiare applicazione del principio di assimilazione sancito dall’art. 209 A comma 1
del Trattato di Maastricht, rappresenta un passo importante verso il
contrasto della corruzione internazionale allorché a livello europeo
203
pone le premesse per l’adozione da parte degli Stati comunitari di
misure repressive armonizzate.
Non a caso sono in corso iniziative per l’adozione di una Convenzione dell’Unione europea volta ad estendere comunitario e contro
ogni forma di corruzione i meccanismi di tutela introdotti dal Protocollo per la specifica protezione delle finanze comunitarie.
5. Le prospettive di collaborazione antifrode tra la Commissione europea
e le autorità giudiziarie nazionali.
I progressi registrati dalla Convenzione del luglio 1995 e dal primo
Protocollo del settembre 1996 potranno essere apprezzati realmente
soltanto allorché l’una e l’altro, a seguito della loro ratifica e recezione
negli ordinamenti degli Stati, diventeranno strumenti operativi utilizzabili dalle giustizie nazionali.
Sin d’ora, peraltro, si può affermare che la firma dei due Accordi costituisce ad un tempo effetto e causa di un interesse, per la questione criminale in genere, e per quella legata alla tutela del bilancio comunitario in
particolare, destinato ad approfondirsi nell’ambito dell’Unione europea.
È innanzitutto prossimo alla approvazione un secondo Protocollo
addizionale alla Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee presentato dalla Commissione europea il
19 gennaio 1996 (v. G.U.C.E., C. 83, 20 marzo 1996).
Sul piano del diritto penale, il Protocollo intende innanzitutto serrare le maglie della rete delle incriminazioni al fine di evitare che le
frodi al bilancio comunitario possano beneficiare di residue zone franche in taluno degli ordinamenti statuali.
In questo senso va letta la prevista obbligazione degli Stati membri di criminalizzare il riciclaggio dei proventi delle frodi quantomeno
gravi e di prevedere forme di responsabilità penale ovvero (se non
compatibile per ragioni d’ordine costituzionale) quasi penale a carico
delle persone giuridiche i cui dirigenti abbiano commesso dei fatti di
frode connessi alla gestione dell’impresa.
Non meno rilievo presentano gli sviluppi d’ordine processuale.
In particolare, posto il principio della doverosa cooperazione degli
Stati, tra di loro e con la Commissione europea, contro la frode nonché la corruzione ed il riciclaggio ad essa connessi, si prevede espressamente che questa Istituzione comunitaria fornisca tutta l’assistenza
tecnica ed operativa necessaria al fine di facilitare le inchieste condotte dalle competenti autorità nazionali.
204
Alla Commissione viene dunque riconosciuto un ruolo di collaborazione attiva anche nei confronti degli apparati di giustizia penale
degli Stati membri.
Tale inserimento della Commissione nel circuito giudiziario merita attenzione sotto molteplici profili.
Da un punto di vista istituzionale, grazie ad esso il complessivo
sistema di contrasto alle frodi contro le finanze della Comunità europea segna una tappa importante nel cammino di avvicinamento tra
istanze penali ed amministrative, nazionali e comunitarie.
Quanto poi ai risultati, è possibile prevedere che la messa a disposizione delle giustizie nazionali dell’esperienza di coordinamento già
maturate dalla Commissione europea nell’ambito della assistenza
amministrativa, del suo patrimonio di informazioni centralizzate nonché delle proprie facoltà di inchiesta dentro e fuori del territorio dell’Unione, contribuisca ad un innalzamento della soglia di efficacia dell’intervento penale soprattutto contro le frodi a dimensione internazionale.
205
IL DIRITTO ALL’EQUO PROCESSO NELLA
GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA
DEI DIRITTI DELL’UOMO
Relatore:
dott.ssa Maria Teresa SARAGNANO
Direttore Ufficio VII D.G.A.P. del Ministero di Grazia e Giustizia
I diritti dell’uomo e la Convenzione europea.
Il rafforzamento dei valori della democrazia ha reso sempre più
centrale il problema dei diritti dell’uomo.
Già la nostra Costituzione all’art. 2 “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove
si svolge la sua personalità”.
In data 4 novembre 1950 veniva firmata a Roma la Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo, entrata, poi, in vigore il 3 settembre 1953.
A differenza di altri atti internazionali in materia la Convenzione
europea non si limita ad elencare i diritti dell’uomo tutelati, ma predispone un controllo giurisdizionale con l’istituzione di una Corte dotata di effettivi poteri, capace cioè di emettere sentenze e di ottenerne l’esecuzione da parte degli Stati cui sono rivolte.
Alla giurisprudenza della Corte viene poi riconosciuto il valore di
fonte legislativa secondaria.
In questo modo spetta alla Corte definire, delimitare, disciplinare
ed interpretare la portata ed il significato dei diritti garantiti dalla
Convenzione.
Partendo poi dal presupposto che la Corte è un tribunale autonomo ed
indipendente dai governi nazionali e che, in quanto tale, è libero di stabilire l’organizzazione e la procedura dei suoi lavori, l’art. 55 della Convenzione recita “la Corte stabilisce il suo regolamento e fissa la sua procedura”.
I titolari del diritto di ricorso.
I soggetti a cui spetta il diritto di ricorso sono:
a) i singoli stati;
b) gli individui.
207
Consideriamo solo quest’ultimo aspetto perché davvero pochissimi
sono stati i ricorsi statuali (si può ricordare il ricorso di alcuni paesi
del nord Europa contro la Grecia dei colonnelli).
Il ricorso individuale non è limitato ai cittadini dei Paesi membri
del Consiglio d’Europa in quanto gli Stati che hanno sottoscritto la
Convenzione europea dei diritti dell’uomo “riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà fondamentali”.
Quindi, benché la competenza della giurisdizione della Corte sia
limitata ai Paesi membri del Consiglio d’Europa, può ricorrere alla
giurisdizione di Strasburgo anche chi, sia pur transitoriamente, ad
esempio un emigrante o addirittura un turista, si trovi in un Paese
europeo.
Non si tratta di mere ipotesi accademiche poiché un numero notevole di ricorsi è già stato presentato da cittadini extraeuropei i cui i
diritti ritenevano fossero stati violati dagli Stati sottoscrittori della
Convenzione.
Per ricorrere alla Corte sono necessarie alcune condizioni.
Secondo l’art. 25, “la Commissione può essere investita di una
domanda indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d’Europa da
ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o gruppo di
privati, che pretenda di essere vittima di una violazione da parte di
una delle Alte Parti Contraenti, dei diritti riconosciuti nella presente
Convenzione...”.
Il primo punto da sottolineare è che la giurisdizione di Strasburgo non comprende i diritti dell’uomo genericamente intesi, bensì solo
quelli garantiti nella Convenzione.
In secondo luogo, non occorre essere vittima di una violazione, ma
è sufficiente che la propria pretesa abbia un fondamento la cui consistenza verrà vagliata proprio al fine di determinare se i diritti del ricorrente siano stati effettivamente lesi.
La giurisprudenza della Commissione e della Corte ha esteso il
concetto di vittima in modo da ricomprendere la c.d. “vittima potenziale”, cioè colui che non ha subito una violazione, ma potrebbe subirla a causa dell’esistenza di una legge in contrasto con la Convenzione e
che lo riguardi in modo effettivo.
A questo proposito si può ricordare il caso di un cittadino britannico, nordirlandese, omosessuale, il quale ricorse contro una legge
consuetudinaria in vigore nell’Irlanda del Nord che puniva con pene da
10 anni all’ergastolo ogni atto di omosessualità anche tra maggiorenni consenzienti.
La Corte, pur avendo constatato che tale norma non trovava appli-
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cazione da più di trent’anni nondimeno verificò la sua vigenza e la
possibilità che venisse davvero applicata, e quindi condannò il Regno
Unito ritenendo il ricorrente vittima potenziale.
La vittima di cui all’art. 25, può anche essere una c.d. “vittima indiretta”, vale a dire colui su cui ricadono le conseguenze della violazione
che ha colpito una persona di famiglia e in quanto tale titolare autonomo della facoltà di ricorso.
Vittima indiretta, ad esempio, può essere il coniuge di una persona
detenuta ingiustamente. Il concetto è stato poi esteso dalla giurisprudenza fino a comprendere i fratelli, i figli e persino i conviventi di un
individuo vittima diretta di una violazione.
La figura della “vittima indiretta” è creazione giurisprudenziale,
quindi non ne esiste una definizione in astratto, ma occorre rifarsi ai
casi concretamente esaminati dalla Commissione e dalla Corte per una
sua individuazione.
Va ancora osservato che vittima può essere non solo una persona
fisica ma anche una organizzazione non governativa o un gruppo di privati.
C’è ancora un punto da sottolineare. Gli Stati che hanno riconosciuto il ricorso individuale “s’impegnano a non ostacolare in alcun
modo l’esercizio di tale diritto”.
L’Accordo europeo del 6 maggio 1969, ratificato con legge 28 aprile
1976 n. 382, stabilisce che siano accordati alle persone che partecipano
alle procedure davanti alla Commissione ed alla Corte europea dei diritti
dell’uomo alcune immunità ed alcune facilitazioni. In particolare l’art. 2
stabilisce che le persone indicate nell’art. 1, tra le quali naturalmente vi è
il ricorrente, “GODRANNO DELL’IMMUNITÀ GIURIDICA RIGUARDO
ALLE LORO DICHIARAZIONI FATTE ORALMENTE O PER ISCRITTO,
COME PURE RIGUARDO A DOCUMENTI ED ALTRI ATTI CHE SOTTOPONGONO ALLA COMMISSIONE O ALLA CORTE”.
Quindi alla luce di tale chiaro dettato normativo non è possibile perseguire penalmente nessuno dei partecipanti alle procedure in oggetto in
ossequio al principio di garantire loro la libertà di parola e l’indipendenza necessari all’adempimento delle loro funzioni, dei loro compiti e dei
loro doveri, o all’esercizio dei loro diritti. In altri termini non sarà possibile esercitare l’azione penale per eventuali reati di calunnia o di diffamazione.
Nell’eventualità, quindi, che in un caso del genere si dia inizio ad un
procedimento penale occorre richiedere subito l’archiviazione o pronunciare sentenza di non luogo a procedere (ed è capitato che un procuratore, al quale era stato inviato il ricorso per le osservazioni del caso, aveva
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ravvisato nei fatti il delitto di calunnia iniziando le relative indagini; la
Commissione aveva immediatamente richiamato l’attenzione sulla palese violazione dell’impegno assunto e la questione si è chiusa con l’invio
a Strasburgo del decreto di archiviazione).
A tale regola si fa eccezione in due soli casi: 1) l’immunità non si
applica, a norma del 2° comma dell’art. 2 cit., per le comunicazioni integrali o parziali fatti fuori della Commissione e della Corte 2) essa può
essere revocata dalla Commissione e dalla Corte in tutti i casi in cui, a
loro avviso, questa ostacolerebbe il corso della giustizia e deve essere
revocata se una Parte Contraente certifica che la revoca è necessaria ai
fini di un’azione penale per attentato alla sicurezza dello Stato (art. 5).
La Commissione europea dei Diritti dell’Uomo.
A) Natura e composizione.
La Commissione europea dei Diritti dell’Uomo è stata istituita “al
fine di assicurare il rispetto degli impegni risultanti dalla presente Convenzione per le Alte Parti Contraenti”(art. 19).
Secondo l’art. 20, “la Commissione non può comprendere più di un
cittadino dello stesso Stato”. Ciò significa che il numero dei componenti della Commissione si è ampliato ogniqualvolta un nuovo Stato ha
aderito alla Convenzione.
L’art. 21 stabilisce il modo di elezione della Commissione. I suoi
membri “sono eletti dal Comitato dei Ministri a maggioranza assoluta
dei voti. Ogni rappresentante delle Alti Parti Contraenti alla Assemblea
Consultiva presenta tre candidati, almeno due dei quali devono essere
della sua nazionalità.
Il Comitato dei Ministri, cui compete l’elezione dei membri della
Commissione, è composto dai Ministri degli Esteri dei paesi membri
del Consiglio d’Europa o dai loro rappresentanti permanenti a Strasburgo.
Secondo l’art. 23, “i membri della Commissione partecipano ad
essa a titolo personale”. I commissari quindi godono di assoluta indipendenza ed autonomia, non rappresentano in alcun modo lo Stato di
cui sono cittadini, né ad esso può essere attribuita alcuna delle decisioni ed opinioni da essi assunte ed espresse.
Per i giudici è prevista una norma più rigida che consiste nel prestare un giuramento di indipendenza totale, effettuato al momento
dell’assunzione delle funzioni. Il giuramento non è invece previsto per
210
i commissari in considerazioni della natura “mista”, cioè non esclusivamente giurisdizionale della loro attività.
B) Funzioni.
Alla Commissione possono giungere, come si è detto, tanto ricorsi
individuali quanto Interstatali.
Quando un ricorso giunge alla Commissione, questa esprime un
giudizio di ricevibilità agendo come organo giurisdizionale. Tale giudizio viene preso a porte chiuse, dal momento che, come regola generale, “la Commissione si riunisce a porte chiuse” (art. 33).
I casi di ricevibilità sono regolati dall’art. 27 della Convenzione.
Secondo il primo comma, la Commissione non ritiene alcuna domanda avanzata sulla base dell’art. 25 quando tale domanda “è anonima”
oppure “è essenzialmente la stessa di una precedentemente esaminata
dalla Commissione o già sottoposta ad un’altra istanza internazionale
d’inchiesta o di regolamentazione e non contiene fatti nuovi”.
Quindi il ricorso deve essere sempre ed obbligatoriamente sottoscritto.
Inoltre ai sensi dell’art. 27, secondo comma, “la Commissione
dichiara irricevibile ogni domanda avanzata sulla base dell’art. 25
quand’essa giudichi tale domanda incompatibile con le disposizioni
della presente Convenzione, manifestamente infondata o abusiva”.
L’incompatibilità di un ricorso con la Convenzione è determinata
dal fatto che esso si riferisca alla violazione di un diritto non tutelato
nelle sue disposizioni. La non manifesta infondatezza od abusività di
un ricorso deriva da un esame preliminare che permette di ravvisare
l’esistenza di un qualche sostegno a favore della tesi del ricorrente.
Così, per quanto attiene incompatibilità, va qui ricordato al primo
profilo di che è giurisprudenza costante che le questioni relative all’accesso a pubblici incarichi (ad es. partecipazioni ad un concorso pubblico per un posto di professore di una scuola pubblica) non comportano la determinazione di diritti ed obbligazioni di carattere civile ai
sensi dell’art. 6 della Convenzione. Ancora la Commissione ha costantemente affermato che le questioni concernenti la validità delle elezioni sia essi politiche che amministrative riguardano diritti politici che
non rientrano nella nozione di diritti ed obbligazioni di carattere civile prese in considerazione dall’art. 6 par. 1, C.E.D.U.
È, poi giurisprudenza costante che l’art. 1, par. 1 (cioè la lunghezza della procedura) non è applicabile ad una procedura penale avviata
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su impulso del ricorrente se questo non si è (o non ancora) costituito
parte civile. La Commissione ha anche costantemente affermato che la
Convenzione non garantisce il diritto di provocare l’esercizio dell’azione penale contro terzi.
Altro principio costante è che la Commissione non è competente
ad esaminare un ricorso relativo ad asseriti errori di fatto o di diritto
commessi da una giurisdizione interna, se non quando tali pretesi errori sembrano suscettibili di determinare un attentato ai diritti ed alle
libertà garantite dalla Convenzione.
Infine, “la Commissione respinge ogni domanda che consideri irricevibile in base all’art. 26”, il quale pone due ulteriori condizioni. Infatti, “la Commissione non può essere adita che dopo l’esaurimento delle
vie di ricorso interne, qual ‘è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a
partire dalla data della decisione interna definitiva”.
La condizione dell’“esaurimento” delle vie di ricorso interne” fa si
che la Corte non possa essere adita se non dopo essersi rivolti alla giurisdizione interna civile e penale. Questo perché la Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo non vuole sostituirsi alla giustizia interna degli Stati
firmatari della Convenzione, ma solo intervenire ove questa non si
fosse dimostrata soddisfacente.
Il termine di sei mesi entro cui è necessario presentare ricorso,
pena decadenza del diritto a farlo, decorre secondo una giurisprudenza ormai consolidata non dalla data di pronunzia della sentenza, ma
dalla data della sua notificazione all’interessato.
In ogni caso, il giudizio di ricevibilità della Commissione è definitivo e non è ammesso ricorso.
La ricevibilità del ricorso viene notificata allo Stato interessato il
quale provvede a fornire alla Commissione una memoria scritta.
La Commissione stabilisce quindi un contraddittorio, orale o
scritto.
Un’ipotesi di notevole interesse e rappresentata dalle misure di
urgenza che la Commissione può adottare in taluni casi. Si tratta di
misure sospensive di un provvedimento la cui esecuzione potrebbe pregiudicare in modo irreparabile i diritti del ricorrente.
Va subito detto che si tratta di “inviti” che la Commissione rivolge
agli Stati e non di obblighi che questi sono tenuti a rispettare. Gli Stati
nondimeno si sono dimostrati sensibili alle richieste della Commissione. Si tratta di una attività della Commissione assai poco nota e che
pero ha contributo alla risoluzione di casi umanitari molto delicati. Va
a questo proposito ricordato il caso di Pietro Venezia. La vicenda è
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stata per mesi all’attenzione del paese e degli organi di informazione.
Si tratta di un italiano residente negli Stati Uniti, accusato di un omicidio e per il quale questo paese aveva chiesto l’estradizione assicurando che, pur essendo astrattamente applicabile la pena di morte,
questa non sarebbe stata irrogata. Il Venezia nelle more presentava
ricorso a Strasburgo e la Commissione invitava il nostro Governo a
non procedere all’estradizione a norma del cit. art. 36. Il Governo italiano ha sospeso l’esecuzione dell’estradizione fino al termine fissato
dalla Commissione “nel quadro della tradizionale, piena collaborazione che le autorità italiane offrono alla Commissione nell’espletamento
del suo alto Ufficio” Nel frattempo la Corte Costituzionale, com’è noto,
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 698, 2° comma,
c.p.p. e della legge n. 225/84 di ratifica ed esecuzione del trattato di
estradizione tra l’Italia e gli Stati Uniti nella parte in cui da esecuzione
all’art. IX del trattato stesso. Il ricorso a stato quindi radiato dal ruolo
della Commissione. Senza la richiesta di sospensione, dunque, la decisione della Corte Costituzionale sarebbe arrivata in ritardo con il
Venezia già in carcere in California. Il caso Venezia, sia detto per inciso, ha un’altra particolarità, e cioè per la prima volta la giustizia
amministrativa ha ritenuto la propria competenza affermando, quindi che l’atto di estradizione è atto amministrativo e non, come si era
sempre ritenuto, atto politico.
La Commissione, accertati i fatti, può procedere alla regolamentazione amichevole della controversia.
In caso di regolamento amichevole, la Commissione opera a livello amministrativo. Non si tratta perciò di attività giurisdizionale, che
la Commissione invece compie quando decide circa la ricevibilità del
ricorso.
Se, una volta accertati i fatti, le parti non desiderano una regolamentazione amichevole della controversia, oppure una soluzione amichevole non è stata raggiunta, la Commissione prende una decisione la
quale forma oggetto di un rapporto scritto cioè “formula un parere su
una questione se i fatti comportino, da parte dello Stato interessato una
violazione delle obbligazioni che gli incombono in base alla Convenzione” (art. 31).
C) Collegamento della Commissione con il Comitato dei Ministri.
Il rapporto della Commissione viene trasmesso al Comitato dei
Ministri. A partire da questo momento, se entro un termine di tre mesi
213
la controversia non è deferita alla Corte, “il Comitato dei Ministri prende, con una deliberazione a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti aventi diritto di partecipare al Comitato, una decisione sulla questione se si sia avuta o meno una violazione della Convenzione”.
La decisione del Comitato dei Ministri ha sempre ad oggetto il rapporto della Commissione. Se si conclude per la violazione della Convenzione, il Comitato dei Ministri fissa un periodo entro il quale lo Stato
autore della violazione deve prendere le misure che la sua decisione comporta (art. 32, pagare una somma a titolo di equa comma 2°) oppure
pagare una somma a soddisfazione.
Se lo Stato non adotta misure soddisfacenti, il Comitato rende nota
la sua decisione iniziale, cioè pubblica il rapporto, il che assume carattere di sanzione (art. 32, comma 3).
L’ultimo comma dell’art. 32 aggiunge che “le Alti Parti Contraenti si
impegnano a considerare come obbligatoria nei loro confronti ogni decisione che il comitato dei Ministri può prendere in applicazione dei precedenti paragrafi”.
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Composizione, natura, funzioni
e procedura della Corte.
Il titolo IV della Convenzione, che comprende gli articoli da 38 a 56,
è dedicato alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo.
Secondo l’art. 38 “la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si compone di un numero uguale a quello dei membri del Consiglio d’Europa.
Essa non può comprendere più di un cittadino di uno stesso Stato”. I
giudici sono eletti per nove anni e sono rieleggibili.
La Corte ha una competenza per così dire derivata.
L’art. 47 della Convenzione dispone, infatti, che la Corte può essere
adita solo dopo la constatazione fatta dalla Commissione ed entro il termine di dall’art; 32 della Convenzione.
La Corte decide a seguito di una procedura pienamente giudiziaria
emettendo una sentenza definitiva ed obbligatoria. Essa tuttavia non
ha competenza per annullare disposizioni legislative o regolamentari nazionali o per sostituire la propria valutazione a quella dell’autorità interna il cui atto è stato ritenuto dal ricorrente lesivo dei propri
diritti.
214
Quando il diritto interno non permette che in modo incompleto di
eliminare le conseguenze di una decisione ritenuta dalla Corte non
conforme agli obblighi assunti dallo Stato, non può che accordare un’equa soddisfazione al ricorrente, equa soddisfazione che assume la forma
di una riparazione di carattere pecuniario.
La Corte può essere adita oltre che dalla Commissione e dallo Stato
anche dal ricorrente e ciò a seguito dell’entrata in vigore del Nono Protocollo della Convenzione. L’esercizio del ricorso individuale è però sottoposto all’autorizzazione di un Comitato di tre giudici.
Costituita la Camera, il governo ed il ricorrente presentano le proprie memorie scritte alla Cancelleria della Corte.
L’udienza si svolge pubblicamente ed in contraddittorio.
La sentenza, infine, viene letta in udienza pubblica dal presidente,
alla presenza delle parti e della Commissione.
D) Il ruolo del Comitato dei Ministri nell’esecuzione delle sentenze della
Corte.
Al Comitato dei Ministri è perciò demandato soltanto un potere di
controllo e non di coercizione circa l’esecuzione delle sentenze pronunciate in quanto la Convenzione conta sulla spontanea esecuzione
delle decisioni della Corte da parte degli Stati contraenti.
Infatti, secondo quanto stabilito dall’art. 54, “la decisione della
Corte è trasmessa al comitato dei ministri che ne sorveglia l’esecuzione”. Lo Stato convenuto ha il solo obbligo di informare sul modo come
si e proceduto all’esecuzione.
I principi fissati dagli organi di giustizia di Strasburgo in tema di “equo
processo”.
Possiamo anzitutto distinguere, secondo la migliore dottrina,:
A) I diritti assoluti e cioè:
1) divieto di torture e pene o trattamenti disumani o degradanti
(art. 3);
2) la privazione di libertà e le garanzie (art. 5);
3) controllo giudiziario immediato e ragionevolezza della custodia
cautelare (art. 5);
4) diritto alla riparazione (art. 5);
215
B) i diritti c.d. “giudiziari” e cioè:
1) art. 6 C.E.D.U.;
2) equo processo;
3) durata ragionevole delle procedure;
4) i diritti dell’imputato;
5) il diritto alla difesa.
Prendiamo in esame da prima il divieto, sancito dall’art. 3
della Convenzione, di torture e pene o trattamenti disumani o
degradanti.
Al riguardo può osservarsi che la norma in oggetto è una delle
norme inderogabili della Convenzione, infatti nessuna eccezione è
prevista al riguardo, anche in caso di pubblico pericolo che minacci la
vita della nazione.
Il carattere assoluto della garanzia trova ulteriore conferma nel
fatto che nessun motivo può essere addotto per giustificare i maltrattamenti, anche quando gli atti ascritti a colui che subisce tali maltrattamenti siano particolarmente odiosi.
Gli Stati hanno l’obbligo di porre in essere tutte le misure necessarie dirette ad evitare che siano commessi maltrattamenti.
Conseguentemente gli Stati assumono una responsabilità oggettiva per tutti coloro che agiscono in suo nome: in particolare, essi non
possono addurre a propria scusa il fatto di non poter far rispettare, per
svariati motivi, le proprie direttive.
Un “trattamento” può essere qualificato “maltrattamento” ai fini
dell’art. 3 allorché raggiunge un minimo di gravità.
Non è necessario, affinché l’articolo 3, sia violato, che l’atto o la
misura siano effettivamente messi in esecuzione: basta il semplice
pericolo che tali atti e tali misure siano eseguiti, a condizione tuttavia
che esso sia reale e immediato. Minacciare qualcuno di tortura potrebbe dunque, in certe precise circostanze, costituire quanto meno un
“trattamento disumano”. La nazione di trattamento disumano si riferisce ad un trattamento che causa vive sofferenze fisiche e morali (sentenza Irlanda/Regno Unito, 167).
Il trattamento è degradante allorquando suscita nelle persone
“sentimenti di paura, di angoscia e di inferiorità atti a umiliarle, ad avvilirle e a spezzare eventualmente la loro resistenza fisica o morale” (sentenza Irlanda/Regno unito, 167).
Per essere disumana, una pena deve provocare una “sofferenza che
si situi ad un livello particolare” (sentenza Tyrer).
Una pena è degradante quando l’umiliazione o l’avvilimento che la
caratterizzano si situano ad un “livello particolare e si differenziano in
216
ogni caso dall’elemento abituale di umiliazione” che risulta dal fatto di
essere stato oggetto di condanna penale (sentenza Tyrer).
– La tortura è generalmente una “forma aggravata di trattamento
disumano”. L’elemento principale è costituito dall’intensità delle sofferenze inflitte per mezzo di un dato trattamento”. Con il termine di tortura vengono bollati di speciale infamia quei “trattamenti disumani
deliberati che provocano sofferenze molto gravi e crudeli” (sentenza
Irlanda/Regno Unito).
Per valutare il valore probatorio degli elementi addotti a sostegno
delle doglianze la Commissione e la Corte si servono del criterio della
prova “al di là di ogni dubbio ragionevole”. La prova può desumersi da
un insieme di indizi, oppure di presunzioni non contraddette, sufficientemente gravi, precisi e concordanti (sentenza Irlanda/Regno
Unito),
Quanto al problema se la durata eccessiva delle pene che privavano della libertà personale sia suscettibile di costituire una violazione
dell’art. 3 della Convenzione, dalla giurisprudenza degli organi di Strasburgo si evince che la durata eccessiva della detenzione preventiva è
suscettibile di costituire un trattamento inumano soprattutto quando
la detenzione compromette gravemente la salute del detenuto.
Per quanto attiene alla compatibilità con l’art. 3 di una condanna
al carcere a vita, la Commissione ha ribadito più volte che una simile
pena, in sé, non è contraria all’art. 3 salvo che provochi un grave deterioramento dello stato di salute del detenuto ed ha auspicato che ai
detenuti condannati al carcere a vita venisse concesso di sottoporre
periodicamente il loro caso all’esame di un Tribunale, al fine di stabilire se possano o meno essere liberati, con o senza condizioni.
Le doglianze relative alla detenzione sono state spesso ritenute
non fondate in quanto non corroborate da sicuri elementi di fatto.
Sono state espresse tuttavia serie preoccupazioni circa determinate forme di detenzione particolarmente rigorose, quale l’isolamento
carcerario.
Quantunque, è stato osservato, l’esclusione di un detenuto dalla
collettività carceraria non costituisca, in quanto tale, una forma di
trattamento disumano, l’isolamento carcerario prolungato non è assolutamente auspicabile, in special modo quando si tratta di una custodia cautelare. D’altra parte, l’isolamento sensoriale completo unito ad
un isolamento sociale totale può condurre alla distruzione della personalità e costituire una forma di trattamento che non può essere in
alcun modo giustificato da esigenze di sicurezza o da qualsiasi altro
motivo (Commissione, Krocher Moller).
217
Inoltre, va ricordato che la Commissione colloca ad un livello particolarmente alto il minimo di gravità richiesto affinché vi sia violazione dell’art. 3, quando i maltrattamenti sono provocati dal comportamento stesso della vittima. Ad esempio, la Commissione ha ritenuto
non vi fosse violazione dell’art. 3 nel caso in cui un detenuto, avendo
rifiutato di lasciare la sua cella durante una ispezione, era stato percosso e sottoposto ad un isolamento cellulare totale di tre giorni.
D’altra parte, i detenuti non potrebbero certo dolersi per le condizioni di detenzione inumane o degradanti che essi si autoinfligessero
nel corso di una campagna di protesta, come si desume dalla decisione della Commissione sul caso McFeeley e altri c. Regno unito, in cui
un gruppo di terroristi membri dell’I.R.A. detenuti nel carcere di Maze
in Irlanda del Nord, avevano voluto protestare contro il rifiuto delle
autorità di accordare loro lo status di prigionieri politici, autoimponendosi diverse privazioni.
L’interrogatorio dei detenuti e in genere delle persone sospettate di
avere commesso reati deve, in qualsiasi caso, rispettare il divieto di sottoporre a tortura o a pene e trattamenti inumani o degradanti posto
dall’art. 3 della Convenzione; e in effetti, certi metodi di interrogatorio
possono ben sollevare problemi sotto il profilo dell’art. 3 anche se considerato il minimo di gravità che deve raggiungere la sofferenza inflitta per rilevare ai sensi tale norma, va subito precisato che un modestissimo grado di maltrattamenti fisici o psicologici non viola l’art. 3.
Ad esempio, in nessun caso costituisce una violazione di detto
articolo la comunicazione al sospettato “che egli non uscirà dal commissariato fino a quando gli inquirenti non avranno accertato tutto ciò
che è da accertare, che se confessasse la polizia provvederebbe a fargli alleggerire la pena e che, in ogni caso, sarà comunque sicuramente
condannato”.
E ancora, l’ordine del magistrato di sottoporre l’imputato ad una
perizia psichiatrica al fine di accertare la sua responsabilità penale
non può, in alcun caso, costituire in se un trattamento degradante contrario all’art. 2 della Convenzione, così come non costituisce in sé un
trattamento degradante il fatto di radere forzatamente un detenuto al
fine di sottoporlo ad un confronto in ordine ad un delitto di cui lo si
accusa e che era stato compiuto da un uomo senza barba.
In generale va osservato che la giurisprudenza degli organi di Strasburgo richiede una prova certa dei maltrattamenti.
Secondo gli organi di Strasburgo l’espulsione e l’estradizione di un
individuo verso un determinato paese sono suscettibili di rivelarsi
contrari all’art. 3 e precisamente quando vi sono motivi seri e fondati
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per ritenere che egli sarà sottoposto nello stato di destinazione a trattamenti vietati da quest’ultimo articolo.
Quindi in via generale l’espulsione di uno straniero per motivi inerenti alla sicurezza nazionale non può essere ritenuta una misura contraria all’art. 3.
Tuttavia vi possono essere circostanze rilevanti per ritenere violato l’art. 3 in materia di estradizione/espulsione, fra queste vi è senza
dubbio anche il regime politico dello Stato di destinazione, fermo
restando che non basta constatare che in un dato Paese i diritti civili
e politici non siano rispettati per concludere che l’espulsione di un
individuo verso tale Paese equivalga ad una violazione della norma in
esame. In ogni caso la Commissione, prima di valutare le circostanze
concrete di ogni singolo caso, si accerta preliminarmente che il ricorrente sia effettivamente oggetto di un provvedimento di espulsione o di
estradizione già adottato (anche se non ancora eseguito) e imminente.
La Commissione ha esaminato la questione dell’espulsione e dell’estradizione di uno straniero, sotto il profilo dell’art. 3 in diverse situazioni. Le situazioni più frequenti sono quelle in cui il ricorrente si
duole di correre il rischio di essere sottoposto ad un trattamento contrario all’art. 3 nel Paese in cui sarà espulso o estradato, come ad esempio nel caso Soering. Peraltro, la sentenza sul caso Soering è stata particolarmente importante anche perché prima di essa la giurisprudenza degli organi di Strasburgo era orientata nel senso che solo l’espulsione (o l’estradizione) già eseguita avrebbe potuto costituire un trattamento inumano, mentre individuo l’estradizione non aveva ancora
avuto luogo, non avrebbe potuto in alcun caso pretendersi vittima di
un trattamento contrario all’art. 3.
La privazione della libertà e le garanzie.
Articolo 5 paragrafo 1 C.E.D.U. stabilisce che: “Ogni persona ha
diritto alla libertà ed alla sicurezza. Nessuno può essere privato della
libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge”.
Scopo essenziale dell’articolo 5 è di proteggere la libertà fisica della
persona impedendo che si attenti ad essa in modo arbitrario (sentenza Engel).
In presenza di limitazioni alla libertà personale occorre stabilire, in
primo luogo, se la situazione esaminata configuri un’ipotesi di privazione di libertà.
La regola generale è la libertà fisica della persona.
219
Questa libertà può essere limitata solo a precise e dettagliate condizioni.
L’articolo 5 C.E.D.U. indica quali sono le ipotesi in cui è possibile
privare una persona della libertà. Le ipotesi di privazione di libertà enumerate al paragrafo 1 debbono essere interpretate restrittivamente (sentenza Bouamar).
Condizione necessaria affinché una privazione di libertà sia conforme alla Convenzione è che essa sia ordinata “secondo le vie legali”. A
questa condizione di legalità, il paragrafo 1 ne aggiunge un’altra: la condizione di “regolarità” della privazione di libertà.
Per quanto attiene strettamente alla “legalità” di una misura la Convenzione rinvia al diritto nazionale. Ciò significa che occorre in primo
luogo osservare la procedura quale essa è prevista da tale diritto. Ma il
diritto interno deve, esso stesso, adeguarsi alla Convenzione, ivi compresi i principi di carattere generale enunciati o da desumersi dalle
disposizioni convenzionali. Questi principi sono i seguenti: un’equa e
adeguata procedura; l’idea secondo la quale ogni misura privativa di
libertà deve essere ordinata da un’autorità qualificata, essere eseguita
da questa Autorità e non rivestire dunque un carattere arbitrario.
La “regolarità” di una detenzione presuppone dunque innanzitutto
la conformità della stessa al diritto interno, sia per quanto riguarda l’aspetto formale che per quanto attiene all’aspetto sostanziale.
Le diverse ipotesi di privazione della libertà: detenzione a seguito di condanne da parte di un tribunale competente: art. 5 par. 1 A) C.E.D.U..
Va innanzitutto detto che per condanna deve intendersi una pronuncia che contenga una dichiarazione di colpevolezza consecutiva
all’accertamento legale di un’infrazione e l’inflizione di una pena o
altra misura privativa della libertà.
Per quanto riguarda la nozione di tribunale competente, occorre che
un tale organo sia non solo indipendente, ma offra anche le garanzie di
una procedura giudiziaria (sentenza De Wilde Ooms e Versyp 76-78).
Per quanto riguarda il momento processuale in cui una persona
deve ritenersi condannata, ai fini della disposizione in oggetto, va
osservato che è tale la persona condannata in prima istanza (sentenza
Wemhoff, 9), anche se la condanna non è definitiva e se il diritto
nazionale ritenga che l’eventuale detenzione sofferta durante la procedura d’appello e di cassazione sia da considerarsi custodia cautelare
(come in Italia).
220
L’art. 5, par 1 c) riguarda il caso di chi “è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso
reato o vi sono motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli
di commettere un reato dopo averlo commesso”.
Le ipotesi previste da questa disposizione riguardano privazioni di
libertà decise nell’ambito di una procedura penale o in vista di eventuali procedimenti penali.
Una privazione di libertà è ammessa, in virtù di questa disposizione, solo allo scopo di tradurre una persona dinanzi all’autorità giudiziaria competente.
L’enumerazione delle tre ipotesi di privazione di libertà, di cui alla
disposizione in oggetto, è tassativa: (a) esistenza di ragionevoli sospetti che una persona abbia commesso un reato; (b) esistenza di fondati
motivi per impedire di commettere un reato o ((c)) di fuggire dopo
averne commesso uno.
I ragionevoli sospetti devono esistere non solo nella fase iniziale,
ma anche durante tutto il tempo in cui una persona, in attesa di giudizio, è privata della libertà. La persistenza dei sospetti è dunque una
conditio sine qua non della regolarità della detenzione (sentenza Stogmuller, 4).
L’articolo 5 paragrafo 1 c) C.E.D.U. pone come prima condizione
che i sospetti debbano essere plausibili.
Spetta in particolare al governo convenuto, e dunque a monte alle
autorità giudiziarie, indicare quantomeno taluni fatti o informazioni che
possano dimostrare la sussistenza di sospetti plausibili.
Diritto di essere informato dei motivi dell’arresto.
L’articolo 5 paragrafo 2 C.E.D.U. recita testualmente: “Ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in lingua a lei
comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni accusa elevata a suo
carico”.
Il diritto in oggetto enuncia una garanzia elementare: ogni persona arrestata deve conoscere le precise ragioni del proprio arresto. Sussiste dunque l’obbligo di indicare a tale persona, in termini semplici e
a lei accessibili, i motivi di diritto e di fatto della privazione di libertà,
affinché essa possa contestarne la legalità di fronte ad un tribunale,
come previsto dal paragrafo 4 dell’articolo 5. Quantunque detti motivi
debbano essere enunciati al più presto, l’agente di polizia che opera
221
l’arresto può tuttavia differirne di poco la comunicazione, senza che
con ciò venga violata la disposizione in oggetto. Per determinare se
l’informazione è stata sufficiente, occorre esaminare le particolarità
del caso.
Nel caso Lamy, il ricorrente arrestato per bancarotta, si era lamentato di non essere stato sufficientemente informato dei motivi dell’arresto. La Corte, nel respingere la doglianza ha constatato che al ricorrente
era stata consegnata il giorno stesso dell’arresto una copia del mandato
di cattura contenente i motivi e una lista dettagliata dei reati ascrittigli
(sentenza Lamy, 32).
Nel caso Fox è stato ritenuto che ai ricorrenti, arrestati per terrorismo, fossero stati forniti sufficienti motivi, in quanto essi erano stati
interrogati solo qualche ora dopo l’arresto sul ruolo preciso da essi svolto in determinate azioni criminose (sentenza Fox, 9142).
Controllo giudiziario immediato e ragionevolezza della custodia cautelare.
L’art. 5 paragrafo 3 C.E.D.U. stabilisce che: “Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1
(c) del presente articolo deve essere tradotta al più presto dinanzi ad
un giudice a a un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La
scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la
comparizione della persona all’udienza”.
Questa disposizione si prefigge un triplice scopo: far sì che la persona sia tradotta al più presto dinanzi all’autorità giudiziaria, garantire
che essa sia giudicata entro un termine ragionevole, imporre la scarcerazione se la privazione di libertà non è più necessaria, subordinandola
eventualmente alla prestazione di garanzie.
In primo luogo il magistrato deve godere di indipendenza nei confronti dell’esecutivo come delle parti in causa.
In secondo luogo il magistrato ha l’obbligo di sentire personalmente
la persona tradotta dinanzi a lui.
In terzo luogo il magistrato deve esaminare le circostanze che militano a favore o contro la detenzione: deve pronunciarsi secondo criteri
giuridici sull’esistenza di ragioni che la giustificano e, in assenza di tali
ragioni, poter ordinare la scarcerazione (sentenza Schiesser, 31).
La disposizione in oggetto prevede poi una precisa garanzia di procedura al fine di limitare al minimo il rischio di abusi: colui che è pri-
222
vato della libertà deve essere al più presto condotto di fronte ad un’autorità giudiziaria. Ciò significa che se non è liberato “al più presto”, questi
ha il diritto di comparire rapidamente di fronte ad una tale autorità (sentenza Brogan, 58).
La ragionevolezza della durata della custodia cautelare.
La disposizione in oggetto non è da interpretare nel senso che offre
alle autorità giudiziarie una possibilità di scelta: o celebrare un processo
entro un periodo di tempo ragionevole o concedere la libertà provvisoria,
seppur subordinata a garanzie.
Il carattere ragionevole del periodo di tempo trascorso da un accusato privato dalla libertà deve valutarsi in funzione dello stato di detenzione in cui egli si trova. Occorre tener presente al riguardo che, fino
alla condanna, questi deve essere considerato innocente. La disposizione in oggetto mira dunque ad imporre la scarcerazione qualora la
detenzione, a causa della durata, cessi d’essere “ragionevole” (sentenza
Neumeister, 4).
Infatti, ogni detenzione senza che sia intervenuta una condanna,
costituisce una grave deroga ai principi della libertà individuale e della
presunzione di innocenza. (sentenza Stogmuller, 4). Spetta agli organi
della Convenzione valutare se la custodia cautelare ha superato, in un
dato momento, i limiti della ragionevolezza, quei limiti cioè corrispondenti al sacrificio che, nelle circostanze della causa, poteva ragionevolmente essere inflitto ad una persona che si presume innocente (sentenza
Wemhoff, 5).
Se in via di principio la persistenza di “ragioni plausibili di sospetto” è una condizione sine qua non della regolarità di una detenzione, la
persistenza dei sospetti non è sufficiente a giustificare, dopo un certo
periodo di tempo, il prolungarsi della detenzione. Ciò che la Convenzione esige è che la detenzione non oltrepassi un limite ragionevole. Tuttavia, non è possibile precisare cosa si debba intendere per ragionevole
durata: ciò non può essere indicato con un numero fisso di giorni o
mesi. Ciò che occorre valutare è il carattere ragionevole dei motivi che
hanno indotto le autorità giudiziarie ad ordinare la continuazione della
custodia cautelare.
Il dies a quo, il punto di partenza cioè per il computo di tale periodo, è necessariamente quello in cui la persona è stata privata della
libertà. Per quanto riguarda il dies ad quem vale a dire il termine finale,
esso è costituito dalla data in cui un Tribunale anche di primo grado, si
223
è pronunciato in merito all’accusa. (sentenza Wemhoff, 69; sentenza B./
Austria, 3440).
L’obbligo di liberare l’accusato, che si trova in detenzione, entro un
termine ragionevole sussiste fino a che questi non è giudicato, cioè a dire
fino al giorno in cui viene pronunciata la sentenza, come si è detto anche
solo di primo grado.
Occorre ribadire che per la Convenzione, una detenzione a seguito di
condanna in primo grado cessa di essere una detenzione qualificata
come “custodia cautelare”.
Per valutare la ragionevolezza della custodia cautelare, gli organi
della Convenzione adottano i criteri di seguito indicati.
Compete in primo luogo alle autorità giudiziarie nazionali indicare
le circostanze che le hanno spinte ad adottare i provvedimenti di limitazione della libertà. Ai detenuti spetta di far valere, nei ricorsi contro questi provvedimenti, i motivi che militano a favore della liberazione. È
dunque essenzialmente sulla base dei motivi indicati nelle decisioni
relative alle domande di scarcerazione, nonché dei vari fatti menzionati dai detenuti nei loro ricorsi che si deve valutare se si è in presenza
o meno di una violazione della disposizione in oggetto (sentenza Neumaister, 5; sentenza Wemhoff, 12).
Tra i motivi addotti dalle autorità giudiziarie per giustificare il prolungarsi di una custodia cautelare, tre si ritrovano con più frequenza: il
pericolo di fuga; il pericolo di commettere nuovamente reati; il pericolo
di inquinamento probatorio.
In particolare, il pericolo di fuga non può risultare dalla semplice
possibilità o facilità per l’accusato di oltrepassare la frontiera. Occorre
che un insieme di circostanze, specialmente la previsione di una pena
molto severa o la mancanza di legami solidi con il paese, facciano presumere che le conseguenze ed i rischi della fuga gli appaiano come un
male minore rispetto al prolungamento della detenzione (sentenza Stogmuller, 15).
Per quanto riguarda il pericolo di commettere nuovamente reati, un
giudice può ragionevolmente tener conto della gravità delle conseguenze
di crimini o delitti ascritti alla persona detenuta, al fine di valutare la
possibilità di una scarcerazione. (sentenza Matznetter, 9) .
La sussistenza di motivi sufficienti non basta a giustificare il
prolungamento della detenzione; occorre inoltre che le competenti
autorità abbiano dato prova di “diligenza” nella conduzione dell’inchiesta.
Tuttavia, la speditezza delle indagini non deve nuocere agli sforzi dei
magistrati al fine di fare pienamente luce sui fatti. Sia la difesa che l’ac-
224
cusa debbono poter disporre di tutte le facilitazioni necessarie per produrre le loro prove e per presentare la loro versione dei fatti.
I magistrati sono tenuti a pronunciarsi soltanto dopo una seria
riflessione sulla sussistenza dei reati, come pure sulla pena da infliggere
(sentenza Wemhoff, 17; sentenza Matzenetter, 12).
Circa le garanzie richieste in vista di una eventuale scarcerazione,
esse non debbono essere fissate esclusivamente in funzione dell’ammontare del pregiudizio del presunto reato: “ la garanzia prevista dalla Convenzione mira ad assicurare non la riparazione del pregiudizio, ma la
presenza dell’accusato”; la sua importanza deve perciò essere valutata
principalmente con riferimento alla situazione personale dell’accusato,
alle sue risorse, ai suoi legami con le persone chiamate a fungere da
garanti (sentenza Neumeister, 19).
Infine, quando lo stato di detenzione è motivato soltanto dalla paura
di veder l’accusato sottrarsi con la fuga alla comparizione successiva
davanti al tribunale che deve giudicarlo, deve essere ordinata la scarcerazione dell’accusato se è possibile ottenere da parte sua garanzie che
assicurino tale presenza (sentenza Wemhoff, 15).
L’articolo 5 paragrafo 4 C.E.D.U. stabilisce che: “Ogni persona privata dalla libertà mediante arresto o detenzione ha diritto di presentare un ricorso ad un tribunale, affinché decida entro breve termine
sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la
detenzione è illegittima”.
Scopo della norma è far sì che le persone arrestate o detenute possano, dietro domanda, ottenere una pronuncia giudiziaria sulla legalità
della misura e di essere scarcerate in caso di illegalità della stessa. Il
controllo della legalità della detenzione deve essere operata non solo con
riferimento al diritto interno, ma anche con riguardo al resto della Convenzione, ai principi generali in essa consacrati e allo scopo delle restrizioni autorizzate dal paragrafo 1 dell’articolo 5 (sentenza E. c/Norvegia,
49).
L’aspetto dominante della garanzia prevista dalla disposizione in
oggetto è la celerità: la decisione sulle istanze deve essere presa “entro
breve termine”. Il concetto di “entro breve termine” non si presta ad una
valutazione in astratto: questa può essere effettuata solo in base alle circostanze particolari di ogni caso. Occorre evitare innanzitutto ritardi
eccessivi (ad es. prolungate udienze contraddittorie). Ad ogni buon contro, gli Stati hanno l’obbligo di organizzare i propri uffici giudiziari in
modo che questi possano far fronte alle molteplici esigenze derivanti
dalle inchieste rese necessarie nell’ambito dell’esame dei ricorsi (sentenza Bezicheri, 25).
225
L’articolo 5 paragrafo 5 C.E.D.U. recita che: “Ogni persona vittima
di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni di
questo articolo ha diritto ad una riparazione”.
Chiunque sia vittima di una privazione della libertà in violazione
delle suddette disposizioni ha diritto già sul piano interno, ad una riparazione per il pregiudizio subito. La disposizione in oggetto è rispettata
se, in ambito nazionale, può essere richiesta una riparazione per una
detenzione che non abbia rispettato le condizioni fissate dall’articolo 5
C.E.D.U.. Non sussiste l’obbligo di una “riparazione” senza che vi sia
stato un pregiudizio, materiale o morale, (sentenza Wassink, 38). Peraltro, la constatazione che la disposizione in oggetto sia stata violata non
esime la Corte europea, in sede di esame di un ricorso dal pronunciarsi
circa un eventuale equo soddisfacimento ai sensi dell’articolo 50 (sentenza Brogan).
I diritti c.d. “Giudiziari”.
L’articolo 6 paragrafo 1 C.E.D.U. stabilisce che: “Ogni persona ha
diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed
entro un termine ragionevole, da un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui
suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni
accusa penale che le venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla
stampa e al pubblico durante tutto o una parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in
una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o
la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale quando, in circostanze
speciali la pubblicità può pregiudicare gli interessi della giustizia”.
Molto sinteticamente, si può affermare che l’articolo 6 C.E.D.U.
garantisce il diritto ad un equo processo.
Il diritto ad un equo processo si risolve nel rispetto di determinate
“regole” di procedura europee. Tuttavia l’articolo non si prefigge di incidere sul contenuto della pronuncia giudiziale, la quale è di esclusiva
competenza delle autorità giudiziarie nazionali. Le garanzie di cui all’articolo 6 si applicano alle procedure che, normalmente, hanno carattere
giudiziario. L’articolo 6 non garantisce il diritto ad un doppio grado di
giurisdizione per il giudizio di merito. Un tale diritto invece è esplicitamente consacrato dal protocollo n. 7, e precisamente dall’articolo 2 che
226
prevede “il diritto di far esaminare da una giurisdizione superiore la
dichiarazione di colpevolezza o la condanna”.
Il Protocollo n. 7 prevede infine due diritti che si ricollegano alla
materia penale: il diritto ad una riparazione in caso di errore giudiziario
(diritto previsto dall’art. 3 del citato protocollo) e il diritto a non essere
inquisito o condannato, nell’ambito dello Stato, per un reato già oggetto
di sentenza definitiva (diritto garantito dall’articolo 4 del predetto protocollo.
L’equo processo.
Il diritto ad un equo processo domina tutto l’articolo 6 della Convenzione a tal punto che i diritti “particolari” in esso enunciati sono tutti
considerati come appendici e sviluppi del diritto generale alla “equità”
delle procedure giudiziarie.
Sostanzialmente, l’equo Processo tende a garantire il rispetto della
dignità giuridica della persona umana attraverso le specifiche garanzie
previste nella disposizione in oggetto, che tutte concorrono a realizzare
una buona amministrazione della giustizia.
Tale scopo deve essere perseguito anche quando le autorità nazionali adottano, sotto la spinta di drammatici eventi, misure specifiche per
far fronte all’espansione della delinquenza organizzativa. Quantunque
esso non sia enunciato in modo esplicito dalla disposizione in oggetto, il
diritto ad un Tribunale, elemento e presupposto essenziale del diritto ad
un equo processo, discende dal principio stesso della preminenza del
diritto, sia in materia civile (sentenza Golder), che in materia penale
(sentenza Deweer).
Un diritto effettivo di accesso alla giustizia può richiedere che si
adottino misure positive al fine di rimuovere certi ostacoli, ad esempio
di natura finanziaria, che si frappongono fra cittadino e la giustizia.
Ad esempio, quantunque l’articolo 6 paragrafo 1 C.E.D.U. non lo
indichi espressamente, lo Stato deve provvedere alla designazione di un
avvocato quando la sua opera è indispensabile ad assicurare un accesso effettivo alla giustizia, sia perché la sua assistenza è richiesta dalle
disposizioni di legge, sia per il carattere complesso della procedura o
della causa stessa (sentenza Golder, 26). Quantunque il diritto di adire
un tribunale sia da considerarsi essenziale, in quanto condiziona il
rispetto delle garanzie previste dall’articolo 6 della Convenzione, esso
tuttavia non è assoluto, e ciò sia in materia civile che in materia penale. Tale diritto sopporta delle limitazioni implicite quali, in materia
227
civile, le clausole contrattuali di arbitraggio e, in materia Penale, l’oblazione.
Dal diritto ad un tribunale discende il diritto dell’imputato di prendere parte alla procedura ed in primo luogo all’udienza almeno a quella
di prima istanza (sentenza Ekbatani, 25).
Quantunque tale diritto non sia espressamente previsto, esso costituisce una condizione necessaria ad un processo equo. Infatti, i vari
diritti enunciati al paragrafo 3 dell’articolo 6 (diritto di difesa, diritto di
interrogare i testimoni, diritto ad un interprete) non avrebbero alcun
senso se non fosse assicurata la presenza all’udienza dell’imputato, che
di tali diritti è il titolare (sentenza Colozza, 27).
Nelle procedure di appello le modalità di applicazione di tale diritto
dipendono peraltro dalle particolarità della procedura. Occorre al
riguardo prendere in considerazione tutte le fasi della procedura interna e valutare il peso specifico che in tale ambito ha avuto la procedura.
Occorre al riguardo prendere in considerazione tutte le fasi della procedura interna e valutare il peso specifico che in tale ambito ha avuto la
procedura di appello. In determinate circostanze, in effetti, può essere
giustificato, in appello e in Cassazione che non vi sia pubblica udienza
a condizione tuttavia che ve ne sia stata una in prima istanza (sentenza Ekbatani).
Agli Stati è consentito peraltro, una procedura contumaciale per giudicare l’imputato irreperibile. In tale caso, però questi ha il diritto, dopo
essere stato messo al corrente dell’esistenza di una procedura alla quale
egli non ha potuto prendere parte, che un Tribunale si pronunci di
nuovo, dopo averlo sentito sulla fondatezza dell’accusa elevata a suo
carico (sentenza Colozza 29).
Nel caso Colozza, il ricorrente dichiarato latitante era stato condannato in contumacia a sua insaputa. La Corte ha tenuto debito conto
delle circostanze di specie (in particolare le insufficienti ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria) e ha ritenuto che la perdita totale e irreparabile del diritto di partecipare all’udienza derivante dall’applicazione
delle disposizioni di legge in materia di contumacia, avevano violato il
diritto del ricorrente ad un equo processo (sentenza Colozza, 26-33).
Il principio della sostanziale parità dei mezzi processuali a disposizione delle parti, è inerente alla nozione di equo processo. In materia
penale il processo non sarebbe equo se si svolgesse in condizioni tali da
porre ingiustamente un accusato in situazione di svantaggio (sentenza
del Court, 34). Ciò che garantisce la parità di opportunità è il dibattimento in contraddittorio, dibattimento nel corso del quale debbono essere presentate le prove e gli altri elementi che hanno rilevanza processuale.
228
Durata ragionevole delle procedure.
Affinché sia effettivo, il diritto di ottenere giustizia da parte di un tribunale esige, in primo luogo, che la giustizia sia resa quanto più rapidamente possibile, compatibilmente però con il rispetto del principio di
un equo processo.
L’importanza del diritto ad ottenere una pronuncia giudiziaria entro
un “termine ragionevole”, come è previsto dall’articolo 6 paragrafo 1
C.E.D.U., è stata sottolineata con forza ed insistenza nella giurisprudenza degli organi della Convenzione. Si tratta forse del diritto la cui inosservanza è stata sanzionata con più determinazione e frequenza dato che
una giustizia ritardata è in taluni casi estremi sinonimo di una giustizia denegata.
Con la ratifica della Convenzione, gli Stati si sono obbligati ad organizzare i propri sistemi giudiziari in modo da soddisfare le esigenze dell’articolo 6 paragrafo 1 C.E.D.U., con particolare riferimento al “termine
ragionevole” (sentenza Guincho, 38).
Gli stati sono ugualmente tenuti a dotare le strutture amministrative che cooperano con l’amministrazione della giustizia di mezzi adeguati per far fronte ai compiti loro affidati.
Per quanto riguarda l’Amministrazione della Giustizia, è stato affermato che un temporaneo sovraccarico di lavoro che pesa sugli uffici giudiziari non mette in discussione la responsabilità internazionale dello
Stato, qualora questi adotti, con la prontezza richiesta dalla situazione,
misure atte a porvi rimedio. (sentenza Zimmermann e Steiner, 29).
In caso di sovraccarico di lavoro e al fine di razionalizzare l’esame
delle cause, gli uffici giudiziari passano i compiti loro affidati. Tuttavia
l’urgenza di un caso si avverte via via che i tempi di trattazione si allungano. Conseguentemente se la situazione di crisi si prolunga, anche le
scelte operate dagli uffici giudiziari non sono più sufficienti a fronteggiare la situazione. In tal modo per confermarsi all’obbligo di cui all’articolo 6 paragrafo 1, lo Stato è tenuto ad adottare altri mezzi, più efficaci, per pervenire allo scopo che quello di rendere giustizia entro un termine ragionevole.
La durata ragionevole o meno di una procedura, e ciò sia in materia civile che in materia penale, deve essere valutata per ciascuna situazione secondo le circostanze di specie.
Occorre in particolare tener presente la complessità del caso, il
comportamento tenuto nel processo delle parti in causa ed il comportamento delle Autorità in special modo di quelle giudiziarie (sentenza
Zimmermann e Steiner, 24).
229
Si deve in seguito valutare il periodo cui deve essere applicato il principio della “ragionevolezza” della procedura.
Tale periodo abbraccia normalmente tutto l’arco della procedura. Il
computo del dies a quo e del dies ad quem può variare a seconda della
natura della procedura, civile o penale.
Di regola la procedura civile è dominata dal principio detto dispositivo in base al quale spetta alle parti assumere l’iniziativa. Circa il periodo da prendere in considerazione, in materia civile di regola il punto di
partenza (dies a quo) è costituito dal primo atto con il quale il tribunale
viene adito; l’inizio di tale periodo è fissato dunque alla data del deposito dell’atto. Se la procedura è ancora pendente nel momento in cui la
Commissione o la Corte esaminano i ricorsi, vale a dire se i Tribunali non
si sono ancora pronunciati sull’azione intentata, il termine finale (dies ad
quem) coincide con la data della decisione o del rapporto della commissione o della sentenza della Corte. Se per contro la procedura si è conclusa, il periodo da prendere in considerazione abbraccia tutto l’arco della
procedura interna, ivi comprese le istanze di ricorso, fino cioè alla data
della decisione che ha deciso in via definitiva sulla contestazione.
La complessità del caso è stata spesso invocata dai governi per giustificare una durata anormale della procedura. Raramente però si è ritenuto che tale fosse il caso.
Il comportamento tenuto dal ricorrente (dalle parti) nel corso della
procedura ha costituito spesso un elemento di valutazione importante.
In una causa civile le parti debbono dar prova di una “dirigenza normale”(sentenza Pretto, 33). In particolare, il ricorrente deve essersi
avvalso di tutte le possibilità offerte dal diritto interno per abbreviare le
Procedure e non deve, perciò aver compiuto manovre dilatorie (sentenza Union alimentaria Sanders S.A., 35).
Circa il comportamento delle Autorità Nazionali occorre che esso
riguarda non solo gli atti delle Autorità giudiziarie, ma anche le azioni e
spesso le omissioni di altri poteri dello Stato, ai quali può essere imputata la responsabilità di non aver preso, con la prontezza dovuta, tutte le
misure atte a rimuovere gli ostacoli di ordine amministrativo e finanziario che hanno, in una determinata ipotesi, inciso negativamente sul
corretto funzionamento della giustizia. Quali che siano i fattori che sono
all’origine di insufficienze, e dunque di ritardi, è comunque lo Stato,
Parte contraente della Convenzione, ad essere responsabile di ritardi
eccessivi nel funzionamento della giustizia.
Quanto alla durata delle procedure penali la disposizione in oggetto tende a proteggere chiunque sia “accusato” contro le eccessive lentezze
della procedura. Essa mira ad evitare che una persona accusata stia trop-
230
po tempo nell’incertezza della sua sorte. Tale esigenza, tuttavia, non può
esimere i magistrati che hanno la responsabilità dell’istruzione e della
condotta del processo, di prendere tutte le misure atte a far luce sulla fondatezza o sull’infondatezza dell’accusa (sentenza Neumeister, 21). Anche
per quanto riguarda la durata di una procedura penale ci si deve basare
sulle circostanze di fatto particolari a ciascuna causa.
Il periodo da prendere in considerazione va calcolato, come per le
cause civili, con riferimento a tutto l’arco della procedura. Il punto di
partenza (dies a quo) può essere costituito dalla notifica di un atto con
il quale viene contestata un’infrazione (sentenza Deweer, 42), dall’arresto, dall’inizio delle indagini preliminari (sentenza Wemhoff, 19: sentenza Neumeister, 18: sentenza Ringeisen, 110).
Circa il termine finale del Periodo (dies ad quem) esso coincide con
la fine della procedura ivi comprese le fasi di ricorso (sentenza Eckle,
76), quali l’appello e il ricorso per cassazione. La durata della procedura relativa a vie di ricorso straordinarie, ad esempio la revisione, non
deve essere calcolata.
La complessità della causa, derivante dalla gravità dei reati e spesso dalla difficoltà di acquisizione di elementi probatori è un elemento al
quale la Commissione spesso attribuisce, unitamente ad altri elementi,
rilievo per giustificare la durata di una procedura.
Quanto al comportamento dell’imputato, gli potrà essere rimproverato un abuso delle vie, di ricorso di cui dispone, abuso però che deve
essere accertato.
In materia penale, il comportamento delle autorità giudiziarie,
ovvero il modo in cui queste dirigono le inchieste, l’istruzione e il dibattimento, ha un ruolo primario nello svolgimento del processo, il quale
può essere più o meno rapido a seconda delle difficoltà o degli ostacoli
incontrati. Due situazioni possono incidere negativamente sulla speditezza delle procedure: un carico eccessivo del ruolo unitamente alla scarsità dei magistrati, e una insufficiente diligenza di questi ultimi, come
pure degli “ausiliari della giustizia” (periti etc.) nello svolgere gli atti della
procedura. La prima critica si rivolge in realtà alle autorità dello Stato,
e segnatamente ai poteri esecutivo e legislativo; la seconda alle manchevolezze dei magistrati.
Ruolo del Ministero e della rappresentanza permanente d’Italia presso il
Consiglio d’Europa nella procedura dinanzi agli organi di Strasburgo.
Come si è avuta occasione di dire, una volta ricevuto un ricorso, la
231
Commissione fa un esame preliminare di non manifesta irricevibilità.
Superato positivamente questo primo vaglio, il Segretariato della Commissione informa l’agente del Governo italiano che la Commissione ha
deciso, conformemente all’art. 48 del suo Regolamento interno, di
portare il ricorso a conoscenza del Governo italiano (e per esso alla
Rappresentanza Permanente) e di invitarlo a presentare per iscritto,
entro un termine stabilito, delle osservazioni sulla ricevibilità ed il fondamento delle doglianze. Spesso la Commissione indica i punti sui
quali desidera che il Governo faccia osservazioni ponendo delle
domande.
Una volta ricevuta tale comunicazione, la nostra Rappresentanza
a Strasburgo informa il Ministero degli Affari Esteri ed i Ministeri interessati. Se il ricorso riguarda il processo amministrativo viene interessata la Presidenza del Consiglio, se riguarda il processo ordinario il
Ministero di Grazia e Giustizia. All’interno di quest’ultimo la pratica
sarà affidata all’Ufficio Legislativo se le doglianze riguardano il processo civile, alla Direzione Generale degli Affari Penali, Ufficio VII (diretto dalla sottoscritta), se riguardano il processo penale.
Ricevuta la comunicazione con allegata la nota del Segretariato con
l’esposizione dei fatti, il ricorso ed i documenti prodotti dal ricorrente, la
decisione sulla ricevibilità, si provvede a richiedere all’Autorità o alle
Autorità giudiziarie interessate gli elementi per la difesa oltre che osservazioni e valutazioni sulla ricevibilità sul fondamento del ricorso.
Spesso accadde che devono essere richieste notizie anche ad altri
organi ed enti (così ai Comuni, al D.A.P. e così via).
Ricevuta la nota, con i documenti, dall’Autorità Giudiziaria (ma sul
punto torneremo successivamente), si provvede a redigere le osservazioni in difesa dello Stato con riferimento alla giurisprudenza della Commissione e della Corte sul punto.
Tali osservazioni vengono inviate al Ministero degli Affari Esteri ed
alla nostra Rappresentanza a Strasburgo, dove opera come coagente del
Governo (l’Agente è il Capo del Servizio del Contenzioso Diplomatico)
attualmente un magistrato fuori luogo purché distaccato al M.A.E..
Il coagente firma le osservazioni, eventualmente integrandole, e le
presenta alla Cancelleria della Commissione che provvede a trasmetterle
al ricorrente per eventuali contro osservazioni.
Può anche accadere che il ricorrente chieda alla Commissione di
essere ammesso al gratuito patrocinio.
La nostra Rappresentanza, ci chiede, quindi di inviare gli elementi
per presentare le osservazioni al riguardo.
Successivamente il Ministero è chiamato a valutare e motivare se
232
optare per le osservazioni scritte (la regola) o orali nel caso che la Commissione ritenesse necessarie delle osservazioni complementari.
Viene poi comunicato il testo delle osservazioni del ricorrente in
risposta a quelle presentate dal Governo con un termine per eventuali
ulteriori osservazioni o puntualizzazioni.
La Commissione esamina nel merito e più approfonditamente le
questioni poste con il ricorso e stende una motivata decisione sulla ricevibilità (che qui sta per fondatezza) o meno del ricorso, di tutte o di alcune delle doglianze.
Ai sensi dell articolo 28, par. 1 lettera b), della Convenzione, a questo punto della procedura la Commissione comunica di essere a disposizioni delle parti per prevenire ad una soluzione amichevole della procedura.
Va detto a questo proposito che da qualche anno, in base a superiori
disposizioni, l’Italia non richiede mai la composizione amichevole.
Questa Direzione Generale ha però richiesto di rivedere tale orientamento.
Trascorso inutilmente il termine assegnato per addivenire alla composizione amichevole, la Commissione adotta il rapporto, che è riservato (confidentiel) ed è redatto in una delle due lingue ufficiali del Consiglio d’Europa (francese o inglese). Il rapporto ci viene trasmesso con
l’indicazione che lo stesso sarà trasmesso al Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa, oltre che al ricorrente, conformemente all’articolo
31, par. 2 della Convenzione, come modificato dal Protocollo n. 9.
Né lo Stato, né il ricorrente possono pubblicare tale rapporto. Da
questo momento decorrono tre mesi per adire la Corte.
Generalmente si decide di ricorrere alla Corte quando la questione è
particolarmente grave, o prevede un’interpretazione particolarmente
significativa della Convenzione, oppure quando il rapporto contiene
un’affermazione di principio innovativo, e ciò in considerazione delle
funzioni proprie della Corte di cui si è parlato in precedenza.
Una volta adita la Corte, il Presidente fissa la data dell’udienza a
Strasburgo. Ad essa partecipa il coagente del Governo, un Rappresentante del Ministero quale esperto, un rappresentante della Commissione, il ricorrente ed il suo difensore. L’udienza pubblica si svolge o in
francese o in inglese, è tollerato per il solo difensore l’uso della lingua
nazionale.
La Corte poi comunica la sentenza.
Nella generalità dei casi però la procedura si chiude con la pronuncia del Comitato dei Ministri.
La condanna generalmente è al pagamento di una somma di dena-
233
ro. A ciò provvede l’Ufficio VIII della Direzione Generale degli Affari
Civili del Ministero.
Il Comitato dei Ministri segue il successivo adempimento della sentenza chiedendoci formali assicurazioni sul pagamento o su gli altri
adempimenti impostici.
Di recente il Direttore dei Diritti Umani ci ha chiesto, perché vi sia
una più ampia diffusione della conoscenza delle decisioni di Strasburgo, di trasmetterle alle autorità giudiziarie interessate, cosa che ci apprestiamo a fare.
Rapporti con le singole autorità giudiziarie.
Tentando ora di tirare le somme di tutto quello sin qui detto, non
può non osservarsi come la sempre più completa ed approfondita conoscenza della giurisprudenza di Strasburgo da parte dei magistrati, dei
capi degli uffici e di tutti gli operatori del diritto potrà consentire in
molti casi di approntare efficaci difese dello Stato, ma soprattutto potrà
condurre ad eliminare molti di quei comportamenti ed atti idonei a
costituire materia per il ricorso a Strasburgo.
In primo luogo è necessario avvertire la necessità e l’utilità di rispondere alle nostre richieste nei tempi fissati (che come si è visto non rispondono ai nostri capricci ma a termini a nostra volta ricevuti da Strasburgo), con precisione ed attenzione agli specifici quesiti posti dalla Commissione (che costituiscono il “tema decidendum”) senza, a volte succede disperdersi a fornire spiegazioni su questioni già ritenute irricevibili, con ricerca accurata di tutti gli atti necessari per sostenere l’infondatezza delle doglianze.
Mi rendo conto delle difficoltà in cui spesso, troppo spesso operano
gli uffici giudiziari, dell’onere di lavoro che grava su di essi, ma vi assicuro che un piccolo sforzo in questo campo, soprattutto in celerità di
risposta, è di estrema importanza per l’immagine di tutto il nostro
Paese.
Quindi fate cercare con cura il fascicolo, spesso finito in un polveroso archivio dove gli impiegati sono riottosi ad andare, consultatelo
attentamente, estraete tutti gli atti utili. Così se la questione riguarda la
contumacia (o la latitanza) assicuratevi di avere inviato al Ministero la
copia di tutte le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria; se riguarda
la lunghezza del processo inviate tutte le istanze, le richieste con le quali
il ricorrente o il suo difensore hanno chiesto rinvio.
Ma prima ancora cerchiamo di fare uno sforzo tutti insieme per evi-
234
tare, nel limite del possibile, che il numero dei ricorsi dichiarati ricevibili sia così consistente.
Al riguardo possiamo fare qualcosa, anche senza i pur necessari
interventi legislativi, ad esempio esigendo che le ricerche effettuate per la
dichiarazione di contumacia siano documentate il più dettagliatamente
possibile, indicando sempre nei verbali di udienza non solo le richieste
di rinvio del difensore, ma anche la mancata opposizione dei difensori (o
del difensore) al rinvio chiesto da altro difensore, motivando l’impossibilità dello stralcio della posizione dell’imputato (rispetto al quale si è
verificata una causa di rinvio) dagli altri e inserendo a verbale l’eventuale opposizione dei difensori allo stralcio.
Bisognerebbe, poi, cercare quanto più è possibile di liquidare la
parte civile nello stesso processo penale per evitare che ad un tempo relativamente non lungo del processo penale si debba aggiungere il tempo
lunghissimo del processo civile.
Spesso di fronte a danni solo morali (come nei numerosissimi casi
di diffamazione) non è agevole spiegare perché la liquidazione non sia
avvenuta nella stessa sede penale e sia necessario percorrere ancora altri
tre gradi di giudizio.
Molto ancora vi sarebbe da dire, ma mi fermo qui avendo già abusato della vostra pazienza.
235
FRODI COMUNITARIE. DAL CORPUS IURIS
AL NUOVO PROGRAMMA DI LAVORO
DELLA COMMISSIONE EUROPEA
Relatore:
dott. Alessandro BUTTICÈ
Maggiore della Guardia di Finanza
Verso uno spazio giudiziario europeo per la protezione degli interessi
finanziari dell’Unione europea?
Lo sforzo compiuto dalla Commissione europea in generale, e
dalla propria struttura di coordinamento della lotta alla frode
(U.C.L.A.F.) in particolare, negli ultimi cinque anni, in stretta collaborazione con le altre istituzioni comunitarie e gli Stati membri, in materia di protezione delle finanze comunitarie, hanno condotto a risultati di sicuro rilievo, di difficile comparazione con quanto realizzato precedentemente.
Fra i recenti progressi registrati nel settore, non possono essere
dimenticati, ad esempio:
– le disposizioni in merito alla notifica alla Commissione delle
frodi accertate dagli Stati membri, che riguardano oggi tutti i settori
di attività comunitaria [sia per quanto attiene le entrate, le cosiddette
risorse proprie “tradizionali” (1) che le spese – FEOGA-Garanzia (2) e
fondi strutturali (3) e la mutua assistenza amministrativa in materia
doganale ed agricola (4)];
– il Regolamento per la tutela degli interessi finanziari della
Comunità, adottato nel dicembre 1995 (5);
– il Regolamento relativo ai controlli e alle verifiche sul posto,
(1) Regolamento n. 1552/89, art. 6.3.
(2) Regolamento n. 595/91, artt. 3, 4 e 5.
(3) Regolamento n. 1681/94, artt. 2 e seguenti.
(4) Regolamento n. 1468/81, art. 14-bis, sostituito, dal marzo 1998, dal Regolamento n. 515/97.
(5) Regolamento (C.E. EURATOM) n. 2988/95 del Consiglio del 18 dicembre 1995.
237
adottato nel novembre 1996, ed in vigore dal 1° gennaio 1997 (6);
– una convenzione ed un protocollo relativi al ravvicinamento normativo, al rafforzamento della cooperazione e della protezione penale, siglati rispettivamente nel luglio 1995 e nel settembre 1996 (7).
Dal 1994, poi, alcuni Stati membri hanno istituito strutture specializzate per la tutela delle finanze europee, mentre altri hanno preso
disposizioni dirette ad intensificare la cooperazione con la Commissione. A tale proposito occorre evidenziare che, per quanto riguarda
l’Italia, nel rapporto annuale 1996 sulla lotta contro la frode, presentato il 6 maggio 1997, la Commissione ha evidenziato come “oltre alla
creazione di un nucleo speciale per la repressione delle frodi comunitarie, la Guardia di finanza ha proseguito ed accentuato la sua collaborazione con la Commissione per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione. Un protocollo tecnico d’intesa è stato firmato a
Roma il 4 ottobre 1996 tra il comandante generale della Guardia di
finanza e l’U.C.L.A.F., al fine di cristallizzare, per la prima volta in un
atto formale, i rapporti di strettissima collaborazione operativa che
sono stati instaurati tra i due organismi”.
Si tratta di iniziative che la Commissione di Bruxelles considera
positive ed incoraggianti, consapevole che il successo della politica
antifrode dipende dall’intensità dello sforzo con cui gli Stati membri
cercheranno di migliorare gli strumenti nazionali per tutelare in modo
più efficiente gli interessi finanziari comunitari.
Non meno ambizioso di quello per gli anni passati, il programma
di lavoro 1997-1998 della Commissione europea in materia di lotta alle
frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione – recentemente
presentato alle diverse istituzioni comunitarie ed agli Stati membri –
prevede la concentrazione degli sforzi sui sei seguenti temi:
– individuazione delle irregolarità;
– recupero delle somme frodate;
– prevenzione della frode e blindatura della normativa comunitaria contro le frodi;
– sanzioni amministrative e dissuasione;
(6) Regolamento (EURATOM, C.E.) n. 2185/96 del Consiglio, dell’11 novembre
1996, relativo a controlli ed alle verifiche sul posto effettuate dalla Commissione per la
protezione degli interessi finanziari delle Comunità europee contro le frodi ed altre
irregolarità.
(7) Tali provvedimenti devono tuttavia essere ancora ratificati dagli Stati membri
e adeguatamente recepiti nei rispettivi ordinamenti.
238
– spazio giudiziario per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione;
– preparazione dell’ampliamento dell’Unione e relazione con i
Paesi non membri.
In modo mai così esplicito nel passato, la Commissione europea,
nel lanciare la nobile idea di uno spazio giudiziario comune per la
tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea punta senza mezzi
termini, tra l’altro, al ravvicinamento degli ancora troppo diversi sistemi sanzionatori nazionali, allo scopo di realizzare un livello di protezione equivalente in tutta la Comunità.
Tale principio, già introdotto dal Consiglio europeo di Madrid del
dicembre 1995, mira a consentire, al di là dell’“assimilazione” (8), di
cui all’art. 209A del Trattato (9), una maggiore omogeneità dei controlli e delle verifiche, un recupero più equo delle somme eluse o indebitamente percepite nonché un’applicazione più uniforme delle
sanzioni comunitarie o nazionali che rivestano un carattere effettivo,
proporzionato e dissuasivo in tutti gli Stati membri.
Lo sforzo della Commissione europea in tale settore, prende le
mosse dall’inconfutabile presa di coscienza che il livello di integrazione del mercato interno e la particolare responsabilità devoluta alla
Comunità per la tutela delle proprie finanze richiedono la realizzazione, anche nel campo penale, di un corrispondente spazio omogeneo ed
integrato, che consenta alle autorità giudiziarie dei diversi Stati membri di affrontare l’insidiosa incombenza della criminalità transnazionale che mira a beneficiare indebitamente di ingenti parti del bilancio
comunitario.
(8) Principio introdotto dalla celebre sentenza sul “mais jugoslavo” della Corte di
Giustizia delle Comunità europee (Corte di Giustizia delle Comunità europee, 21 settembre 1989, Commissione c/Repubblica ellenica, n. 68/88, racc., 2965).
(9) L’art. 209A del Trattato sull’Unione europea stabilisce che: “Gli Stati membri
adottano per combattere le frodi che ledono gli interessi finanziari della Comunità, le
stesse misure che adottano per combattere le frodi che ledono i loro interessi finanziari.
Fatte salve le altre disposizioni del presente Trattato, gli Stati membri coordinano l’azione intesa a tutelare gli interessi finanziari della Comunità contro le frodi. A tal
organizzano, con l’aiuto della Commissione, una stretta e regolare cooperazione tra i
servizi competenti delle rispettive amministrazioni”.
Il comma 1 di tale articolo ha ripreso integralmente il principio introdotto nella
giurisprudenza comunitaria dalla sentenza del 21 settembre 1989 della Corte di Giustizia, nella causa n. 68/88 (vd. nota precedente).
239
Un grido d’allarme a livello nazionale, ben recepito dalla Commissione europea, e stato, tra gli altri, quello effettuato dal giornalista
francese DENIS Robert che nel suo recente libro La justice, ou le chaos
(10), attraverso le interviste effettuate a sette magistrati di sei diversi
Stati europei (Svizzera compresa!) impegnati nella lotta alla corruzione ed alla criminalità economico-finanziaria transnazionale, ha messo
a nudo i limiti di cui dispongono i nostri ordinamenti giuridici per far
fronte alla moderna criminalità che, a differenza di coloro che sono
tenuti a reprimerla, non conosce da tempo alcuna frontiera.
Per dare tuttavia “a Cesare quel che è di Cesare”, va detto che il
progetto “Spazio giudiziario europeo” è stato lanciato nel 1995, dal
fervido ingegno di un italiano, Francesco DE ANGELIS, direttore
presso la Direzione generale del controllo finanziario (DGXX) della
Commissione europea di Bruxelles. Da tempo impegnato nel tema
della protezione degli interessi finanziari dell’Unione e creatore, in
tutti gli Stati membri dell’Unione ed in alcuni Paesi terzi, di una serie
di associazioni di giuristi (avvocati, magistrati, alti funzionari di corpi
di polizia finanziaria, eccetera) sensibili a tale particolare problematica di sempre più grande attualità, Francesco DE ANGELIS, su richiesta del Parlamento europeo e d’intesa con l’U.C.L.A.F. (la Direzione di
coordinamento della lotta alla frode della Commissione europea) ha
affidato tale progetto ad un gruppo di esperti riunitisi a tale scopo tra
il novembre del 1995 ed il maggio del 1996.
Tale comitato scientifico, diretto dalla professoressa Mireille DELMAS-MARTY, della Sorbona di Parigi, è stato suddiviso in tre sottogruppi tematici (diritto sostanziale, regole di competenza ed extraterritorialità, procedura e prove). Ogni sottogruppo ha stabilito due rapporti consacrati: uno al bilancio comparativo delle proposte anteriori
e delle iniziative prese in risposta a tali proposte, detto “Bilancio e prospettive”, l’altro all’elaborazione delle proposizioni sintetizzate in un
rapporto finale, pubblicato nel cosiddetto Corpus iuris recante proposte di disposizioni penali per la protezione degli interessi finanziari
dell’Unione europea (11). Tale opera, recentemente pubblicata, vuole
tendere a fornire una risposta radicalmente nuova all’assurdità denunciata da tempo da molti, purtroppo sempre tollerata, consistente nel-
(10) DENIS Robert, La justice ou le chaos, Editions Stock, Paris, 1996.
(11) Corpus iuris, Direction Générale du Contrôle Financier de la Commission
Européenne ed Ed. Economica, Paris, 1997, recante il testo del rapporto in francese,
con traduzione in inglese effettuata sotto la direzione del prof. John SPENCER.
240
l’aprire largamente le frontiere ai delinquenti per chiuderle agli organismi incaricati della repressione, ed al rischio incombente di trasformare i Paesi europei in veri “paradisi penali”. Da osservare che tale
testo non è una proposta né di un codice penale né di procedura penale europeo totalmente unificato e direttamente applicabile, in tutti i
campi, da giurisdizioni europee create a tale fine. Si tratta invece di un
insieme di regole penali, che costituiscono, appunto, una sorta di corpus iuris, limitato alla protezione penale degli interessi finanziari dell’Unione europea e destinato ad assicurare, in un auspicabile spazio
giudiziario europeo largamente unificato, una repressione più giusta,
più semplice e più efficace.
Per l’Italia, apporto di particolare pregio scientifico a tale studio è
stato dato dal prof. Giovanni GRASSO, dell’Università di Catania, che
ha sviluppato, assieme ai colleghi BACIGALUPO, dell’Università di
Madrid, e TIEDEMANN, dell’Università di Friburgo, la parte di diritto sostanziale. Non va tuttavia dimenticato il contributo di Vania
CIRESE che, sulla scorta della propria esperienza forense, ha curato
il documento dedicato al diritto della difesa in uno spazio giudiziario
europeo.
Senza entrare troppo nel dettaglio del Corpus iuris, che meriterebbe ben altra attenzione e ben più approfondito esame, riteniamo
dover ricordare la particolare originalità, diremmo quasi “provocatoria” per certi aspetti, insita nella proposta istituzione di un pubblico
ministero europeo, quale Autorità della Comunità europea, responsabile per la ricerca, la repressione, il rinvio a giudizio, l’esercizio dell’azione pubblica davanti la giurisdizione giudicante e l’esecuzione delle
sentenze concernenti le infrazioni ai danni dell’Unione europea. Autorità che, secondo la previsione degli autori del Corpus iuris, deve essere indipendente tanto dalle autorità nazionali che dagli organi comunitari.
Il pubblico ministero europeo, sempre secondo il Corpus, dovrebbe essere composto da un procuratore generale europeo (P.G.E.), con
sede dei propri uffici a Bruxelles, e da procuratori europei delegati
(P.E.D.), con uffici presso le capitali di ogni Stato membro, o presso
ogni altra città ove hanno sede le giurisdizioni competenti.
Suggerendo di esaminare “la possibilità di creare presso delle istituzioni europee un pubblico ministero generale incaricato del controllo e del coordinamento delle procedure di carattere penale che
sono legate alle entrate ed alle spese della Comunità” il Parlamento
europeo aveva già introdotto il concetto di pubblico ministero europeo
in una delle sue Dieci proposte concrete per migliorare la lotta contro la
241
frode, presentate dal Presidente Klaus HÄNSCH, nel corso della Conferenza interparlamentare che ha avuto luogo a Bruxelles il 23 e 24
aprile 1996.
Tale auspicata creazione, non deve tuttavia portare, secondo gli
autori del Corpus iuris, all’istituzione di un nuovo organo burocratico,
centralizzato, costoso finanziariamente e che potrebbe correre il
rischio di essere poco efficace, per la sua stessa pesantezza, dal punto
di vista funzionale.
Per tale motivo il gruppo di esperti propone che la struttura centrale resti estremamente leggera, limitata al procuratore generale europeo (P.G.E.) ed ai suoi servizi. Nella maggior parte dei casi, l’essenziale
delle attività verrebbe effettuato dai procuratori europei delegati
(P.E.D.) l’efficacia dei quali dovrebbe essere garantita dai principi di
indivisibilità e solidarietà e dall’obbligo di assistenza imposta ai pubblici ministeri nazionali (P.M.N.). Designati da ogni Stato membro e
prescelti in seno al corpo dei procuratori (magistrati o funzionari requirenti, secondo le tradizioni giuridiche nazionali), tali procuratori europei delegati (uno o più per Stato membro, secondo le necessità) dovrebbero essere nominati per un periodo di cinque anni, rinnovabile una
sola volta, e remunerati dai loro Stati di origine. Gli Stati membri,
secondo i relatori, potrebbero ugualmente designare tra i pubblici ministeri nazionali (P.M.N.) uno o più aggiunti che, senza tuttavia avere lo
statuto di M.P.E., potrebbero essere chiamati ad assistere il pubblico
ministero europeo. Secondo lo spirito che impronta la proposta normativa, i membri del M.P.E., ed in modo particolare i P.E.D.; dovrebbero essere dei procuratori “itineranti”, con vocazione a spostarsi da uno
Stato all’altro per esercitare la pienezza delle proprie funzioni. Al di là
di ogni altra possibile osservazione che potrebbe farsi al riguardo, deve
riconoscersi che tali regole potrebbero permettere di evitare il ricorso
alle attuali lunghe e complesse procedure di cooperazione bilaterale,
tanto meno efficaci ove si consideri l’illimitata internazionalità della
criminalità transnazionale. In tale modo le rogatorie internazionali e
l’estradizione tra Stati membri dell’Unione europea potrebbero divenire inutili e trovare loro alternativa nell’istituzione del M.P.E..
Altro significativo aspetto, che merita di essere almeno accennato,
per la sua originalità e rivoluzionarietà è quello dei poteri del M.P.E..
Attribuendo ad esso nelle sue diverse componenti (P.G.E. e P.E.D.) differenziati ed incisivi poteri investigativi, il gruppo di esperti ha teso a
realizzare una sintesi tra i diversi sistemi in vigore in Europa, a mezza
strada tra la tradizione inquisitoria che riposa su di un giudice istruttore incaricato allo stesso tempo di funzioni investigative e giurisdi-
242
zionali (ancora applicato, in particolare, nel Benelux, in Francia ed in
Spagna) e la tradizione accusatoria che senza escludere ufficialmente
le investigazioni da parte di un accusatore privato, tendono il più delle
volte ad affidare alla polizia l’essenziale dei poteri investigativi.
Tenendo conto delle più recenti evoluzioni in particolare della
creazione di un Crown prosecution Service in Inghilterra e nel Galles,
e della scomparsa, in Paesi come la Germania e l’Italia, del giudice
istruttore sostituito da un giudice del controllo, e non delle investigazioni, e della progressiva marginalizzazione del giudice istruttore ove
sopravvive nel senso più tradizionale del termine (in particolare in
Francia ed in Belgio), il gruppo, secondo le intenzioni dichiarate, ha
cercato di prendere il meglio da ogni tradizione giuridica.
Dalla tradizione inquisitoria, ad esempio, ha voluto conservare l’idea di confidare il monopolio delle investigazioni e dell’accusa all’autorità pubblica, tenuta ad esercitare i propri poteri sia a carico che a
discarico. D’altro canto, è alla tradizione accusatoria che si sono ispirati esigendo l’intervento di un giudice (imparziale ed indipendente)
per autorizzare tutti gli atti che possono portare limitazioni alle libertà
individuali dei testimoni o degli accusati (in particolare la libertà di
movimento, la vita privata ed il rispetto del domicilio e della corrispondenza).
La ripartizione, poi, tra poteri propri (ad esempio: Direzione generale delle investigazioni; coordinamento delle investigazioni condotte
dai P.E.D. dai servizi di polizia e dalle amministrazioni nazionali e dall’U.C.L.A.F.; l’avocazione di dossier che rientrano nella propria competenza) ed i poteri delegabili (interrogatorio del sospettato; raccolta di
fonti di prova; perquisizioni, sequestri ed intercettazioni telefoniche;
richieste di detenzione o di messa sotto controllo giudiziario, eccetera,
delegabili ai P.E.D. e subdelegabili ad autorità nazionali, doganali, fiscali o di polizia) è destinata, nell’intenzione dei relatori, ad assicurare il
massimo di flessibilità possibile al P.G.E. che, avendo incaricato diversi
P.E.D. situati in Stati diversi, si renda conto che diversi casi seguiti concernano invece lo stesso affaire, consentendogli di designare uno di essi
per coordinare, sotto la propria direzione, l’insieme delle operazioni.
Per quanto riguarda le condizioni di fondo concernenti la detenzione provvisoria (per un periodo massimo di 6 mesi, rinnovabile per
3 mesi, quando vi siano ragioni plausibili di sospettare che l’accusato
abbia commesso l’infrazione o motivi ragionevoli di credere alla
necessità di impedirgli di commettere una tale infrazione o di fuggire
dopo la sua commissione ...), il testo proposto riprende direttamente
le disposizioni dell’art. 5-1.c, della Convenzione Europea dei Diritti
243
dell’Uomo e suggerisce di estenderli alla misura della sottoposizione al
controllo giudiziario, misura di mantenimento in libertà sotto sorveglianza, ispirato in particolare dal diritto francese (contrôle judiciaire),
la cui utilità, come alternativa alla detenzione, è stata recentemente
sottolineata da una decisione del presidente del Tribunale penale
internazionale de l’Aia del 3 aprile 1996.
Senza soffermarsi ulteriormente sul contenuto del Corpus iuris,
osserviamo che le raccomandazioni dei suoi autori hanno dato senza
dubbio delle indicazioni concrete alla Commissione europea per la
redazione del proprio ultimo programma di lavoro e la conseguente
strategia da seguire. Le conclusioni operative di tale iniziativa verranno esaminate dalla Commissione alla luce delle esperienze che essa, in
modo particolare, a mezzo della propria struttura specializzata in
materia di lotta alla frode, l’U.C.L.A.F. (12), ha maturato sul campo
della lotta alla frode e della cooperazione, insistentemente richiesta
dal Parlamento europeo, con le Autorità giudiziarie nazionali.
Oltre all’approfondimento dei temi affrontati dal Corpus iuris (13),
gli assi sui quali si fonda la strategia antifrode della Commissione
europea in tale settore sono:
– l’ultimazione del secondo protocollo in materia di protezione
penale degli interessi finanziari dell’Unione europea (14)
– l’istituzione di una struttura “interfaccia di collegamento e di
esperti in materia penale” (15);
(12) Vd. in proposito A. BUTTICÈ, Guardia delle finanze d’Europa, in “Il finanziere” n. 3, marzo 1995, pagg. 8 e seguenti.
(13) Ad esempio, elaborazione di una griglia di lettura comune e preparazione di
un capitolato preciso e mirato per la raccolta delle informazioni e dei dati indispensabili per una panoramica della situazione negli Stati membri; analisi comparata della
situazione nei quindici Stati membri; relazione di sintesi da trasmettere all’autorità di
bilancio (Consiglio e Parlamento europeo); proposte della Commissione al Consiglio.
(14) Il dibattito sviluppatosi in Consiglio sull’adozione di questo protocollo
(responsabilità delle persone giuridiche, riciclaggio, assistenza della Commissione nei
procedimenti penali) proseguono con la cooperazione attiva della Commissione in
modo da pervenire ad un accordo sotto la presidenza olandese.
(15) Una “cellula” ad hoc in seno all’U.C.L.A.F., costituita da esperti in materia penale, dovrà assolvere funzioni di coordinamento e di assistenza per dare sostegno alle indagini amministrative e, se necessario, giudiziarie degli Stati membri. Essa dovrà anche
facilitare gli scambi delle informazioni ed i contratti tra autorità competenti. Tale cellula darà il contributo dell’esperienza acquisita a livello comunitario e offrirà una migliore
conoscenza reciproca del diritto e delle procedure nazionali vigenti e parteciperà ai corsi
di formazione specializzati organizzati per i membri dell’Autorità giudiziaria.
244
– l’ultimazione della Convenzione sulla corruzione (16);
– la valutazione della necessità di riprendere i lavori in seno al
Consiglio sui punti della proposta iniziale della Commissione (17);
– la vigilanza sulla ratifica delle convenzioni, in particolare sulla
ratifica della convenzione sulla protezione degli interessi finanziari e
dei suoi protocolli addizionali (18);
– lo sfruttamento ottimale delle convenzioni internazionali in
modo da combattere più efficacemente la grande criminalità finanziaria (19).
Per meglio comprendere la portata del nuovo programma di
lavoro della Commissione europea in tema di “spazio giudiziario
comunitario” occorre osservare, come sottolineato dal recente rapporto annuale sulla lotta contro la frode nel 1996, che il 1995 si era
concluso con l’impegno di completare la convenzione relativa alla
(16) La convenzione estende l’ambito di efficacia del protocollo (firmato nel settembre (1966) che riguarda la corruzione collegata alla tutela degli interessi finanziari
comunitari. Devono essere ultimate le disposizioni relative alla competenza giurisdizionale della Corte di Giustizia delle Comunità europee. Tale provvedimento dovrà tenere
conto del fatto che la competenza giurisdizionale della Corte si estende ai comportamenti dei funzionari comunitari e nazionali che – anche al di fuori dell’ambito di protezione degli interessi finanziari – possono risultare lesivi degli interessi comunitari.
(17) La Commissione intende mettere a punto in tale contesto una strategia per
l’ulteriore trattamento di alcuni aspetti della tutela penale di cui alla “convenzione
madre” e al secondo protocolo: si tratta, in sostanza, dei profili relativi al reciproco
riconoscimento delle prove, alla cooperazione giudiziaria diretta, all’accertamento dell’azione penale e al monitoraggio delle frodi. Tali tematiche, alcune delle quali messe
all’indice da un’apposita Commissione parlamentare d’inchiesta sul transito comunitario del Parlamento europeo, unitamente ai diritti e all’obbligo di esercitare l’azione
penale ed effettuare sequestri su terra, mare e alto mare, potrebbero essere oggetto di
un terzo protocollo o di un altro strumento giuridico appropriato.
(18) Prima di procedere all’analisi delle disposizioni emanate dagli Stati membri,
la Commissione intende offrire la propria assistenza ai fini della preparazione dei
provvedimenti attuativi della convenzione e dei protocolli addizionali (soprattutto allo
scopo di precostituire un’incriminazione adeguata al contesto dell’Unione), ai fini della
lotta contro le frodi transnazionali e ai fini della realizzazione di un livello di repressione equivalente in tutta la Comunità.
(19) Per una maggiore incisività delle indagini e dell’azione penale, la Commissione valuterà la validità degli strumenti di diritto internazionale attualmente vigenti
in modo da fare pieno ricorso a tutte le possibilità che esse offrono per prevenire i traffici illeciti, in modo particolare quelli effettuati al di fuori delle acque territoriali. A tale
proposito si veda ad esempio la convenzione del 10 dicembre 1982, articolo sul diritto
del mare, che la Comunità europea sta concludendo, documento Com(97)37 del 4 febbraio 1997 sull’applicazione del diritto comunitario alle attività in alto mare.
245
protezione degli interessi finanziari della Comunità. Due progetti di
protocollo a tale convenzione erano all’ordine del giorno. Il primo
protocollo era diretto alla corruzione che portava nocumento o che
era suscettibile di portare nocumento agli interessi finanziari delle
Comunità europee. Il secondo progetto di protocollo mirava a creare delle regole specifiche alla cooperazione giudiziaria ed alla condotta di investigazioni concertate in caso di frodi pluri o transnazionali. Il Consiglio europeo di Madrid del dicembre 1995 aveva d’altro
canto richiesto che tali lavori destinati a completare la convenzione
siano conclusi, tanto nel campo della repressione in caso di funzionari [nazionali e comunitari (20)], che nel campo della cooperazione
giudiziaria.
Il primo protocollo sulla corruzione dei funzionari trae la sua
ragion d’essere dalla constatazione che il potere corruttivo della cri-
(20) Il personale della Commissione europea, ad esempio. Esso si divide in statutario e non statutario. Le principali categorie di personale statutario – cui si applica
cioè lo statuto dei funzionari e altri agenti della Comunità – sono i funzionari (suddivisi in categorie: A, direttivi; B, di concetto; C, segretariato e D, tecnico) e gli altri agenti (agenti temporanei, agenti ausiliari, agenti locali e consiglieri speciali).
Tra il personale non statutario vi sono gli Esperti nazionali distaccati (E.N.D.): si
tratta cioè di funzionari nazionali, internazionali o dipendenti del settore privato messi
temporaneamente a disposizione dei servizi della Commissione per un periodo da 1 a
3 anni. Essi assistono i funzionari della Commissione e, salvo mandato speciale, sono
esclusi da qualunque atto ufficiale che impegni la Commissione nei confronti dell’esterno.
Il personale statutario, a differenza di quello non statutario, è coperto dal protocollo sulle immunità e privilegi dei funzionari delle istituzioni europee che prevede, tra
l’altro, che sul territorio di ciascuno Stato membro e qualunque sia la loro cittadinanza, i funzionari e altri agenti delle Comunità godono dell’immunità di giurisdizione per
gli atti da loro compiuti in veste ufficiale, comprese le loro parole e i loro scritti, anche
dopo la cessazione delle loro funzioni. Giova tuttavia sottolineare che tali privilegi e
immunità sono attribuiti, come stabilito dall’art. 12 del protocollo, nell’esclusivo interesse delle Comunità, e possono quindi essere revocati qualora il funzionario o l’agente
si renda responsabile di fatti illeciti.
Lo statuto dei funzionari ed altri agenti delle Comunità, all’art. 17, pone loro l’obbligo di osservare la massima discrezione su fatti e notizie di qualsiasi natura di cui
siano venuti a conoscenza nell’esercizio o in occasione dell’esercizio delle loro funzioni e di non comunicare in alcun modo, a persona non qualificata ad averne conoscenza, documenti o informazioni non ancora resi pubblici. Tale obbligo vincola il personale statutario anche dopo la cessazione dal servizio. L’art; 19 dello statuto prevede
invece che senza l’autorizzazione dell’autorità che ha il potere di nomina (Direzione
generale del personale), il funzionario non può a nessun titolo, anche dopo la cessazione dal servizio, deporre in giudizio su fatti di cui sia venuto a conoscenza a causa
del proprio ufficio.
246
minalità organizzata può esercitarsi anche in caso di frode ai danni
del bilancio comunitario. Tali azioni corruttive presentano spesso un
carattere transnazionale che può implicare la repressione di infrazioni concernenti funzionali nazionali o comunitari. Tale protocollo
alla convenzione, è stato firmato dai Ministri della giustizia degli
Stati membri il 27 settembre 1996 (21). Esso riguarda ugualmente le
infrazioni commesse da o contro i membri della Commissione, del
Parlamento europeo, della Corte di Giustizia e della Corte dei conti
delle Comunità europee, nell’esercizio delle loro funzioni, nella misura in cui prevede l’assimilazione di tali soggetti ai Ministri dei governi degli Stati membri, agli organi elettivi delle assemblee parlamentari, nonché ai membri delle più alte giurisdizioni e delle Corti dei
conti nazionali.
La corruzione può esercitarsi tuttavia anche in settori di attività
delle Comunità europee che non hanno dei legami diretti espliciti con
la frode propriamente detta. È per tale motivo che, in seguito alla realizzazione di tale protocollo sotto presidenza spagnola del Consiglio,
la presidenza italiana ha ripreso tale dispositivo per estenderlo, nel
quadro di una convenzione, all’insieme delle azioni di corruzione. Un
accordo deve essere ancora trovato su di un testo che vada al di là della
sola protezione degli interessi finanziari per raggiungere un obiettivo
di lotta globale contro la corruzione.
Bisogna inoltre ricordare la firma, il 29 novembre 1996, in occasione del Consiglio dei Ministri della giustizia, di un protocollo
determinante il ruolo della Corte di Giustizia in materia di protezione degli interessi finanziari e nel quadro del sistema di informazione doganale (22). Gli Stati membri, attraverso tale testo, hanno la
possibilità di introdurre nel loro diritto interno il ricorso ad un intervento pregiudiziale della Corte, secondo modalità di loro scelta, che
portano all’interpretazione della convenzione in causa. Questa questione dell’interpretazione a titolo pregiudiziale della Corte di Giu-
(21) G.U.C.E. n. C 313 del 25 ottobre 1996.
(22) Nel quadro del Sistema di informazione doganale (S.I.D.), la Corte di Giustizia deve stabilire, a titolo pregiudiziale, sull’interpretazione della convenzione sull’utilizzo dell’informatica nel campo delle dogane. Un altro protocollo, che ricalca lo stesso modello di quello concernente la protezione degli interessi finanziari, relativo all’interpretazione a titolo pregiudiziale da parte della Corte di Giustizia della convenzione
che crea un ufficio europeo di polizia (EUROPOL), è stato firmato il 23 luglio 1996
(G.U.C.E. n. C 299 del 9 ottobre 1996).
247
stizia è la sola questione che resta ancora in sospeso per la convenzione sulla corruzione.
Una proposta di un secondo protocollo alla convenzione relativa
alla protezione degli interessi finanziari dell’Unione è stata sottoposta
dalla Commissione al Consiglio il 19 gennaio 1996 (23). Essa riprende
certi elementi di protezione penale che erano stati scartati dalla convenzione, per permettere alla presidenza di turno di concludere nel
termine imposto dal Consiglio europeo. L’ambizione iniziale della proposta della Commissione tendeva a rispondere alle difficoltà reali constatate sul terreno, in particolare per quanto attiene le questioni sensibili della responsabilità penale delle persone giuridiche, del riciclaggio dei proventi della frode commessa ai danni del bilancio comunitario, del mutuo riconoscimento delle prove, della cooperazione giudiziaria e della centralizzazione delle procedure.
Completando la convenzione, tale protocollo doveva costituire,
assieme al regolamento sui controlli e le verifiche sul posto, un insieme coerente creando in particolare le passerelle tra i risultati dei controlli amministrativi e le procedure giudiziarie penali.
Tenuto conto della difficoltà dei dibattiti su queste materie, non è
stato possibile per la Commissione conservare il livello di ambizione
iniziale del protocollo proposto. Tuttavia, un certo numero di elementi, quali la responsabilità delle persone giuridiche, il riciclaggio e l’assistenza della Commissione nell’ambito delle investigazioni condotte
dalle Autorità giudiziarie nazionali nei campi della lotta contro la
frode, del riciclaggio e della corruzione è stato fatto salvo, al fine di
permettere al Consiglio di concludere prima della fine della presidenza olandese nel 1997. Gli elementi ritirati dal progetto iniziale restano
tuttora sulla tavola del Consiglio e, secondo la Commissione, dovranno costituire l’oggetto di un nuovo protocollo per dare seguito all’invito del Consiglio europeo di Madrid, che aveva esplicitamente richiesto
di proseguire tali lavori al fine di completare la convenzione in particolare in vista di realizzare degli strumenti di cooperazione giudiziaria propri alla protezione degli interessi finanziari dell’Europa.
Insomma, i programmi sono di non poco conto e lasciano ben sperare in un futuro, che ci auguriamo non troppo remoto, in cui potranno dischiudersi le frontiere interne, oltre che per la criminalità transnazionale, anche per la giurisdizione penale.
(23) Doc. Com(95)693 final, G.U.C.E. n. C 83 del 2 marzo 1996.
248
Non mancheranno sicuramente ostacoli di ogni tipo e grandi
dibattiti sull’argomento. Ma la sensibilità di tutti quanti credono fermamente in un’Europa di diritto, oltre che di mercato, pur nell’indiscutibile ed imprescindibile garanzia che dovrà essere assicurata ai
diritti ed alle libertà individuali e della difesa, dovrà essere messa alla
prova e contribuire a costituire una valida piattaforma perché un argine serio venga messo ai “corsari” della frode.
Organizzazioni criminali senza scrupoli che del mercato globale e
della compartimentazione nazionale, se non subnazionale, delle azioni investigative hanno sinora dimostrato di saper largamente approfittare, a discapito della giustizia e, non ultime, nelle tasche di tutti i
cittadini-contribuenti d’Europa.
249
LA TUTELA DEGLI INTERESSI FINANZIARI
DELLA COMUNITÀ EUROPEA.
IL RUOLO DELLE AUTORITÀ GIUDIZIARIE NAZIONALI
E DEL SERVIZIO ANTIFRODE DELLA COMMISSIONE
EUROPEA
Relatore:
dott. Stefano MANACORDA
Assistente di diritto penale nell’Università di Parigi I Panthèon - Sorbonne
LA TUTELA PENALE DEL BILANCIO COMUNITARIO
NELLA LEGISLAZIONE ITALIANA
Linee normative e profili problematici dell’interpretazione.
1. La rilevanza della tutela degli interessi finanziari comunitari
nell’attuale sistema penale: profili introduttivi e di tecnica legislativa.
L’analisi della tutela penale approntata in relazione agli interessi
finanziari delle Comunità europee ha conosciuto negli ultimi dieci
anni un successo scientifico crescente e per certi versi inaspettato. Le
ragioni di tale evoluzione sono molteplici, ma è agevole ravvisarne una
delle cause principali nella crescente attenzione che al fenomeno delle
frodi hanno dedicato le stesse istituzioni di Bruxelles, non solo
mediante la predisposizione di un apparato normativo complesso e
per certi versi ’rivoluzionario’, ma altresì con un notevole impegno in
termini economici e politici, di cui anche l’odierno incontro costituisce prova.
Se non può negarsi che la riflessione scientifica sia stata stimolata da un tale ’attivismo’ comunitario, bisogna peraltro riconoscere che
altri elementi, per così dire intrinseci contribuiscono ad attribuire una
notevole rilevanza politico-criminale al fenomeno delle frodi. Due dati
meritano di essere segnalati.
Il primo è che diritto comunitario e diritto penale costituiscono
nella più tradizionale scienza penalistica termini apparentemente
251
antinomici (1) e che tale opinione tralatiziamente accolta è stata ridimensionata, e per certi versi smentita, proprio dall’esperienza normativa ed applicativa maturata in relazione alle condotte delittuose in
danno delle Comunità europee. Tale settore di studio, in buona sostanza, ha operato come banco di prova delle relazioni tra diritto comunitario e diritto penale, aprendo una strada, non lineare ma piuttosto
lunga tortuosa, a tale relazione, che ancora viene definita come un
’difficile incontro’ (2) o una ’strana coppia’ (3).
Ma a fondamento della maturità (e per certi versi dell’autonomia)
scientifica delle tutela penale delle finanze comunitarie ha contribuito essenzialmente l’emersione del bilancio comunitario quale bene
giuridico meritevole di tutela, specie a seguito dell’istituzione negli
anni ’70 di un sistema di risorse proprie comunitarie, alimentate dai
dazi e prelievi agricoli, da una certa percentuale del gettito I.V.A. percepito degli Stati membri e da contribuzioni dirette di questi ultimi
(4). Il patrimonio comunitario viene anzitutto in rilievo sotto come
integrità delle risorse finanziarie, ma tale aspetto non esaurisce certamente la portata offensiva che condotte fraudolente possono esplicare
nei confronti delle Comunità europee. È l’aspetto dinamico della tutela quello che crea maggiori inquietudini e correlative esigenze di tutela. Difatti le condotte fraudolente non solo incidono negativamente
sulle casse delle istituzioni, ma frustrano altresì le esigenze che sottostanno alla corretta allocazione di tali risorse, vale a dire gli obiettivi
di politica economica e sociale programmati in sede politica.
Sul piano della tecnica della tutela, ciò implica che, stante la notoria assenza di un potere punitivo penale (ma non anche amministrativo) (5) delle Comunità europee prima, dell’Unione europea poi, sorge
l’obbligo giuridico in capo agli Stati membri di includere nei precetti
(1) Cfr. per tutti DELMAS MARTY, Diritto penale e unione europea, in Riv. it. dir.
proc. pen., 1997 (in corso di stampa).
(2) BORÉ, La difficile rencontre du droit pénal français et du droit communautaire,
in Mélanges Vitu, Paris, 1989, p. 25 ss.
(3) SALAZAR, Diritto penale e diritto comunitario: la strana coppia, in Cass. pen.,
1992, p. 1658 ss.
(4) Vedi Decisione del Consiglio del 21 aprile 1970 relativa alla sostituzione dei contributi finanziari degli Stati membri con risorse proprie delle Comunità, in G.U.C.E. L. 94
del 28 aprile 1970 e Decisione del Consiglio del 7 maggio 1985 relativa a sistema delle
risorse proprie delle Comunità, in G.U.C.E. L. 128 del 14 maggio 1985.
(5) Cfr. GRASSO, Recenti sviluppi in tema di sanzioni amministrative comunitarie
(nota a Corte di Giustizia, causa 240/90), in Riv. trim. dir. pen. ec., 1993, p. 740 ss.
252
penali interni condotte che possano recare pregiudizio a beni-interessi di cui la Comunità sia titolare e che risultino meritevoli di tutela.
Per giungere a tale risultato la via è quella dell’assimilazione degli interessi sovranazionali agli omologhi interessi interni, operazione che
non sembra possa attribuirsi alla giurisprudenza ma che richiede l’intervento dilatativo espresso da parte del legislatore.
Se l’insieme di tali fattori ha consentito l’emersione della problematica della tutela penale delle risorse finanziarie della Comunità,
costituendo al contempo terreno per significativi approfondimenti
teorici, va peraltro riconosciuto che l’analisi del quadro penalistico
deve confrontarsi con una molteplicità di risposte assai varie e disomogenee, accomunate unicamente dall’offrire una tutela diretta o
indiretta ad un dato bene giuridico, peraltro come si è visto a connotazione varabile.
Pertanto, nella disamina del quadro normativo vigente occorre
operare una schematica scomposizione tra fattispecie incriminatrici
poste a tutela delle voci passive (contributi finanziamenti, erogazioni
a tasso agevolato, ecc.) e fattispecie poste a tutela delle voci attive
(risorse proprie) del bilancio comunitario, bipartizione classica ma
per ciò stesso illuminante. Preliminarmente sarà opportuno sottolineare come l’ordinamento italiano si contraddistingua, nel confronto
con altri Paesi dell’Unione, per una sostanziale completezza ed organicità del quadro normativo relativo alle c.d. frodi comunitarie, senza
peraltro che ciò impedisca l’apparire di rilevanti limiti. In particolare
a fronte di una palesata volontà del legislatore di tenere fede ad impegni assunti in sede comunitaria, bisogna registrare che ciò non sempre sembra essersi tradotto in formulazioni adeguate sul piano normativo, accompagnandosi a difficoltà ermeneutiche e applicative di
non poco momento.
2. Le fattispecie incriminatrici a tutela delle uscite.
La tutela delle voci passive del bilancio comunitario (erogazioni a
favore di operatori finanziari) è articolata nell’ordinamento italiano
secondo uno schema bifasico, in cui si distingue il momento dell’allocazione delle risorse finanziarie dal momento di impiego o utilizzo delle
stesse. Peraltro le principali fattispecie incriminatrici predisposte dal
legislatore a salvaguardia dell’una e dell’altra fase dell’intervento comunitario, rispettivamente gli artt. 640-bis e 316-bis c.p., presentano qualche leggera nota differenziale di cui occorre sin d’ora dare conto.
253
Prescindendo per il momento dalla diversa collocazione sistematica delle due norme e dal bene giuridico sottostante, è in ordine all’oggetto della condotta che si registra una discrasia nella portata precettiva e punitiva delle due norme. L’art. 640-bis ha ad oggetto “contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero erogazioni dello stesso tipo”,
laddove la malversazione a danno dello Stato di cui all’art. 316-bis fa
riferimento a “contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a
favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere di pubblico interesse”. La diversa terminologia sembrerebbe riempire di contenuto
distinto le due fattispecie così ingenerando uno sfasamento, quanto
all’ampiezza della tutela, tra la fase di erogazione e la fase di utilizzo
del contributo comunitario.
In realtà, è rilievo condiviso in dottrina che sia difficile attribuire
un significato autonomo e preciso alle nozioni di contributo, sovvenzione o finanziamento, giacché, tra l’altro, una qualche incertezza sussiste in merito anche nella dottrina amministrativistica. Vi è da chiedersi allora se il legislatore abbia consapevolmente optato per tale
diversificazione lessicale o se, piuttosto, abbia inteso far ricorso ad
un’elencazione casistica di tipo esemplificativo. Data l’elasticità dei
termini adoperati, tale ultima chiave interpretativa sembra potersi
accogliere, recuperando, nell’una e nell’altra fattispecie, la ratio sottesa all’elencazione. Per tale via l’area della tutela finisce per coincidere,
in entrambe le fasi, con tutte le erogazioni concesse dallo Stato, dalle
Comunità europee o da altri enti pubblici a fondo perduto, ovvero
caratterizzate da onerosità attenuata.
L’altra nota differenziale si coglie nella condizione ulteriore imposta dal reato di malversazione, richiedendosi che l’erogazione ottenuta sia destinata “a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere
od allo svolgimento di attività di pubblico interesse”. In proposito due
possibili interpretazioni sembrano plausibili. In una lettura più lata
della norma l’inciso potrebbe essere ritenuto ultroneo, sul rilievo che
tutte le erogazioni provenienti da enti pubblici e caratterizzate da onerosità attenuata mirano, sia pure indirettamente, al soddisfacimento
di un interesse pubblico genericamente inteso. A diversa conclusione
si perverebbe valorizzando la finalità del contributo intesa come soddisfacimento di un interesse pubblico specifico e determinato, con il
rischio però di lasciare così prive di tutela talune forme di pubblico
intervento. Non vi è dubbio che tale ultima opzione ermeneutica
appaia maggiormente conforme al tenore letterale della norma e altresì al canone di stretta interpretazione posto a salvaguardia della fattispecie incriminatrice, ancorché non sembra potersi facilmente indivi-
254
duare un’ipotesi concreta in cui il requisito imposto dall’art. 316-bis
funga da argine reale all’intervento punitivo.
Posta tale indispensabile premessa in ordine alla leggera discrasia
tra l’area dell’intervento penale nell’una e nell’altra fase, occorre passare ad analizzare più da vicino le fattispecie incriminatrici.
2.1. La tutela penale nel momento della erogazione: i problematici rapporti tra art. 2 legge n. 898/86 art. 640-bis c.p..
La salvaguardia delle risorse finanziarie delle Comunità nel
momento erogativo ha rappresentato una preoccupazione del legislatore italiano fin dalla fine degli anni ’60, quando furono adottate
norme incriminatrici a portata settoriale, di regola inserite quale corredo sanzionatorio in più ampie leggi di regolamentazione dei presupposti e del procedimento di erogazione di contributi in materia
agricola (6). La necessità di predisporre un sistema di tutela penale
generalizzato delle risorse finanziarie comunitarie, al di là dunque dei
settori tassativamente elencati dalle leggi di settore, induceva la giurisprudenza a ricorrere sempre più di frequente alla fattispecie di truffa di cui all’art. 640 c.p., talora nella forma semplice di cui al 1°
comma, più spesso nella forma aggravata di cui al capoverso del
medesimo articolo. (nella specie, n. 1: truffa in danno dello Stato o di
altro ente pubblico, estensione resa possibile o mediante il riconoscimento alle agenzie nazionali di gestione dei fondi comunitari della
qualifica di enti pubblici, o mediante la più complessa inclusione nel
novero degli stessi della Comunità europea, ente di diritto pubblico
interno e internazionale) (7).
Preso atto della gravità del fenomeno e delle ripetute sollecitazio-
(6) Le prime disposizioni in materia, aventi natura settoriale, erano contenute
negli artt. 4 e 5 della legge n. 1140/66 (olio vegetale); nell’art. 9 del D.L. n. 1051/67,
conv. con modificazioni dalla legge n. 10/68 e nell’art. 4, comma 1°, della legge n.
424/79 (olio d’oliva); nell’art. 6 del D.L. n. 645/69, conv. dalla legge n. 829/69 (grano
duro). In argomento cfr. SALAZAR, Tutela penale nei confronti della frode comunitaria:
“incontrollabile frenesia” del nostro legislatore od intervento necessario (nota a Trib.
Lecce, 24 novembre 1992), in Cass. pen., 1994, p. 752 ss. e CESQUI, Il rapporto tra truffa aggravata e legislazione speciale nelle frodi al danno del FEOGA, ivi, 1996, p. 2909.
(7) Cass. sez. II, 18 dicembre 1989, Corleone, in Cass. pen., 1991, p. 1062 ss.; Cass.
sez. VI, 26 giugno 1992, Micheloni, in Cass. pen., 1993, p. 1690 e da ultimo Cass. sez.
Un., 24 gennaio 1995, Panigoni, in Foro it., II, 273 ss. e in Cass. pen., 1996, p. 2892 ss.
255
ni provenienti dalle istituzioni comunitarie, l’art. 22 della legge n.
55/90 diretta a contrastare la criminalità di tipo mafioso provvedeva
all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 640-bis c.p. norma
diretta a sanzionare la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, che espressamente annovera tra i soggetti passivi le
Comunità europee e che dispone: “La pena è della reclusione da uno a
sei anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’art. 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello
stesso tipo comunque denominate, concessi o erogati da parte dello
Stato di altri enti pubblici o delle Comunità europee”.
Si tratta della principale fattispecie diretta a sanzionare condotte
fraudolente che intervengano nel momento della erogazione; principale ma non esclusiva, giacché nel frattempo il legislatore aveva provveduto all’introduzione di una norma diretta a sanzionare le frodi ai
danni del Fondo europeo di orientamento e garanzia agricola. A norma
del primo comma dell’art. 2 della legge n. 898/86 di conversione del
D.L. 701/86, recante misure urgenti in materia di controlli degli aiuti
comunitari alla produzione di olio di oliva e sanzioni amministrative e
penali in materia di aiuti comunitari al settore agricolo, “chiunque,
mediante l’esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente,
per sé o per altri, aiuti, premi, indennità restituzioni, contributi o altre
erogazioni a carico totale o parziale del Fondo europeo di orientamento e garanzia agricola è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
Il rapporto tra questi due reati tutt’ora vigenti pone rilevanti problemi interpretativi ed applicativi. Sul piano della struttura va evidenziato che entrambe le fattispecie richiedono gli estremi di induzione in
errore del soggetto passivo, di ingiusto profitto, e di altrui danno (8);
risultano invece diverse le modalità descrittive della condotta (la predisposizione di artifizi o raggiri in un caso, la mera esposizione di dati
o notizie falsi nell’altro), nonché l’individuazione del soggetto passivo
(lo Stato, le Comunità europee o altro ente pubblico italiano in un
caso, il Fondo europeo di orientamento e garanzia agricola nell’altro).
A parte le tesi propugnate da qualificata dottrina che proponeva un’abrogazione espressa della norma previgente, tesi subito scartata dalla
giurisprudenza e poi dallo stesso legislatore che nel 1992 interveniva a
modificare nuovamente il disposto dell’art. 2, si distinguevano due
diverse posizioni interpretative.
(8) Così Cass. sez. Un., 24 gennaio 1996, Panigoni, cit.
256
Parte della giurisprudenza riteneva che la fattispecie extracodicistica avesse natura speciale rispetto alla ipotesi generale di truffa e
quindi prevalente ex art. 15 c.p. (9), con la conseguenza che le condotte fraudolente in danno del FEOGA in cui l’azione tipica si risolvesse nella semplice dissimulazione dei presupposti di erogazione del
contributo ricevevano un trattamento di favore rispetto alle altre frodi
ai danni delle Comunità europee. Risulta infatti ictu oculi che la disciplina predisposta dal citato art. 2 presenta caratteri di netto favore
rispetto alla disciplina generale configurata in sede codicistica: e infatti dimezzati risultano i limiti editali della sanzione (10); si opta per la
sanzione amministrativa pecuniaria pari all’importo illecitamente percepito (in aggiunta, ovviamente alla restituzione dell’indebito), rinunciando al contempo alla sanzione penale, per condotte fraudolente che
non superino una certa soglia di gravità individuata mediante la parametrazione a dati economici (11); sempre sul piano sanzionatorio, la
sanzione accessoria dell’incapacità di contrattare con la pubblica
amministrazione opera solo con riferimento alla fattispecie codicistica; diverso è infine il regime processuale tanto in ordine all’autorità
giudiziaria competente, che alla custodia cautelare in carcere, che al
regime delle intercettazioni telefoniche, ecc.
Altra parte della giurisprudenza propendeva invece per la tesi
della sussidiarietà, ritenendo cioè che l’art. 2 trovasse applicazione in
(9) A favore della specialità si sono pronunciate le seguenti sentenze: Cass. sez. III,
26 agosto 1987, Coluccio, in Cass. pen., 1988, p. 1447 e in Foro it., Rep. 1988, voce Agricoltura, n. 98; Cass. sez. V, 16 dicembre 1988, Paternò, in Cass. pen., 1990, 1037; App.
Napoli, 6 giugno 1989, Avino, in Foro it., 1990, II, 30 ss. con nota di FIANDACA e in
Cass. pen., 1991, 1117 ss. con nota di GIGLIO; Cass. sez. V, 19 settembre 1992, Archibusacci, in Foro it., Rep. 1993, voce Agricoltura, n. 71; Cass. sez. III, 23 ottobre 1990,
Girardi, in Foro it., Rep. 1991, voce Agricoltura, n. 69; Trib. Lecce, 24 novembre 1992,
Vergine, in Foro it., 1993, II, 395 ss. e in Cass. pen., 1994, 748 ss., con nota di SALAZAR;
Trib. Barcellona Pozzo di Gotto, 16 febbraio 1993, Mirabile, in CED Cass., pd. 940087.
(10) Anche se non dev’essere trascurata la circostanza che la fattispecie di cui
all’art. 640-bis è ipotesi aggravata della figura base della truffa per cui, mediante il meccanismo del bilanciamento di cui all’art. 69 c.p., non è escluso che in sede di accertamento giudiziale e di irrogazione in concreto della sanzione si ritorni alla pena base
dell’art. 640, cioè alla reclusione da sei mesi a tre anni e alla multa da lire centomila a
due milioni.
(11) Laddove la somma percepita non sia superiore a venti milioni e sia inferiore
ad un decimo del beneficio legittimamente spettante, limiti che devono essere entrambi superati affinché si faccia luogo alla sanzione penale, come chiarito in sede di interpretazione autentica dall’art. 5, comma 3-bis, D.L. n. 370/87 conv. in legge n. 460/87.
257
relazione alle frodi FEOGA esorbitanti dalla portata dell’art. 640-bis,
così completando, anziché indebolire, il sistema della tutela (12).
Accedendo alla prima ipotesi interpretativa, la norma dell’art. 2 avrebbe comportato un’ingiustificata disparità di trattamento a favore di coloro
che avessero illecitamente ricevuto sovvenzioni FEOGA, e con questa
motivazione, ritenendosi violato l’art. 3 Cost., la questione veniva rimessa
alla Corte Costituzionale (13). Quest’ultima risolveva il rapporto tra le due
fattispecie in chiave di sussidiarietà, escludendo al contempo il contrasto
della fattispecie in questione con la Carta fondamentale (14), posizione di
recente recepita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (15).
Sarebbe peraltro eufemistico ritenere che le giurisdizioni supreme,
nell’esercitare un’indubbia funzione monofilattica, abbiano anche risolto i problemi reali che sottostanno alla relazione tra le due fattispecie
incriminatrici: molto più semplicemente ci si è limitati ad aggirare l’ostacolo, lasciando così permanere una grave aporia intra- ed extra-sistematica. Ed infatti la soluzione della controversia in termini di sussidiarietà lascia alquanto perplessi, giacché ad essa si è pervenuti lasciando
del tutto impregiudicato il problema della sufficienza del mendacio (e del
(12) Meno numerose le pronuncie a favore della sussidiarietà: cfr. Cass. sez. II, 19
ottobre 1988, Fani, in Riv. pen., 1989, p. 751, in Foro it., Rep. 1989, voce Agricoltura, n.
68 e in Cass. pen.; 1989, p. 2016; Cass. sez. II, 6 novembre 1992, P.g. / Sarno, in Foro it.,
Rep., 1993, voce Agricoltura, n. 73 e in Cass. pen., 1994, p. 1858; Trib. Lecce, 29 giugno
1993, Panigoni, in Foro it., 1994, II, 316; Cass. sez. II, 10 marzo 1994, Cazzetta, in Cass.
pen., 1995, p. 2572; Cass. sez. II, 19 settembre 1995, Sanfilippo; Cass. sez. II, 16 giugno
1996, Sarni, in Stud. iuris, 1996, p. 1186. Si noti per inciso che sostanzialmente irrilevante ai fini della scelta tra l’una o l’altra delle interpretazioni proposte si rivela la modifica dell’art. 2 intervenuta ad opera dell’art. 73 della legge n. 142/92 (legge comunitaria
per il 1991), consistente nell’inserimento di una clausola di sussidiarietà espressa rispetto alla norma dell’art. 640-bis c.p. (“ove il fatto non costituisca il più grave reato previsto dall’art. 640-bis). E difatti a diverso esito ermeneutico si perviene a seconda che si
consideri che tale inciso abbia portata innovativa (specialità dunque in epoca precedente) ovvero solamente di interpretazione autentica (sussidiarietà quindi ab initio).
(13) Ordinanza di rimessione degli atti alla Corte del 27 marzo 1993 del G.I.P.
Matera, in G.u. suppl. ord. del 9 giugno 1992, 107 ss.
(14) Corte Cost., 10 febbraio 1994, n. 25 in Foro it., 1994, I, 1627, in Cass. pen.,
1995, p. 2870 ss. con nota di FELICETTI, Frodi comunitarie: norme penali in favore,
rilevanza della questione nei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale e principio di legalità; in Giur. Cost., 1994, p. 188 ss. con nota di MAZZA, L’indebita captazione di erogazioni a carico del FEOGA tra specialità e sussidiarietà.
(15) È la già citata Cass. sez. Un., 24 gennaio 1996, Panigoni, in Foro it., 1996, II,
273 ss. con note critica di FERRARO, Frodi “comunitarie”: specialità o sussidiarietà?, e
in Cass. pen., 1996, p. 2892 ss. con nota adesiva di CESQUI, Il rapporto tra truffa aggravata e legislazione speciale nelle frodi ai danni del FEOGA, p. 2906 ss.
258
silenzio maliziosamente serbato) ad integrare gli estremi della condotta
materiale richiesta dall’art. 640: pur affrontato nell’una e nell’altra decisione, il problema è stato infatti considerato irrilevante. Viceversa è da
ritenersi che solo escludendo che comportamenti di semplice dissimulazione concretino in generale gli artifici e raggiri di cui agli artt. 640 e 640bis, si possa ragionevolmente concludere che l’art. 2 della legge n. 898/86,
anziché istituire un regime di favore, completi la tutela penale predisposta per particolari ipotesi di truffa. Ma in costanza di un prevalente orientamento giursprudenziale teso a ricomprendere l’ipotesi del mendacio
negli estremi della truffa, le due decisioni in ultimo citate lasciano oramai sopravvivere nel nostro ordinamento una norma che istituisce un
regime di favore per gli autori di frodi FEOGA, laddove la condotta delittuosa si risolva nella mera esposizione di dati e notizie falsi.
A prescindere dai rilievi relativi al nostro ordinamento, sui quali
abbiamo già in altra sede avuto modo di soffermarci (16) e condivisi da
larga parte della dottrina, sembra essere stato del tutto trascurato che
la proposta interpretazione finisce per confliggere frontalmente con il
diritto comunitario (nella specie con la sentenza del ’mais greco’ e con
il disposto dell’art. 209 A del Tr. C.E., introdotto con il Tr. U.E.), in relazione alle esigenze di assimilazione. Non vi è dubbio alcuno, infatti,
che gli interessi finanziari delle Comunità europee relativi alla politica
agricola comune siano oggetto di un trattamento penale attenuato
rispetto a frodi che si dirigano contro risorse dello Stato o di altri enti
pubblici italiani, trattamento che il diritto comunitario non tollera.
Tale conclusione non appare affatto confortante ove si tenga conto che
le irregolarità emerse negli Stati membri nel settore Garanzia del
FEOGA rappresentano il 96% delle irregolarità complessivamente scoperte e il che loro impatto economico corrisponde al 60% dell’impatto
economico globale delle irregolarità (17). A tale indubbio arretramento della nostra giurisprudenza nel faticoso cammino che ha recato al
riconoscimento del primato e dell’efficacia diretta del diritto comunitario nel diritto penale interno, potrà mettere comunque riparo altro
giudice che per avventura si imbatta in tale problematica e che ritenga
legittimamente di sottoporre la questione alla Corte europea per un’interpretazione a titolo pregiudiziale ex art. 177 Tr. C.E..
(16) MANACORDA, Profili politico-criminali della tutela delle finanze della Comunità europea, in Cass. pen., 1995, p. 230 ss.
(17) Commission des Communautés européennes, Protection des intérêts financiers des Communautés. Lutte contre la fraude, Rapport annuel 1996, Bruxelles, 6 maggio 1997, COM (97) 200 final, p. 17.
259
2.2. La tutela penale nel momento dell’utilizzo: l’obliterazione dell’art.
316-bis c.p. in sede applicativa.
Il sistema di tutela delle sovvenzioni comunitarie è completato,
sul versante dell’impiego, dal disposto dell’art. 316-bis (18), norma tardivamente adottata dal nostro legislatore ed affetta da una serie di vizi
congeniti che oltre a testimoniare una notevole incuria e superficialità
dei redattori del testo, hanno seriamente compromesso l’utilizzabilità
della fattispecie. La norma attualmente dispone: “Chiunque, estraneo
alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro
ente pubblico o dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni o
finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione
di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li
destina alle predette finalità, è punito con la reclusione da sei mesi a
quattro anni”.
A dire vero, l’intento di dar vita ad una fattispecie di frode all’utilizzo, meritorio se confrontato con l’inerzia che ha contraddistinto la
maggior parte dei legislatori di altri Stati membri, si è inadeguatamente tradotto nel dettato normativo. È da rilevare in primis che nell’originaria formulazione mancava qualsivoglia riferimento alle
Comunità europee, circostanza che lascia seriamente perplessi ove si
tenga conto che l’approvazione della legge n. 86/90, istitutiva della fattispecie, è intervenuta appena trentasette giorni dopo la promulgazione della legge n. 55/90, cui si deve l’introduzione nel nostro ordinamento del già citato art. 640-bis c.p.. L’intera problematica è venuta
meno con l’entrata in vigore della legge n. 181/92, tardivo ma opportuno ripensamento del nostro legislatore, il cui art. 1 dispone: “Nell’art. 316-bis del codice penale, introdotto dall’articolo 3 della legge 26
aprile 1990 n. 86, dopo le parole “ente pubblico” sono inserite le
seguenti: “o dalle Comunità europee”. Non si può fare a meno di rilevare che auspicabile sarebbe stata l’integrazione terminologica anche
della rubrica della norma, rimasta immutata come “Malversazione a
danno dello Stato”. Ma la più clamorosa svista del Parlamento ha interessato la collocazione della norma sotto il profilo sistematico. L’art.
316-bis è stato introdotto dall’art. 3 della legge 26 aprile 1990 n. 86, di
(18) Cass., sez. VI, 28 settembre 1992, Scotti, in Giur. it., 1994, II, p. 210: “all’art.
316-bis c.p. si presenta, nonostante qualche, peraltro trascurabile, differenza lessicale,
come una prescrizione parallela all’art. 640-bis dello stesso codice operante, però, non
nel momento percettivo della erogazione, ma nella fase esecutiva”.
260
riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, e figura pertanto nel Capo I del Titolo II della parte speciale del
Codice. Non vi è commentatore, anche tra quelli che solo indirettamente si sono interessati al tema, che non abbia segnalato l’inopportuno inserimento della fattispecie nell’ambito della categoria dei delitti
dei pubblici ufficiali contro la p.a.. Dalla semplice lettura della norma
si evince infatti che autore del reato in questione può essere “chiunque”, purché si tratti di un soggetto “estraneo alla pubblica amministrazione”, dimodoché incomprensibile risulta l’opzione normativa
volta a ricomprendere tale reato tra le figure opportunamente collocate nello stesso Capo – di peculato, corruzione, abuso d’ufficio, ecc..
Priva ovviamente di conseguenze normative di rilievo, tale inesattezza
è però senz’altro indice di una tecnica legislativa a dir poco approssimativa, ed è comunque gravida di notevoli inconvenienti pratici. Così
essa genera non pochi problemi all’interprete nella ricerca delle norme
volte a sanzionare l’indebita utilizzazione di pubblici contributi da
parte di privati cittadini.
È diffuso il convincimento in dottrina che la fattispecie in questione avrebbe trovato più opportuna collocazione nel Capo II del
medesimo Titolo, relativo com’è noto ai delitti commessi da privati
contro la pubblica amministrazione (19). Tale posizione sottende l’idea che la distrazione di pubblici contributi si riverberi negativamente sulla funzionalità e sul buon andamento della pubblica amministrazione (20). Qualche autore peraltro, ricostruendo diversamente
l’oggettività giuridica della fattispecie in questione, ha indirettamente auspicato la collocazione del reato in oggetto al di fuori del Titolo
II, qualificandolo come offesa all’economia pubblica (21) o al patrimonio (22)
Oltre alle riserve inerenti alla collocazione sistematica della
norma, la stessa terminologia adoperata dal legislatore per l’indivi-
(19) SEMINARA, Commento all’art. 316-bis, in CRESPI-STELLA-ZUCCALÀ,
Commentario breve al Codice Penale, Padova, 1992, p. 705.
(20) CORRADINO, Aspetti problematici dell’art. 316-bis c.p., in Riv. trim. dir. pen.
ec., 1993, p. 659 ss.
(21) FIANDACA-MUSCO, Diritto penale: parte speciale, Volume I, Appendice: la
riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Bologna,
1991, p. 18.
(22) MEZZETTI, La tutela penale degli interessi finanziari dell’unione europea - Sviluppi e discrasie nella legislazione penale degli stati membri, Padova, 1994, p.55.
261
duazione del soggetto attivo risulta poco chiara. La formula definitivamente accolta (“chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione”)
scaturisce da un lungo ma non sempre approfondito dibattito sviluppatosi lungo tutto l’iter dei lavori preparatori: nel timore che la potenziale inclusione dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio nella categoria dei soggetti attivi determinasse la surrettizia reintroduzione nel nostro ordinamento della figura del peculato per
distrazione, che la riforma specificamente mirava ad abolire (23),
veniva adottata la definizione attualmente in vigore. Ma anche tale
comprensibile intento non sembra aver trovato idonea traduzione
nelle formulazione lessicale prescelta. Come è stato correttamente
osservato, la categoria dei soggetti esclusi dal campo di applicazione
dell’art. 316-bis non coincide con quella rappresentata dai pubblici
ufficiali e dagli incaricati di pubblico servizio. Sfuggono alla previsione sanzionatoria dell’art. 316-bis tutti coloro che abbiano un legame di
dipendenza con la pubblica amministrazione, anche se non qualificabile in senso pubblicistico, mentre d’altronde vi risultano inclusi quanti rivestano le qualifiche formali di cui agli artt. 357 e 358 c.p. e siano
al contempo estranei alla pubblica amministrazione.
Il punto maggiormente problematico nell’interpretazione della
fattispecie è comunque rappresentato dalla descrizione delle modalità
della condotta che, secondo un attento commentatore, costituirebbe la
peggiore tra quelle proposte nel corso dei lavori preparatori (24). Ad
una prima lettura della norma, risulta incriminato tout court l’omesso
impiego delle somme ricevute: tale connotazione modale della condotta è stata aspramente criticata dalla dottrina e variamente interpretata con lo scopo precipuo di restringerne la portata. Sembra pertanto opportuno analizzare in dettaglio le singole ipotesi astrattamente sussumibili nella fattispecie in questione, rilevando al contempo
eventuali profili di incongruenza o di vera e propria illegittimità, al
fine proprio di definire con maggior precisione la portata dell’art. 316bis c.p..
La mancata destinazione può anzitutto concretarsi in un nihil
facere successivo all’ottenimento, vale a dire nell’inerzia del beneficiario che, ad esempio, depositi i fondi pubblici presso un conto banca-
(23) COPPI, Appunti in tema di “malversazione a danno dello Stato” e di “truffa
aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”, in Studi G. Vassalli. Evoluzione
e riforma del diritto e della procedura penale 1945-1990, I, Milano, 1991, p. 564.
(24) SEMINARA, op. cit., p. 707.
262
rio e li lasci giacere. L’inclusione della semplice astensione esige peraltro che venga esattamente determinato il momento a partire dal quale
sorgono gli estremi per l’applicazione del reato, giacché è chiaro che
una mera attesa, dettata ad esempio da ragioni tecniche o da opportunità economiche, non può considerarsi penalmente rilevante. Non può
tuttavia nascondersi come tale ipotesi, pur essendo conforme al dato
letterale, sollevi preoccupanti interrogativi circa l’effettiva offensività
delle condotta.
Tali fondati interrogativi sembrano indurre a escluderne l’applicabilità della norma al caso di specie per riservarla all’ipotesi in cui il
beneficiario distragga i contributi, utilizzandoli per fini diversi da
quelli previsti nell’atto di erogazione. A ben vedere l’ipotesi della
distrazione si caratterizza, rispetto alle altre figure fattuali riconducibili all’art. 316-bis, per un maggior disvalore della condotta, ed è quella che il legislatore avrebbe dovuto sanzionare in via prioritaria. Nell’attuale formulazione, tuttavia, essa rileva non in quanto tale, bensì
come concreto manifestarsi della mancata destinazione: il reato è
infatti costruito in termini omissivi e l’impiego delle somme per fini
diversi da quelli inizialmente previsti si risolve di fatto in una mancata destinazione.
Occorre peraltro distinguere tra l’ipotesi in cui la distrazione miri
all’illecito arricchimento dall’agente o di un terzo, dal caso in cui le
somme vengano impiegate per la realizzazione di opere o attività di
pubblico interesse diverse da quelle inizialmente indicate. A parte l’ovvia constatazione che il giudice sarà tenuto a modulare diversamente
le conseguenze sanzionatorie, taluni autori ritengono che nella seconda eventualità, ove il beneficiario abbia realizzato opere o attività
compatibili con le finalità per le quali il contributo è stato concesso,
nessuna reale offesa sia arrecata al bene protetto (buon andamento
della pubblica amministrazione), con la conseguente inapplicabilità
del 316-bis. È indubbio che tale interpretazione rende il reato di malversazione più aderente ai precetti costituzionali in tema di offensività
dell’illecito penale, ma non va trascurato che così ragionando si aprono ampi, e forse eccessivi, margini di discrezionalità per il giudice
penale chiamato a valutare se e in quale misura la nuova iniziativa sia
compatibile con quella prescritta.
A colorare ulteriormente il disvalore dell’azione interviene altresì l’elemento psicologico, dovendosi considerare sufficiente il dolo generico,
inteso come coscienza e volontà dell’agente di lasciare inerti le somme
ricevute dall’ente pubblico o di deviarle verso finalità non consentite, ma
essendo viceversa esclusa la rilevanza di ipotesi di colpa, sia pur grave.
263
Qualche nota meritano infine anche le scelte sanzionatorie operate dal legislatore. A parte la sindacabilità della scelta di punire (perlomeno a livello edittale) la fattispecie di malversazione più lievemente
della truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche (reclusione
da sei mesi a quattro anni anziché reclusione da uno a sei anni), si è
criticamente osservato che il legislatore non ha introdotto sanzioni
pecuniarie per il reato di malversazione, circostanza che sembra derivare, più che da una consapevole opzione politico-criminale, dalla già
ricordata inclusione dell’art. 316-bis nella riforma dei reati dei pubblici ufficiali contro la p.a., che, come è noto, tendeva tra l’altro ad abolire le sanzioni pecuniarie nel settore de quo. D’altronde, come già con
riferimento all’art. 640-bis, trova accoglimento in materia la pena
accessoria dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, di cui all’art. 32-quater c.p..
Il risultato di tali imprecisioni nella redazione e collocazione sembra essere stato la sostanziale obliterazione in sede applicativa della
norma: a differenza della ’parallela’ prescrizione dell’art. 640-bis, in
relazione alla quale si è sviluppata amplissima giurisprudenza, una
sola sentenza applicativa dell’art. 316-bis nel settore degli interessi
finanziari delle Comunità risulta a tutt’oggi riportata nei principali
repertori (25). Il ridottissimo successo che la fattispecie di malversazione in danno dello Stato e delle Comunità europee ha riscosso in
sede applicativa trova tuttavia origine non solo nelle responsabilità del
legislatore ma in certa misura anche in un inveterato atteggiamento
giurisprudenziale teso a dilatare oltre misura l’area di applicazione del
reato di truffa. Il legislatore aveva ben chiara tale difficoltà, come si
desume dai lavori preparatori ove si specifica che la norma in questione è stata introdotta con il preciso intento di colmare una lacuna
normativa cui la fattispecie di truffa non poteva far fronte, e contemporaneamente di evitare pericolose forzature interpretative. I timori
non erano infondati poiché, com’è noto la giurisprudenza ha progressivamente dilatato il campo di applicazione della fattispecie di truffa,
mediante la progressiva svalutazione del significato attribuito a ciascuno dei suoi elementi, così attribuendole la funzione di vera e propria “fattispecie rifugio”.
Non resta che auspicare un recupero di funzionalità della norma
in questione, il cui ambito di applicazione privilegiato è rappresenta-
(25) Cass. sez. VI, 28 settembre 1992, Scotti, cit..
264
to dai fondi strutturali, strumenti di intervento che vanno progressivamente acquisendo una importanza crescente (26) e che si prestano
proprio ad ipotesi di indebita utilizzazione (27).
Con tali note si è esaurito, sia pur sommariamente, il quadro normativo afferente alla tutela penale delle uscite del bilancio comunitario. Si tenga però presente che la possibilità di predisporre un sistema
di sovvenzioni presuppone la corretta alimentazione del flusso finanziario a destinazione di Bruxelles: questa è la ragione per cui occorre
passare all’analisi di quelle frodi che si risolvano in un detrimento per
le entrate comunitarie.
3. Le fattispecie incriminatrici a tutela delle entrate.
Se le Comunità europee hanno dedicato uno sforzo particolare
per garantire che le imponenti risorse finanziarie non venissero dilapidate tramite l’indebita attribuzione e gestione dei fondi, nettamente
meno rilevante è stato l’impegno profuso per predisporre la tutela
delle entrate comunitarie, in gran parte rimessa alla discrezionalità
dei legislatori interni (28). Malgrado il nostro ordinamento si caratterizzi, anche in questo settore, per un elevato standard di tutela rispetto ad altri Stati membri, ciò costituisce più il frutto di un accentuato
rigore in relazione alla tutela delle risorse finanziarie statuali, destinato a ripercuotersi inevitabilmente sulla protezione del patrimonio
comunitario, che il portato di una precisa opzione politico-criminale
a salvaguardia degli interessi europei. Prova ne è che, come si vedrà,
il diritto comunitario ha avuto una notevole incidenza sulla legislazione penale italiana in materia tributaria e doganale, ma non nel
senso di sollecitarne l’intervento, bensì quale potente fattore di freno
all’adozione di sanzioni penali che in ultimo potevano risolversi in
(26) Sui fondi strutturali e le frodi comunitarie, v. LAURIA, Manuale di diritto delle
Comunità europee, 3a ed., Torino, 1992, p. 281 ss.
(27) A titolo indicativo, si consideri che nel 1996 la Commissione ha dato inizio a
88 azioni per presunte frodi nel settore dei fondi strutturali, per un ammontare complessivo di circa 88 milioni di Ecu (cfr. Lutte contre la fraude, Rapport annuel 1996, cit.,
p. 18), di cui oltre 24 milioni relativi all’Italia (p. 59).
(28) Sulla necessità di un coordinamento internazionale in materia penal-tributaria v. GROSSO, Frode fiscale e riciclaggio: nodi centrali di politica criminale nella prospettiva comunitaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 1278 ss.
265
un’ingiustificato ostacolo alla libera circolazione nel Mercato unico.
Come apparso già da queste note introduttive, due settori della
legislazione speciale sono principalmente deputati ad intervenire per
assicurare la percezione delle risorse proprie da parte della Comunità:
la legislazione doganale, in relazione ai dazi e prelievi imposti all’attraversamento delle frontiere per la merce di origine extra-comunitaria; la legislazione fiscale, a tutela di quella percentuale dell’imposta
sul valore aggiunto destinata a Bruxelles.
3.1. La tutela penale dei dazi e prelievi: il contrabbando doganale.
Tenendo presente che la voce di bilancio più rilevante è rappresentata dai dazi della tariffa doganale comune e dai prelievi agricoli sugli
scambi con i Paesi terzi, si comprende agevolmente che troveranno
accoglimento in materia le norme relative al contrabbando doganale.
L’art. 34 del D.P.R. n. 43/73 (Testo unico delle leggi doganali, d’ora
innanzi nel testo T.u.l.d.). dispone a tal proposito che “si considerano
“diritti “doganali tutti quei diritti che la dogana è tenuta a riscuotere in
forza di una legge, in relazione alle operazioni doganali. Fra i diritti
doganali costituiscono “diritti di confine”: i dazi di importazione e
quelli di esportazione, i prelievi e le altre imposizioni all’importazione
o all’esportazione previsti dai regolamenti comunitari e dalle relative
norme di applicazione ed inoltre, per quanto concerne le merci in
importazione, i diritti di monopolio, le sovrimposte di confine ed ogni
altra imposta o sovrimposta di consumo a favore dello Stato”.
Per effetto dell’espressa assimilazione predisposta dal legislatore
(storicamente il primo esempio di assimilazione degli interessi comunitari agli interessi nazionali che il nostro ordinamento conosca), risultano pertanto applicabili a tutela dei dazi doganali e dei prelievi agricoli istituiti a norma del diritto comunitario le fattispecie incriminatrici di cui agli art. 282 s. T.u.l.d. che sanzionano il contrabbando (29).
A commento di tali fattispecie valga qualche sintetico cenno, giac-
(29) Sul punto v. FLORA, Contrabbando doganale, in Dig. disc. pen., vol. III, Torino, 1989, p. 124 ss. Per un’applicazione da parte della giurisprudenza di merito v. Trib.
Bolzano, 6 dicembre 1980, Stella, in Giur. merito, 982, p. 953 con nota di CERQUA.
Come segnalato da BISCARDI, Le norme incriminatrici a tutela delle entrate del bilancio
comunitario: il quadro normativo, in Atti dell’incontro di studio organizzato dal C.S.M.
sul tema “La tutela penale degli interessi finanziari delle Comunità Europee”, Ostia Lido,
266
ché esse non presentano profili di specifico rilievo in relazione alla
tutela degli interessi finanziari delle Comunità. È noto anzitutto che
l’opzione normativa a favore dello strumento penale si risolve nella
maggior parte delle ipotesi previste dal T.u.l.d. in una scelta di tutela
attentuata, per la mera previsione della sanzione pecuniaria della
multa, di regola commisurata proporzionalmente ai diritti di confine
evasi. A tale regime sanzionatorio fanno eccezione i casi di contrabbando aggravato di cui all’art. 295 T.u.l.d., per i quali concorre la non
trascurabile pena detentiva della reclusione variabile da tre a cinque
anni (contrabbando a mano armata, riunione di tre o più persone in
maniera da frapporre ostacolo agli organi di polizia, connessione con
altro delitto contro la fede pubblica o la pubblica amministrazione,
associazione contrabbandiera), nonché la recidiva speciale dell’art.
296, che comporta parimenti l’applicazione della reclusione. Il quadro
sanzionatorio è completato la previsione dell’obbligatoria applicazione delle misure di sicurezza della confisca (art. 301) e della libertà vigilata (art. 300). E sempre in deroga alla disciplina codicistica, per il tentativo di contrabbando si dà luogo alla stessa pena stabilita per il reato
consumato (art. 293).
Sul versante della condotta la legge doganale, dominata dall’ossessione di garantire l’incriminazione di qualsiasi attività lesiva per gli
interessi finanziari dello Stato, si caratterizza per un’estesa previsione
casistica che determina l’enucleazione di condotte estremamente, e
talvolta eccessivamente, dettagliate (30). Si distinguono a tal proposito reati di introduzione clandestina delle merci nel territorio dello
Stato, articolati in funzione del luogo e/o del mezzo di introduzione
della merce (31) e i reati di introduzione fraudolenta (32).
Il novero delle incriminazioni, a dispetto del principio di frammen-
12-14 ottobre 1995, la giurisprudenza già in precedenza aveva proceduto all’assimilazione delle entrate comunitarie a quelle statuali ai fini della incriminazione del contrabbando doganale: cfr. Cass. sez. I, 13 ottobre 1969, in Giust. pen., 1970, II, p. 258 ss.
(30) L’esemplificazione casistica, combinata con l’ossessione della prova e l’anticipazione della punibilità rappresentano le tre idee-guida della disciplina del contrabbando doganale, al punto da potersi ragionevolmente dubitare dell’effettiva autonomia
delle fattispecie incriminatrici così configurate: in proposito v. FLORA, op. cit..
(31) Art. 282 per i confini terrestri, 283 per i laghi di confine, 284 per via marittima, 285 per via aerea, 266 nelle zone extra-doganali, 288 per i depositi doganali.
(32) Artt. 287 per le merci importate in regime di agevolazione doganale, 289 per
le merci in cabotaggio o in circolazione, 290 per le merci ammesse a restituzione di
diritti, 291 per le merci sottoposte al regime di importazione temporanea.
267
tarietà del diritto penale, è integrato dalla norma di chiusura dell’art.
292 che sanziona gli altri casi di contrabbando e che non va esente, per
l’estrema genericità del dettato normativo, da sospetti di illegittimità
costituzionale in relazione ai principi di tassatività e determinatezza.
Di recente, la modifica della legge n. 689/81 ad opera dell’art.2
della legge n. 562/93, che ha esteso la depenalizzazione alle violazioni
finanziarie punite con la sola pena della multa (dilatando così l’originaria previsione limitata alle contravvenzioni punite con la sola pena
dell’ammenda), ha fatto sorgere il dubbio che il legislatore intendesse
rinunciare allo strumento penale in materia doganale, optando tout
court per la sanzione amministrativa, e tale interpretazione è stata
seguita in talune decisioni di merito e di legittimità (33). Tuttavia,
altra parte della giurisprudenza, più attenta ad una lettura sistematica del dato normativo, ha ritenuto che trovasse applicazione in subiecta materia l’art. 32 comma 2 della legge 689/81, in forza del quale la
depenalizzazione è esclusa laddove siano previste sanzioni detentive,
situazione che appunto ricorre in relazione alle forme aggravate del
contrabbando doganale (34). A tale opinione ha da ultimo aderito la
S.C. a Sezioni Unite, escludendo così che in materia sia intervenuta
una depenalizzazione (35). Problemi di non poco momento si sarebbero posti in relazione al diritto comunitario ove fosse prevalsa la tesi
della depenalizzazione, ma ancora una volta tale motivazione sembra
essere stata priva di qualsiasi riscontro nella giurisprudenza di legittimità: alla soluzione prospettata si è giunti per altra via, obliterando il
pur decisivo dato comunitario.
3.2. La tutela penale del gettito I.V.A. l’evasione dell’I.V.A. all’importazione e la frode fiscale.
Una parte del gettito I.V.A. calcolato nella misura massima
dell’1,4% dell’imponibile, alimenta le risorse proprie della Comunità.
(33) Pret. Milano, 7 maggio 1994, in Riv. dir. trib., 1996, II, con nota di FORTUNA;
Cass. sez. III, 30 marzo 1994, Cola, in Cass. pen., 1995, p. 1983 ss.
(34) Cass. sez. III, 20 gennaio 1994, Savorelli, in Cass. pen., 1995, p. 1608.
(35) Cass. sez. un., 21 aprile 1995, P.m./Zouine, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1996, p.
183 ss. con nota di CERQUA, Esclusa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione la
depenalizzazione del contrabbando doganale e in Cass. pen., 1995, p. 2851. Per pertinenti rilievi critici v. BISCARDI, op. cit..
268
La quota comunitaria si trova inglobata nella imposta sul valore
aggiunto nazionale anche sul piano della tutela penale, dal che si
desume che nessuna assimilazione espressa è richiesta. Potrà farsi
luogo all’applicazione delle fattispecie incriminatrici predisposte a
protezione delle proprie entrate dagli Stati membri, i quali dovranno
poi riversare a Bruxelles parte di quanto riscosso. Sul punto operano
una molteplicità di fattispecie incriminatrici a portata e connotazione assai varia.
Viene anzitutto in rilievo l’art. 70 del D.P.R. n. 633/72 che sanziona
l’evasione dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione, rinviando
alle norme sul contrabbando doganale: “Si applicano, anche per quanto concerne le controversie e le sanzioni, le disposizioni delle leggi
doganali relative ai diritti di confine”, vale a dire i già esaminati artt.
282 ss. T.u.l.d.. Prescindendo in questa sede dalla complessa controversia circa la reale autonomia del delitto de quo rispetto al contrabbando
doganale, controversia che trae origine dall’incerta qualificazione del
tributo (imposta assimilabile ad un tributo interno o diritto di confine),
e che porta a soluzioni diametralmente opposte circa il rapporto tra le
fattispecie (concorso o assorbimento) (36), preme segnalare che in passato l’art. 70 è stato giudicato in contrasto con il diritto comunitario.
Rilevato che il rinvio al contrabbando doganale ingenera per gli autori
di frode I.V.A. sugli scambi internazionali un trattamento più severo di
quello predisposto per l’evasione della medesima imposta negli scambi
puramente interni, la Corte di Giustizia delle Comunità europee, adita
ex art. 177 Tr. C.E.E. (37), ne ha dichiarato la incompatibilità con l’art.
95 Tr. C.E.. È infatti palesemente in contrasto con il principio di libera
concorrenza, una disciplina penale istitutiva di un divario manifestatamente sproporzionato nella severità delle sanzioni comminate per le
due categorie di infrazioni (i.e. nel commercio intracomunitario e nel
commercio puramente interno), risolvendosi di fatto in una misura
protezionistica (38). Da allora, l’art. 70 della legge I.V.A. ha avuto vita
(36) Nel primo senso cfr. BISCARDI, op. cit., p. 34; nel secondo invece FLORA, op.
cit., p. 125.
(37) App. Genova, 12 novembre 1986, Drexl, in Dif. pen., 1986 (XIII), p. 41, con
nota di CONTE e GIACOMINI.
(38) Corte giust., 25 febbraio 1988, causa 299/86, Drexl, in Cass. pen., 1989, p.
1618, cui ha fatto seguito App. Genova, 14 dicembre 1988, Drexl, ivi, p. 1568 che ha
sancito l’incompatibilità col diritto comunitario di dette fattispecie incriminatrici,
disapplicandole.
269
assai difficile, ritenendosi nell’orientamento giurisprudenziale di gran
lunga dominante che esso dovesse essere disapplicato per contrasto con
il diritto comunitario (c.d. efficacia limitativa), a condizione peraltro
che la merce fosse stata lecitamente introdotta nel territorio dello Stato
(39). Da ultimo, peraltro, un vistoso revirement giurisprudenziale ha
portato a rimettere in discussione quella che sembrava un’acquisizione
oramai consolidata. Si intende far riferimento a talune sentenze relative al contrabbando doganale di argento con la Confederazione elvetica
che, nel ritenere applicabile l’art. 70 all’importazione clandestina di
merci provenienti da un paese che, per quanto non membro dell’Unione, è a questa legata da un accordo E.F.T.A., hanno rimesso in discussione il carattere ritenuto più mite della legislazione I.V.A. all’importazione rispetto a quella applicabile alle cessioni interne, escludendo nel
caso di specie il contrasto con il diritto comunitario e la conseguente
disapplicabilità della fattispecie (40).
Sul versante delle entrate trovano applicazione anche i reati fiscali
di cui alla legge 516/82 e successive modifiche, e in specie le ipotesi di
frode fiscale di cui all’art. 4. Non è questa la sede per evidenziare le note
problematiche emergenti dalla legislazione penal-tributaria, tanto sotto
il profilo dell’offensività, per l’abbondanza di fattispecie prodromiche,
quanto in relazione alla sostanziale inettitudine a colpire i principali
fenomeni di evasione ed elusione fiscale (41). Qui si può invece rilevare
che tra le diverse ipotesi previste dalla legge, particolare valore assume
in un’ottica politico-criminale la previsione dell’art. 4 relativo all’ipotesi
di frode fiscale, sanzionata con la reclusione da sei mesi a cinque anni
e con la multa da cinque a dieci milioni. Con particolare riferimento alla
lett. d), mentre la giurisprudenza sembrava inizialmente orientata a
negare la possibilità che il reato di false fatturazioni potesse concorrere
con le ipotesi di frode alle entrate, per mancanza del dolo specifico
richiesto dalla legge (42), più di recente si è ammesso il concorso tra il
reato di cui all’art. 2 legge 898/86 e la frode fiscale (43).
(40) Cass. sez. III, 19 gennaio 1994, Antoci, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1995, p. 373
ss. e, con motivazioni diverse, App. Venezia, 6 febbraio 1995, Bonini, in Riv. trim. dir.
pen. ec., 1995, p. 395 ss.
(41) Per una completa panoramica sul punto v. GROSSO, Quale diritto penale tributario per gli anni novanta, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 1003 ss. e dottrina ivi citata.
(42) Cass. sez. III, 23 ottobre 1990 Girardi, in Foro it., Rep. 1991, voce Agricoltura, n. 69.
(43) Cass. sez. III, 7 novembre 1995, Ammirato, in Cass. pen., 1997, p. 222.
270
In ultimo va segnalato che all’art. 4 della legge n. 516/82 rinvia
quoad poenam una norma di più recente istituzione, diretta a contrastare le ipotesi di evasione I.V.A. nel commercio intracomunitario. Si
tratta dell’art. 54 comma 8 della legge n. 427/93, per il quale “le sanzioni stabilite nell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 10 luglio 1982, n.
429, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516,
si applicano anche a chi emette o utilizza fatture o documenti equipollenti, relativi ad operazioni intracomunitarie di cui al presente
decreto, indicanti numeri di identificazione diversi da quelli veri in
modo che ne risulti impedita l’individuazione dei soggetti cui si riferiscono”.
4. Conclusioni.
Per concludere occorre sottolineare che in relazione al fenomeno
delle frodi comunitarie si impone oggi un rinnovato impegno, tanto in
sede politica che giudiziaria. Da ultimo preoccupanti segnali emergono su due piani distinti ma convergenti: le risultanze dell’ultimo rapporto anti-frode della Commissione europea, secondo le quali l’Italia
figura tra gli Stati che detengono il poco invidiabile primato delle frodi
comunitarie, e il recente impegno del Governo per l’utilizzazione più
ampia delle risorse finanziarie, lasciano intendere quali pericoli e difficoltà siano destinati ad emergere.
La diffusività del fenomeno, il carattere pluridimensionale del
bene giuridico, le notevoli incongruenze sistematiche rilevabili nel
quadro punitivo, sono tutti fattori che inducono ad una più attenta
rimeditazione delle opzioni politico-criminali e ad una più attenta lettura della legislazione penale, rispettosa, ove possibile, degli imperativi di fonte comunitaria.
271
TERZA SEZIONE
COOPERAZIONE PENALE
LE ROGATORIE INTERNAZIONALI:
ROGATORIE ALL’ESTERO
Relatore:
dott. Piercamillo DAVIGO
Sostituto procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Milano
SOMMARIO: – la legittimazione attiva; – l’oggetto della rogatoria; – le modalità di trasmissione; – l’immunità del testimone, del perito, dell’imputato; – le forme di esecuzione; – il problema degli atti diretti di giurisdizione all’estero; – la “concelebrazione” delle rogatorie; – la rogatoria consolare.
1. Premessa.
Le rogatorie sono un istituto generale applicabile a tutti i procedimenti con i limiti previsti dalle convenzioni internazionali per determinati tipi di reati.
Peraltro il settore in cui sono più frequenti è quello della ricerca
all’estero della provenienza o della destinazione di somme di denaro.
Ciò dipende dal fatto che le legislazioni dei vari paesi in materia –
in senso lato finanziaria sono molto diverse, con la conseguenza che
può essere conveniente detenere o impiegare denaro in altri stati,
anche a prescindere da attività illecite.
Poiché molti stati hanno interesse ad essere scelti dagli operatori
finanziari si sviluppa una forte concorrenza fra ordinamenti allo
scopo di attirare investimenti, offrendo le migliori condizioni.
D’altra parte, la facilità di movimento delle persone, delle imprese e dei capitali che caratterizza il mondo in cui viviamo consente agli
operatori operazioni di “scelta” dell’ordinamento giuridico più favorevole.
Poiché peraltro i vari ordinamenti possono avere discipline
diverse in materia fiscale, societaria, bancaria e valutaria, a volte le
operazioni finanziarie avvengono trasversalmente fra ordinamenti
diversi.
Si realizza così quello che può essere chiamato “shopping degli
ordinamenti”. Esso consiste nella ricerca fra i vari ordinamenti giuri-
275
dici di quello più favorevole allo specifico settore in cui si deve operare.
Poiché con opportune operazioni i vari aspetti positivi degli ordinamenti si possono combinare, ne deriva un mix particolarmente
favorevole a chi opera e particolarmente sfavorevole a chi fa le indagini.
Tale mix si realizza ad esempio attraverso la combinazione resa
possibile dalla creazione di società aventi sede in uno stato, operanti
in un altro, con conti bancari in un terzo e così via.
In generale concorrono a formare questi mix vari istituti giuridici, quali la disciplina del trust, i controlli amministrativi esistenti, il
sistema giudiziario, i poteri di polizia, le convenzioni che sono state
stipulate dagli stati interessati o comunque a loro applicabili.
Peraltro è necessario un certo equilibrio fra libertà di movimento,
tutela della riservatezza e possibilità di intervento degli organi repressivi, per evitare che l’operatore sia vittima di truffe o di altri reati.
È anche necessaria una prevedibile stabilità economica e politica,
per evitare una improvvisa modifica delle condizioni esistenti al
momento in cui si decide di collocare una attività economica.
Quando uno stato o altro territorio risponde a questi requisiti si
parla di “paradiso’’ che può essere fiscale, societario, bancario, valutario o più di queste cose insieme.
Con tale termine si intende quindi una situazione normativa (o
comunque di fatto) particolarmente favorevole di un determinato
ordinamento rispetto alle esigenze dell’operatore.
Nei casi estremi si tratta di luoghi anche favorevoli dal punto di
vista climatico e con attrazioni turistiche, dai quali è difficoltoso ottenere estradizioni, almeno per certi reati.
Esamineremo ora alcuni di questi paradisi.
2. I paradisi societari.
Paradiso societario è quello in cui minori sono i controlli sulle
società e maggiori le possibilità di anonimato dei soci, in cui l’obbligo
di tenuta di scritture contabili è ridotto al minimo e così via.
Le difficoltà maggiori che si hanno in base alle varie normative
locali riguardano da un lato la individuazione dei soci, dall’altro l’assenza di documentazione contabile talora essenziale alle indagini: si
pensi alle esigenze connesse alla individuazione di fatture per operazioni inesistenti.
276
In ordine alfabetico possiamo esaminare alcuni dei più noti paradisi societari, fornendo alcune indicazioni di ciò che consente la legislazione locale.
Bahamas (1)
• sono previste I.B.C. (International Business Companies), con
disciplina analoga a quella delle BRITISH VIRGIN ISLANDS;
• le società possono essere private o pubbliche (nel senso che le
loro azioni sono destinate alla diffusione fra il pubblico);
• le società sono costituite con atto formato da almeno due sottoscrittori alla presenza di un testimone, e con la registrazione dell’atto presso il Registro Generale;
• lo statuto può essere contestuale ovvero redatto entro sei mesi
ed è richiesta la effettiva sottoscrizione di una quota minima di
azioni;
• una società locale a responsabilità limitata deve avere sede nelle
Bahamas con indirizzo pubblicato sulla gazzetta ufficiale, la
sede deve essere indicata da una targa recante la denominazione sociale;
• presso la sede devono essere conservati i libri contabili e copia
dei documenti costitutivi;
• le azionisti possono essere registrati a favore di fiduciari ed i
nomi dei veri beneficiari possono essere tenuti riservati;
• le riunioni del consiglio di amministrazione possono consistere
anche in una semplice conversazione telefonica.
(1) Le Isole Bahamas sono un arcipelago corallino dell’Oceano Atlantico composto da più di 700 isole di cui 29 abitate, comprese in uno spazio da 50 miglia ad est
della Florida a 50 miglia da Haiti e Cuba. Sono uno stato indipendente nell’ambito del
Commonwealth Britannico.
Le Bahamas sono state colonia britannica fino al ’60 e dopo un periodo di transizione acquisirono la piena indipendenza nel 1973, pur riconoscendo l’autorità della
Corona Britannica rappresentata da un governatore generale nominato dal sovrano
inglese su indicazione del primo ministro.
La capitale è Nassau e la moneta è il dollaro delle Bahamas, che ha parità di cambio con il dollaro USA.
Il sistema giuridico è su base di Common law.
Il clima è sub-tropicale o tropicale a seconda della latitudine, mite con abbondanti piogge.
277
British Virgin Islands (2)
La locale legislazione (International Business Companies Ordinance 1984) prevede la “International Business Company’’ (I.B.C.).
Tale tipo di società può essere costituita a condizione che non:
• svolga affari con individui residenti nelle B.V.I.;
• abbia interessi in beni immobili situati nelle B.V.I. (fatta eccezione per i locali adibiti ad ufficio dai quali vengano tenuti contatti con gli azionisti o nei quali vengano redatti e tenuti libri
contabili e sociali);
• operi come compagnia di assicurazione o nel settore assicurativo o funzioni di amministrazione di società salvo autorizzazione;
• svolga servizi consistenti nel mettere a disposizione uffici o
agenti autorizzati per costituire società nelle B.V.I..
La I.B.C. è costituita da un agente autorizzato che sottoscrive l’atto costitutivo alla presenza di un testimone. L’atto è poi registrato ed
accessibile al pubblico. È facoltativa l’iscrizione nel registro delle
indicazioni riguardanti gli azionisti e gli amministratori, mentre tali
indicazioni devono risultare dai registri tenuti negli uffici della sede
legale.
Le I.B.C. possono essere costituite in 48 ore ed è comunque possibile acquistare società già costituite in precedenza.
Le I.B.C. possono emettere azioni ordinarie o privilegiate, nominali o al portatore e detenere azioni proprie, devono avere almeno un
amministratore (“director”) e le assemblee possono tenersi in qualunque luogo nelle B.V.I. o fuori di esse.
Le assemblee degli azionisti possono avvenire a mezzo telefono e
gli azionisti possono essere rappresentati da un procuratore. Tali
società devono avere una sede delle B.V.I. e il rappresentante locale
deve essere un avvocato, un procuratore legale, un praticante contabile o una società.
Oltre alle I.B.C. esistono altre società costituite in forza del C.A.P.
285 del Companies Act, classificate in residenti o non residenti.
(2) Le B.V.I. sono 40 piccole isole situate nel Mar dei Caraibi, già colonia britannica. Hanno autogoverno dal 1967 e il sistema legale si fonda sulla Common law. La
moneta è il dollaro USA.
278
Anche le società costituite in virtù di tale norma hanno caratteristiche
simili alle I.B.C. per quanto riguarda assemblee e amministratori.
In entrambi i casi non devono essere registrati nomi di fiduciari
quando le azioni siano nominali.
Cayman Islands (3)
Possono essere costituite nelle Cayman società esenti da tassazione in 24 ore, tramite stesura di memorandum e statuto ad opera di
banche, società fiduciarie, avvocati, o commercialisti. Le società
hanno le seguenti caratteristiche:
• è necessario almeno un amministratore ed un azionista;
• non è richiesto un capitale sociale minimo;
• non è richiesto che gli azionisti siano iscritti in pubblici registri e
il libro soci può essere conservato in qualunque parte del mondo;
• sono consentite azioni al portatore;
• presso la sede della società devono essere conservati i registri
degli amministratori ed il registro dei mutui e degli impegni
riguardanti i beni dell’impresa, il secondo è accessibile ai creditori e ai soci, mentre il primo è inviolabile;
• è reato la divulgazione o la ricerca di informazioni riservate,
anche se vi è un trattato fra Regno Unito, Stati Uniti e Cayman
per la mutua assistenza in alcune materie penali.
Guernsey (4)
È possibile costituire in pochi giorni una società attraverso la sot-
(3) Le Cayman Islands sono una colonia britannica, retta da un governatore nominato dal governo britannico. Il sistema giuridico si basa sulla Common law. La moneta è il cayman dollar. Operano nelle Cayman Islands circa 600 banche e società fiduciarie tra le quali almeno 50 delle maggiori banche del mondo.
(4) L’arcipelago di Guernsey è situato nel Canale della Manica e comprende le isole
di Guernsey, Alderney, Sark. Non fa parte del Regno Unito, ma è possedimento della
Corona Britannica con autonomia legislativa interna. Il sistema giuridico si fonda su
norme consuetudinarie di origine normanna integrate da Common law. Il Bailiff, capo
del governo locale, è anche il presidente della Royal Court. La moneta è la sterlina anche
se vi è autonomia monetaria. Nel 1995 a Guernsey erano registrate oltre 14.000 società.
279
toscrizione di un memorandum o di uno statuto. L’atto di costituzione deve essere sottoscritto da almeno due persone (una nell’Isola di
Alderney,) che in genere sono prestanomi.
I veri beneficiari peraltro devono essere indicati alla Financial
Service Commission (F.S.C.).
Non vi sono limitazioni per il capitale sociale, ma sono escluse le azioni al portatore, anche se le azioni possono essere intestate a fiduciari che rilasciano una apposita relazione ai veri proprietari.
Presso la sede della società deve essere tenuto il libro degli azionisti, degli amministratori e dei verbali di assemblea. L’assemblea può
però avvenire ovunque.
Isle of Man (5)
La legislazione societaria dell’isola è simile a quella britannica. Il
contratto sociale deve essere firmato da almeno due soci in presenza
di un testimone, così come lo statuto. Non è richiesta l’indicazione al
registro generale degli azionisti beneficiari. Sono ammesse azioni al
portatore e vi è differente disciplina fra società private e quelle che si
rivolgono al pubblico.
Jersey (6)
Una società può essere costituita da almeno due persone, che possono essere anche prestanomi, che rilasciano ai veri soci una dichiarazione fiduciaria. Non è indispensabile identificare l’oggetto societario.
(5) L’isola di Man è situata nel Mare d’Irlanda. Appartiene alla Corona britannica.
L’isola non è rappresentata nel parlamento britannico che non legifera per consuetudine in materia fisica e locale senza il consenso dell’isola. L’isola fa parte dell’Unione
Europea, ma per una riserva del trattato è esclusa dalle politiche comuni. La moneta è
la sterlina britannica, ma il governo locale può emettere la propria moneta con denominazione e valore uguali a quelli alla sterlina.
(6) Situata nel Canale della Manica, Jersey è la più grande delle Channel Islands.
Non fa parte del Regno Unito, ma è autonomo possedimento della Corona britannica,
con un proprio parlamento. Il capo del governo, Bailiff, è anche il presidente della
Royal Court. Il sistema giuridico si fonda sul diritto consuetudinario normanno con
l’influenza del Common law.
280
Una società può essere costituita in 24 ore, ma non è possibile l’acquisto di società precostituite in quanto le autorità assumono informazioni sui fondatori. Una società deve avere almeno due azionisti registrati,
anche se possono essere fiduciari e le azioni possono essere trasferite.
Liechtenstein (7)
Nel Liechtenstein possono essere costituite società dei seguenti
tipi:
• Aktiengeselischaft (A.G.): società a responsabilità limitata con
capitale rappresentato da azioni e con un capitale svizzero di
almeno 50.000 franchi svizzeri;
• GmbH: società a responsabilità limitata meno comune con capitale sociale minimo di 30.000 franchi svizzeri;
• Anstalt fondazione caratterizzata da un capitale indivisibile
minimo di 50.000 franchi svizzeri;
• Stiftung: fondazione che impegna una proprietà al fine specifico
indicato dal fondatore.
Le assemblee dei soci e i consigli di amministrazione possono
tenersi anche fuori dal territorio del Principato. Il libro dei soci deve
contenere il nome e l’indirizzo dei soci ma non esiste l’obbligo di
depositarlo in qualche luogo specifico.
Panama (8)
• non vi sono controlli sulle società relativi alla costituzione, sta-
(7) Il Principato del Liechtenstein confina con Austria e Confederazione Elvetica.
La capitale è Vaduz e la moneta corrente è il franco svizzero. Il Liechtenstein ha legami molto stretti con la Confederazione Elvetica.
(8) Panama è una Repubblica presidenziale situata in America Centrale fra
Colombia e Costa Rica, divisa in 9 province ed un territorio. È attraversata dall’omonimo canale. La capitale è Panamà. La moneta locale è il Balboa, ma vi ha corso legale anche il Dollaro USA in virtù di un accordo bilaterale con gli Stati Uniti. Il sistema
giuridico è il civil law. Il clima è equatoriale caldo umido, con precipitazioni abbondanti sul versante atlantico e con alternanza di stagione secca (da gennaio ad aprile)
e umida (da maggio a dicembre) sul versante pacifico. La temperatura varia in funzione dell’altitudine.
281
tuto, modifiche statutarie, emissione di azioni, nomina di organi sociali, distribuzione di dividendi;
• non è necessario consegnare dichiarazioni a pubbliche autorità
se la società non svolge affari a Panama;
• non è richiesto un capitale minimo per la costituzione e la operatività della società, né è richiesto che il capitale sia effettivamente sottoscritto o versato; il capitale può essere in qualsiasi
valuta;
• le azioni possono avere valore variabile e possono essere al
portatore; una società può essere detenuta da un unico azionista e la società può essere azionista, anche unica, di altre
società;
• le assemblee degli azionisti, dei direttori e dei segretari possono
avere luogo in qualsiasi parte del mondo; i direttori e i segretari
non devono essere azionisti e possono avere qualunque cittadinanza;
• la società è tenuta a istituire e conservare libri contabili, delle
assemblee, degli amministratori e dei segretari, ed il libro delle
azioni che però può essere custodito in qualsiasi parte del
mondo.
È possibile costituire una società panamense in 48 ore oppure scegliere tra società già costituite e pronte per un immediato trasferimento, al costo medio di 1.200 dollari. Per la costituzione sono necessari almeno due azionisti. L’atto costitutivo deve contenere nome e
domicilio dei fondatori, nome della società, oggetto sociale, ammontare del capitale e numero di azioni con il valore nominale, natura
delle azioni (e cioè ordinarie o privilegiate, nominative o al portatore)
sede della società e indicazione del rappresentante locale che deve
essere un avvocato panamense, durata della società e indicazione degli
amministratori. I due fondatori risulteranno dai documenti, mentre
non è prevista alcuna forma di pubblicità per i successivi azionisti, che
quindi possono mantenere l’anonimato.
3. I paradisi bancari.
Un paradiso bancario è quello in cui il sistema bancario dia garanzia di affidabilità ed efficienza e dove contemporaneamente il segreto
bancario sia particolarmente tutelato.
In genere i paradisi societari sono altresì paradisi bancari, anche
282
se non sempre alcuni paesi danno le garanzie di stabilità politica ed
economica e di rigore giudiziario contro gestioni infedeli o appropriazioni indebite o truffe, idonee ad indurre gli operatori ad affidare
denaro ad un determinato sistema bancario.
Nonostante la concorrenza di nuovi paesi rimangono privilegiati
nella scelta i tradizionali paradisi bancari: la CONFEDERAZIONE
ELVETICA ed il GRANDUCATO DEL LUSSEMBURGO. Ad essi si
sono aggiunti l’AUSTRIA e HONG KONG, anche se per quest’ultimo
Paese esistono gravi apprensioni relative all’imminente unione con la
Repubblica Popolare Cinese.
In ogni caso la concreta esperienza ha mostrato una spiccata
predilezione per la CONFEDERAZIONE ELVETICA e per il GRANDUCATO DEL LUSSEMBURGO, che vale la pena di esaminare
meglio.
Confederazione elvetica (9)
La legislazione elvetica è molto rigorosa nella tutela del segreto
bancario; l’art. 47 della legge federale sulle banche punisce la rivelazione di segreti e anche chi cerchi di indurre altre persone a violare
il segreto professionale. La violazione del segreto è punita con la
reclusione fino a 6 mesi e la multa fino a 50.000 franchi svizzeri
ovvero, se dovuta negligenza, con la multa fino a 30.000 franchi svizzeri.
Il divieto di rivelare il segreto bancario sussiste anche dopo la cessazione del rapporto.
È fatto salvo l’obbligo di testimonianza secondo le norme federali e cantonali. A volte la legislazione penale svizzera viene invocata da testimoni sentiti in Italia per giustificare il rifiuto di rispondere alle autorità italiane, ma ovviamente vale il principio dell’applicazione della legge processuale penale italiana agli atti compiuti
in Italia.
L’obbligo del segreto bancario può essere derogato su consenso
del cliente, ma le banche svizzere ritengono di dover sindacare se
(9) La Confederazione Elvetica, pur essendo situata al centro dell’Europa confinando con Francia, Germania, Austria, Liechtenstein e Italia, non fa parte dell’Unione
Europea.
283
tale consenso sia libero o viziato dalla pressione esercitata da terzi
o da autorità pubbliche, svizzere o di altri paesi. È quindi possibile accedere a notizie relative a rapporti bancari svizzeri in genere
solo attraverso rogatoria internazionale. L’assistenza giudiziaria
può essere accordata in deroga al segreto bancario solo se si procede per un reato per il quale in Svizzera sono previste misure
coercitive.
La legislazione Svizzera obbliga all’indicazione del beneficiario
economico del rapporto bancario e questo consente, quando l’assistenza venga accordata, di individuare il soggetto nel cui interesse il
conto sia stato aperto.
Peraltro il sistema processuale svizzero consente una serie di
ricorsi che rendono lunghe e defatiganti le procedure di assistenza
giudiziaria.
A livello cantonale, in genere (e comunque nel Canton Ticino),
contro il provvedimento del Ministero Pubblico (o del giudice istruttore nei Cantoni in cui tale figura è rimasta) di acquisizione di documenti, di sequestro di somme o di citazione a testimoniare, è dato
ricorso alla Camera dei ricorsi penali. Contro la decisione della
Camera dei ricorsi penali è dato ricorso al Tribunale Federale di
Losanna.
Esaurito l’iter l’organo procedente emette un provvedimento di
trasmissione all’autorità richiedente. Anche contro tale provvedimento sono esperibili due gradi di giudizio. I tempi diventano quindi lunghissimi ed il più delle volte incompatibili con i termini delle indagini
preliminari.
Va infine segnalato che, generalmente, se nel frattempo nel paese
richiedente interviene sentenza nel procedimento per il quale l’assistenza è stata richiesta, le autorità elvetiche ritengono che non debba
più essere dato corso alla rogatoria
Un po’ più celere è la procedura se, anziché di competenza di una
autorità giudiziaria cantonale, il procedimento è trattato dall’autorità
giudiziaria federale, in quanto in questo caso è dato solo ricorso al Tribunale federale.
Va ancora rammentato che le autorità svizzere, in conformità alla
riserva espressa all’atto della sottoscrizione della Convenzione Europea di assistenza giudiziaria, rilasciano gli atti della rogatoria con
riserva di specialità. Ne segue che questi atti non potranno essere utilizzati a fini fiscali, valutari, amministrativi o comunque per reati
diversi da quelli che sono stati oggetto di richiesta di assistenza giudiziaria senza autorizzazione della A.G. elvetica.
284
Granducato del Lussemburgo (10)
Secondo la giurisprudenza del Lussemburgo il segreto bancario
era tutelato dall’art. 458 del codice penale. Con una legge del 23 aprile 1981 su controllo del settore finanziario fu ribadita l’esistenza del
segreto bancario.
Secondo la legge locale l’autorità giudiziaria, in materia penale,
può compiere tutti gli atti di indagine che ritiene idonei senza che può
essere invocato il segreto bancario.
Il Lussemburgo ha sottoscritto la Convenzione Europea di assistenza giudiziaria, ma con riserva per la quale le rogatorie relative a
perquisizioni e confische saranno ammissibili solo per reati che secondo la Convenzione Europea di estradizione giustifichino l’estradizione.
Il ministro della giustizia del Lussemburgo può opporsi all’esecuzione di rogatorie per esigenze di tutela della sicurezza dell’ordine
pubblico o del buon nome del Gran ducato. Le autorità giudiziarie
non danno corso a rogatorie che possano limitare o pregiudicare oltre
che la sicurezza dell’ordine pubblico la sovranità del Granducato o i
suoi interessi essenziali.
L’orientamento prevalente è che il mantenimento del segreto bancario è di interesse pubblico quando i fatti per i quali è richiesta rogatoria sono inconsistenti o secondari dal punto di vista penale. Ciò
rende molto difficoltoso l’espletamento delle rogatorie. Peraltro la
legislazione locale, come quella svizzera, impone l’obbligo di indicare
il reale beneficiario economico quando il titolare del conto non opera
in proprio.
Un cenno deve essere fatto alla particolare situazione che riguarda l’ISTITUTO delle OPERE di RELIGIONE I.O.R. trattandosi,
secondo una decisione adottata dalla Corte di cassazione, di ente centrale della Chiesa cattolica, come tale non soggetto alla giurisdizione
italiana.
Presso lo I.O.R. possono operare soltanto enti ecclesiastici, ma
l’esperienza ha evidenziato come sia possibile creare fondazioni religiose e poi utilizzarle come tramite per rilevanti movimenti finanziari.
Stante la non sottoposizione alla giurisdizione italiana, le infor-
(10) Il Granducato del Lussemburgo, confinante con Belgio, Francia e Germania,
fa parte dell’Unione Europea.
285
mazioni relative allo I.O.R. devono essere richieste, attraverso procedura rogatoriale, allo STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO, dove lo
I.O.R. ha sede.
4. I paradisi fiscali e valutari.
Un paradiso fiscale è quello dove la tassazione e l’imposizione
diretta o indiretta sono al livello più conveniente.
Per valutare la convenienza fiscale bisogna distinguere tra entità
economiche che operano in un determinato paese ed entità economiche off-shore.
Per entità off-shore si intendono quelle che non operano nello
stato ma fuori dalle sue acque. Il termine deriva dal fatto che questo
tipo di entità sono in genere collocate in isole oceaniche.
In termini più concreti, è ad esempio una società off-shore quella,
che pur essendo localizzata in un paese, non vi ha né stabile organizzazione né attività economica ne reali soci residenti.
In genere a questo tipo di società è assicurata esenzione dalle
imposte locali.
Ciò premesso si indicano i parametri fiscali dei vari Paesi indicati:
• Bahamas: le I.B.C. e le E.L.P. (società in accomandita) sono
esenti da tassazione per 50 anni; la registrazione e il rilascio dei
certificati costano meno di 300 dollari di tasse;
• B.V.I.: le I.B.C. e le società ex C.A.P. 285 sono soggette a tassazione nella misura del 15% per il reddito prodotto o trasferito
nelle B.V.I. e dell’1% su reddito prodotto altrove; non vi sono
imposte sul capital-gain, sulle successioni, sugli immobili e sui
trasferimenti di capitali; le perdite possono essere detratte per
7 anni; peraltro I.B.C. e C.A.P. 285 sono esenti da tassazione se
possedute da non residenti, se l’intero reddito è prodotto all’estero e non trasferito nelle B.V.I. e se sono amministrate e
gestite all’estero; vi è un’imposta di esercizio annuale di dollari U.S.A. 300;
• Cayman: vi è regime di esenzione fiscale fatta eccezione per le
tasse di licenza che partono da un minimo di 500 dollari a un
massimo di 1.750 per registrazione e gestione annuale;
• Guernsey: è prevista esenzione fiscale contro il pagamento di aliquote fisse di 500 sterline all’anno; per la costituzione di società
il costo varia tra 500 e 700 sterline;
286
• Isle of Man: le società non residenti pagano solo una tassa
annua di 600 sterline; quelle residenti sono soggette a tassazione su reddito che però non supera mai l’aliquota del 20%;
non vi sono tasse successorie sulle donazioni, sui capital-gain, ecc.;
• Jersey: i costi di costituzione di una società, comprese tasse e
spese, variano da 700 a 1.000 sterline; le società residenti
sono soggette ad imposta sul reddito nella misura del 20%,
anche se sono previste varie forme di esenzione che consentono tassazioni forfettarie; le I.B.C. sono tenute al pagamento di un imposta del 2% sul reddito con un minimo di 1.200
sterline;
• Liechtenstein: l’imposta sul reddito varia dal 7,5% al 15% e in
taluni casi può giungere al 20%; inoltre vi è un’imposta sul capitale dello 0,2%; non sono tassati i capital-gain;
• Lussemburgo: il patrimonio delle società è tassato con l’aliquota dello 0,5% con un minimo di 2.500 franchi lussemburghesi; le
imposte sul reddito variano dal 20 al 33%, inoltre vi sono imposte comunali e sono tassati i capital-gain, ma sono previste varie
forme di esenzione.
Un paradiso valutario è quello ove non vi sono controlli o limitazioni valutarie, divieti di importazione o esportazione di valuta, l’inflazione è bassa o nulla, vi è possibilità di conti in valuta estera, buone
condizioni e facilità di cambio dall’una all’altra valuta e sono possibili conti in valuta estera presso le banche locali.
In nessuno dei Paesi sopra indicati esistono controlli di tipo valutario.
A volte in taluni di questi paesi vi è un aggio molto elevato del
cambio.
5. L’esito delle rogatorie
Appare opportuno fornire alcuni dati statistici relativi alle rogatorie richieste in una serie di procedimenti per reati contro la pubblica
Amministrazione, falso in bilancio ed altro, genericamente chiamate
dalla stampa “mani pulite”.
287
ROGATORIE RICHIESTE PER PAESE:
Autorità Competente
Rogatorie
Richieste
%
ALGERIA
ARGENTINA
AUSTRIA
BAHAMAS
BELGIO
BRASILE
CAYMAN ISLANDS
CITTÀ DEL VATICANO
COSTARICA
CROAZIA
EGITTO
FRANCIA
GERMANIA
GRAN BRETAGNA
GRECIA
HONG KONG
IRLANDA
LIECHTENSTEIN
LUSSEMBURGO
MALTA
MESSICO
NORVEGIA
OLANDA
PAKISTAN
PRINCIPATO DI MONACO
TUNISIA
SAN MARINO
SINGAPORE
STATI UNITI
SVIZZERA
VENEZUELA
1
1
6
4
2
1
1
3
2
1
1
6
7
16
2
2
1
29
19
1
2
1
3
1
7
1
7
1
6
245
2
0,26
0,26
1,57
1,05
0,52
0,26
0,26
0,79
0,52
0,26
0,26
1,57
1,83
4,19
0,52
0,52
0,26
7,59
4,97
0,26
0,52
0,26
0,79
0,26
1,83
0,26
1,83
0,26
1,57
64,14
0,52
TOTALE
382
100
288
RISPOSTE PERVENUTE ENTRO IL 31 DICEMBRE 1995 PER PAESE:
Autorità Competente
Evase
%
ALGERIA
ARGENTINA
AUSTRIA
BAHAMAS
BELGIO
BRASILE
CAYMAN ISLANDS
CITTÀ DEL VATICANO
COSTARICA
CROAZIA
EGITTO
FRANCIA
GERMANIA
GRAN BRETAGNA
GRECIA
HONG KONG
IRLANDA
LIECHTENSTEIN
LUSSEMBURGO
MALTA
MESSICO
NORVEGIA
OLANDA
PAKISTAN
PRINCIPATO DI MONACO
TUNISIA
SAN MARINO
SINGAPORE
STATI UNITI
SVIZZERA
VENEZUELA
1
0
3
0
1
0
0
1
1
0
1
2
2
2
0
0
1
4
1
0
0
0
0
1
1
0
1
0
2
40
0
100
0
50
0
50
0
0
33,3
50
0
100
33,33
28,57
12,5
0
0
100
13,79
5,26
0
0
0
0
100
14,29
0
14,29
0
33,33
16,33
0
TOTALE
65
17,02
289
290
291
LE ROGATORIE INTERNAZIONALI:
ROGATORIE ALL’ESTERO
Relatore:
dott. Pasquale LONGARINI
Sostituto procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Aosta
SOMMARIO: – la legittimazione attiva; – l’oggetto della rogatoria; – le modalità di trasmissione, – l’immunità del testimone, del perito, dell’imputato; – le forme di esecuzione, – il problema degli atti diretti di giurisdizione all’estero; – la “concelebrazione” delle rogatorie; – la rogatoria consolare.
PREMESSA
Indagini all’estero: attività giurisdizionale e attività conoscitiva.
L’indagine all’estero può assumere la forma di:
A) vera e propria rogatoria internazionale, che ad oggi è lo strumento
normale di assistenza interstatuale che trova fonte di normativa nella
legge processuale interna che in convenzioni internazionali, le quali,
come poi si specificherà, prevalgono sulla prima in forza del principio di
gerarchia delle fonti, riprodotto peraltro in una specifica disposizione
processuale (art. 696 c.p.p.). La rogatoria internazionale è disciplinata
nelle norme contenute nel libro XI del codice di procedura penale. Il libro
XI disciplina i rapporti internazionali aventi natura giurisdizionale in
senso stretto, destinati, dunque, a “produrre” documentazione di atti
ovvero acquisizione di documenti che normalmente hanno ingresso ai
fini propriamente processuali ed in pratica destinati ad avere rilievo in
sede dibattimentale mediante l’inserimento nel fascicolo del dibattimento
ai sensi dell’articolo 431 lett. d) codice procedura penale. Della rogatoria
si parlerà nel proseguo della trattazione, costituendone l’oggetto specifico.
B) attività di natura conoscitiva (1) “a forma libera”, esternantesi
(1) Sul punto vedi VAUDANO, Rapporti con Autorità straniere: effettuazione di indagini, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura, n. 61, Vol. I, pag. 276 e segg.
293
attraverso contatti con la Polizia e gli organi paritetici del P.M. nello
Stato estero, al fine di raccogliere elementi utili per la formazione del
patrimonio di informazioni, necessario e prodromico ad una vera e
propria acquisizione con fini probatori.
Nell’attuale codice procedura penale vi è tutta una vasta fase di
attività di indagine preliminare che viene condotta in modo diretto ed
autonomo dal Pubblico Ministero volta ad acquisire normalmente elementi di conoscenza circa la opportunità o meno di intraprendere una
certa “via delle prove” ai fini della determinazione circa l’esercizio o
meno dell’azione penale.
È evidente, ad esempio, che il P.M. nel corso dell’indagine preliminare può avere necessità di valutare se una determinata richiesta
di audizione di una persona (sia essa in veste di teste, o persona
indagata o ai sensi dell’art. 210 c.p.p.), l’acquisizione di un documento, l’effettuazione di una persequizione e/o un sequestro o intercettazione telefonica sia concretamente utile e soprattutto praticabile nella realtà processuale estera in cui si dovrà concretamente
operare.
È una attività conoscitiva che conduce ad una valutazione di “fattibilità” che è certamente opportuna e che, in forma diretta o tramite
un valido ufficiale di P.G. a conoscenza dei fatti, non può che essere
compiuta attraverso un pre-contatto all’estero, predisposto con l’osservanza delle dovute forme, e cioè:
– preavviso alla competente Direzione Generale Affari Penali
Ministero Grazia e Giustizia Ufficio II circa la natura e la forma
delle attività che risultino necessarie in via preliminare e richiesta
che tale Direzione prenda contatto con i competenti Organismi
esteri;
– accreditamento a mezzo O.I.P.C.-INTERPOL degli ufficiali di
Polizia Giudiziaria, che debbano avere i contatti con gli organi paritetici esteri;
– contatto diretto con l’organo paritetico del P.M. (o delegato
comunque alla vigilanza nel paese estero sui rapporti internazionali),
sia in via telefonica preventiva (dopo che la Direzione Generale Affari
Penali Ministero Grazia e Giustizia abbia agito in via ufficiale) che
appena giunti “in loco”.
Nelle indagini all’estero “un programma di indagine” deve essere elaborato con particolare buon senso ed accuratezza. È infatti
caratteristica peculiare dell’indagine all’estero, sia essa giurisdizionale che conoscitiva, la incertezza dei tempi di esecuzione e, ancor
più, dei tempi di consegna degli atti compiuti e/o acquisiti, incom-
294
patibile con i tempi per concludere le indagini preliminari stabiliti
dal codice di procedura penale (fino a 2 anni, art. 407 comma 2
lett. c., c.p.p.).
L’esperienza concreta in alcune vicende giudiziarie, specialmente
per reati in tema di pubblica amministrazione e corruzione, ed anche
in tema di riciclaggio finanziario di danaro provento di stupefacenti,
ha indicato possibilità di dilazioni fino a 4-6 anni dalla richiesta o
addirittura dall’acquisizione dei documenti operati dalla Autorità giudiziaria estera e bloccati nella materiale consegna da una pluralità di
ricorsi ed opposizioni (2).
In concreto, dunque, è utile il contatto con l’Ufficio estero e con
l’Autorità Giudiziaria del posto, prima di formalizzare una richiesta di
rogatoria internazionale attiva, in modo da ottenere consigli circa la
via da seguire in concreto più idonea ed efficace. Spesso sarà la stessa
Autorità Giudiziaria estera (salvi gli inevitabili casi di cattiva volontà!)
ad indicare le vie più opportune e la stessa probabilità finale di ottenere un risultato in tempo ragionevolmente utili.
A questo riguardo spesso può essere utile prendere contatto con
l’Autorità Italiana diplomatica presente sul posto (a livello di ambasciata e/o di delegato personale), la quale può molto spesso “sondare”
le intenzioni estere in modo più continuo ed efficace e suggerire i
modi e tempi di intervento e pressione quando ci si trovi di fronte a
ritardi ed inadempimenti.
Come già detto, sarà utile ed efficace che tale contatto, se possibile, sia opportunamente preparato e stimolato dall’Italia, anche con
ricorso alle competenze e responsabilità degli Organi del Ministero
Grazia e Giustizia e Ministero Esteri.
Alla luce di quanto esposto, e per concludere, è bene precisare che
la collaborazione internazionale tra uffici del P.M. e tra Polizie giudiziarie di Stati diversi, non realizzando attività giurisdizionale, fuorie-
(2) Nella procedura elvetica ad esempio, quando si tratti di coinvolgere interessi
bancari e/o finanziari, vige in quasi tutti i Cantoni (si noti che la procedura penale è
sempre quella cantonale, mentre il diritto penale è quello unico federale. Dunque il
rapporto si ha inizialmente con l’Ufficio Federale Polizia di Berna, corrispondente al
nostro Ministero Grazia e Giustizia, ma subito dopo con le varie Autorità Giudiziarie
Cantonali). In quasi tutti i Cantoni le parti possono fare opposizione locale alle Corti
di Appello (camere penali o Chambre d’Accusation; Procure Generali in altri Cantoni
come Zurigo) e quindi al Tribunale Federale Amministrativo di Losanna che giudica in
ultima istanza di tutto questo settore, anche estradizionale, stabilendo anche dei principi di diritto orientativi per il futuro.
295
sce dal campo applicativo delle disposizioni – in senso proprio – processuali e quindi dalla disciplina del libro XI del c.p.p.. L’attività di collaborazione realizzata non è destinata ad avere autonomo rilievo nella
fase dibattimentale.
Infatti la cooperazione in materia investigativa (che può essere
momento essenziale della fase delle indagini preliminari) in materia di polizia giudiziaria sotto la direzione e su delega del P.M.
(artt. 348-349 c.p.p.; art. 370 c.p.p.) non trova nel codice una normativa organica e tanto meno la trova nel settore dei rapporti internazionali.
Come si dirà in seguito, rientra nell’ambito della collaborazione
internazionale non giurisdizionalizzata anche la attività del P.M. di
acquisizione di atti di altro procedimento penale celebrato all’estero e
di acquisizione degli atti compiuti dalla polizia straniera in territorio
estero nell’ambito di un procedimento ivi pendente (vedi cap. 2°, sez.
III, par. 4).
CAPITOLO 1. – LA ROGATORIA
Sezione I. – Le rogatorie in generale.
Nome gergale delle richieste dell’organo giudiziario al suo omologo straniero, inteso a comunicazioni, notificazioni, prove. Le
media il ministro: “dà corso” o no alla richiesta dall’estero, secondo
scelte politiche; non è accoglibile se mira ad atti vietati dalle norme
italiane: idem quando “fondate ragioni inducano” a temere che sul
processo influiscano fattori ostili all’imputato (non constando un
suo libero consenso). Vaglio giurisdizionale anche qui (escluse le
citazioni dei testimoni): occorre una decisione positiva della Corte
d’Appello; l’art. 274 tace sul contraddittorio ed è lacuna costituzionalmente eccepibile. L’atto viene compiuto secondo le norme italiane, salve forme diverse, chieste dal rogante, compatibili con i “principi dell’ordinamento”. Esiste un potere ministeriale inibitorio sulle
rogatorie all’estero. Testimone, perito, imputato, citati e comparsi in
Italia, sono temporaneamente immuni (15 giorni) sui fatti anteriori
alla citazione. A parte i limiti convenzionali, rispetto all’uso delle
prove acquisite all’estero, il giudice italiano subisce eventuali vincoli impostigli nei singoli casi: divieti probatori speciali; violandoli,
emette giudizi errati, rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado (art.
191 comma 2). Appare fuori luogo il riferimento alla lex loci, invo-
296
cata da qualche massima: l’osservanza delle norme straniere è dato
irrilevante; bisogna che la prova risulti validamente acquisita secondo le italiane (3).
1. Concetto e categorie.
Commissione rogatoria, o più semplicemente, rogatoria, è l’incarico che un’autorità giudiziaria dà ad un’altra di compiere, nel territorio di competenza di quest’ultima, un atto processuale per le esigenze
di un procedimento penale in corso dinanzi alla prima.
La voce deriva dai verbi latini committere (in senso traslato, affisare) e rogare (domandare, richiedere, pregare) ed evidenzia anche
linguisticamente una situazione di parità fra autorità richiedente e
richiesta (4). Ciò consente di distinguere sul piano concettuale la rogatoria propriamente detta dalla delegazione di atti, che presuppone,
invece, una posizione subalterna dell’autorità delegata al compimento
dell’atto.
Le rogatorie si distinguono in interne ed internazionali, secondo
che il luogo in cui debbano essere compiute sia soggetto o no alla
sovranità dello Stato in cui si celebra il processo o si svolge il procedimento. Nel primo caso si tratta di collaborazione fra organi paritari
sottoposti alla stessa legge; nel secondo di cooperazione e coordinamento fra giustapposti ordinamenti giuridici superiorem non recognoscentes.
Le rogatorie interne si collocano nel quadro dell’organizzazione
giudiziaria e della distribuzione delle competenze fra i diversi organi
giudiziari; le rogatorie internazionali rientrano nel vasto fenomeno
dell’assistenza giudiziaria internazionale.
La ratio delle rogatorie interne viene ravvisata in ragioni di economia funzionale e finanziaria; quelle internazionali riflettono i limiti spaziali che la coesistenza di una moltitudine di entità sovrane comporta.
(3) CORDERO, Procedura penale, 1991, pag. 1040.
(4) L’antica giurisprudenza francese distingueva fra commission rogatoire e commission rogatoire simple, diretta quest’ultima ad un “officiale” di ordine inferiore e
rivolta la prima ad un’“officiale” pari grado. Cfr. JOUSSE, Instruction criminelle, III,
Paris, 1771, 151.
297
2. Spostamento dei magistrati procedenti.
L’alternativa all’istituto della rogatoria consiste nell’ammettere
l’autorità procedente al compimento diretto di tutta l’attività processuale, anche oltre i limiti territoriali ad essa propri.
Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, sempre più veloci, intensi
ed abituali, ha favorito, sul piano interno, il superamento della rogatoria.
Sul piano internazionale, invece, l’istituto della rogatoria presenta un’evoluzione atta a contemperare le esigenze di immediatezza con la salvaguardia della sovranità dello Stato straniero, mediante l’ammissione dell’autorità richiedente a “presenziare al compimento dell’atto richiesto” ad
opera dell’autorità richiesta, la sola investita d’imperium sul territorio di
competenza (5). Per contro, l’ammissione di organi dello stato del processo a compiere direttamente atti processuali penali in territorio estero
(vedi cap. 3°, par. 1) – ammissione dipendente dall’autorizzazione dello
Stato territoriale – si presenta estremamente improbabile e rara (6),
anche se non ignota soprattutto ai paesi di Common Law (7).
Tuttavia negli ultimi anni, la Corte di Cassazione, sottolineando le
finalità di accertamento della verità tipica del processo penale ed insistendo sulla esigenza di opporsi alle odierne strutture internazionali
della criminalità a mezzo di strumenti procedurali efficienti e corretti, ha
proposto, quale alternativa al superato sistema delle rogatorie, il metodo
della acquisizione diretta il quale “si colloca nella linea di quella che appare una linea naturale di evoluzione del sistema” (8). La giurisprudenza
(5) Art. 4 della convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959: art. 14 Trattato Mutua Assistenza in materia penale fra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo degli Stati Uniti d’America, Roma
9 novembre 1982 (L. 26 maggio 1984 n. 224) ed implicitamente art. 26 n. 3 della Convenzione italo-ungherese 26 maggio 1994, di estradizione e di assistenza giudiziaria in
materia penale.
(6) Alcune manifestazioni ormai tradizionali di tale fenomeno possono, però rincontrarsi nelle rogatorie consolari, nei poteri dei consoli in materia della navigazione
ed in atti di giurisdizione militare in territorio straniero.
(7) V. Accordo 29 marzo 1976 fra Ministero di Grazia e Giustizia italiano ed il Dipartimento della giustizia degli U.S.A. in relazione al caso LOCKEED (D.L. 1° aprile 1976,
n. 76) nonché, quanto ad episodi di trsaferte di giudici italiani negli U.S.A., Cass. 18
maggio 1971 n. 60 - Cass. 19 febbraio 1979.
(8) BERTONI, Diritti umani e collaborazione internazionale nella lotta alla criminalità, relazione presentata al convegno di Trieste dell’11 dicembre 1980 su “Diritti dell’uomo e processo penale”, pag. 16; GALANTINI, Assunzione di prove penali all’estero:
rogatorie e metodi alternativi, in Cass. pen. 1981, pag. 605.
298
all’uopo ha affermato che “La rogatoria internazionale è lo strumento normale, ma non esclusivo della collaborazione tra gli Stati per l’assunzione
all’estero della prova penale, sicché nulla impedisce agli organi giudiziari
italiani e, in genere, all’autorità italiana, di compiere direttamente atti di
acquisizione probatoria nel territorio di altro Stato, nel rispetto, naturalmente, delle regole riguardanti i rapporti tra gli Stati e della disciplina processuale degli atti compiuti (9)” [più diffusamente, cap. 3°, par. 1].
Sez. II. – Rogatorie penali internazionali.
3. Rogatorie attive e passive.
Suole distinguersi fra rogatorie internazionali attive e passive, a
secondo dell’angolo di visuale dell’autorità richiedente o richiesta. A
tale distinzione non corrisponde, però, una duplice categoria di rogatorie internazionali, che sono sempre attive e passive al tempo stesso
e, nel loro momento passivo, consistendo in un facere, costituiscono
un fenomeno di assistenza giudiziaria internazionale.
Esistono, invece, in ciascun ordinamento giuridico sovrano due
complessi normativi distinti, secondo che le autorità di esso richiedano
la rogatoria o ne siano richieste. Più puntuale è, dunque, la distinzione
fra le norme sulle rogatorie attive e le norme sulle rogatorie passive, che
meglio consente di evidenziare l’unitarietà dell’istituto della rogatoria
internazionale, retto contemporaneamente dalle norme attive dello
Stato richiesto, collegate e coordinate fra loro dalle eventuali norme di
convenzioni pattuite sul terreno internazionale da entrambi gli Stati.
Le fonti della disciplina normativa si appalesano, pertanto, molteplici già in relazione ad ogni singola rogatoria, ove norme interne, norme
straniere e norme convenzionali, concorrendo, confliggono, si derogano
o più spesso si integrano. L’articolo 696 codice procedura penale (10) sta-
(9) Cass. 19 febbraio 1979, Buscetta; Cass. 26 novembre 1987, Ammaturo; Cass. 24
maggio 1985, Ortolani.
(10) Art. 696 codice procedura penale (Prevalenza delle convenzioni e del diritto internazionale generale). - 1. Le estradizioni, le rogatorie internazionali, gli effetti delle sentenze penali straniere, l’esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane e gli altri rapporti
con le autorità straniere, relativi alla amministrazione della giustizia in materia penale,
sono disciplinati dalle norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle
norme di diritto internazionale generale. - 2. Se tali norme mancano o non dispongono
diversamente, si applicano le norme che seguono.
299
bilisce – per la porzione di disciplina rientrante nell’ordinamento italiano – la prevalenza delle fonti internazionali, pattizie o no, ed attribuisce
alle norme interne (artt. 723-729 c.p.p.) un valore suppletivo; tuttavia
nella realtà le norme convenzionali – in gran parte protese a circoscrivere gli impegni internazionali dello Stato richiesto – tendono non a sostituire (in via di adattamento) le norme interne, ma ad integrarle. L’eventualità di una deroga alle norme generali del codice di procedura penale
rappresenta, pertanto, un’evenienza rara, mentre in concreto si prospetta abitualmente una disciplina risultante dal combinato disposto delle
norme del codice (11) e di quelle convenzionali (12).
La fonte internazionale, ovviamente, è destinata a variare in relazione allo Stato che richiede od al quale è richiesta la rogatoria, per
cui in relazione alla molteplicità degli Stati si presenta un’ulteriore
molteplicità di fonti.
Tale molteplicità non impedisce, peraltro, una discreta unitarietà
dell’istituto delle rogatorie internazionali: come la porzione della
disciplina interna che non è applicabile ad una rogatoria costituisce
tendenzialmente l’immagine speculare della disciplina straniera che
sarà applicata, così le norme convenzionali prevalentemente si ricopiano le une dalle altre e le vere divergenze sono rare, spesso in conseguenza di particolari esigenze concrete. Tutto ciò sia perché esistono comuni necessità, sia perché in ogni ordinamento giuridico partecipe di una comune civiltà del diritto si pongono problemi analoghi in
situazioni contrapposte, sia perché gli Stati sovrani cooperano fra loro
sulla base della reciprocità.
4. Panoramica delle fonti internazionali.
Le fonti convenzionali della disciplina delle rogatorie sono
(11) Puntualmente la formulazione impiegata al comma 2 dell’articolo 696 c.p.p.
“mira a chiarire che la disciplina del codice può trovare applicazione anche in presenza di norme internazionali, in ordine ai profili da quest’ultime non disciplinati” (Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U. 24 ottobre 1988 n.
260, supplemento ordinario n. 2 pag. 162).
(12) Alcune convenzioni contengono norme redatte in modo notevolmente preciso,
in modo da consentirne l’applicazione diretta. Cfr. FRANK, Travaux preparatoires de la
convention europèenne d’entraide judiclaire en matiére penale, 13, in Problèmes relatifs à
l’application pratique de la convention europèenne d’entraide judiclaire en matière pènale.
300
costituite per lo più dai trattati di estradizione, che abitualmente
riservano talune norme alla materia o da convenzioni espressamente dedicate all’assistenza giudiziaria civile, commerciale e
penale.
Attualmente la convenzione di più ampio interesse, per il suo
carattere multilaterale e per il fatto di costituire il primo accordo sorto
esclusivamente per l’assistenza giudiziaria penale, è la Convenzione
europea 20 aprile 1959 di assistenza giudiziaria penale, che copre quasi
tutta l’area dell’Europa atlantica o neutrale, ancorché in più punti
derogata da riserve o accordi particolari (13).
Ad essa è venuta ad affiancarsi per importanza il Trattato di mutua
assistenza in materia penale fra Italia e Stati Uniti d’America, che, pur
avendo più semplice struttura come atto bilaterale, copre un’area geografica di pari rilievo ed estensione e costituisce uno dei primi strumenti diplomatici a fini non episodici stipulato in materia da un paese
di Common Law (14).
Convenzioni bilaterali più o meno recenti legano l’Italia ad
alcuni Stati dell’Europa orientale (15) ed a Paesi del bacino del
Mediterraneo o del Maghreb (16); con i paesi latino-americani
vigono, invece, per lo più accordi ottocenteschi, o risalenti agli
anni Trenta. Uno scambio di note impegna a collaborare sulla base
delle rispettive norme interne Italia e Giappone; pari collaborazio-
(13) Le riserve costituiscono, come è noto, il punto debole delle convenzioni
unilaterali. Inoltre, gli artt. 15 § 7, 16 § 3 e 26 § 2 della convenzione europea fanno
salvi, per taluni aspetti (corrispondenza diretta fra Autorità giudiziarie, traduzioni di
atti, assistenza in campi determinati) eventuali accordi bilaterali fra gli Stati partecipanti.
(14) I rapporti di assistenza giudiziaria con gli altri paesi di Common Law si svolgono prevalentemente sulla base delle leggi interne anche in assenza di convenzioni
internazionali.
(15) Cecoslovacchia e Jugoslavia (Roma, convenzioni gemelle, 6 aprile 1922, rese
esecutive rispettivamente con R.D. 19 aprile 1924 n. 1559 e 13 dicembre 1923 n. 3182);
Romania (Convenzione di Bucarest 11 novembre 1972, resa esecutiva con L. 20 febbraio 1975, n. 127); Ungheria (Convenzione di Budapest 26 maggio 1997, resa esecutiva con L. 23 luglio 1980 n. 511).
(16) Libano (Convenzione di Beirut 10 luglio 1970, resa esecutiva con L. 12 febbraio 1974 n. 87); Marocco (Convenzione di Roma 12 febbraio 1971, resa esecutiva con
L. 12 dicembre 1973 n. 1043); Tunisia (Convenzione di Roma 15 novembre 1967 resa
esecutiva con L. 28 gennaio 1971 n. 267); con l’Algeria, quale Stato successore, è concordemente in vigore la Convenzione fra Italia e Francia (Roma 12 gennaio 1955, resa
esecutiva con L. 19 febbraio 1957 n. 155), che fra le parti originarie è superata – in
alcuni aspetti – dalla Convenzione europea.
301
ne fra Italia e Australia è prevista da una specifica disposizione pattizia (17).
Obblighi di assistenza giudiziaria penale – anche al di là dei limiti consueti e nei confronti di numerosi Stati – sono talvolta contenuti
in convenzioni multilaterali specificamente destinate alla repressione
di taluni fenomeni criminosi (18).
5. Elenco dei paesi con i quali risultano Convenzioni internazionali con
l’Italia nel settore della Assistenza Giudiziaria, della Estradizione e del
Riciclaggio (aggiornato al 30 novembre 1995)
Legenda
•
E+
2° Protocollo addizionale alla C.E.A.G.
•
Eag
Accordo aggiuntivo alla C.E.A.G.
•
B+
Accordo aggiuntivo alla C.E.A.G.
•
R
Riserve
•
D
Dichiarazioni
•
T
Dichiarazioni territoriali
Convenzioni Consiglio d’Europa
•
Estradizione
Parigi
13 dicembre 1957
•
Ass. Giudiz.
Strasburgo
20 aprile 1959
•
Riciclaggio
Strasburgo
8 novembre 1990
(17) Rispettivamente, scambio di note, Tokio 5 ottobre 1937 (R.D. 17 marzo 1938
n. 574) e art. 21 Trattato d’estradizione con l’Australia, Milano, 24 agosto 1985 (L. 2
gennaio 1989 n. 12).
(18) Ad esempio, art. 35 lett. e) Convenzione unica sugli stupefacenti (New York 30
marzo 1961, resa esecutiva con L. 5 giugno 1974 n. 412); art. 21 lett. e) Convenzione sulle
sostanze psicotrope (Vienna 21 febbraio 1971, resa esecutiva con L. 25 maggio 1981 n.
385); art. 10 Convenzione per la repressione della cattura illecita di aeromoili (L’Aia 16
dicembre 1970, resa esecutiva con L. 22 ottobre 1973 n. 906); art. 11 Convenzione per la
repressione degli atti illeciti contro la sicurezza dell’aviazione civile (Montreal 23 settembre
1971, resa esecutiva con L. 22 ottobre 1973 n. 906); art. 11 Convenzione contro la cattura
degli ostaggi (New York, 18 dicembre 1979, resa esecutiva con L. 26 novembre 1985 n. 178).
302
Paese
Oggetto
trattato
Tipo di
accordo
Data della
firma
Data entrata
Riserve
in vigore
dichiarazioni
del paese
aderente
Algeria
Ass. Giudiz.
Bilaterale
12 gennaio 1955
2 aprile 1959
Argentina
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
9 dicembre 1987
9 dicembre 1987
1° agosto 1981
1° dicembre 1992
Australia
Ass. Giud.
Riciclaggio
Estradizione
Bilaterale
Conv. Eur.
Bilaterale
20 ottobre 1988
1° aprile 1994
28 settembre 1992
26 agosto 1985
1° agosto 1980
Austria
Ass. Giudiz.
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Eag
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
Eag
20 aprile 1959
290 febbraio 1973
10 luglio 1991
13 dicembre 1957
17 marzo 1978
20 febbraio 1973
31 dicembre 1968
27 novembre 1977
R/D
19 agosto 1969
31 luglio 1983
27 novembre 1977
R/D
D
Bahamas
Estradizione
Bilaterale
5 febbraio 1873
25 novembre 1980
Belgio
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Estradizione
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Bilaterale
B+
B+
B+
Conv. Eur.
20 aprile 1959
8 novembre 1990
15 gennaio 1875
10 marzo 1879
30 dicembre 1875
28 gennaio 1929
13 dicembre 1957
11 novembre 1975
Bolivia
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
18 ottobre 1890
18 ottobre 1890
7 gennaio 1901
7 gennaio 1904
Brasile
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
17 ottobre 1989
17 ottobre 1989
1° dicembre 1995
1° agosto 1993
Bulgaria
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
30 settembre 1993
28 settembre 1992
30 settembre 1993
30 settembre 1993
14 settembre 1994
1° ottobre 1993
14 settembre 1994
14 settembre 1994
Canada
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
6 dicembre 1990
6 maggio 1981
1° dicembre 1995
27 giugno 1985
Ceca Rep.
Ass. Giudiz.
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
13 febbraio 1992
13 febbraio 1992
1° gennaio 1993
1° gennaio 1993
Cipro
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
8 novembre 1990
18 settembre 1970 22 aprile 1971
21 giugno 1983
12 luglio 1984
Costarica
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
6 maggio 1873
6 maggio 1873
16 aprile 1875
16 aprile 1875
Croazia
Ass. Giudiz.
Estradizione
Estradizione
Bilaterale
Conv. Eur.
E+
6 aprile 1922
Adesione
Adesione
6 febbraio 1931
25 aprile 1995
25 aprile 1995
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
4 ottobre 1928
4 ottobre 1928
18 aprile 1932
18 aprile 1932
Cuba
R/D
25 febbraio 1875
10 marzo 1879
26 gennaio 1882
21 luglio 1929
R/D
R/D
R/D
R
R/D
D
303
Paese
Oggetto
trattato
Tipo di
accordo
Data della
firma
Data entrata
Riserve
in vigore
dichiarazioni
del paese
aderente
Danimarca Ass. Giudiz.
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
20 aprile 1959
13 dicembre 1957
25 ottobre 1982
12 dicembre 1962
12 dicembre 1962
5 giugno 1983
El Salvador Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
29 marzo 1871
29 marzo 1871
21 settembre 1872
21 settembre 1872
Estonia
Ass. Giudiz.
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
4 novembre 1993
14 novembre 1993
Finlandia
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
Adesione
25 settembre 1991
Adesione
Adesione
29 aprile 1981
1° luglio 1994
19 agosto 1971
30 aprile 1985
R/D
R/D
R/D
Francia
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
28 aprile 1961
5 luglio 1991
13 dicembre 1957
21 agosto 1967
R/D
11 maggio 1986
R/D/T
Ass. Giudiz.
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Eag
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
Eag
20 aprile 1959
24 ottobre 1979
8 novembre 1990
13 dicembre 1957
8 novembre 1985
24 ottobre 1979
1° gennaio 1977
4 luglio 1985
R/D
1° gennaio 1977
6 giugno 1991
4 luglio 1985
R/D
Ass. Giudiz.
Sca. Note
5 ottobre 1937
5 ottobre 1937
Gran Bretagna Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
21 giugno 1991
8 novembre 1990
21 dicembre 1990
9 novembre 1992
27 novembre 1991
1° settembre 1993
14 maggio 1991
6 giugno 1994
Grecia
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
20 aprile 1959
16 giugno 1962
28 settembre 1992
13 dicembre 1957 27 agosto 1961
18 giugno 1980
India
Estradizione
Bilaterale
5 febbraio 1873
11 aprile 1873
Irlanda
Estradizione
Conv. Eur.
25 maggio 1966
31 luglio 1966
Islanda
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
27 settembre 1982 18 settembre 1984
8 novembre 1990
27 settembre 1982 18 settembre 1984
27 settembre 1992 18 settembre 1984
Ass. Giudiz.
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Adesione
Adesione
26 dicembre 1967
26 dicembre 1967
Kenia
Estradizione
Bilaterale
5 febbraio 1873
8 dicembre 1967
Lesotho
Estradizione
Bilaterale
5 febbraio 1873
7 settembre 1971
Libano
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
10 luglio 1990
10 luglio 1990
17 maggio 1975
17 maggio 1975
Germania
Giappone
Israele
304
R/D
R/D
R/D/T
R/D
R
R
R/D
R/D
R/D
R/D
Paese
Oggetto
trattato
Tipo di
accordo
Data della
firma
Data entrata
Riserve
in vigore
dichiarazioni
del paese
aderente
Liechtenstein Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Adesione
26 gennaio 1970
26 settembre 1995
Adesione
26 gennaio 1970
Lituania
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
3 giugno 1994
9 novembre 1994
9 novembre 1994
Lussemburgo Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
20 aprile 1959
16 febbraio 1977
28 settembre 1994
13 dicembre 1957 16 febbraio 1977
Macedonia Ass. Giudiz.
Bilaterale
6 aprile 1922
6 febbraio 1931
Malta
Ass. Giudiz.
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Bilaterale
B+
6 settembre 1993
9 gennaio 1863
3 maggio 1863
1° giugno 1994
3 marzo 1967
3 marzo 1967
Marocco
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
12 febbraio 1971
12 febbraio 1971
22 maggio 1975
22 maggio 1975
Messico
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
22 maggio 1889
22 maggio 1889
12 ottobre 1899
12 ottobre 1899
Monaco Pr. Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
26 marzo 1866
26 marzo 1866
19 maggio 1866
19 maggio 1866
Norvegia
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
21 aprile 1961
8 novembre 1990
13 dicembre 1957
11 dicembre 1986
12 giugno 1962
1° marzo 1995
18 aprile 1960
11 marzo 1987
N. Zelanda Estradizione
Bilaterale
5 febbraio 1873
18 giugno 1948
Paesi Bassi Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
21 gennaio 1965
8 novembre 1990
21 gennaio 1965
13 luglio 1969
15 maggio 1969
1° settembre 1993
15 maggio 1969
5 giugno 1983
Paraguay
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
30 settembre 1907 9 maggio 1911
30 settembre 1907 9 maggio 1911
Perù
Ass. Giudiz.
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
Bilaterale
12 luglio 1935
12 luglio 1935
24 novembre 1994
24 novembre 1994
Polonia
Ass. Giudiz.
Ass. Giudiz.
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
28 aprile 1989
9 maggio 1994
19 febbraio 1993
19 febbraio 1993
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
10 maggio 1979
8 novembre 1990
27 aprile 1977
27 aprile 1978
Portogallo
1° ottobre 1995
18 settembre 1995
18 settembre 1995
R/D
R/D
R
R/D
R/D
R/D
R/D
R/D
R/D
R/D
R
R/D/T
R/D/T
R/D/T
T
1° marzo 1992
13 settembre 1993
13 settembre 1993
D
26 dicembre 1994
25 aprile 1990
25 aprile 1990
R/D
305
Paese
Romania
Oggetto
trattato
Tipo di
accordo
Data della
firma
Data entrata
Riserve
in vigore
dichiarazioni
del paese
aderente
Ass. Giudiz.
Ass. Giudiz.
Estradizione
Estradizione
Estradizione
Bilaterale
Conv. Eur.
Bilaterale
Conv. Eur.
E+
11 novembre 1972 4 agosto 1975
30 giugno 1995
11 novembre 1972 4 agosto 1975
30 giugno 1995
30 giugno 1995
San Marino Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
31 marzo 1939
31 marzo 1939
30 settembre 1939
30 settembre 1939
Santa Sede Estradizione
Bilaterale
11 febbraio 1929
7 giugno 1929
Singapore
Estradizione
Bilaterale
5 febbraio 1873
13 marzo 1948
Slovacchia Ass. Giudiz.
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
13 febbraio 1992
13 febbraio 1992
1° gennaio 1993
1° gennaio 1993
Slovenia
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Bilaterale
Conv. Eur.
Conv. Eur
E+
6 aprile 1922
6 febbraio 1931
23 novembre 1993
31 marzo 1994
17 maggio 1995
31 marzo 1994
17 maggio 1995
Spagna
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur.
E+
24 luglio 1979
8 novembre 1990
24 luglio 1979
10 giugno 1983
16 novembre 1982
R/D
5 agosto 1982
9 giugno 1985
R/D
Sri Lanka
Estradizione
Bilaterale
5 febbraio 1873
13 marzo 1948
Sud Africa
Estradizione
Bilaterale
5 febbraio 1873
1° maggio 1948
Svezia
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur
E+
20 aprile 1959
8 novembre 1990
13 dicembre 1957
6 aprile 1979
1° maggio 1968
R/D
18 aprile 1960
5 giugno 1983
R/D
Svizzera
Ass. Giudiz.
Riciclaggio
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur.
Conv. Eur
E+
29 gennaio 1965
23 agosto 1991
29 novembre 1965
17 novembre 1981
20 marzo 1967
1° ottobre 1993
20 marzo 1967
5 giugno 1983
R/D
R
R/D
Tunisia
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
15 novembre 1967 19 aprile 1972
15 novembre 1967 19 aprile 1972
Turchia
Ass. Giudiz.
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur
E+
23 ottobre 1959
13 dicembre 1957
16 luglio 1987
22 settembre 1969
18 aprile 1960
8 ottobre 1992
U.S.A.
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
9 novembre 1982
13 ottobre 1983
13 novembre 1985
24 settembre 1984
Ungheria
Ass. Giudiz.
Estradizione
Estradizione
Conv. Eur.
Conv. Eur
E+
19 novembre 1991 11 ottobre 1993
19 novembre 1991 11 ottobre 1993
19 novembre 1991 11 ottobre 1993
Uruguay
Estradizione
Bilaterale
14 aprile 1879
17 aprile 1881
Venezuela
Ass. Giudiz.
Estradizione
Bilaterale
Bilaterale
23 agosto 1930
23 agosto 1930
4 aprile 1932
4 aprile 1932
306
R/D
R
D
R/D
R/D
R/D
Elenco dei paesi con cui vi sono Accordi in negoziazione con l’Italia (stato avanzato al 31 dicembre 1995).
Paese
Bolivia
Paraguay
Hong Kong
Cile
Canada
Colombia
Oggetto dell’accordo
Assistenza giudiziaria in
Estradizione
Assistenza giudiziaria in
Assistenza giudiziaria in
Estradizione
Assistenza giudiziaria in
materia penale
materia penale
materia penale
materia penale
CAPITOLO 2. – RAPPORTI GIURISPRUDENZIALI
CON AUTORITÀ STRANIERE
Sezione I. - Disposizioni generali.
Il libro XI del codice di procedura penale disciplina i rapporti giurisdizionali con autorità straniere. Si articola in quattro titoli:
1. Disposizioni generali (art. 696)
2. Estradizione (artt. 697-728)
3. Rogatorie internazionali (artt. 723-729)
4. Effetti delle sentenze penali straniere. Esecuzione all’estero di
sentenze penali italiane (artt. 730-746).
“L’elaborazione di un apposito libro in materia si pone in una linea di
continuità culturale con il precedente codice, che per primo ha dato specifica veste giuridica alla questione. Dopo di allora, però, nonostante il notevole incremento dei rapporti internazionali, quell’iter di specificazione normativa si è interrotto, come sottolinea per la stessa relazione ministeriale” (19).
(19) Vedi CASSANO M., Problemi operativi e casistica in tema di rogatoria internazionale, in Quaderni del Consiglio Superiore della Magistratura n. 61 Vol. I, pag. 216 e
segg.. La Relazione Ministeriale così si esprime: “La disciplina codicistica dei rapporti
giurisdizionali con autorità straniere ha faticato non poco, nel nostro Paese, ad affermarsi in termini di specificità normativa. Solo con il codice del 1930, infatti, la materia ha
acquisito la dignità che risponde all’intitolazione di un libro apposito, il libroV, è presente anche qualche interessante sviluppo tematico. Dopo di allora, però, si direbbe che –
nonostante il notevolissimo incremento dei rapporti internazionali – quell’itinerario di
specificazione normativa si sia interrotto”.
307
Pur in assenza di alcuna autonoma direttiva circa i rapporti giurisdizionali con autorità straniere, non si può parlare, in relazione alle
norme contenute nel libro XI di mancanza o eccesso di delega, in quanto precise indicazioni sono contenute nell’articolo 2 comma 1° e art. 2
direttiva 104 della legge 16 febbraio 1987 n. 81.
L’articolo 2 comma 1°, nel fare obbligo al legislatore delegato di
attuare i principi della Costituzione e di adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale, stabilisce i parametri fondamentali nell’ambito dei quali deve inquadrarsi la materia.
I principi costituzionali cui occorre fare riferimento sono, in primo
luogo, quelli contenuti negli articoli 10 (20) e 26 (21) della Costituzione.
Notevole importanza rivestono, però, anche gli articoli 13, 24
comma 2° e 11, nella parte in cui prevede che l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie
ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Tra le norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia
si deve avere riguardo, secondo quanto si evince dalla relazione ministeriale, tra le altre, alla convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e, su un piano più specifico, alla convenzione europea di estradizione e alla convenzione europea di assistenza giudiziaria, sopra menzionate.
“Non si è peraltro ritenuto di procedere a una “europeizzazione” della
disciplina della materia, vale a dire a congegnare una normativa che si
adeguasse alle convenzioni europee richiamate da ultimo fino a trasfonderle nel testo del codice.
Un tale disegno, invero, è parso privo della necessaria base testuale,
e ancor più avversato da un duplice ordine di fattori: dal criterio di graduazione delle fonti della materia, che oggi l’art; 696 c.p.p. (che riprodu-
(20) Art. 10 Cost. – L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del
diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo
straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello
straniero per reati politici.
(21) Art. 26 Cost. – L’estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove
sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali. Non può in alcun caso
essere ammessa per reati politici.
308
ce in massima parte il previgente art. 956) conferisce alla disciplina del
codice un ruolo semplicemente suppletivo rispetto a quello delle convenzioni internazionali con i singoli e vari paesi stranieri; avversato, poi, da
considerazioni elementari di praticabilità e di politica legislativa, non
potendo certo pensarci come generalizzabile a tutti i singoli e vari paesi
stranieri il quadro di intese che sorreggono le relazioni tra l’Italia ed i
paesi legati dalle predette convenzioni europee.
È parso, quindi, più opportuno ispirarsi a tali convenzioni (e ad
altre successive sottoscritte e ratificate), per ricavare principi generali e
linee di tendenza.
Il nostro paese divide con la sola Grecia, nell’ambito delle Comunità
europee la peculiarità di disporre di una disciplina-base, in tema di rapporti con autorità straniere, ristretta entro le norme di un codice” (22).
Sezione II. - Gerarchia delle fonti – Art. 698 - Prevalenza delle convenzioni
e del diritto internazionale generale.
1. Le estradizioni, le rogatorie internazionali, gli effetti delle sentenze
penali straniere, l’esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane e gli
altri rapporti con le autorità straniere, relativi alla amministrazione della
giustizia in materia penale, sono disciplinati dalle norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale. – 2. Se tali norme mancano o non dispongono diversamente, si applicano le norme che seguono.
L’articolo 696, riproponendo nella sostanza il testo dell’art. 656
c.p.p. previgente, riflette e rende esplicita la gerarchia delle fonti che disciplinano la materia. Le norme del codice, in quanto puramente interne, si
applicano infatti soltanto negli spazi rispetto ai quali lo Stato non è
impegnato al rispetto di regole di diritto internazionale.
La norma in esame ribadisce principi di interpretazione di ordine
generale e pertanto sotto questo aspetto potrebbe anche ritenresi
superflua e posta solo per esigenze di completezza di trattazione sistematica della materia. È infatti principio pacifico che nella gerarchia
delle fonti normative, quelle superstatuali prevalgono su quelle interne.
In dottrina si è sostenuto che l’articolo 696 c.p.p. non ha né può
(22) Relazione Ministeriale.
309
avere una effettiva portata normativa, in quanto, essendo i codici stessi leggi, non possono dettar legge alle leggi, né, d’altro canto, per legge si
può regolare il valore delle norme di origine convenzionale (23).
In ogni caso, è indubbia la rilevanza pratica della norma che serve
ad evitare potenziali contrasti tra diverse fonti del diritto, riconoscendo prevalenza alle norme convenzionali internazionali in vigore per lo
Stato e alle norme di diritto internazionale generale.
Rispetto alla norma previgente (art. 656 c.p.p.), l’articolo 696
c.p.p. si distingue per una formulazione terminologica e concettuale
più esatta, contenendo, tra l’altro, alcune positive innovazioni.
Innanzitutto il nuovo testo, rispetto al generico riferimento alle
“convenzioni” di cui alla normativa previgente, richiama le “norme
delle convenzioni internazionali”, con una specificazione di estrema
importanza sotto il profilo ermeneutico: non sarà sufficiente l’esistenza di una convenzione per escludere automaticamente l’applicabilità
delle norme codicistiche. Le norme del libro XI del codice di rito penale
troveranno applicazione in difetto di analoga normativa che regoli la
questione, sia se la questione non sia affrontata dalle convenzioni internazionali sia se essa sia trattata in maniera incompleta.
“Quanto al comma 2 dell’art. 696, la formulazione impiegata mira a
chiarire che la disciplina del codice può trovare applicazione anche in
presenza di norme internazionali, in ordine ai profili da queste ultime
non disciplinati (24).
L’espressione “convenzioni internazionali” si riferisce ai trattati –
qualunque ne sia la denominazione – di cui l’Italia è parte, siano essi
bilateralli o multilaterali (25).
Con l’inciso “in vigore per lo Stato” si è inteso sottolineare che la loro
concreta applicabilità dipende dal perfezionamento del trattato sul piano
del diritto internazionale, oltre che dal compimento di quanto è necessario per renderlo esecutivo sul piano del diritto interno (26).
Dunque, ai fini della individuazione delle norme dette che in concreto disciplinano i rapporti giurisdizionali con autorità straniere, l’interprete dovrà di volta in volta:
(23) Vedi QUADRI R., voce Estradizione Diritto Internazionale, in Enc. dir., vol.
XVI, 1967, pag. 16; LASZLOCZKI, La cooperazione Internazionale negli atti di Istruzione penale, 1980, pag. 100.
(24) Vedi Relazione ministeriale.
(25) Vedi Relazione Ministeriale.
(26) Vedi Relazione Ministeriale.
310
1. individuare quali convenzioni vincolino sul piano internazionale l’Italia in un preciso momento storico, verificandone l’entrata in
vigore e le vicende successive. Tale verifica può essere effettuata anche
tramite Direzione Generale Affari Penali Ministero di Grazia e Giustizia. La Direzione succitata è in possesso di un elenco aggiornato delle
Convenzioni in vigore con tutti gli Stati, che si può facilmente ottenere mediante specifica richiesta. Vi è inoltre un codice completo dell’Assistenza Giudiziaria, edito dalla Giuffrè, PISANI-MOSCONI, anche
se si deve verificare il suo aggiornamento.
2. stabilire quale sia la loro portata, quali norme, corrispondenti a
quelle da esse contenute, si siano formate nell’ordinamento nazionale.
3. accertate, con riferimento alle convenzioni multilaterali, che
anche l’altro Stato, con cui si instaurano i rapporti giurisdizionali,
abbia posto in essere le procedure di rito per aderire alla convenzione.
4. accertare, con riferimento alle convenzioni multilaterali, se l’altro Stato, con cui si instaurano i rapporti giurisdizionali, abbia apposto eventuali riserve.
5. qualora la questione concreta non sia interamente o solo sotto
alcuni profili disciplinata da norme di convenzioni internazionali,
dovrà applicarsi la legge processuale penale interna.
Infatti, con riferimento ai punti 3 e 4, la Relazione ministeriale
precisa:
“Rimane naturalmente ferma la necessità di verificare, per le convenzioni multilaterali, che anche l’altro stato interessato ne sia parte, per
avere anch’esso completato tutti i necessari adempimenti. Resta altresì
ferma, sempre per le convenzioni multilaterali, la necessità di tenere adeguatamente conto delle eventuali riserve apposte al singolo trattato, ad
opera del nostro come dell’altro stato che viene in considerazione” (27).
Quanto alla indicazione dei singoli Stati con i quali l’Italia è legata da accordi bi o multi-laterali di cooperazione giudiziaria in campo
penale, si rinvia al paragrafo di cui sopra.
All’uopo si impongono alcune osservazioni: la frantumazione dell’Unione Sovietica, della Iugoslavia e della Cecoslovacchia ha fatto sorgere il problema della applicabilità dei trattati che l’Italia aveva stipulato con quegli Stati. In ordine a questo problema ci si limita a
riprendere le precisazioni che riguardo a taluno dei suddetti casi si
rinvengono nella “Situazione delle Convenzioni internazionali vigenti
(27) Relazione Ministeriale.
311
per l’Italia al 31 dicembre 1991 (con aggiornamento al 31 maggio
1992)” (28).
Vale la pena di aggiungere che la Convenzione di Vienna del 1978
sulla successione degli Stati rispetto ai trattati non è ancora operante,
non avendo raggiunto il pur ridotto numero minimo di ratifiche
necessario per la sua entrata in vigore e che, a differenza di quanto
essa prevede, anche per gli Stati che non traggono origine dalla decolonizzazione, sembra doversi ritenere, d’accordo con quanto la maggioranza della dottrina ha sempre ritenuto, che la regola fondamentale
da assumere come punto di partenza per i trattati non localizzabili, sia
la c.d. regola della tabula rasa.
“Lo Stato che subentra nel governo di un territorio non è, in linea di
principio, vincolato dagli accordi conclusi dal predecessore” (29), così
che, la dissoluzione dell’Unione Sovietica alla fine del 1991 configura
un caso di smembramento, ossia di formazione, sul territorio di uno
Stato che si estingue, di più Stati nuovi.
Per gli Stati originati da smembramento, come quelli che si formano per distacco da uno Stato che, pur ridimensionato, continua ad
esistere, il principio della tabula rasa comporta che i trattati bilaterali
conclusi dal predecessore “potranno continuare ad avere valore solo se
rinnovati attraverso un apposito accordo con la controparte, accordo
che, date le circostanze, potrà essere tacito, ossia risultare da fatti concludenti” (30).
La formula “norme di diritto internazionale generale” è più ampia e
comunque comprensiva degli “usi internazionali” di cui all’articolo 656
c.p.p. previgente. Tale formulazione, come si legge nella relazione
ministeriale (si è poi preferito, ai termini “usi” e “convenzioni internazionali”, impiegati nel codice in vigore, la formula “norme di diritto
internazionale generale”, che, oltre alla consuetudine, fa riferimento a
ogni altra possibile fonte di norme generali (quali i cc.dd. principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, di cui all’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia), ai quali il nostro ordinamento si conforma a livello internazionale, in forza dell’art. 10 comma
1° Cost.) è coerente con quella dell’articolo 10 comma 1° Cost. e coincide con quella impiegata dalla dottrina internazionalistica. Essa com-
(28) Roma, 1992, pubblicata dall’Istituto poligrafico e Zecca dello Stato. Libreria
dello Stato, a cura del Ministero degli Affari Esteri.
(29) B. CONFORTI, Diritto Internazionale, IV, Napoli, 1992, pag. 113.
(30) B. CONFORTI, Diritto Internazionale, IV, Napoli, 1992, pag. 116.
312
prende sia i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili di cui all’articolo 38 dello statuto della Corte internazionale di giustizia, sia le consuetudini internazionali, delle quali gli usi di cui
all’art. 656 c.p.p. previgente sono una componente insieme alla c.d.
opinio juris (31).
Spetterà alle Autorità giudiziarie ed a quella amministrativa
accertare di volta in volta, in rapporto al singolo caso in esame, quali
siano le norme di diritto internazionale generale esistenti ed applicabili.
Accertamento complesso come lo dimostrano alcune pronunce
emesse dalla Corte Costituzionale in relazione a specifiche tematiche,
quali:
a) giudice naturale (sentenza n. 96 del 1973);
b) ne bis in idem (sentenza n. 48 D.L. 1967; n. 1 del 1973; n. 69 del
1976 e ordinanza n. 282 del 1983);
c) incostituzionalità della norma ordinaria penale in contrasto con
una norma di diritto internazionale generale.
In tutte queste sentenze non sono mai state completamente ricostruire le metodologie ed il procedimento logico attraverso il quale si
è giunti ad affermare l’esistenza o meno di una norma di diritto internazionale generale.
A titolo esemplificativo, secondo la giurisprudenza della Corte di
Cassazione, formatasi sotto la vigenza del codice del 1930, l’acquisizione di atti di un procedimento penale celebrato all’estero contro un
cittadino italiano e la loro utilizzazione in altri procedimenti penali in
Italia, avviene nel quadro della collaborazione ed assistenza giudiziaria reciproca tra gli Stati, il cui principio, recepito nella Convenzione
Europea di assistenza giudiziaria ed accolto costantemente in analoghe convenzioni, ha valore di norma consuetudinaria di diritto internazionale, valida anche per gli Stati non firmatari (32).
La giurisprudenza di legittimità ha ravvisato, altresì una norma di
diritto generale internazionale, nel principio secondo cui le rogatorie
devono essere espletate secondo la procedura contemplata dallo Stato
richiesto (33).
Le difficoltà interpretative di individuazione delle norme di dirit-
(31) Vedi A.P. SERENI, Diritto Internazionale, vol. I, Milano, 1996, pag. 121; B.
CONFORTI, Diritto Internazionale, III Ed., 1987, pagg. 32-33.
(32) Cass. sez. I, 9 luglio 1919 n. 6393, Nuvoletta.
(33) Cass. sez. I, 22 ottobre 1981, Li Calzi.
313
to internazionale in vigore per lo Stato e delle norme di diritto internazionale generale, hanno indotto parte della dottrina ad affermare
che le disposizioni del codice, più che assolvere ad una funzione suppletiva, costituiscano esse stesse la disciplina base integrabile con le
fonti internazionali: operando in tal modo un ribaltamento della
gerarchia delle fonti stabilita nell’articolo 696 c.p.p. (34).
Sezione III. – Le rogatorie internazionali: rogatorie all’estero.
1. Definizione.
La rogatoria internazionale all’estero è l’incarico che l’autorità
giudiziaria dà (parte richiedente) ad un’altra autorità giudiziaria
(parte richiesta) di compiere, nel territorio di competenza di quest’ultima non soggetto alla sovranità dello Stato ove è pendente il
procedimento o ove si celebra il processo, un atto processuale per le
esigenze di un procedimento/processo penale in corso dinanzi alla
autorità giudiziaria richiedente e dunque di compiere nel suo interesse atti destinati a spiegare efficacia nell’ambito del predetto procedimento o processo e, quindi, nell’ordinamento giuridico della
parte richiedente.
Di conseguenza, lo Stato richiesto si limita a valutare preliminarmente l’ammissibilità degli atti richiesti e la loro compatibilità con i
principi del proprio ordinamento. Se non ravvisa ostacoli di carattere
sostanziale o procedurale, dà esecuzione alla rogatoria.
Spetta, invece, allo Stato richiedente valutare il contenuto e gli
effetti degli atti espletati all’estero ed utilizzarli ai propri fini processuali.
Salvo quanto verrà precisato nel proseguo della trattazione (vedi
cap. 3° sez. III, par. 9), è opportuno anticipare che:
– è regola di diritto internazionale generale, ricorrente in numerose
convenzioni e rinvenibile nell’articolo 27 delle preleggi, che l’atto probatorio assunto all’estero deve essere espletato nelle forme proprie
dello Stato richiesto costituendo tipico esercizio della sovranità del
(34) VINGONI, Le prove penali raccolte all’estero dalla autorità giudiziaria straniera, in Riv. it. dir. proc. pen. 1986, pag. 487; MARESCA, Le rogatorie internazionali nel
processo penale in Conferenze al secondo corso di perfezionamento per uditori giudiziari,
1959, pag. 548 e segg.
314
paese richiesto, ove ovviamente sono inapplicabili le regole processuali dello Stato richiedente (35).
– ai fini della utilizzabilità dell’atto, non basta che questo risulti
compiuto secondo le regole vigenti nello Stato in cui è stato assunto,
ma occorre anche che dette modalità non si pongano in contrasto con
le leggi interne proibitive concernenti le persone e gli atti e con quelle
che, in qualsiasi modo, riguardano l’ordine pubblico, tra le quali,
prime tra tutte, quelle che riguardano l’esercizio inderogabile dei diritti della difesa.
“Posto che la domanda di assistenza giudiziaria crea un rapporto tra
Stati, ciascuno dei quali si presenta nel proprio ordine indipendente e
sovrano, il medesimo principio postula che, da un lato, l’esecuzione
materiale degli atti richiesti debba necessariamente avvenire nei modi
previsti dalla lex fori e, dall’altro, che la valutazione delle attività espletate (ossia degli effetti che a detti atti possono essere riconosciuti vada
condotta alla stregua dell’ordinamento dello Stato richiedente” (36).
La commissione rogatoria internazionale all’estero è disciplinata
dal codice di procedura penale negli articoli 727-728-729, sussunti
sotto il capo II del titolo III del libro XI.
2. Legittimazione attiva.
Il codice di procedura penale attribuisce la legittimazione attiva ai
giudici e ai magistrati del Pubblico Ministero, nell’ambito delle rispettive attribuzioni.
L’art. 727 comma 1° codice procedura penale, così prescrive:
Art. 727 (Trasmissione di rogatorie ed autorità straniere) – 1. Le
rogatorie dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero dirette nell’ambito delle rispettive attribuzioni, alle autorità straniere per comunicazioni, notificazioni e per attività di acquisizione probatoria, sono trasmesse al Ministro di Grazia e Giustizia, il quale provvede all’inoltro per
via diplomatica.
Nella relazione ministeriale al progetto preliminare al codice si
legge: “Nel nuovo processo penale è prevedibile che l’organo attivo di
(35) Cass. 19 novembre 1993, Palamara; Cass. 3 dicembre 1990, Inzaghi, Corte
Costituzionale n. 379 del 1995.
(36) Sentenza della Corte Costituzionale n. 379 del 1996.
315
inoltro di una rogatoria all’estero – che la pratica chiama “attiva” – possa
essere non soltanto il giudice (il giudice per le indagini preliminari e il
giudice del dibattimento), ma anche il pubblico nell’ambito delle attività
di loro rispettiva competenza.
Si è pertanto ritenuto opportuno indicare espressamente (al fine di
eliminare equivoci interpretativi peraltro improbabili alla luce del significato che all’espressione “autorità giudiziaria” è stato attribuito nelle altre
parti del Progetto) come organi attivi i “giudici” e i “magistrati del pubblico ministero” (articolo 717 comma 1). Nei commi successvi, si è invece mantenuta la tradizionale espressione “autorità giudiziaria” posto che
la specificazione inserita nel comma 1 è parsa sufficientemente chiarificatrice, circa la riferibilità della normativa anche al pubblico minstero”.
Con la nuova formulazione trovano soluzione alcuni dubbi, sollevati sotto la vigenza del vecchio codice sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, circa:
1. ammissibilità del ricorso dello strumento della rogatoria internazionale nella fase delle indagini preliminari;
2. legittimazione attiva dei giudici del dibattimento, oltre che dei
giudici competenti per la fase istruttoria.
Sotto il primo profilo si osservava che non potevano costituire
oggetto di rogatoria attiva gli atti di polizia giudiziaria esperibili dal
Procuratore della Repubblica, direttamente o a mezzo di ufficiali di
polizia giudiziaria, prima della richiesta di istruzione formale o dell’inizio dell’istruzione sommaria (37).
Ulteriormente si osservava che, pur ammettendo che oggetto di
una rogatoria ad autorità straniere potessero essere atti di indagine
preliminare e che, quindi, la rogatoria fosse utilizzabile anche a prescindere dall’esistenza di un procedimento in atto, era in ogni caso
necessario che la richiesta fosse avanzata dall’autorità giudiziaria ed
avesse ad oggetto attività di carattere istruttorio (38).
Sotto il secondo profilo si evidenziava che “la rogatoria a rigore
dovrebbe trovare applicazione nella sola fase istruttoria, come è desumibile dall’articolo 656 c.p.p. (abrogato) (39) e dall’articolo 3 della conven-
(37) Cfr. GALANTINI, Assunzione di prove penali all’estero: rogatorie e metodi alternativi, in Cass. Pen., 1981, pag. 611 e segg.
(38) Corte d’Appello Milano, 19 febbraio 1962, Gentilli.
(39) “Le rogatorie delle autorità giudiziarie italiane alle autorità estere per citazione od esame di testimoni e, in genere, per atti di istruzione o per esecuzione di provvedimenti di istruzione sono trasmesse...”.
316
zione Europea di assistenza giudiziaria (40), (41). Infatti negli articoli
indicati si faceva menzione soltanto degli “atti di istruzione”.
Tuttavia il problema dello spazio processuale concedibile alla
rogatoria veniva superato attraverso l’interpretazione estensiva offerta
dalla dottrina (42) e dalla giurisprudenza (43), che legittimava la sua
collocazione pure nalla fase dibattimentale ed in quella delle indagini
preliminari.
Si precisava, nelle sentenze richiamate, che presupposto della trasmissione di rogatorie ad autorità straniere ai sensi dell’art. 657 c.p.p.
(previgente) è la necessità di eseguire un atto processuale penale che non
sia possibile eseguire in Italia e che la locuzione atti d’istruzione dell’art.
657 c.p.p. indicava l’attività di acquisizione probatoria in genere, che
viene esplicata non soltanto nella fase di istruzione, ma anche in quella
dibattimentale (44). Ovviamente, il presupposto per l’espletamento
della rogatoria internazionale in dibattimento, veniva individuato nel
rispetto dei principi del contraddittorio, oralità, immediatezza, concentrazione che devono contraddistinguere il momento dibattimentale (45).
Tali dubbi, al di là del dato letterale, non hanno più ragione di esistere alla luce della nuova struttura del processo penale: esso ha introdotto una precisa distinzione tra la fase delle indagini preliminari,
svolte dal P.M. in modo organico e mirato per assumere le determina-
(40) “La parte richiesta farà eseguire... le rogatorie relative a un affare penale... che
hanno per oggetto atti istruzione...”.
(41) Cfr. GALANTINI, Assunzione di prove penali all’estero: rogatorie e metodi alternativi, in Cass. Pen., 1981, pag. 611 e segg.
(42) Cfr. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, Vol. I; 1967, pag. 200;
BRANCACCIO, Metodi di cooperazione e assistenza giudiziaria, in Diritto penale internazionale, C.S.M., 1979, pag. 99, GIANTURCO, Evoluzione, non rivoluzione nel campo
dell’assistenza giudiziaria internazionale in materia penale, in Riv. pol. 1968, pag. 284;
CANSACCHI, voce Assistenza giudiziaria internazionale, in Noviss. Digesto, vol. 1/2,
1958, pag. 1408; SANTORO, Manuale di diritto processuale penale, 1954, pag. 764; DEL
POZZO, voce Rogatorie, in Noviss. Digesto, vol. XVI, 1969, pag. 255.
(43) La giurisprudenza ammette l’esplicazione delle rogatorie in fase dibattimentale a condizione che si tenga conto dell’esigenza di immediatezza e concentrazione.
Cfr. Cass. Sez. VI, 7 ottobre 1970, Trizzino, Cass. sez. IV, 15 dicembre 1970, SOAVE; Cass.
Sez. I, 25 gennaio 1971, Caneba, Trib. Milano 26 aprile 1967; Trib. Roma 17 febbraio
1967.
(44) Cass. sez. VI, 24 aprile 1985, Ortolani. Tale sentenza afferma la utilizzabilità
della rogatoria nel giudizio direttissimo.
(45) Trib. Milano, sez. I penale, ordinanza 22 novembre 1966, sentenza 26 aprile
1967, ed altre.
317
zioni inerenti l’esercizio dell’azione penale, che si collocano in un
momento pre-processuale e prodromico, volte ad assicurare le fonti di
prova, e il momento processuale vero e proprio nell’ambito del quale
il dibattimento assume un ruolo centrale ed è il luogo dove si formano tendenzialmente le prove.
È, dunque, consentito il ricorso alla rogatoria internazionale:
1. nella fase delle indagini preliminari;
2. nella fase dibattimentale, poiché le rogatorie internazionali
sono disciplinate dalle norme convenzionali internazionali in vigore,
secondo le quali non esiste alcun divieto allo svolgimento nel corso del
dibattimento dello strumento di assistenza giudiziaria interstatuale
della rogatoria (46).
Ai fini della utilizzazione degli atti assunti attraverso rogatoria
internazionale, alcuna distinzione esiste in considerazione del diverso
momento procedimentale o processuale in cui essa è eseguita o in
base al soggetto processuale che ne fa richiesta: tutti gli atti assunti
per rogatoria andranno inseriti nel fascicolo del dibattimento ed utilizzabili, con i limiti di cui si dirà in seguito, dal giudice dibattimentale a fini decisori (art. 431 codice procedura penale).
3. L’oggetto della rogatoria.
L’art. 727 comma 1 codice procedura penale, così si esprime:
Art. 727 (Trasmissione di rogatorie ad autorità straniere) – 1. Le
rogatorie dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero dirette, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, alle autorità straniere per comunicazioni, notificazioni e per attività di acquisizione probatoria, sono
trasmesse al ministro di Grazia e Giustizia, il quale provvede all’inoltro
per via diplomatica.
Oggetto della domanda di assistenza giudiziaria rivolta allo Stato
estero sono:
a) comunicazioni;
b) notificazioni;
c) attività di acquisizione probatoria.
ovvero una gamma di atti funzionali alle esigenze del procedimento o del processo pendente presso lo Stato richiedente.
(46) Vedi Trib. Pen. Milano sez. II, ord. 28 febbraio 1991.
318
Come le rogatorie interne, anche le rogatorie internazionali hanno
essenzialmente per oggetto attività di nostra istruttoria, cioè protese a
ricercare gli elementi su cui fondare la decisione circa l’esercizio dell’azione penale o la decisione nel merito, o, comunque, di natura
meramente strumentale.
La dizione tecnica usata dal legislatore, sotto il profilo meramente formale, sembra riferirsi al complesso di attività esperibili esclusivamente nella fase propriamente processuale. In tale sede, infatti, si
assumono prove.
Tuttavia il dato letterale non è vincolante ed esso va interpretato
in senso estensivo e cioè come riferibile anche alla fase pre-processuale delle indagini preliminari, in considerazione delle osservazioni
svolte in relazione al tema della legittimazione attiva ad avanzare
richieste di rogatoria. Siffatta interpretazione rinviene l’avallo legislativo nell’articolo 431 lett. d) codice di procedura penale. Infatti, a
seguito della novella del 1992 (47), nel fascicolo per il dibattimento,
formato dal Giudice per la udienza preliminare e dunque in una fase
anteriore a quella propriamente processuale, sono raccolti anche i verbali degli atti assunti all’estero a seguito di rogatoria, senza distinzione alcuna tra verbali assunti all’estero a seguito di rogatoria formulata dal P.M. o dal Giudice. Dunque, gli atti assunti attraverso rogatoria
internazionale dal P.M. confluiranno nel fascicolo del dibattimento e
saranno utilizzabili, salvo i limiti appresso indicati, a fini decisori dal
giudice del dibattimento.
Sul punto, si evidenziano dubbi di legittimità costituzionale nella
parte in cui l’art. 431 c.p.p. non distingue tra atti assunti per rogatoria
ad iniziativa del P.M. ed in assenza di contraddittorio ed atti assunti
dal Giudice per le indagini preliminari e dal giudice del dibattimento
in contraddittorio delle parti. Il dubbio nasce dalla considerazione che
l’attività rogatoriale eseguita su richiesta del P.M., nella ipotesi in cui
abbia ad oggetto la audizione di persone informate sui fatti, avviene in
assenza di contraddittorio; tuttavia le dichiarazioni ivi assunte, in
virtù della previsione dell’articolo 431 c.p.p. saranno utilizzabili dal
giudice a fini decisori in sede dibattimentale senza aver garantito la
presenza del difensore dell’imputato. In tale fattispecie l’art. 431 c.p.p.
sarebbe in contrasto con l’art. 24 Costituzione che sancisce il principio
fondamentale del diritto alla difesa, in quanto consentirebbe di “fon-
(47) Art. 6 comma 4 L. 7 agosto 1992 n. 356.
319
dare la decisione” su di una prova assunta senza la garanzia della partecipazione del difensore dell’imputato.
Dubbi di costituzionalità concreti ed attuali alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 379 del
1995 (48).
È, comunque, indifferente – dal punto di vista dello Stato richiesto – la fase processuale in cui l’atto è destinato ad inserirsi; sarà l’autorità dello Stato procedente a verificare, secondo le proprie leggi,
l’ammissibilità di una richiesta di rogatoria in relazione alla fase del
processo (49) od al rito speciale (50) ovvero a ravvisare la necessità di
ottenere talune formalità aggiuntive, che talune convenzioni espressamente consentono (51).
Per lo Stato richiedente infatti gli istituti della cooperazione internazionale si presentano in pratica come un catalogo di ausili, ai quali
ricorrere in conformità delle esigenze del proprio sistema processuale, non meno che del caso singolo per cui si procede.
La rogatoria può avere ad oggetto anche:
a) citazione di testimoni e periti, residenti o dimoranti all’estero;
b) notificazione di atti;
c) trasmissione di corpi di reato.
Un tempo ricomprese genericamente fra le rogatorie, ed abitualmente contemplate nelle stesse fonti internazionali, hanno
ormai assunto una decisa autonomia le forme di assistenza giudiziaria nelle notificazioni e per la comparizione – dinanzi agli orga-
(48) La Corte Costituzionale con la sentenza n. 379 del 1995 ha risolto la questione
di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione relativa all’art. 2 L. 23 febbraio 1961 n. 215 nella parte in cui, dando esecuzione all’articolo 4 della Convenzione
Europea di Assistenza Giudiziaria in materia penale, “consente l’esperimento di rogatoria
all’estero, disposte in fase dibattimentale, anche senza la presenza del difensore dell’imputato”, consentendo di fondare la decisione del giudice su di una prova assunta senza la
garanzia della partecipazione del difensore e dunque in contrasto insanabile con il principio fondamentale del diritto di difesa sancito dall’art. 24 della Costituzione.
(49) Per l’ammissibilità della rogatoria internazionale in dibattimento, vedi articolo 513 comma 2 codice procedura penale.
(50) Per la compatibilità della rogatoria internazionale con il rito direttissimo,
quando questo costituisca il rito proprio per talune fattispecie criminose, v. Cass. 7
ottobre 1970.
(51) Per l’obbligo nei limiti degli artt. 304 e segg. c.p.p. 1930 di chiedere alla autorità straniera ex art. 4 Conv. europea, di consentire l’assistenza delle parti dei difensori alla rogatoria. V. Cass. 21 marzo 1973. Per il codice procedura penale attualmente
vigente, v. art. 398 e 502 eventualmente in applicazione analogica.
320
ni dello Stato del processo – di testimoni o periti che si trovino
all’estero (52).
Caratteristica della assistenza nella comparizione è la non coercibilità della comparizione stessa, e ciò – di norma – anche quando le
persone da sentire o porre a confronto si trovino detenute nello stato
richiesto (53).
In proposito bisogna dissipare un frequente equivoco: se nei casi
suddetti lo Stato assistente non impegna la propria capacità coercitiva,
coerentemente con la disuguaglianza fra i doveri che il residente ha verso
la giustizia del Sovrano territoriale o verso quella degli Stati esteri, al
contrario nulla esclude che, per il compimento di una rogatoria in senso
proprio, le autorità dello Stato assistente si valgano delle normali misure coercitive di cui legalmente dispongano per assicurare la comparizione innanzi a sé (54).
Contrariamente alla dottrina, le convenzioni internazionali sogliono assimilare alle rogatorie la richiesta di trasmissione di corpi di
reato, di documenti, di fascicoli processuali (55). La situazione è,
(52) CUCINOTTA, L’assistenza giudiziaria nei rapporti internazionali, Milano,
1935, 228 e segg., che già rilevava come l’assistenza giudiziaria rispetto ai testimoni si
potesse svolgere in due modi antitetici: raccogliendone le deposizioni ad opera dei giudici stranieri richiesti di rogatoria, o cooperando per farli cedere all’invito a presentarsi ai giudici del processo. Accanto a queste due prospettive oggi ci dolino a una terza:
di consentire che siano i giudici del processo ad andarli a sentire all’estero.
(53) La traduzione dei detenuti per testimonianza o confronto può essere subordinata al consenso del detenuto medesimo: vedi, ad esempio, art. 11 § 1 a Conv. Europea;
art. 19 ultimo comma Trattato 7 luglio 1930 con il Panama; art. 20 ultimo comma Trattato 23 agosto 1930 con il Venezuela. A questa regola fa eccezione l’art. 32 Convenzione
31 marzo 1939 con San Marino, nonché l’art. 16 Trattato del 1982 con gli U.S.A..
(54) In questo senso è esplicito il raffronto fra gli articoli 33 e 42 Convenzione 10
luglio 1970 con il Libano; 16 e 12 Convenzione 12 febbraio 1972 con il Marocco; 30 e
27 dell’abrogata convenzione 24 febbraio 1956 con Israele, spesso fraintesa al riguardo. Fa eccezione alla regola comune l’art. 31 comma 2 Convenzione 31 marzo 1939 con
San Marino (Roma 31 marzo 1939, resa esecutiva con L. 6 giugno 1939 n. 1320), nonché l’articolo 15 § 2 Trattato del 1982 con gli U.S.A..
(55) La dottrina accomuna la trasmissione di corpi di reato piuttosto alla notificazione di atti ed alla citazione di testi e periti. Cfr. BELLERGOTTI, Nozioni elementari di diritto penale internazionale e delle procedure ad esso attinenti, Pontremoli, 1889;
CORDOVA, op. cit., CUCINOTTA, op. cit. Opposta invece la tradizione diplomatica: cfr.
art. 2 Convenzione con l’Argentina, Roma 1° agosto 1987; art. 29 Trattato con la Bolivia, Lima 18 ottobre 1890; art. 17 Trattato con il Panama, 7 agosto 1930, art. 17 Trattato con il Venezuela, Caracas 23 agosto 1930; art. 3 § 1 e 3 Convenzione europea di
assistenza giudiziaria penale; art. 4 § II Convenzione con la Spagna, Madrid 22 maggio
1972 parzialmente abrogata.
321
infatti, analoga a quella di una assistenza mediante rogatoria: la differenza sta nel fatto che lo stato richiesto ha già compiuto per suo conto
l’attività istruttoria, mentre lo Stato assistito chiede di poter usufruire
dei risultati raggiunti (sul punto vedi diffusamente paragrafo “finalità
della rogatoria”).
Indipendentemente, comunque, dalla indicazione di attività
rispetto alle quali possono essere attivati i meccanismi di cooperazione internazionale, occorre notare che, parallelamente, è necessario
che “l’autorità richiesta in concreto disponga dei poteri e degli strumenti per evadere la domanda di assistenza e che gli atti richiesti siano giuridicamente possibili, ossia rientrino fra quelli per i quali l’autorità estera è competente secondo il suo ordinamento (56).
Anche nelle rogatorie internazionali deve essere riconosciuta
all’autorità richiesta l’autonomia di iniziativa eventualmente conferitale dalle leggi del proprio Stato, “tanto più che ogni idea di delega è
estranea ad un atto che si compie fra due sovranità (57): gli organi giudiziari dello Stato che offre la propria cooperazione non sono né
obbligati, né limitati nel compimento della rogatoria che dalla propria
legge, vuoi comune, vuoi di esecuzione delle convenzioni internazionali, e, quindi, come sono liberi di limitare o negare la rogatoria su
determinati presupposti, possono anche estenderla a tutto ciò che
ritengano utile ai fini di giustizia.
Sulla base di quanto affermato, è inammissibile la richiesta di
espletamento di atti processuali che incidono sulla libertà personale
dell’indagato o dell’imputato, essendo questi ultimi di pertinenza di
un procedimento di estradizione. La rogatoria internazionale non
può, dunque, avere per oggetto la cattura dell’imputato/indagato,
essendo la stessa ricompresa nel diverso e specifico istituto della
estradizione. Nell’ambito di quest’ultima si collocano le cosiddette
rogatorie improprie (58) che consistono in atti probatori dello Stato
richiedente l’estradizione, destinati ad inserirsi nel procedimento d’estradizione in corso nello Stato richiesto, e si risolvono, quindi, in atti
(56) CASSANO M., op. cit., pag. 237.
(57) LASZLOCZKY P., voce Rogatoria, in Enc. Dir., vol. XLI, pag. 121; ROUX,
L’entraide des Etats dans le lutte contre la criminalité, in Recueil des Cours de l’Academie
de droit international de La Haye, 1931, II, 120; DE MARSICO, Diritto processuale penale, Napoli, 1966, 14.
(58) CORDOVA, Rogatorie penali internazionali, in Digesto italiano, XX, pt. II,
1913-1918, 1633.
322
nazionali destinati a sostenere una propria domanda di assistenza
giudiziaria (59).
Limiti interni.
Lo Stato che presta assistenza, come nell’affidare il teste allo
Stato assistito si cautela con la immunità temporanea, così prima di
affidargli i risultati del proprio potere istruttorio, si cautela sottoponendo la rogatoria ad un duplice exequatur, di opportunità politica e
di ammissibilità giuridica, il primo a tutela prevalentemente degli
interessi dello Stato, il secondo prevalentemente a garanzia dei diritti individuali che l’ordinamento tutela (60). Quando sono ammessi
rapporti diretti tra Autorità giudiziarie richiedente e richiesta, l’exequatur politico può essere implicito o ritenersi concesso in via generale (61).
Limiti internazionali.
Gli Stati, sul piano internazionale, concordano i limiti da porre
alla reciproca assistenza giudiziaria. Questa, infatti, “fa condividere in
qualche modo la soluzione del procedimento penale” (62), mentre vi
sono settori nei quali – per un’eventuale divergenza dei valori fra ordinamento assistito e assistente – la giustizia del primo può al secondo
apparire ingiusta.
La cautela degli Stati al riguardo concerne principalmente i settori dove la sanzione criminale appare protesa non tanto alla tutela della
pace fra i singoli, quanto alla repressione della disobbedienza al
(59) Alle rogatorie improprie fanno espresso riferimento – in relazione al loro
valore probatorio – talune convenzioni di estradizione con Paesi anglosassoni.
(60) Nell’ordinamento italiano la valutazione giuridica è affidata alla Corte di
Appello competente per territorio (art. 724 c.p.p.). L’exequatur giurisdizionale viene
concesso con ordinanza. L’exequatur politico non assume invece necessariamente
forme tipiche, tanto più che normalmente la trasmissione della richiesta di rogatoria o
la ritrasmissione dell’atto istruttorio compiuto avviene per canali diplomatici o comunque intergovernativi.
(61) Vedi LASZLOCZKY, op. cit., pag. 123; CORDOVA, op. cit., pag. 1640.
(62) BELLERGOTTI, op. cit., 145.
323
“sovrano”: L’assistenza giudiziaria è, pertanto, abitualmente esclusa
per i reati politici, fiscali e militari (63).
All’oggetto delle richieste di assistenza giudiziaria internazionali
in materia penale ineriscono limiti intrinseci, con riguardo alla tipologia delle attività rispetto alle quali si richiede assistenza, e limiti estrinseci, in rapporto ai reali poteri che abbia al riguardo l’autorità straniera.
Sul piano dei c.d. limiti intrinseci si colloca l’interrogatorio di persona imputata o indagata, anche in procedimento connesso.
I problemi nascono dalla particolare natura rivestita dall’interrogatorio: l’interrogatorio ha natura di atto composito, potendo comprendere anche la contestazione dell’accusa non fatta in precedenza e
non rivestendo, sotto questo profilo, natura di attività di acquisizione
probatoria.
Da qui l’affermazione della dottrina e della giurisprudenza che la
rogatoria internazionale “non può avere ad oggetto la formulazione
del capo di imputazione, ed anzi neppure la sua contestazione; la contestazione dell’accusa è atto di sovranità e, se, lo stato assistente la
contestasse, dovrebbe procedere esso stesso (64).
Tuttavia sul piano del diritto convenzionale, l’espressione atti
istruttori, usata nell’articolo 3 comma 1° Convenzione Europea di assistenza giudiziaria in materia penale per indicare il possibile oggetto
della rogatoria, ha per referente anche l’audizione di imputati, secondo quanto specificato nel rapporto esplicativo sulla convenzione
medesima.
In realtà, alla luce della natura complessa dell’atto, volto ad assolvere ad un tempo sia funzioni difensive che funzioni investigative,
(63) Non sempre fra alleati si coopera nella giustizia militare (art. VII § 6 lett. a
Convenzione tra gli Stati partecipanti al Trattato Nord Atlantico sullo statuto delle
forze armate, Londra 19 giugno 1951 resa esecutiva con L. 30 novembre 1955 n. 1335);
v’è una tendenza a consentire qualche assistenza in campo fiscale (ad esempio con
l’Austria: art. II § 1 accordo 20 febbraio 1973. Nella stessa prospettiva il tit. I del Protocollo 17 marzo 1978, addizionale alla C.E.A.G. Il Trattato del 1982 con gli U.S.A. non
prevede alcuna esclusione della cooperazione per i reati fiscali.
(64) ALOISI, Manuale pratico di procedura penale, Milano, 1943, 294; DEL
POZZO, La collaborazione internazionale della Giustizia, in Giust. Penale 1953, I, 41;
LOMBOIS, Droit pénal international, Paris, 1971, 553; LASZLOCZKY, op. cit., pag. 121
e La cooperazione internazionale negli atti di istruzione penale, Padova, 1980, pp. 95 e
110; GALANTINI, Assunzione di prove penali all’estero, rogatorie e metodi alternativi, in
Cass. pen. 1981, 611 e segg.: Cass. sez. I 25 gennaio 1971, Caneba.
324
anche l’interrogatorio può costituire oggetto di rogatoria internazionale, tanto più alla luce del disposto di cui all’articolo 65 codice procedura penale.
È dunque ammissibile l’assunzione per rogatoria dell’interrogatorio dell’imputato/indagato limitatamente ai momenti di autodifesa o
genericamente probatori dell’istituto.
La questione si pone in termini diversi a seconda che l’interrogatorio sia richiesto come forma di cooperazione internazionale, contemporaneamente ad una procedura di estradizione, e che quest’ultima abbia avuto esito positivo.
Se la domanda di assistenza giudiziaria internazionale, avente ad
oggetto l’interrogatorio dell’indagato o dell’imputato, è stata inoltrata
indipendentemente da una procedura di estradizione, alla contestazione dell’accusa soccorrerebbe, per l’ordinamento italiano, un invito
a comparire o uno dei provvedimenti limitativi della libertà personale
previsti dagli articoli 281 e segg. codice procedura penale, notificati
rispettivamente nelle forme e nei modi di cui agli articoli 169, 159, 160
e 296 codice procedura penale.
Se, al contrario, l’interrogatorio è stato richiesto in pendenza
della procedura di estradizione, i fatti oggetto dell’accusa sono stati
già resi noti all’indagato e l’interrogatorio assolve non solo alle funzioni di cui sopra, ma anche a quelle di cui all’articolo 294 codice procedura penale.
Quanto ai limiti estrinseci, dalle varie convenzioni internazionali
sono enucleabili ulteriori prescrizioni relative all’oggetto della rogatoria, le quali possono definirsi “condizioni internazionali di ammissibilità della rogatoria”. Nelle fonti convenzionali si riscontra una eterogeneità di soluzioni, registrando la tendenza ad estendere alla cooperazione limiti e principi, sorti nel settore della estradizione.
Alcune convenzioni riconoscono allo Stato richiesto di negare la
propria assistenza in relazione al compimento di attività di acquisizione probatoria relativa a reati politici, militari o fiscali, la cui esecuzione può essere pregiudizievole per la sovranità, la sicurezza, l’ordine pubblico o altri interessi essenziali dello Stato richiesto (65).
Sulla base di siffatta clausola di chiusura, mediante dichiarazioni e
riserve, è stata unilateralmente introdotta la tutela di aspetti non
considerati nei testi convenzionalli, come il principio del ne bis in
(65) Cfr. art. 2 n. 2 Convenzione Europea Assistenza Giudiziaria in materia penale.
325
idem (66), il mantenimento di alcuni segreti (67), l’applicazione del
principio di specialità anche – tipico dell’estradizione – con la conseguenza di vincolare la utilizzazione dei risultati delle rogatorie al
solo processo in corso ed ai soli fatti già contestati in esso (68). Tale
ultimo principio, quale si ricollega l’art. 729 c.p.p., destinato a vincolare l’autorità giudiziaria italiana al rispetto delle condizioni poste
dalle competenti autorità straniere, può parere già presente nell’onere, previsto da varie convenzioni, che l’autorità richiedente corredi la propria richiesta con una esposizione sommaria del fatto (69).
Altre convenzioni riconoscono all’autorità richiesta una certa
discrezionalità nel consentire, in relazione a specifiche fattispecie, la
reciproca assistenza giudiziaria.
Altre ancora richiedono la doppia incriminabilità (70) del fatto per
cui si procede o condizionano la eseguibilità all’attinenza con reati per
cui si concede l’estradizione (71) oppure la applicabilità del principio
di reciprocità (72). All’uopo, per quanto concerne gli atti di coercizio-
(66) A salvaguardia di tale principio si sono riservati di rifiutare l’assistenza giudiziaria i Paesi scandinavi, quelli del Benelux e la Svizzera.
(67) L’Austria, con riserva alla C.E.A.G. ha precisato di ritenere incluso fra i suoi
interessi essenziali “il mantenimento dei segreti previsti dalla propria legislazione”.
(68) Tale principio è particolarmente sostenuto dalla Svizzera, che si riserva di
subordinarvi l’assistenza giudiziaria caso per caso. Nella giurisprudenza italiana una
disponibilità ad impegnarsi preventivamente nel senso previsto da tale riserva svizzera
è stata manifestata dalla Corte Costituzionale in occasione del processo Lockeed (vedi
lettera 20 gennaio 1978 del Presidente della Corte al Ministro di Grazia e Giustizia, in
Processo Lockeed, Giur. cost. 1979, n. 10, suppl., 82).
(69) Art. 14 § 2 C.E.A.G.; art. 25 § 2 Convenzione con la Romania 11 novembre
1972.
(70) Cfr. art. 5 lett. a) Convenzione Europea Assistenza Giudiziaria in materia
penale: “Il reato che motiva la rogatoria deve essere punibile secondo la legge della parte
richiedente e della parte richiesta”; CANSACCHI, voce Assistenza giudiziaria internazionale, in Noviss. Dig. It., vol. I, App. 1980, pag. 527.
(71) Cfr. art. 5 lett. b) Convenzione Europea Assistenza Giudiziaria in materia
penale.
(72) La considerazione della preponderante disciplina del momento passivo della
rogatoria (exequatur sul piano interno e limiti convenzionali sul piano internazionale)
si impone indirettamente anche nel momento attivo della rogatoria: non solo nella previsione della sorte che potrà incontrare la propria richiesta, ma anche nella riflessione
sull’assistenza che, in un caso reciproco, non potrebbe essere accordata. “La vita internazionale è, infatti, dominata dal principio di reciprocità (cfr. art. 723 comma 4 c.p.p.) ed
ogni assistenza richiesta, concessa o negata – in via interpretativa o negli spazi discrezionali ai sensi delle convenzioni – diviene misura nella reciproca assistenza futura”. In proposito LASZLOCZKY, op. cit., pag. 128. Cfr. altresì § 3 n. 2 legge federale austriaca 4
326
ne reale, si fa coincidere l’ambito della assistenza giudiziaria con quello di estradizione.
Allorché la attività di indagine rogatoriale comporti richieste di
provvedimenti più “delicati” (documenti bancari) o più “penetranti”
(perquisizioni, sequestri, intercettazioni), l’azione dell’Autorità estera
è (nella media europea e specialmente anglosassone) estremamente
cauta e diffidente, anche per ragioni storiche e culturali che non prevedono il facile ricorso a tali strumenti pur sempre lesivi della “privacy” e in genere della libertà personale o imprenditoriale-economica.
La stessa C.E.A.G. sottopone, infatti, questo tipo di richieste e
requisiti (73) a possibilità di limiti che sostanzialmente sono pari a
quelli delle richieste di estradizione, in deroga alle forme “più libere”
generali previste dall’articolo 14 della stessa convenzione, infatti l’articolo 5 C.E.A.G. consente a ciascuna parte contraente di riservarsi la
facoltà di sottoporre le esecuzioni delle rogatorie, aventi per oggetto
perquisizioni e sequestri di cose, alle condizioni della doppia punibilità, estradabilità, compatibilità dell’atto istruttorio con la legge dello
stato richiesto e prevede, inoltre, la possibilità di applicare, qualora
venga apposta riserva, il principio di reciprocità.
È quindi opportuno che determinati atti più incisivi siano eventualmente rinviati al momento più avanzato e magari al momento in
cui, poco prima della richiesta di rinvio a giudizio o in prossimità di
essa, si effettuino le richieste di estradizione o anche di arresto provvisorio a fini estradizionali. In tali casi la serietà della richiesta di assi-
dicembre 1979 sulla estradizione e assistenza giudiziaria in materia penale; art. 30 n. 1
legge federale svizzera 20 marzo 1981 sull’assistenza internazionale in materia penale;
nonché, con una diversa angolatura. § 76 legge federale tedesca 23 dicembre 1982 sull’assistenza giudiziaria internazionale in materia penale.
(73) Vedi art. 5. C.E.A.G., che così si esprime: “1. Ciascuna parte contraente potrà,
al momento della firma della presente Convenzione o del deposito del proprio strumento
di ratifica o d’adesione, con dichiarazione diretta al Segretario Generale del Consiglio
d’Europa, riservarsi la facoltà di sottoporre l’esecuzione delle rogatorie aventi per scopo
perquisizioni o sequestri di cose ad una o più delle seguenti condizioni:
a) il reato che motiva la rogatoria deve essere punibile secondo la legge sia della parte
richiedente che della parte richiesta
b) il reato che motiva la rogatoria deve essere suscettibile di dar luogo all’estradizione nel paese richiesto
c) l’esecuzione della rogatoria deve essere compatibile con la legge della parte richiesta.
2. Qualora una parte contraente abbia fatto una dichiarazione ai sensi del paragrafo
1 del presente articolo, ogni altra parte potrà applicare il principio di reciprocità.
327
stenza giudiziaria trova conforto nella parallela pratica di estradizione e la consegna dei documenti rinvenuti sulla persona o nel domicilio, ovvero gli ascolti telefonici ai medesimi fini, in sede di estradizione non è – per lo più – sottoposta a tutto quel rigido regime di possibilità di ricorso ed opposizione per ogni singolo documento che invece è inevitabilmente previsto se si ricorre alla sola via dell’assistenza
giudiziaria.
Limitazioni risultano da specifiche riserve o convenzioni multilaterali apposte da uno Stato, come già detto. Ad esempio la Svizzera,
nel prestare assistenza, normalmente impone che le prove ottenute
mediante la sua collaborazione non vengano utilizzate, senza il suo
apposito consenso, in procedimenti diversi da quelli per i quali è stata
prestata la sua assistenza (vedi sopra). Gli Stati Uniti d’America hanno
più volte posto la medesima condizione.
La nuova disciplina processuale, comunque, non recepisce queste
prospettazioni e non prevede limiti di carattere generale di ammissibilità delle rogatorie attive. Non è previsto il limite della doppia incriminabilità del fatto per il quale si procede; della contemporanea pendenza di una procedura di estradizione e non limita la collaborazione
solo in rapporto alle estradabilità del reato che ha dato origine alla
rogatoria stessa.
Le rogatorie sono ammissibili sia per i delitti che per le contravvenzioni e, in prospettiva, anche per gli illeciti depenalizzati, limitatamente alla fase di impugnazione dinanzi alla autorità giudiziaria
penale.
4. Finalità della rogatoria.
Presupposto della trasmissione di rogatorie ad autorità straniere è
la necessità di eseguire un atto processuale penale che non sia possibile eseguire in Italia e non già di acquisire gli atti di un procedimento
celebrato all’estero (74).
Come già in precedenza osservato (75), le convenzioni internazionali sogliono, tuttavia, assimilare alle rogatorie vere e proprie la
richiesta di documenti già nella disponibilità della Autorità Giudizia-
(74) Cass. 24 marzo 1983, Nuvoletta.
(75) Vedi Cap. 2°, Sez. III, n. 3 della presente trattazione.
328
ria estera e/o di fascicoli processuali relativi a procedimenti/processi
svoltisi in territorio estero.
La situazione è, infatti, analoga a quella di una assistenza mediante rogatoria: la differenza sta nel fatto che lo Stato richiesto ha già
compiuto per suo conto l’attività istruttoria, mentre lo Stato assistito
chiede di poter usufruire dei risultati raggiunti utilizzandoli in procedimenti/processi penali pendenti in Italia.
La Corte di Cassazione, sotto la vigenza del codice di rito abrogato, ha affermato che l’acquisizione di atti di un procedimento penale
celebrato all’estero contro un cittadino italiano e la loro utilizzazione
in altri procedimenti penali in Italia, avviene nel quadro della collaborazione ed assistenza giudiziaria reciproca tra gli Stati, il cui principio, recepito dalla Convenzione Europea di Assistenza Giudiziaria in
materia penale ed accolto costantemente in analoghe convenzioni, ha
valore di norma consuetudinaria di diritto internazionale (76).
Il legislatore del 1988 non ha disciplinato nell’ambito dei rapporti
internazionali aventi natura giurisdizionale anche la attività di acquisizione di documenti e/o fascicoli processuali oggetto di una attività
processuale svolta per suo conto dall’Autorità Giudiziaria estera e
dunque indipendentemente da una specifica richiesta da parte di altra
Autorità Giudiziaria.
Il legislatore, correttamente, ha disciplinato tale fenomeno processuale nell’ambito di mezzi di prova e specificamente della prova
documentale (mezzi di prova: libro 3° Titolo II Capitolo VII) e precisamente nella fattispecie dell’acquisizione degli atti di altro procedimento penale celebratosi all’estero nei confronti di cittadino italiano o
straniero (art. 78 disp. att.).
Il legislatore, non giurisdizionalizzando siffatta attività acquisitiva, ha distinto poi tra atti compiuti dall’autorità giudiziaria straniera
e atti compiuti dalla polizia straniera.
Ai fini della acquisizione ed utilizzazione, nel processo che si celebra o si celebrerà in Italia, di atti di altro procedimento penale compiuti da Autorità Giudiziaria straniera o dalla Polizia straniera, troveranno applicazione le norme di cui all’articolo 238 codice di rito e non
anche le norme contenute nel libro XI.
L’articolo 78 comma 1° disp. att., infatti, prevede che la acquisizione di atti di un procedimento penale compiuti da autorità giudizia-
(76) Vedi Cass. sez. I, 9 luglio 1919, Nuvoletta.
329
ria straniera deve avvenire a norma dell’articolo 238 codice procedura
penale.
Per quanto concerne gli atti compiuti dalla polizia straniera, occorre distignuere a seconda che si tratti di atti non ripetibili o ripetibili.
a) Se gli atti non sono ripetibili, essi potranno essere acquisiti nel
fascicolo del dibattimento e dunque utilizzabili a fini decisori solo se
le parti vi consentono oppure in assenza di consenso, dopo l’esame
testimoniale dell’ufficiale di P.G. che ne è l’autore, da compiersi o
mediante citazione dinanzi al giudice italiano oppure mediante rogatoria all’estero in contraddittorio (art. 78 comma disp. att.).
Se gli atti sono ripetibili, occorre distinguere tra prove orali o
prove documentali. Per le prove documentali, troveranno applicazione gli artt. 234 e segg. c.p.p.. Per le prove orali, dovranno essere citati
in dibattimento le persone sentite dall’ufficiale di P.G. straniero per
essere esaminati dinanzi ad un giudice terzo in contraddittorio, eventualmente anche mediante rogatoria internazionale.
Dalla lettura dell’art. 78 disp. att. emerge letteralmente che il legislatore non ha sottoposto alla disciplina della rogatoria internazionale la acquisizione di atti di altro procedimento penale svoltosi all’estero: si potrà ricorrere allo strumento di collaborazione interstatuale
solo in un momento successivo alla acquisizione di tali atti da parte
del P.M. o alla conoscenza della esistenza di tali atti all’estero. Il ricorso alla rogatoria peraltro è meramente eventuale.
Certamente, come ha argomentato la Corte di Cassazione sopra
citata, la acquisizione a fini procedimentali o a fini prodromici e la
loro utilizzazione processuale deve avvenire nel quadro della collaborazione ed assistenza giudiziaria reciproca tra gli Stati, il cui principio, recepito dalla Convenzione Europea di Assistenza Giudiziaria in
materia penale ed accolto costantemente in analoghe convenzioni, ha
valore di norma consuetudinaria di diritto internazionale (77).
Tuttavi la acquisizione da parte del P.M. di altro procedimento
penale svoltosi all’estero, con le forme della rogatoria internazionale,
non attribuisce agli atti suindicati dignità di prova, cioè di atti processuali utilizzabili a fini decisori.
Tali atti acquisiti dal P.M. conserveranno una valenza endoprocedimentale e non processuale: infatti essi non andranno sic et simpliciter acquisiti nel fascicolo del dibattimento ai sensi dell’articolo 431
(77) Vedi Cass. sez. I, 9 luglio 1919, Nuvoletta.
330
lett. d) c.p.p., come invece accade per gli atti istruttori assunti con le
forme e garanzia e della rogatoria internazionale dallo Stato estero su
richiesta dello Stato assistito, anche se compiuti ad iniziativa del P.M.
nella fase delle indagini preliminari.
Concludendo, le modalità di acquisizione della documentazione di
atti compiuti da Autorità giudiziaria straniera o dalla polizia straniera
indipendentemente da una richiesta di altra Autorità giudiziaria nelle
forme e con i contenuti della rogatoria internazionale può avvenire
legittimamente anche con forme diverse dalla rogatoria (ad esempio per
via diretta) e la loro utilizzazione in giudizio quale prova passa necessariamente attraverso il meccanismo di acquisizione che è proprio dei
mezzi di prova documentali e ciò nella sede dibattimentale in contradditorio delle parti (in tema di acquisizione di atti di altri procedimenti
penali, le prescrizioni di cui all’art. 238 sono applicabili solo in sede
dibattimentale). Mentre la utilizzabilità in dibattimento dei risultati
della rogatoria vera e propria avviene direttamente, per il sol fatto che
gli atti istruttori sono stati compiuti con il mezzo della rogatoria, anche
se espletata su richiesta del P.M. nella fase delle indagini preliminari.
Infatti, qualora il P.M. abbia provveduto ad acquisire tali atti,
direttamente o con le forme della rogatoria, gli atti acquisiti conserveranno soltanto una valenza endoprocedimentale, utilizzabili solo, se
non con contrasto con i principi di ordine pubblico del nostro ordinamento, ai fini della richiesta di misura cautelare coercitiva (78), a differenza di quanto accade nella ipotesi di atti compiuti all’estero su
richiesta dell’autorità italiana.
Atteso il meccanismo di acquisizione in dibattimento degli atti di
altro procedimento penale estero, le parti dovranno necessariamente
fare richiesta al Presidente del Collegio giudicante di autorizzazione
alla acquisizione degli atti siffatti, giusto l’articolo 468 comma 4-bis
codice procedura penale.
Ovviamente, trattandosi di atti eseguiti da autorità straniera in
territorio straniero ove non trova applicazione il diritto italiano, la
validità di siffatti atti andrà valutata secondo i criteri dettati dalle
norme processuali vigenti nello Stato in cui gli atti vengano assunti,
salvo che queste si pongano in contrasto con i diritti fondamentali
della persona e non assicurino il diritto di difesa dell’imputato (79).
(78) Cass. 25 giugno 1990, Ferrante.
(79) Cass. 20 maggio 1993, Nicosia.
331
Il meccanismo di acquisizione sopra evidenziato nel procedimento penale italiano da parte del Pubblico Ministero di atti di
altro procedimento penale celebrato o pendente all’estero, fornisce la occasione di sperimentare il ricorso ad una procedura, del
tutto legittima e che ha condotto a risultati positivi, che consente
o può consentire la acquisizione in breve tempo di documentazione soprattutto nel settore bancario, evitando tutti i possibili ricorsi esperibili nell’ambito dell’ordinamento giuridico dello Stato
richiesto che allungano i tempi della consegna della documentazione citata.
Nell’esperienza concreta, nell’ambito di commissioni rogatorie
internazionali con la Svizzera aventi ad oggetto la acquisizione di
documentazione bancaria riferita a pubblici ufficiali ed imprenditori italiani aventi conti correnti in territorio elvetico, la Autorità
Giudiziaria elvetica, sulla base della commissione rogatoria formulata dalla Autorità Giudiziaria italiana, ha aperto un procedimento penale interno in ordine al reato di riciclaggio nei confronti di persone ignote. In relazione a siffatto procedimento penale ha
proceduto ad acquisire la documentazione bancaria comprovante
il rapporto di corruttela tra pubblico ufficiale corrotto e privato
corruttore. Una volta acquisita la documentazione bancaria, non
soggetta ai ricorsi consentiti nella ipotesi di acquisizione mediante rogatoria internazionale, l’Autorità Giudiziaria elevetica ha formulato autonoma richiesta di assistenza giudiziaria alla Autorità
Giudiziaria Italiana trasmettendo con la richiesta anche la documentazione acquisita. Copia di siffatta documentazione è acquisibile ai sensi dell’art. 78 disp. att. dal P.M. italiano interessato alla
documentazione. Certamente tale documentazione non sarà
acquisibile nel fascicolo del dibattimento per le ragioni sopra illustrate, ma potrà essere utilizzata in via endoprocedimentale a molteplici fini:
– fornisce elementi precisi di conoscenza al P.M. il quale, sulla
base delle conoscenze acquisite, potrà formulare nuova e precisa commissione rogatoria internazionale mediante precisa indicazione della
autorità giudiziaria competente e mediante precisa e puntuale indicazione dei documenti da acquisire
– potrà essere utilizzata ai fini dei gravi indizi per formulare al
G.I.P. richiesta di applicazione di misura cautelare
– potrà essere utilizzata per le contestazioni nel corso dell’interrogatorio del corrotto o corruttore.
332
5. Forma e contenuto della domanda di assistenza giudiziaria.
Le domande di assistenza giudiziaria internazionale in materia
penale devono sottostare alle seguenti condizioni e contenere le
seguenti indicazioni (trattasi di schema pratico in grado di far fronte
alle maggiori e comuni ipotesi di assistenza giudiziaria):
1. Base legale
– Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959 / Altro accordo contenente delle disposizioni sull’assistenza giudiziaria; o
– Trattato bilaterale; o
– Dichiarazione / Accordo di reciprocità
2. Autorità richiesta:
– Vedi “vie di trasmissione” (punto 13). In ogni caso la domanda
di assistenza va inviata, per il conseguente inoltro, al Ministero di Grazia e Giustizia Direzione Generale Affari Penali Ufficio II.
3. Autorità richiedente:
– Indicare l’autorità incaricata dell’inchiesta o del perseguimento
penale; e
– indicare l’organo/l’autorità giudiziaria penale competente da cui
emana la domanda
4. Oggetto della richiesta:
– Inchiesta o procedura penale avviata dinanzi ad una autorità
giudiziaria (oggetto della procedura estera); o
– inchiesta preliminare di una autorità giudiziaria incaricata dell’istruzione delle infrazioni, nella misura in cui sia possibile adire il
giudice penale nel corso della procedura estera; e
5. Persone contro le quali è diretto il procedimento penale:
– Indicare nel modo più preciso possibile i dati della/e persona/e
contro cui è diretto il procedimento penale (cognome, nome, nazionalità, data e luogo di nascita, professione, indirizzo, ecc.) oppure
333
altre indicazioni che possono contribuire alla identificazione di tale
persona.
6. Esposizione dei fatti e qualificazione giuridica della infrazione nello
stato richiedente e riproduzione delle prescrizioni legali colà applicabili:
– Descrivere i fatti essenziali, anche brevemente purché in forma
semplice e chiara, indicando il luogo, la data ed il modo in cui è stato
commesso il reato. Nel caso in cui lo stato di fatto sia complesso e
complicato, è necessario allegare un riassunto dei fatti principali l’esposto dei fatti può essere contenuto nella domanda stessa oppure
negli allegati. Ha la funzione di permettere alla autorità richiesta di
decidere se ed in quale misura doversi dar seguito alla domanda di
assistenza; e
– indicare la qualificazione giuridica dei fatti. È opportuno formulare il capo di imputazione, soprattutto nelle ipotesi in cui si fa richiesta di procedere ad interrogatorio della persona indagata/imputata. In
tale ipotesi la formulazione del capo di imputazione equivale all’invito a presentarsi per essere sottoposto ad interrogatorio e soddisfa il
requisito della formulazione dell’accusa da parte dello Stato assistito.
– se possibile, indicare anche la qualificazione giuridica secondo il
diritto dello Stato richiesto del reato commesso all’estero. Tale indicazione è utile nelle ipotesi in cui siano state espresse riserve di “doppia
incriminabilità del fatto”. È essenziale nelle ipotesi di richiesta di attività bancaria, perquisizioni e sequestri. Ciò, ovviamente, comporta
una conoscenza minima delle norme di diritto penale sostanziale estere, che può in ogni caso ottenersi mediante contatto diretto informale
con lo Stato richiesto o mediante la acquisizione dei testi ai sensi dell’articolo 205 disp. att..
7. Oggetto e motivo della domanda:
– Dimostrare la relazione della procedura estera con le misure
richieste. Richiedere alla Autorità giudiziaria estera di voler cortesemente compiere specifiche indagini e/o attività, strettamente funzionali a quanto esposto nell’antefatto.
– indicare in modo preciso le prove ricercate e le azioni richieste
(es.: blocco del conto X presso la banca Y; confisca dei documenti;
consegna dei documento XY; interrogatorio del testimone Z; interrogatorio dell’imputato X; ecc.)
334
– nel caso di interrogatori di persone, redigere un questionario
delle domande da porre nelle forme di un vero e proprio capitolato;
– nel caso di interrogatori di persone indagate/imputate, indicare
il nome dei difensori di fiducia o di ufficio e chiedere la loro presenza
alla esecuzione dell’atto ai sensi dell’articolo 4 C.E.A.G.;
– quando sono stati proposti la perquisizione di persone e di luoghi, confisca e consegna, è opportuno allegare un attestato dal quale
risulti che siffatte misure sono ammesse nel paese richiedente. In
genere le autorità richiedenti non formulano anche una dichiarazione
speciale sull’ammissibilità del provvedimento richiesto ma allegano
decreti di perquisizione e sequestro. Tali decreti non hanno validità
nel paese estero ma sono ritenuti equipollenti alla attestazione di cui
sopra. Siffatta attestazione può essere superflua allorché dal contenuto della domanda risulti che i provvedimenti coercitivi reali sono
ammissibili nel paese assistito (ad es. con rinvii a perquisizioni alle
quali colà si procede contemporaneamente);
– se si ritiene che la richiesta di assistenza giudiziaria sia particolarmente difficile e delicata da adempiere (come nel caso di accertamenti o sequestri presso banche o accertamenti finanziari o intercettazioni telefoniche), allegare in copia gli atti italiani su cui si basa
la commissione rogatoria (es. documenti, verbali, fotografie, trascrizioni).
8. Compimento di atti di indagini non richieste nella domanda di rogatoria:
– chiedere l’immediato compimento di tutti quegli atti che risultassero urgenti e necessari sulla base delle risultanze emergenti in
corso di rogatoria. Ciò; come è del tutto evidente, se accolto (cosa non
sempre facile) dall’Autorità Giudiziaria procedente, consentirà alla
Autorità richiesta di evitare una ulteriore nuova pratica rogatoriale o
quantomeno di instaurarla immediatamente come “seguito” naturale
della richiesta iniziale.
9. Immediata consegna in copia degli atti con successivo invio degli originali per la via diplomatica:
– chiedere alla Autorità giudiziaria assistente la consegna immediata degli atti compiuti, in copia o in copia conforme all’originale o anche
335
in originale, con successivo invio per la via diplomatica. La richiesta
immediata è opportuno chiederla sempre allorché l’Autorità giudiziaria
italiana sia stata autorizzata a partecipare all’espletamento degli atti.
10. Applicazione del diritto di procedura estero durante l’esecuzione:
Trattasi di una evenienza solo eccezionalmente consentita. In tale
ipotesi:
– indicare la ragione per la quale è necessario applicare la disposizione estera in occasione della esecuzione della richiesta; e
– produrre la disposizione in questione.
11. Riserva di “specialità” e di “reciprocità”:
Nella ipotesi in cui lo Stato richiesto abbia formulato riserva di
specialità o di reciprocità, specificare nella domanda:
– il rispetto del principio di specialità, assicurando che i documenti trasmessi e le informazioni ivi contenute ed ogni risultato della
rogatoria saranno utilizzate per le indagini o quali mezzi di prova, soltanto nell’interesse del procedimento penale per i fatti in merito ai
quali è ammessa l’assistenza giudiziaria e vertente su un reato di diritto comune e comunque nei limiti che la parte richiesta avrà indicato
o vorrà eventualmente indicare ai sensi delle convenzioni internazionali, con esclusione di ogni utilizzazione diretta o indiretta di tali
documenti ed informazioni nell’ambito di una procedura fiscale a
carattere penale o amministrativo;
– chiedere l’espresso consenso per altre utilizzazioni dei risultati
della rogatoria;
– assicurare il rispetto del principio di reciprocità.
12. Omessa informazione alla parte interessata dell’espletamento di una
rogatoria:
– chiedere sempre alla Autorità estera che le parti non siano informate, nei limiti del possibile, della rogatoria in corso (es. indagini bancarie) e dei risultati delle stesse. Se ciò non viene fatto, le Autorità
estere (es. quelle Svizzere) si ritengono libere di offrire in visione alle
parti quegli stessi documenti che in via di opposizione verranno poi
bloccati all’estero e non visibili dalla stessa Autorità Giudiziaria Italiana che ha provocato l’acquisizione o il sequestro. Le conseguenze
pratiche sono evidenti!
336
13. Presenza di partecipanti alla procedura in occasione della esecuzione
della rogatoria:
– Formulare richiesta di assistenza (partecipazione) agli atti da
espletare dallo Stato assistente; e
– motivare la presenza della persona o delle persone durante la
esecuzione della rogatoria; e
– descrivere in modo preciso la identità e la funzione della persona o delle persone; e
– chiedere di avvalersi della facoltà di porre le domande che si vorranno indicare nella stessa richiesta di assistenza e quelle altre
domande che risultassero necessarie nel corso dell’esame della parte e
di indicare i documenti da sequestrare; e
– chiedere di essere informati del luogo ed ora della esecuzione
dell’atto in relazione al quale si chiede la partecipazione.
È bene evidenziare che sul punto sotto la vigenza del codice del 1930,
si erano diffusi due orientamenti giuriprudenziali. Secondo il primo
orientamento, il giudice italiano, ha per dovere di ufficio, l’obbligo di avvalersi della facoltà riconosciuta dall’art. 4 C.E.A.G. o da altre convenzioni
in caso di rogatoria attiva di atti per i quali gli adempimenti di cui agli
articoli 304 3 segg. c.p.p. 1930 (ora abrogati) erano richiesti a pena di nullità ed a tutela del diritto di difesa (80). Secondo il contrario orientamento, la facoltà per il giudice italiano di assistere all’esecuzione della rogatoria attiva è rimessa al consenso della autorità giudiziaria richiesta e non
si concreta in un obbligo per il giudice stesso di assistervi (81).
14. Forma della domanda:
– scritta;
– non è necessaria la legalizzazione dei documenti ufficiali.
15. Lingua/traduzione:
– Redigere la domanda in lingua italiana;
– Allegare una traduzione nella lingua del paese richiesto, in proposito, nei casi di urgenza, procedere alla nomina di un traduttore con
(80) Cass., 21 marzo 1973, Comandi.
(81) Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb.
337
le forme della consulenza tecnica; altrimenti può provvedervi la Direzione Generale Affari Penali del Ministero Grazia e Giustizia, opportunamente contattata a questo riguardo.
16. Vie di trasmissione:
– per via diplomatica. Per quanto concerne la Svizzera, la domanda va indirizzata all’Ufficio Federale di polizia del dipartimento di giustizia e polizia a Berna, tranne che sia stata convenuta un’altra via di
trasmissione per il tramite del Ministero di Giustizia o per corrispondenza diretta con l’autorità richiesta.
Per quanto concerne gli Stati Uniti d’America la domanda va indirizzata al Dipartimento di Stato ovvero all’Attorney General.
In ogni caso la domanda di assistenza giudiziaria va inviata, per il
conseguente inoltro, al Ministero di Grazia e Giustizia Direzione Generale Affari Penali Ufficio II.
– Nella ipotesi di urgenza, la trasmissione può essere effettuata
attraverso l’Organizzazione Internazionale di Polizia Criminale (canale
INTERPOL); tuttavia la richiesta deve essere confermata trasmettendo
l’originale per la via ufficiale. È opportuno indirizzare le domande di
assistenza sia al corrispondente diplomatico e all’ufficio INTERPOL.
Per quanto concerne rogatorie in materia di sostanze stupefacenti, le funzioni svolte dall’INTERPOL vengono svolte dalla Direzione
Centrale Servizi Antidroga (D.C.S.A.).
– fintanto che l’autorità esecutiva estera non è conosciuta, la
domanda deve essere presentata: “Alla competente Autorità Giudiziaria... (luogo di esecuzione) in... (Stato richiesto)”, con formule rituali di
cortesia consuetudinarie nel diritto internazionale (mai imperative!).
[più diffusamente, vedi paragrafo successivo].
6. Le modalità di trasmissione.
Disciplina codicistica.
L’art. 727 codice di procedura penale innova quasi del tutto il
sistema precedente (82) nel settore delle modalità di trasmissione
(82) L’art. 657 c.p.p. previgente stabiliva come regola generale l’inoltro per via di-
338
delle rogatorie ad autorità straniere. Il legislatore del 1988, nella previsione che una rogatoria all’estero sarà per la maggior parte dei casi
urgente – in considerazione, da un lato dei termini minimi e massimi
di durata delle indagini preliminari e, dall’altro, dei tempi tecnici piuttosto lunghi necessari per l’espletamento delle rogatorie internazionali e, infine, in considerazione dei termini di custodia cautelare previsti
dagli artt. 303 e 305 in ipotesi di indagati/imputati detenuti – ha previsto forme più agili e celeri per la trasmissione della richiesta di assistenza giudiziaria all’estero.
“Valutata l’esperienza processuale formatasi in tale disciplina e considerata la maggiore celerità che dovrebbe caratterizzare il nuovo processo, la normativa è stata delineata partendo dalla considerazione che ben
difficilmente una rogatoria all’estero potrà essre ritenuta non urgente sia
per i termini massimi previsti per la chiusura delle indagini preliminari
(art. 402) sia per i tempi tecnici necessari per l’espletamento delle rogatorie internazionali, sempre piuttosto lunghi (83).
Sulla base di tali premesse, l’articolo 727 codice procedura penale, recependo le critiche ed i dubbi di costituzionalità sollevati dalla
dottrina (84), non ha previsto che il Procuratore Generale esprima un
parere sulla utilità della rogatoria, ritenendo che un siffatto sistema
sia in contrasto con la sistematica della legge-delega.
plomatica e, nei soli casi urgenti, il tramite diretto a mezzo di agenti diplomatici o consolari con contestuale comunicazione al Ministro di Grazia e Giustizia per via gerarchica. L’art. 53 disp. att. prevedeva poi che in ogni caso le rogatorie dovevano pervenire per via gerarchica al Procuratore Generale presso la Corte di Appello, il quale, salvi
i casi urgenti, le inviava a sua volta al Ministro di Grazia e Giustizia corredate del suo
parere circa la utilità e l’opportunità di darvi corso. Al Ministro era attribuito un potere di blocco della richiesta di rogatoria che, qualora esercitato, doveva essere comunicato al Procuratore Generale, il quale dal canto suo ne dava immediato avviso all’autorità richiedente.
(83) Vedi Relazione Ministeriale.
(84) Si sottolineava che il parere del Procuratore Generale non era in linea con i
principi di indipendenza e di autonomia della magistratura, soprattutto quando la
richiesta di rogatoria perveniva non dai magistrati del pubblico ministero ma da altri
giudici del distretto, e pareva atteggiarsi come un sindacato sull’operato del singolo
giudice anziché sulla esistenza dei presupposti legislativi. In proposito cfr. BRANCACCIO, Metodi di cooperazione e assistenza giudiziaria - lettere e commissioni rogatorie, trasferimento della procedura penale, in Dir. Pen. Int., Roma, 1979, pag. 101; GAITO, Dei
rapporti giurisdizionali con autorità straniere, Padova, 1985; VINGONI, Le prove penali
raccolte all’estero dalle autorità giudiziarie straniere, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1968, pag.
498; GALANTINI, op. cit., pag. 87.
339
“Si è così abolito il filtro – oggi rappresentato dal parere del procuratore generale – ritenuto in contrasto con la sistematica della legge-delega (85)”.
La nuova disciplina ha inteso instaurare un rapporto diretto tra
autorità giudiziaria e Ministro di Grazia e Giustizia. Le rogatorie
devono, infatti, essere trasmesse per l’inoltro direttamente al Ministro
di Grazia e Giustizia Direzione Generale Affari Penali Ufficio II.
Potere di blocco del Ministro di Grazia e Giustizia:
Il Ministro di Grazia e Giustizia è titolare di un limitato potere di
“blocco” da esercitare mediante l’emissione di un decreto, entro trenta giorni dalla sua ricezione, qualora l’inoltro della rogatoria venga
ritenuto atto idoneo a compromettere “la sicurezza o altri interessi
essenziali della Repubblica” (art. 727 comma 2). Il decreto viene
comunicato alla autorità giudiziaria (art. 727 comma 3 ultima parte).
Tale comunicazione deve avvenire entro cinque giorni dalla data di
emissione (art. 204 disp. att.). Il decreto del Ministro viene inserito
negli atti del fascicolo processuale, con conseguente assunzione di
responsabilità politica da parte del Ministro, soprattutto in relazione
a carenze e lacune investigative che questa scelta può causare.
Casi ordinari:
Nei casi ordinari, qualora ravvisi la sussistenza dei presupposti
per l’ulteriore corso della rogatoria, il Ministro di Grazia e Giustizia
comunica alla autorità giudiziaria “la data di ricezione della richiesta
e l’avvenuto inoltro della rogatoria” (art. 727 comma 3). Tale comunicazione deve avvenire entro cinque giorni dalla data di inoltro (art.
204 disp. att.).
Nell’ottica di celerità e snellezza della procedura di trasmissione
sopra indicata, l’art. 724 comma 4 c.p.p. prevede una sorta di silenzioassenso: allorquando la rogatoria non è stata inoltrata dal Ministro
entro trenta giorni dalla ricezione, e non sia stato emesso il decreto di
“blocco”, l’autorità giudiziaria può provvedere all’inoltro diretto all’agente diplomatico o consolare italiano, informandone il ministro stesso (art. 727 comma 4). In tal modo, dunque, decorso nell’inerzia il ter-
(85) Vedi Relazione Ministeriale.
340
mine di legge, opera la medesima disciplina dei casi urgenti espressamente prevista dal comma 5 dell’art. 727.
Casi urgenti:
Nei casi urgenti, l’autorità giudiziaria inoltra la rogatoria direttamente all’agente diplomatico o consolare italiano dopo che copia di
essa è stata ricevuta dal Ministro di Grazia e Giustizia (art. 727
comma 5), è previsto un limitato potere di “blocco” del Ministro di
Grazia e Giustizia anche in ordine ai casi urgenti. L’autorità amministrativa, infatti, ricevuta la tempestiva notizia della tramissione in via
d’urgenza, può emettere, nelle forme dell’articolo 726 comma 2 c.p.p.,
il decreto con il quale dispone di non dare corso alla domanda. Tale
potere deve essere esercitato fino a quando l’agente diplomatico o consolare non abbia inoltrato la domanda all’autorità straniera: in siffatta ipotesi, l’esercizio del potere di “blocco” non determina ritardo alcuno nella procedura (art. 727 comma 5 ultima parte).
Anche il sistema attuale non è esente da rilievi critici, soprattutto
in considerazione dei poteri di “blocco” attribuiti al Ministro di Grazia e Giustizia. Trattasi di potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità, in considerazione del parametro di valutazione degli interessi essenziali dello Stato. L’intervento del Ministro pone dei problemi
di compatibilità con i principi costituzionali della indipendenza ed
autonomia della magistratura da ogni altro potere e di soggezione del
giudice soltanto alla legge.
Soggetti della rogatoria, dunque, non sono soltanto le autorità
giudiziarie – richiedente e richiesta –, ma l’insieme degli Stati-apparato cui quelle autorità giudiziarie appartengono.
Canali convenzionali e statuali di collegamento:
Sulla base di quanto previsto dalla legge processuale interna e
dalle convenzioni internazionali, si possono individuare almeno sei
canali di trasmissione di una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale in materia penale:
1) canale diplomatico. Rappresenta la via tradizionale di trasmissione della rogatoria. Competente a provvedere all’inoltro della richiesta allo Stato estero è il Ministro degli Esteri, il quale, su invito del
Ministro di Grazia e Giustizia, impartisce direttive ed istruzioni alla
rappresentanza diplomatica presso lo Stato richiesto. La rappresentanza diplomatica, secondo la normale procedura di corrispondenza
341
diplomatica, invia la rogatoria al Ministero degli Esteri dello Stato
presso cui è accreditata, che a sua volta provvederà a rendere nota la
richiesta di assistenza giudiziaria alle competenti autorità del proprio
Stato. Ha carattere e natura intergovernativa, collegando gli Stati
essenzialmente a livello di Governi.
2) diretta corrispondenza tra i Ministeri della Giustizia. Come il
canale diplomatico, ha carattere e natura intergovernativa e può essere intesa come una semplificazione del sistema di trasmissione per via
diplomatica nella previsione che, nei rapporti giurisdizionali tra Stati,
le implicazioni di politica estera sono eccezionali (86). In tale ipotesi
le domande di assistenza giudiziaria devono essere trasmesse dal
Ministero di Giustizia della parte richiedente al Ministero di Giustizia
della parte richiesta.
3) canale diretto diplomatico-consolare. È previsto per situazioni di
particolare ed eccezionale urgenza e s’informa alla opportunità di
avvalersi di organi dello Stato richiedente che già esistono nello Stato
richiesto. Tale canale, a differenza dei due canali di collegamento
sopra indicati, collega gli Stati a livello di autorità giudiziarie localmente competenti e sulla base delle leggi del luogo, per il tramite degli
organi consolari, funzionalmente destinati all’attivazione di procedure interne dinanzi agli organi dello Stato di residenza;
4) diretta corrispondenza tra autorità giudiziarie interessate. È
consentita dalle convenzioni internazionali solo in caso di urgenza
(87) e nella ipotesi in cui gli Stati, richiedente e richiesto, siano territorialmente contigui o abbiano ordinamenti giuridici omogenei
(88). Talvolta la corrispondenza diretta tra autorità giudiziarie è
esclusa per talune rogatori (89). È prevista, di solito, parallelamente
(86) LASZLOCZKY, op. cit., pag. 123 e segg.
(87) Art. 15 § 2 C.E.A.G. che, però, prevede la restituzione degli atti per via intergovernativa, tale via diretta non è ammessa dalla Svezia.
(88) Le autorità giudiziarie italiane possono corrispondere direttamente con quelle di San Marino (art. 29 comma 2 Convenzione 31 marzo 1939); della Francia (art. 11
Conv. 12 gennaio 1955 mantenuta invigore sul punto ex art. 15 § 7 C.E.A.G.); della Svizzera (art. 8 Conv. Berna 22 luglio 1868, resa esecutiva con R.D. 5 maggio 1869 n. 5052
ed art. 3 protocollo 1° maggio 1869 reso esecutivo con R.D. 5 maggio 1869 n. 5055);
dell’Austria (art. X accordo 20 febbraio 1973, reso esecutivo con L. 9 giugno 1977 n.
628, aggiuntivo alla C.E.A.G.) e della Repubblica federale tedesca (art. IX Accordo 24
ottobre 1979, reso esecutivo con L. 11 dicembre 1984, n. 969.
(89) Ad esempio, l’Austria non ammette comunicazione diretta per i sequestri, perquisizioni o consegna temporanea dei detenuti (art. X Accordo 20 febbraio 1973, cit.).
342
a vie di trasmissione ordinaria in modo da consentire un intervento
del potere politico almeno nella fase di restituzione degli atti espletati su commissione rogatoria (90). In tale ambito è prevista la trasmissione della rogatoria per il tramite della Organizzazione Internazionale di Polizia Criminale-Interpol (91) (in proposito, vedi
appresso). La corrispondenza fra autorità giudiziarie interessate
comporta la necessità di individuare l’autorità straniera competente
a ricevere la rogatoria. Al fine di semplificare tale ricerca, spesso le
convenzioni prevedono che l’autorità richiesta, se incompetente,
provveda all’inoltro alla Autorità giudiziaria competente. In alcuni
stati federali sono stati costituiti organismi che si pongono quale
unico centro di riferimento per ogni questione di assistenza giudiziaria (92).
5) sistema misto. Le convenzioni internazionali prevedono talora sistemi misti che generalmente consentono, nella fase d’inoltro
della richiesta o nella fase di restituzione, accando alla via diplomatica, l’utilizzabilità della corrispondenza diretta tra le autorità
giudiziarie o fra i Ministeri della Giustizia e degli Stati interessati
oppure contemplano la possibilità per l’autorità richiedente di corrispondere direttamente con il Ministero degli Esteri dello Stato
richiesto.
6) canale INTERPOL. Premesso che il canale normale attraverso il
quale le autorità giudiziarie richiedono la collaborazione degli omologhi organismi stranieri è quello diplomatico, l’Organizzazione Internazionale di Polizia Criminale (O.I.P.C.)-INTERPOL, nei casi di urgenza, viene chiamata a fare da necessario tramite attraverso i suoi sperimentati canali telegrafici e telefonici, per stabilire gli opportuni contatti che sono indispensabili per il concreto esercizio della attività giurisdizionale. Detta attività diretta a mantenere uno stretto contatto
operativo tra i magistrati interessati, si svolge mediante l’inoltro di
(90) Tipico nei rapporti con la Francia, con la Spagna e verso l’Italia (v. art. 11
Conv. italo-francese 12 gennaio 1955 e dichiarazioni francese, spagnuola ed italiana
all’art. 15 C.E.A.G.).
(91) L’art. 15 n. 5 C.E.A.G. prevede: “Nei casi in cui la trasmissione diretta è consentita dalla presente convenzione essa potrà effettuarsi per il tramite della Organizzazione internazionale di Polizia Criminale (INTERPOL)”.
(92) Per la Svizzera, la Divisione di polizia del Dipartimento federale di giustizia
e polizia (Ufficio Federale di Polizia con sede a Berna); per gli U.S.A. il Dipartimento
di Stato ovvero l’Attorney general.
343
copia delle commissioni rogatorie e con l’acquisizione e lo scambio di
notizie occorrenti per la esecuzione delle medesime (93).
Funzioni dell’O.I.P.C.-INTERPOL e principi della cooperazione internazionale di polizia.
I compiti istituzionali dell’O.I.P.C.-INTERPOL sono precisati dall’art. 2 dello Statuto, il quale dispone che la organizzazione ha per
scopo:
• di assicurare e sviluppare assistenza reciproca la più ampia possibile tra le Autorità di polizia criminale, nel quadro delle leggi esistenti nei diversi Paesi e nello spirito della Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo;
• di costituire e sviluppare ogni tipo di organismo capace di contribuire efficacemente alla prevenzione ed alla repressione dei reati di
diritto comune.
A sua volta l’articolo 3 detta i limiti nel cui ambito la cooperazione deve essere svolta. Si afferma:
• Ogni attività o intervento in questioni od affari che presentino
un carattere politico, militare, religioso o razziale è rigorosamente
interdetta all’Organizzazione.
Gli scopi vengono perseguiti nel rispetto dei principi generali,
indicati nell’introduzione alla raccolta della normativa regolarmente
dell’O.I.P.C., che possono essere così sintetizzati:
• Rispetto della sovranità nazionale. L’azione di cooperazione
di polizia a livello internazionale dell’O.I.P.C.-INTERPOL si svolge
nel più assoluto rispetto delle legislazioni nazionali dei paesi aderenti;
• Applicazione delle norme comuni di diritto penale. La sfera di attività dell’organizzazione è limitata alla prevenzione della criminalità ed
alla applicazione della legge in relazione ai reati di diritto comune.
Soltanto a questo livello può sussistere un accordo fra tutti i paesi
membri;
• Universalità. Tutti i paesi membri possono collaborare e tale col-
(93) L’art. 15 n. 5 C.E.A.G. prevede espressamente, nei casi in cui è consentita la
trasmissione diretta, il tramite dell’INTERPOL. Sia la Francia che la Svizzera ammettono il canale INTERPOL.
344
laborazione non deve essere ostacolata da difficoltà di natura politica,
geografica o linguistica;
• Uguaglianza tra tutti i paesi membri. Tutti i paesi aderenti all’Organizzazione beneficiano degli stessi servizi indipendentemente dai
contributi finanziari versati;
• Cooperazione con altri servizi. La cooperazione può essere estesa
a tutti i servizi governativi dei paesi membri impegnati nella prevenzione e repressione dei reati di diritto comune;
• Universalità dei metodi di lavoro. Sebbene fondati su principi
garanti della regolarità e della continuità, i metodi di lavoro sono versatili tanto da potersi adattare all’ampia varietà di strutture e situazioni esistenti nei singoli paesi.
Al servizio INTERPOL sono demandati numerosi compiti, tra i
quali, per i fini che interessano alla trattazione:
• Assistenza giudiziaria. Questa comprende:
– le estradizioni attive e passive;
– l’esecuzione di commissioni rogatorie da e per l’estero su richiesta dell’Autorità Giudiziaria;
– la ricerca e cattura all’estero ed in Italia delle persone colpite da
ordini restrittivi della libertà personale;
– le indagini di polizia giudiziaria, in Italia a richiesta della polizia estera ed all’estero per conto delle forze di polizia italiane, ad eccezione di quelle in materia di illeciti inerenti agli stupefacenti (di competenza del Servizio Centrale Antidroga ora Direzione Centrale Servizi Antidroga) e di quelle sui traffici di auto rubate (di competenza del
servizio Anticrimine - Divisione Furti Auto).
7) canale Direzione Centrale per i Servizi Antidroga (D.C.S.A.). Premesso che il canale normale attraverso il quale le autorità giudiziarie
richiedono la collaborazione degli omologhi organismi stranieri è
quello diplomatico, la Direzione Centrale per i Servizi Antidroga
(D.C.S.A.), nei casi di urgenza ed esclusivamente nel settore degli illeciti inerenti alle sostanze stupefacenti e psicotrope, viene chiamata a
fare da necessario tramite attraverso i suoi sperimentati canali telegrafici e telefonici, per stabilire gli opportuni contatti che sono indispensabili per il concreto esercizio della attività giurisdizionale. Detta
attività, diretta a mantenere uno stretto contatto operativo tra i magistrati interessati, si svolge mediante l’inoltro di copia delle commissioni rogatorie e con l’acquisizione e lo scambio di notizie occorrenti
per la esecuzione delle medesime. in altre parole, nello specifico settore degli stupefacenti, la D.C.S.A. svolge le medesime funzioni attribuite all’INTERPOL nel settore della assistenza giudiziaria.
345
La richiesta inoltrata alla D.C.S.A. deve essere confermata trasmettendo l’originale per la via ufficiale.
La inosservanza delle forme di trasmissione della rogatoria non
genera invalidità degli atti compiuti: mancano al riguardo disposizioni contenenti sanzioni processuali. In proposito la Corte di Cassazione ha affermato che la rogatoria internazionale realizzata senza la perfetta osservanza delle prescrizioni formali richieste dalle convenzioni
internazionali potrà essere utilizzata in Italia quale valida fonte di
prova purché siano rispettati i seguenti principi (94):
a) i limiti espressamente enunciati nell’articolo 31 preleggi;
b) insussistenza nell’ordinamento giuridico dello stato italiano di
alcuna preclusione alla sua utilizzazione processuale.
7. L’immunità del testimone, del perito, dell’imputato.
Art. 728 (Immunità temporanea della persona citata). – 1. nei casi
in cui la rogatoria ha ad oggetto la citazione di un testimone, di un perito o di un imputato davanti all’autorità giudiziaria italiana, la persona
citata, qualora compaia, non può essere sottoposta a restrizione della
libertà personale in esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza né assoggettata ad altre misure restrittive della libertà personale per
fatti anteriori alla notifica della citazione. – 2. L’immunità prevista dal
comma 1 cessa qualora il testimone, il perito o l’imputato, avendone
avuta la possibilità, non ha lasciato il territorio dello Stato trascorsi
quindici giorni dal momento in cui la sua presenza non è più richiesta
dall’autorità giudiziaria ovvero, avendolo lasciato, vi ha fatto volontariamente ritorno.
Il legislatore del 1988, in accoglimento di una osservazione fatta
dalla Commissione parlamentare, garantisce la immunità per le persone (testimone, perito o imputato) citate, tramite rogatoria, dalla
Autorità giudiziaria straniera e che compaiono davanti alla autorità
giudiziaria italiana.
Questi soggetti processuali, qualora compaiano dinanzi alla
autorità italiana, non possono essere sottoposti a restrizione della
loro libertà personale, in esecuzione di una pena o di una misura
di sicurezza, né essere assoggettati ad altre misure restrittive della
(94) Cass. sez. III, 19 maggio 1983.
346
libertà personale per fatti anteriori alla notifica della citazione.
Siffatta immunità ha durata temporanea e cessa allorché uno dei
soggetti processuali sopra indicati;
• non ha lasciato il territorio dello Stato nel termine di 15 giorni
dal momento in cui la sua presenza non e più richiesta, sempreché
aveva la possibilità di allontanarsi dal territorio dello Stato;
• ha fatto volontariamente ritorno nel territorio dello Stato, dopo
averlo lasciato.
È una disposizione analoga a quella di cui all’articolo 723 comma
3, posta con riferimento alle rogatorie passive.
Come già osservato in precedenza, le forme di assistenza giudiziaria per la comparizione dinanzi agli organi dello Stato del processo
di testimoni-periti e imputati che si trovino all’estero hanno ormai
assunto una decisa autonomia. Caratteristica della assistenza nella
comparizione è la non coercibilità della comparizione stessa e ciò
anche quando le persone da sentire o porre a confronto si trovino
detenute nello Stato richiesto (95).
In relazione alla disciplina della cooperazione per la comparizione
dinanzi alla autorità assistita di testi-periti che si trovino all’estero, contrariamente a quanto accade per le rogatorie propriamente dette, le
norme interne sono semplificate mentre quelle convenzionali si presentano diffuse, dettagliate e modellate su principi propri della estradizione
(96). Esse, infatti, rispondono alla esigenza di evitare che la comparizione di una persona nello Stato assistito possa trasformarsi in una estradizione di fatto, senza che lo Stato assistente abbia potuto esercitare al
riguardo le proprie prerogative sovrane: pertanto garantiscono una
immunità temporanea ai testi-periti nel territorio dello stato assistito.
L’interconnessione fra l’istituto della estradizione e l’assistenza
nella comparizione è ulteriormente evidenziata dalla Convenzione
europea di assistenza giudiziaria in materia penale, la quale estende le
tradizionali norme previste per i testi e periti anche all’imputato che si
trovi all’estero e sia citato a comparire a piede libero (97).
Pari estensione, come sopra osservato, si ritrova negli articoli 723
e 728 codice procedura penale.
(95) In proposito, vedi nota n. 56.
(96) Vedi LASZLOCZKY, op. cit., pagg. 121-122.
(97) Art. 12 § 2 e 3 C.E.A.G. Tuttavia, in tal caso la garanzia non si estende al fatto
contemplato nella citazione.
347
Dunque, l’articolo 728, si limita a tradurre il principio di non ingerenza negli affari giurisdizionali relativi ad altri Stati che trova la sua
ratio nei rispetto e nell’ossequio della sovranità statuale altrui (98).
La competenza a valutare l’operatività dell’immunità di cui sopra
ed a darne, del caso, congrua applicazione è funzionalmente attribuita non già al giudice che si avvale della rogatoria bensì ai giudici che
abbiano emesso provvedimenti cautelari (99).
In ogni caso sia l’articolo 728 codice di rito che l’articolo 12
C.E.A.G. che l’art. 17 Trattato Italia-Usa che altre convenzioni aventi
ad oggetto la immunità in parola, non contemplano un meccanismo
atto a provocare la sospensione, sia pure temporanea, di un ordine di
carcerazione o di altro provvedimento restrittivo della libertà personale. Per rispettare le norme indicate e per poterne godere gli effetti,
non è necessario un preventivo provvedimento di sospensione né la
concessione preventiva di un salvacondotto, poiché il testimone-il
perito-l’imputato-l’indagato, presentandosi dinanzi all’autorità giudiziaria della parte richiedente, non possono essere tratti in arresto o
sottoposti ad altra misura restrittiva della libertà personale per fatti o
condanne anteriori alla loro partenza dal territorio dello Stato richiesto e non contemplati nella citazione (100). In ogni caso non escludono che il teste o il perito possano assumere la qualità di indagatoimputato (101).
L’invito a presentarsi per nominare un difensore di fiducia contenuto in una comunicazione giudiziaria (ora informazione di garanzia)
inviata ad un imputato residente all’estero non costituisce citazione a
comparire produttiva di temporanea immunità per reati diversi da
quelli indicati nella comunicazione (102).
Nella ipotesi di violazione del principio della immunità temporanea, rimedio giuridico previsto è quello dell’incidente di esecuzione.
Siffatto rimedio, infatti, è esperibile non solo nel caso di inesistenza
giuridica del provvedimento di cattura, ma anche quando nell’ipotesi
venga dedotta l’esistenza di un ostacolo estrinseco all’esecuzione di un
provvedimento in sé legittimo, quale l’immunità prevista dall’articolo
(98) Cfr. PISANI, La rogatoria attiva in materia penale; un istituto in crisi, in Giur.
It., 1968, II, 355; GALANTINI, op. cit., pag. 612.
(99) Cass. 24 maggio 1986, Ortoloni.
(100) Cass. 24 maggio 1985, Ortolani.
(101) Cass. 25 ottobre 1990, Galatolo.
(102) Cass. 30 aprile 1981, Campana.
348
728 codice di rito, 12 C.E.A.G., 17 Trattato U.S.A.-Italia di assistenza
giudiziaria (103).
8. Le forme di esecuzione della rogatoria.
Il legislatore del 1988 non ha affrontato la questione delle forme
di esecuzione delle rogatorie attive.
L’ordinamento richiesto di assistenza adotta tendenzialmente le
proprie forme processuali per il compimento dell’atto istruttorio
richiesto: ciò costituisce ulteriore diaframma garantistico dal punto di
vista dell’ordinamento richiesto.
In linea generale, secondo quanto si ricava dalle convenzioni
internazionali, trova applicazione il principio locus regit actum, che in
diritto pubblico si ricollega all’obbligo per le autorità di uno Stato di
funzionare conformemente e nei limiti della legge che le istituisce.
Dunque la domanda di assistenza giudiziaria viene eseguita nelle
forme vigenti nel paese richiesto.
È principio di diritto internazionale generale universalmente riconosciuto quello secondo cui l’atto probatorio assunto all’estero deve
essere espletato nelle forme proprie dello Stato richiesto costituendo
tipico esercizio della sovranità del paese richiesto, ove ovviamente
sono inapplicabili le regole processuali dello Stato richiedente (104).
Tale regola trova il suo fondamento, oltre che in numerose disposizioni convenzionali, nell’articolo 27 delle preleggi, secondo cui la
competenza e la forma del processo, sono regolate dalla legge del
luogo in cui il processo si svolge (lex fori), “essendo indubbio che, nella
dizione ‘forma del processo’ devono essere ricomprese anche le norme
relative all’assunzione delle prove” (105).
La Corte Costituzionale, in una recente sentenza, ha ribadito che
“l’atto probatorio assunto all’estero per rogatoria non può che essere
espletato nelle forme proprie dello Stato richiesto” (106).
(103) Cass. 30 aprile 1981, Campana.
(104) Cfr. Cass. sez. I, 22 ottobre 1981, Li Calzi; Cass. 19 novembre 1993, Palamara;
Cass. 2 dicembre 1980, Inzaghi; Cass. 16 gennaio 1982, in tema di perizia medico-legale
effettuata nella Repubblica Federale di Germania sulla persona offesa senza che, in
conformità alla legislazione di quel paese, ne fosse dato avviso al difensore dell’imputato.
(105) Cass. 19 aprile 1972, Preti.
(106) Corte Costituzionale n. 379 del 1995.
349
Sul piano normativo è però sempre più consentito integrare le
forme del luogo con altre forme necessarie secondo la legge del processo in cui l’atto è destinato ad inserirsi. In generale, le autorità
richiedenti possono domandare che le deposizioni siano assunte con
giuramento o che le parti (o per esse i difensori) siano ammesse ad
assistere ai compimenti degli atti istruttori (107). Inoltre le esigenze di
coordinarnento con i sistemi di Common Law hanno fatto di recente
espandere la possibilità della richiesta di “modalità”, specifiche sino al
limite dell’ordine pubblico internazionale (108). La possibilità della
richiesta di forme specifiche ha trovato un riscontro legislativo nell’articolo 725 comma 2 codice procedura penale (109).
Non incide necessariamente sulle forme di esecuzione dell’atto la
presenza dell’autorità richiedente. Intatti in tale sorta di concelebrazione
(vedi cap. 2°, sez. III, par. 11), definita da taluni “rogatoria integrata
mista” (110), mentre la autorità richiedente “porta con se la conoscenza
delle risultanze istruttorie già acquisite e l’attitudine alla percezione immediata della prova ai fini della percezione (111), è pur sempre la autorità locale, titolare dell’imperium e dei conseguenti poteri coercitivi, a compiere l’atto, nel rispetto delle garanzie formali che la sua legge le impone” (112).
9. La utilizzazione degli atti richiesti mediante rogatoria internazionale.
Il principio rigoroso di statualità delle disposizioni che regolano le
(107) Circa il giuramento, vedi art. 3 § 2 C.E.A.G. che prevede “Se la parte richiedente desidera che i testimoni o i periti depongano previo giuramento, dovrà farne
espressa richiesta e la Parte cui la richiesta è diretta vi si atterrà se la legge del proprio
paese non lo vieta”. Circa la presenza delle parti e dei difensori v. art. 4 C.E.A.G.; art. 14
§ 3 Trattato del 1982 con gli U.S.A.; art. 8 comma 4 Convenzione con la Cecoslovacchia e
Iugoslavia del 6 aprile 1922.
(108) Vedi art. 4 § 2 Trattato Italia-U.S.A.
(109) Art. 725 codice procedura penale (esecuzione delle rogatorie). - 2. Per il compimento degli atti richiesti si applicano le norme di questo codice, salva l’osservanza
delle forme espressamente richieste dall’autorità giudiziaria straniera che non siano
contrarie ai principi dell’ordinamento giuridico dello Stato.
(110) Così App. Roma 24 maggio 1969, in Giur. it., 1970, II, 293.
(111) In questa prospettiva è stato proposto in campo europeo di riconoscere alle
autorità richiedenti che assistano alla rogatoria “il diritto di suggerire al giudice straniero interrogante domande complementari da porre ai testimoni”. Ciò è senz’altro
consentito dall’art. 14 § 5 Trattato del 1982 con gli U.S.A.
(112) Vedi LASZLOCZKY, op. cit., pag. 127.
350
prove penali nei rapporti tra il nostro e altri ordinamenti, sortisce
effetti negativi per quanto riguarda la loro successiva utilizzabilità. È
evidente che il criterio della lex fori –-rinvenibile nell’art. 27 delle
disposizioni preliminari al codice civile, per il quale la forma del processo è regolata dalle leggi del luogo in cui si svolge, e in quasi tutte le
convenzioni in materia (113) – si presta a creare, per le diversità normative esistenti fra i vari ordinamenti, ostacoli qualora la assunzione
della prova in contrasto con le leggi dello Stato richiedente, ne determini i caratteri di atto contrario all’ordine pubblico (art. 31 preleggi)
o ai principi generali dell’ordinamento giuridico (114) e quindi come
tale inidoneo alla formazione del libero convincimento del giudice in
quanto illegittimo.
Sotto la vigenza del codice del 1930, si è sostenuto che la validità
dell’atto assunto per rogatoria non può essere retta che dalle norme
dell’ordinamento da cui proviene. Si è affermato in particolare che “le
prove raccolte all’estero, per essere ammissibili in un giudizio che si svolge in Italia, devono rispondere a criteri di legalità, con riferimento alla
legge dello Stato in cui furono assunte” (115).
Poste queste premesse, sotto la vigenza del codice abrogato, la
Suprema Corte ha innanzitutto sottolineato che il principio del locus
regit actum non va inteso in senso rigoroso e cioè che gli atti stranieri
debbono presentare tutti i requisiti dei corrispondenti atti italiani. Infatti, se così fosse, data l’autonomia e varietà delle forme dei singoli ordinamenti, l’art. 41 comma 4 c.p.p. (abrogato) verrebbe in pratica ad essere nullificato (116).
Si è quindi chiarito che il sindacato del giudice italiano non può
andare oltre una verifica formale dell’atto che intende utilizzare, con
esclusivo riferimento alle modalità di acquisizione senza costituire un’inammissibile ingerenza negli ordinamenti giuridici degli altri Stati (117).
(113) Cfr. art. 3 Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale.
(114) PISANI, La rogatoria attiva in materia penale: un istituto in crisi, in Giur. it.
1968, II, 355.
(115) Cfr. Cass. 21 giugno 1982, Rocchi; Cass. 1° giugno 1982, Longo; Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb; Cass. 5 febbraio 1981, Guida; Cass. 30 maggio 1980, Ballinari; Cass.
19 febbraio 1979, Buscetta; Cass. 3 luglio 1975, Girometti; Cass. 11 novembre 1974, Bardelli; Cass. 21 marzo 1973, Comandi; Cass. 19 aprile 1972, Preti; Cass. 18 gennaio 1971,
Panayotides.
(116) Cass. 30 maggio 1980, Milan.
(117) Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb; Cass. 15 luglio 1981, Galeotti, secondo la
quale il processo celebrato all’estero nei confronti di persona ivi estradata da altro
351
In particolare tale sindacato non può e non deve estendersi alla
valutazione del procedimento estero nel suo complesso, ma deve avere
riguardo unicamente all’atto o agli atti da acquisirsi nel processo che si
svolge dinanzi a sé (118).
Si è così sostenuta la impossibilità, da parte del giudice italiano,
di estendere la propria indagine all’apprezzamento della capacità o
incapacità funzionale, in confronto della legge italiana, di colui che
secondo la legge del paese estero ha partecipato alla istruzione di un processo o ad altri atti giudiziari (119) e l’irrilevanza, ai fini della conformità di un interrogatorio alla lex loci, del tempo trascorso tra l’arresto
e le dichiarazioni confessorie, delle condizioni di isolamento in cui è
stato tenuto l’imputato durante la carcerazione preventiva e delle
eventuali motivazioni soggettive delle confessioni rese in relazione ai
benefici connessi dalla legge straniera a tali comportamenti processuali (120).
Tuttavia le prove assunte nel rispetto della Convenzione, e cioè in
conformità dei modi previsti dalla lex fori dello Stato richiesto, non
sono, per ciò stesso, pienamente utilizzabili, ponendosi la legge di esecuzione della Convenzione internazionale come norma speciale – in
conformità a quanto stabilito dall’articolo 696 codice procedura penale – rispetto alle norme processuali generali in tema di assunzione
della prova. Invero nulla afferma la norma pattizia sulla utilizzabilità
delle prove assunte per rogatoria, né dalle suddette norme, o da altro,
può ricavarsi il principio della rinuncia del giudice nazionale a verificare, in piena indipendenza e secondo i principi fondamentali del proprio ordinamento, se le modalità con cui l’atto è stato assunto lo rendano utilizzabile come prova.
Il prodotto della rogatoria internazionale si presenta, per l’ordinamento che lo ha richiesto, come un atto straniero di diritto pubblico,
la cui validità non può essere retta che dalle norme dell’ordinamento
da cui proviene, ma che può incontrare nell’ordinamento dello Stato
del processo una reazione di rigetto.
Tale reazione è stata limitata dalla giurisprudenza al solo criterio
Stato non può essere oggetto di sindacato nel procedimento successivamente instaurato in Italia sotto il profilo della inosservanza da parte dello Stato estero procedente
degli obblighi inerenti al rapporto estradizionale.
(118) Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb.
(119) Cass. 3 aprile 1936, Amato.
(120) Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb.
352
dell’ordine pubblico (art. 31 disp., prel.) che concreta i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico. E ciò sia perché uno Stato non
può disconoscere ciò che gli organi di un altro Stato hanno fatto per
suo espresso incarico (121), sia perché l’art. 41 comma 4 c.p.p. del
1930 (abrogato) e l’articolo 78 disp. att. avevano consentito e consentono al giudice di valersi degli atti della autorità straniera sia pure
entro limiti non pacifici.
Dunque il principio del locus regit actum trova il limite nell’articolo 31 preleggi, secondo il quale le norme e gli atti di uno Stato straniero non possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando
siano contrari all’ordine pubblico.
La Cassazione ha in proposito sostenuto che le prove raccolte
all’estero sono utilizzabili nel giudizio che si svolge in Italia se, oltre
ad essere conformi alla legge del luogo di assunzione non contrastano
con le norme inderogabili relative all’ordine pubblico o al buon costume (122).
Pertanto un mezzo di prova assunto con mezzi suggestivi o con
l’impiego della violenza, anche se in ipotesi ammessi nella legislazione del paese in cui fu raccolto, non potrà essere ritenuto legittimo, perché in contrasto con i principi dell’ordinamento giuridico internazionale (123).
La giurisprudenza, formatasi in vigenza del codice del 1930, ha
dilatato la portata delle affermazioni siffatte, ed è giunta a riconoscere la piena conformità con la nostra normativa di atti assunti all’estero senza il rispetto dei diritti di difesa garantiti dal nostro ordinamento. Più volte, al riguardo, la cassazione ha affermato che gli atti dell’autorità giudiziaria straniera sono utilizzabili nel processo pur se
avvenuti senza l’osservanza di norme di legislazione italiana in merito
alle garanzie della difesa (124).
In particolare si è sottolineato che, pur facendo parte della nozione di ordine pubblico, il diritto sostanziale di difesa dell’imputato in
ogni stato e grado del giudizio, ne restano escluse le modalità di regola-
(121) MANZINI, Trattato di procedura penale, I, 200.
(122) Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb; Cass. 1° giugno 1982, Longo; Cass. 30 maggio 1980, Milan; Cass. 19 aprile 1972, Preti.
(123) Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb; Cass. 19 aprile 1972, Preti.
(124) Cass. 14 aprile 1983, Di Nicola; Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb; Cass.
12 febbraio 1982, D’Alessio; Cass. 10 aprile 1981, Marocco; Cass. 29 marzo 1979,
Papale.
353
mentazione di tale diritto in relazione ai singoli atti istruttori o processuali (125), e che la presenza del difensore all’interrogatorio non costituisce nel nostro ordinamento una esigenza essenziale del diritto di
difesa e non consente, quindi, di ritenere gli atti diversamente assunti
contrastanti con le norme inderogabili di ordine pubblico.
Sulla base di siffatta interpretazione, sono stati ritenuti utilizzabili nel processo italiano:
• atti di interrogatorio di indagati/imputati compiuti all’estero
senza il preventivo avviso e la presenza del difensore (di fiducia o di
ufficio), neppure del luogo in cui l’atto viene espletato, in esecuzione
di rogatoria disposta nella fase delle indagini preliminari o nella fase
dibattimentale.
• atti di interrogatorio compiuti all’estero di persone coimputate/coindagate senza il preventivo avviso e la presenza del difensore (di
fiducia o di ufficio), neppure del luogo in cui l’atto viene espletato, in
esecuzione di rogatoria disposta nella fase delle indagini preliminari o
nella fase dibattimentale.
• atti di audizione di persone informate sui fatti/testimoni compiuti all’estero in esecuzione di rogatoria disposta in fase dibattimentale senza la presenza del difensore dell’imputato.
Tale orientamento giurisprudenziale non è giuridicamente sostenibile: le norme che garantiscono il diritto di difesa rientrano nella
nozione di ordine pubblico e, dunque, gli atti diversamente assunti
non sono utilizzabili nell’ordinamento italiano in quanto in contrasto
con i principi fondamentali del nostro ordinamento (126).
In linea generale è del tutto evidente che, nell’ordinamento italiano, in base al principio sancito nell’articolo 24 della Costituzione, la
presenza del difensore dell’imputato-indagato (o che questi sia posto
in grado di assistere) si pone come garanzia irrinunciabile ai fini della
assunzione e/o utilizzazione di una prova in fase dibattimentale (e tali
sono le prove acquisite per rogatoria, giusto l’art. 431 lett. d. c.p.p.).
Ai fini della utilizzabilità dell’atto assunto in esecuzione di una
rogatoria internazionale occorre distinguere tra norme che regolano
la assunzione della prova e norme che ne disciplinano la utilizzazione.
Posto che la domanda di assistenza giudiziaria crea un rapporto
(125) Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb.
(126) Vedi Cass., 18 febbraio 1987; Cass. 21 marzo 1973, Comandi; Cass. 30 maggio 1980, Milan; Cass. 30 maggio 1980, Ballinari.
354
tra Stati, ciascuno dei quali si presenta nel proprio ordine indipendente e sovrano, il medesimo principio postula che:
1. da un lato, l’esecuzione materiale degli atti richiesti debba
necessariamente avvenire nei modi previsti dalla lex fori;
2. dall’altro, che la valutazione delle attività espletate, ossia gli
effetti che a detti atti possono essere riconosciuti, vada condotta alla
stregua dell’ordinamento dallo Stato richiedente.
Il contrario orientamento non può essere considerato diritto
vivente, posto che decisioni della Corte Costituzionale avevano avvertito che, ai fini della utilizzabilità di un atto, non basta che questo risulti compiuto secondo le regole vigenti nello Stato in cui è stato assunto,
ma occorre anche che dette modalità non si pongano in contrasto con
leggi interne proibitive, concernenti le persone e gli atti e con quelle che,
in qualsiasi modo, riguardino l’ordine pubblico, tra le quali, prime tra
tutte, quelle che riguardano l’esercizio inderogabile dei diritti della difesa (127).
Dunque le norme convenzionali, sulla base di una interpretazione
costituzionalmente vincolata dal rispetto della garanzia sancita dal
secondo comma dell’art. 24 della Costituzione, non solo consentono
che il giudice italiano, prima dell’espletamento dell’atto, si avvalga di
tutte le facoltà riconosciutegli dalle norme pattizie per ottenere il consenso dello Stato richiesto in ordine alla presenza delle parti interessate (e dei rispettivi difensori), ma non preclude in alcun modo all’Autorità giudiziaria di procedere alla valutazione della eventuale contrarietà, ai principi fondamentali del nostro ordinamento, dell’atto assunto per rogatoria, e, quindi, di accertare, caso per caso, se il contenuto
dello stesso, per le modalità con cui è stato formato, possa o meno
essere utilizzato.
Le considerazioni suesposte si riferiscono alla ipotesi di atti
assunti nel corso di una rogatoria disposta nella fase dibattimentale.
In tale fase, come ha argomentato la Corte Costituzionale nella sentenza interpretativa di rigetto n. 379 del 1985, l’inderogabile diritto di
difesa dell’imputato si estende a tutte le prove orali assunte in territorio estero e dunque anche all’audizione di testimoni. Le medesime
considerazioni valgono nella ipotesi di commissione rogatoria disposta dal Giudice per le indagini preliminari in sede di incidente probatorio, attesa la natura giurisdizionale di siffatto istituto, gli atti com-
(127) Corte Costituzionale n. 379 del 1995.
355
piuti nel corso del quale vanno inseriti nel fascicolo del dibattimento
ed utilizzabili legittimamente a fini decisori dal giudice del merito.
Per quanto concerne invece gli atti assunti mediante rogatoria
disposta nella fase delle indagini preliminari dal Pubblico Ministero,
nell’ottica di una lettura costituzionalmente corretta che superi i
dubbi di legittimità costituzionale sopra evidenziati, occorre distinguere tra interrogatorio dell’indagato o di indagato-imputato in procedimento connesso e audizione di persone informate sui fatti. In
considerazione di quanto previsto dell’articolo 431 lett. d) codice procedura penale ed in considerazione della giurisdizionalizzazione
della “rogatoria internazionale”, a norma dei quali vanno inseriti nel
fascicolo del dibattimento i verbali degli atti assunti all’estero a seguito di rogatoria formulata anche dal P.M. nella fase delle indagini preliminari ed in considerazione del meccanismo della acquisizione
delle dichiarazioni rese dall’indagato a seguito delle contestazioni o a
seguito di impossibilità di ripetizione, l’inderogabile diritto di difesa
si estende necessariamente alla acquisizione dell’interrogatorio dell’indagato e dell’indagato-imputato in procedimento connesso o collegato, mentre non si estende alla audizione di persone informate sui
fatti, qualora siano ripetibili in dibattimento alla presenza del difensore.
Sulla base delle seguenti considerazioni, si può concludere:
a) non è utilizzabile l’interrogatorio dell’imputato assunto con le
forme della rogatoria internazionale disposta nella fase dibattimentale, senza che il suo difensore sia stato posto in grado di assistere ed in
assenza del difensore medesimo;
b) non è utilizzabile l’interrogatorio del coimputato assunto con le
forme della rogatoria internazionale disposta nella fase dibattimentale, senza che il difensore dell’imputato sia stato posto in grado di assistere ed in assenza del difensore medesimo;
c) non è utilizzabile la dichiarazione resa dal testimone assunto
con le forme della rogatoria internazionale disposta nella fase dibattimentale, senza che il difensore dell’imputato sia stato posto in grado
di assistere ed in assenza del difensore medesimo;
d) non è utilizzabile l’interrogatorio di persona indagata assunto
con le forme della rogatoria internazionale disposta nella fase delle
indagini preliminari dal P.M., senza che il suo difensore sia stato posto
in grado di assistere ed in assenza del difensore medesimo;
e) non è utilizzabile l’interrogatorio del coindagato o indagato in
procedimento connesso o collegato assunto con le forme della rogatoria internazionale disposta nella fase delle indagini preliminari, senza
356
che il difensore dell’imputato sia stato posto in grado di assistere ed in
assenza del difensore medesimo;
f) non sono utilizzabili le dichiarazioni rese da persone informate
sui fatti assunte con le forme della rogatoria internazionale dal P.M.
nella fase delle indagini preliminari qualora esse siano ripetibili in
dibattimento alla presenza del difensore dell’imputato.
Dall’esame della giurisprudenza formatasi sotto la vigenza del
codice del 1930, si evidenzia un ulteriore interrogativo al quale il
nuovo codice non ha dato risposta alcuna: se gli atti effettuati all’estero, in accoglimento di una domanda di assistenza giudiziaria, siano
assistiti da una presunzione di conformità alla legge straniera o se la
loro rispondenza debba essere in concreto verificata dall’autorità giudiziaria italiana.
Al riguardo si sono affermati due orientamenti. Uno meno recente che non ravvisa una presunzione di conformità ed ammette il sindacato dell’atto da parte del giudice italiano. L’altro, più recente,
secondo il quale, in applicazione del principio locus regit actum, la
validità e l’utilizzabilità delle indagini eseguite all’estero e degli atti
assunti in un paese straniero devono essere vagliati alla luce degli
ordinamenti degli Stati nel cui territorio siano stati esplotati (128).
In ogni caso spetta al soggetto che solleva la relativa eccezione l’onere di fornire la dimostrazione della fondatezza dell’assunto mediante la produzione della legge straniera, trattandosi di estremi di fatto per
i quali “onus probandi est ei qui dicit” (129).
Il legislatore del nuovo codice di rito con l’articolo 729 ha ritenuto opportuno inserire nel nuovo codice una norma che eliminasse le
incertezze – che in passato si erano a volte verificate – in ordine all’incidenza delle eventuali condizioni poste dallo stato estero all’utilizzabilità degli atti richiesti. La norma stabilisce che tali condizioni vincolano l’autorità giudiziaria, a tale scopo configurando la sanzione dell’inutilizzabilità.
(128) Cfr. Cass., sez. VI, 6 agosto 1991, Bersani, in tema di intercettazioni telefoniche svolte in territorio di altro Stato, valutate dalle autorità straniere pienamente
conformi alle norme in esso vigenti; Cass., sez. II, 12 luglio 1991, la quale ha ritenuto
corretta la presunzione del giudice di merito che la rogatoria, ritualmente autorizzata
nella Repubblica di Andorra, fosse stata eseguita conformemente alla sua legislazione,
e ha affermato la conseguente incensurabilità della decisione impugnata sotto il profilo dell’omessa richiesta di acquisizione della normativa andorrana.
(129) Cass. 3 aprile 1936, Amato, Cass. 18 gennaio 1961, Panayotides.
357
Art. 729 (Utilizzabilità degli atti assunti per rogatoria). – 1. Qualora
lo stato estero abbia posto condizioni alla utilizzabilità degli atti richiesti, l’autorità giudiziaria è vincolata al rispetto di tali condizioni. – 2. Si
applica la disposizione dell’articolo 191 comma 2.
Può in concreto verificarsi che l’Autorità straniera, nel dar corso
alla rogatoria o nel trasmetterne i risultati, condizioni la utilizzazione dell’atto, apponendo la condizione che l’atto possa essere utilizzato solo in relazione ad un determinato procedimento penale o ad una
determinata fattispecie criminosa o ad un certo imputato. Queste
condizioni eventualmente apposte vincolano la autorità giudiziaria
italiana.
La riserva di condizioni di utilizzabilità dell’atto è applicazione del
principio di specialità, in precedenza esaminato.
Sotto il profilo processuale, la inosservanza del disposto normativo è sanzionata con la inutilizzabilità, rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento (art. 191 comma 2
c.p.p.).
La introduzione nel nuovo codice procedura penale del principio
di cui all’articolo 191 comma 2 c.p.p., richiamato dal comma 2 dell’articolo 729, ha “integrato” le condizioni imposte per la utilizzabilità
della prova acquisita all’estero, ma non ha determinato un trasferimento di tutta la normativa procedurale italiana nell’espletamento da
parte della autorità giudiziaria straniera degli atti richiesti dal giudice
italiano (130).
Coordinando fra loro il principio locus regit actum e quelli fondamentali del vigente ordinamento processuale, devono ritenersi utilizzabili:
a) le prove assunte all’estero allorché, nel rispetto delle norme
del luogo, l’assistenza dell’imputato sia stata assicurata da difensore
ivi abilitato, poiché in tal modo è comunque assicurata la difesa tecnica.
b) la prova assunta all’estero espletata mediante l’esame dei testi
condotto direttamente dal giudice, anziché dalle parti, atteso che il
nuovo processo penale non realizza integralmente il processo di parti,
ma conserva, ove esigenze di giustizia lo richiedano, un ruolo del giudice nella raccolta delle prove (131).
(130) Cass. 29 aprile 1993, Terranova.
(131) Cass. 29 aprile 1993, Terranova.
358
c) le intercettazioni telefoniche svolte in territorio di altro Stato
sempreché le autorità straniere non abbiano posto alle condizioni di
utilizzabilità degli atti richiesti (132).
È da condividere al riguardo l’orientamento espresso dalla Suprema Corte, la quale ha avuto modo di osservare che, quando la rogatoria venga eseguita dalla parte richiesta dall’Italia alla condizione che le
autorità italiane ne perseguano l’imputato per reato di natura fiscale, la
valutazione di tale natura del reato deve ritenersi di legittima attribuzione del giudice italiano (133).
In dottrina si è sostenuto, a garanzia dei valori tutelati dai principi processuali dello Stato del processo al fine di impedire preventivamente non solo un inutile dispendio di attività processuale ma anche
l’introduzione nel processo di elementi inammissibili che potrebbero
influire sulla decisione nel merito, che nei casi di evidente incompatibilità fra le discipline processuali degli Stati richiedente e richiesto, la
ammissibilità dovrebbe essere già negata anteriormente al ricorso
stesso alla rogatoria (134).
10. Le spese.
Nessuna disposizione dei codice di procedura penale, tra quelle
che disciplinano specificamente il tema delle rogatorie, dispone relativamente alle spese. Ciò fa ritenere che, al riguardo, si applichino le
norme stabilite in via generale per qualsiasi spesa processuale, ossia
gli artt. 535, 541, 542, 592, 616, 637, 691, 693, 189-191 codice procedura penale e art. 181 disp. att..
Le spese dovute ad una rogatoria rientrerebbero, quindi, tra quelle di giustizia, solitamente anticipate dallo Stato, ma in definitiva a
carico del condannato (Mod. 12).
Elementi per una conclusione diversa non emergono neanche in
dottrina, dove si sostiene talora che le suddette spese ricadano sullo
Stato richiesto, ma si precisa che ciò si verifica in tanto in quanto sia
(132) Cass. 26 aprile 1993, Raspa; nonché in precedenza, Cass. 21 maggio 1991,
Bersani.
(133) Cfr. Cass. sez. III, 27 marzo 1980.
(134) Gianturco, Evoluzione, non rivoluzione nel campo della assistenza giudiziaria internazionale in materia penale, in Riv. poliz., 1968, 285; LASZLOCZY, op. cit., pag.
127-128. Per il codice, vedi art. 190 e 195 c.p.p..
359
previsto dalle convenzioni internazionali esistenti e applicabili nel
caso specifico (135).
Si rammenta che anche le spese relative alla rogatoria e dunque
anche quelle di missione, comprese quelle degli eventuali accompagnatori di Polizia Giudiziaria o Consulenti tecnici la cui presenza alla
esecuzione dell’atto istruttorio è stata autorizzata dal Paese richiesto,
gravano sul procedimento e/o processo italiano (Mod. 12).
Nella ipotesi di missione all’estero, tutte le autorizzazioni debbono essere richieste al Capo dell’ufficio (anche, ad esempio, per l’uso del
mezzo aereo o proprio o dell’ufficio). Al Ministero di Grazia e Giustizia compete solo la parte di comitato autorizzativo “politico” ai sensi
delle Convenzioni e del codice di rito (art. 127 e segg, codice procedura penale; art. 15 § 1-6 Convenzione Europea Assistenza Giudiziaria).
11. La “concelebrazione” delle rogatorie.
Con la espressione “concelebrazione delle rogatorie”, si ha riguardo
ad una situazione, non disciplinata dal legislatore del 1988, caratterizzata dalla presenza in territorio estero dell’autorità richiedente nel
momento in cui viene assunto da parte della autorità richiesta uno o
più atti in esecuzione di una domanda di assistenza giudiziaria internazionale.
La convenzione internazionale consente che l’autorità giudiziaria
italiana presenzi, previo consenso dell’autorità richiesta, ad un atto
assunto per rogatoria in territorio straniero dalle autorità locali. La
presenza dell’autorità giudiziaria italiana allo svolgimento della rogatoria non determina l’esercizio di poteri giurisdizionali da parte dell’autorità giudiziaria italiana, la quale partecipa all’atto solo nella prospettiva della rilevanza della prova e della sua valutazione in vista
della piena utilizzabilità nell’ambito del proprio processo.
Non incide, infatti, sulle forme di esecuzione dell’atto la possibilità che ad esso presenzi la stessa autorità richiedente, perché in tale
(135) Cfr. in tal senso LASZLOCZKY, La cooperazione, cit., pp. 110 e ss.; secondo
questo autore sarebbe talora applicabile, il metodo del forfait, per il quale si presume
l’uguaglianza delle spese reciproche in casi reciproci e si può compensare il tutto;
GALANTINI, La cooperazione internazionale, cit., p. 90 e ss. GAITO, Dei rapporti giurisdizionali, cit., p. 23.
360
sorta di “rogatoria integrata mista” (136), mentre l’autorità richiedente
porta con sé la conoscenza delle risultanze istruttorie già acquisite e
l’attitudine alla percezione immediata della rilevanza della prova ai
fini della decisione procedimentale o processuale, è pur sempre l’autorità locale, titolare dell’imperium e dei conseguenti poteri coercitivi,
a compiere l’atto, nel rispetto delle garanzie formali che la sua legge
impone, anche nella evenienza in cui alla autorità assistita e presente
all’atto venga consentito di suggerire alla Autorità richiesta domande
da porre o di indicare documenti da sequestrare.
Il fenomeno della “concelebrazione delle rogatorie” è previsto dalle
seguenti fonti convenzionali:
a) Convenzione Europea di Assistenza Giudiziaria in materia
penale (137):
Art. 4 – Se la parte richiedente lo domanda espressamente, la Parte
richiesta l’informerà della data e del luogo d’esecuzione della rogatoria.
Le autorità e le persone in causa potranno assistere a questa esecuzione
se la Parte richiesta vi consenta.
b) Accordo aggiuntivo alla Convenzione Europea di Assistenza Giudiziaria in materia penale concluso tra Italia e Repubblica Federale Tedesca;
c) Raccomandazione n. R (80) 8 del Comitato dei Ministri agli
Stati membri concernente la attuazione della Convenzione Europea di
Assistenza Giudiziaria in materia penale;
d) Trattato mutua assistenza in materia penale tra il Governo della
Repubblica Italiana e il Governo degli Stati Uniti d’America (138):
Art. 14 – A richiesta, lo Stato richiesto indicherà la data ed il luogo
della comparizione. Lo Stato richiesto consentirà la presenza di un imputato, del suo difensore e delle persone incaricate dell’applicazione delle
leggi cui si riferisce la richiesta.
e) Convenzione di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Popolare Ungherese (139).
(136) Così, Corte Appello Roma 24 maggio 1969, in Giur. it. 1970, II, 293.
(137) Ordine di esecuzione: L. 23 febbraio 1981, n. 213, Entrata in vigore: per l’Italia, 12 giugno 1962, nello stesso giorno dell’entrata in vigore sul piano internazionale.
(138) Sottoscritto: Roma, 9 novembre 1982; Ordine di esecuzione: L. 26 maggio
1984, n. 224; Entrata in vigore: 13 novembre 1965.
(139) Sottoscritta: Budapest 26 maggio 1977; Ordine di esecuzione: L. 23 luglio
1980 n. 511; Entrata in vigore: 13 marzo 1981. Si segnala che l’Ungheria ha sottoscritto il 19 novembre 1991 sia la Convenzione europea di estradizione sia la Convenzione
361
Art. 26 n. 3 – Su richiesta del Tribunale richiedente il Tribunale
richiesto informerà direttamente, in tempo utile, il Tribunale richiedente
del luogo e del momento dell’esecuzione dell’assistenza giudiziaria.
A giudizio dello scrivente, non rientra nell’istituto della “concelebrazione” l’espletamento di attività diretta all’estero da parte dell’autorità giudiziaria italiana collocata all’interno di una procedura di esecuzione di una richiesta italiana di assistenza giudiziaria evasa dall’autorità straniera” (140).
La presenza nel territorio estero dell’Autorità italiana è finalizzata
anche al compimento diretto secondo la legge processuale italiana di
atti di giurisdizione, contrariamente a quanto accade nel fenomeno
dalla “concelebrazione”. In tale situazione l’autorità italiana ha il consenso per compiere atti diretti di giurisdizione all’estero,
Questa situazione è diversa da quella in precedenza illustrata e si
pone in una fascia intermedia tra il caso della richiesta di rogatoria
italiana eseguita esclusivamente dalle autorità straniere e quello dell’assunzione diretta di atti giudiziari da parte della autorità giudiziaria
italiana. In tale ipotesi, infatti, le acquisizioni ottenute non possono
essere ritenute né il risultato dell’esecuzione di una rogatoria ad autorità straniere né quello di un’assunzione totalmente ed esclusivamente diretta. Esse si presentano, invece, come il frutto di una procedura
mista derivante dall’applicazione della disciplina normativa sia in
tema di rogatoria ad autorità straniere che di assunzione diretta.
Il sistema della “concelebrazione delle rogatorie” si distingue dal
metodo della acquisizione diretta di atti istruttori all’estero, per i motivi
in seguito meglio specificati.
La presenza dell’autorità richiedente consentita dalla autorità
richiesta, eventualmente avvalsasi della facoltà di porre domande o
indicare documenti da acquisire, non realizza una lesione dell’altrui
sovranità territoriale: è pur sempre l’autorità locale, titolare dell’imperium e dei conseguenti poteri coercitivi, a compiere l’atto, nel rispetto
delle garanzie formali che la sua legge impone. La stessa giurisprudenza ha affermato che la facoltà attribuita al giudice italiano di presenziare al compimento di un atto istruttorio effettuato per rogatoria
in territorio straniero dalle autorità del luogo non significa automati-
europea di assistenza giudiziaria in materia penale con i relativi protocolli, entrate in
vigore 11 ottobre 1993.
(140) In senso contrario, vedi CASSANO, op. cit., pag. 269-270.
362
camente che l’autorità italiana abbia il potere di compiere direttamente atti processuali all’estero.
Sinteticamente nella “rogatoria integrata mista” le autorità richieste rimangono titolari della procedura con applicazione della legge
dello Stato richiesto (a differenza di quanto accade con il metodo della
esecuzione diretta ed autonoma di atti all’estero), limitandosi la autorità italiana ad assistere all’espletamento dell’atto, con la sola possibilità di sollecitare alla Autorità richiesta determinati atti o comportamenti (es. domande da porre a persone esaminate, nel caso in cui la
rogatoria abbia ad oggetto prove orali; indicazione di documenti da
sequestrare, nel caso in cui la rogatoria abbia ad oggetto prove reali e
documentali).
In proposito si segnalano:
1. direttiva del 15 ottobre 1982 emanata dall’Ufficio Federale di
Polizia di Berna in cui si distingue “tra la semplice presenza” e “l’esecuzione” di un atto ufficiale sul territorio svizzero da parte di autorità estere e si sottolinea che l’esecuzione autonoma di atti ufficiali deve essere
autorizzata soltanto se l’assistenza giudiziaria con la mediazione di un
funzionario svizzero risulti impossibile o senza senso come è il caso di
un sopralluogo... in ogni caso è indispensabile, a proposito, l’autorizzazione del Dipartimento federale di giustizia e polizia... che deve essere
richiesta all’ufficio federale di polizia... una autorizzazione cantonale è
ugualmente necessaria in ogni caso. La medesima direttiva precisa che
il termine “presenza” significa unicamente che i partecipanti al processo sono autorizzati ad assistere all’esecuzione della domanda di assistenza giudiziaria. Il funzionario o il magistrato svizzero competenti
restano comunque padroni della procedura di assistenza giudiziaria e
ogni attività di funzionari o magistrati esteri può avvenire soltanto per
la loro mediazione... Partecipanti esteri al processo possono, ad esempio,
suggerire al funzionario svizzero le domande da porre o proporre i documenti che dovrebbero esser confiscati nel caso di una perquisizione.
Occorre in particolare tenere conto di tali situazioni di diritto in occasione della stesura dei verbali di perquisizione. Fatta eccezione per le
domande di assistenza americane, le autorità esecutive cantonali decidono esse stesse se la presenza di partecipanti al procedimento possa
essere autorizzata.
2. rapporto esplicativo sulla C.E.A.G. ove si specifica che l’espressione assiste prevista nell’articolo 4 significa essere presente.
3. l’accordo aggiuntivo alla C.E.A.G. concluso con la Repubblica
Federale tedesca precisa che i rappresentanti delle autorità giudiziarie
competenti e delle parti in causa che siano state autorizzate a presenzia-
363
re all’espletamento di atti di assistenza giudiziaria, possono proporre
domande e chiedere provvedimenti attinenti agli atti di assistenza giudiziaria.
4. Raccomandazione n. R (80) 8 del Comitato dei Ministri agli
Stati membri avente ad oggetto l’attuazione della Convenzione Europea di Assistenza Giudiziaria in materia penale, nella quale si consiglia: nell’applicare l’art. 4 della Convenzione e sotto riserva delle disposizioni della propria legge interna, l’Autorità competente dello Stato richiesto dovrebbe far largo uso della facoltà di permettere alle autorità dello
Stato richiedente ed alle persone in causa di assistere all’esecuzione delle
commissioni rogatorie e di collaborare a ciò in ogni misura possibile.
5. Trattato di mutua assistenza in materia penale fra Italia e U.S.A.
prevede all’art. 14: ...L’autorità che esegue la richiesta consentirà alle
persone autorizzate ad essere presenti di proporre ulteriori domande e di
chiedere l’esecuzione di altri atti istruttori.
Si è già evidenziato che, sotto la vigenza del codice del 1930, si
erano diffusi due orientamenti giurisprudenziali. Secondo il primo
orientamento, il giudice italiano ha, per dovere di ufficio, l’obbligo di
avvalersi della facoltà riconosciuta dall’art. 4 C.E.A.G. o da altre convenzioni in caso di rogatoria attiva di atti per i quali gli adempimenti
di cui agli articoli 304 e segg. c.p.p. 1930 (ora abrogati) erano richiesti
a pena di nullità ed a tutela del diritto di difesa (141). Secondo il contrario orientamento, la facoltà per il giudice italiano di assistere all’esecuzione della rogatoria attiva è rimessa al consenso della autorità
giudiziaria richiesta e non si concreta in un obbligo per il giudice stesso di assistervi (142).
CAPITOLO 3. – METODI ALTERNATIVI ALLA ROGATORIA
NEL QUADRO DEI RAPPORTI INTERSTATUALI
Premessa.
Il sistema delle rogatorie internazionali, quale strumento normativo ideato per situazioni molto più delimitate, e comunque diverse,
non è in grado di farsi carico delle emergenti esigenze di efficienza
(141) Cass., 21 marzo 1973, Comandi.
(142) Cass. 21 febbraio 1983, Von Arb.
364
processuale indotte dalla dimensione internazionale assunta dalla criminalità.
La mancanza di duttilità, la inadeguatezza rispetto alla configurazione attuale nel processo penale ed alla dimensione internazionale
delle criminalità del normale strumento di assistenza giudiziaria interstatuale della rogatoria internazionale, sottolineata soprattutto da
parte della dottrina, ha portato ad una ricerca di soluzioni alternative
e alla rivalutazione di istituti in linea con un tipo di assistenza giudiziaria libera, della quale pregnante manifestazione e tipico esempio
sono:
I. Il metodo della acquisizione diretta.
II. Il sistema delle rogatorie consolari.
1. Gli atti diretti di giurisdizione all’estero.
Il legislatore del 1988 non ha affrontato il problema, assai delicato, del compimento di atti diretti di giurisdizione all’estero, che già
sotto la vigenza del codice del 1930, aveva dato luogo ad un ricco contributo dottrinario e ad un’articolata e varia elaborazione giurisprudenziale.
Tale lacuna è fonte di notevole perplessità, ove si abbia riguardo al
fatto che recenti Convenzioni e trattati internazionali hanno preso in
esame la questione, sviluppando una tendenza diretta a creare spazi
territoriali comuni fra Stati diversi, ai fini dell’esercizio nei singoli
Stati della giustizia penale (143).
Pertanto, sarebbe stato opportuno che il legislatore, a prescindere
dal tipo di soluzione normativa, avesse affrontato l’argomento, anche
per prendere posizione, a livello di ordinamento interno, in ordine ad
un istituto giuridico ormai rilevante pure a livello di diritto internazionale.
Vi è fondato timore che, in tale situazione di silenzio normativo,
possano riprodursi i contrastanti orientamenti giurisprudenziali che
hanno sinora caratterizzato il precedente codice e possa permanere
(143) Cfr. ad es. l’accordo relativo alle procedure per l’assistenza reciproca nell’amministrazione della giustizia, stipulato a Washington il 29 marzo 1976 tra Italia e Stati
Uniti d’America, in relazione al caso della società aeronautica Lockeed, accordo reso
esecutivo nel nostro Paese con decreto legge 1° aprile 1976, n. 76 e convertito nella
legge 30 aprile 1976 sulle relazioni consolari e D.P.R. 5 gennaio 1967 n. 200.
365
una situazione di totale incertezza che si sarebbe potuta evitare con
una maggiore attenzione e sensibilità rispetto alla tematica.
L’assenza di una precisa regolamentazione, sia sul piano normativo interno che su quello convenzionale (come poi si dirà), non
favorisce certezze in merito al fatto che sul difetto di giurisdizione o
incapacità del giudice, che mina alla base il metodo della acquisizione diretta, non venga mai a cadere la mannaia della nullità. La
attività giurisdizionale, essendo una delle manifestazioni tipiche
della sovranità dello Stato, di tanto si estende, dal punto di vista territoriale, di quanto correlativamente si estende la sovranità dello
Stato: gli atti istruttori compiuti direttamente all’estero dalla Autorità giudiziaria italiana sarebbero nulli o addirittura inesistenti per
difetto di giurisdizione (o per abnormità). Infatti, che quest’ultimo
vizio sussista, costituisce dato obiettivo, difficilmente contestabile
(144), a meno che un accordo intervenuto fra gli Stati interessati
non legittimi un esercizio del potere giurisdizionale di uno o di
entrambi al di fuori del proprio territorio, a condizione o non di
reciprocità, “creando una ipotesi del tutto peculiare di ultraterritorialità” (145). Le sentenze sotto richiamate riconoscono, seppur
marginalmente, questo presupposto allorché rimangano la condizione del consenso dello Stato estero (146). Tuttavia il consenso non
deve essere estemporaneo e contingente o comunque legato al caso
concreto, bensì stabilito in via preventiva e ratificato in un accordo
poi reso esecutivo con legge interna. Solo in questo modo è salvaguardato il collegamento tra territorio e giurisdizione, garante della
posizione processuale del singolo individuo, che, in sua assenza,
risulterebbe esposto al rischio della soggezione arbitraria a poteri
coercitivi non chiaramente individuabili perché non riferiti ad un
preciso spazio territoriale. Nel diritto dell’individuo alla sicurezza
delle proprie situazioni giuridiche rientra non solo l’esigenza di una
(144) In dottrina, contro il metodo della acquisizione diretta, cfr. MANZINI, Trattato di diritto processuale penale, Vol. I, 1969, pag. 171; CARNELUTTI, Audizione di
testimoni all’estero, in Riv. dir. proc. civ., 1934, I, 79; FOSCHINI, Escussione di testimoni e diritto processuale internazionale, in Giust. pen. 1942, fasc. 11-12 nonché Il dibattimento, 1956, pag. 135; GIANTURCO, Evoluzione, non rivoluzione nel campo della assistenza giudiziaria internazionale in materia penale, in Riv. Pol. 1968, pag. 287.
(145) GALANTINI, op. cit., pag. 614.
(146) Cass. 19 febbraio 1979, Buscetta; Cass. 24 aprile 1985, Ortolani; Cass. 26
novembre 1987, Ammaturo.
366
precisazione legislativa rigorosa della figura di reato, ma anche la
pretesa a una delimitazione altrettanto invalicabile dello spazio giurisdizionale (147).
La Suprema Corte negli ultimi anni, come già sintetizzato nella
presente trattazione, facendo leva sulle finalità di accertamento della
verità, tipica del processo penale ed insistendo sulla necessità di
opporsi alle odierne strutture internazionali della criminalità a mezzo
di strumenti procedurali efficienti e rapidi, ha proposto quale alternativa al superato e criticato sistema delle rogatorie, il metodo della
acquisizione diretta il quale “si colloca nella linea di quella che appare
una linea naturale di evoluzione del sistema” (148), riconoscendo la
concreta possibilità per il giudice italiano di aggirare le disposizioni
sulla rogatoria attiva recandosi di persona in territorio straniero al
fine di compiervi direttamente gli atti processuali necessari al procedimento in corso in Italia.
La Suprema Corte in tali pronunzie (149) ha affermato che la
“rogatoria internazionale è lo strumento normale, ma non esclusivo
della collaborazione tra gli Stati per l’assunzione all’estero delle prove
penali, sicchè gli organi giudiziari italiani hanno il potere, qualora le
autorità dello Stato straniero lo consentano, di recarsi personalmente
all’estero per compiere direttamente tutti gli atti istrutori che sono normalmente esperibili mediante rogatoria internazionale, nel rispetto,
naturalmente, delle regole riguardanti i rapporti fra gli Stati e della disciplina processuale degli atti compiuti”. Tali atti sono giuridicamente uti-
(147) Si nota oggi una tendenza a spostare verso l’esterno la sfera della giurisdizione italiana. Ciò lo si desume ad esempio dalla interpretazione estensiva dell’art. 6
comma 2° codice penale. Cfr. TREVES, La giurisdizione nel diritto penale internazionale, 1973, pag. 213; DEAN, Norma penale e territorio, 1963, pag. 229; SINISCALCO, voce
Locus commissi delicti, in Enc. dir. vol; XXIV, 1974, pag. 1051. Cfr. inoltre Cass. 10 febbraio 1961; Cass. 20 marzo 1963.
(148) BERTONI, Diritti umani e collaborazione internazionale, cit., pag. 17;
GALANTINI, Assunzione di prove penali, cit., pag. 605.
(149) Cass. 19 febbraio 1979, Buscetta; Cass. 24 aprile 1985, Ortolani; Cass. 26
novembre 1987, Ammaturo; Non è richiamabile a titolo di precedente la sentenza Cass.
29 gennaio 1975, Blazic, con la quale si stabilì che pur essendo la rogatoria internazionale il sistema normale di collaborazione giudiziaria “uno Stato può compiere l’atto
necessario anche direttamente a mezzo dei suoi agenti consolari, delegandoli nella loro
circoscrizione”. In questo caso infatti l’esclusione dell’intervento della Autorità giudiziaria non può far pensare ad altro se non a una forma di rogatoria consolare consentita in via generale dalla convenzione di Vienna approvata con legge 9 agosto 1967, n.
804.
367
lizzabili per la definizione del processo (150). Invero motiva il giudice di
legittimità, posto che l’articolo 656 codice di procedura penale (ora
art. 696), in quanto subordina la necessità del ricorso alla rogatoria,
come disciplinata dall’ordinamento interno, alla mancanza di una
diversa regolamentazione di diritto internazionale, può e deve interpretarsi come espressione del più generale principio per cui “In tanto
è indispensabile l’impiego dello strumento della rogatoria in quanto gli
Stati interessati non convengano sulla opportunità di fare ricorso a
mezzi diversi e piu agili per l’acquisizione all’estero delle prove occorrenti per la definizione del processo” (151).
Alla stregua di siffatti rilievi, si è giunti alle enunciazioni sopra
riportate, condizionando, comunque, il potere di compiere direttamente atti istruttori in territorio straniero, al consenso dello Stato
estero. Il difetto di giurisdizione che mina alla base il metodo della
assunzione diretta è sanato attraverso l’accordo interstatuale con cui
venga espresso il consenso alla esplicazione di poteri giurisdizionali
ultraterritoriali.
Ad oggi l’unica Convenzione di cui è dato sapere che riconosce il
sistema della acquisizione diretta è un accordo bilaterale italo-statunitense stipulato, per una unica vicenda processuale, tra il nostro
Ministro di Grazia e Giustizia e il Dipartimento della Giustizia degli
Stati Uniti d’America, relativo alla reciproca assistenza alle autorità
giudiziarie o di polizia in ordine alle presunte attività commerciali illecite svolte in Italia dalla società Lockeed e concluso nel 1976 (152). Il
paragrafo 7 ammette che le autorità giudiziarie e di polizia di uno dei
due paesi membri possano nel territorio dell’altro compiere direttamente gli interrogatori (con la possibilità della sola presenza dell’autorità locale, la quale dovrà prestare la propria assistenza per il buon
esito degli interrogatori e delle altre attività processuali), le escussioni
testimoniali (in conformità della legge del paese richiedente), le acquisizione di documenti, secondo le modalità indicate nell’accordo stesso. L’articolo 4 sancisce inoltre la piena utilizzabilità degli atti in tal
modo acquisiti. Trattasi tuttavia di un caso isolato del tutto peculiare
(150) Cfr. sul punto Cass. Sez. I, 19 febbraio 1979, Buscetta; Cass. Sez. V, 24 aprile
1985, Irtikabu; Cass. Sez. VI, 30 settembre 1988; Cass. 26 novembre 1987, Ammaturo,
Cass. 24 maggio 1985, Ortolani.
(151) Cass. 19 febbraio 1979, Sez. I, Buscetta.
(152) Reso esecutivo con D.L. 1° aprile 1978 in G.U. n. 90 del 6 aprile 1976, convertito in legge 30 aprile 1976, in G.U. n. 120 del 7 maggio 1976.
368
ove la rilevanza politica premeva in favore di un sollecito svolgimento
delle procedure e di una valutazione di prima mano degli elementi
probatori, e, purtroppo, senza seguito.
Il problema, dunque, come acutamente osservato (153), è più
vasto ed articolato, in quanto presuppone una analisi delle fonti convenzionali ai fini dell’accertamento della esistenza di norme di diritto
internazionale generale, di norme di convenzioni, di norme di diritto
interno che attribuiscono agli organi giudiziari poteri di acquisizione
probatoria diretta in territorio estero, tali da sanare il difetto di giurisdizione che mina alla base il metodo della acquisizione diretta.
Prima di affrontare la analisi delle fonti convenzionali, è opportuno individuare le caratteristiche di siffatto metodo di collaborazione
nelle relazioni interstatuali. La individuazione delle caratteristiche
consentirà di distinguere tale metodo dalle altre forme di assistenza
interstatuale le quali rientrano, quali specificazioni, nell’ambito della
rogatoria vera e propria, non investendo problemi di difetto di giurisdizione. Esse sono:
1. presenza della Autorità giudiziaria presso la quale è in corso il
procedimento o il processo nei territorio dello Stato estero ove devono essere compiuti atti di istruzione utili per il processo in corso;
2. assunzione diretta ed autonoma di atti istruttori in territorio
estero da parte della Autorità di cui al punto precedente. In particolare assunzione di tutti gli atti acquisibili mediante rogatoria internazionale, nel rispetto delle regole concernenti i rapporti fra Stati;
3. applicazione della legge processuale penale dello Stato cui
appartengono le autorità giudiziarie procedenti all’estero o, se tale
attività è disciplinata specificamente da fonti eonvenzionali, dalle
norme del trattato o dell’accordo.
Il fenomeno degli atti diretti di giurisdizione all’estero, dunque, non
va confuso:
1) con la possibilità che alla esecuzione dell’atto in adempimento
di una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale presenzi la
stessa autorità richiedente perchè in tale sorta di concelebrazione (vedi
apposito capitolo), definita da taluni «rogatoria integrata mista» (154),
mentre l’autorità richiedente porta con sè la conoscenza delle risultanze istruttorie già avviate e l’attitudine alla percezione immediata
(153) CASSANO, op. cit., pag. 251 e segg.
(154) Così, Corte Appello Roma, 24 maggio 1969, in Giur. it. 1970, II, 293.
369
della rilevanza della prova ai fini della decisione procedimentale o processuale, è pur sempre l’autorità locale, titolare dell’imperium e dei
conseguenti poteri coercitivi, a compiere l’atto, nel rispetto delle
garanzie formali che la sua legge impone, anche nella evenienza in cui
alla autorità assistita e presente all’atto venga consentito di suggerire
alla Autorità richiesta domande da porre o di indicare documenti da
sequestrare.
2) con la possibilità dello Stato italiano di far compiere l’atto
necessario in territorio estero direttamente a mezzo di agenti consolari, delegandoli nella loro circoscrizione. In questa ipotesi la esclusione
dell’intervento della Autorità Giudiziaria non può non far pensare ad
altro se non ad una forma atipica rogatoria consolare applicata in via
estensiva, al di fuori del normale spazio riconosciutole (che è quello
civile), consentita in via generale dalla convenzione di Vienna approvata con legge 9 agosto 1967 n. 804 (più diffusamente, vedi paragrafo
relativo alle rogatorie consolari).
La esistenza di norme di diritto internazionale generale, di norme
di convenzioni, di norme di diritto interno che attribuiscono agli organi giudiziari poteri di acquisizione probatoria diretta in territorio estero, attribuirebbe effettiva validità processuale agli atti compiuti all’estero valicando i normali sistemi internazionali, compensando il difetto di giurisdizione che mina alle radici il metodo della acquisizione
diretta.
A tali fini, in presenza, di un meccanismo di adattamento automatico del diritto interno al diritto internazionale generale, come
quello previsto dall’art. 10 comma 1 della Costituzione (l’ordinamento
giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmiente riconosciute), si tratta di verificare:
A. se nell’ordinamento internazionale sia o meno in vigore una
norma di portata generale che consenta ad uno Stato di svolgere attività di acquisizione probatoria nel territorio di un altro stato e imponga eventualmente a questo ultimo di prestare la propria assistenza allo
stato richiedente con forme di collaborazione attiva o di semplice tolleranza dell’agire altrui.
B. se esiste una norma internazionale particolare, inserita in un
trattato o in un accordo in cui è parte l’Italia, ovvero esiste un consenso dello Stato territoriale nel caso concreto che legittimi e renda
ammissibile il compimento di attività di assunzione diretta di atti all’estero da parte dell’A.G. italiana.
A] Al fine di accertare se si sia formata una norma consuetudinaria internazionale che legittimi il ricorso ad attività di acquisizione
370
diretta da parte di altri Stati nel proprio territorio, si analizzeranno
alcune significative manifestazioni della prassi degli Stati (convenzioni internazionali, corrispondenza diplomatica, istruzioni di governi ai
loro rappresentanti diplomatici, dichiarazioni e prese di posizione di
autorità statali, atti e risoluzioni di conferenze internazionali, leggi e
regolamenti statali, decisioni di autorità giudiziarie statali, comportamenti di un governo verso un altro) dal contenuto delle quali, per inferire il relativo atteggiamento degli Stati (155).
In più occasioni alcuni Stati hanno mostrato chiaramente di non
accettare che nel proprio territorio sia svolta attività giudiziaria diretta
da parte di organi stranieri, senza che sia stata formulata richiesta di
rogatoria e senza preventivo consenso. Essi avvertono, infatti, come lesivo dalle proprie prerogative sovrane l’espletamento autonomo di una
simile attività e talora sono arrivati a punire le persone ritenute responsabili della loro violazione (156).
• La necessità che attività di natura pubblica a favore di uno Stato
straniero vengano poste in essere nei territorio di uno Stato solo con il
suo benestare trova conferma nell’ordinamento austriaco secondo il
quale già la semplice presenza di funzionari esteri è considerata attività
ufficiale che richiede il consenso del Ministero federale della giustizia.
Una dimostrazione ancor piu rigorosa di tale orientamento è costituita
dalle rimostranze ripetutamente mosse per via diplomatica dall’Austria
all’Italia, perché alcune autorità giudiziarie italiane trasmettevano
direttamente a mezzo posta ad imputati dimoranti in territorio austriaco l’avviso di procedimento di cui all’art. 177-bis c.p.p. abrogato, contravvenendo alla disciplina contenuta negli art. 7 della convenzione europea di assistenza giudiziaria penale e VI dell’accordo aggiuntivo (157).
(155) Cfr. in tal senso POCAR, L’assistenza giudiziaria internazionale in materia
civile, Padova, 1967.
(156) Cfr. quanto avvenuto in Svizzera nei riguardi di appartenenti al SISMI che
stavano svolgendo indagini nei confronti di Francesco Pazienza, lo scambio di note tra
Svizzera e Governo italiano in rapporto al caso di Elio Ciolini e la contestazione da
parte delle autorità elvetiche dell’art. 271 c.p. elvetico, secondo cui è punibile con pena
privativa della libertà chiunque compia qualsivoglia attività di carattere statale per conto
di uno stato estero senza essere stato autorizzato dall’autorità svizzera competente; cfr.
altresì i contrasti insorti fra autorità svizzere e autorità francesi per presunte attività
illegali che appartenenti alla guardia di finanza di Parigi avrebbero esercitato in territorio svizzero al fine di individuare esportatori di capitali.
(157) Cfr. circolare n. 486/83 dell’ufficio III del Ministero di Grazia e Giustizia Italiano, in data 3 novembre 1983.
371
Tale comportamento è ancor piu significativo, in quanto manifestato in
rapporto a problemi di notificazione di atti processuali e non al compimento di attività di acquisizione probatoria. Secondo le autorità
austriache, infatti, non è illecito solo il fatto che agenti stranieri operino nel territorio di uno stato, ma, ad integrare una violazione della
sovranità di questo, è sufficiente che una qualsiasi attività pubblica
venga comunque compiuta nel suo territorio, senza il suo consenso, a
favore di un altro paese.
• L’assenza di ogni diritto all’assistenza giudiziaria penale a favore di un altro stato trova una concreta espressione nella legislazione
della Svizzera. La legge federale del 20 marzo 1981 che, in base all’art.
1 disciplina, in quanto convenzioni internazionali non dispongano altrimenti tutti i procedimenti della cooperazione internazionale in materia
penale..., stabilisce che la presente legge non conferisce alcun diritto alla
cooperazione internazionale in materia penale (art. 1, ultimo comma).
È, da ricordare anche il contenuto della direttiva del 15 ottobre 1982
emanata dall’ufficio federale di polizia di Berna in cui si distingue tra
la semplice presenza e l’esecuzione di un atto ufficiale sul territorio Svizzero da parte di autorità estere e si sottolinea che l’esecuzione autonoma
di atti ufficiali deve essere autorizzata soltanto se l’assistenza giudiziaria
con la mediazione di un funzionario svizzero risulti impossibile o senza
senso come è il caso di un sopralluogo... in ogni modo è indispensabile
a proposito, l’autorizzazione del Dipartimento federale di giustizia e polizia... che deve essere richiesta all’ufficio federale di polizia.. una autorizzazione cantonale è ugualmente necessaria in ogni caso.
Lo stesso atteggiamento degli Stati nel rispondere alle richieste di
assistenza giudiziaria diretta loro rivolte dall’Italia depone in tal senso:
• in una vicenda giudiziaria in cui l’autorità giudiziaria italiana ha
chiesto di consentire l’assunzione diretta di alcune prove, le autorità
della Repubblica Federale tedesca hanno risposto che gli interrogatori
sarebbero stati assunti dal giudice tedesco competente alla presenza
dell’autorità giudiziaria richiedente. (158).
• La risposta negativa data dalla Procura Generale e dal Ministero di Grazia e Giustizia francese ad una richiesta di escussione diretta proveniente dall’autorità giudiziaria italiana, risposta motivata
(158) Cfr. richiesta di interrogatorio quale imputato di reato commesso di Simon
B.W. dal Tribunale di Genova nell’ambito del procedimento contro Muller e Schract sentenza Tribunale Genova n. 1479 del 26 giugno 1980; cfr. Corte Appello Genova 12 febbraio 1981 n. 235.
372
con la inderogabilità del rispetto sul territorio della Francia della sovranità del suo ordinamento giuridico, non potrebbe significare che
occorra una convenzione internazionale perché l’attività possa essere autorizzata (159).
Anche gli Stati a favore dei quali vengono compiute in territorio straniero attività di acquisizione probatoria riconoscono l’esigenza che lo
Stato territoriale ne autorizzi l’espletamento
• È questo il punto di vista espresso, ad esempio, dal Ministero
degli Affari Esteri italiano in una parere dell’ottobre 1987 predisposto
dal servizio del contenzioso diplomatico del Ministero e trasmesso alla
ambasciata italiana in Giappone in risposta ad una richiesta di istruzioni di quest’ultima in merito alla possibilità che un’autorità giudiziaria italiana procedesse all’interrogatorio di un cittadino italiano,
nei locali dell’ambasciata, senza domandare preliminarmente l’assenso delle competenti autorità giapponesi (160).
L’esistenza di una norma di diritto internazionale generale che vista
l’assunzione diretta di prove in territorio straniero è ben evidente, inoltre, nel fatto che gli Stati si ritengono vincolati, in proposito, solo da
eventuali trattati, entro i limiti in esso specificati. Un indice della veridicità di tale assunto è costituito dal carattere di reciprocità su cui tali
accordi sono basati e dalla circostanza che le parti hanno il diritto di
porre delle limitazioni o addirittura di escludere, in relazione al caso concreto, la prestazione della propria assistenza.
Assai di rado gli Stati si impegnano convenzionalmente a tollerare
attività di organi stranieri sul proprio territorio, preferendo semmai svolgere essi stessi gli atti richiesti dall’estero e consentendo di solito che le
autorità richiedenti assistano all’esecuzione, collaborandovi talora in
maniera significativa.
• Ciò è confermato dalla convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale (vedi soprattutto artt. 2, 4, 5, e 6 ) e dalla riser-
(159) Cfr. Corte d’Assise di Palmi 23 aprile 1985, Piromalli.
(160) Cfr. altresì circolare del 16 febbraio 1981 del Ministero di Grazia e Giustizia
italiano ufficio II affari penali in cui è testualmente evidenziato, con riguardo al compimento diretto di atti di attività di acquisizione probatoria all’estero; tali attività sollevano un problema di incompatibilità con il potere giudiziario del paese straniero e quindi toccano uno dei più delicati aspetti della sovranità di uno stato. Deve, quindi, evitarsi
di procedere agli atti in questione senza che vi sia il necessario consenso della competente autorità del paese interessato. Il consenso deve essere ottenuto a seguito di contatti tra
i governi.
373
va di specialità apposta dall’art. 2 lett. b) dalla Svizzera, (161) la quale
ha sempre fermamente protestato contro il mancato rispetto della
limitazione specificata nella propria riserva.
La convenienza europea di assistenza giudiziaria in materia penale
non prevede alcuna ipotesi di vera e propria assunzione diretta.
Sulla base di sopra esposto è indubbio che non esiste una norma di diritto internazionale generale che consenta il compimento di attività di acquisizione probatoria diretta nel territorio di altri Stati; l’espletamento diretto all’estero di attività di acquisizione probatoria da parte dell’autorità giudiziaria
italiana non è consentita da una norma internazionale generale che legittimi
ciò, al di là di qualsiasi atteggiamento dello Stato interessato (162).
Ad ogni stato è fatto obbligo di astenersi da compiere, per mezzo
di propri organi, atti di imperio, come quelli in cui si concreta l’esercizio della giurisdizione, nel territorio di un altro stato. Atti simili,
infatti, comporterebbero la violazione della sovranità dello stato territoriale che ha tutto il diritto di escluderli.
B] Quanto al punto B., sono già state anticipate le conclusioni, nel
senso che l’unica convenzione di cui è dato sapere che riconosce specificamente il metodo della acquisizione diretta è l’accordo
Italia-U.S.A. del 1979 relativo allo scandalo Lockeed.
Tuttavia è opportuna una analisi puntuale del contenuto delle
fonti convenzionali in base alle quali l’Autorità Giudiziaria italiana
può svolgere, anche se genericarnente, la sua attività all’estero, in
quanto occorre poi affrontare il problema relativo alla possibilità di
considerare legittime, dal punto di vista dell’ordinamemnto italiano, le
attività in questione.
(161) La Svizzera si riserva inoltre il diritto, in casi speciali, di non accordare assistenza giudiziaria in base alla convenzione se non alla condizione espressa che i risultati delle investigazioni compiute in Svizzera e le informazioni contenute nei documenti o incartamenti trasmessi siano utilizzati esclusivamente per l’istruttoria e il giudizio in ordine ai reati in rapporti ai quali l’assistenza viene concessa.
(162) Una conclusione del genere non è smentita neppure dal contenuto di un
documento dell’assemblea generale del 4 aprile 1983 predisposto a mo’ di guida per le riunioni regionali e interrogionali, in vista del VII congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti. In tale documento si legge: la cooperazione internazionale in materia... di giustizia penale... tende a divenire un obbligo per ciò che
concerne la criminalità internazionale e le varie forme di criminalità che interessano diversi paesi, qualunque sia il luogo dove i fatti si sono realizzati. Conseguentemente l’O.N.U.
dovrebbe intraprendere la codificazione del diritto penale internazionale per quanto attiene
ai crimini gravi. In questo elaborato non si riconosce l’esistenza di un obbligo, ma si allude ad un processo in atto che potrebbe condurre alla nascita dell’obbligo stesso.
374
Le norme convenzionali predette possono essere suddivise in base
all’epoca storica e al loro contenuto.
• un primo gruppo di accordi bilaterali, tutti risalenti alla fine del
XIX secolo e all’inizio del XX, conclusi con paesi dell’America Latina
e con il Principato di Monaco che riservano alle norme in tema di cooperazione internazionale uno spazio del tutto secondario rispetto alle
norme in materia di estradizione e non contengono alcuna disposizione in tema di assunzione diretta o di possibilità delle autorità richiedenti di assistere all’espletamento degli atti richiesti. Questi trattati
prevedono soltanto il reciproco obbligo per gli stati membri di dare
esecuzione in conformità con le proprie leggi alle rogatorie penali
aventi ad oggetto un qualsiasi atto di istruzione giudiziaria (163).
• un secondo gruppo di convenzioni internazionali, collocabili tra
il 1920 e il 1950, che danno veste più specifica al tema dell’assistenza
per l’espletamento di attività di acquisizione probatoria e contemplano in alcuni casi l’eventualità che, su espressa domanda, dell’autorità
richiedente, l’autorità richiesta la informi del luogo e della data in cui
si procederà all’esecuzione sulla rogatoria, affinché le parti interessate
siano in grado di assistervi (164).
(163) Cfr. artt. 1, 2 e 7 della convenzione per l’esecuzione delle lettere rogatorie e di giudicati, conclusa tra Italia-Argentina sottoscritta a Roma l’1 agosto 1887, ordine di esecuzione R.D. 19 gennaio 1902; l’art. 29 del Trattato di Amicizia e di estradizione Italia-Bolivia
sottoscritto a Lima il 18 ottobre 1990, ordine di esecuzione legge 17 marzo 1901 n. 95; l’art.
13 della convenzione Italia-Costarica per la reciproca estradizione dei malfattori sottoscritto
a Roma il 6 maggio 1873, ordine di esecuzione R.D. 23 aprile 1875 n. 2454, rimesso in
vigore con scambio di note 23 maggio/28 giugno 1949; l’art. 13 della convenzione di estradizione dei malfattori sottoscritto tra Italia-El Salvador a Guatemala il 29 marzo 1971, ordine di esecuzione R.D. 5 gennaio 1873 n. 1228, entrata in vigore il 21 settembre 1873,
rimessa in vigore a decorrere dal 18 febbraio 1948; l’art. 15 del trattato di estradizione sottoscritto tra Italia e Messico il 22 maggio 1899, ordine di esecuzione R.D. 31 ottobre 1899
n. 420, entrato in vigore il 12 ottobre 1899, rimesso in vigore con nota del Messico del 27
settembre 1948 n. 513761; l’art. 13 della convenzione di estradizione dei malfattori, conclusa tra Italia e Principato di Monaco, sottoscritta a Firenze il 26 marzo 1866, ordine di esecuzione R.D. 20 maggio 1866 n. 2940; l’art. 16 del trattato di estradizione sottoscritto tra Italia e Paraguay all’Assunzione il 30 settembre 1907, ordine di esecuzione R.D. 11 maggio
1911 n. 501.
(164) Cfr. Serbo-croato art. 8 ultimo comma della convenzione tra Italia e Regno sloveno riguardante la protezione legale e giudiziaria dei rispettivi sudditi, sottoscritta a
Roma il 6 aprile 1922, ordine di esecuzione R.D. 13 dicembre 1923, n. 3182, entrata in
vigore il 6 febbraio 1931, rimessa in vigore con nota della Jugoslavia del 25 febbraio
1948 n. 136; gli artt. 6 e ss. della convenzione Italia-Ungheria, relativa alla protezione
legale dei rispettivi sudditi, sottoscritta a Roma il 6 aprile 1922 ordine di esecuzione
R.D. 13 dicembre 1923 n. 3179, entrata in vigore il 2 febbraio 1927.
375
• un terzo gruppo di accordi internazionali più recenti aggiunge
alla possibilità sopra illustrata (per la quale si specifica che l’assistenza avverrà nelle condizioni previste dalla legge in vigore nel paese in
cui l’esecuzione deve aver luogo), quella, sempre su esplicita domanda
dell’autorità giudiziaria richiedente, di eseguire una rogatoria penale
secondo delle forme speciali, compatibili con l’ordinamento dello Stato
richiesto; ciò in ossequio all’esigenza che le prove raccolte per rogatoria siano legittimamente utilizzabili nel processo in corso davanti
all’autorità richiedente (165).
La convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale ammette all’art. 4 che le autorità e le persone in causa possano assistere all’esecuzione della rogatoria sempre che una espressa domanda
in tal senso sia stata avanzata dallo stato richiedente. Sottopone peraltro tale possibilità all’ulteriore condizione che lo stato richiesto vi
abbia consentito. Nel rapporto esplicativo sulla convenzione si specifica che l’espressione assiste significa essere presente, riconoscendo
alle persone autorizzate ad assistere all’espletamento di atti di assistenza
giudiziaria di proporre domande o misure suppletive attinenti agli atti
stessi (166).
In maniera analoga dispone l’accordo aggiuntivo alla stessa convenzione concluso con la Repubblica Federale tedesca secondo il
quale... i rappresentanti delle autorità giudiziarie competenti e delle parti
(165) Cfr. artt. 11 e 17 della convenzione Italia-Francia, attualmente in vigore con la
sola Algeria, concernente la reciproca assistenza giudiziaria, sottoscritta a Roma il 12
gennaio 1955, ordine di esecuzione legge 19 febbraio 1957, n. 155, entrata in vigore il
2 aprile 1959; artt. 40, 45 della convenzione relativa all’assistenza giudiziaria reciproca in
materia civile, commerciale e penale, all’esecuzione delle sentenze e delle decisioni arbitrali ed all’estradizione sottoscritta tra Italia e Libano a Beirut il 10 luglio 1970, ordine
di esecuzione legge 12 febbraio 1974 n. 87, entrata in vigore il 17 maggio 1975; artt. 10,
15 della convenzione di reciproca assistenza giudiziaria, di esecuzione delle sentenze e di
estradizione, sottoscritta a Roma il 12 febbraio 1970 tra Italia e Marocco, ordine di esecuzione legge 12 dicembre 1973 n. 1043, entrata in vigore il 22 maggio 1975; artt. 40,
45 della convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia civile, commerciale e
penale, al riconoscimento e all’esecuzione della sentenze e all’estradizione conclusa tra
Italia e Tunisia, sottoscritta a Roma il 15 novembre 1967, ordine di esecuzione legge 18
gennaio 1971 n. 267, entrata in vigore il 19 aprile 1972; artt. 4, 7 e ss., 11, 25, 28 della
convenzione concernente l’assistenza giudiziaria in materia civile e penale sottoscritta tra
Italia e Romania a Bucarest l’11 novembre 1972, ordine di esecuzione legge 20 febbraio
1975 n. 127 entrata in vigore il 4 agosto 1975.
(166) Cfr. Legge n. 628 del 9 aprile 1977 contenente ordine di esecuzione del predetto accordo entrato in vigore il 27 novembre 1977.
376
in causa che siano state autorizzate a presenziare all’espletamento di atti
di assistenza giudiziaria, possono proporre domande e chiedere provvedimenti attinenti agli atti di assistenza giudiziaria.
Inoltre, la Raccomandazione n. R (80) 8 del Comitato dei Ministri
agli Stati membri concernente l’attuazione della Convenzione Europea di
assistenza giudiziaria in materia penale consiglia: nell’applicare l’art. 4
della Convenzione e sotto riserva delle disposizioni della propria legge
interna, l’Autorità competente dello stato richiesto dovrebbe far largo uso
della facoltà di permettere alle autorità dello stato richiedente ed alle persone in causa di assistere all’esecuzione delle commissioni rogatorie e di
collaborare a ciò in ogni misura possibile (167).
L’art. 14 del trattato di mutua assistenza in materia penale fra Italia e U.S.A. prevede all’art. 14 che: a richiesta, lo stato richiesto indicherà la data e il luogo della comparizione. Lo stato richiesto consentirà
la presenza di un imputato, del suo difensore e delle persone incaricate
dell’applicazione delle leggi penali cui si riferisce la richiesta. L’autorità
che esegue la richiesta consentirà alle persone autorizzate ad essere presenti di proporre domande al testimone in conformità con leggi dello
stato richiesto. L’autorità che esegue la richiesta consentirà alle persone
autorizzate ad essere presenti di proporre ulteriori domande e di chiedere l’esecuzione di altri atti istruttori. I diritti del testimone previsti dalle
leggi dello stato richiedente non possono esser invocati nell’esecuzione
della richiesta, ma saranno fatti salvi nello stato richiedente.
L’accordo stipulato il 29 marzo 1976 fra Ministero di Grazia e Giustizia e il Dipartimento della giustizia statunitense in relazione al caso
Lockeed, che è l’unico a prevedere, come già anticipato, che le autorità
giudiziarie di uno Stato compiano direttamente atti di istruzione in
territorio straniero.
Si può, dunque, affermare che alcuni Stati concedono (o possono concedere) alle autorità giudiziarie italiane la facoltà di compiere determinate attività di acquisizione probatoria di natura penale
nel loro territorio, in conformità con i trattati che le prevedono. L’esercizio concreto di tale facoltà, nei termini e secondo le modalità
stabilite da questi trattati, è pienamente lecito sul piano del diritto
(167) Nella stessa Raccomandazione si legge anche: nel dare seguito alla domanda
di assistenza l’autorità competente dello stato richiesto dovrebbe ispirarsi ai principi contenuti nell’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, in particolare l’autorità
richiesta, dovrebbe dar seguito alla domanda il più rapidamente possibile...
377
internazionale nonostante l’esistenza della norma generale sulla
sovranità territoriale. Altre disposizioni permettono alle autorità
giudiziarie italiane l’esercizio in territorio straniero di alcuni dei loro
poteri, collocando tale esercizio nel più ampio contesto di una rogatoria italiana eseguita dalle competenti autorità dello stato cui è
avanzata la domanda di cooperazione. In casi siffatti si è in presenza di una realtà diversa da quella della esecuzione autonoma di atti
all’estero, come sopra osservato. Questa distinzione, tuttavia, non
incide sul fatto che nel diritto internazionale pattizio esistono norme
che autorizzano e, quindi, rendono lecito, a determinate condizioni,
l’esercizio di poteri di acquisizione probatoria nel territorio di uno
stato da parte di organi giudiziari di un altro stato. Si tratta, ora, di
verificare se, con l’adattamento dell’ordinamento italiano alle convenzioni internazionali, siano state introdotte sul piano dell’ordinamento interno delle norme speciali in forza delle quali si debba ritenere ammissibile lo svolgimento di attività di acquisizione probatoria nel territorio di stati membri da parte dell’autorità giudiziaria italiana.
Con riguardo alle convenzioni internazionali per le quali si è fatto
ricorso all’emanazione di un ordine di esecuzione, non sorgono particolari problemi per l’applicazione di tutte quelle norme convenzionali
che pongono allo stato obblighi di assistenza nei confronti di altri
paesi membri. L’ordine di esecuzione, infatti, determina nell’ordinamento giuridico interno tutte quelle modifiche che sono necessarie,
affinché lo stato italiano rispetti gli impegni assunti convenzionalmente verso altri stati (vedi vicenda Lockeed).
La questione è più complessa qualora la convenzione internazionale non contempli un obbligo, ma una mera facoltà e la attribuisca
allo Stato e non direttamente all’uno o all’altro dei suoi organi (168).
(168) Ad esempio l’art. 4 della Convenzione Europea di assistenza giudiziaria in
materia penale conferisce allo stato italiano, quando una sua autorità giudiziaria abbia
avanzato una richiesta di rogatoria eseguibile ai sensi della convenzione in oggetto, la
facoltà di chiedere allo stato in cui la rogatoria deve eseguirsi, quelle informazioni che
mettano in grado l’autorità giudiziaria italiana richiedente di assistere all’esecuzione.
Quindi lo stato italiano ha il potere (salvo l’assenso dello stato rogato) di essere presente in territorio straniero, tramite un suo organo giudiziario, al compimento di attività di acquisizione probatoria e in tale potere è compreso quello di porre domande
agli interrogandi o di chiedere altri provvedimenti (cfr. citati accordi aggiuntivi stipulati tra Italia e Austria e Italia e Germania). La convenzione, però attribuisce tale potere allo stato e non specificamente alla sua autorità giudiziaria.
378
In tali casi l’ordine di esecuzione si limita ad inserire nell’ordinamento italiano la detta facoltà statale e spetta poi allo stato, con un
proprio provvedimento, decidere se e in che misura ammetterne l’esercizio da parte dell’autorità giudiziaria italiana, oppure introduce
nel nostro ordinamento interno anche tutte le modifiche necessarie
per il concreto esercizio di quella facoltà da parte dell’autorità giudiziaria italiana?
Al riguardo, condivisibile è l’opinione secondo la quale “le convenzioni sull’assistenza giudiziaria internazionale rinviano in larga
misura, esplicitamente o implicitamente, per la determinazione dei
presupposti di esercizio delle attività da esse consentite, alla legislazione interna di ciascun stato contraente, con la conseguenza che l’ordine di esecuzione non può produrre, nei limiti in cui tale rinvio viene
effettuato, alcuna modificazione dell’ordinamento interno di tale
stato” (169).
Nel caso in cui una norma interna, invece, non ammetta lo svolgimento di determinate attività degli organi dello stato e tali attività
siano previste da una convenzione internazionale, l’adattamento alla
convenzione può produrre una variazione dell’ordinamento interno
per adeguarlo alle esigenze da esso derivanti. Ciò, ovviamente, è possibile solo in tanto, in quanto la convenzione non rinvii, per la determinazione dei presupposti di esercizio delle attività da essa consentite, alla legislazione interna degli stati contraenti.
In base al nostro sistema, perciò, gli organi giurisdizionali potranno ricorrere all’assistenza giudiziaria di stati stranieri sono nei limiti
in cui il ricorso a tale assistenza sia consentito dalle norme interne di
diritto comune, essendo escluso che l’ordinamento interno possa subire modificazioni conseguenti al suo adattamento alle esigenze proprie
delle convenzioni internazionali in materia.
Inoltre, potrebbe accadere che lo stato di cui una facoltà è attribuita neghi espressamente o disciplina in maniera restrittiva, con un
provvedimento interno, la possibilità per l’autorità giudiziaria di esercitare quella facoltà (170).
(169) Cfr. in tale senso CASSANO, op. cit., pag. 262 e segg.; POCAR, L’assistenza
giudiziaria, cit., pag. 250 e segg.
(170) Si cita, a mero titolo esemplificativo, la legge federale svizzera per l’assistenza internazionale in materia penale, la quale nell’articolo 13 comma 2 e 3 lett. a)
stabilisce che sia l’ufficio federale a presentare le domande svizzere, dopo aver deciso
sulla loro ammissibilità.
379
È da ritenersi, quindi, a meno di non promuovere, al momento in
cui viene adottato l’ordine di esecuzione, la volontà dello stato italiano di esercitare senz’altro, attraverso i propri organi, le facoltà conferitegli da un accordo internazionale, cui l’Italia ha aderito, che l’ordine di esecuzione si limiti ad attribuire rilevanza, nell’ordinamento
interno, a quanto convenuto nel trattato, ossia alla possibilità per il
nostro stato di esercitare esso stesso, e non tramite l’uno o l’altro dei
suoi organi, determinate facoltà.
La questione è stata parzialmente affrontata, in relazione all’abrogato codice di rito, da parte della giurisprudenza, la quale peraltro non
si è pronunziata espressamente sulla questione concernente la portata da attribuire ad una norma internazionale pattizia che conferisca
una facoltà allo stato italiano in quanto tale:
• Nella sentenza della Suprema Corte, sez. I, 21 marzo 1973, ricorrente Comandi, si osserva, ad esempio, che il giudice italiano ha, per
dovere di istituto e nei limiti segnati dal diritto interno, l’obbligo di avvalersi della facoltà prevista dall’art. 4 della convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale (ossia della facoltà di essere informata del luogo e della data di eseuzione della rogatoria) in caso di
rogatoria attiva di atti per i quali gli adempimenti di cui agli artt. 304
e ss. c.p.p. sono richiesti a pena di nullità e a tutela del diritto di difesa. In tale decisione la Corte di Cassazione pare manifestare l’opinione che l’art. 4 della convenzione europea di assistenza giudiziaria in
materia penale attribuisca direttamente al giudice italiano la facoltà di
chiedere di potere assistere all’esecuzione della rogatoria avanzata e
che l’autorità giudiziaria italiana alla luce del diritto interno, abbia
piena discrezionalità nella scelta di avvalersi o meno della predetta
facoltà.
• In senso analogo si è espressa la Cassazione, Sez. I, 21 febbraio 1983, Von Arb, secondo la quale: la facoltà per il giudice italiano di assistere all’esecuzione della rogatoria attiva, secondo quanto previsto dall’art. 4 della convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale... è rimessa al consenso dell’autorità giudiziaria richiesta e non si concreta in un obbligo per il giudice stesso di
assistervi.
• La giurisprudenza di merito è univocamente attestata nel ritenere che, in seguito all’entrata in vigore di una convenzione internazionale la quale attribuisce allo stato italiano la facoltà di esercitare
all’estero determinati poteri di natura giudiziaria, non sussiste alcun
ostacolo a che i magistrati italiani, in quanti titolari di analoghi pote-
380
ri sul piano interno, esercitino una corrispondente facoltà, se lo ritengano opportuno (171).
Sulla base di quanto sinora illustrato si può concludere che, in
presenza di convenzioni internazionali che autorizzano il compimento di atti diretti all’estero da parte dell’autorità richiedente o in presenza di un consenso manifestato al riguardo dal paese straniero, il
compimento di attività dirette di acquisizione probatoria da parte dell’autorità giudiziaria italiana può ritenersi lecito sul piano del diritto
italiano solo se sia ammissibile alla luce delle norme interne di diritto
comune e sempre nei limiti in cui sussista il consenso dello stato territoriale.
A questo punto si impone la verifica se l’autorità giudiziaria italiana, sulla base di norme interne, sia titolare o meno del potere di
trasferirsi all’estero per partecipare all’assunzione o per assumere
una prova penale utile per il procedimento/processo pendente dinanzi a Lei.
Non è corretto ermeneuticamente rinvenire il fondamento della
legittimità della attività di assunzione diretta all’estero nella locuzione
altri rapporti con le autorità straniere presente nell’articolo 696 c.p.p.,
in quanto si partirebbe già dal presupposto che le attività in parola
siano di per sé lecite e si attribuirebbe un significato univoco ad un
espressione normativa di per sé ambigua (172).
L’espletamento di atti diretti di giurisdizione in territorio straniero alle condizioni in precedenza specificate, deve ritenersi ammissibile alla luce dei principi generali dell’ordinamento giuridico (art. 12
preleggi).
Il fondamento giuridico dell’espletamento di atti diretti all’estero
è costituito da taluni principi generali del processo penale italiano
(art. 12 disp. prel.), che contraddistinguono rispettivamente la fase
delle indagini preliminari e quella del dibattimento (173).
Sotto il primo profilo, il Pubblico Ministero ha l’obbligo di compiere indagini organiche, complete, dirette a ricercare ed acquisire
fonti di prova, espletare attività, atti ed accertamenti volti a stabilire la fondatezza della notizia di reato in vista delle determinazioni
(171) Cfr. in tal senso per tutte ordinanze del 30 settembre 1975 e del 7 ottobre 1975
emesse dal Tribunale di Roma nel procedimento penale contro Katz ed altri.
(172) CASSANO, op. cit., pag. 262 e segg.
(173) In senso conforme, CASSANO, op. cit., pag. 262 e segg.
381
in ordine all’eventuale esercizio dell’azione penale. È indubbio che
le trasferte all’estero dei magistrati italiani sono per lo più motivate
con la necessità di acquisire elementi che consentano un’adeguata
impostazione e un proficuo sviluppo di indagini relative a fatti particolarmente complessi per la vastità ed articolazione del disegno
criminoso, per il numero delle persone in esso coinvolte, per le
modalità di commissione delle azioni criminose che possono svilupparsi attraverso più paesi. Basti pensare a tale proposito ai delitti di natura associativa (associazioni sovversive, assimilabile, associazioni per delinquere finalizzate a traffici di armi), ai delitti connessi a talune di queste manifestaizoni criminose (omicidi, riciclaggio, reimpiego di capitali), nonché ai delitti in materia fallimentare,
societaria, economica. È innegabile che in tutti questi casi la possibilità (ove non siano assicurate dalle autorità straniere altre forme
di cooperazione internazionale) di procedere all’espletamento di
determinati atti ed attività rappresenti l’unico modo per assumere
fondatamente le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione
penale. Diversamente ragionando e negando l’ammissibilità dell’espletamento all’estero di atti diretti di giurisdizione, (qualora non
siano possibili altre forme di cooperazione internazionale e, comunque, sempre in presenza del consenso dello stato estero), si arriverebbe a proporre una soluzione che, incidendo sull’effettività del
potere-dovere di indagine del P.M., potrebbe essere in contrasto con
i principi costituzionali e, in particolare, con l’art. 112 della Costituzione (174).
Con riguardo al secondo aspetto, il dibattimento è contraddistinto
dai caratteri dell’accusatorietà, dell’oralità, dell’immediatezza, della
concentrazione ed è il luogo naturale deputato alla formazione della
prova nel pieno contraddittorio tra le parti. Il giudice del dibattimento, peraltro, in tanto potrà adottare una decisione, in quanto, su
impulso delle parti e nell’ulteriore ambito stabilito dagli artt. 506 e 507
c.p.p., sia stato fatto tutto ciò che è necessario per l’acquisizione delle
prove in vista della pronunzia di una sentenza in ordine ai fatti sottoposti al suo esame.
Di conseguenza, qualora determinate attività di acquisizione probatoria, assolutamente necessarie per l’adozione della decisione, pos-
(174) Conformemente VAUDANO, op. cit., pag. 276 e segg.: CASSANO, op. cit.,
pag. 262 e segg.
382
sano essere espletate soltanto all’estero e la rogatoria non possa essere celebrata, è principio processuale generale la possibilità per il giudice italiano di espletare, con il consenso dello stato richiesto (e sempre che non siano assicurate altre forme di cooperazione internazionale) atti diretti di giurisdizione all’estero in vista dell’acquisizione di
tutte quelle prove, non altrimenti conseguibili, indispensabili per l’accertamento organico e completo dei fatti e per la conseguente pronunzia di una sentenza.
Sulla base di tali premesse, si può ritenere ammissibile, alla luce
delle norme interne comuni e, in particolare, alla luce dei principi generali dell’ordinamento giuridico (art. 12 preleggi), l’espletamento di atti
diretti di giurisdizione in territorio straniero alle condizioni in precedenza specificate e riassunte:
1. consenso espresso dallo Stato straniero;
2. assoluta necessità di acquisizione dell’atto istruttorio ai fini della
determinazione del P.M. circa l’esercizio dell’azione penale;
3. assoluta necessità di acquisizione dell’atto istruttorio ai fini della
decisione finale del giudice del dibattimento;
4. impossibilità di procedere alla acquisizione degli atti attraverso
rogatoria internazionale.
Riconosciuta la possibilità interna di esecuzione di atti diretti di
giurisdizione in territorio straniero, si tratta di stabilire quale sia la
disciplina applicabile e le modalità da seguire nel disporre prima, e nel
procedere, poi, all’assunzione diretta.
All’uopo occorre distinguere a seconda che l’espletamento di atti
diretti di giurisdizione all’estero avviene sulla base di un trattato internazionale, il quale disciplina espressamente la materia o sulla base di
un trattato internazionale che si limiti ad accordare una facoltà allo
stato richiedente o che non disciplina espressamente la questione.
Nel primo caso, l’autorità procedente dovrà innanzitutto attenersi
alle norme del trattato. Di conseguenza ai fin dell’inoltro della richiesta, della individuazione degli atti suscettibili di esecuzione, delle
modalità di svolgimento degli atti si applicheranno le norme del trattato e i criteri di valutazione degli atti così assunti dovranno tenere
conto di quanto disposto dalle norme pattizie in tema di forme di esecuzione, salva la loro compatibilità con i principi generali sanciti dall’art. 31 delle preleggi.
Nel secondo caso, l’autorità giudiziaria italiana potrà esercitare i
propri poteri solo secondo la legge italiana, in virtù della quale è stata
investita di quei poteri: tali eventualità presuppongono, comunque, il
preventivo consenso dello stato straniero al compimento, da parte di
383
un’autorità giudiziaria straniera, di atti diretti di giurisdizione e implicano il preventivo controllo della rispondenza dell’attività che si vuole
espletare con i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico straniero; diversamente, l’espletamento di questi atti darebbe luogo ad
una violazione della sovranità dello stato straniero e sarebbe illegittimo sia per il diritto internazionale sia per l’ordinamento italiano, in
base all’art. 10, 1° comma della Costituzione. Come più volte detto, il
difetto di giurisdizione che mina alla base il metodo della assunzione
diretta è sanato attraverso l’accordo interstatuale con cui venga
espresso il consenso alla esplicazione di poteri giurisdizionali ultraterritoriali.
È indubbio, comunque, che l’autorità giudiziaria all’estero è completamente sfornita di poteri coercitivi e che, quindi, quando si tratta
di compiere atti o attività per le quali l’uso di tali poteri è necessario è
indispensabile il ricorso alla rogatoria (o all’estradizione, quanto si
tratta di dare esecuzione all’estero a ordinanze di custodia cautelare
emesse dall’autorità giudiziaria italiana) come unica forma di cooperazione internazionale.
2. La rogatoria consolare.
La rogatoria consolare in materia penale è una forma atipica di
collaborazione internazionale in virtù della quale uno Stato compie, in
conformità alle convenzioni internazionali e alle leggi dello Stato di
residenza, gli atti necessari per un procedimento penale ivi pendente
direttamente a mezzo dei suoi agenti consolari, delegandoli nella loro
circoscrizione.
Il sistema delle rogatorie consolari è previsto e disciplinato:
a) dalla Convenzione di Vienna del 24 aprile 1963 approvata con
L. 9 agosto 1967 n. 804;
b) dal D.P.R. 5 gennaio 1967 n. 200. Quest’ultimo, nell’articolo 30,
stabilisce che l’autorità consolare compie gli atti istruttori ad essa delegati dall’autorità nazionale competente, riceve le dichiarazioni anche
giurate, da chiunque rese, che debbano valere in giudizi nazionali.
Lo spazio nomalmente riconosciuto alla rogatoria consolare è
quello civile (175), tuttavia il generico richiamo operato dall’art.
(175) Cass. Civ. sez. I, 14 aprile 1969, n. 1186.
384
30 del D.P.R. 200/67 al concetto di atti di istruzione ha indotto
parte della dottrina e della giurisprudenza a ritenere applicabile in
via estensiva la disposizione anche nel settore penale, per cui uno
stato potrebbe compiere gli atti necessari anche direttamente a
mezzo dei suoi agenti consolari, delegandoli nella loro circoscrizione (176).
L’utilizzazione di questa forma atipica di collaborazione comporta un sistema di acquisizione probatoria diretta, che implica un
comportamento anche meramente passivo da parte dello Stato
richiesto.
La dottrina e la giurisprudenza che hanno ritenuto applicabile in
via estensiva nel settore penale questa forma atipica di rogatoria consolare, fanno riferimento:
• art. 356, comma 2 codice di procedura penale previgente;
• art. 453, comma 4 c.p.p. codice di procedura penale previgente;
• art. 206 codice procedura penale vigente, che riproduce il contenuto dei due articolo precedenti;
• art. 30 del D.P.R. 5 gennaio 1967 n. 200.
Ai sensi dell’art. 356, 2° comma c.p.p. abrogato, se doveva essere
sentito come testimone un agente diplomatico o l’incaricato di una
missione diplomatica all’estero, durante la sua residenza fuori del territorio dello Stato, la richiesta per l’esame veniva trasmessa, tramite il
Ministero di Grazia e Giustizia, all’autorità consolare del luogo, la
quale procedeva all’assunzione del teste recandosi nel luogo indicato
dal testimone per riceverne la deposizione, dopo aver preso gli opportuni accordi.
L’art. 453 comma 4 c.p.p. abrogato, si limitava, invece, a rimandare all’art. 356 2° comma, abrogato c.p.p., per l’ipotesi che un’esigenza
del genere fosse sorta durante il dibattimento.
L’attuale art. 206 c.p.p. contiene una disposizione analoga a quella già contenuta nell’abrogato art. 256 comma 2 c.p.p., ma precisa che
si procede nelle forme ordinarie, quando il giudice ritiene indispensabile la comparizione per eseguire un atto di ricognizione o di confronto o per altra necessità.
(176) Cfr. in tal senso Cass. Sez. I 29 gennaio 1975, Blazic; e in dottrina BRANCACCIO, Metodi di cooperazione e assistenza giudiziaria, lettere e commissioni rogatorie,
trasferimento della procedura penale, in Diritto Penale Internazionale, atti del convegno,
1978; GALANTINI, La cooperazione internazionale nella ricerca e formazione della prova
penale, in Studi parmensi, 1982.
385
L’art. 30 del D.P.R. n. 200 del 1967 prevede che l’autorità consolare provvede, direttamente o tramite le autorità locali, in conformità
alle convenzioni internazionali e alle leggi dello stato di residenza, alla
notificazione degli atti ad essa rimessi a norma delle vigenti disposizioni e, inoltre, compie gli atti istruttori ad essa delegati dalle autorità
competenti; riceve altresì le dichiarazioni, anche giurate, da chiunque
rese, che debbano valere in giudizi nazionali. Essa trasmette direttamente gli atti espletati o ricevuti all’autorità nazionale competente.
Non è condivisibile un’interpretazione estensiva fondata sugli articoli del codice di procedura penale sopra riportati in quanto da essi si
evince unicamente che all’autorità consolare è delegabile soltanto l’assunzione della testimonianza di un agente diplomatico o dell’incaricato di una missione diplomatica all’estero durante la sua permanenza
fuori dal territorio dello stato (177).
Dalla lettura dell’art. 30 del citato D.P.R. del 1967 sembrerebbe,
invece, che l’autorità consolare sia legittimata a compiere nel paese di
residenza qualsiasi attività istruttoria, anche di natura penale, con gli
unici limiti che si tratti di attività delegatele da un’autorità nazionale
competente e che agisca in conformità con le convenzioni internazionali e la legislazione dello Stato di residenza. In tale prospettiva la
Suprema Corte (178) ha in passato sostenuto che l’autorità consolare
italiana ha il potere di compiere all’estero di atti giudiziari, anche di
natura penale, nella sua circoscrizione e che un’interpretazione del
genere sarebbe avvalorata ulteriormente dalla convenzione ItaliaGran Bretagna, approvata con legge 7 marzo 1957, n. 298.
Una circolare, in data 14 dicembre 1977, del Ministero di Grazia e
Giustizia, direzione generale degli affari penali, avente ad oggetto
notifiche e rogatorie da effettuare nei paesi anglosassoni sembra dare
per scontato che i consoli italiani siano legittimati, sul piano del diritto interno, ad assumere prove penali nel paese in cui risiedono, senza
i limiti previsti dal codice di procedura penale. La medesima circolare
(177) Nello stesso senso, CASSANO, op. cit., pag. 271 e segg.
(178) Cfr. Cass. Sez. I, 29 gennaio 1975, Blazic, in realtà nel caso in esame vi era
stata una rogatoria dibattimentale al console italiano a Londra su concorde richiesta
del P.M. e delle parti private, perché assumesse come testi due ispettori di Scotland
Yard, cittadini inglesi, che erano stati effettivamente sentiti alla presenza anche del giudice italiano. È evidente, peraltro, che, nel caso in esame, non si era in presenza dei
presupposti di cui all’art. 453, comma 4, abrogato c.p.p., per cui era da valutare in termini problematici la leiceità dell’attività svolta dal console italiano in Gren Bretagna.
386
sottolinea che non risultano (ovviamente fino al 1977) stipulati trattati di assistenza giudiziaria in materia penale tra Italia e paesi anglosassoni e che è opportuno, quindi, richiamare l’attenzione sulle intese,
concordate attraverso attività diplomatiche, circa le modalità da
seguire per le commissioni rogatorie da effettuare in Gran Bretagna.
Si afferma, così che, quanto a raccolta di testimonianze e di altre rogatorie, le autorità britanniche in via generale non si oppongono a che i
consolati vi provvedano direttamente. Tuttavia, poiché i consoli non
hanno poteri coercitivi, è talvolta neessario che le relative richieste siano
inoltrate al Foreign and Commonwealth Office, per via diplomatica, per
la successiva esecuzione a cura dell’autorità giudiziaria britannica.
Nella stessa circolare si specifica, da ultimo, che in linea di massima le
istruzioni sopra indicate valgono anche per gli altri paesi in lingua inglese, compresi quelli già appartenenti al Commonwealth britannico.
Le pronunzie di legittimità e la circolare del Ministero di Grazia e
Giustizia, sostengono la legittimità, alla luce del diritto interno, dell’attività istruttoria dei consoli italiani nel loro paese di residenza.
Si tratta, peralto, di verificare se questa attività sia lecita secondo
il diritto internazionale.
In questa prospettiva si colloca la Convenzione consolare tra Italia
e Gran Bretagna, firmata a Roma l’1 giugno 1954 (179). L’art. 20 1°
comma lett. g) della suddetta convenzione prevede:
• il funzionario consolare può; nella sua circoscrizione... raccogliere
testimonianze per conto delle autorità giudiziarie dello stato inviante nei
modi previsti dagli accordi speciali che regolano la materia fra le altre
parti contraenti o comunque in modo non incompatibile con le leggi del
territorio.
La Convenzione di Vienna sulle relazioni del 24 aprile 1963 (180),
art. 5 lett. j) stabilisce che:
• le funzioni consolari consistono, tra l’altro nel dare esecuzione a
commissioni rogatorie in conformità con gli accordi internazionali in
vigore o, in mancanza di tali accordi, in tutti i modi compatibili con le
leggi e i regolamenti dello stato di residenza.
L’interpretazione letterale della norma evidenzia un potenziale ed
astratto potere di compimento di atti da parte dell’autorità consolare
italiana, purché vi sia il consenso dello stato straniero.
(179) Legge di ratifica e di esecuzione 7 marzo 1957 n. 298.
(180) Legge di ratifica e di esecuzione 9 agosto 1967 n. 804.
387
La convenzione non è ricognitiva di un’autorizzazione nel diritto
internazionale generale al compimento di attività giudiziaria da parte
dei consoli, ma ammette la possibilità che, in talune situazioni concrete, essi possano procedervi in conformità con il diritto internazionale.
Non emerge però l’esistenza nel diritto internazionale generale di
norme consuetudinarie che obblighino gli stati ad ammettere lo svolgimento di attività giurisdizionale sul proprio territorio da parte dei
consoli stranieri. La norma generale sulla sovranità territoriale, alla
quale l’ordinamento interno si adatta in virtù dell’art. 10. 1° comma
della Costituzione, impone, dunque, indipendentemente da precisazioni espresse in leggi interne, di evitare di delegare l’esecuzione di
attività di acquisizione probatoria ai consoli italiani in paesi nei quali
convenzioni internazionali o usi locali non ne consentano il compimento.
L’esplicazione del potere “consolare” è sempre e necessariamente
subordinata all’esistenza di una convenzione con lo stato territoriale o
comunque, al consenso del paese straniero. Il consenso è, a sua volta,
condizione necessaria, ma non sufficiente, per l’esercizio di funzioni
di natura giurisdizionale da parte del console, poiché questi non
potrebbe comunque mai esercitare una funzione che lo stato d’ordine
non gli attribuisce.
Sinora la prassi internazionale ha messo in luce un tendenziale
atteggiamento di sfavore degli stati stranieri a che le autorità consolari operanti sul loro territorio esercitino funzioni giurisdizionali. Analogamente sinora l’Italia non ha sottoscritto alcun trattato internazionale che legittimi un’attività consolare in materia penale.
388
L’ESTRADIZIONE: PROBLEMATICHE
INTERPRETATIVE E APPLICATIVE
Relatore:
dott. Eugenio SELVAGGI
Direttore dell’Ufficio II estradizioni e assistenza giudiziaria internazionale
del Ministero di Grazia e Giustizia
1. Se vi fosse stato un trattato di estradizione tra gli Achei e Troia,
quella guerra interminabile non avrebbe mai avuto luogo: Elena,
moglie di Menelao sarebbe stata restituita al marito... e intere generazioni non avrebbero avuto la possibilità di ascoltare i racconti di
Omero.
Qualcuno potrebbe opporre che Elena nessun reato aveva commesso. Chiedo allora soccorso a un altro aulico riferimento e ricordo
che, ove Antonio fosse stato consegnato in estradizione ad Augusto da
Cleopatra, la storia di Roma avrebbe forse seguito altri itinerari. Ma
forse neppure questo riferimento è valido: Cleopatra avrebbe rifiutato
l’estradizione, anche se l’amore non costituisce un valido motivo di
rifiuto.
Se dovessi rivolgermi a persone prive di competenza specifica non
troverei riferimento più appropriato per sottolineare l’importanza dell’estradizione.
Ai giuristi, invece, vorrei ricordare che, secondo il prof. Bassiouni,
l’estradizione internazionale affonda le proprie radici in esperienze
risalenti a oltre tremila anni fa: il primo trattato di estradizione di cui
la storia serba traccia sarebbe quello tra Ramses II di Egitto e Hatussilli, re degli Ittiti, quale parte del trattato di pace tra i due paesi del
1280 a.C..
Ma l’essere operatori giudiziari ci ha posto nella invidiabile posizione di sperimentare direttamente il crescente ricorso ai rapporti con
le autorità giudiziarie straniere, che è materia regolata dal libro XI del
codice di procedura penale (norme codicistiche e norme convenzionali). Oggi non c’è forse autorità giudiziaria italiana che non abbia
dovuto “scontrarsi” (l’espressione è adoperata con intenzione) con
questo aspetto che attiene al profilo “internazionale” del processo.
Dalle statistiche dell’Ufficio II della Direzione generale degli affa-
389
ri penali del Ministero di Grazia e Giustizia (che, appunto tale materia tratta) emerge con tutta evidenza l’accresciuto volume di affari, in
particolare delle procedure estradizionali e rogatoriali.
2. Perché questo?
Le ragioni sono molteplici: a) aumentata mobilità degli individui
e dei patrimoni, b) accentuazione del carattere transnazionale di alcune forme di criminalità (criminalità organizzata, traffico di armi, traffico di stupefacenti), c) una causa non irrilevante (anzi assai consistente, specialmente per quanto riguarda le rogatorie) va individuata
nel fenomeno tangentopoli, cioè fatti di corruzione (qui vorrei dire che
non solo l’enfasi data dalla stampa a talune indagini ma la stessa attività rogatoriale ha agito quale fattore sollecitatore e a volte moltiplicatore di analoghe iniziative giudiziarie all’estero); d) la raggiunta consapevolezza di un nuovo significato della cooperazione giudiziaria da
parte della gran parte dei Paesi: non più soltanto una forma di assistenza intesa in senso tradizionale, ma un momento importante di una
complessa strategia di risposta alla criminalità, soprattutto là dove
questa assume, appunto, aspetti internazionali (il riferimento alla criminalità organizzata, al traffico di droga e di armi e all’attività di riciclaggio è obbligato, ma vorrei aggiungere anche i fatti di corruzione e
alla conseguente allocazione all’estero dei proventi illeciti, con aspetti
di pericolosità per la sicurezza dei mercati finanziari e la stabilità delle
istituzioni democratiche che si può dire oramai pienamente colti da
altri paesi).
In questo quadro, nel quadro di una Unione europea con la quale
ci stiamo abituando a fare i conti, espressioni come “spazio giudiziario europeo” non sembrano più fantastiche fughe in avanti, anche se
l’omogeneizzazione degli ordinamenti (mi riferisco al campo penale,
quello che maggiormente tocca la sovranità degli Stati) viene per il
momento (solo in parte) anticipata con la “armonizzazione” degli
ordinamenti. Questa armonizzazione è viene sicuramente facilitata,
direi quasi necessitata, dall’eliminazione delle frontiere. Ma non si
può non rilevare che, mentre all’interno di questa Europa senza frontiere tutti – come le banche, i professionisti, i giocatori di pallone –, si
muovono liberamente, e liberamente, anzi più liberamente, si muovono i criminali, gli unici a non potersi muoversi sono i magistrati.
3. Quale direttore dell’ufficio del Ministero di Grazia e Giustizia
che presiede all’attività giurisdizionale nei suoi rapporti con l’estero
ho di tutto questo una conoscenza privilegiata.
390
L’esperienza che ho così maturato mi consente (vorrei dire: mi
impone) di fare alcune considerazione di carattere generale, prima di
addentrarmi nel tema specifico che mi è stato assegnato.
E vorrei a questo punto parlarvi di provincialismo.
Se prendo un comune dizionario, alla voce provincialismo leggo:
“mentalità propria di gente che vive in provincia, caratterizzata da una
ristrettezza di interessi, da ingenuità e rigidezza di principi, da ritardo
culturale”.
Vorrei, appunto, parlarvi del provincialismo che credo di avere
visto nella legislazione, nella giurisprudenza, nella prassi giudiziaria,
quando noi entriamo in contatto con gli ordinamenti stranieri. E
credo, spero mi perdonerete la franchezza con la quale mi esprimerò,
alla quale mi sento autorizzato sì dalla esperienza ministeriale ma
soprattutto dalla consapevolezza che tale esperienza, come tutte le
esperienze ministeriali, deve essere breve. L’esperienza, insomma, di
un magistrato provvisoriamente prestato al ministero.
Il primo aspetto del provincialismo ha radici profonde.
Non è un mistero che la scienza giuridica italiana abbia guardato
a tale tematica con scarso interesse (cfr. M. PISANI, I rapporti giurisdizionali con autorità straniere, tre anni dopo, in Ind. pen. 1992, p.
521). E forse non è inutile neppure ricordare la mancanza di principi
e criteri direttivi nella legge delega del 1987 per il nuovo codice di procedura penale (a parte il generico riferimento all’obbligo di adeguarsi
alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, contenuto nel preambolo dell’art. 2). Il fatto che la redazione del progetto
del libro XI sia stata affidata a una commissione diversa da quella (la
commissione Pisapia) che ha provveduto alla redazione della parte
restante del codice (fatta eccezione del libro X sull’esecuzione,
anch’esso assegnato a una terza commissione ad hoc: qui il dato è ulteriormente confermativo, perché entrambi i settori regolati ora dai libri
X e XI sono stati per lungo tempo considerati “ancillari” del processo
penale), cioè della parte “nobile” di quel testo, credo sia un elemento
sintomatico al riguardo.
Gli errori spesso si ripetono: quanto volte, nel redigere e poi
approvare un testo legislativo, si parte da una seria comparazione con
gli altri ordinamenti, non tanto per avere utili termini di raffronto
quanto per verificarne la compatibilità con norme internazionali?
Certo, a volte si tratta di aspetti che riguardano la sistematica e che
quindi possono essere risolti sulla base di una corretta interpretazione; ma non sempre è così.
Vorrei fare un esempio. Abbiamo, nel nostro codice di procedura,
391
una norma che regola compiutamente, e con fini garantistici, le notificazioni all’imputato all’estero, cioè l’art. 169. Sicché le nostre autorità giudiziarie lo applicano, ricorrendone i presupposti. Tuttavia, di
recente, per ben tre volte il ministero ha ricevuto una nota formale di
protesta. Questa la motivazione (riporto quella pervenuta dalla Svizzera per canale diplomatico): “la notifica diretta all’estero, per via
postale di un atto di procedura, è considerata dalle autorità svizzere
come l’adempimento di un atto ufficiale su territorio straniero. La
convenzione europea non prevede la possibilità della notifica diretta.
La Svizzera ritiene che l’esecuzione non autorizzata sul suo territorio
di simili atti rappresenti una violazione della sua sovranità territoriale e sia di conseguenza contraria al diritto internazionale”. (Ricordo,
per inciso, che l’Accordo di Schengen – che tra breve sarà in vigore
anche per l’Italia – prevede l’uso della posta per la notificazione di atti
giudiziari). Molti colleghi mi hanno obiettato al riguardo che l’art. 169
è contenuto nella parte generale del codice e nessun utile riferimento
compare nel libro XI, però è pure vero che il limite territoriale della
sovranità nazionale che si esprime attraverso la giurisdizione penale
sia un principio fondamentale che vale sul piano internazionale (il
caso di specie è si speciale rilievo quando – ma non solo – l’imputato
è detenuto all’estero, perché la materiale consegna della raccomandata al destinatario è assicurato dalle autorità competenti dello Stato
estero).
Anche la giurisprudenza tradisce a volte una impostazione che
sembra non tenere nel debito conto che un sistema nazionale deve a
volte convivere con quello di altri Paesi. Qui la casistica è particolarmente ricca. Vorrei tuttavia richiamare la sentenza della Corte costituzionale sul caso Venezia. Lo faccio per due motivi: innanzitutto perché il problema che quella decisione ha posto è essenzialmente un
problema politico in senso generale, cioè di rapporti tra Stati; in
secondo luogo perché il riferimento non può essere sospetto, in quanto con quella pronuncia la Corte ha espresso una posizione di alto profilo in tema di diritti fondamentali. Come è noto, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il sistema delle sufficienti garanzie
fornite dallo Stato estero, che devono essere valutate dal Paese richiesto, nel caso di estradizione per un reato per il quale, nello Stato
richiedente, può essere inflitta la pena di morte. Essendo il diritto alla
vita un diritto assoluto, che impone garanzie assolute, la non inflizione della pena di morte deve essere una sorta di conseguenza per così
dire automatica derivante dalla concessione dell’estradizione (esemplifico, per comodità). Dico subito che, in linea di principio, tale deci-
392
sione deve essere condivisa, essa si pone, tra l’altro, sulla scia della
posizione che l’Italia ha assunto sul piano internazionale contro la
pena capitale. Però è evidente che tale decisione impone allo Stato che
richieda l’estradizione o che voglia continuare a richiederla, di rivedere la propria legislazione per assicurare quelle condizioni che la pronuncia della Corte richiede. Nel caso di specie, gli Stati Uniti – che
certo non hanno accolto con favore la sentenza – hanno obiettato rappresentando il carattere federale del loro ordinamento.
Sempre con riferimento alla giurisprudenza, ritengo che noi scontiamo gravi ritardi in materia di preparazione professionale dei magistrati, ritardi che sono da ricercare anche e prima di tutto nella impostazione degli studi universitari. Quanti di noi conoscono le convenzioni internazionali (e mi riferisco anche a quelle “generali”, come ad
esempio la convenzione europea sui diritti dell’uomo)? In quante sentenze delle nostre sentenze si avverte un autentico respiro internazionale? Sono sicuro che mi si crederà quando dico che è stato solo grazie alla esperienza ministeriale che ho scoperto un mondo completamente nuovo. Da qui il convinto apprezzamento per iniziative, come
questo Incontro, che il Consiglio Superiore della Magistratura ha da
tempo avviato.
Infine vorrei fare qualche cenno ai comportamenti delle nostre
autorità giudiziarie. Anche qui ho avuto modo di riscontrare aspetti che possono essere ricondotti a quel provincialismo cui ho fatto
cenno prima. Credo sia importante avere sempre presente che, nei
rapporti con le autorità giudiziarie estere, da un lato il soggetto che
appare all’esterno, cioè sul piano internazionale, è in ogni caso lo
Stato italiano, nel senso che qualsiasi comportamento, qualsiasi
omissione vengono addebitati allo Stato: nella sua unitarietà, che,
pertanto, ne è responsabile sotto il profilo dei rapporti e degli obblighi internazionali, dall’altro lato che quella particolare posizione
che viene riconosciuta, al nostro interno, al magistrato, sia esso
pubblico ministero o giudice, è fatalmente destinata ad essere ridimensionata quando si va all’estero. Un’attenta lettura del codice e
delle convenzioni pertinenti, una corretta interpretazione delle
norme ...e una buona dose di saggezza e moderazione appaiono
indispensabili.
Forse qualche esempio può essere di aiuto.
Non dico che bisogna essere grandi esperti di geopolitica, e tuttavia un minimo di aggiornamento è necessario: non è possibile, nel
1997, rivolgere la domanda di rogatoria alla ...Repubblica cecoslovacca! Si espone, così, il Governo italiano a una legittima formale prote-
393
sta della Repubblica ceca o della Repubblica di Slovacchia, a seconda
di quale delle due sia il reale destinatario della richiesta.
È capitato che un’autorità giudiziaria abbia chiesto nello stesso
atto una rogatoria e l’arresto di una persona a fini estradizionali.
Anche in questo caso, puntuale è arrivata la nota di protesta del Paese
richiesto.
Mi pare, poi, superfluo, ricordare che i confini territoriali nazionali costituiscono il tendenziale limite alle funzioni giurisdizionali e
giudiziarie, anche se da un lato consistenti progressi sono rilevabili,
nella direzione di una estensione della giurisdizione genericamente
intesa anche al di là di tali confini (vedi ad esempio le norme degli
Accordi di Schengen in materia di osservazione e di inseguimento o
quelle che sono allo studio in sede di Unione europea in materia di
reati contro gli interessi comunitari). In linea generale può dirsi che,
dal punto di vista italiano, la tendenziale universalità (extraterritorialità) della giurisdizione va misurata con il grado di resistenza degli
ordinamenti stranieri. Ma sembra evidente, ad esempio, che non possono essere disposti arresti domiciliari o altri tipi di prescrizioni da
eseguirsi all’estero!
Così come qualsiasi richiesta di esecuzione di rogatoria secondo
particolari modalità (ad esempio: esame di persona ex art. 210, quindi alla presenza del difensore) deve essere vanzata a titolo di cortesia
e nel rispetto delle leggi del paese estero.
In tutti i casi dubbi, un efficace collaborazione può essere offerta
dal Ministero di Grazia e Giustizia.
Mi sembra opportuno fare un breve accenno alle missioni dei
nostri magistrati all’estero. E ricordo che è sempre necessario
munirsi dell’assenso delle competenti autorità straniere, attività
demandata all’autorità centrale, cioè al Ministero. Non è sufficiente il previo e diretto contatto con l’autorità giudiziaria dell’altro
Paese. Una volta abbiamo ricevuto una ferma nota di protesta di un
governo straniero che era venuto a conoscenza di una missione di
un nostro pubblico ministero, a seguito di contatti con il collega
straniero, senza che fosse informato quel ministero degli esteri per
il necessario consenso. Vorrei anche ricordare che alcuni giorni fa
abbiamo ricevuto una lettera di un imputato latitante all’estero, il
quale ci ha fatto presente che avrebbe reclamato i danni in relazione a una missione per espletare una rogatoria, nel contesto della
procedura estradizionale, assumendone l’inutilità e in considerazione del fatto che le relative spese sarebbero state imputate al
mod. 12 come spese processuali (l’assunto è chiaramente infonda-
394
to, tuttavia mi sembra utile averne fatto cenno, per opportuna
informazione).
4. Nel contesto dei rapporti con le autorità giudiziarie (il codice
dice giurisdizionali) straniere – e non solo in questi: anche per quanto
riguarda le richieste di procedimento ex artt. 7 e seguenti del codice
penale e il concorso di giurisdizioni, come nei casi dei militari
N.A.T.O. – il Ministero di Grazia e Giustizia svolge un ruolo fondamentale che può essere esemplificatamente distinto in:
– ruolo istituzionale: 1) per disposto normativo (“il ministro trasmette...”, “il ministro dispone...”, “il ministro decide...” ecc.); 2) perché tale è il sistema è la prassi dei rapporti internazionali, che individuano nelle cosiddette “autorità centrali” i referenti dei relativi rapporti. A tale riguardo devo mettere in luce lo sforzo del Ministero a
livello internazionale, sia in sede di Consiglio d’Europa sia in sede di
Unione europea di introdurre modifiche alle convenzioni in vigore e di
innovare le prassi in atto al fine di facilitare i contatti diretti tra le
autorità giudiziarie dei diversi paesi. C’è, però, il dato normativo dal
quale non si può prescindere, alla luce del quale vorrei sottolineare
due considerazioni: innanzitutto la necessità che delle rogatorie avanzate all’estero (o anche semplicemente avviate nella fase preparatoria)
sia data tempestiva comunicazione al Ministero, in secondo luogo
l’impossibilità, a mio parere, di “baipassare” la procedura di exequatur
prevista dal codice. Sul piano delle (utili) modifiche delle normative
convenzionali vorrei ricordare la proposta italiana (avanzata durante
il semestre di presidenza italiano della Unione europea) di innovare
alla C.E.A.G., in particolare la previsione che lo stato richiesto di una
rogatoria debba eseguire l’atto secondo la legge dello stato richiedente, salvo che ciò contrasti con le norme fondamentali di quell’ordinamento; quella dell’“offerta” di consegna temporanea; quella di procedere alla audizione di persone nelle sedi consolari esistenti nello stato
estero dove le persone si trovano ecc..
Mi parrebbe utile, poi, prevedere che l’esecuzione della rogatoria
possa essere espletata anche dal pubblico ministero, specie nel caso in
cui si tratti di attività relativa a procedimento straniero collegato con
indagini in atto nel nostro Paese.
Ancora un esempio: quando l’atto richiesto (ad esempio perquisizioni o sequestri) deve essere eseguito in luoghi diversi, anziché coinvolgere nella procedura di exequatur e di esecuzione diverse corti di
appello, potrebbe forse opportunamente prevedersi un unico giudice
395
competente (c’è un precedente, quello previsto per la cooperazione
con il Tribunale per i crimini commessi nei territori della ex Jugoslavia in base al D.L. n. 544 del 1993).
Un altro esempio è quello relativo alla presenza all’estero, per assistere al compimento dell’atto – che, si ricordi, è un atto dell’autorità
straniera – dell’autorità giudiziaria, nel caso in cui questa sia un collegio non vedo perché non possa prevedersi che a ciò sia delegato un
componente il collegio; ciò al fine di evitare onerosi trasferimenti,
soprattutto per il paese estero (e non mi riferisco agli oneri finanziari), che ci sono stati segnalati, specialmente quando devono muoversi
le corti di assise.
La convenzione di Schengen prevede, nel campo delle rogatorie,
contatti diretti tra autorità giudiziarie. La convenzione non è ancora
entrata in vigore per l’Italia e resta comunque da valutare l’ambito di
applicazione nel nostro ordinamento (le autorità giudiziarie sono
quelle che sarebbero competenti in base alla competenza per materia
oppure quelle normalmente competenti per eseguire la rogatoria in
base alle nostre disposizioni codicistiche?). In ogni caso vorrei sottolineare l’estrema utilità che il Ministero sia comunque informato di
qualsiasi attività espletata o da espletare all’estero: le informazioni
così ricevute potrebbero consentire all’autorità centrale di insistere
sull’accoglimento di richieste che potrebbero essere state respinte,
richiamandosi ad altri precedenti con lo stesso Paese.
– ruolo propositivo: 1) negoziazione trattati bilaterali ed eventuale
rinegoziazione (ad esempio a seguito della sentenza della Corte Costituzionale sul caso Venezia); 2) nuove convenzioni multilaterali e loro
modifiche (ad esempio quella, firmata, sull’estradizione, che modifica
in ambito Unione europea quella del consiglio d’Europa del 1957;
quella in progetto di modifica della convenzione europea di mutua
assistenza del 1959); 3) modifiche dell’ordinamento interno, specie del
libro XI e di specifiche norme codicistiche.
Con riferimento alla nuova convenzione dell’Unione europea in
materia di estradizione è da segnalare alcuni aspetti di rilevante
novità, in particolare per quanto riguarda l’estradizione dei cittadini,
il reato politico e i reati c.d. associativi (in particolare le fattispecie di
cui agli artt. 416 e 416-bis c.p..
– ruolo informativo: sia all’interno, cioè verso le nostre autorità
giudiziarie, sia verso l’estero, cioè verso le autorità giudiziarie estere.
Quest’ultimo aspetto mi sembra debba essere sottolineato.
396
5. Mi riferisco in particolare alla opportunità, sovente alla necessità che l’autorità giudiziaria straniera sia messa in grado di conoscere l’ordinamento giuridico dello stato richiedente (qui un utile supporto specifico può essere assicurato dal Ministero; tuttavia spesso è
conveniente che sia la stessa autorità giudiziaria a provvedervi, vuoi su
richiesta del Ministero, vuoi su richiesta dell’autorità straniera). Faccio l’esempio dell’audizione dell’imputato di reato connesso, che pone
problemi soprattutto sotto il profilo dell’assistenza del difensore: trattandosi, sostanzialmente, di un testimone, l’autorità straniera opporrà
normalmente che, nel suo ordinamento giuridico, non è prevista l’assistenza difensiva. A titolo informativo faccio presente che, su un
aspetto marginale (l’autorità straniera, nella specie olandese, aveva
accettato, dietro insistenze del Ministero, di compiere l’atto secondo le
formalità e con le garanzie previste dall’art. 210 c.p.p., ma aveva fatto
presente che non sarebbe stata in grado di affrontare le spese relative
all’assistenza defensionale in assenza di espresse previsioni legislative), un’autorità giudiziaria di Napoli ha disposto che le relative spese
siano poste, quali spese di giustizia, a carico dell’erario.
6. È certo, però, che non tanto con la normativa nazionale dobbiamo misurarci, quanto piuttosto con quella degli altri paesi. E quando questi sono caratterizzati da un sistema accusatorio puro o
semi-puro, allora gli ostacoli sono a volta insormontabili (vorrei dire a
volte incomprensibili, come l’uso di penna con inchiostro blu oppure
neo per la firma!; firma apposta dallo stesso giudice-persona fisica che
emise il provvedimento restrittivo). A titolo di esempio, vorrei ricordare che il Regno Unito, in una procedura estradizionale, ha chiesto al
governo italiano di “difendersi” dall’accusa avanzata dall’estradando
che, nel caso di specie, fosse in atto un comportamento “persecutorio”
da parte del pubblico ministero. In un altro caso siamo stati costretti
a esporre nel dettaglio le ragioni per le quali, nella specifica vicenda,
il reato per il quale la persona era stata richiesta in estradizione non
era un reato politico o comunque fossero estranee ragioni politiche:
era accaduto che l’interessato aveva esibito alla corte inglese un ritaglio di giornale, recante la fotografia del sen. Andreotti, nel quale si
riferiva di un processo ampiamente diffuso dai mass media e, incidenter tantum si riportava la notizia che per quel processo la difesa aveva
richiesto la citazione quale teste, appunto, dell’estradando!
7. È indispensabile la conoscenza delle convenzioni, specie di
quelle meno note, quali quelle sulla droga e sul riciclaggio.
397
È a volte indispensabile anche il riferimento alla Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo. In materia di estradizione, ad esempio,
l’Italia potrebbe essere riconosciuta responsabile di violazione alla
convenzione ove all’estradizione seguisse la possibilità che la persona
estradata sia sottoposta a trattamenti inumani o degradanti.
8. Il decreto legge 28 dicembre 1993, n. 544 (convertito con la
legge 14 febbraio 1994, n. 120) recante “Disposizioni in materia di
cooperazione con il Tribunale Internazionale competente per gravi
violazioni del diritto umanitario commesse nei territori della ex Jugoslavia” ha introdotto alcune norme di notevole interesse in materia di
cooperazione giudiziaria. A dire il vero tale provvedimento contiene
norme incidenti anche sulla giurisdizione, prevedendo un caso di
rinuncia obbligatoria alla giurisdizione (rectius: di prevalenza della
giurisdizione del Tribunale Internazionale) ove pervenga la richiesta
di trasferimento del procedimento, a tal fine le nostre autorità giudiziarie sono obbligate a comunicare al T.I. l’esistenza di procedimenti
aventi a oggetto fatti che potrebbero rientrare nella sua competenza.
Ma, ripeto, la parte più interessante è quella relativa alla cooperazione. Senza entrare nel dettaglio, mi limito a ricordare che è prevista
una forma molto intensa di assistenza; che la competenza all’esecuzione di richieste di assistenza è demandata funzionalmente alla corte
di appello di Roma; che lo Stato italiano ha assunto l’obbligo di ricevere, per l’esecuzione della pena inflitta, le persone condannate dal
Tribunale Internazionale.
9. Per quanto riguarda le estradizioni, vorrei ricordare che l’art.
720 c.p.p. assegna al Ministro di Grazia e Giustizia la competenza a
domandare a uno stato estero l’estradizione di un imputato o di un
condannato. A tal fine il procuratore generale presso la corte di appello competente ne fa richiesta al ministro. Credo si possa essere d’accordo che non si versa in una ipotesi di automaticità della richiesta (da
parte del procuratore generale prima e del ministro poi) sulla base
della semplice condanna o della emissione di misura custodiale. A
questo proposito vorrei fare presente che con D.M. 17 aprile 1996 del
ministro della giustizia (emanato ai sensi del D.Lgs. 3 febbraio 1993,
n. 29), è stata data la direttiva di carattere generale secondo la quale,
nei casi di estradizione attiva, la richiesta non dovrà essere proposta
se la sanzione che si ritiene possa essere irrogata non supera la pena
detentiva di tre anni, tranne che, in relazione alla natura del reato o
alla personalità del suo autore, la richiesta risulti opportuna.
398
Nello stesso contesto vorrei sottolineare la necessità che, al
momento di avanzare la domanda di estradizione, e prima ancora
quella di arresto provvisorio, vi sia una ragionevole certezza circa la
identità della persona da ricercare (specialmente una volta che sarà
entrata in vigore la convenzione di Schengen).
La posizione britannica al riguardo è improntata a grande rigidità: si pretende che lo Stato italiano provi l’identità della persona da
ricercare con quella per la quale è richiesta l’estradizione o l’arresto
provvisorio presentando il cartellino fotosegnaletico integrato con le
impronte dattiloscopiche, nonché con una dichiarazione (affidavit)
dell’operatore di polizia che ha preso le impronte e le ha custodite.
10. L’esperienza dell’Ufficio II del Ministero ha evidenziato una
serie di problematiche che vorrei esemplificativamente indicare.
11. L’art. 720 c.p.p. dispone che il ministro della giustizia è competente a domandare a uno Stato estero l’estradizione di un imputato. Orbene, nel corso di una procedura estradizionale la persona
richiesta ha convinto la corte di quel paese che la domanda andava
respinta perché egli, nel procedimento italiano, che era ancora nella
fase delle indagini preliminari, non aveva acquisito la qualità di imputato ai sensi dell’art. 60 c.p.p.. La questione si risolse, nel caso specifico, nel senso che quella persona, che nel frattempo era riparata in un
terzo stato, era stata nelle more rinviata a giudizio. Sembra tuttavia
che una corretta interpretazione dell’art. 60 in combinato disposto con
l’art. 61 imponeva e impone una diversa conclusione.
12. Il caso Venezia ha posto anch’esso una serie di problemi. Precisamente: natura dell’atto (decreto di estradizione); sua impugnabilità, sua, conseguente, notifica all’interessato; durata della custodia
cautelare a fini estradizionali. Forse alcune delle questioni poste comportano la necessità di procedere a modifiche legislative.
13. Il tema delle misure cautelari a fini estradizionali ha sempre
rappresentato risvolti assai delicati. Sul punto di recente la cassazione
ha emesso decisioni di grande importanza. Lascio la trattazione di
questo specifico tema ad altro relatore.
Vorrei, tuttavia, fare alcune considerazioni, sia de iure condendo
sia con riferimento a problemi pratici posti da alcune procure generali.
La prima è relativa all’ipotesi in cui la persona da estradare (stia-
399
mo parlando di estradizioni passive) sia ristretta agli arresti domiciliari, quale misura cautelare disposta a fini estradizionali; si pone il
problema della sua consegna allo Stato estero. Domandate di disporre, a tal fine, la custodia in carcere, alcune corti di appello hanno
respinto la richiesta adducendo l’inesistenza del pericolo di fuga (a
dire il vero alcune hanno motivato il rigetto; rappresentando che l’art.
718.2 c.p.p. prevede la revoca richiesta dal ministro e non la sua sostituzione, ma la conclusione mi pare discutibile). Non escludo che
possa trattarsi di una questione risolvibile sul piano operativo e organizzativo sulla base di accordi tra procura generale e forze di polizia,
ma è evidente che il problema della materiale consegna alle autorità
straniere dell’estradato deve essere esaminato con la massima attenzione, involgendo la libertà personale della persona ed emerge particolarmente quando nessuna misura cautelare sia stata emessa nel
corso della fase giurisdizionale della procedura di estradizione.
È, per contro, una questione di eventuale modifica legislativa
quella della opportunità di prevedere la possibilità di chiedere e
disporre la misura cautelare ai soli fini estradizionali (qui stiamo invece parlando di estradizioni attive) ai fini di ottenere la presenza della
persona nel territorio, che eventualmente possa essere automaticamente revocata o sostituita non appena l’estradato sia consegnato.
Devo dire che una simile proposta non mi sembrerebbe condivisibile
perché la non partecipazione al processo è espressione dei diritti di
libertà e di difesa costituzionalmente garantiti.
Segnalo che, nel corso di una procedura estradizionale, la procura generale presso la corte di cassazione ha rilevato che il limite edittale per l’emissione di misura cautelare privativa della libertà personale (art. 280 c.p.p.) determini obiettivamente uno sbilanciamento nei
rapporti internazionali, sol che si pensi che, per obbligo appunto internazionale, l’Italia si impegna a imporre misure custodiali a fini estradizionali sulla base di domande provenienti da stati esteri anche con
riferimento a pene che – in Italia – non lo consentirebbero (atteso il
disposto dell’art. 714.1 c.p.p.), mentre non possiamo chiedere in estradizione persone che si trovano nelle stesse condizioni, perché qui
gioca invece l’art. 280. Devo dire che l’argomento non mi sembra
molto forte ai fini di una questione di legittimità costituzionale; tuttavia ne riferisco per opportuna informazione.
Vale, poi, ricordare che la misura degli arresti domiciliari non è
equiparata dalla gran parte degli stati aderenti alla convenzione europea di estradizione all’ordine di arresto/cattura che costituisce il presupposto per richiedere l’estradizione dall’estero; la motivazione è che,
400
non prevedendo quegli ordinamenti giuridici la misura degli arresti
domiciliari, ove sottoponessero la persona ricercata a quella della
custodia in carcere, determinerebbero l’insorgere di una situazione
deteriore rispetto a quella in qui si troverebbe la persona nello Stato
richiedente.
Più di tutto mi preme ricordare la necessità che le procure generali informino immediatamente il ministero in ordine alle modifiche
della misura della custodia in carcere sulla base della quale sia stata
avanzata una domanda di estradizione. Alcuni recenti casi hanno portato a ingiuste detenzioni e a feroci prese di posizione da parte delle
autorità straniere.
In ogni caso devo dire che le autorità straniere non comprendono
e male accettano, una volta che, per conto dello Stato richiedente
abbiano privato della libertà personale una persona che si trova nel
loro territorio, revoche e modifiche della misura che portino al ritiro
della domanda di estradizione e, conseguentemente, alla liberazione
della persona.
Un self restraint, con riferimento non alla revoca della misura ma
alla sua emissione (meglio: alla richiesta di arresto all’estero) credo
debba essere attentamente valutato.
14. Altre rilevanti problematiche che l’Ufficio II si è trovato ad
affrontare riguardano, in materia di estradizioni attive, le ipotesi in
cui la condanna, per l’esecuzione della quale la persona viene richiesta all’estero, sia stata pronunciata a seguito di giudizio contumaciale oppure sia relativa alla pena dell’ergastolo.
15. Ancora: il problema della detenzione all’estero quale legittimo
impedimento dell’imputato a comparire nel processo a suo carico.
16. C’è poi il problema del principio di specialità che deve essere tenuto nella debita considerazione.
17. Ulteriore, delicato problema è quello relativo all’estrazione dei
cittadini.
401
L’ESTRADIZIONE PASSIVA:
PROCEDIMENTO; MISURE CAUTELARI
Relatore:
dott. Giovandomenico LEPORE
Sostituto Procuratore Generale della Repubblica
presso la Corte di Appello di Napoli
L’ESTRADIZIONE PASSIVA O PER L’ESTERO
Premessa.
Di tutte le forme di cooperazione tra gli Stati in materia penale l’estradizione è indubbiamente la più tipica ed antica, costituendo quel
complesso istituto giuridico-politico che consente ad uno Stato (Stato
richiesto o di rifugio) di consegnare ad un altro Stato, che ne faccia
richiesta (Stato richiedente), una persona che si trovi nel suo territorio e che sia ricercata, perché accusata o condannata nello Stato
richiedente per reati di sua competenza puniti con pena detentiva. Lo
scopo specifico di tale forma di collaborazione tra Stati è il conseguimento della disponibilità fisica della persona ricercata da parte dello
Stato richiedente per esigenze di giustizia conseguenti alla consumazione di reati.
A base dell’istituto vi è sempre un accordo di cooperazione internazionale tra gli Stati come forma di reciproca assistenza per un’efficace lotta al crimine. Il ricorso a tale strumento di collaborazione è
determinato dall’impossibilità per lo Stato, che ha~ interesse ad avere
la disponibilità fisica del catturando, di esercitare sul territorio dello
Stato di rifugio poteri coercitivi, senza violare il diritto di sovranità di
quest’ultimo. L’adempimento del dovere di consegna degli imputati o
condannati che si trovano sul proprio territorio non comporta una
menomazione della sovranità, sia perché tale dovere è reciproco e sia
perché lo Stato richiesto è libero di decidere, caso per caso, se sia
opportuno o meno accogliere la domanda dello Stato richiedente, contemperando le esigenze primarie della collaborazione internazionale
nella repressione del crimine e la tutela dei fondamentali diritti di
libertà delle persone.
403
La storia di questo istituto è, come si è accennato, antica Conosciuto come forma di assistenza reciproca contro il crimine fin dai
tempi antichi (nell’accordo di pace e di alleanza del 1280 a.C. tra
Ramesse II d’Egitto ed Hattusil III re degli Ittiti sono previste clausole in materia), nelle sue origini e sviluppo storico aveva essenzialmente natura politica che recentemente si è attenuata a favore dello
emergente aspetto giuridico. La necessità sempre più avvertita di
contrastare i fenomeni criminali e le maggiori possibilità di trasferimento all’estero, offerte dal continuo sviluppo dei mezzi di trasporto
con conseguente facilità di trovare rifugio in paesi stranieri, hanno
determinato molti Stati sin dal secolo scorso a stipulare delle vere e
proprie convenzioni di estradizione. Con il passare degli anni molti
Stati hanno disciplinato, con specifiche norme interne, l’estradizione
dando una base giuridica allo istituto, anche al fine di fornire ai
Governi regole da rispettare nella formulazione delle convenzioni
internazionali. La necessità di una più efficace lotta alla criminalità,
che va sempre più assumendo dimensioni internazionali, e di una
regolamentazione uniforme sta determinando il graduale passaggio
dalle convenzioni bilaterali a quelle multilaterali in materia di estradizione. Di particolare importanza, anche per il numero di Stati aderenti, è la Convenzione europea di estradizione firmata a Parigi il 13
dicembre 1957.
Se la consegna di una persona è chiesta per sottoporla a giudizio,
non essendo ancora intervenuta una condanna definitiva, l’estradizione è processuale, mentre se è richiesta per l’espiazione di una pena
detentiva o per l’esecuzione di una misura di sicurezza, a seguito di
sentenza di condanna irrevocabile, essa è esecutiva. È ovvio che una
condanna a pena pecuniaria non potrà dar luogo ad estradizione che
ha per oggetto “ la disponibilità fisica “dell’individuo.
Viene definita convenzionale l’estradizione eseguita sulla base di
un trattato vincolante gli Stati oppure extraconvenzionale, se attuata
a titolo di cortesia con implicita promessa di reciprocità, in assenza di
una specifica convenzione.
A secondo dell’angolo di visuale dello Stato richiedente o di quello richiesto può essere attiva (o dall’estero) e passiva (o per l’estero).
L’Italia non ha una legge organica che regolamenti l’estradizione.
Le norme che disciplinano l’istituto sono contenute nella Costituzione
(artt. 10 e 26), nel codice penale (artt. 8 e 13) ed in quello di procedura penale (artt. dal 697 al 722). Dei ventisei articoli del codice di procedura ben ventitré regolamentano l’estradizione passiva. La disciplina processuale, tuttavia, ha natura suppletiva per il principio, riaffer-
404
mato dall’art. 696 c.p.p., della prevalenza delle convenzioni e del diritto internazionale.
Il procedimento. La fase amministrativa preliminare.
Il procedimento di estradizione passiva disciplinato dal codice di
procedura penale è costituito da un insieme di atti amministrativi e
giurisdizionali che rendono possibile il conseguimento delle finalità
proprie dell’estradizione, cioè la consegna ad un altro Stato, che ne ha
fatto richiesta, di una persona ricercata a seguito di emissione nei suoi
confronti di un provvedimento restrittivo della libertà personale, perché imputata o già condannata all’estero e che si trovi in territorio italiano.
Trattasi di un procedimento complesso a sistema misto, per la
distribuzione delle competenze tra autorità amministrativa e giudiziaria, nel quale si possono distinguere tre fasi successive: una prima fase
preliminare di natura amministrativa o diplomatica, secondo qualche
autore (1), una seconda fase di natura giurisdizionale ed una terza fase
amministrativa finale.
Il procedimento ha inizio con la richiesta formale trasmessa, di
norma, per via diplomatica o nelle forme previste dal trattato eventualmente esistente, dallo Stato richiedente al Ministro di Grazia e
Giustizia. Alla domanda di estradizione, salva diversa previsione pattizia in presenza di trattato (2) è allegata la documentazione (indicata
dall’art. 700 c.p.p. comprendente, tra l’altro, copia del provvedimento
restrittivo della libertà personale che ha dato luogo alla richiesta e che
costituisce la condizione essenziale per l’estradizione. Nel caso di
estradizione esecutiva deve essere allegata la sentenza irrevocabile di
condanna a pena detentiva.
Il codice vigente riconosce al Ministro di Grazia e Giustizia la
facoltà di respingere la richiesta di estradizione in via preliminare
senza passare alla successiva fase giurisdizionale (art. 703 comma 1
c.p.p. Tale ipotesi potrebbe verificarsi per ragioni di opportunità
(1) V. ESPOSITO, voce Estradizione, diritto processuale penale, in Enciclopedia
giuridica, vol. XIII, 1988, dell’Ist. della Enc. It..
(2) Ad esempio i Trattati di estradizione del 6 maggio 1981 con il Canada e del 13
ottobre 1983 con gli Stati Uniti d’America richiedono particolari formalità e requisiti
della documentazione da allegare alla domanda di estradizione.
405
politica-amministrativa, soprattutto quando il Ministro, sulla scorta
della documentazione ricevuta e delle ulteriori informazioni o documenti aggiuntivi, è in condizione di ritenere che con la consegna allo
Stato estero possano essere lesi i diritti fondamentali della persona
richiesta o se per il fatto che ha motivato la domanda di estradizione è prevista la pena di morte dalla legge dello Stato estero (art. 698
c.p.p.) (3).
Molte convenzioni prevedono, in caso di mancato accoglimento
della domanda da parte dello Stato richiesto e, nel caso dell’Italia, da
parte del Ministro di Grazia e Giustizia, la motivazione del rifiuto. In
questa sede, pertanto, è riconosciuta al Ministro solo la facoltà di
respingere la richiesta di estradizione dello Stato estero per motivi di
opportunità politica o per altri motivi, ma non certo quella di concedere l’estradizione, occorrendo in tal caso la verifica giurisdizionale.
Se la persona rintracciata in territorio italiano è ricercata da
più Stati per reati ivi commessi, l’estradizione potrebbe essere
richiesta da Stati diversi e si porrebbe il problema di fissare la precedenza tra le varie richieste. L’ipotesi è disciplinata dall’art. 697
comma 2 c.p.p. che riconosce al Ministro di Grazia e Giustizia il
diritto di stabilire un ordine di precedenza in base ai criteri indicati nell’articolo.
Una volta che il Ministro non ritenga di dover respingere la
domanda di estradizione per motivi di opportunità politica-amministrativa in via preliminare, la trasmette con i documenti allegati al
Procuratore Generale presso la Corte di Appello competente (art. 703
c.p.p.), non potendo essere concessa l’estradizione di un imputato o
di un condannato all’estero senza la decisione favorevole della Corte
di Appello, salva l’ipotesi del consenso all’estradizione prestato dall’estradando all’autorità giudiziaria (art. 701 c.p.p.).
Sia la domanda dell’autorità straniera che gli atti relativi ed i
documenti sono accompagnati da una traduzione in lingua italiana
(art. 201 disp. att. c.p.p.).
(3) Con sentenza del 27 giugno 1996 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 698 comma 2 c.p.p. per contrasto con gli artt. 2-27
comma 4 della Costituzionae, avendo ritenuto il meccanismo previsto inidoneo a soddisfare sia il divieto della pena di morte sancito dalla Costituzione sia il rispetto dell’impegno assunto con la normativa pattizia delle assicurazioni sufficienti di non applicazione o esecuzione della pena di morte.
406
Fase giurisdizionale.
1) Attività preliminare del Procuratore Generale.
La garanzia giurisdizionale è realizzata con la celebrazione di un
giudizio avanti ad organi giurisdizionali ed ha per oggetto non solo
il rispetto delle norme di diritto sostanziale che regolano il rapporto
(disposizioni del codice penale e della Convenzione eventualmente
applicabile al caso) ma anche di quelle previste a tutela dei diritti
fondamentali della persona dall’ordinamento giuridico italiano e
dalle convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo, che potrebbero essere violati con l’estradizione. Anche in questa fase possono
essere individuati due momenti distinti: il primo, che potrebbe essere definito preliminare, di competenza del Procuratore Generale, ed
il secondo, costituito dal giudizio vero e proprio di garanzia giurisdizionale, di competenza della Corte di Appello. Può, altresì, innestarsi, come di norma avviene, un procedimento incidentale riguardante le eventuali misure cautelari applicate prima della decisione
finale.
Il giudizio di garanzia giurisdizionale va sempre osservato sia che
si tratti di estradizione extraconvenzionale che convenzionale. Si può
verificare l’ipotesi della mancanza della fase giurisdizionale avanti alla
Corte di Appello, quando l’estradando presti il suo consenso, con le
forme e le condizioni previste, ad essere estradato. In tal caso il giudizio davanti alla Corte sarebbe superfluo e l’estradizione viene definita
consensuale o abbreviata o semplificata.
L’atto introduttivo della fase giurisdizionale è costituito dalla trasmissione della domanda di estradizione straniera, con la documentazione allegata, da parte del Ministro di Grazia e Giustizia, al Procuratore Generale presso la Corte di Appello competente.
La competenza è determinata, di norma, con riferimento al
momento dell’arrivo al Ministero di Grazia e Giustizia della domanda
di estradizione. Essa appartiene alla Corte di Appello nel cui distretto
l’imputato o il condannato ha, nell’ordine, la residenza, la dimora o il
domicilio. Se vi è stato arresto provvisorio ai sensi degli artt. 715 e 716
c.p.p. competente è la Corte di Appello che ha ordinato l’arresto o il
cui Presidente ha convalidato l’arresto eseguito d’iniziativa dalla polizia giudiziaria. Qualora non sia possibile determinare la competenza
secondo tali criteri, è stata prevista quella residua della Corte di Appello di Roma (art. 701 c.p.p.).
Il Procuratore Generale destinatario della documentazione tra-
407
smessa dal Ministro, dispone la comparizione davanti a sé dell’estradando, in stato di libertà, per procedere alla sua identificazione
e per raccogliere l’eventuale consenso all’estradizione (art. 703
comma 2 c.p.p.). Tale adempimento verrà omesso da parte del Procuratore Generale, quando nei confronti dell’estradando sia stata
applicata una misura coercitiva ai sensi degli artt. 714,715 e 716
c.p.p.. In tal caso l’audizione verrà eseguita dal Presidente della
Corte di Appello. Non si tratta di un interrogatorio della persona
richiesta, con la contestazione dei fatti che gli vengono attribuiti,
ma, come espressamente indicato dall’art. 717 c.p.p. di un’audizione finalizzata alla sua identificazione che inevitabilmente comporta
la contestazione del contenuto della richiesta straniera di estradizione, perché l’interessato possa prestare o meno un valido e consapevole consenso all’estradizione. È prevista la presenza del difensore all’audizione ed all’uopo l’interessato è assistito da un difensore
di fiducia, se nominato, o in mancanza da un difensore d’ufficio. Il
difensore è avvertito almeno ventiquattro ore prima (art. 703
comma citato c.p.p.). Il verbale relativo al consenso prestato è
redatto in due originali di cui uno va trasmesso al Ministro per le
conseguenti determinazioni (art. 202 disp. att. c.p.p.). È ovvio che
qualora l’interessato non acconsenta di essere estradato, il verbale
può essere redatto in un unico esemplare non essendo necessario
trasmetterlo al Ministro. Il consenso dell’estradando evita il passaggio alla fase giurisdizionale davanti alla Corte di Appello (art. 701
comma 2 c.p.p.) ma non vincola il Ministro che rimane libero, nelle
sue valutazioni politiche-amministrative, di concedere o meno l’estradizione.
Le disposizioni vigenti non prevedono la possibilità di disporre
l’accompagnamento coattivo dell’estradando non comparso. Il suo
comportamento potrà essere oggetto di valutazione da parte del Ministro ai fini della richiesta di una misura cautelare.
Oltre all’audizione dell’estradando, al Procuratore Generale è riconosciuta un’altra facoltà istruttoria, che è quella della richiesta, tramite il Ministro, alle autorità straniere di informazioni e documenti ritenuti necessari.
Il nuovo codice fissa al Procuratore Generale il termine di tre
mesi, dal momento in cui la domanda di estradizione gli è pervenuta
dal Ministro, per la presentazione alla Corte di Appello della requisitoria, che costituisce l’atto conclusivo della fase preliminare del giudizio di garanzia giurisdizionale. Con la requisitoria vengono trasmessi
alla Corte anche gli atti ricevuti dal Ministro.
408
2) Procedimento davanti alla Corte di Appello.
La requisitoria, le cose eventualmente sequestrate e gli atti sono
depositati nella cancelleria della Corte che provvede alla notifica dell’avviso di deposito alle parti interessate, individuate nell’estradando,
nel suo difensore e nell’eventuale rappresentante dello Stato richiedente. L’intervento nel giudizio davanti alla Corte, sia di Appello che di
Cassazione, dello Stato richiedente l’estradizione, è una novità prevista dall’art. 702 del nuovo codice di procedura penale a condizione di
reciprocità. Così come è formulato l’articolo 702 suindicato, è da ritenere che l’intervento è sempre ammissibile, sia che si tratti di estradizione convenzionale che di quella extraconvenzionale, purché sia
garantita la reciprocità, intesa come parità di trattamento riconosciuto allo Stato italiano, quale Stato richiedente, nel caso di estradizione
attiva dallo stesso Paese. Nulla si dice in ordine alle modalità di accertamento di tale condizione da parte dell’autorità giudiziaria che procede. Se il rapporto di estradizione è convenzionale e la convenzione
prevede la reciprocità, nulla quaestio, altrimenti si può ritenere che
tale condizione sia adempiuta quando il rappresentante dello Stato
richiedente chieda formalmente di intervenire nel giudizio a titolo di
reciprocità, nominando un avvocato abilitato al patrocinio davanti
all’autorità giudiziaria italiana perché lo rappresenti.
Entro dieci giorni dalla notifica dell’avviso di deposito le parti
hanno facoltà di prendere visione ed estrarre copia degli atti e di esaminare le eventuali cose sequestrate nonché di presentare memorie.
L’inosservanza del termine non produce nullità, trattandosi di termine ordinatorio (4). Decorso il termine di cui sopra, il Presidente della
Corte fissa con decreto l’udienza in camera di consiglio. Il decreto,
oltre che alle parti suindicate aventi diritto all’avviso di deposito degli
atti, è notificato almeno dieci giorni prima dell’udienza anche al Procuratore Generale. L’inosservanza di tale termine, a differenza del
precedente, è sanzionata a pena di nullità. Trattasi di nullità di ordine generale, ai sensi dell’art. 178 lett. C c.p.p., che deve ritenersi sanata quando non è dedotta subito dopo aver compiuto per la prima
volta l’accertamento della costituzione delle parti (art. 181 comma 3
c.p.p.) (5).
(4) Cass. sez. VI 15 dicembre 1992 (C.C. 16 ottobre 1992) Meerbry.
(5) Cass. sez. VI 30 ottobre 1995 (C.C. 12 ottobre 1995) Venezia.
409
I soggetti del procedimento sono, pertanto, la persona da estradare assistita dal difensore, il Procuratore Generale ed eventualmente lo
Stato richiedente rappresentato da un avvocato abilitato al patrocinio
davanti all’autorità giudiziaria italiana. Non è prevista la partecipazione al giudizio di altri soggetti. È obbligatoria la partecipazione
all’udienza in camera di consiglio del pubblico ministero e del difensore mentre è facoltativa quella degli altri soggetti, che verranno sentiti solo se compaiono (art. 704 comma 2 c.p.p.).
La Corte prima della decisione può assumere informazioni o
disporre accertamenti ritenuti necessari e la successiva udienza, fissata per l’esame e la discussione delle informazioni integrative acquisite, non è soggetta al rispetto di un nuovo termine di giorni dieci, perché costituisce un’udienza in necessaria prosecuzione della precedente (6). Al termine, dopo aver sentito le parti intervenute, la Corte emette sentenza favorevole o contraria all’estradizione.
3) L’oggetto del giudizio.
La Corte di Appello, sulla scorta della documentazione acquisita,
procede alla verifica della sussistenza e validità delle condizioni che le
norme statali ed internazionali pongono perché l’estradizione sia concessa. Dovrà accertare, pertanto, il rispetto dei diritti fondamentali
della persona, così come precisato dall’art 705 c.p.p., accertamento
che va sempre eseguito anche in presenza di una convenzione, come
si argomenta dall’avverbio comunque riportato al comma 2 del citato
articolo. All’uopo sono state previste alcune condizioni ostative ad una
pronunzia favorevole. In caso di estradizione, cosiddetta esecutiva, la
Corte dovrà accertare che la sentenza esecutiva posta a base della
domanda di estradizione non contenga disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano e che siano stati
rispettati i diritti dell’estradando nel procedimento conclusosi con la
sentenza esecutiva (7). Dall’esame degli atti ed in particolare dalla sen-
(6) Cass. sez. VI 1° ottobre 1993 (C.C. 16 luglio 1993) Heindl.
(7) È stato ritenuto che non sussistono le condizioni per la concessione dell’estradizione di un cittadino italiano condannato all’estero (il caso esaminato riguardava la
condanna per omicidio colposo emessa dal Tribunale di Edimburgo) qualora la richiesta di esecuzione della pena venga sollecitata solo per esigenze di cosiddetta prevenzione generale, con riferimento cioè all’esemplarità della condanna, escludendosi
410
tenza straniera deve risultare, tra l’altro, che all’estradando sia stata
assicurata la difesa sostanziale e non solo formale e che non si sia trattato di un processo discriminatorio ai sensi dell’art. 698 comma 1
c.p.p. o che la persona richiesta in estradizione potrà essere sottoposta a trattamenti, atti o pene indicati nel citato articolo, costituenti
violazioni dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dalla
nostra Costituzione e dalle Convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo.
Tale ultima condizione riguarda anche l’estradizione processuale
in relazione alla natura del procedimento al quale dovrà essere sottoposto l’estradando all’estero ed il giudizio prognostico della Corte
dovrà basarsi sulla documentazione acquisita e sugli elementi forniti
dall’interessato. È indubbiamente un accertamento non facilmente
praticabile, quando la probabilità della violazione dei diritti fondamentali non è così evidente dagli atti e richiede un’attività di indagine
che difficilmente potrebbe essere svolta senza interferire nel sistema
giudiziario straniero.
Si impone, inoltre, la verifica del rispetto del principio della doppia incriminazione, di cui all’art. 13 c.p.. Esso comporta che il fatto
addebitato all’estradando sia previsto come reato dagli ordinamenti
sia dello Stato richiedente che da quello italiano. Non è necessaria l’identica qualificazione giuridica, purché naturalmente il titolo del
reato non lo faccia rientrare tra quelli per i quali vi sia un espresso
divieto di estradizione. È sufficiente che il fatto sia ritenuto reato da
entrambi gli ordinamenti anche se punito con sanzione diversa. L’esame delle disposizioni di legge allegate alla domanda di estradizione
consente di verificare tale condizione.
L’accertamento della natura politica del reato, ostativa all’estradizione, non può limitarsi ad una rilevazione di corrispondenza ai parametri indicati dall’art. 8 c.p., ma, attesa la formulazione dell’art. 698
c.p.p., va esteso alle condizioni indicate in detto articolo al fine di
garantire l’estradando dal rischio di subire un processo politico.Tutta-
la sussistenza di ogni necessità di prevenzione speciale nei riguardi del soggetto condannato; in tal caso, invero, nella richiesta esecuzione esula quella finalità essenziale
(anche se non esclusiva) della sanzione penale che l’art. 27 comma 3 della Costituzione ravvisa nella rieducazione del condannato e che va considerato principio fondamentale dell’ordinamento giuridico dello Stato italiano anche agli effetti delle condizioni per la pronunzia di una sentenza favorevole all’estradizione. (Cass. 21 settembre
1995 in Cass. Pen. 1996 pag. 3022).
411
via, in molte convenzioni, con l’introduzione della cosiddetta clausola
belga (8), non sono considerati reati politici quelli di attentato ad un
Capo di Stato o di Governo estero e dei loro familiari. È stato in proposito ritenuto che il motivo politico consistente nella tendenza ad
abbattere le istituzioni democratiche di uno Stato e a disconoscere i
diritti di libertà dei cittadini, in contrasto con lo spirito della nostra
Costituzione, non può essere di ostacolo all’estradizione (9), e di conseguenza viene esclusa la natura politica agli attentati terroristici, ai
delitti anarchici ecc..
Del pari non consentono l’estradizione i reati militari e in genere
i reati fiscali, anche se recentemente il divieto risulta mitigato da
norme pattizie tra paesi appartenenti ad organismi sovranazionali.
La Corte in sede di giudizio dovrà accertare l’inesistenza delle
altre condizioni sia oggettive che soggettive previste dal nostro ordinamento o dalle convenzioni applicabili che impediscono l’estradizione, quali quelle relative alla procedibiltà o alle cause estintive del
reato. In alcune convenzioni, ad esempio, la prescrizione del reato o
della pena verificatasi per il solo Stato richiedente non consente l’estradizione, mentre per altre la causa estintiva ostativa deve essersi
verificata o per il paese richiedente o per quello richiesto (10). Se trattasi di cittadino richiesto da uno Stato estero occorrerà verificare se la
convenzione internazionale preveda l’estradizione in maniera specifica (artt. 13 c.p. e 26 della Costituzione).
4) Gli indizi di colpevolezza. Litispendenza internazionale.
L’articolo 705 c.p.p. impone alla Corte di accertare la sussistenza
di gravi indizi di colpevolezza a carico dell’estradando in mancanza di
una convenzione o quando questa non dispone diversamente. L’accertamento va eseguito, pertanto, nelle ipotesi di estradizione extraconvenzionale processuale, quando, cioè, manca una convenzione e l’estradizione è chiesta a titolo di reciprocità oppure quando la convenzione di estradizione prevede espressamente tale accertamento, come
(8) È individuata comunemente con tale espressione perché fu introdotta dalla
legge belga in materia di estradizione dopo l’attentato a Napoleone III nel 1854.
(9) Cass. 30 marzo 1993, Camenisch.
(10) Trattato Italia-U.S.A. art. VIII e Convenzione Europea di Estradizione art. 10.
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quelle con i paesi del Common law, esclusa l’Australia, che impongono allo Stato richiedente l’onere di fornire prove idonee a carico dell’estradando, la cosiddetta probable or reasonable cause, oppure, ancora, quando la convenzione non prevede nulla sul punto. Problemi
interpretativi sono sorti quando la convenzione prevede l’obbligo di
estradare alle condizioni in essa previste e richiede a sostegno della
domanda una documentazione formale o anche una esposizione dei
fatti per i quali l’estradizione viene richiesta, come la Convenzione
Europea di estradizione. Alcuni autori (11) sostengono in questi casi
sufficiente un esame formale della documentazione, altri (12), (invece,
ritengono che sia sempre necessaria una sostanziale valutazione della
fondatezza dell’accusa. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è
per la prima tesi ed, a proposito della Convenzione Europea di estradizione, ha affermato che la Convenzione non richiede la sussistenza
dei gravi indizi di colpevolezza né che il provvedimento restrittivo
della libertà personale sia motivato, ma si limita a stabilire che sia prodotto l’originale o copia autentica del provvedimento (art. 12 paragrafo 2 lettera a), onde l’autorità italiana deve limitarsi ad assicurarsi
della identità dell’estradando ed a verificare il titolo sul quale si fonda
la richiesta attraverso l’esame degli atti trasmessi, senza possibilità di
sindacare gli indizi di reità (13). Naturalmente nel caso di estradizione esecutiva, esistendo una sentenza di condanna definitiva, il problema dell’accertamento degli indizi di colpevolezza non si pone. La
Corte è comunque, tenuta a verificare le altre condizioni indicate nella
prima parte dell’art. 705 c.p.p. che tendono ad evitare in qualche modo
una duplicazione di punizione per lo stesso fatto.
Il problema del rischio della doppia condanna per lo stesso fatto è
stato affrontato da alcuni Stati nelle convenzioni internazionali. Per
quanto concerne l’Italia va ricordato che la Convenzione Europea di
estradizione ed il Trattato con gli Stati Uniti d’America escludono l’estradizione quando in Italia per lo stesso fatto sia stata emessa sentenza definitiva, mentre prevedono solo la facoltà di rifiutarla nella
ipotesi di pendenza di un procedimento in corso. In mancanza di una
(11) CATELANI, I rapporti internazionali in materia penale, ed. 1995 Giuffrè editore.
(12) G.A. DE FRANCESCO, voce Estradizione, in Nss. Digesto Italiano, Appendice
III, Torino 1982.
(13) Cass. Sez. VI 13 ottobre 1995 (C.C. 20 settembre 1995); Cass. Sez. VI 30
marzo 1993 (C.C. 5 febbraio 1993).
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convenzione o se essa non dispone diversamente, l’art. 705 c.p.p. prevede che la Corte non può pronunziarsi favorevolmente se per lo stesso fatto è stata pronunziata nei confronti dell’estradando una sentenza irrevocabile o è in corso procedimento penale. È di tutta evidenza
che quando si parla di procedimento in corso si deve intendere anche
il procedimento in fase di indagini preliminari.
5) La decisione. Il ricorso per cassazione.
La Corte decide con sentenza emessa in camera di consiglio con le
forme previste dagli artt. 127 c.p.p. e 45 disp. att.. La sentenza sarà
favorevole o contraria alla richiesta estradizione e potrà contenere
provvedimenti riguardanti la libertà personale dell’estradando ed il
sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato. Tali provvedimenti formeranno oggetto di uno specifico capitolo dedicato alle
misure cautelari.
Avverso la decisione della Corte di Appello può essere proposto
ricorso per cassazione dalle parti del procedimento (art. 706 c.p.p.)
con le forme e nei termini previsti per il ricorso ordinario. La particolarità del giudizio avanti alla cassazione in materia di estradizione è
costituita dal potere riconosciuto al giudice di legittimità di giudicare
anche nel merito, disponendo dei medesimi strumenti istruttori riconosciuti alla Corte di Appello. Trovano, infatti, applicazione le disposizioni di cui all’art. 704 c.p.p. richiamate dal successivo art. 706 c.p.p.
comma 2. Ne deriva che la Corte di Cassazione, giudicando anche nel
merito, supplisce alle deficienze della sentenza impugnata e, quindi, la
sua pronuncia non può essere una decisione di rinvio. Tuttavia, tale
regola non può avere carattere assoluto, perché nei casi di nullità non
sanata ed ancora rilevabile, verificatasi nel giudizio davanti alla Corte
di Appello, l’annullamento con rinvio è imposto dall’esigenza di assicurare la valida e concreta attuazione del doppio grado di giurisdizione, previsto dalla legge, ai sensi dell’art. 604 comma 4 c.p.p. formulato proprio con riguardo ad una fase d’impugnazione, quella di appello, nella quale al giudice competono poteri di accertamento sul merito (14).
Quando la decisione è contraria all’estradizione non può, a segui-
(14) Cass. Sez. VI 11 novembre 1994 (C.C. 31 ottobre 1994).
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to di una successiva domanda dello stesso Stato per i medesimi fatti,
essere emessa una sentenza favorevole all’estradizione, salvo che la
domanda nuova sia fondata su elementi nuovi non sottoposti alla precedente valutazione dell’autorità giudiziaria (art. 707 c.p.p.).
Una volta divenuta irrevocabile, la sentenza verrà comunicata a
cura della cancelleria al Ministro di Grazia e Giustizia (art. 203 disp.
att.) per i provvedimenti di competenza.
Fase amministrativa finale.
Il complesso procedimento estradizionale si conclude con il provvedimento del Ministro di Grazia e Giustizia di contenuto positivo o
negativo a seconda della sua valutazione di opportunità politicaamministrativa. Il Ministro è vincolato ad una decisione negativa solo
quando l’autorità giudiziaria si è pronunziata in senso contrario all’estradizione (art. 701 c.p.p.). La decisione giurisdizionale favorevole
non obbliga il Ministro a concedere l’estradizione. Di norma, avendo
il Ministro già in fase preliminare valutato la possibilità di accoglimento della domanda dello Stato estero trasmettendo gli atti all’autorità giudiziaria, il provvedimento finale di consegna dell’estradando
viene adottato de plano. Tuttavia, non si può escludere che, in vicende
di particolare delicatezza o per fatti sopravvenuti nel corso del procedimento, il Ministro possa riesaminare la situazione negando l’estradizione in contrasto con le precedenti valutazioni.
La decisione del Ministro va adottata entro il termine indicato dall’art. 708 c.p.p., con conseguente liberazione dell’estradando in caso di
inosservanza, e comunicata senza indugio allo Stato richiedente. Se
negativa e se previsto dalla Convenzione con lo Stato richiedente, il
Ministro è tenuto ad indicare le ragioni del mancato accoglimento
della domanda.
Le disposizioni del codice di procedura penale vigente, a differenza del precedente, disciplinano dettagliatamente la fase amministrativa finale fissando precise scadenze sia a garanzia del diritto di libertà
dell’estradando e sia per evitare una durata prolungata del procedimento. Così sono previsti il termine di quarantacinque giorni per la
decisione del Ministro, la comunicazione senza indugio allo Stato
richiedente del provvedimento ministeriale ed il termine di quindici
giorni, prorogabile di altri venti, per la consegna dell’estradando (art.
708 c.p.p.. Il provvedimento di concessione dell’estradizione extraconvenzionale deve contenere la clausola espressa applicativa del princi-
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pio di specialità secondo la quale l’estradato non può essere sottoposto a restrizione della libertà personale in esecuzione di pena o misura di sicurezza, né assoggettato ad altra misura restrittiva della libertà
personale o consegnato ad altro Stato per un fatto anteriore alla consegna e diverso da quello per il quale è concessa l’estradizione (art. 699
c.p.p.). Trattasi di una significativa novità del nuovo codice di procedura penale, perché rispetto alla precedente disciplina, non solo si
regolamenta in maniera autonoma e dettagliata il principio ma se ne
restringe la portata, per le estradizioni extraconvenzionali, all’ineseguibilità dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, non
ponendo alcun limite all’esercizio della giurisdizione da parte dello
Stato richiedente, come invece previsto dall’art. 661 del del codice previgente che, facendo riferimento al divieto di giudicare l’estradato,
sanciva una condizione assoluta di improcedibilità. Il rispetto della
clausola come delle condizioni alle quali il Ministro può subordinare
la concessione dell’estradizione ai sensi del comma 3 dell’art. 699
c.p.p.), è rimessa alla correttezza e lealtà dello Stato richiedente, mancando al Ministro un potere di imposizione. L’eventuale inosservanza
potrà costituire un illecito internazionale con conseguenze sul piano
dei rapporti tra i due Stati interessati.
Qualora lo Stato richiedente nel termine fissato non provvede a
prendere in consegna l’estradando, il provvedimento di concessione
dell’estradizione perde efficacia con tutte le conseguenze del caso, tra
le quali la liberazione immediata dell’estradando.
L’art. 709 c.p. prevede anche l’ipotesi della sospensione dell’esecuzione dell’estradizione nelle ipotesi, non occasionali, di pendenze
penali in Italia a carico dell’estradando perché imputato o condannato in espiazione di pena. Di norma in tali casi la consegna allo Stato
richiedente viene eseguita a soddisfatta giustizia italiana. È, comunque, prevista la possibilità per il Ministro di disporre, previo parere
dell’autorità giudiziaria procedente, la consegna temporanea dell’estradando per soddisfare particolari esigenze dello Stato richiedente.
L’esecuzione delle misure di sicurezza, invece, non può costituire
motivo di sospensione perché va rinviata, previo nuovo accertamento
della pericolosità sociale, dopo il rientro in territorio nazionale dell’estradato (art. 713 c.p.p.).
Va, infine, accennato al problema della impugnabilità del decreto
ministeriale di estradizione. Secondo l’orientamento dottrinario prevalente, trattandosi di un atto politico sarebbe sottratto al regime delle
impugnazioni. La natura politica dell’atto di concessione dell’estradizione è stata, invece, esclusa dal Consiglio di Stato con la decisione in
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data 11 maggio 1966 ric. Accardo, e recentemente anche dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, al quale si era rivolto il cittadino italiano Pietro Venezia chiedendo l’annullamento del decreto ministeriale di estradizione verso gli Stati Uniti d’America. Il Tribunale
amministrativo, disattese le eccezioni sul difetto di giurisdizione prospettate dall’Avvocatura dello Stato, sospendeva in via provvisoria il
decreto ministeriale impugnato e promuoveva questione di legittimità
costituzionale dell’art. 698 comma 2 c.p.p. della legge 26 maggio 1984,
n. 225 di ratifica ed esecuzione del Trattato di estradizione tra l’Italia
e gli Stati Uniti d’America del 1983, nella parte in cui dà esecuzione
all’art. IX del trattato. La Corte Costituzionale con sentenza 27 giugno
1996, disattendendo le eccezioni riproposte, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle suindicate disposizioni di legge.
La materiale consegna alle autorità straniere è eseguita dalla polizia secondo le istruzioni impartite a seguito di intese, anche tramite il
Servizio Interpol, tra il Ministro di Grazia e Giustizia, il Ministro dell’Interno e le competenti Autorità dello Stato richiedente.
L’estradizione suppletiva – transito – riestradizione.
Qualora lo Stato che ha ottenuto in estradizione una persona
ricercata deve procedere nei suoi confronti anche per un fatto anteriore alla consegna, diverso da quello per il quale l’estradizione è stata
concessa, per superare la clausola di specialità deve presentare una
nuova domanda di estradizione, definita anche suppletiva o aggiuntiva. Le condizioni ed i presupposti sono gli stessi di una ordinaria
richiesta di estradizione ed il procedimento è identico a quello previsto per la prima richiesta, con l’unica differenza dell’assenza dell’interessato che si trova già all’estero per effetto dell’estradizione concessa.
È necessario, comunque, che la documentazione prodotta dallo Stato
richiedente contenga le dichiarazioni dell’estradando rese davanti ad
un giudice in ordine alla richiesta di estensione dell’estradizione ai
nuovi fatti. Se vi è il consenso, non seguirà la fase giurisdizionale (art.
710 c.p.p.), ma il Ministro rimane sempre libero di concedere o meno
l’estensione della estradizione.
L’art. 712 c.p.p. disciplina il transito dell’estradato da uno Stato ad
un altro. La documentazione dello Stato richiedente è la stessa di quella richiesta per una domanda ordinaria di estradizione. È, altresì, prevista una fase giurisdizionale davanti alla Corte di Appello di Roma,
fase che non avrà luogo in presenza del consenso dell’estradato. Sono
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indicate particolari condizioni che ostano alla concessione dell’autorizzazione. L’oggetto della domanda è l’autorizzazione al transito sul
territorio nazionale dell’estradato, autorizzazione non necessaria
quando il transito avviene per via aerea senza scalo nel territorio
nazionale. Se lo scalo si verifica dovrà essere messa in moto la procedura per l’autorizzazione.
L’istituto della riestradizione consente ad uno Stato la consegna
ad un terzo Stato di una persona a sua volta avuta in estradizione. Per
il principio di specialità, come definito all’art. 699 c.p.p., per poter riestradare è necessario il consenso delle autorità italiane secondo la procedura prevista per la domanda aggiuntiva di estradizione (art. 711
c.p.p.). I provvedimenti ministeriali di estradizione suppletiva e di riestradizione devono contenere l’espressa menzione della clausola di
specialità (art. 699 c.p.p.).
LE MISURE CAUTELARI
Misure coercitive e cautelari reali.
Il codice di procedura penale vigente dedica alle misure cautelari
una specifica sezione comprendente sei articoli, dal 714 al 719. Innovando la precedente disciplina non considera più la custodia cautelare elemento indispensabile del procedimento di estradizione e conseguentemente non prevede, come il codice previgente, un meccanismo
automatico di cattura dell’estradando su richiesta del Ministro finalizzata alla sua consegna allo Stato richiedente. Adeguando la disciplina
alle garanzie costituzionali in materia di libertà personale ed ai principi affermati nelle convenzioni internazionali, il legislatore con il
nuovo codice ha previsto che il procedimento estradizionale possa
svolgersi anche nei confronti di persona in stato di libertà e che il
provvedimento cautelare può consistere in una delle misure coercitive
indicate nel capo II del titolo I del libro IV. L’applicazione della misura spetta all’autorità giudiziaria su richiesta del Ministro, secondo le
possibili esigenze cautelari, con particolare rilievo al pericolo di fuga,
atteso che il fine ultimo dell’estradizione è la consegna dell’estradando allo Stato richiedente.
La richiesta del Ministro rientra tra i suoi poteri di iniziativa in
materia di estradizione e costituisce una condizione processuale indispensabile, ma non vincolante, per l’emissione del provvedimento di
applicazione della misura da parte dell’autorità giudiziaria competen-
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te, che non può esercitare il potere coercitivo di ufficio (15). Quest’ultima è tenuta ad adottare la misura richiesta solo in presenza delle
condizioni che la legittimano secondo le disposizioni del codice, ad
eccezione di quelle di cui agli artt. 273 e 280, come espressamente prevede l’art. 714 comma 2 c.p.p.. L’applicazione della misura risulta svincolata, pertanto, dai limiti di pena di cui all’art. 280 c.p.p., avendo il
legislatore ritenuto prevalente l’esigenza di assicurare la consegna
della persona richiesta. Del pari, il mancato riferimento all’esistenza di
gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 c.p.p. trova giustificazione nella necessità di osservare le disposizioni convenzionali o codicistiche relative alle richieste condizioni per la concessione dell’estradizione. All’uopo al comma 3 l’art. 714 c.p.p. impone, come condizione
per l’adozione della misura, la verifica prognostica della sussistenza
delle condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione. Per
quanto concerne le esigenze cautelari ed in particolare il pericolo di
fuga o di sottrazione all’eventuale consegna va osservato che la Cassazione ha affermato che esso deve essere fondato su elementi concreti,
ossia effettivi ed oggettivi, e non su presunzioni o preconcette valutazioni, come l’allontanamento dal territorio dello Stato che lo ricerca
(16). Diversamente opinando si verrebbe a riaffermare l’automatismo
della coercizione ai fini estradizionali che il legislatore con le nuove
disposizioni processuali ha voluto eliminare.
Tuttavia, in dottrina si sostiene anche che non si può prescindere dal
dato letterale del comma 2 lettera c dell’art. 715 c.p.p. che fa riferimento
al generico pericolo di fuga e non al concreto pericolo di fuga richiamato alla lettera b dell’art. 274 c.p.p., con la conseguenza che la particolare
esigenza cautelare va, comunque, valutata in maniera più elastica valorizzando anche elementi presuntivi dai quali poter desumere la volontà
del soggetto di sottrarsi alla consegna allo Stato richiedente (17).
Ad ulteriore conforto di tale tesi, si osserva che il comma 2 dell’art.
714 c.p.p. richiamando l’esigenza di garantire che l’estradando non si
sottragga all’eventuale consegna, non richiede l’accertamento rigoroso
delle condizioni di cui alla lettera b dell’art. 274 c.p.p. essendo sufficiente un potenziale timore di fuga.
(15) Cass. Sez. VI 26 aprile 1995 (C.C. 28 marzo 1995) Askin.
(16) Cass. Sez. VI 26 aprile 1995 (C.C. 28 marzo 1995) Askin.
(17) Aldo MANFREDI, L’estradizione attiva e passiva nel nuovo codice di procedura penale, parte seconda.
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Si è in precedenza accennato al necessario atto di impulso del
Ministro per l’adozione di una misura coercitiva e si è anche riconosciuto che esso non obbliga l’autorità giudiziaria. Ne discende che
quest’ultima non è vincolata dalla richiesta ed è, quindi, libera di
decidere se sussistono le condizioni per l’applicazione della misura ed
in caso di accertamento positivo di adottare la misura ritenuta più
idonea a garantire la consegna dell’estradando allo Stato richiedente.
Il rapporto tra richiesta ministeriale e poteri dell’autorità giudiziaria
diventa problematico quando trattasi di richiesta fatta ai sensi dell’art. 704 comma 3 c.p.p. cioè dopo la decisione favorevole all’estradizione. Secondo la dizione letterale la richiesta di custodia cautelare in carcere sarebbe vincolante per l’autorità giudiziaria, ma una tale
interpretazione contrasterebbe con la ratio della nuova disciplina. In
proposito la Corte di Cassazione ha sostenuto che anche nell’ipotesi
di cui all’art. 704 comma 3 c.p.p. la richiesta ministeriale non può
obbligare il giudice ad applicare la misura della custodia cautelare in
carcere (18).
La misura coercitiva può essere adottata nel corso del procedimento di estradizione, su richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia,
dopo l’arrivo della domanda di estradizione oppure prima della
domanda di estradizione in via provvisoria, sempre su richiesta del
Ministro, o ancora, nei casi di urgenza, a seguito di arresto da parte
della polizia della persona nei confronti della quale lo Stato estero ha
emesso un provvedimento restrittivo della libertà personale ed ha
chiesto l’arresto provvisorio per fini estradizionali.
La competenza ad emettere il provvedimento spetta secondo le
varie ipotesi alla Corte di Appello o alla Corte di Cassazione, quando
il procedimento è in corso davanti a tale organo, e, nei casi di arresto
da parte della polizia, al Presidente della Corte di Appello. La possibilità prevista per la Corte di Cassazione di applicazione di una misura
coercitiva è conseguenziale alla competenza di merito eccezionalmente riconosciuta a tale organo dall’art. 706 c.p.p..
Al pari delle misure coercitive, in materia di estradizione il Ministro di Grazia e Giustizia può chiedere all’autorità giudiziaria in ogni
tempo il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato
per il quale è domandata l’estradizione. Per l’esecuzione si applicano,
(18) A.N.P.P. 1993 nn. 3/4 pag. 353. Cass. Sez. VI 16 aprile 1991 (C.C. 4 marzo
1991) Alexandridis in Giur. It. 1992, II, c. 32.
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in quanto applicabili, le disposizioni del codice di procedura penale di
cui al libro III, titolo III capo III. Anche per il sequestro vale la regola
della verifica prognostica dell’esistenza delle condizioni per una sentenza favorevole all’estradizione (art. 714 comma 2 c.p.p.). Come per
le misure coercitive il sequestro può essere disposto in via provvisoria
prima della domanda di estradizione ed eseguito dalla polizia giudiziaria, di sua iniziativa, in caso di arresto ai sensi dell’art. 716 c.p.p..
In tale ipotesi il sequestro non è soggetto a convalida (19).
Arresto eseguito dalla polizia giudiziaria.
In precedenza si è accennato alla possibilità di arresto per fini
estradizionali ad opera della polizia giudiziaria prima della presentazione della domanda da parte dello Stato estero. L’ipotesi si verifica
quando nei confronti di una persona è stato emesso dalle autorità di
uno Stato estero un provvedimento restrittivo della libertà personale e
conseguentemente sono state autorizzate le ricerche in campo internazionale tramite il Servizio Interpol. Se il ricercato ha trovato rifugio
in Italia, la polizia giudiziaria, di sua iniziativa ricorrendo determinate condizioni, può trarlo in arresto. La norma che attribuisce alla polizia giudiziaria tale potere è l’art. 716 c.p.p.. Presupposto dell’arresto è
la domanda di arresto provvisorio da parte dello Stato richiedente. I
requisiti richiesti, che debbono essere presenti congiuntamente, sono
l’avvenuta emissione all’estero del provvedimento restrittivo, la manifesta intenzione dello Stato richiedente di richiedere l’estradizione, la
descrizione dei fatti con la specifica indicazione del reato e degli elementi per l’esatta identificazione della persona, l’esistenza del pericolo di fuga e l’urgenza. Tali elementi sono indicati nel citato art. 716 in
maniera specifica e con l’espresso richiamo all’art. 715 comma 2
c.p.p.. Per quanto concerne l’urgenza, si deve aver riguardo alla particolare situazione di imminente pericolo di fuga non altrimenti evitabile, che impedisce di attendere l’emissione di un provvedimento dell’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 715 c.p.p..
Una volta eseguito l’arresto, l’autorità procedente deve informare
immediatamente il Ministro di Grazia e Giustizia e mettere l’arrestato a disposizione della autorità giudiziaria al più presto e, comunque,
(19) Cass. Sez. VI 7 luglio 1995 (C.C. 7 giugno 1995) Monya.
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non oltre le quarantotto ore dall’avvenuto arresto. La messa a disposizione avviene con la trasmissione del verbale di arresto, nel quale
dovranno essere indicati in maniera idonea le condizioni legittimanti l’intervento restrittivo per consentirne il successivo controllo da
parte dell’autorità giudiziaria competente, individuata nel Presidente
della Corte di Appello nel cui distretto è avvenuto l’arresto. Entro le
novantasei ore dall’arresto, il Presidente, se non deve disporre la liberazione dell’arrestato per inosservanza dei termini e per insussistenza di una delle condizioni legittimanti l’arresto, lo convalida con ordinanza e dispone l’applicazione di una misura coercitiva come conseguenza inevitabile dell’avvenuta convalida. La competenza funzionale è del solo Presidente della Corte e non del collegio. Con l’ordinanza vengono adottati due provvedimenti strutturalmente e funzionalmente distinti che debbono essere adeguatamente motivati: il primo
di convalida dell’arresto ed il secondo di applicazione di una misura
coercitiva, previa valutazione delle esigenze cautelari di cui all’art.
274 c.p.p. con particolare riferimento a quella, indicata nell’art. 274
comma 2 c.p.p. di garantire che la persona arrestata non si sottragga
all’eventuale consegna, e dei criteri di scelta delle misure cautelari
personali stabiliti dall’art. 275 c.p.p. (20). Il controllo sulla legittimità
dell’arresto da parte del Presidente della Corte di Appello è di natura
diversa da quello compiuto a norma dell’art. 391 c.p.p. sia con riferimento ai termini per la convalida sia con riguardo alle garanzie giurisdizionali e sia per quanto concerne l’adozione della misura coercitiva. Tale controllo si risolve in definitiva in una mera verifica cartolare che non influisce sull’esito del procedimento di estradizione e
sulla possibilità di applicazione nel corso del procedimento di una
misura cautelare diretta ad assicurare la consegna dell’estradando
allo Stato richiedente (21).
In sede di convalida ed applicazione della misura coercitiva, il Presidente della Corte di Appello deve procedere anche ad una valutazione, sia pure sommaria per l’esiguità dei dati disponibili in tale fase,
dell’inesistenza di motivi che potrebbero giustificare una sentenza sfavorevole all’estradizione ai sensi dell’art. 714 comma 3 c.p.p., che
afferma un principio di carattere generale in materia di estradizione
applicabile a tutte le misure cautelari, comprese quelle provvisorie.
(20) Cass. Sez. I 23 aprile 1990 (C.C. 18 aprile 1990) Gonon.
(21) Cass. Sez. VI 10 marzo 1995 (C.C. 10 marzo 1995) Askin.
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Ipotesi di divieto di estradabilità è ad esempio, dopo l’intervento della
Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità del comma 2 dell’art. 698 c.p.p. con la sentenza 223 del 25 giugno 1996, l’attribuzione
all’estradando di un fatto punito dallo Stato richiedente con la pena di
morte oppure, in mancanza di convenzione, la pendenza in Italia di un
procedimento penale per lo stesso fatto o l’esistenza di una condanna
irrevocabile, come previsto dall’art. 705 comma 1 c.p.p.. Anche in presenza di una convenzione internazionale che riconosca allo Stato italiano la facoltà di rifiutare, come l’art. 8 della Convenzione Europea di
Estradizione del 1957, e non l’obbligo di concedere l’estradizione in
pendenza in Italia di un procedimento penale per il medesimo fatto,
sussiste per la Corte Costituzionale il divieto di estradizione di cui
all’art. 705 comma 1 ultima parte c.p.p., con esclusione di ogni potere
discrezionale del Ministro (22).
La fattispecie disciplinata dall’art. 716 c.p.p. è l’unico caso in
materia nel quale l’autorità giudiziaria può emettere un provvedimento cautelare senza la preventiva richiesta del Ministro e proprio per
questo caratterizzato dalla provvisorietà. L’intervento ministeriale è
previsto ex post al fine del mantenimento della misura. Infatti, la misura è revocata se, entro dieci giorni dalla emissione dell’ordinanza di
convalida e di applicazione della misura coercitiva, che va immediatamente comunicata al Ministro, questi non ne chiede il mantenimento (art. 716 comma 4 c.p.p.). La mancanza della dichiarazione ministeriale si risolve, in sostanza, in una sorta di condizione risolutiva
della disposta misura.
Vicende delle misure cautelari.
L’art. 717 c.p.p. impone nei casi di applicazione di una misura
coercitiva a norma degli artt. 714, 715 e 716 c.p.p., quindi in qualsiasi
caso, in via provvisoria o meno, al Presidente della Corte di Appello di
sentire formalmente l’estradando al fine specifico della sua identificazione e della raccolta dell’eventuale consenso all’estradizione. La
norma prevede alcuni adempimenti ed indica un termine massimo di
cinque giorni dall’esecuzione del provvedimento o dalla convalida del-
(22) Corte Costituzionale n. 58 del 14 febbraio 1997 (depos. 3 marzo 1997) Priebke
Erick.
423
l’arresto operato dalla polizia giudiziaria. Non è prevista alcuna sanzione di inefficacia della misura al pari di quanto indicato nell’art. 302
c.p.p. in caso di omissione di tale incombente o di inosservanza del
termine. L’esame dell’estradando, attesa la particolare finalità e la
natura della misura coercitiva che non deve essere necessariamente la
custodia cautelare, non è assimilabile all’interrogatorio di cui all’art.
294 c.p.p.. Inoltre, va rilevata la ripetizione, che potrebbe apparire
superflua, di un tale esame quando la misura viene applicata ai sensi
dell’art. 714 c.p.p. ed il Procuratore Generale ha già sentito l’estradando per le stesse finalità ai sensi dell’art. 703 comma 2 c.p.p.. Nonostante la mancata specifica previsione della perentorietà del termine
di cui all’art. 173 c.p.p., si sostiene in dottrina (23) che esso deve intendersi perentorio, tenuto conto dell’espressione usata dal legislatore,
delle finalità che sono pur sempre di controllo di un provvedimento
incidente sulla libertà personale e del limite assoluto fissato in cinque
giorni per il compimento dell’atto, con la conseguenza che l’inosservanza comporterebbe la perdita di efficacia della misura.
La misura cautelare può essere applicata, sussistendo i presupposti e le condizioni richieste, in ogni tempo, come previsto dall’art. 714
c.p.p. e, quindi, anche dopo la definitiva decisione dell’autorità giudiziaria favorevole all’estradizione (24). Per la fase giurisdizionale, a
seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 12 del 1991 all’art. 714
c.p.p. sono previsti termini diversi di durata della misura coercitiva
dall’inizio della sua esecuzione: un anno per la definizione del procedimento davanti alla Corte di Appello ed un anno e sei mesi, in caso di
ricorso per cassazione per l’esaurimento del procedimento davanti
all’autorità giudiziaria. Tali termini sono prorogabili su richiesta del
Procuratore Generale per un periodo complessivo di non oltre tre
mesi, quando debbono essere eseguiti accertamenti di particolare
complessità, con riferimento evidente alla necessità di acquisire ulteriore documentazione dall’estero e non certo ad inammissibili indagini in Italia o all’estero (25).
Va rilevato che il decorso dei termini di cui sopra comporta la
revoca di qualsiasi misura coercitiva applicata e non solo di quelle di
custodia cautelare, ma non anche del sequestro del corpo del reato o
(23) Aldo MANFREDI, op. cit.
(24) Cass. Sez. VI 17 luglio 1995 (C.C. 12 luglio 1995) Sommer.
(25) Cass. Sez. VI 30 aprile 1991 (C.C. 25 febbraio 1991) Emerson.
424
delle cose pertinenti al reato, che pur essendo una misura cautelare
reale non è una misura coercitiva. Un’altra ipotesi di revoca della sola
misura coercitiva è costituita dalla mancata dichiarazione ministeriale, di cui al comma 4 dell’art. 716 c.p.p., entro dieci giorni dalla convalida, in caso di applicazione provvisoria a seguito di arresto da parte
della polizia giudiziaria, mentre tutte le misure cautelari, sia personali che reali applicate provvisoriamente, perdono efficacia e sono revocate se entro quaranta giorni, o nel diverso termine previsto dalle singole convenzioni internazionali, dalla comunicazione fatta dal Ministro di Grazia e Giustizia allo Stato estero o anche dalla data dell’arresto, come previsto da norme pattizie (26), non è pervenuta la documentazione di cui all’art. 700 c.p.p.. Del pari, quando la decisione giurisdizionale è sfavorevole all’estradizione la Corte revoca le misure
cautelari e dispone in ordine alla restituzione delle cose sequestrate
(art. 704 comma 4 c.p.p.).
Nella fase amministrativa successiva a quella giurisdizionale sono
previsti dall’art. 708 c.p.p. come accennato in precedenza, termini
perentori per la decisione ministeriale di accoglimento o rigetto della
domanda di estradizione e per la ricezione in consegna dell’estradando da parte dello Stato richiedente. Alla scadenza infruttuosa dei termini previsti dal codice o dalle convenzioni, fatte salve le diverse
disposizioni pattizie, consegue la liberazione dell’estradando, se detenuto, e la perdita di efficacia della misura della custodia cautelare
applicata. È stato ritenuto che al ritardo del Ministro di Grazia e Giustizia nel comunicare allo Stato richiedente la sua decisione di concedere l’estradizione, il luogo della consegna e la data a partire dalla
quale sarà possibile procedere, non consegue la scarcerazione dell’estradando detenuto, prevista solo nelle diverse ipotesi, insuscettibili di
applicazione analogica, nelle quali il Ministro non provveda nel termine previsto alla decisione in merito all’estradizione ovvero lo Stato
richiedente non prenda in consegna l’estradando nel termine fissato
dal Ministero (27).
A conferma del potere di impulso riconosciuto al Ministro di Grazia e Giustizia in materia di misure cautelari in precedenza evidenziato, l’art. 718 c.p.p. attribuisce al predetto la facoltà di richiedere in
ogni tempo la revoca della misura applicata. Tale richiesta vincola il
(26) Convenzione Europea di estradizione art. 16.
(27) Cass. Sez. V 30 gennaio 1991 (C.C. 21 dicembre 1990) Van Meenen.
425
giudice che è obbligato a revocare la misura. La revoca o la sostituzione delle misure cautelari sono disposte in camera di consiglio dalla
Corte sia di Appello che di Cassazione, a seconda della fase del giudizio (art. 718 c.p.p.). La competenza a decidere è, pertanto, del collegio
e non del solo Presidente.
Avverso i provvedimenti in materia di misure cautelari l’art. 719
c.p.p. consente il solo rimedio del ricorso per cassazione per violazione di legge. A differenza del ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte di Appello sull’estradabilità previsto dall’art. 706 c.p.p.
che riguarda anche il merito e può essere proposto anche dal rappresentante dello Stato richiedente, l’impugnazione del provvedimento in
materia cautelare è limitato al solo motivo della violazione di legge e
può essere proposto dal Procuratore Generale, dall’estradando o dal
suo difensore con esclusione del rappresentante dello Stato estero. Le
modalità ed i termini per la proposizione del ricorso, in mancanza di
un disciplina specifica, sono quelli di cui all’art. 311 commi 2, 3 e 4
c.p.p. coordinati, per quanto attiene alla decorrenza del termine, con
il disposto dell’art. 719 c.p.p.. Ne discende che il ricorso va proposto
entro dieci giorni dalla comunicazione al Procuratore Generale o dalla
notificazione all’interessato o al suo difensore di copia del provvedimento, dopo la sua esecuzione, con atto contenente i motivi alla cancelleria del giudice competente (28). Il tribunale del riesame è funzionalmente incompetente a decidere in materia di misure cautelari relative al procedimento estradizionale (29).
Conclusioni.
Il procedimento di estradizione è, comunque, strumentale e complementare al procedimento principale di cognizione o di esecuzione
pendente davanti all’autorità giudiziaria straniera dello Stato richiedente. Il legislatore con il nuovo codice di procedura penale, ispirandosi alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali e, sul piano specifico, alla Convenzione
europea di estradizione, ha dedicato particolare attenzione al rispetto
dei diritti di difesa ed alla tutela della libertà personale dell’estradan-
(28) Cass. Sez. I 23 aprile 1990 (C.C. 18 aprile 1990) Gonon.
(29) Cass. Sez. VI 20 luglio 1994 (C.C. 27 aprile 1994) Giessanf A.L.
426
do. Sono state attuate, pertanto, significative innovazioni rispetto alla
disciplina del codice previgente. È stata riconosciuta la regola che
impone l’estradizione quale strumento esclusivo per la consegna ad
uno Stato estero di una persona ricercata a seguito dell’emissione nei
suoi confronti di un provvedimento restrittivo della libertà personale,
è stata abolita la previsione dell’offerta in estradizione riconosciuta al
Ministro di Grazia e Giustizia dall’art. 661 c.p.p. previgente, sono stati
indicati precisi criteri di competenza territoriale, sono stati attribuiti
ai difensori più ampi poteri di intervento e, soprattutto, sono state
riconosciute maggiori garanzie in materia di tutela personale dell’estradando, la detenzione del quale non è più considerata un conseguenza indispensabile dell’inizio del procedimento di estradizione il
regime proprio del procedimento penale ordinario.
427
EFFETTI DELLE SENTENZE PENALI STRANIERE.
ESECUZIONE ALL’ESTERO DI
SENTENZE PENALI ITALIANE
Relatore:
dott. Giovanni GIACALONE
Magistrato di tribunale applicato alla Corte di Cassazione
SOMMARIO: Parte prima – Gli effetti delle sentenze penali straniere: 1. Generalità – 2. Il riconoscimento previsto agli effetti del codice penale – 2.1 La sentenza straniera
prima del riconoscimento – 2.2 Finalità del riconoscimento – 2.3 La richiesta
del Procuratore Generale – 2.4 La specificità degli effetti – 3.1 Il riconoscimento a norma di accordi internazionali – 3.2 Il meccanismo procedurale dell’esecuzione extraterritoriale – 4.1 Il riconoscimento agli effetti civili – 4.2 La
nozione di “altri effetti civili” – 5.1 I presupposti “positivi” dei tipi di riconoscimento considerati – 5.2 I presupposti “negativi” comuni ai tipi di riconoscimento considerati – 6.1 La deliberazione della Corte di Appello (art. 734
c.p.p.) – 6.2 L’impugnazione della decisione della Corte – 7. L’adattamento
della sanzione nell’esecuzione extraterritoriale (art. 735 c.p.p.) – 8. Le misure
coercitive e il sequestro – 9. Il regime dell’esecuzione (art. 738 c.p.p.) – 10.
Divieto di estradizione e di nuovo procedimento (art. 739 c.p.p.) – 11. Pena
pecuniaria e cose confiscate – 12. Il riconoscimento dei “capi” civili della sentenza. – Parte seconda – Esecuzione all’estero di sentenze penali italiane: 1.1.
Poteri del Guardasigilli e presupposti dell’esecuzione all’estero – 1.2 L’iniziativa del Ministro – 1.3 Le condizioni per l’esercizio dell’iniziativa ministeriale –
1.3.1 Esistenza di una decisione penale italiana irrevocabile – 1.3.2 Il consenso del condannato – 1.3.3. L’idoneità a favorire il reinserimento sociale del
condannato – 1.3.4. Il diniego o l’impossibilità di estradizione – 2. La procedura – 3. I limiti all’esecuzione della condanna all’estero – 4. Le misure cautelari all’estero – 5. Esecuzione all’estero ed esecuzione nello Stato.
PARTE PRIMA
Gli effetti delle sentenze penali straniere
1. Generalità
Il codice di rito prevede quattro tipologie per il riconoscimento delle
sentenze penali straniere: riconoscimento agli effetti previsti dal codice
penale (art. 730); riconoscimento delle statuizioni penali agli effetti civi-
429
li (art. 732; riconoscimento dei “capi” civili e riconoscimento, a fine di
esecuzione, dei capi penali in forza di accordi internazionali.
Mentre le prime tre tipologie ricalcano istituti già presenti nel vecchio codice di rito, ricollegabili all’efficacia delle sentenze straniere
delineata dall’art. 12 del codice penale, la quarta rappresenta una
novità assoluta per l’ordinamento italiano, introdotta per dotare il
sistema di uno strumento duttile, che tracciasse il tessuto processuale
sul quale innestare la disciplina della cooperazione giudiziaria internazionale in materia risultante dai vari accordi multilaterali e bilaterali di settore sottoscritti dall’Italia. Non risulta, tuttavia, centrato l’obiettivo di un’organica sistemazione della materia, posto che l’attuazione di talune convenzioni internazionali aventi ad oggetto l’esecuzione delle sentenze penali (convenzione sul trasferimento delle persone condannate, Strasburgo 21 marzo 1983; convenzione per l’esecuzione delle sentenze penali tra Italia e Thailandia del 28 febbraio 1984;
Convenzione europea per la sorveglianza delle persone condannate o
liberate condizionalmente, Strasburgo 30 novembre 1964) ha formato
oggetto della legge 3 luglio 1989, n. 257 (G.U. 19 luglio 1989, n. 167),
le cui disposizioni – così come quelle confluite nel tit. IV del libro XI
del nuovo c.p.p. – sono il frutto di uno “stralcio” operato rispetto ad un
più ambizioso disegno di legge generale sulla cooperazione giudiziaria internazionale (n. 744 del 1988, Atti Camera, a sua volta ripresentante il D.D.L. n. 1741 del 1986, Atti Camera), comprendente anche
una radicale modifica dell’art. 11 cod. pen. e la disciplina dell’istituto
del ne bis in idem internazionale, non più discusso in sede parlamentare dopo i descritti “stralci”.
2. Il riconoscimento agli effetti previsti dal codice penale.
La sentenza straniera (di condanna o di assoluzione) deve essere
stata emessa nei confronti di cittadini italiani, ovvero di stranieri od
apolidi residenti in Italia, ovvero di persone non residenti ma sottoposte a procedimento penale in Italia (ipotesi quest’ultima non contemplata dell’art. 672 vecchio c.p.p.).
Il Ministro di Grazia e Giustizia trasmette copia della sentenza
(con traduzione italiana), le informazioni e la documentazione pertinente al procuratore generale presso la Corte d’Appello del distretto
ove ha sede il “casellario” competente ai fini dell’iscrizione: quello del
circondario in cui è nata la persona ovvero il casellario presso il Tribunale di Roma se la persona è nata all’estero o non se ne sia potuto
430
accertare il luogo di nascita (art. 685 c.p.p.). La trasmissione deve
avvenire “senza ritardo”; tuttavia, come per l’analoga disposizione di
cui all’art. 672 vecchio codice, non c’è alcuna sanzione processuale in
caso d’inosservanza della norma (Cass., Sez. I, 13 novembre 1979,
Cirra, mass. 143922; Sez. III, 15 gennaio 1964, Adamo, m. 099056, in
Giust. pen., 1964, II, 521).
2.1. La sentenza straniera prima del riconoscimento. Prima di essere riconosciuta, la sentenza straniera è giuridicamente irrilevante nell’ordinamento italiano.
Del resto l’art. 730.1 c.p.p. non riproduce l’inciso dell’art. 672 vecchio codice, secondo cui il Ministro trasmetteva la sentenza da riconoscere “ordinate le debite iscrizioni”; al contempo, l’art. 686.2 nuovo
codice prevede l’iscrizione, al casellario, delle sentenze straniere solo
quando “sono state riconosciute dall’autorità giudiziaria”.
Viene così fugato ogni dubbio sul valore da attribuirsi alle sentenze straniere iscritte, ma non ancora riconosciute, in base alla disciplina codicistica anteriormente vigente.
Correttamente, la giurisprudenza di legittimità aveva spesso affermato che, per prodursi gli effetti ricollegabili ex art. 12 cod. pen. alla
sentenza straniera, questa doveva necessariamente essere riconosciuta, avendo la previa iscrizione al casellario solo carattere informativo
(Cass., Sez. I, 24 ottobre 1972, Sorrentino, m. 123136; Sez. V, 16 febbraio 1972, Saracino, m. 120741; Sez. II, 20 aprile 1970, Da Broi, m.
117194; Sez. II, 19 ottobre 1965, Cipro, m. 100478). L’effetto chiarificatore della nuova disciplina, tuttavia, non è di poco conto, posto che,
in passato, altre decisioni avevano attribuito, alle sentenze iscritte e
non ancora riconosciute, valore “indicativo” (Cass., Sez. V, 24 marzo
1980, Caraceni, in Riv. pen, 1980, 838, ove, tuttavia, nel calcolo della
pena ai fini della prescrizione, fu escluso l’aumento dovuto alla recidiva, essendo questa stata contestata in forza di sentenza straniera
iscritta ma non ancora riconosciuta), o natura di “fatti indicativi della
condotta dell’imputato di cui il giudice di merito può e deve tener
conto (Cass., Sez. V, 12 giugno 1979, Seantore, m. 143383, che, in
forza di sentenza iscritta e non riconosciuta aveva riconosciuto legittimamente negabili le attenuanti generiche).
Sempre a “monte” del riconoscimento della sentenza straniera si
colloca il problema del rapporto tra tale istituto e quello del “rinnovamento” del giudizio, previsto, sia nei confronti degli italiani che degli
stranieri, quando il reato sia stato commesso in territorio italiano (art.
11 in rel. art. 6 cod. pen.). Se, invece, il reato è stato commesso all’e-
431
stero, alla discrezionalità del ministro “Guardasigilli” è affidata l’alternativa tra la richiesta di rinnovamento del giudizio e quella di riconoscimento della sentenza straniera eventualmente già pronunziata (art.
111, secondo comma, cod. pen.), discrezionalità da esercitarsi in rapporto al disvalore che il reato abbia presentato per la collettività nazionale.
Da tale disciplina si è desunto una sorta di presupposto “tacito”
dell’istituto del riconoscimento: questo è esperibile solo per le sentenze che concernano fatti per i quali non si possa procedere in base alla
legge italiana o per i quali non sia attivabile il “innovamento” del giudizio (DOMINIONI, Riconoscimento della sentenza straniera..., in
Diritto penale internaz, Quaderno de il Cons. Sup. Magistratura, 1979,
116). Per i reati commessi all’estero, la scelta del ministro, che propenda per il riconoscimento, anziché per il “rinnovamento”, non si
pone in contrasto con l’art. 7 cod. Pen.: Cass., Sez. III, 15 gennaio
1964, Adamo, cit., m. 099054.
Richiesta di procedimento e richiesta di riconoscimento non sono
“fungibili” e se il giudice italiano accerta che,per lo stesso fatto, si è già
proceduto all’estero deve accertare l’irrevocabilità della sentenza straniera ed informare il Ministro della giustizia, affinché questi venga
messo in grado di esercitare la descritta alternativa: Cass., Sez. II, 16
maggio 1966, Guglielmo, m. 102979, in Riv. pen. 1967, II, 169.
Finché non sarà generalizzato il divieto di bis in idem internazionale, il rinnovamento del giudizio rappresenta piena estrinsecazione
della giurisdizione penale dello Stato procedente, suscettibile solo di
raccordi con quella straniera, in forza di esigenze di elementare razionalità, come nel caso del computo della pena scontata all’estero (art.
138 cod. pen.). D’altra parte, se il rinnovato giudizio conduca ad un
proscioglimento in Italia, non potrà tenersi alcun conto del diverso
esito del giudizio avutosi all’estero: Cass., Sez. III, 6 giugno 1981, Tauber, m. 150448.
2.2 Finalità del riconoscimento. Gli effetti cui può tendere l’ipotesi
di riconoscimento in esame sono quelli di cui all’art. 12 n.ri 1, 2 e 3
cod. pen. (recidiva o altri effetti penali della condanna ovvero dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato e della tendenza a
delinquere; applicazione di pena accessoria prevista alla legge italiana;
sottoposizione del condannato o del prosciolto all’estero, che si trovi
in Italia, a misure di sicurezza personali), sul presupposto che la sentenza pronunziata all’estero riguardi un fatto preveduto come delitto
dalla legge italiana.
432
Secondo costante giurisprudenza, ai fini della recidiva, la richiesta
di riconoscimento della sentenza straniera non è subordinata alla pendenza di un procedimento, cioè di una contestazione, in Italia, non
occorrendo l’attualità degli effetti, ma solo la possibilità degli stessi
(tra le molte cfr. Cass., Sez. II, 13 novembre 1984, Cantieri, m. 167232;
Sez. VI, 15 maggio 1978, Pacchiar m. 139756; Sez. II, 4 febbraio 1977,
Zampollo, m. 135937, in Giust. pen., 1977, III, 23; Sez. I, 28 aprile
1976, Curzoli, m. 134291, ivi, 1977, 111159).
Gli “altri effetti penali della condanna”, di cui all’art. 12, n. 1, cod.
pen. sono tutti quelli diversi dalle restituzioni, dal risarcimento del
danno e dagli altri effetti civili. Essi sono rappresentati, tra l’altro, dall’ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena
(Cass., Sez. II, 28 ottobre 1970, Chiappani, m. 117421; nonché Cass.,
Sez. I, 28 ottobre 1992, Tonon, m. 192692, in tema di revoca del beneficio a seguito di riconoscimento di condanna estera), della “non menzione”, ovvero all’applicazione di misure sostitutive, etc. (per un’esposizione di tali effetti, PITTARO, in Commentario al nuovo c.p.p., a cura
di CHIAVARIO, 818, nota 19). Gli effetti del riconoscimento ex art. 12
c.p. sono fissati in maniera tassativa e non ne è consentita l’estensione analogica, sicché non può ritenersi la continuazione tra reati per i
quali sia in corso giudizio in Italia e reati accertati con sentenza straniera riconosciuta: Cass., Sez. II, 15 novembre 1982, Dirani, m.
159299; Sez. II, 21 ottobre 1980, Meinardi, m. 148077; Sez. II, 18 giugno 1973, Segnino, m. 125991.
Poiché l’amnistia impropria lascia intatti gli effetti penali della condanna diversi dalle pene accessorie (ai fini, ad es., della recidiva, abitualità, etc.), la sua concessione da parte dello Stato estero, sia la sua
applicazione in Italia non precludono il riconoscimento della sentenza
penale straniera avente ad oggetto il fatto amnistiato o amnistiabile
(Cass., Sez. III, 23 gennaio 1973, Salvaggi, m. 124735, 124737, con la
precisazione della costituzionalità di tali principi: m. 124736).
Si è specificato, altresì, che, poiché è la legge italiana che determina gli effetti penali della condanna, è superflua ogni indagine del
giudice italiano sull’asserita sopravvenienza di un’amnistia nello Stato
straniero (che sarebbe, comunque, “impropria” per il ns. ordinamento, in quanto successiva all’irrevocabilità della pronunzia straniera):
Cass., Sez. II, 17 gennaio 1972, Grassi, m. 121276. Sempre per il principio secondo cui le cause estintive del reato non operano dopo la formazione del giudicato, l’amnistia propria (così come la prescrizione)
non può operare rispetto al reato giudicato con sentenza straniera formante oggetto di riconoscimento in Italia: Cass., Sez. V, 15 maggio
433
1975, Bosca, m. 130441; Sez. III, 15 gennaio 1964, Adamo, m. 099057
cit.).
2.3. La richiesta del procuratore generale. Si configura come un atto
dovuto in presenza dei presupposti di cui all’art. 12 cod. pen. (esistenza di un trattato di estradizione o richiesta del ministro; reato da considerarsi delitto in base alla legge italiana, possibilità degli effetti
penali innanzi indicati) Anche in presenza della più ambigua formulazione dell’art. 672, c.p.v. vecchio c.p.p., la giurisprudenza era stata
costante nel ritenere dovuta l’attività propulsiva del P.G. in presenza di
detti requisiti: Cass., Sez. II, 15 ottobre 1976, Novella, m. 135921;, 27
aprile 1976, Foppiano, m. 134020, in Giust. pen., 1977, III, 337; 26
marzo 1976, Nastasi, m. 133803.
Per verificare la sussistenza di detti presupposti, il P.G. può chiedere informazioni alle autorità straniere, tramite il Guardasigilli. Nel
compiere tali attività, il P.G. non deve emettere informazione di garanzia, non rappresentando esse indagini preliminari, né di merito (cfr.
direttiva di cui all’art. 2 n. 38, parte quinta, della legge-delega e, per la
non necessità della preesistente informazione di garanzia: Cass., 20
ottobre 1975, Caronna, in Cass. pen., 1976, 892).
Se il P.G. ritiene che non sussistano i presupposti, non deve richiedere un decreto d’archiviazione, non vertendo la descritta indagine su
una “notitia criminis”.
2.4. La specificità degli effetti. A norma dell’art. 730.3, la richiesta
del P.G. alla corte d’appello deve contenere la specificazione degli
effetti per cui è chiesto il riconoscimento. Si tratta di un’innovazione
rispetto al sistema previamente vigente, nel quale, ad una sentenza
contenente un’affermazione generica di riconoscimento, potevano far
seguito una o più ordinanze indicanti effetti specifici nella Relazione
al Progetto preliminare del nuovo c.p.p., si è sottolineato che l’innovazione è aderente alle esigenze del contraddittorio e della difesa.
D’altra parte, la disposizione sottolinea il carattere “parziale” dell’esecuzione del giudicato straniero prevista nel nostro ordinamento.
Anche la sentenza di riconoscimento deve enunciare espressamente
“gli effetti che ne conseguono”: art. 734 cod. proc. pen. (LASZLOCZKY, L’esecuzione extraterritoriale del giudicato secondo il nuovo
c.p.p. in l’Indice pen, 1991, 67).
In effetti, anche in base alla disciplina del vecchio codice di rito, il
riconoscimento delle sentenze straniere poteva avvenire solo per gli
scopi espressamente e tassativamente previsti dalla legge, sicché
434
anche la sentenza di riconoscimento doveva indicare gli effetti specifici del riconoscimento (Cass., Sez. I, 12 maggio 1976, ord., Cerretti, m.
134565, in Giust. pen. 1977, III, 276; Sez. II, 13 marzo 1972, ord.,
Esposito, m. 121844; 17 gennaio 1972, ord., Grassi, m. 121275); ma
l’omessa specificazione di detti effetti non provocava nullità della sentenza di riconoscimento, sussistendo la possibilità di successiva specificazione degli effetti con l’emissione dell’ordinanza (decreto, in caso
di applicazione di misura di sicurezza) prevista dall’art. 674, ult.
comma, vecchio codice (Cass., Sez. I, 12 maggio 1976, Cerretti, m.
134562; Cass., Sez. II, 11 ottobre 1965, Bonvini, m. 100226; in Cass.
pen., 1965, II, 599).
3.1 Il riconoscimento a norma di accordi internazionali. La norma
di cui all’art. 731 rappresenta la novità di maggior rilievo introdotta
dal nuovo codice di rito nella materia in esame. La cooperazione giudiziaria in materia penale si estende e si perfeziona parallelamente
all’evolversi ed all’intensificarsi della circolazione delle persone da uno
Stato all’altro.
Non può esservi effettivo esercizio della libertà di circolare attraverso le frontiere se a tale circolazione non si accompagna anche la
possibilità di circolare con il proprio “bagaglio” di diritti, ma anche di
doveri, di sentenze di cui ottenere il rispetto, ma anche senza sottrarsi alle decisioni in cui si sia soccombenti. In campo penalistico, ciò
significa consentire che procedimento, condanna, esecuzione della
pena avvengano in uno Stato diverso da quello di commissione del
reato, specificamente in quello di cittadinanza o di residenza abituale
del reo.
Per assecondare tale tendenza si è dato vita a varie convenzioni
internazionali, specie nell’ambito del Consiglio d’Europa e dell’Unione
europea, con l’intento di creare un vero e proprio “spazio giudiziario
europeo”.
Per evitare che l’adattamento del diritto italiano a tali convenzioni venga ritardato dalla mancanza di procedure interne di applicazione, il nuovo codice di rito ha inteso predisporre un quadro procedurale tendenzialmente omogeneo. Mancando una specifica previsione
della legge-delega in tal senso, il legislatore ha collocato la nuova disciplina (che è la prima tendente effettivamente all’esecuzione della decisione straniera) nell’ambito del tradizionale istituto del riconoscimento delle sentenze straniere.
L’esecuzione extraterritoriale del giudicato è subordinata all’esistenza di una convenzione internazionale che espressamente la preve-
435
da, con la conseguenza che le disposizioni codicistiche in materia
hanno solo carattere integrativo delle norme pattizie, e non anche suppletivo in mancanza di dette norme (in tal senso, LASZLOCZKY, op.
cit., 74). La prevalenza delle norme internazionali, consuetudinarie e
pattizie, rispetto a tutte le norme codicistiche sui rapporti giurisdizionali con autorità straniere (art. 696 c.p.p.) comporta che anche il rito
per il riconoscimento degli effetti delle sentenze straniere ex art. 12
cod. pen. possa essere derogato da specifiche disposizioni internazionali (ad es. art. 5, n. 4, e art. 26 convenzione di Bruxelles del 28 settembre 1968 sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle
decisioni in materia civile e commerciale, ratificata con legge n. 804
del 1971). Sul rapporto tra norme dei codici e norme delle convenzioni internazionali, Cass., Sez. II, 11 gennaio 1985, Pagano, m. 168779,
ha affermato che le prime possono trovare applicazione, in tema di
estradizione e di relativa procedura, solo in quanto le convenzioni
internazionali non disciplinino l’istituto.
3.2. Il meccanismo procedurale dell’esecuzione extraterritoriale. La
procedura ricalca quella delineata dall’art. 730 c.p.p.. Compete al
Ministro di Grazia e Giustizia valutare se una sentenza pronunziata
all’estero “a norma di un accordo internazionale deve avere esecuzione in Italia”. L’interpretazione strettamente letterale della norma
potrebbe indurre a ritenere che il Ministro promuova l’esecuzione solo
in presenza di un obbligo internazionale, nascente dalla convenzione.
Tale “lettura” porterebbe a conclusioni irragionevoli, perché precluderebbe l’esecuzione ogniqualvolta la convenzione internazionale
preveda solo come facoltativa l’esecuzione extraterritoriale, come nel
caso della Convenzione del Consiglio d’Europa sul trasferimento delle
persone condannate del 1983. Si deve, pertanto, ritenere che la norma
abbia attribuito al Guardasigilli il potere di attivare il procedimento
che può consentire il trasferimento del condannato non solo nei casi
in cui vi sia un obbligo internazionale al trasferimento, ma anche in
quelli in cui l’Italia intenda esercitare soltanto una facoltà. In tal senso
induce a propendere la stessa Relazione al Progetto preliminare del
codice, laddove rileva che sono le disposizioni dell’accordo internazionale da applicare a determinare l’ampiezza del potere decisionale
del ministro” (per tale opinione, cfr. ampiamente, PADELLETTI, Il
trasferimento internazionale dell’esecuzione penale secondo il nuovo
codice, in Riv. dir. internazionale, 1988, 814, ove si precisa che, pur non
essendo previsto esplicitamente dal c.p.p., dovrebbe essere il Ministro
di Grazia e Giustizia a prestare il consenso al trasferimento del con-
436
dannato a norma della citata convenzione del 1983. Si vedano anche
le funzioni del Ministro ex art. 1 legge n. 257 del 1989).
Gli “altri effetti”, che alla sentenza estera da eseguire possano essere attribuiti nello Stato (italiano) – effetti sempre specificamente previsti dall’accordo internazionale di cui si chieda l’applicazione al ministro – possono essere, ad esempio, l’obbligo, per lo Stato richiesto, di
controllare una persona condannata o liberata sotto condizione.
L’incartamento che il ministro trasmette al P.G. territorialmente
competente deve contenere anche la domanda di esecuzione in Italia
formulata dallo Stato estero o l’atto con cui questo consente all’esecuzione nel nostro Paese.
Il P.G., constatata la presenza formale dei descritti requisiti,
richiede il riconoscimento alla Corte di appello.
Nel caso in cui siano presenti anche i requisiti di cui all’art. 12 n.
1, 2 e 3 c.p., il P.G. può formulare una richiesta “cumulativa” (art.
731.2. c.p.p.), ovviamente sempre specificando i singoli effetti per cui
domanda il riconoscimento.
Di conseguenza, la Corte d’appello deciderà con un’unica deliberazione, pur essa individuante la molteplicità degli effetti dell’ottenuto riconoscimento.
4.1. Il riconoscimento agli effetti civili. L’art. 732 cod. proc. pen,
ricalcando l’art. 673 del vecchio codice, concerne il riconoscimento dei
capi penali della sentenza straniera ai fini civili (l’art. 741, invece,
riguarda il riconoscimento degli eventuali capi civili della sentenza
stessa contenenti condanna alla restituzione o al risarcimento del
danno), così apprestando il meccanismo procedurale di attuazione ad
alcune delle ipotesi di cui all’art. 12, primo comma, n. 4 cod. pen..
Rispetto a quelle innanzi esaminate, questa ipotesi di riconoscimento non presuppone l’esistenza di un trattato internazionale, né l’alternativa richiesta del Guardasigilli, mentre è sempre necessario che
la sentenza riguardi un fatto qualificabile come “delitto” dalla legge
italiana.
Competente a pronunciare il riconoscimento è, anche in questa
ipotesi, la Corte d’appello ove ha sede il “casellario” competente (v.
prec. par. 2).
L’impulso spetta al privato interessato.
Si ritiene, tuttavia, che questi possa rivolgersi al Ministro della
Giustizia o a quello degli Esteri per ottenere, tramite i canali ufficiali,
la sentenza e la relativa traduzione se l’iniziativa sia stato assunta, ad
altri fini, dal Ministro della Giustizia, l’interessato può limitarsi a pre-
437
sentare la sua domanda in aggiunta a quella del P.G.. In tal caso, la
sentenza della Corte d’appello potrà contemplare sia gli effetti penali
sia quelli civili da ricollegare alla sentenza straniera.
4.2. Gli “altri effetti civili” considerati dall’art. 732 cod. proc. pen.
sono non solo quelli strettamente privatistici, bensì tutti gli effetti
“non penali, tra cui anche quelli di natura amministrativa, come l’impedimento o lo scioglimento del matrimonio per delitto (art. 88 cod.
civ. e art. 3 legge n. 898 del 1970), la revoca della donazione per ingratitudine (art. 801 cod. civ.), la esclusione dalla successione per indegnità (463 cod. civ.), etc. (PITTARO, in Commentario, cit., 826).
Giova ricordare che le modifiche relative alla capacità d’agire dell’individuo, determinate da una condanna penale straniera possono
considerarsi “efficaci” anche in assenza del riconoscimento, discendendo detta incapacità direttamente dalla legge dello stato di appartenenza dell’individuo e, quindi, riconosciuta ai sensi del rinvio operato
a tale legge dalle norme di diritto internazionale privato (nella specie
art. 17 disp. prel. cod. civ.: FERRARI BRAVO, Gli effetti delle condanne penali nel diritto internazionale privato italiano, in Riv. dir. internazionale, 1968, 37).
Tale tipo di riconoscimento si configura come istituto parallelo a
quello degli effetti del giudicato penale nei giudizi amministrativi e
civili (artt. 653 e 654 cod. proc. pen. e art. 28 vecchio codice).
Rientra nell’ipotesi di riconoscimento in esame anche la sentenza
straniera contenente una condanna generica alle restituzioni o al risarcimento del danno: la sentenza straniera vale come mero antecedente
storico per la statuizione di effetti civili da parte del giudice italiano
(DOMINIONI, op. cit., 112), il quale dovrà valutare la sussistenza di un
rapporto diretto di necessaria conseguenzialità tra i fatti posti a base
della sentenza straniera ed il diritto controverso (Cass., Sez. I, 14 ottobre 1968, Meirlaen, m. 109903). Non è applicabile, invece, l’art. 741
cod. proc. pen. riguardante, l’efficacia nel nostro ordinamento di capi
civili restitutori della sentenza straniera, aventi necessariamente un
contenuto specifico. Nell’ipotesi considerata, invero, ci si colloca nell’ambito del disposto dell’art. 651 cod. proc. pen. e il giudice italiano,
come nella fattispecie contemplata da quest’ultima norma, deve quantificare il risarcimento (PITTARO, Commentario, cit. 826).
5.1. I presupposti “positivi” dei tipi di riconoscimento considerati
(art. 733 cod. proc. pen.). Sono quelli delineati nell’art. 12 cod. pen. e
richiamati dagli artt. 730 e 732 cod. proc. pen. (qualificabilità del
438
fatto-reato come delitto, esistenza di una convenzione di estradizione
o dell’eventuale richiesta ministeriale) o dall’art. 731 (presenza di un
accordo internazionale contemplante l’esecuzione extraterritoriale,
richiesta o consenso dello Stato estero a detta esecuzione). Si tratta di
presupposti già vagliati dal Procuratore Generale.
L’esistenza del trattato di estradizione implica una valutazione
positiva, da parte italiana, dell’ordinamento giuridico penale dello
Stato da cui la sentenza proviene (SALVINI, voce Sentenza. Riconoscimento delle sentenze penali straniere, in Enc. Giur. Treccani, 4). L’esistenza del trattato va valutata con riferimento all’epoca di emanazione della pronunzia straniera, dovendosi a detto momento verificare il
grado di omogeneità tra ordinamento d’origine e Stato richiesto, senza
che influiscano eventuali successive modifiche della situazione
(DOMINIONI, op. cit., 116).
In mancanza del trattato di estradizione, il riconoscimento potrà
aver luogo grazie alla richiesta del Ministro della Giustizia, che ha la
funzione di fornire, nel caso concreto, analogo giudizio sulle garanzie
offerte dall’ordinamento straniero. Se necessaria, questa richiesta del
Ministro assume il carattere di condizione di procedibilità dell’azione
di riconoscimento (SALVINI, op. cit.). Esistenza del trattato di estradizione o della richiesta del ministro non sono necessari in caso di
riconoscimento agli effetti civili, in caso degli interessi di natura privata in gioco in tale tipologia di riconoscimento.
Il provvedimento straniero da riconoscere deve avere carattere
di “sentenza”, pronunciato, cioè, da organo giurisdizionale di ordinamento diverso da quello italiano. Non sono tali, quindi, quelle
pronunziate da organi nazionali all’estero (es. quelle emesse da
organi giudiziari italiani in Libia dopo il Trattato di pace reso esecutivo con D.L. n. 1430 del 1947 e prima della costituzione del
Regno di Libia: Cass., Sez. II, 16 maggio 1966, Battistuli, m.
102457). La natura penale della sentenza straniera e il carattere giurisdizionale dell’organo emittente sembrano doversi valutare secondo l’ordinamento italiano (DOMINIONI, op. cit. 113), ma non sembra potersi escludere una qualificazione dell’atto anche secondo la
legge dello Stato d’origine, almeno quanto al valore giurisdizionale
della decisione (DELICATO, op. cit., 651). In quest’ultimo senso
risulta essersi espressa la giurisprudenza, negando carattere giurisdizionale ad un decreto di accusa di una procura pubblica di una
giurisdizione cantonale svizzera, anche se la decisione risulta
imperniata sulla circostanza (comunque risultante dall’ordinamento locale) che detto atto viene emesso senza la previa citazione del-
439
l’imputato: Cass., 26 ottobre 1966, Bruschi, m. 103673, in Foro it,
1967, II, 189.
Non rileva, in particolare, che la decisione, sia stata emessa da un
organo monocratico, mentre in Italia la competenza sarebbe stata di
un organo collegiale: Cass., Sez. II, 15 maggio 1972, Michelon, m.
121850.
La mancanza della motivazione di una sentenza penale straniera
non è ostativa al riconoscimento in Italia: Cass., Sez. II, 18 marzo
1977, ord., Romano, m. 137074.
5.2. I presupposti “negativi” comuni ai tipi di riconoscimento considerati. L’art. 733 cod. proc. pen. ha ampliato la gamma dei presupposti previsti dall’art. 674 vecchio codice. Se prima era sufficiente un
certo grado di “affidabilità” della decisione straniera (DOMINIONI,
op. cit., 113), oggi è necessaria una vera e propria garanzia di compatibilità – non potendo aversi una totale omogeneità – tra sentenza straniera e ordinamento italiano: alla stregua della sensibilità e cultura
giuridica italiana, deve valutarsi se il giudice straniero, pur applicando la sua legge, abbia comunque “reso giustizia” nel caso concreto.
La “contrarietà” di cui all’art. 733 lett. “b” non significa semplice
diversità di regolamentazione degli istituti, bensì un contrasto insanabile, una radicale incompatibilità fra le disposizioni straniere e quelle
italiane, altrimenti nessuna sentenza potrebbe essere riconosciuta in
caso di mancata identità tra le legislazioni degli Stati interessati.
Rispetto all’analoga condizione prevista dall’art. 674, n. 3, vecchio
cod. proc. pen., si era discusso se la descritta “contrarietà” dovesse
valutarsi solo rispetto al dispositivo della sentenza da riconoscere,
ovvero anche riguardo alla motivazione ed all’iter processuale adottato (con riguardo, ad esempio, a mezzi probatori non ammessi nel
nostro ordinamento o considerati ripugnanti dalla nostra coscienza
giuridica: presunzioni legali assolute, fictiones iuris, tortura, etc). Ove
la dizione dell’attuale art. 730 c.p.p., che si riferisce alle “disposizioni”
della sentenza da riconoscere, fosse ritenuta preclusiva di tale interpretazione, potrebbe ugualmente farsi ricorso, per limitare il descritto fenomeno distorsivo, alla norma generale dell’art. 31 delle preleggi
sul limite dell’ordine pubblico internazionale nell’applicazione degli
ordinamenti stranieri. (SALVINI, op. cit., 4).
L’ipotesi della “doppia incriminabilità” risponde al principio dell’art. 25 II comma Cost. (c.d. principio di legalità). Collegata al principio della sovranità territoriale ed al c.d. ne bis in idem interno risulta,
invece, l’impedimento di cui alla lettera “f” dell’art. 733, disciplinante
440
una sorta di “litispendenza” nello Stato quale ostacolo al riconoscimento.
Sempre ad elementari valori costituzionali ed all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo appaiono ispirati i requisiti di
cui alle lettere “c” (garanzia dell’effettivo esercizio del diritto di difesa)
e “d” (c.d. principio di “non discriminazione”).
Quanto alla garanzia dei diritti della difesa, l’accertamento della
regolarità della citazione va condotta in base alla legislazione straniera, secondo l’art. 27 delle preleggi: Cass., Sez. 4, 20 aprile 1978, ord.,
Gerardi, m. 139428, in Cass. pen. mass., 1978, II, 501, con nota di
Galantini, si veda anche Cass., S.U., 31 marzo 1962, Martignetti, in
Foro it., 1963, II, 19. Sulla valutazione della “compatibilità” tra gli
ordinamenti, secondo l’art. 674 vecchio codice, cfr. Cass., Sez. II, 28
giugno 1977, Spallina, m. 137096; 11 gennaio 1971, Cuel, m. 117076,
in Giust. pen. 1977, III, 514.
Quanto al requisito della irrevocabilità della sentenza, l’odierna
disposizione di cui all’art. 733 lett. a) cod. proc. pen. indica chiaramente che esso va valutato secondo la legge straniera.
Le garanzie devono sussistere cumulativamente (v. Cass., 31 marzo
1962, Martignetti, cit.)
Con il requisito di cui alla lettera “d” si è voluto evitare l’uso politico del processo. L’influenza della discriminazione può essere sia
quella negativa, sia quella che abbia inciso positivamente per il reo
nell’esito del processo: nel testo definitivo è stato eliminato l’avverbio
“negativamente” presente nel Progetto preliminare per qualificare in
tal senso la descritta incidenza.
La valutazione di compatibilità tra sentenza straniera e ordinamento italiano implica un apprezzamento globale della pronunzia straniera. Più chiaramente rispetto a quanto previsto in tema di ordine
pubblico internazionale, la valutazione del carattere discriminatorio,
o meno, della pronunzia può solo condursi attraverso la complessiva
valutazione della motivazione e del dispositivo.
Cosa avviene nel caso in cui solo in un ordinamento il reato sia
perseguibile a querela della persona offesa? La giurisprudenza, sporadica e risalente, si è pronunziata in senso contrario al riconoscimento:
Cass., 25 febbraio 1971, Clemente, in Cass. pen. mass., 1972, 1418,
nella quale, tuttavia, la querela viene indicata come condizione di
punibilità, non come condizione di procedibilità.
6.1. La deliberazione della Corte di appello (art. 734 cod. proc. pen.). In
ordine al riconoscimento, la corte di appello delibera con il rito camerale di
441
cui all’art. 127 cod. proc. pen. ed emette, all’esito, una sentenza indicante
espressamente gli effetti del riconoscimento della sentenza straniera.
La Corte verifica l’esistenza dei presupposti (positivi e negativi);
non può entrare nel merito della pronunzia straniera, ma può chiedere al Guardasigilli il testo, con traduzione, delle leggi straniere o delle
convenzioni internazionali utili ai fini della decisione.
Quanto al rito camerale da impiegare, si rileva che in esso l’unica
ipotesi di nullità assoluta è rappresentata dalla omessa citazione dell’interessato, specialmente ora che l’esecuzione extraterritoriale del
giudicato, a norma di convenzioni internazionali e dell’art. 731 cod.
proc. pen., può comportare la sottoposizione di detto interessato a
sanzioni criminali nello Stato.
All’esito, la decisione della Corte d’Appello può essere di due
tipi: di inammissibilità, ove manchino i presupposti di legge, ovvero
di riconoscimento. In presenza delle condizioni previste, il riconoscimento è un atto dovuto, non essendo attribuita alla Corte alcuna
discrezionalità, come rilevato dalla consolidata giurisprudenza formatasi in relazione all’istituto in esame sotto il vigore del vecchio
codice: Cass., Sez. IV, 22 febbraio 1978, Impedoro, m. 140419; Sez.
II, 27 aprile 1976, Foppiano, m. 134021, cit.; Sez. II, 18 marzo 1977,
Romano, m. 137075, cit.; Sez. I, 30 novembre 1976, Boccuni, m.
135155; Sez. I, 14 giugno 1976, Betelloni, m. 134470, in Giust. pen.
1976, III, 611; Sez. I, 9 luglio 1976, Pagliara, m. 134581; Sez. I, 12
maggio 1976, Cerretti, m. 134561, ivi, 1977, III, 276.
La Corte deve specificare espressamente gli effetti che conseguono al riconoscimento, analogamente a quanto previsto per la corrispondente richiesta.
La sentenza ha natura costitutiva e va motivata a pena di nullità.
Anche in base alla disciplina del vecchio codice, si è ritenuto che gli
effetti del riconoscimento decorressero solo dal momento in cui la
decisione relativa diviene irrevocabile: Cass., Sez. III, 1° luglio 1965,
Cecconi, m. 099935.
Si è altresì affermato che il riconoscimento non parifica l’atto straniero a quello italiano, ma lo assume unicamente come fatto giuridico per alcuni effetti tassativamente determinati: Cass., Sez. II, 11 gennaio 1971, Cuel, m. 117277, cit..
6.2. L’impugnazione della decisione della Corte. L’art. 734, comma
secondo, c.p.p. prevede che il P.G. e l’interessato possano ricorrere per
cassazione. La legge non menziona il difensore tra i soggetti legittimati all’impugnazione. Il richiamo al rito camerale di cui all’art. 127
442
c.p.p., nel quale i difensori sono indubbiamente titolari di un diritto a
ricorrere contro il provvedimento conclusivo, è sufficiente a fa ritenere che anche i patroni dell’interessato sono legittimati all’impugnazione in questione, come già affermato dalla giurisprudenza in relazione
all’art. 674 c.p.p. del 1930, che pure rinviava al rito camerale (incidenti di esecuzione): Cass., 13 novembre 1984, Cantieri, m. 167231.
Divenuta irrevocabile, la sentenza è iscritta nel casellario giudiziale.
7. L’adattamento della sanzione; nell’esecuzione extraterritoriale (art.
735 cod. proc. pen.).
In caso di esecuzione extraterritoriale, la Corte di appello converte la sanzione stabilita nella sentenza straniera in una delle sanzioni
previste per lo stesso fatto dall’ordinamento italiano. Il giudice del
riconoscimento non ridetermina la sanzione, ma stabilisce la pena da
eseguire, rispettando, come regola generale, la decisione straniera, sia
con riguardo alla species della pena inflitta, sia con riguardo alla sua
entità. Si ritiene che il giudice proceda a riqualificare il fatto-reato in
base alla legge italiana, per determinare la sanzione stabilita dalla
legge interna. La misura della pena dovrebbe avere come riferimento
l’entità fissata dalla sentenza straniera. Essa non potrà risultare più
grave di quella comminata per lo stesso fatto dalla legge italiana. Il
riferimento alla pena deve, pertanto, considerarsi comprensivo anche
delle misure restrittive della libertà alternative o sostitutive alla detenzione. In nessun caso la pena così determinata può essere più grave di
quella stabilita dalla sentenza straniera (DELICATO, op. cit., 647). Se
nella sentenza straniera non è fissata la misura della pena, l’art. 735.2
prescrive che questa sia determinata in base agli artt. 133, 133-bis e
133-ter cod. pen..
In effetti, il sistema dell’adattamento è espressione del principio di
legalità della pena: se nessuno può essere punito con pene che non
siano stabilite dalla legge nello spazio territoriale in cui essa vige, una
volta assunto il giudicato straniero quale accertamento deficitivo della
responsabilità di un soggetto, la punizione da infliggergli non può differire per specie, né eccedere per quantità ciò che è stabilito dalla
legge territoriale (LASZLOCZKY, op. cit., 80).
Il sistema della “conversione” della condanna, accolto dal nuovo
codice di rito, è quello previsto dagli artt. 44, 45 e 50 della Convenzione europea sulla validità internazionale dei giudizi repressivi, conclu-
443
sa all’Aja il 28 maggio 1978, ratificata dall’Italia con legge n. 305 del
1977, ma non ancora operante per il nostro Paese, non avendo questo
ancora depositato lo strumento di ratifica (in ordine a tale ritardo, cfr.
PITTARO, in Cass. pen., 1984, 790).
Il diverso sistema della “continuazione dell’esecuzione” risulta
invece, accolto dalla legge n. 257 del 1989, che, predisponendo lo strumento procedurale per l’attuazione della diversa convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate non ha considerato la procedura “di conversione”, esplicitamente esclusa dalla legge di
ratifica di quest’ultima convenzione.
Giova sottolineare che la legge n. 257 del 1989, contenendo una
disciplina speciale deve esser ritenuta prevalente anche sulla disciplina codicistica entrata successivamente in vigore. Per le prime applicazioni in Italia del sistema della continuazione della pena cfr. App.
Roma 6 dicembre 1990 e 6 maggio 1991, in Riv. dir. int. priv. e proc.,
1992, 36 e 394, commentate da DELICATO nella stessa Riv., 285, partic. 293.
8. Le misure coercitive e il sequestro.
Con le disposizioni degli artt. 736 e 737 cod. proc. pen., completamente innovative rispetto al preesistente assetto codicistico, si consente al giudice italiano l’esercizio di poteri cautelari nell’ambito della
procedura di riconoscimento delle sentenze straniere ed al fine di salvaguardarne gli effetti. Si tratta di misure valevoli per la durata del
procedimento ricognitivo e sempre che il condannato si trovi già in
territorio italiano.
La disposizione dell’art. 736 è modellata sulla falsariga di quelle
previste in tema di misure cautelari nell’estradizione passiva, attribuendosi, tuttavia, l’iniziativa al procuratore generale, anziché al
ministro (come, invece, nell’art. 714.1); l’applicazione delle misure a
richiesta dello Stato estero, pur non essendo espressamente prevista,
deve ritenersi ammissibile considerando l’ipotesi reciproca disciplinata dall’art. 745 cod. proc. pen.(LASZLOZCKY, op. cit., 82).
L’art. 736.2 rinvia alle norme regolanti le misure cautelari personali, in quanto applicabili, con l’espressa eccezione dell’art. 273,
essendo estranea alla procedura in esame ogni valutazione di merito
sulla colpevolezza del soggetto. Nel valutare le esigenze cautelari, la
Corte stabilisce la misura che ritiene più idonea in base al criterio
dell’adeguatezza (art. 275); la corte stessa provvede all’eventuale revo-
444
ca o alla sostituzione della misura in presenza dei presupposti di cui
all’art. 299.
La revoca è collegata ai termini di validità della misura cautelare,
rapportati a loro volta allo svolgimento della procedura ricognitiva
(sei mesi per la pronuncia della corte d’appello, che divengono complessivamente dieci se vi è ricorso per cassazione contro la decisione
della corte territoriale).
L’art. 737 cod. proc. pen., in funzione della confisca disposta nel
giudicato straniero, prevede la possibilità della misura cautelare del
sequestro preventivo, alla cui disciplina la norma stessa fa rinvio.
9. Il regime dell’esecuzione (art. 738 c.p.p.).
L’attività esecutiva della sanzione, quale espressione della sovranità statale, è regolata dalla legge italiana, sia quanto alla pena che alla
confisca. Il P.G. presso la corte di appello che ha deliberato il riconoscimento ne cura d’ufficio l’esecuzione; la corte d’appello è equiparata, ad ogni effetto, al giudice che ha pronunciato sentenza di condanna in un ordinario procedimento penale interno. La pena espiata all’estero viene computata.
Quanto alla pena, si applicano le misure “premiali” previste dall’ordinamento penitenziario italiano.
10. Divieto di estradizione e di nuovo procedimento (art. 739 c.p.p.).
In caso di riconoscimento finalizzato all’esecuzione – ed eccezion
fatta per il riconoscimento a fini di confisca – il condannato non può
essere estradato, né nuovamente sottoposto in Italia a procedimento
penale per lo stesso fatto, neppure se questo viene diversamente qualificato.
La norma affronta, ma non risolve totalmente, il problema del
divieto di bis in idem c.d. internazionale. In effetti, non è qualsiasi riconoscimento di giudicato straniero che può produrre il ne bis in idem
internazionale, ma solo il riconoscimento, a fini di esecuzione, di una
condanna. Vale a dire che solo colui che è stato dichiarato colpevole
all’estero ed al quale viene “adattata” in Italia la sua azione inflittagli
(con la sentenza estera) può giovarsi del divieto in questione. Giustamente, è stato osservato che il divieto di bis in idem internazionale si
realizza pienamente, con siffatta norma, solo attraverso il divieto del-
445
l’estradizione (peraltro eccessivo, nella sua assolutezza, quando opera
nei confronti dello Stato della condanna). Per tali posizioni, cfr. LASZLOZCKY, op.cit., 84.
Il divieto di nuovo giudizio, infatti, opera solo nei limiti di cui
all’art. 11 cod. pen., in relazione, cioè, ai fatti commessi all’estero ed
ivi giudicati. Solo rispetto a tali fatti si pone, come si è visto innanzi,
l’alternativa tra esecuzione della sentenza e rinnovamento del giudizio,
essendo quest’ultimo obbligatorio nell’ipotesi di cui all’art. 11, primo
comma, cod. pen. (reati commessi in Italia, anche se prima giudicati
all’estero).
La rilevanza del divieto in questione può discendere dalle convenzioni internazionali, prima fra tutte dalla Convenzione europea sul
valore internazionale dei giudicati repressivi (non senza sottolineare
che anche questa riserva allo Stato di commissione del reato la facoltà
di non riconoscere l’effetto preclusivo del giudicato straniero, salvo che
questo stesso Stato abbia chiesto di procedere a quello che ha emesso
la decisione).
Siffatta Convenzione, come si è visto innanzi, non è tuttora operante nell’ordinamento italiano, sebbene si sia assistito ad un tentativo, invero maldestro, di applicazione giurisprudenziale della stessa
(Trib. Modena 16 giugno 1932, Ubertini, in Riv. dir. int. priv. e proc.,
1983, 65, con commento critico di Mosconi, ivi, 580), nonché alla prospettazione di una questione di legittimità costituzionale della legge di
ratifica della convenzione medesima ritenuta inammissibile dalla
Corte Costituzionale con ord. 29 settembre 1983, n. 282, in Cass. pen.,
1984, 789, con nota di PITTARO.
Per l’assetto dell’istituto del ne bis in idem, a seguito dell’adozione
della Convenzione di Bruxelles del 25 maggio 1987, tra i Dodici Stati
membri della C.E. (oggi Unione europea), cfr. ESPOSITO, Ne bis in
idem nazionale, comunitario, internazionale, in L’evoluzione giurisprudenziale delle decisioni della Corte di cassazione, VI, Roma, 1993, 309.
11. Pena pecuniaria e cose confiscate.
Anche la pena pecuniaria e la confisca si eseguono in base alla
legge italiana con devoluzione delle prime alla Cassa delle ammende.
Viene, tuttavia, introdotto il principio di reciprocità: dietro richiesta dello Stato di condanna, le somme e le cose predette possono essergli attribuite, sempreché detto Stato, nelle medesime condizioni, si
comporterebbe allo stesso modo nei confronti dell’Italia.
446
12. Il riconoscimento dei capi civili della sentenza (art. 741 cod. proc.
pen.).
Le disposizioni civili della sentenza straniera, riflettenti condanna
alla restituzione o al risarcimento dei danni, possono essere riconosciute in Italia, sempre a richiesta dell’interessato, o comulativamente
con i capi penali della sentenza stessa, ovvero con autonoma procedura.
In quest’ultimo caso, la corte di appello competente – anziché
quella ove ha sede il casellario d’iscrizione – è quella nel cui distretto
le disposizioni civili devono essere fatte valere. Si è rilevato che la
disciplina della competenza per siffatta tipologia di riconoscimento si
presenta monca, non essendo chiaro se il privato possa agire autonomamente innanzi al foro del proprio casellario, né essendo previsto
come egli possa trasferire, innanzi alla corte del foro del casellario,
una procedura già instaurata nel foro dell’esecuzione del capo civile
(LASZLOCZKY, op. cit., 79).
In ogni caso, la Corte di appello competente è sempre quella penale (App. Milano, 2 marzo 1965, in Riv. dir. int. priv. e proc., 1965, 548,
con nota di BALLARINO). Anche per questo tipo di riconoscimento,
non è necessaria l’esistenza di un trattato di estradizione, né la richiesta del Guardasigilli.
La sentenza è ricorribile per cassazione e non va iscritta al casellario.
PARTE SECONDA
Esecuzione all’estero di sentenze penali italiane
1.1. Poteri del Guardasigilli e presupposti dell’esecuzione all’estero
(art. 742 c.p.p.). L’esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane è
un istituto che rappresenta una novità nel sistema processuale delineato nel nuovo codice, dettata dall’esigenza di assecondare l’attuazione di
obblighi internazionali e di fronteggiare i fenomeni connessi alla sempre più crescente circolazione delle persone attraverso le frontiere.
L’esecuzione all’estero può avere finalità coincidenti con gli interessi del condannato, che stia espiando la pena in Italia, ove sussista
l’esigenza di trasferirlo nel proprio ambiente culturale e familiare, così
da agevolarne la risocializzazione.
Sempre coincidente con gli interessi del condannato è l’esecuzio-
447
ne all’estero nel caso in cui questi, all’atto della condanna italiana, si
trovi già nel suo Paese di cittadinanza o residenza e l’estradizione, possibile, non sia stata ancora attuata.
Sempre per non recidere i contatti socio-culturali del condannato,
questi può essere mantenuto all’estero, chiedendo che lo Stato d’origine o di residenza, anziché dar corso all’estradizione, provveda ad eseguire la condanna per cui essa viene richiesta.
In questo caso, tuttavia, il Ministro della giustizia nel valutare l’alternativa tra l’estradizione e richiesta di esecuzione all’estero valuterà
oltre alle esigenze del condannato, le considerazioni d’ordine politico
sulla natura del reato, sull’allarme sociale da esso destato, etc..
Le conseguenti decisioni potranno formare oggetto di ricorso in
sede amministrativa.
Nel caso, invece, in cui l’estradizione del condannato sia stata
rifiutata o sia, comunque, impossibile, l’esecuzione all’estero si profila non più coincidente con gli interessi del condannato medesimo,
bensì come succedaneo dell’estradizione, avendo lo scopo al pari di
questa, di rendere effettiva una sanzione che altrimenti sarebbe destinata a restare inseguita.
1.2. L’iniziativa del ministro. Presupposto della richiesta o del consenso del Guardasigilli all’esecuzione all’estero è l’esistenza di un
accordo internazionale ovvero che, in caso di estradando dall’Italia
che debba qui scontare una pena, il Ministro convenga, con lo Stato
richiedente, che venga espiata all’estero la pena da scontare in Italia.
La previsione dell’esistenza di un accordo internazionale sembra
ispirata all’esigenza di evitare che la disciplina in questione, come
quella dell’esecuzione in Italia dei giudicati stranieri, potesse essere
interpretata come l’introduzione di un istituto di diritto sostanziale
non “coperto” da una specifica direttiva della legge delega per l’approvazione del nuovo codice di rito. Il timore può considerarsi eccessivo
ove si qualifichi l’istituto in esame come uno dei possibili processi
estradizionali, cioè come una delle cause per cui è possibile concedere
l’estradizione
Il Ministro, quindi, deve valutare se sussista un accordo internazionale e quali siano i presupposti richiesti dallo stesso.
In presenza di tali presupposti, la richiesta del Ministro si configura come “atto dovuto”; ma non v’è dubbio che questa è una configurazione solo formale del potere ministeriale in materia, posta l’ampia discrezionalità in concreto attribuitagli sia nella valutazione di
detti presupposti, sia dei “limiti” di cui all’art. 744 c.p.p..
448
Si veda, al riguardo, CAPALDO, in Commentario al nuovo cod.
proc. pen. a cura di CHIAVARIO, cit., 860., secondo il quale, per contro, il condannato non potrebbe vantare un diritto soggettivo all’esecuzione all’estero, avendo soltanto la facoltà d’impugnare presso il
giudice competente (n.d.r.: amministrativo) il provvedimento negativo
o il silenzio-rifiuto del Guardasigilli in ordine alla richiesta del condannato medesimo.
Dato il carattere anche politico delle valutazioni riservate al ministro, si ritiene che egli possa revocare la richiesta fino a quando questa non sia stata accolta dallo Stato estero, anche dopo l’emissione del
provvedimento favorevole della Corte d’appello, ove ritenga l’insussistenza (anche sopravvenuta) dei presupposti necessari.
1.3. Le condizioni per l’esercizio dell’iniziativa ministeriale. Va preliminarmente esaminato il problema del rapporto tra le condizioni,
alcune delle quali solo eventuali, fissate dal codice e quelle stabilite
nelle convenzioni internazionali. In una prima approssimazione al
fenomeno, può rilevarsi che, nel caso in cui le convenzioni dovessero
fissare in modo tassativo i requisiti, non vi sarà spazio per la disciplina codicistica, neanche per la parte in cui regoli aspetti non considerati dalle convenzioni; in caso contrario, la disciplina codicistica
potrà trovare applicazione per quanto non disposto dagli accordi
internazionali.
Quanto alle singole condizioni, si osserva:
1.3.1. Esistenza italiana di una decisione penale italiana irrevocabile. L’esecuzione potrà riguardare sia pene pecuniarie che detentive.
Anche una sentenza di assoluzione potrebbe formare oggetto di
richiesta di esecuzione, ad esempio per la parte relativa ad una confisca.
La sentenza italiana da eseguire potrebbe essere anche una sentenza di riconoscimento ed esecuzione di condanna straniera.
Salvo contrarie pattuizioni nascenti da specifici accordi internazionali, l’art. 742 non sembra essere di ostacolo a tale “circolazione” di
giudicati. Sul piano internazionale, tuttavia, dovrebbe acquisirsi il
consenso dello Stato che aveva “concesso” l’esecuzione extraterritoriale in Italia (CAPALDO, op. cit., 863).
1.3.2. Il consenso del condannato, che è sempre richiesto, ovunque
si trovi il condannato, a meno che questi si trovi nel territorio dello
Stato richiesto dell’estradizione e questa sia stata negata o non sia
comunque possibile. Il consenso ha lo scopo di evitare che l’esecuzio-
449
ne all’estero si trasformi in una sorta d’espulsione e di garantire l’esistenza di presupposti minimi perché l’esecuzione all’estero persegua la
risocializzazione del condannato.
Il consenso presuppone la consapevolezza nel concordato della
sua possibile consegna allo Stato estero, dell’esecuzione della pena
secondo la legge straniera e con eventuale adattamento della sanzione, dell’inapplicabilità della disciplina italiana, nonché le altre eventuali conseguenze previste dalle convenzioni internazionali;
1.3.3. L’idoneità a favorire il reinserimento sociale del condannato,
in quanto, solo se preferibile sotto questo aspetto a quella in Italia, l’esecuzione all’estero giustifica la domanda o il consenso del Guardasigilli.
A tal fine, non basta il consenso del condannato, ma bisogna valutare obiettivamente le prospettive realmente offerte dall’esecuzione
all’estero nei singoli casi concreti, dovendosi in particolare vegliare l’esistenza, o meno, di solidi e validi legami socio-familiari del condannato.
1.3.4. Il diniego (o l’impossibilità) dell’estradizione. Si tratta di
requisito “alternativo” rispetto ai due ora esaminati, perché, in caso
d’impossibilità d’estradizione, non è necessario, per l’esecuzione all’estero, né il consenso del condannato, né l’idoneità dell’istituto al reinserimento sociale del condannato medesimo. Tale impossibilità va
intesa sia con riferimento alla normativa in astratto regolante i rapporti tra i due Paesi, sia con riferimento all’interpretazione che lo
Stato richiesto dia di detta normativa.
2. La procedura (art. 743 c.p.p.).
La domanda di esecuzione all’estero – ma, è da ritenere, anche il
consenso allo Stato estero – possono essere formulati dal Guardasigilli solo previa deliberazione favorevole della Corte di appello dove sia
stata emessa la sentenza. La deliberazione della Corte non è necessaria qualora la sentenza riguardi condanna al pagamento di pene pecuniarie o confisca.
Il Ministro, se ritiene di dover promuovere la fase giurisdizionale, trasmette gli atti al P.G. territorialmente competente, il quale ha
l’obbligo di promuovere il procedimento (camerale) presso la Corte
d’appello, il quale si conclude con l’adozione di una sentenza (art.
743.2). La Corte, per deliberare l’accoglimento della richiesta mini-
450
steriale, deve accertare la sussistenza delle condizioni innanzi
descritte, che va verificata con riferimento all’epoca della deliberazione.
Il consenso del condannato deve risultare di verbale redatto
innanzi all’autorità giudiziaria italiana (anche del P.G. nell’ambito
degli accertamenti di sua competenza); ovvero innanzi ad autorità giudiziaria straniera o all’autorità consolare italiana se il condannato si
trovi all’estero.
Il difensore va avvisato ma non è necessario che presenzi.
L’istanza dell’interessato non equivale a consenso, qualora non sia
formulata davanti alle autorità innanzi indicate e dalla stessa non
risulti che il richiedente fosse edotto di tutte le conseguenze dell’esecuzione all’estero.
La decisione va comunicata alle parti per permetterne la ricorribilità per cassazione.
3. I limiti all’esecuzione della condanna all’estero.
Alle condizioni per l’esecuzione della condanna all’estero, indicate al n.ro 1.3. va aggiunta la condizione “negative” rappresentata dall’inesistenza dei limiti di cui all’art. 744 c.p.p.. Si tratta di norma che,
escludendo l’esecuzione all’estero quando vi sia pericolo di atti persecutori, discriminatori o ripugnanti contro il condannato, mira a tutelare i diritti fondamentali di questo.
Dai lavori preparatori emerge che la valutazione di tale limite
negativo sarebbe affidata esclusivamente al Ministro, trattandosi di
esprimere un pronostico sulla base dell’esame della situazione
socio-ordinamentale del Paese richiesto, non di valutare un provvedimento straniero già adottato (come nella reciproca ipotesi del riconoscimento in Italia) (cfr. PADELLETTI, op. cit., 832. Di “duplice exequatur” di ammissibilità giuridica e di opportunità politica tratta il
LASZLOZCKY, op. cit., 77).
È da ritenere, invece, che anche detta condizione negativa vada
vagliata dalla Corte d’appello, inducendo a propendere per tale interpretazione sia il dato letterale della norma (il ministro non può procedere alla richiesta quando “si ha motivo di ritenere”...), sia il carattere
globale della valutazione richiesta alla Corte, sia, infine, l’assetto sistematico dei rapporti giurisdizionali con autorità straniere, che, in
materia di estradizione e di rogatorie, attribuisce il controllo del requisito in questione anche all’autorità giudiziaria.
451
4. Le misure cautelari all’estero.
A norma dell’art. 745.1. c.p.p., il Ministro, quando chiede l’esecuzione di una pena detentiva all’estero, deve chiedere anche l’adozione di una misura cautelare personale. Stante la partecipazione e
l’informazione del condannato sulla procedura giurisdizionale italiana che precede la richiesta allo Stato estero, la richiesta di custodia
cautelare mira ad evitare la fuga del condannato solo quando questi
sia già detenuto all’estero per altra causa e sia prossimo alla scarcerazione. Per ovviare a tale inconveniente e per attivare rimedi alternativi, il Ministro, prima di promuovere la procedura giurisdizionale di cui all’art. 743, potrebbe richiedere, sussistendone le condizioni, l’estradizione del condannato e l’applicazione provvisoria di
misure cautelari.
In caso di sentenza di confisca, il Ministro ha solo la facoltà, non
l’obbligo, di richiedere il sequestro delle cose da confiscare.
5. Esecuzione all’estero ed esecuzione nello stato.
L’esecuzione all’estero della sentenza italiana rappresenta una
causa di sospensione dell’esecuzione, ovviamente di quella che sia già
iniziata.
Giova ricordare che la disposizione dell’art. 746.1. c.p.p. è espressione del principio secondo cui l’esecuzione è regolata dalla legge dello
Stato di espiazione della pena, restando, invece, in potere dello Stato
della condanna ogni modifica del titolo esecutivo, nonché la potestà di
accordare grazia, amnistia, commutazione della condanna.
La pena, cioè la potestà punitiva dello Stato italiano, si estingue
solo se risulti interamente espiata secondo la legge dello Stato richiesto (746.2). Ciò significa che se l’Italia e lo Stato straniero convengono
di ritrasferire in Italia il condannato ovvero se questi evada, lo Stato
italiano potrà nuovamente esercitare la propria potestà punitiva,
essendo venuta meno la causa di sospensione.
L’evasione del condannato sembrerebbe legittimare anche la revoca, da parte del Ministro, del consenso o della richiesta di esecuzione
all’estero.
Quanto alla verifica dell’effettiva estinzione della pena inflitta con
la sentenza italiana, non essendo prevista una disciplina ad hoc, sembra doversi far riferimento a quella ricavabile dal libro X del nuovo
cod. proc. pen..
452
BIBLIOGRAFIA
CAPALDO, in Commentario al nuovo cod. proc. pen., a cura di CHIAVARIO, 860.
DELICATO, in Riv. dir. int. priv. proc. 1992, 285, 645.
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C.S.M., 1979, 116.
FERRARI BRAVO, Gli effetti delle condanne penali nel diritto internazionale privato italiano, in riv. dir. int., 1968, 37.
LASZLOCZKY, L’esecuzione extraterritoriale del giudicato secondo il nuovo c.p.p., in
l’Indice pen., 1991, 67.
PADELLETTI, Il trasferimento internazionale dell’esecuzione penale secondo il nuovo
codice, in riv. dir. int., 1988, 814.
PITTARO, in Commentario al nuovo c.p.p., a cura di CHIAVARIO, 818, nota 19.
SALVINI, voce Sentenza. Riconoscimento delle sentenze penali straniere, in Enc. Giur.
Treccani, 4.
453
L’ACCORDO RELATIVO ALL’APPLICAZIONE, TRA GLI
STATI MEMBRI DELLE COMUNITÀ EUROPEE,
DELLA CONVENZIONE DEL CONSIGLIO D’EUROPA SUL
TRASFERIMENTO DELLE PERSONE CONDANNATE
Relatore:
prof.ssa Maria Luisa PADELLETTI
Associato di diritto internazionale e diritto comunitario nell’Università di Teramo
SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. Oggetto della Convenzione di Strasburgo – 3. L’equiparazione, ai cittadini dello Stato, dei cittadini degli Stati membri delle Comunità europee – 4. Le condizioni per il trasferimento – 5. Segue. L’accordo dei due Stati al
trasferimento. – 6. Le condizioni aggiuntive poste dalla L. 257/89 – 7. La determinazione e l’esecuzione della pena nello Stato di esecuzione – 8. Conclusioni.
1. L’Accordo relativo all’applicazione, tra i Paesi membri delle
Comunità europee, della Convenzione del Consiglio d’Europa sul trasferimento delle persone condannate (1) rappresenta uno dei primi risultati della cooperazione giudiziaria in materia penale iniziata dai Paesi
membri delle Comunità europee ancor prima dell’entrata in vigore del
Trattato di Maastricht. Con quest’ultimo, è noto come la cooperazione
in materia penale sia entrata a pieno titolo nel terzo pilastro dell’Unione europea (art. K.1, par. 7). Il gruppo di lavoro ad hoc, istituito fin
dal 1985 nel quadro della cooperazione politica tra gli Stati membri
delle Comunità, ha portato alla realizzazione di diverse Convenzioni,
oltre a quella in esame, aventi ad oggetto il trasferimento dei procedimenti o dell’esecuzione penale (2): tra esse possono essere ricordate,
(1) L’entrata in vigore della Convenzione, aperta alla firma a Bruxelles il 25 maggio1987, è subordinata al deposito dello strumento di ratifica da parte di tutti gli Stati
che erano membri delle Comunità europee al momento della firma. Per il testo della Convenzione, si veda la L. 21 dicembre 1988 n. 565, contenente l’autorizzazione alla ratifica
e l’ordine di esecuzione dell’Accordo stesso, in G.U. 16 gennaio 1989 n. 12, suppl.
(2) In tale quadro va però osservato come, ad eccezione di singole ipotesi di applicazione anticipata, nessuna tra le Convenzioni concluse tra i Paesi membri delle
Comunità europee sia fino ad oggi entrato in vigore.
455
pe affinità di oggetto, la Convenzione relativa all’applicazione del principio ne bis in idem (3), la Convenzione relativa al trasferimento dei
procedimenti penali (4), nonché la Convenzione sull’esecuzione delle
condanne penali straniere (5).
Per quanto concerne l’Accordo in oggetto, esso non contiene,
come lo stesso titolo indica, una normativa completa ed autonoma in
merito all’esecuzione delle sentenze penali straniere. Si tratta di una
convenzione, composta di soli cinque articoli, che ha lo scopo di
ampliare l’ambito di applicazione della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, predisposta nell’ambito del Consiglio
d’Europa ed aperta alla firma a Strasburgo il 21 marzo 1983 (6). L’art.
1, par. 2, dell’Accordo rende applicabile quest’ultima Convenzione
anche alle relazioni tra gli Stati membri delle Comunità europee che
non l’abbiano ratificata (7). Inoltre, gli Stati membri delle Comunità si
obbligano, ai fini del trasferimento, ad assimilare ai propri cittadini
quelli degli altri Stati membri, tenendo conto della loro residenza abituale all’interno del proprio territorio (8).
L’art. 4, par. 2, subordina l’entrata in vigore dell’Accordo al depo-
(3) La Convenzione è stata aperta alla firma a Bruxelles il 25 maggio 1987.
(4) Aperta alla firma a Roma, il 6 novembre 1990.
(5) Aperta alla firma a Bruxelles il 13 novembre 1991.
(6) Si veda la L. 25 luglio 1988 n. 334, contenente l’ordine di esecuzione e l’autorizzazione alla ratifica della Convenzione, in G.U. 11 agosto 1988 n. 188. All’elaborazione della Convenzione di Strasburgo hanno partecipato, oltre agli Stati membri del
Consiglio d’Europa, anche gli Stati Uniti ed il Canada. Gli articoli 18 e 19 della Convenzione prevedono la possibilità di ratificare la Convenzione anche per gli Stati che
non siano membri del Consiglio d’Europa. Attualmente, la Convenzione è in vigore per
33 Stati (cfr., per lo stato delle firme e delle ratifiche al 15 febbraio 1996, PISANI,
MOSCONI, Codice delle Convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, Milano, 1996, p. 632). Alla Convenzione in oggetto è stata data attuazione,
in Italia, con L. 3 luglio 1989, n. 256, in G.U. 19 luglio n. 167.
(7) Cfr. l’art. 1 della Convenzione, ai sensi del quale: “1. Nelle relazioni tra gli Stati
membri, che hanno ratificato la Convenzione sul trasferimento, detta convenzione sarà
completata dalle disposizioni del presente accordo. 2. Nelle relazioni tra gli Stati membri, uno almeno dei quali non abbia ratificato la convenzione sul trasferimento, saranno applicabili le disposizioni di detta Convenzione, come completate dalle disposizioni del presente accordo”.
(8) Cfr. l’art. 2, dell’Accordo: “Ai fini dell’applicazione dell’art. 3, paragrafo 1, lettera a) della Convenzione sul trasferimento, ogni Stato membro assimilerà ai propri
cittadini i cittadini di qualsiasi altro Stato membro il trasferimento dei quali appaia
opportuno e nell’interesse della persona considerata, tenuto conto della sua residenza
abituale e regolare sul territorio di detto Stato”.
456
sito dello strumento di ratifica da parte di tutti gli Stati che fossero
membri delle Comunità al momento della firma; tuttavia, il par. 3
dello stesso articolo consente che ogni Stato, al momento del deposito della ratifica, dichiari che l’Accordo “... gli è applicabile, nelle sue
relazioni con gli Stati che abbiano fatto la medesima dichiarazione, 90
giorni dopo la data del deposito”. Nonostante non sia ancora entrata
in vigore, quindi, l’Accordo è attualmente applicabile in base a tali
dichiarazioni nelle relazioni tra Italia, Belgio, Danimarca e Spagna.
Per il resto, l’Accordo in esame si limita a recepire, facendovi rinvio, le norme contenute nella Convenzione di Strasburgo del 1983. Un
esame della disciplina applicabile al trasferimento dell’esecuzione
delle pene detentive non può pertanto prescindere da un’analisi del
contenuto di quest’ultima Convenzione (9).
2. La Convenzione di Strasburgo permette il trasferimento dell’esecuzione penale nello Stato di origine del condannato. Come si evince dall’art. 1, lett. a), della Convenzione, il trasferimento può aver
luogo in relazione all’esecuzione di “toute peine ou mesure privative
de liberté prononcée par un juge pour une durée limitée ou indéterminée en raison d’une infraction pénale”.
Per quanto riguarda il concetto di pena privativa della libertà, si
deve ritenere che rientrino nell’ambito di applicazione della Convenzione, oltre alle pene detentive, anche le pene semidetentive: anch’esse, infatti determinano una privazione della libertà, pur se limitata ad
una parte della giornata (10). Il fine del reinserimento sociale del con-
(9) Per un esame generale della Convenzione di Strasburgo, e della normativa
interna di attuazione, nonché per un esame più approfondito di alcuni tra i problemi
che verranno affrontati in tale sede, sia permesso rinviare a quanto già scritto in La
Convenzione europea sul trasferimento delle persone condannate, in Rivista italiana di
diritto e procedura penale, 1985, p. 791 ss., Il trasferimento internazionale dell’esecuzione penale secondo il nuovo codice, in Rivista di diritto internazionale, 1988, p. 814 ss.,
La modificazione della pena secondo una nuova legge sull’esecuzione delle sentenze penali straniere, ibidem, 1989, p. 323 ss. Sull’argomento si vedano inoltre DELICATO, L’esecuzione delle sentenze penali straniere in Italia, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1991, p. 629 ss.; DELICATO, A proposito di nuovi strumenti di cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale, ibidem, 1992, p. 285 ss.
(10) Al concetto di pena privativa della libertà hanno fatto talvolta riferimento gli
organi di controllo della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Nell’accertare l’esistenza di una misura privativa della libertà, essi hanno fatto riferimento ad un criterio quantitativo, prendendo in considerazione il caso concreto. Anche sulla base di tale
457
dannato, perseguito dalla Convenzione, induce ad una interpretazione
non restrittiva del testo convenzionale.
La Convenzione di Strasburgo fa esclusivo riferimento al concetto
di pena “privativa della libertà”, escludendo pertanto dal proprio
campo di applicazione l’esecuzione all’estero di pene pecuniarie: il
fatto che una sentenza straniera contenga, oltre all’inflazione di una
pena detentiva, anche l’imposizione di una pena pecuniaria (11), non
ne esclude il riconoscimento ai limitati effetti del trasferimento dell’esecuzione della pena detentiva. In tal senso, la Cassazione ha correttamente annullato la decisione di riconoscimento di una sentenza
inglese, resa dalla Corte d’appello di Palermo, solo limitatamente alla
parte in cui detta decisione determinava la pena da eseguire in Italia,
oltre che in 25 anni di reclusione, in 500.000.000 di multa (12).
Ci si può chiedere se, in seguito al trasferimento, lo Stato di condanna mantenga inalterata la titolarità in merito all’esecuzione della
pena pecuniaria. A tale proposito, va rilevato che la Convenzione di
Strasburgo e l’Accordo tra i Paesi membri delle Comunità europee non
considerano esplicitamente il problema dell’esecuzione di eventuali
pene pecuniari inflitte contestualmente ad una pena detentiva. Qualche elemento può essere ricavato dall’art. 8 della Convenzione del 1983,
secondo il quale “1. La prise en charge du condamné par les autorités
de l’Etat d’exécution a pour effet de suspendre l’exécution de la condamnation dans l’Etat de condamnation. 2. L’Etat de condamnation ne
peut plus exécuter la condamnation lorsque l’Etat d’exécution considè-
criterio, sembra difficile negare che la semidetenzione costituisca una misura primitiva della libertà (più ampiamente cfr. La Convenzione europea cit., in particolare nota
10, p. 794).
(11) L’imposizione, oltre alla pena detentiva, di una pena pecuniaria la cui esecuzione rimanga insoddisfatta, potrebbe costituire un motivo di rifiuto al trasferimento
da parte dello Stato di condanna. In tal senso, con la Raccomandazione n. R (92) 18,
del 19 ottobre 1992, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha invitato gli Stati
parte alla Convenzione di Strasburgo a “... prendre des mesures leur permettant de ne
pas avoir à refuser un trasfèrement au seul motif que des amendes imposées à la personne condamnée en rapport avec son jugement restent insatisfaites, ou qu’une mesure de contrainte par corps a été imposée...”.
(12) Cfr. Cass. 15 novembre 1983, Sez. V, riprodotta in Cassazione Penale, 1995, p. 290
ss.: “...la sentenza impugnata dev’essere oggetto di annullamento senza rinvio, sul punto
concernente la pena pecuniaria. Ha invero correttamente dimostrato il P.G., con ineccepibile sostegno normativo, il difetto di giurisdizione del giudice italiano circa le statuizioni in
ordine all’accennata specie di pena, non essendo questa considerata dalla ricordata Convenzione, che limita il proprio campo di operatività alle sole pene detentive...” (p. 291).
458
re l’exécution de la condamnation comme étant terminée”. Questa
disposizione deve però essere considerata nel contesto del già citato
art. 1, lett. a): in quest’ultima norma, intitolata “définitions”, è detto
che “condamnation” désigne toute peine ou mesure privative de liberté
prononcée par una juge pour une durée limitée ou indéterminée en raison d’une infraction pénale”. Sostituendo tale definizione al termine
“condamnation” nell’art. 8 par. 2, se ne deduce che l’effetto preclusivo
del trasferimento, per lo Stato di condanna, riguardi solo l’esecuzione
della pena detentiva e che esso, in conseguenza, mantenga inalterata la
possibilità di procedere per il recupero delle eventuali pene pecuniarie.
L’imposizione, oltre alla pena detentiva, di una pena pecuniaria la
cui esecuzione rischi di rimanere insoddisfatta potrebbe costituire un
motivo per rifiutare il trasferimento da parte dello Stato di condanna.
Infatti, come si vedrà, la Convenzione di Strasburgo non contiene un
obbligo, per gli Stati membri, di concedere il trasferimento del condannato: al contrario essa richiede che gli Stati interessati esprimano
il proprio consenso per ogni singolo trasferimento. Nel tentativo di
favorire il trasferimento, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha invitato gli Stati parte alla Convenzione di Strasburgo a “...
prendre des mesures leur permettant de ne pas avoir à refuser un trasferement au seul motif que des amendes imposées à la personne condamnée en rapport avec son jugement restent insatisfaites, ou qu’une
mesure de contrainte par corps a été imposée...” (13).
Come si è visto, l’art. 1, lett. a), fa riferimento sia a pene che a
misure privative della libertà: il trasferimento dell’esecuzione penale trova quindi applicazione anche rispetto a persone sottoposte a
misure di sicurezza privative della libertà. Il fatto che la Convenzione consideri anche il trasferimento di persone non imputabili trova
esplicita conferma nell’art. 9, par. 4, della Convenzione, secondo il
quale “Tout Etat dont le droit interne empêche de faire usage de
l’une des procédures visées au paragraphe 1 pour exécuter les mesures dont on fait l’objet sur le territorire d’une autre Partie des personnes qui, compte tenu de leur état mental, ont été déclarées pénalement irresponsable d’une infraction et qui est disposé à prendre
en charge ces personnes en vue de la poursuite de leur traitement
peur, par une déclaration adressée au Secrétaire Général du Conseil
de l’Europe, indiquer les procédures qu’il suivra dans ces cas”.
(13) Cfr. la Raccomandazione n. R (92) 18, del 19 ottobre 1992.
459
Per quanto riguarda il momento in cui deve essere accertata l’esistenza di una pena privativa della libertà, esso va determinato avendo riguardo alla richiesta di trasferimento, piuttosto che alla pronuncia derivante dal giudizio di cognizione (14). In tal modo potrà essere concesso il trasferimento, ad esempio, a chi stia scontando una
pena detentiva in conseguenza della conversione di una sanzione
sostitutiva della detenzione. L’unico limite, previsto dalla Convenzione, è che la pena residua da scontare sia superiore a sei mesi, oppure
indeterminata.
3. L’art. 3, par. 1, lett. a), della Convenzione di Strasburgo, fa riferimento alla nazionalità del condannato per individuare lo Stato al
quale è trasferita l’esecuzione: il trasferimento può cioè essere concesso nei confronti dello Stato di cui il condannato ha la cittadinanza. In
assenza di ulteriori specificazioni, deve ritenersi che la Convenzione si
applichi anche ai casi di doppia cittadinanza, compresa l’ipotesi in cui
il detenuto abbia la nazionalità dello Stato di condanna. Sul piano
interno, va osservato che né la legge di attuazione della Convenzione,
né l’art. 742 c.p.p., vietano il trasferimento all’estero per l’esecuzione
di condanne nei confronti di cittadini italiani.
L’art. 3, par. 4, della Convenzione, consente agli Stati parte di “...
définir, en ce qui le concerne, le terme ’ressortissant’ aux fins de la présente Convention”. Avvalendosi di tale facoltà, attraverso una dichiarazione unilaterale, il Governo italiano ha parificato ai propri cittadini gli apolidi residenti nel territorio dello Stato (15).
(14) La soluzione qui proposta deriva dall’interpretazione degli articoli 3, par. 1 e
1, lett. a), della Convenzione. L’art. 3, par. 1, stabilisce: “un transfèrement ne peut avoir
lieu aux termes de la présente Convention qu’aux conditions suivantes: ... c. la durée de
condamnation que le condamné a encore à subir doit être au moins de six mois à la
date de réception de la demande de transfèrement, ou indéterminée”. Tale disposizione deve essere considerata nel contesto del già citato art. 1, lett. a), intitolato “définitione”, in cui è detto che “condamnation” désigne toute peine ou mesure privative de
liberté prononcée par un juge pour une limitée au indéterminée en raison d’une infraction pénale”. Sostituendo tale definizione al termine “condamnation” nell’art. 3, par. 1,
lett. a), se ne deduce che il condannato, al momento del trasferimento, debba ancora
scontare una misura privativa della libertà della durata minima di sei mesi oppure
indeterminata. Il momento decisivo, pertanto, è quello della richiesta di trasferimento
(più ampiamente cfr. La convenzione europea cit., p. 792 ss.).
(15) Cfr. la dichiarazione formulata al momento del deposito della ratifica: “Au
sens de l’article 3, paragraphe 4, pour la République italienne, le tenne ‘ressortissant’
aux fins de la présente Convention inclut également les apatrides qui résident dans
460
Come già osservato, l’Accordo relativo all’applicazione tra gli Stati
membri delle Comunità europee della Convenzione del Consiglio
d’Europa sul trasferimento delle persone condannate, assimila, ai cittadini dello Stato, i cittadini degli altri Stati membri (16). L’art. 2 dell’Accordo stabilisce: “Ai fini dell’applicazione dell’articolo 3, paragrafo
1, lettera a) della Convenzione sul trasferimento, ogni Stato membro
assimilerà ai propri cittadini: i cittadini di qualsiasi altro Stato membro il trasferimento dei quali appaia opportuno e nell’interesse della
persona considerata, tenuto conto della sua residenza abituale e regolare sul territorio di detto Stato”. Una volta entrato in vigore, l’Accordo consentirà quindi, ai cittadini dei Paesi membri delle Comunità, di
ottenere il trasferimento sia nello Stato di cittadinanza, sia nello Stato
nel quale essi abbiano la residenza abituale. Dato che l’Accordo tra i
Paesi membri delle Comunità è attualmente applicabile solo tra quattro Stati, ci si può chiedere se tale equiparazione debba riguardare,
allo stato attuale, solo i cittadini di tali Stati, oppure i cittadini di tutti
gli Stati membri delle Comunità. Il dato testuale dell’art. 2, che è formulato in modo oggettivo, ed il fine del reinserimento sociale del condannato, ratio principale delle Convenzioni in oggetto, inducono a
preferire quest’ultima soluzione. A tale proposito, si rende necessario
distinguere la fattispecie oggetto della Convenzione, rispetto al problema di determinare nei confronti di quali Stati possa aver luogo il
trasferimento. Sotto il primo profilo, si può dire che la Convenzione
impone l’equiparazione dei cittadini di tutti gli Stati membri; sotto il
secondo profilo, va osservato come il trasferimento possa avvenire
solo verso uno Stato parte dell’Accordo, poiché solo gli Stati tra i quali
la Convenzione è attualmente applicabile possono pretenderne l’adempimento. In tal modo, ad esempio, il Belgio potrebbe chiedere
all’Italia il trasferimento di un cittadino francese residente in Belgio,
mentre la Francia, che non ha ancora ratificato l’Accordo, non potrebbe chiedere all’Italia il trasferimento di un cittadino belga residente in
Francia.
le territoire de l’Etat italien...” (riprodotta anche in PISANI, MOSCONI, Codice delle
convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, cit., p. 642).
(16) Al momento del deposito dello strumento di ratifica relativo all’Accordo di
Bruxelles, il Governo italiano ha formulato nuovamente la dichiarazione relativa alla
equiparazione ai propri cittadini degli apolidi residenti in Italia. Il testo della dichiarazione si può leggere, in allegato al testo dell’Accordo, in PISANI, MOSCONI, Codice
delle convenzioni di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, cit., p. 642.
461
4. Le condizioni richieste per il trasferimento sono elencate nell’art; 3 della Convenzione di Strasburgo, che è così formulato: “1. Un
trasfèrement ne peut avoir lieu aux termes de la présente Convention
qu’aux conditions suivantes:
a. le condamné doit être ressortissant de l’Etat d’exécution;
b. le jugement doit être définitif;
c. la durée de la condamnation que le condamné a encore à subir
doit être au moins de six mois à la date de réception de la demande de
transfèrement, ou indéterminée;
d. le condamné ou, lorsqu’en raison de son âge ou de son état physique ou mental l’un des deux Etats l’estime nécessaire, son répresentant doit consentir au transfèrement;
e. les actes ou omissions qui ont donné lien à la condamnation
doivent constituer une infraction pénale au regard du droit de l’Etat
d’exécution ou devraient en constituer une s’ils survenaient sur son
territoire;
f. l’Etat de condamnation et l’Etat d’exécution doivent s’être mis
d’accord sur ce transfèrement”.
Già si è parlato in merito al requisito della cittadinanza, ed a quello della residenza abituale in conseguenza dell’Accordo tra i Paesi
membri delle Comunità europee. Per il resto, in sintesi, le condizioni
richieste per il trasferimento sono costituite da una condanna definitiva ad una pena detentiva superiore a sei mesi, dal requisito della previsione bilaterale del fatto come reato, dal consenso del condannato al
trasfermento, e dall’accordo dello Stato di condanna e di quello di esecuzione in merito al trasferimento. Rinviando l’esame di quest’ultima
condizione, qualche osservazione meritano le altre condizioni enunciate.
A) Per quanto concerne l’esistenza di una sentenza definitiva, è
sufficiente precisare come tale carattere non possa essere certificato
dalle autorità consolari dello Stato. A tale proposito, la Cassazione ha
più volte precisato che “...l’attestazione del passaggio in giudicato
della sentenza straniera deve essere fatta dalla competente autorità
giudiziaria della sentenza straniera deve essere fatta dalla competente
autorità giudiziaria dello Stato in cui la sentenza è stata pronunciata,
sulla base delle leggi vigenti in detto Stato” (17). L’autorità giudiziaria,
(17) Cfr. Cass. Sez. V, 17 novembre 1994.
462
nel procedere al riconoscimento, deve accertarsi che si tratti di una
sentenza passata in giudicato: il mancato accertamento di tale carattere costituisce motivo di annullamento della decisione di riconoscimento.
B) La seconda condizione richiesta è che il detenuto, al momento
del trasferimento, debba ancora espiare una pena superiore a sei mesi,
o indeterminata. Come si evince dal Rapport explicatif della Convenzione, il limite di sei mesi è stato introdotto essenzialmente per due
ragioni: si è ritenuto infatti che un trasferimento per un periodo di
così breve durata sarebbe stato inutile al fine del reinserimento sociale del condannato, e che il costo del trasferimento non sarebbe stato
giustificato dall’obiettivo da raggiungere (18). Tuttavia, una deroga al
limite dei sei mesi di pena è espressamente prevista dallo stesso art. 3,
par. 2, che consente agli Stati parte, in casi eccezionali, di consentire
ad un trasferimento anche nel caso di una pena inferiore ai limiti previsti (19).
C) Un altro presupposto è costituito dalla previsione bilaterale del
fatto come reato nei due Stati interessati al trasferimento. In base a
tale principio, il trasferimento può avvenire solo quando il fatto che ha
dato luogo alla condanna costituisca un reato anche per la legislazione dello Stato d’esecuzione. Come è precisato nel Rapport explicatif
alla Convenzione stessa, non è necessaria l’identità del titolo di reato,
ma è sufficiente che vi sia corrispondenza tra gli elementi costitutivi
essenziali del reato nei due ordinamenti.
Il requisito della doppia incriminabilità, che si è affermato
soprattutto in materia di estradizione, ha sollevato diverse difficoltà
in ordine alla sua applicazione, soprattutto per quanto riguarda la
rilevanza delle cause estintive del reato e della pena, e delle condizioni di procedibilità e di punibilità (20). Dato che la Convenzione fa
esclusivamente riferimento al fatto oggettivo di reato e non anche alla
(18) Cfr. il Rapport explicatif della Convenzione europea sul trasferimento delle
persone condannate, p. 10.
(19) Come si legge nel Rapport explicatif alla Convenzione, la deroga è stata prevista per quei casi in cui “les perspectives de réhabilitation sont favorables, alors que
la condamnation est de moins de six mois, ou le transfèrement peut être effectué
moyennant de faibles coûts, par exemple entre deux Etats limitrophes” (p. 10).
(20) Sul principio della doppia incriminabilità in materia di estradizione si vedano, per tutti, PISA, Previsione bilaterale del fatto nell’estradizione, Milano, 1973; QUADRI, Estradizione (dir. Intern.), in Enc. Dir., XVI, 1967, p. 25 ss.
463
concreta punibilità dell’autore, sembra possibile escludere dal requisito in parola quegli elementi che non incidono sulla perfezione del
reato, quali le cause estintive del reato e della pena e le condizioni di
procedibilità. Il problema rimane per le condizioni obiettive di punibilità, essendo controverso se, in loro assenza, il reato possa considerarsi perfezionato: recentemente, in un’ipotesi di riconoscimento di
sentenza straniera, la Cassazione ha incidentalmente considerato le
condizioni obiettive di punibilità “estranee alla condotta tipica del
reato” (21).
Il requisito della doppia incriminabilità può porre dei problemi
in quei casi in cui il trasferimento venga richiesto per una persona
condannata per più fatti, alcuni dei quali non siano considerati
reato per entrambi gli ordinamenti. In tali ipotesi, a rigore, il trasferimento dovrebbe essere concesso solo in relazione alle pene
inflitte per quei fatti che rientrino nel requisito della duplice incriminabilità. Un esempio di tal genere è costituito, ad esempio, dal
noto caso Baraldini, al cui trasferimento in Italia gli Stati Uniti si
oppongono ormai da anni: oltre a subire una pesante condanna per
episodi legati al terrorismo, la Baraldini, è stata condannata a
quattro anni di detenzione per aver rifiutato di testimoniare di
fronte al Grand Jury in merito alle attività di un gruppo terrorista,
reato non previsto dal nostro ordinamento (22). L’esistenza di quest’ultimo reato non è certo il motivo principale che ha indotto il
Governo americano a non consentire al trasferimento, tuttavia esso
è stato espressamente considerato in una lettera di risposta alle
richieste italiane: “In addition to the serioys nature of Ms. Baraldini’s, offenses, her refusal to cooperate and her suspects ongoing
involvement with fugitive criminals, we are concerned that, if transferred to Italy, Ms. Baraldini will serve a considerably shorter sentence than that imposed in the United States. We understand that
if she were to be transferred, an Italian Court of Appeals must
recompute the sentence she would receive and that under Italian
law this sentence would necessarily be shorter than that which she
(21) Cfr. Cass., Sez. VI, Sentenza 17 luglio 1995, n. 793, in Archivio della nuova
procedura penale, 1995, p. 880 ss., in particolare p. 883.
(22) Complessivamente, la Baraldini è stata condannata a 40 anni di detenzione
per reati legati alla sua partecipazione a vario titolo ad attività di terrorismo, nonché a
4 anni per il reato di “criminal contempt”. Cfr., in tal senso, The American Journal of
International Law, 1991, p. 338 ss.
464
currently is serving in the United States. Further, under Italian law
the criminal contempt offense is not transferable and therefore
would be excluded entirely from her Italian sentence” (23).
Nel nostro ordinamento, il ricorso al principio della fungibilità
della detenzione potrebbe forse permettere di imputare la pena espiata prima del trasferimento al reato che non rientri nella previsione
bilaterale del fatto. Anche così, tuttavia, non sembrano facilmente
risolvibili tutti i problemi derivanti dal cumulo delle pene detentive:
sarebbe quindi auspicabile una disciplina legislativa che affronti tale
problema, risolvendolo in modo certo.
D) Un’ulteriore condizione al trasferimento è quella relativa al
consenso del condannato. L’esigenza del consenso si spiega con la considerazione che il reinserimento sociale del condannato scopo principale della Convenzione, sarebbe ostacolato, piuttosto che favorito, da
un trasferimento avvenuto contro la sua volontà.
La necessità dell’assenso impedisce che il trasferimento possa
essere usato come artificiosa alternativa all’estradizione, nel caso in
cui non ricorrano i presupposti per la sua concessione (24). Inoltre,
sempre in considerazione della necessità del consenso al trasferimento da parte del condannato, non è stato necessario inserire nella Convenzione il cosiddetto principio di specialità dell’esecuzione, principio
che solitamente è contenuto nei trattati di estradizione (25): in conseguenza di ciò, il detenuto potrà eventualmente essere perseguito, nello
Stato di esecuzione, anche per reati ulteriori rispetto a quelli per i
quali è stato concesso il trasferimento.
La procedura diretta ad ottenere il consenso del condannato, ai
(23) Cfr. The American Journal of International Law, 1991, pp. 338-339.
(24) Ciò non esclude naturalmente che l’estradizione possa essere concessa quando sussistano i rispettivi requisiti, sia sulla base di un accordo internazionale, sia sulla
base delle norme comuni interne. L’art. 22, par. 1, della Convenzione, considera espressamente tale ipotesi: “La presénte Convention ne porte pas atteinte aux droits et obligations découlants des traités d’extradition et autres traités de coopéeration internationale en matière pénale prévoyant le transférement de détenus à de fins de confrontation ou de témoignage”.
(25) Come si legge nel Rapport explicatif, infatti, “La Convention reposant sur le
principe que l’exécution est subordonnée au consentement préalable du condamné, il
n’a pas été jugé nécessaire de poser une règle de spécialité précisant que la personne
transférée au titre de la Convention pour l’exécution d’une peine ne peut être ni poursuivie, ni condamnée, ni détenue pour une infraction autre que celle liée à l’exécution
de la peine ayant donné lieu au transfèrement” (p. 14).
465
sensi dell’art. 7, par. 1, della Convenzione, è retta dalla legge dello
Stato di condanna, mentre lo Stato di esecuzione può controllare che
il consenso sia stato rilasciato spontaneamente (art. 7, par. 2). Nell’ordinamento italiano, l’art. 5, par. 2, della legge di attuazione della Convenzione, stabilisce che il consenso debba essere prestato “...davanti al
magistrato di sorveglianza o al pretore del luogo ove il condannato si
trova, ovvero davanti alla Corte di appello che procede...” (26). Non è
chiaro se, una volta prestato, il consenso possa essere revocato: la normativa di attuazione non fa alcun cenno a tale possibilità. Altri Stati,
come ad es. il Regno Unito, prevedono il regime del cosiddetto “doppio consenso”, nel senso che il condannato debba manifestare nuovamente il proprio assenso al momento del trasferimento.
Nonostante l’esigenza del consenso, la Convenzione non configura un diritto del condannato al trasferimento. Un diritto al trasferimento non sembra poter essere fatto derivare neppure dalla normativa di attuazione interna, che, come si vedrà, attribuisce al Ministro di
Grazia e Giustizia un’ampia discrezionalità in merito alla concessione
del trasferimento.
5. Come già osservato, un presupposto essenziale per l’applicazione della Convenzione in oggetto è costituito dall’accordo fra lo Stato
di condanna e lo Stato di esecuzione per ogni specifico trasferimento:
è opportuno precisare, a tale proposito, come l’Accordo concluso tra i
Paesi membri delle Comunità europee non abbia modificato tale disciplina. La Convenzione di Strasburgo non pone alcun obbligo, ma
attribuisce agli Stati una completa discrezionalità in merito alla concessione di ogni singolo trasferimento. Con la Convenzione in esame
si è inteso costituire soltanto un “accordo-quadro”, un quadro procedurale prestabilito per i singoli trasferimenti. La Convenzione non
esclude nemmeno, anche rispetto a casi specifici, la possibilità di
(26) L’art. 5, par. 2, dispone inoltre che l’autorità giudiziaria debba accertare “...
che il consenso sia prestato volontariamente e con la piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche che ne derivano”. A tale proposito, si può ritenere che l’autorità
giudiziaria debba accertarsi che il condannato sia stato edotto dell’assenza, nella Convenzione, del principio di specialità dell’esecuzione, e quindi informato della possibilità di poter essere perseguito e condannato, nello Stato di esecuzione, per altri eventuali reati. Nel Rapport explicatif della Convenzione, infatti, si precisa: “L’absence d’une
règle de spécialité devrait être incluse dans l’information sur la teneur de la Convention qui est à donner aux condamnés selon l’article 4.1” (p. 14).
466
accordi derogatori: ciò risulta esplicitamente dall’art. 22, par. 2, secondo il quale “lorsque deux ou plusieurs Parties ont déjà conclu ou concluront un accord ou un traité sur le transfèrement des condamnés ou
lorsqu’ils ont établi ou établiront d’une autre manière leurs relations
dans ce domaine, ils auront la faculté d’appliquer ledit accord, traité
ou arrangement au lieu de la présent Convention”.
Dalla Convenzione non può neppure dedursi un obbligo, per gli
Stati contraenti, a non rifiutare il trasferimento per semplici motivi di
opportunità, od a motivare il proprio rifiuto. Una conferma in tal
senso è espressa nella raccomandazione in R. (92) 18, adottata il 19
ottobre 1992 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la
quale gli Stati vengono invitati “nella misura del possibile e senza contravvenire alle disposizioni della Convenzione, di motivare le decisioni relative ad un rifiuto di trasferimento”. Dalla Convenzione è possibile dedurre esclusivamente un generico dovere di comportamento
secondo buona fede, tendente a facilitare la conclusione degli accordi
bilaterali necessari ad ogni singolo trasferimento (27). Per il resto,
obblighi e diritti sorgono solo nel momento in cui le Parti interessate
si accordino ad un determinato trasferimento, nel quadro della Convenzione stessa (28).
Nel nostro ordinamento, la competenza a manifestare il consenso al
trasferimento è attribuita al Ministro di Grazia e Giustizia, sia per quanto riguarda l’esecuzione in Italia di sentenze straniere, sia in relazione
all’esecuzione all’estero di sentenze pronunciate in Italia. L’art. 1 della
legge di attuazione della Convenzione attribuisce espressamente al
Ministro di Grazia e Giustizia il potere di iniziativa per promuovere il
riconoscimento della sentenza straniera ai fini del trasferimento dell’esecuzione, ed un potere analogo viene attribuito allo stesso dall’art. 5, in
relazione all’esecuzione all’estero di condanne pronunciate in Italia (29).
(27) Cfr. La convenzione europea, cit., pagine 799-800.
(28) Alcuni obblighi, che riguardano essenzialmente uno scambio di informazioni tra gli Stati interessati, sono stabiliti dalla Convenzione indipendentemente dall’accordo di trasferimento. Inoltre, l’art. 4 obbliga lo Stato di condanna ad informare il
detenuto del contenuto della Convenzione in esame e dei successivi svolgimenti della
sua eventuale domanda di trasferimento.
(29) Per quanto riguarda l’esecuzione in Italia di una sentenza pronunciata all’estero, l’art. 1, 1° comma, della L. 257/89 stabilisce: “Ai fini dell’esecuzione della pena in
Italia nei casi di applicazione della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983, il Ministro di Grazia e Giustizia richiede il riconoscimento della sentenza penale straniera. A tale scopo, trasmette al procu-
467
Sul piano internazionale, il consenso prestato dal Ministro di Grazia e
Giustizia si configura come elemento costitutivo di un accordo bilaterale
in forma semplificata.
Sul piano interno, l’esercizio 
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Diritto comunitario e la cooperazione penale