LE LETTERE DELL’ALFABETO EBRAICO La tradizione orale spiega che le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico sono le energie spirituali che Dio usò nell’opera della Creazione. Ovvero, nel pronunciare i dieci storici vi sia: Dio disse: «Sia la luce! E la luce fu»; Dio disse: «Ci sia un firmamento tra le acque…E così fu»; Dio disse: «Vi siano dei luminari…» (Gen.1), Dio combinò e permutò le singole lettere dell’alfabeto ebraico, che divennero di fatto i “mattoni” della Creazione e che tradussero il volere divino in realtà. La comprensione di questo concetto può essere facilitata anche dal confronto dei due significati della parola ebraica dāvār, che vuole dire parola, ma anche cosa (la cosa creata dalla parola). La tradizione orale chiama le lettere ’evenim, ossia pietre, il materiale di base con cui Dio creò il mondo. Tutta la tradizione ebraica attribuisce al proprio alfabeto un valore spirituale, etico e psicologico che non si riscontra in alcuna altra lingua. Lo studio del simbolismo, della forma, del valore numerico e degli insegnamenti legati a ogni lettera ha ricoperto una ruolo fondamentale per tutti i grandi saggi della tradizione ebraica. Ogni lettera ha tre livelli: forma, suono e valore numerico. È difficile far comprendere, soprattutto a chi non conosce l’ebraico, la particolarità di questa lingua sacra. Rav Tzvi Inbal disse: “Il rapporto esistente tra l’alfabeto ebraico e le parole della lingua ebraica è uguale a quello che lega gli elementi chimici alle formule… La lingua ebraica non ha nulla di arbitrario; al contrario, è una descrizione precisa e matematica dei fenomeni che rappresenta”. Come in chimica ogni formula indica gli elementi che compongono la materia, così le parole ebraiche sono composte da lettere che ne descrivono l’essenza. Il termine con cui si allude infatti al concetto di scrittura è ketav ’ašuri (scrittura che conferma), che rafforza il significato delle parole. Ecco un esempio: Prendiamo per esempio la parola ’ōzen, orecchio. L’etimologia della parola ebraica אזןòzen è composta da אàlef, זzàyin e ןnun: iniziali di אDio; זןzan (nutre), נפשnèfesh (l’anima). L’orecchio è dunque il mezzo attraverso cui l’anima recepisce il messaggio divino. È importante notare inoltre che, se la scienza medica ha scoperto solo di recente che l’orecchio è la sede dell’equilibrio, la lingua ebraica aveva da tempo chiarito questa funzione, esplicitando l’associazione tra i due concetti, come è dimostrato dalle parole che li definiscono: ’ אזןōzen (orecchio), e ’ אזוןizûn (equilibrio). Valore numerico 1. La lettera ’Alef, oltre ad essere la prima lettera dell’alfabeto, rappresenta anche il numero uno, in ebraico ’ אחדehād. Il valore numerico del termine ’ehād è 13, lo stesso della parola ’ אהבהahavāh. La ’Alef dunque rappresenta sia l’unicità di Dio sia il suo amore verso le creature. La forma grafica della lettera ’Alef simboleggia anche la natura infinita ed eterna di Dio. Essa consiste di tre parti: il segmento superiore destro è una Yod, quello inferiore sinistro è anch’esso una Yod, e queste due lettere sono connesse da una Waw diagonale. Ogni Yod vale 10, e la Waw vale 6. La somma è 26, che è esattamente il valore della somma delle lettere del Nome Divino formato da quattro lettere (Tetragramma: Yod=10, He=5, Waw=6, He=5). Questo è il nome che rappresenta Dio come Eterno, perché con queste quattro lettere si possono formare le parole HAYA’ (era), HOWE’ (presente) e IHIE’ (sarà). Tutte le grandi cose si fanno con un primo piccolo passo. Mattone su mattone si costruisce una casa. La ’Alef (uno), cresce e diventa ’elef (mille), semplicemente cambiando una vocale. Con la lettera ’Alef iniziano le parole ebraiche ’alûf ( אלוףcomandante, insegnante) e ’ אורôr (luce). La ’Alef ci inizia dunque all’idea dell’apprendimento, allo studio e alla conoscenza della luce, la Torah. ’Alef viene anche associata all’aria. ’ אוירawir (aria), ha tutte le lettere della parola ’ אורôr (luce), più la lettera yod. Non a caso i Salmi si concludono con il versetto kōl hannešāmāh tehallēl Yāh, ogni anima loderà l’Eterno. Versetto che si può leggere non solo come ogni anima, כל הנשמהkōl hannešāmāh, bensì ogni respiro, כל הנשימהkōl hannešimāh, lodi l’Eterno. La lettera ’Alef non si pronuncia; “è quel moto di labbra e laringe che precede ogni articolazione, è la voce del respiro prima di ogni parola” (Elena Loewenthal) ’Alef è anche l’iniziale della parola ’ אדםādām (uomo), la più nobile delle creazioni di Dio, e quindi il nome ’Ādām che deriva dall’imperativa di assomigliare a Dio, ’ אדמה לעליוןAdàmeh le‘Elîôn (assomiglierò all’Altissimo). La somiglianza di Adamo alla Divinità consiste nella sua capacità di emularne il desiderio di contenere ed emanare ’ôr e ’ahavāh, luce e amore. Se questo non si verifica, la parola ’ אדםādām si scompone in ’ā-dām, cioè la ’Alef di sangue, espressione che allude alla sofferenza dell’umanità che si rifiuta di somigliare a Dio. Le tre lettere che formano la parola ’ĀDĀM alludono all’unicità dell’essere umano: ’Alef per ’ĀDĀM (uomo), Daleth per DIBUR (la capacità di parlare), Mem per MAASE’ (la capacità di fare). Ma come può una persona semplice raggiungere la saggezza della Torah, che è profonda come il mare? Come fa un principiante a partire dal riconoscere una ’Alef per diventare un ’ALUF (maestro) di Torah? La risposta è data nella Torah stessa: «Questo comandamento che oggi ti do, non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo… Non è di là dal mare… Invece questa parola è molto vicina a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Deut.30:11-14). Per spiegare questo, un Midrash descrive un ignorante che entra in Sinagoga. Vedendo la gente che studiava la Torah, chiese: "Come posso io studiare tutto questo?" Chi ascoltava gli rispose: "Comincia con l'alfabeto, continua con le Scritture, e quindi vai avanti con il Mishnah e la Gemara". Dopo aver sentito ciò, egli pensò e concluse: "Come farò a studiare così tanto?" e se ne andò. Valore numerico 2. Con la lettera Beth inizia la parola berî’āh (creazione). La lettera Beth rappresenta benedizione e creazione; dualità e pluralità. Dato il suo valore numerico di 2, la Beth rappresenta il concetto di dualismo, concetto che implica diversità in ogni parte della berî’āh. Associando la creazione al dualismo, si spiega il motivo della diversità, della pluralità, presente nel creato; solo Dio è Unico e Assoluto. La Beth dunque è simbolo del nostro mondo, poiché ogni cosa terrena è caratterizzata dalla pluralità. Letteralmente Beth significa casa, ed allude sia al punto più santo della terra, (BETH HAMIKDASH, il Tempio di Gerusalemme) sia alla casa (Bayit) dell'uomo, casa che egli può trasformare in un BETH HAMIKDASH KATAN, un santuario in miniatura. La parola ביתbayit significa sia casa sia donna. Alla donna in particolare è stato assegnato il difficile compito di far penetrare lo spirito divino nella sua casa. La differenza tra il valore numerico di Mikdash (tempio, 444) e Bayit (casa, 412) è 32, ovvero il valore numerico di Lev (cuore). Questo c’insegna che soltanto mettendo il proprio cuore in una casa si può trasformarla in un tempio. Appare simbolicamente significante che ’āv (padre) ed ’ēm (madre), entrambi iniziano con la lettera ’Alef, mentre bēn (figlio) e bat (figlia) iniziano con la lettera Beth. Beth sta per Bên ûbên (tra... e tra), ovvero per la capacità di differenziazione e deduzione. Questi sono i tratti intellettuali che generano la Bînah (comprensione, intendimento). La radice di ’ādām (uomo) viene da dāmah (confronto). L'uomo è caratterizzato dalla sua capacità di confrontare e mettere in contrasto, di distinguere e differenziare, di analizzare e comprendere. Bînah è anche la base dell'etica. Nella Amidah, la prima richiesta per i nostri bisogni fisici e spirituali non è la preghiera di aver successo nella nostra lotta quotidiana per il pane, ma di avere Bînah e saggezza. Dio apparve al re Salomone in sogno e gli chiese: "Chiedi quello che vuoi ch’io tin dia", e Salomone rispose: "dai al tuo servo un cuore intelligente ond’egli possa…discernere il bene dal male" (1Re 3:5,9) La forma della lettera Beth rappresenta una casa con un lato aperto, per insegnarci che la nostra Bayit (casa) deve essere aperta agli ospiti. Secondo un midrash la Beth fu scelta per iniziare la Torah (con la parola Berē’šît (n principio) perché con essa comincia la parola ברכהberākāh (benedizione), in quanto il fine della Torah è portare benedizione al mondo. Valore numerico 3. La lettera גGhimel rappresenta la beneficienza. Dice il Midrash: "Perché la Beth guarda la Ghimel, e la Ghimel da le spalle alla Beth?" Perché Beth rappresenta la Bayit (casa) aperta a tutti. La Ghimel rappresenta il Ghever (uomo), che vede una persona bisognosa sull'uscio e si volge verso di essa per porgerle cibo. Il valore della Ghimel è tre, numero che allude al concetto che due fattori opposti devono mescolarsi per formare una terza entità. Il Maharal spiega che l'unicità della ’Alef denota la perfezione che esiste solo in Dio, la dualità della Beth implica diversità, eterogeneità e molteplicità. Comunque la Ghimel significa la capacità di neutralizzare le forze contrastanti per unirle in una unità più coesa e duratura. Alludendo a questo principio, il Re Salomone dice : "una corda a tre capi non si rompe così presto" (Eccl.4:12). L'uomo è superiore agli animali perché la sua esistenza non dipende solo dalla partecipazione del maschio e della femmina, ma dalla partecipazione di Dio, che dà all'uomo il suo Spirito e lo eleva al di sopra delle altre creature (Rashi). La Ghimel è parente di Gāmōl (svezzare), che significa nutrire sino alla maturazione. "Il bambino dunque crebbe e fu divezzato" (Genesi 21:8); qui Gāmōl significa lo sviluppo di un infante sino al punto in cui può vivere senza l'allattamento. Il portare a maturità è considerata un’azione benefica e costruttiva che aiuta il prossimo, cosi come il termine Gemilut Kesed (fare un gesto buono) è usato per descrivere una buona azione. La forma della Ghimel ricorda un גמלGāmāl (cammello) con il suo lungo collo. Il cammello si chiama così perché è come un bimbo svezzato e può andare lontano senza bere (Rav Hirsh). Inoltre il cammello è equipaggiato fisicamente per sopportare stress prolungati, cosa che gli permette di aiutare i viaggiatori a sopravvivere nel deserto, luogo privo d’acqua. In questo modo il cammello è un Gōmel Kesed (colui che opera per il bene). In ebraico le vocali non vengono scritte, dando così la possibilità di leggere l’insieme delle consonanti in maniere diverse. Nell’esempio in questione, infatti, le consonanti גמלg,m,l con le vocali «i» ed «e» verranno lette ghimel, con la vocale «a» verranno lette gāmāl, mentre con le vocali «o» ed «e» verranno lette gōmel. Con la lettera Ghimel inizia la parola גרgher (proselita). Valore numerico 4. La lettera דלתDalet scritta per esteso forma una parola associata al suo messaggio. דha la forma di una porta aperta ed il suo nome è parente di דלתDelet – porta – ed allude alla porta a cui viene a bussare chi ha bisogno, il דלdal (povero), che bussa alla porta chiedendo l'elemosina. Il Talmud insegna che le lettere גGhimel e דDalet stanno per ghemol dalim – essere solleciti nei confronti dei bisognosi - (Shabbat 104a). Come tali esse rappresentano uno dei due principali temi delle mitzvot, cioè i doveri dell'uomo verso i propri simili (l’altro riguarda i rapporti tra uomo e Dio). La Dalet rappresenta la dimensione in cui l’anima vive l’esperienza della mancanza, della povertà, della dipendenza, esperienza importante nella crescita spirituale. L’uomo, creato a immagine di Dio, deve agire dove c’è mancanza. La fame nel mondo non è una prova dell’insensibilità di Dio, ma dell’immaturità di una parte dell’umanità che ha più di quanto necessita e che però non accetta di agire in maniera degna del Creatore: non accetta di diventare ghimel nei confronti della Dalet. D’altra parte, l’importanza dell’esperienza della povertà sta nel fatto che, se non si provasse mai la mancanza e quindi non si avesse idea di cosa significhi colmarla, non si potrebbero vivere due tra i più importanti valori spirituali: - la totale dipendenza da Dio. la gratitudine nei confronti di Dio e del prossimo. Maharal dice che la Dalet, con il suo valore numerico di 4, simboleggia il mondo fisico che si espande nelle quattro direzioni: nord, sud, est e ovest. Quando il fiume dell'Eden usciva dal Giardino, si estendeva in quattro percorsi (Gen.2:10). Perché il piede della Ghimel si estende verso la Dalet? Per insegnarci che il gōmel (benefattore) deve sempre trovare il dal (bisognoso) ed offrirgli aiuto. Il Talmud spiega la dinamica tra ghimel e dalet a partire dalla loro grafia: la ghimel ha la forma di un uomo che corre, con la gamba protesa in avanti, verso la dalet, il povero, che guarda timidamente indietro nella speranza che la sua mancanza venga percepita e colmata dalla ghimel. Però la dalet da la schiena alla ghimel. Questo è perché il bisognoso non deve affrontare il suo benefattore. L'assistenza deve essere data discretamente e con grande tatto per preservare il rispetto di chi riceve che non deve essere minimamente umiliato. Il ricco è soltanto l’amministratore dei beni che appartengono di diritto al povero e che gli vengono restituiti tramite la צדקהsedāqāh, beneficienza. Nella più alta forma di elemosina, né il benefattore ne il beneficiario devono conoscere l'identità dell'altro (Shabbat 104a). Nel Tempio c'era una stanza speciale, detta Lishqat Kassaim (la Camera del Silenzio) in cui poteva entrare chiunque, povero o ricco, ma solo una persona alla volta, chi per prelevare la somma di cui necessitava, chi per donare le proprie offerte (Shekalim 5:6). Chi dava non sapeva a chi e chi riceveva non sapeva da chi. In questo modo la sedāqāh non causava vergogna in chi ne usufruiva né alterigia in chi, invece, la offriva. Esistono addirittura alcune organizzazioni, in Israele, che si occupano di investigare e trovare le persone in difficoltà che non osano dichiararlo. Essi rappresentano chiaramente la ghimel che rincorre la dalet. Dividere i propri profitti con i bisognosi preserva la ricchezza di chi dona come il sale preserva il cibo. Il Talmud insegna che se uno vuole preservare ed accrescere i propri possessi, deve costantemente ridurli facendo elemosina (Ketubot 66b). Prov.10:2 dice che la sedāqāh libera dalla morte, poiché può risparmiare alla persona che la offre eventi anche molto spiacevoli. Come dicono i saggi: «chi ha riguardo e pietà per i suoi fratelli, riceve misericordia dall’alto» (Talmud Yevamot 78). Re Davide, il cui nome inizia e finisce con questa lettera, nella vita provò a tal punto la condizione di carenza e la dipendenza totale da Dio, nel Sal.109:4 dice io non faccio che pregare. Fu proprio lo stato di mancanza, di pericolo, che lo ispirò a scrivere i salmi, la più profonda espressione di preghiera mai formulata dall’animo umano. Valore numerico 5. La lettera הHe rappresenta divinità, distinzione, specificità e appare due volte nel Tetragramma. Maharal osserva che la He è formata da una Dalet e una Yod. La Dalet rappresenta il mondo fisico, mentre la Yod denota spiritualità. Quindi la He ci insegna di riempire le nostre vite combinando il fisico con lo spirituale. Al nome originario di ’Avrām fu aggiunta una lettera, la He, e fu chiamato ’Avrāhām. La lettera He ha un suono morbido, ed indica la forma femminile di un nome, come yeled (bambino), che diventa yaledah (bambina). La Torah usa questa lettera per illustrare le caratteristiche distinte di una donna: femminilità, gentilezza. Poi Dio disse ad Abramo: «Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamar più Sarai; il suo nome sarà invece Sarah» (Gen.17:15). Prima di questo passo Sarai era sterile; dopo questo passo Sarah diventò fertile e concepì Isacco. La nuova lettera He posta alla fine del nome di Sarah implicò una maggiore femminilità e la possibilità di concepire un figlio (Yalkut Hamelitzos). La trasformazione del nome Sarai (mia principessa) in Sarah (principessa) indica un ruolo più elevato. Da quel giorno non era più solo la moglie di Abramo, ma divenne la matriarca (principessa) di tutto il popolo d’Israele (Berachot 13a). Il prefisso Ha (il, lo, la, le, gli, i), attaccato ad un nome diventa un articolo determinativo, cioè identifica un membro ben noto di una classe. Fu sera, poi fu mattina: e fu IL sesto giorno (Gen.1:31). L'articolo è usato solo per il sesto giorno della Creazione, cioè vi è un significato per questo giorno diverso che per i precedenti cinque: il sesto giorno fu il giorno della creazione dell’uomo. Valore numerico 6. La lettera וWaw, una linea verticale che allude al collegamento tra l’alto e il basso, tra terra e cielo, rappresenta completezza, redenzione e trasformazione. La forma stessa della lettera, costituita da una yod e da una linea retta, ripropone l’idea di un gancio. Il valore numerico 6 rappresenta il completamento: il mondo fisico è stato completato in sei giorni e così un oggetto che si autocontiene ha sei lati: sopra e sotto, destra e sinistra, davanti e dietro (Maharal). In maniera analoga il popolo ebraico è completo, autocontenuto ed unico; al momento di ricevere la Torah, il popolo ebraico fu censito e risultarono esserci 600.000 anime, corrispondenti alle 600.000 lettere della Torah (Maharal). La lettera Waw è la congiunzione: unisce concetti molteplici ed anche opposti. Essa rappresenta il legame tra cielo e terra, ed ha la forma di un gancio. La Waw unisce le parole per formare frasi, unisce le frasi per formare paragrafi, unisce i paragrafi per formare capitoli ed unisce i capitoli per formare libri. La Waw implica relazione tra eventi e continuità tra le generazioni. L'assenza di una Waw all'inizio di un nuovo capitolo della Torah indica l'inizio di una nuova era o di un nuovo soggetto. Quando si mette la Waw davanti ad un verbo nelle Scritture, essa cambia il tempo da passato a futuro o viceversa. Uno degli esempi più classici nella Torah è Wayedaber. La parola Yedaber significa "dirà", mentre Wayedaber significa "disse". Realizzando l'interscambio tra passato e futuro, la Waw implica assenza di tempo, portando l'uomo ad una più vicina comprensione del Divino, del Quale viene detto: «Mille anni, agli occhi tuoi, sono come il giorno di ieri» (Sal.90:4). Due usi molto frequenti di questo tipo di Waw sono nella conversione di Haya' (era - passato), in Wehaya' (sarà - futuro); e di Yehih (sarà - futuro) in Wayehih (era - passato). In questo esempio la Waw non solo cambia il tempo, ma trasforma anche il modo delle parole. Il Talmud dice: (Wayehih, era) esprime tormento, Wehayah (sarà) esprime gioia (Meghillah 10b). Quando avviene qualcosa di piacevole nel passato e noi speriamo che si ripeta in futuro, usiamo Hayah (era) e lo convertiamo con la Waw in Wehayah (sarà) [Shoresh Yshai, Ruth]. Viceversa, se sappiamo che qualcosa di triste debba avvenire, qualcosa che non possiamo modificare ma che speriamo sia già avvenuto - "fai che sia già passato!" Allora le Scritture usano il futuro Yehih (sarà) e lo converte in passato Wayehih (era) [Kol Hatorah, Bereshit). Valore numerico 7. La lettera זZain rappresenta spirito, sostentamento, lotta. Il suo valore numerico la fa associare allo Shabbat, il settimo giorno, il giorno del riposo, poiché Dio creò l'universo in sei giorni, ed il settimo giorno si riposò. Tuttavia, la parola זןzān si riferisce al sostentamento (alimento) e la parola זייןzayin significa arma, alludendo alla “lotta” per guadagnarsi da vivere. La contraddizione è solo apparente. Il Maharàl di Praga spiega, infatti, che il numero 6 è il simbolo del lavoro e dell’ambiente circostante (l’alto, il basso e i quattro punti cardinali), mentre il 7 è il centro, il cuore di questa struttura cubica, lo Shabbat dal quale scaturisce tutta la benedizione delle attività lavorative. Per sei giorni alla settimana l’uomo deve porsi a confronto con realtà spesso estranee alla sua spiritualità, a volte addirittura ostili, tali, comunque, da non permettergli facilmente di raggiungere quell’equilibrio tra esistenza materiale e spirituale necessario alla vita stessa. Nello Shabbat, invece, ciascuno si ricrea la propria interiorità in uno spazio inaccessibile durante qualsiasi altro giorno della settimana. Così l’uomo ha la forza di resistere alle richieste dei “sei” giorni lavorativi – in cui si è, talvolta, sottoposti a pressanti esigenze fisiche, emotive e mentali – solo quando riesce a ritrovare se stesso per un periodo. Tale periodo, rappresentato dallo Shabbat, può sembrare breve, se confrontato puramente in termini di durata con il resto del tempo, ma è assai prezioso per la profondità e l’intensità con cui lo si vive. Bisognerebbe trascorrere uno Shabbat in un ambiente religioso, dove il telefono viene ignorato, la televisione e i giornali tacciono, il cibo è già stato cucinato, non si viaggia né si parla di lavoro, per rendersi pienamente conto del valore e della profondità di questa dimensione. È un tempo per recuperare energie, riflettere, rilassarsi, sviluppare la propria spiritualità, approfondire la comunicazione e il rapporto con i familiari. Rabbi Shimon Bar Yochai dice: Lo Shabbat andò da Dio lamentandosi: "ogni giorno della settimana ha il suo partner (il primo col secondo, il terzo col quarto, il quinto con il sesto), mentre io sono solo". Allora Dio disse: "Israele è il tuo partner". Quindi, quando Dio pronunciò il quarto comandamento sul monte Sinai, «Ricordati del giorno del riposo per santificarlo» (Es.20:8), implicò con ciò il dovere di Israele di portare spiritualità nell'esistenza terrena (Bereshit Rabbà 11:9). Sette sono i giorni festivi nei quali il lavoro è proibito: il primo e l'ultimo giorno di Pesach e Sukkot; Shavuot, Rosh Hashanah e Yom Kippur. Ognuno dei primi sei è chiamato Shabaton (giorno del riposo). A causa delle forti restrizioni specifiche ad esso, lo Yom Kippur è chiamato Shabat Shabaton (giorno di riposo completo) [il Gaon di Vilna, Divrei Eliyahu]. Sette sono anche i giorni di Pesach, sette (+1) quelli di Sukkot, sette settimane passano da Pesach a Shavuot ("Omer"), sette anni dura il ciclo della Shemitah (anno sabbatico della terra), e sette per sette anni portano allo Yovel (giubileo). La lettera zain è anche l’iniziale delle parole זמןzeman (tempo) e זכרzākar (ricordare). Il ruolo del tempo e della memoria è fondamentale nella ricerca spirituale. Il Nome di Dio del Tetragramma, ה-ו-ה-י, allude all’unione di passato – presente – futuro. Componendo in modo diverso le lettere del Tetragramma si ottengono le parole era ( – )היהè ( – )הוהsarà ()יהיה. Le festività bibliche hanno anche lo scopo di aiutare colui che ricerca la spiritualità a stabilire un rapporto equilibrato tra queste tre dimensioni temporali. Da un lato, riallacciandoci all’evento passato è possibile rivivere gli eventi vissuti da Israele. Dall’altro le festività permettono, rinforzando la fede, di proiettarsi nel futuro in maniera positiva. Per esempio, quando il presente è particolarmente difficile, colui che ha fede, grazie al ricordo degli aiuti ricevuti in passato, ha sempre una porta aperta: la certezza di un futuro migliore. Il ricordo nella Bibbia è un vero e proprio comandamento. Valore numerico 8. La lettera חheth rappresenta trascendenza, grazia divina e vita. Andando oltre a sette, il numero otto rappresenta la capacità dell'uomo di trascendere (andare oltre) i limiti dell'esistenza fisica (Maharal). Otto sono i sacri vestimenti del Sommo Sacerdote del Tempio (Esodo 28). Quattro sono le spezie per l'olio di unzione e quattro per l'incenso (Es.30:23ss). Otto sono gli strumenti musicali (sette più il coro) che accompagnano i Leviti durante il servizio. Otto sono i giorni della circoncisione. Otto sono i fili dello Tzitzit (Rav Bachia’). La heth scritta nei rotoli della Torah consiste di due zain unite tra loro da un tettuccio. Essa deriva da Hat (distorta), perché sembra che le due zain siano state storte per formare la het. Osservando due persone che combattono con le loro zayin (armi), siano esse verbali o fisiche, tutti dovremmo cercare di calmare le acque e portarli ad una comprensione reciproca, unendoli sotto uno stesso tetto (Kriat HaTorah). Valore numerico 9. La lettera טteth rappresenta bontà. Per comprendere il significato della lettera teth, come di ogni altra lettera dell’alfabeto, è necessario risalire alla prima volta in cui compare scritta nella Bibbia, analizzandone il contesto. La prima teth che appare nella Bibbia è nella parola hā’ôr kî tôv – la luce era buona - (Gen.1:4). Ovvero essa è associata all’idea del bene. Le prime tavole della Legge (Es.20:2-17) sono in versione differente dalle seconde (Deut.5:621). Nella prima versione appaiono tutte le lettere dell'alfabeto tranne la teth. Nella seconda versione, appare la teth nel quinto comandamento: ûlema‛an yîtav lāk (e tu abbia bene). I saggi spiegano: Dio sapeva che Mosè avrebbe rotto le prime tavole. Se esse avessero contenuto la parola tov (bontà), ciò avrebbe significato che si sarebbe spezzato tutto il bene della terra. Per togliere all'uomo questa preoccupazione, Dio tolse la teth dalla prima versione (Baba Kamma 55a). Inoltre la seconda versione delle Tavole conteneva diciassette lettere più della prima. La ghematria di tov (bontà) è proprio diciassette (Baal HaTurim). Valore numerico 10. La decima lettera dell’alfabeto ebraico è la יYod, la lettera più piccola, ed è l’iniziale del Tetragramma, del popolo e della terra d’Israele. È appena più grande di un puntino; non si può dividere in componenti. Essa allude al Nome, che è Uno e Indivisibile. Implica anche che la grandezza si raggiunge con l'umiltà (Maharal). Yod è la prima lettera del Tetragramma y-h-w-h. Il popolo ebraico ha quattro nomi, che iniziano tutti con Yod: Yaakov, Israel, Yehudah e Yeshurun. Ciò indica che, sebbene questa nazione sia perseguitata e dispersa nel mondo, essa non smette mai la propria missione, che è quella di santificare il Nome di Dio sulla terra. «L’Eterno ha riposto in voi la sua affezione e vi ha scelti, non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli, ché anzi siete meno numerosi d’ogni altro popolo» (Deut.7:7). La Yod rappresenta questo piccolo grande popolo, come viene definito nella Torah. Tale concetto è stato perfettamente espresso in un articolo di Mark Twain (Harper’s Magazine, 1897) sul “miracolo” del popolo ebraico che, pur rappresentando l’uno per cento della popolazione mondiale, conta tra i suoi esponenti il maggior numero di premi Nobel, scienziati, filosofi, uomini d’affari. Nell’articolo Mark Twain si chiede: “Qual è la forza misteriosa che sta dietro a questo popolo, che, a differenza delle grandi civiltà antiche, è l’unico a non essere scomparso? Dove sono l’impero egizio, babilonese e persiano? Dove sono l’impero greco, quello romano e gli altri grandi popoli della storia, che fecero tanto rumore e poi svanirono nel nulla, lasciando solo splendide rovine? Perché questo popolo, il più perseguitato, è sopravvissuto a tutti?”. Alla domanda di Mark Twain si potrebbe rispondere in vari modi. Questo piccolo popolo, questo puntino nel mare delle nazioni, è stato scelto da Dio – la “grande” Yod del Tetragramma – per manifestare al mondo intero che non sono i leader dell’umanità a fare la storia, bensì la Divina Provvidenza. Come notiamo analizzando la storia del popolo ebraico, la dinamica di questo rapporto, tra la grande e la piccola Yod (Dio e Israele), si sviluppa all’interno della relazione fra tre inseparabili realtà: Dio, il popolo e la terra d’Israele. Il popolo d’Israele, con le sue cadute e le miracolose rinascite, testimonia l’assoluta dipendenza da Dio. La terra d’Israele, pur essendo stata promessa ad Abrahamo, è un dono soggetto a condizione: perché la terra è mia, e voi state da me come forestieri e avventizi (Lev.25:23). Non si tratta di una terra comune, essa esegue la volontà del Creatore: una terra che vomita o divora i suoi abitanti, paese sul quale stanno del continuo gli occhi dell’Eterno, del tuo Dio, dal principio dell’anno sino alla fine (Deut.11:12); una terra sulla quale si posano anche gli occhi del mondo, che ne esaminano, commentano e diffondono senza pietà ogni errore o imperfezione. Il prezzo dell’elezione è infatti la severità del trattamento: come nel cammino spirituale dei singoli individui, più ci si avvicina a Dio, più alto è il prezzo da pagare per ogni errore. Così accadde a Mosè, il cui desiderio e le cui preghiere di poter entrare nella terra promessa non vennero accolte solo per lo “sbaglio” di aver colpito la roccia invece di parlarle. Essere a conoscenza degli insegnamenti biblici richiede un comportamento adeguato. È come la differenza che esiste tra viaggiare a 200 km orari o a 60. Ad alte velocità, sterzare il volante di due gradi può avere conseguenze catastrofiche. Le Scritture illustrano chiaramente che dietro ogni persecuzione del popolo ebraico c’era sempre la mano di Dio (cfr. Is.10:5). Fu Lui, quindi, che appiccò il fuoco al Santuario di Gerusalemme (usando come strumento i nemici d’Israele) perché era divenuto un mero spazio fisico, dove il sacrificio sostituiva – e non più accompagnava – il pentimento. La parola Yod può essere letta come Yād (mano), e denota potere e possesso. Figurativamente, una mano chiusa denota possesso - come in «terrai stretto in mano questo danaro» (Deut.14:25) e in «apri liberalmente la tua mano al tuo fratello povero e bisognoso» (Deut.15:11). Per questo il neonato ha le mani chiuse alla nascita, come a dire: "il mondo intero è mio"; quando si muore, invece, le mani sono aperte, ad indicare che non ci si porta dietro niente di fisico da questo mondo (Mechiltah, Esodo 17). Per preparare il ruolo, così importante nella storia dell'uomo, di Abramo, al suo nome originario fu aggiunta una He, formando così una parola che significa "padre delle nazioni". E a sua moglie Sarai, fu sostituita la Yod con una He, per diventare Sarah. La Yod, il cui valore è dieci, è stata divisa in due He, ognuna delle quali vale cinque, una fu data ad Abrahamo, e l'altra restituita a Sarah, madre d’Israele (Berachot 13a). Valore numerico 20. Con la lettera כKaf inizia la parola כחkōah che significa forza, energia. Studiando le Scritture possiamo notare che la forza è uno degli attributi divini maggiormente citati. La lettera Kaf rappresenta la corona e la realizzazione. La sequenza talmudica dell'alfabeto insegna: se fai ciò che Alef Beth Ghimel Dalet dice, cioè se studi la Torah ed agisci a fin di bene, allora He Waw, Dio, ti darà Zain Het Tet Yod, sostentamento, accettazione, bontà e successione. Infine, Egli ti metterà una Keter, corona (Shabbat 104a). Ci sono tre corone: Keter Torah, Keter Kehunah e Keter Malkut; la corona della Torah, la corona del sacerdozio e la corona reale, ma la quarta corona, Keter Shem Tov (la corona del buon nome), è superiore a tutte e tre (Avot 4:13). K come Kaf (contenitore) ha un doppio simbolismo. Esso sta per il palmo della mano che serve da contenitore e, allo stesso tempo, identifica la misura di quanto esso contiene. Kaf quindi definisce la produttività e la realizzazione che risultano da uno sforzo mentale o fisico, così come la Yod, che sta per Yād (mano), indica potere e possesso (Ibn Ezra). La benedizione della Havdaah, che separa la conclusione dello Shabbat dal passaggio al giorno lavorativo, si esegue aprendo e chiudendo le mani di fronte alla luce della candela. La mano aperta simboleggia il riposo dello Shabbat, mentre la mano chiusa simboleggia l'essere pronti per l'azione ed il ritorno al mondo del lavoro e della realizzazione (Maharam Rotenburg). Valore numerico 30. La lettera לLamed rappresenta l'insegnamento e l'intenzione. La Lamed è una lettera grandiosa che si innalza sopra le altre dalla sua posizione in mezzo all'alfabeto. Per questo essa rappresenta il Re dei re. Da un lato della Lamed siede la Kaf, che allude al Kisseh hakavod (il trono glorioso di Dio), dall'altro lato si trova invece la Mem, che allude all'attributo Malkut (regno di Dio). Queste tre lettere insieme formano la parola Melek (Re). Il nome Lamed, deriva da Limēd, che significa sia insegnare che imparare. L'uomo ha il dovere di insegnare la volontà di Dio, ma non può farlo sino a quando non ha acquisito conoscenza. Per questo la Lamed è la più alta lettera dell'alfabeto, suggerendo che il vero talento dell'uomo sta nella sua capacità di imparare ed insegnare. La lettera Lamed è l’iniziale della parola לימודlimmûd (studio, insegnamento). Nell'alfabeto, le lettere Beth e Lamed, formanti la parola Lēv (cuore), sono precedute dalle lettere ’Alef e Kaf, che formano, a loro volta, la parola ’Ak (ma). Il termine "ma" indica, generalmente, una limitazione. Ma le stesse Beth e Lamed sono seguite dalle lettere Ghimel e Mem, che insieme formano la parola Gām (anche), un termine che indica un di più a quanto appena detto. Ciò conferma il detto dei saggi: non importa se si fa troppo poco o si esagera, l'importante è fare con il cuore (Berachot 5b). La lettera Lamed indica direzione, moto a luogo, scopo. Il Talmud dice: uno che saluta un amico non dovrebbe dirgli "Lek Beshalom" (vai in pace)", ma "Lek Leshalom" (vai verso la pace) [Berachot 64a]. La Lamed è la più alta lettera dell'alfabeto, mentre la più bassa è la Yod. Insieme formano la parola Lî (a me). Come è scritto: Wihyîtem lî segullāh (e sarete per Me un tesoro) [Es.19:5], dove la relazione tra Dio ed il popolo ebraico è simboleggiata dal termine Lî, a Me (Pesiktah Rabbati). La Torah inizia con la lettera Beth e finisce con la lettera Lamed. Si può leggere Lēv (cuore) o lbal (non). Dio ha detto ad Israele: "Figlio mio, se sei guidato da questi due termini - cuore, che rappresenta la sincerità, e non, che rappresenta la coscienza di ciò che si deve evitare, allora hai ubbidito a tutta la Torah" (Otiot Rabbi Akiva). Valore numerico 40. La lettera מMem rappresenta il “rivelato” e il “nascosto”. Il termine più evidentemente collegato alla Mem è l’acqua, poiché scrivendo questa lettera per esteso מם Mem ha le stesse consonanti della parola מיםmayim (acqua). L’associazione più classica che riguarda l’acqua è la Torah. Per capire pienamente il significato dell’acqua nella Torah è necessario parlare del mikweh, il bagno rituale. I più antichi riferimenti al mikweh nella Torah riguardano un “cambiamento di stato”: l’immersione che per la prima volta i sacerdoti eseguirono fu il principale atto rituale che li differenziò dal resto del popolo. Ugualmente il mikweh, il rito di purificazione del Sommo Sacerdote come preparazione della sua entrata nel Santo dei Santi, nel giorno di Kippur aveva come finalità il cambiamento di stato e la purificazione rituale, necessaria perché potesse trovarsi di fronte alla Shekinah e conseguire il perdono per tutti i suoi fratelli. L’immersione nel mikweh, il battesimo, di colui che si converte abbracciando la fede nel Messia, allude alla trasformazione che l’anima subisce proprio per tale fede. Tale metamorfosi spirituale rappresenta una nuova nascita. Dopo l’immersione, il convertito è come se fosse un bambino appena nato (cfr. Talmud Yevamot 48:2) e, uscendo dal mikweh, egli è come se fosse una nuova persona da ogni punto di vista. La radice stessa della parola mayim ci può illuminare su tale processo. Ma – l’inizio della parola mayim – significa cosa, in forma interrogativa: con l’immersione nel mikweh si dimostra di essere pronti ad annullare il proprio ego – la parte fissa, immutabile della personalità – e a chiedersi: “Cosa sono io?”. Anche l’espressione wenahnû mā? Cosa siamo noi? (Es.16:7), il dubbio ontologico espresso da Mosè a Dio, vuole descrivere lo stato psicologico e spirituale di chi è pronto a mettere in discussione il suo io con un interrogativo, e dunque a rinascere. La Mem è anche l’iniziale del redentore משיחMessia. Uno dei suoi nomi è צמחsemah, germoglio (Zac.3:8), termine che allude anch’esso alla capacità rigenerativa, rinnovatrice, ricreativa che dal Messia si diffonde all’umanità. La Mem ha due forme: una aperta e una chiusa. La Mem aperta è usata dovunque tranne che in fine alla parola. Lì si usa solo la Mem chiusa (finale). La Mem aperta indica la gloria rivelata delle azioni di Dio. La Mem chiusa indica quella parte delle regole celesti che è nascosta all'uomo. Agli aspetti rivelati e nascosti del Suo regno si allude anche nel Suo Nome Maqom (Onnipresente - Luogo). Dio è chiamato Maqom dato che Egli impregna i luoghi del mondo (Psiktà Rabbati 21:1). Il Nome Maqom inizia con una Mem aperta e finisce con una Mem chiusa. La Mem aperta indica il fatto che Egli è percepito attraverso il funzionamento meraviglioso dell'universo. Ma, in ultima analisi, Egli resta ignoto, invisibile e nascosto, come indicato dalla Mem chiusa. La storia del popolo ebraico è caratterizzata da esilio e redenzione. Il primo esilio fu in Mizraim (Egitto). La Mem iniziale dice che il paese era inizialmente aperto e che gli ebrei potevano entrare ed uscire liberamente dal paese e dalle loro case. La Mem finale simboleggia il fatto che alla fine il paese era per loro chiuso, trovandosi così schiavi intrappolati senza via di uscita (Sifsei Kohen). Il diluvio durò 40 giorni (Gen.7:4). Mosè stette 40 giorni e 40 notti sul monte Sinai. Mosè visse 40 anni nel palazzo del Faraone, 40 anni a Madian e 40 anni come capo d’Israele. Valore numerico 50. La נNun appare in due forme: quella normale e quella allungata che si usa solo alla fine di una parola. La lettera Nun è connessa al concetto di Nefîlāh (caduta) ovvero alle varie prove esistenziali inviate da Dio all’essere umano durante la sua vita per invitarlo a cercare nel profondo il potere di risalire in alto, oltre i limiti della sua personalità. Nun in sé e per sé implica speranza, redenzione e, eventualmente, la futura risurrezione: la Nun sta per Nefîlāh, ma, allo stesso tempo, implica i concetti di Nēr (candela), luce nel buio e Nešamah (anima), spirito del corpo. Alcuni sono destinati a conoscere Dio nel momento della propria caduta e nella successiva risalita. Il segreto della rinascita dalla morte, insegnato dalla Nun, consiste nella capacità di capire che la caduta può elevarci notevolmente se si comprende che, anche nell’abisso, Dio è vicino. È infatti scritto: «aveva fatto delle tenebre la sua stanza nascosta» (Sal.18:11); e ancora: «quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me» (Sal.23:4). Con tale consapevolezza sarà più facile rialzarsi. «L’Eterno riprende colui ch’egli ama, come un padre il figliuolo che gradisce» (Prov.3:12). Da questo versetto è possibile capire che le sofferenze devono essere intese come una prova mandata da Dio e sono quindi l’espressione del suo amore. Nun è anche l’iniziale della parola נסיוןnissayiôn (prova). Valore numerico 60. La lettera סSamekh rappresenta sostegno, protezione e fiducia. La radice della lettera Samekh significa sostegno, fiducia, e rappresenta l’idea della protezione Divina. La סSamekh, unita alla lettera precedente, la נNun, compone la parola נסnēs (miracolo). I miracoli avvengono soprattutto dopo aver superato la prova, e Dio li concede per aver agito con maturità accettando le prove e le perdite. Bisogna mantenere la capacità di capire che anche nell’oscurità, nei momenti in cui sembra che male e sofferenza siano l’unica realtà, la presenza di Dio è sempre vicina. La ricorrenza di Hanukkah, che si festeggia nel mese di kislev e avviene nel periodo dell’anno vicino al solstizio d’inverno, celebra appunto la vittoria della luce sull’oscurità. Quando si comprende che in ogni periodo “nero” della vita, Dio ci prende per mano e ci parla in privato, diventa possibile trasformare la sofferenza in luce. Solo allora cesserà l’affanno doloroso: questo atteggiamento è molto più efficace del lamento sterile e passivo. Nella vita di ognuno ci sono periodi in cui il nostro santuario interiore viene devastato da malattie, perdite o conflitti affettivi. In questi momenti è importante mantenere uno stretto contatto con quella parte del nostro spirito che nessuna esperienza può indebolire o sporcare, perché è parte di Dio. A volte è difficile esserne consapevoli, perché, soprattutto in questi periodi, è quasi impercettibile. Ma solo ritrovandola sarà possibile illuminare spazi sempre più estesi della nostra propria mente e della propria esistenza. Questo è il significato della piccola quantità di olio che riuscì a mantenere il candelabro acceso per otto giorni. Da qui la centralità dell’insegnamento: è proibito disperare! La disperazione è lo strumento di Satana. Quando ci sentiamo lontani dalla luce dobbiamo ricordare Hanukkah e tenere presente il versetto: «canterò all’Eterno finché io viva; salmeggerò al mio Dio finché io esista» (Sal.104:33). Con quel poco che resta della mia vita, eleverò un canto che mi renderà pronto per ricevere un miracolo che trasformi la mia esistenza. Il perimetro della Samekh denota Dio, il Protettore; il suo interno denota Israele, il dipendente. Il centro della Samekh allude al Mishkan (Tabernacolo), il luogo dove la Presenza Divina dimorava durante il viaggio nel deserto (Otiot Rabbi Akiva). Valore numerico 70. La parola ‘ayn (occhio, sorgente) fa sì che la lettera ‘ עayn sia il simbolo della visione e della percezione, ovvero della coscienza superiore che permette di elevarsi oltre il livello materiale. La lettera ‘ayn è associata alla rettificazione del sentimrnto dell’ira. Il legame tra la fede e la capacità di non adirarsi è descritto in maniera molto esplicita: “colui che si adira non ha fede” (Hilkhot Hadeot); o ancora: “colui che si adira è come se adorasse altri dèi” (Talmud Shabbat 105b). In altre parole, chi si irrita si sostituisce a Dio pretendendo di essere il “regista” della propria esistenza. Chi invece ha fede nella provvidenza divina ed è certo che Dio controlla e segue il mondo in ogni istante, capisce che Egli è l’artefice di tutto ciò che accade nella vita. Quando siamo messi alla prova, se riusciamo a scorgere il volto di Dio, con l’occhio della sapienza, sarà più facile non adirarci. «Chi copre i falli si procura amore, ma chi sempre vi torna su, disunisce gli amici migliori» (Prov.17:9). Quando un amico ci arreca un torto, invece di fissare la nostra attenzione su questo episodio negativo dovremmo ricordare il bene che ci ha fatto. La gratitudine ci aiuterà a perdonare e salverà quindi la nostra amicizia. Sono numerosi i saggi longevi che attribuivano la loro buona salute al fatto di non cedere all’ira. Fra tutti gli organi, l'occhio è quello che rivela all'uomo più di tutti. La parola ‘ayn (correlata a Ma‘ayān - fontana) significa anche sorgente d’acqua (Gen.16:7). Esattamente come una sorgente porta l'acqua dalle profondità della terra alla luce del sole, così l'occhio porta la percezione del mondo nella mente dell'uomo. L'occhio è il mondo: il bianco rappresenta l'oceano, l'iride la terra, la pupilla è Gerusalemme e l'immagine che vede chi osserva è il Tempio (Derech Erez Zuta). Così come ‘ayn significa occhio, la parola Meein (come) è usata per descrivere l'essenza o la somiglianza a qualcosa. ‘ayn (occhio) che identifica primariamente l'organo della vista, rappresenta anche la luce, ovvero il veicolo che rende possibile la visione. Nella calligrafia della Torah, la ‘ayn è formata da una Yod allungata e una Zain (Beit Yossef). La ghematria delle due lettere è 17, così come il valore di Tôv (bene). Questo insegna che si deve sempre guardare la gente con ‘ayn tôvah (occhio buono), e giudicare gli altri favorevolmente, come dice il Salmo: «vedrai il bene di Gerusalemme» (Sal.128:5). Il valore numerico della ‘ayn (70) è fondamentale nella Bibbia, in particolare per quanto concerne la dialettica tra Israele, le nazioni e il loro faticoso cammino verso la comprensione reciproca. L’umanità parlava una lingua comune; quando, però, la generazione della Torre di Babele fu punita da Dio per la sua arroganza e immoralità, fu dispersa, confusa e frammentata in settanta lingue diverse. L’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste offrì una nuova possibilità alle genti di tornare all’unione originaria per la fede nel Messia d’Israele. Il popolo ebraico ha avuto il compito di essere il punto di riferimento per tutte le nazioni. Quando i dodici figli di Giacobbe, con i loro figli, scesero in Egitto erano settanta anime e Dio «fissò i confini dei popoli tenendo conto del numero dei figliuoli d’Israele» (Deut.32:8). L’importanza, per Israele, di rapportarsi alle nazioni del mondo si rispecchia in alcune leggi della Torah: il Sinedrio era composto da settanta anziani. Durante la festività di Sukkot, al tempo del Santuario, il popolo pregava e offriva sacrifici (70 tori) affinché tutte le nazioni del mondo fossero benedette da Dio. Valore numerico 80. La lettera פPe rappresenta parola e silenzio. La Pe sta per פהPeh (bocca), l'organo della parola. Dio creò l'uomo e «gli soffiò nelle narici un alito vitale, e l’uomo divenne un’anima vivente» (Gen.2:7). Onkelos sostiene che il termine essere vivente è da interpretare come "anima che parla". Rashi commenta che ciò che differenzia l'uomo dagli animali è la capacità di fare un discorso intelligente. La capacità di parlare porta l'uomo in cima alla graduatoria delle quattro categorie di esistenza: Domem (silente); Ṣomeah (germogliante); Hay (vivente) e Medaber (parlante) [Maharal]. La Kabbala nota che la Pe è formata da una Kaf e una Yod. La Kaf rappresenta Klîh (contenitore), che contiene la Yod, ovvero la spiritualità. La Yod nella Kaf rappresenta lo spirito contenuto nel corpo umano, oppure i Dieci Comandamenti nell'Arca (Magen David). Nell'alfabeto, la ‘ayn precede la Pe, dato che l'occhio percepisce e poi la bocca esprime il pensiero. C'è comunque un luogo dove la posizione di queste due lettere si inverte. Nel Libro delle Lamentazioni (sulla distruzione del Tempio di Gerusalemme) i versi dei primi quattro capitoli sono formate da parole in ordine alfabetico ("acrostico"). In tre capitoli su quattro la ‘ayn precede la Pe. L'anomalia allude al fatto che a quel tempo si era deviato dalla via di Dio. La Pe senza daghesh (puntino in centro) ha un suono morbido (f), la Pe con il daghesh ha invece un suono duro (p). La radice Rōfe (curare) è usata nella Torah con la forma morbida, quando chi cura è Dio, «io sono l’Eterno che ti guarisco" (Es.15:26); e con la forma dura, quando chi cura è il dottore, «lo farà curare fino a guarigione» (Es.21:19). La differenza sta nel fatto che il medico cura con dolore, mentre Dio cura naturalmente (Baal Haturim). La Peh (bocca) è data all'uomo per servire lo scopo morale di usare la parola al servizio di Dio (Tefillah Zaka’). Il lutto è il momento del silenzio. Al silenzio si allude mangiando uova e lenticchie, che sono cibi rotondi che non hanno "bocca" (Baba Basra 16b). La più classica espressione legata alla parola Pe è תורה שבעל פהTôrah šebe‘al peh (Torah orale), ossia l’insieme di interpretazioni delle Scritture. Per capire il significato di Tradizione Orale bisogna introdurre l’importante nozione del ruolo delle vocali e delle consonanti nella Torah. In ebraico il testo scritto è composto solo da consonanti, mentre le vocali vengono aggiunte da chi legge: ogni parola può quindi avere più di un significato. La Torah non è dunque un testo fisso ma si presta a diverse interpretazioni. «I 48 sentieri» della Torah sono quelli elencati nelle Massime dei Padri (Pirkeh Avot 6:6). Citerò, come esempio, i primi due sentieri secondo gli insegnamenti di Rav Noah Weinberg. 1. Be Talmud (lo studio della vita) Il primo sentiero che c’insegna il Pirkeh Avot è Be Talmud, ovvero l’essere in uno stato di costante apprendimento nello “studio della vita”. Dobbiamo far uscire ogni evento e ogni nostro incontro dalla casualità, volgendoli in stimoli alla riflessione e al dialogo con Dio. È necessario quindi arginare la tendenza della mente a distrarsi e a divagare tenendola in uno stato di vigile allerta. Purtroppo nella nostra società occidentale e materialistica la gente anziché scegliere di dedicare il proprio tempo libero ad attività edificanti e significative per crescere in consapevolezza, preferisce mantenere in uno stato di non apprendimento la propria coscienza guardando la televisione o altre cose, in totale opposizione al “consiglio” biblico di non buttare via il tempo inutilmente. È possibile superare queste difficoltà quotidiane con alcuni consigli pratici. a. Costanza. Non serve a nulla meditare due volte la settimana trascorrendo poi il resto del tempo a guardare programmi televisivi di scarso o nullo valore. È della massima importanza scegliere con cura i propri amici, le proprie letture, i film da vedere, le attività del tempo libero a cui dedicarsi. Un film che non insegna nulla di positivo, che non apre il cuore e la mente, o un incontro sociale che non fa crescere, sono sicuramente una perdita di tempo. b. Concentrazione. L’incapacità di concentrarsi, di portare a termine un lavoro iniziato, è espressione dell’incapacità di dedicarci completamente a ciò che stiamo facendo. Quando studi, studia; quando preghi, prega, insegnano tutti i grandi saggi. Un ottimo allenamento è quello di proporsi giornalmente una certa attività da svolgersi in maniera costante e continuativa, inizialmente per almeno dieci minuti e poi via via per un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora e così via, il tutto senza dannose interruzioni. Questo allenamento alla costanza ci permette di riconquistare il controllo sulla nostra mente, che è come una scimmia che si sposta incessantemente da un ramo all’altro senza mai riposarsi. c. Stabilità. Quando la nostra vita è impostata sulla precarietà, sulla mancanza di progettualità quotidiana, allora la nostra crescita spirituale si scontrerà con gli inevitabili ostacoli del mondo fisico e materiale. d. Riflessione. È importante fare ogni sera, prima di addormentarci, un’opera di revisione della nostra giornata. Il calendario biblico, con i suoi punti fissi nel tempo, ci pone costantemente di fronte a cicliche revisioni del nostro operato e di realizzazione spirituale. Il fine è che il ciclico passare del tempo assomigli di più a una spirale che si accresce verso l’alto, che al perimetro di una circonferenza che si scrive e riscrive su se stessa. 2. BeŠemiah (in ascolto) Durante le nostre conversazioni e nella nostra vita relazionale dobbiamo dunque imparare ad apprendere e ascoltare in maniera attenta e consapevole. A volte ci succede di essere distratti, di dare poco peso ai messaggi che riceviamo, perché le nostre menti sono sovraffollate di pensieri di ogni genere. L’ascolto profondo deve tenere in grande conto anche il tono di voce e l’autenticità del suono emesso dal nostro interlocutore. C’è un altro tipo di ascolto ed è quello della Shekhinah, di Dio. Sappiamo veramente cosa desideriamo dalla vita? Affinché questo ascolto si realizzi dobbiamo innanzitutto tacitare il nostro rumore e disordine interiore. Il significato della parola Shemah è proprio questo: - She, iniziale di šeqēt (silenzio) ovvero fare silenzio nella nostra mente. - M, iniziale di mah (che cosa) ovvero ascoltare la Qôl demanà dakah che ci parla, la Voce sottile e «silenziosa». - Ah, iniziale di ‘ayin (occhio), il raggiungimento della visione illuminata del “terzo occhio”, il centro della fronte (il punto dove si mettono i tefillin). Valore numerico 90. La lettera צṢade rappresenta giustizia e umiltà. La Ṣade in mezzo alla parola mezzo indica sedāqāh (beneficenza). Accanto ad essa vi sono due lettere: la Het e la Yod. Insieme esse formano la parola Hay (vita). Le lettere all'inizio ed alla fine della parola sono invece la Mem e la Tau, che insieme formano la parola Met (morte). Questo indica che facendo beneficenza la persona si tiene vicina la vita e lontana la morte (il Gaon di Vilna). Ṣade sta per Ṣaddîq, il Giusto, riferendosi al Signore, che è chiamato Ṣaddîq weyašār il Giusto e Retto – Deut.32:4. La vera giustizia esiste solo in Dio ed è Sua parte integrante. Il termine Ṣaddîq è anche usato per definire l'uomo che emula la giustizia di Dio, conducendo una vita intrisa di integrità e verità. Valore numerico 100. La lettera קQof rappresenta santità e ciclo di crescita. La lettera Qof allude alla קדושהQedûšah, cioè alla santità, sacralità, diversità. La parola קדוש qādôšh, oltre che santo significa anche diverso, separato. Dio è santo nel senso che nessun altro essere o cosa può essere comparata a Lui. La santità implica che l'oggetto in discussione sia separato dalle altre faccende. Se un oggetto è sacro, significa che ha un grado di santità che ci proibisce di usarlo per i nostri piaceri quotidiani. Se una persona è santa, essa è ad un livello superiore delle altre. Paradossalmente, proprio il versetto che in Es.19:6 parla di “diversità” e della “separazione” del popolo ebraico, contiene il precetto divino che esorta gli ebrei a diventare un regno di sacerdoti, di maestri di fede nel Dio unico per gli altri popoli. Un comandamento questo che sembra contraddittorio: da un lato gli ebrei sono invitati a sentirsi e dichiararsi diversi e a separarsi dai popoli tra cui vivono, dall’altro lato sono esortati ad avere rapporti così profondi con i non ebrei da poter loro trasmettere, con il proprio esempio, la fede nel vero Dio. Il valore di Qof è 186, lo stesso di Maqom (luogo - onnipresente), uno dei Nomi Divini. La lettera Qof consiste di una Kaf ed una Waw, due lettere che hanno una ghematria di 26, la stessa del Tetragramma Yod-He-Waw-He. Qof sta anche per Qorbān (offerta al Tempio, sacrificio). Il termine Qorbān deriva dalla radice Qarev, avvicinarsi. Quando c'era il Tempio, le offerte al Tempio portavano chi le faceva più vicini a Dio. (Magen David). La parola Qof significa anche scimmia. Il fatto che questa lettera rappresenti sia la santità che un animale, è una parodia dell'umanità ed offre un importante spunto sul ruolo dell'uomo. L'uomo è creato ad immagine di Dio, ed è solo un po’ più in basso degli angeli (Sal.8:5). L'uomo deve emulare Dio, anche se non potrà mai raggiungere la Sua santità. Se l'uomo agisce ad immagine di Dio, il suo potenziale è illimitato. Ma se egli è solo una povera imitazione di ciò che l'uomo può fare, allora è solo un primate. Così come una scimmia assomiglia ed imita l'uomo meglio di qualunque altro animale, non potrà mai raggiungere il livello di un essere umano. Valore numerico 200. La lettera רResh rappresenta scelta tra grandezza e degradazione. Il Talmud sostiene che la Resh sta per Rašā‘ (malvagio). Nella Hagadah di Pesach uno dei quattro figli è il malvagio. Gli altri tre chiedono spiegazioni ai genitori «quando tuo figlio ti domanderà» (Deut.6:20), mentre il malvagio dice a suoi genitori "e quando i vostri figli vi diranno", in modo da autoescludersi dai comandamenti di Pesach. Quando vi è fede, non ci sono più domande, quando non vi è fede non ci sono più risposte (Chafetz Haim). Il Midrash nota che la parola Hasûr (la roccia), parola che allude ad una natura tenace e forte, si può leggere alla rovescia come Rôseh (vuole). Così come la sûr (roccia) si può trasformare in Rôseh (volontà), il rifiuto si può trasformare in propensione. Sebbene la Resh allude al Rašā‘ (malvagio), essa contiene in sé la speranza per la sua redenzione. La lettera Resh si può comparare ad un tubo piegato sul proprio asse, come una porta appoggiata al cardine. Questo insegna che la persona malvagia si può girare verso la Qof - che rappresenta la santità - trovandosi così faccia a faccia con Dio. La parola Resh significa ereditare, come disse Mosè ad Israele ‘alēh rēš (vai e prendine possesso – Deut.1:21). Ma le stesse lettere si possono leggere come Raš (povero) come in welārāš ’ên kōl (il povero non aveva nulla – 2Sam.12:3). La Kabbala dice che questi due termini contrastanti sono simboleggiati dalla forma della lettera Resh. La Resh e la Dalet sono molto simili. L'unica differenza tra le due lettere sta nell'angolo superiore destro: nella Dalet esso è acuto e sporgente, mentre nella Resh è arrotondato. La Dalet simboleggia stretta fedeltà ai valori di Dio, mentre la Resh simboleggia idolatrie antiche e moderne, che si piegano facilmente alle mode. La lettera Resh è associata alla parola ראשrō’š (testa). Per difendere la nostra ראשrō’š (testa) dal רעשra‘aš (rumore) e dal רעra‘ (male) bisogna resistere alla tentazione di sparlare. I maestri della tradizione ebraica insegnano che il lašon hara‘ (la maldicenza) è causa della maggior parte delle malattie che ci colpiscono. Quando evochiamo anche inconsapevolmente l’immagine di una persona che ci ha fatto un torto o con cui abbiamo un rapporto conflittuale, dobbiamo reagire pensando alla nostra missione esistenziale (rettificazione) e liberandoci dei pensieri ossessivi riguardante quella degli altri. È anche proibito lasciarsi andare al veleno dell’ira. Se riusciamo a ricordarci che chi ci fa adirare è, di fatto, un maestro che ci sta mettendo alla prova aiutandoci a riconoscere quella parte immatura e violenta di noi stessi, ci sarà molto più facile gestire la situazione. L’autocontrollo dei nostri pensieri e delle nostre emozioni negative, come l’ira, si conquista gradualmente ma con sforzo costante. Con la lettera resh inizia anche la parola רפואהrefû’ah (guarigione). Valore numerico 300. La forma della lettera שŠin ricorda fenomeni naturali che sembrano sollevarsi verso il cielo, come a cercare Dio. Ad esempio i rami di un albero, le fiamme del falò, o un campo di fiori. Questo simbolismo si trova anche quando Mosè prega mentre Israele combatte Amalek. La Torah ci dice che Israele prevaleva quando Mosè teneva alzate le sue mani (Es.17:11). La Šin è una silouhette di Mosè, con le due braccia larghe e la testa in mezzo (Magen David). Non erano dei supposti poteri magici di Mosè a dare la vittoria, ma la ’æmûnāh (fede) con la quale egli ispirava il popolo di Israele a rivolgere i propri occhi verso Dio (Mishnah; Rosh Hashanah 3:8). La forma della Šin ricorda dunque lo sforzo dell’anima di elevarsi e di riunirsi a Dio. Come la fiamma brucia proprio grazie alla trasformazione di un elemento materiale, la Šin è la lettera dell’elevazione spirituale, della fiamma interiore che brucia i contenuti materiale della mente. La Šin è l’iniziale di שלוםšālôm e שלוהšalwah: sono la pace e la serenità che vengono dal senso di completezza, di accettazione del nostro destino, di riconciliazione con Dio e con i nostri simili. Il ruolo della pace e del superamento dei conflitti è così importante che la “preghiera del Signore” (rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori) costituisce una vera e propria meditazione sul perdono nei confronti di tutti coloro che ci hanno inflitto offese. Dopo aver ritrovato e apprezzato la quiete interiore, è più facile eliminare dalla nostra coscienza le tracce di risentimento, ira e conflitto. Si arriverà a capire che perdonare diventerà non solo possibile, ma necessario. Non può esservi pace finché il risentimento rode l’anima; è importante imparare a perdonare, non solo per amore di Dio e del prossimo, ma soprattutto per amore e pietà verso noi stessi. Nel primo versetto dello Shema: שמע ישראל יהוה אלהינו יהוה אחדAscolta Israele l’Eterno nostro Dio l’Eterno è uno, due lettere appaiono in caratteri più grossi, la ‘ עayn e la דdalet, che compongono la parola ‘ עדēd (testimone). Questa parola allude al ruolo del popolo ebraico in quanto testimone del vero Dio tra i popoli. שבšav, che inizia con la Šin, è la radice della parola תשובהtešûvah, che significa letteralmente ritorno, inversione di direzione. Lo Shema è l’invito ad ascoltare quella voce interiore che è la voce di Dio in noi, che ci spinge in direzione della pace e della saggezza. Per questo, pur attribuendo grande importanza ai processi di autocritica e al fatto di mettere in discussione noi stessi, bisogna porre un limite al tempo concesso per tali cose. Infatti, più ci si focalizza e ci si concentra sulla propria negatività, sulla propria umana imperfezione, seppure al fine di superarla, più si corre il rischio di identificarsi con essa. La Šin è anche l’iniziale di שירהŠîrah (canto) e la musica ha il potere di “tagliare via” lo spirito di negatività, come dimostra il duplice senso della parola זמרzamer che significa sia cantare che potare, tagliare: quando re Saul fu posseduto da uno spirito cattivo (1Sam.16:14), i suoi consiglieri gli suggerirono di farsi allietare dalla musica di Davide per liberarsi dallo spirito che lo turbava. Quando la Šin si lega a Qof (scimmia - mimo stupido) ed a Resh di Rašā‘ (malvagio), forma insieme ad esse lo Šeqer (falso) (Shabbat 104a). Sebbene nell'alfabeto la Šin compaia dopo la Qof e la Resh, essa appare all'inizio della parola Šeqer (falso), perché anche la più nefanda menzogna cerca sempre di travestirsi da verità (Rashi, Num.13:27) dato che una affermazione completamente falsa - come per esempio "l'uomo è una pietra" - sarà sempre rifiutata per il suo stesso non-senso (Zohar, Maharal). Šin è correlata a Šēn (dente). La forma della Šin ricorda un molare, che macina il cibo con le sue punte acuminate. La parola Šin (dente) è, a sua volta, legata a Šanan (acuto). Quindi wešinnantām levāneykā (ripeterai queste cose ai tuoi figli – Deut.6:7), significa "insegna ai tuoi figli così intensamente che essi capiscano la Torah chiaramente e le sue parole saranno acutamente definite, oltre ogni dubbio (Kiddushin 30a). Valore numerico 400. La lettera תTau rappresenta verità e perfezione. Tau sta pera ’æmet (verità). Contrariamente a molti altri casi, in cui è la prima lettera del nome a dare il significato, nel caso di ’æmet (verità), l'ultima lettera, Tau lega il nome al significato. Questo allude alla natura della verità: anche se all'inizio essa pare essere meno attraente della falsità, alla fin fine la verità prevale. La verità è eterna, ma quando le viene tolta la ’alef, che è il più piccolo valore di ’æmet, allora rimane la Met (morte). Tutte le lettere della parola ’æmet poggiano su basi solide, mentre le lettere della parola Šeqer (falso) poggiano su un punto solo, risultando così molto instabili. L'idea espressa è Šeqer en la ragālim (le bugie non hanno gambe). Da questo probabilmente deriva il proverbio "Le bugie hanno le gambe corte". Al serpente, prima creatura al mondo a dire le bugie, furono tolte le zampe, e fu condannato a strisciare (Rashi, Bereshit 3:14). La Tau è l’iniziale della parola תפילהtefillah (preghiera). Uno dei significati del termine tefillāh è unione; la più alta forma di unione che possiamo avere con Dio è la capacità di sentirlo così vicino da potergli parlare. Inoltre, più si riesce a parlare con Dio più lo si sente vicino; questo fenomeno è un dato assodato nel campo della comunicazione. Più due esseri umani sono vicini, più riescono a comunicare; più comunicano e più si sentono vicini. La Tau è l’iniziale della parola תשובהtešûvah (pentimento, ritorno): ritorno alla vera essenza originaria e unica, alla ’Alef, la prima lettera dell’alfabeto. Uno dei mezzi più efficaci per realizzare questo ritorno è la tefillāh, l’arma capace di abbattere il muro di separazione che si erge tra Dio e le sue creature che si sono allontanate dalla verità. Salomone, in Prov.17:3 paragona il cuore, che raggiunge l’espressione più intensa nella preghiera, all’opera di raffinamento dell’oro e dell’argento: «La coppella è per l’argento e il fornello per l’oro, ma chi prova i cuori è l’Eterno». Kesef, argento, in ebraico ha anche il significato di desiderio: prima della preghiera dobbiamo raffinare la qualità dei nostri desideri e delle nostre richieste. Per questo motivo l’Amidah inizia con le parole del Sal.51:15, Signore, apri le mie labbra. Ovvero: sii Tu stesso a pregare attraverso di me. Allora sarà lo Spirito di Dio (Rom.8:26) ad esprimere le necessità che promuovono il benessere individuale insieme a quello della collettività. Allora la preghiera non sarà più la “lista della spesa”, quell’atto opportunistico definito dal Ba’al Shem Tov l’abbaiare del cane che chiede cibo al suo padrone.