1 Uomo, Re della Natura, devi cambiare ... CUORE E FEDE di MICHELE SESSA Quando si attacca la Natura, prima o poi aspettiamoci la “vendetta”. E purtroppo, la Natura è attaccata quotidianamente già quando si procede ad un disboscamento o che si procede per costruire una casetta. Perforare, scavare, ricavare spazio per le fondamenta in cemento significa già provocare “ squilibrio”. Lì per lì sembra che tutto sia normale, poi, poi…la vendetta! Così per un disboscamento o per l’abbattimento del verde naturale. La Natura si ritroverà in modo innaturale, imperfetto. Radici e sassi creano, infatti, reti di sostegno e grande accortezza richiederebbe una opportuna manutenzione. Quante disgrazie si potrebbero evitare se non si deviassero i fiumi, i torrenti, i fiumicelli dai loro corsi naturali... Se non venissero coperti per acquisire nuovi spazi. Quanti disastri, quanti rischi, quante frane in meno! Ma l’uomo non se ne cura: si sente onnipotente; e tutto gli è consentito! Imperterrito, continua sulle sue…strade che portano agli egoismi e…alle disgrazie altrui. UOMO, RE DELLA NATURA, DEVI CAMBIARE…la Natura va curata, coccolata, non dileggiata, né depredata. Quanto la Terra produce è stato creato per te…per le tue beatitudini. Battiti invece per le nuove speranze; rispetta la salute dei tuoi concittadini. La nostra Italia è un Museo a cielo aperto e la cultura che ne deriva è pane. Non rendiamoci crudele la vita per le malvagità. Perché lamentarsi poi per stagioni insolitamente crude? La nostra vita è come un arco che ha per nome “BIOS” e per opera la morte. Sappiamo custodire al meglio e tramandiamo perfetti i mondi di imperitura bellezza. Sii legale, perché senza legalità vincono i malvagi, quelli cioè che rendono l’aria fetida, la nebbia arancione, che fanno bruciare le nostre narici con le loro discariche di immondizia di ogni genere: bucce, scarpe, vestiti, ossa, elettronica…Un inferno creato…liquami densi ed oleosi tra ferraglie arrugginite e magari vicino all’abitato un uliveto, un aranceto, un campo di carciofi…L’umanità deve vivere…Vuole vivere e noi siamo depositari, non proprietari della Terra, la nostra Casa: quanti doveri abbiamo di saper preservare quello che ci è stato temporaneamente donato…E poi la salute, cosa c’è di meglio della SALUTE? ... ed ora una preghiera. Ricorda di versare un contributo per la sopravvivenza della Rivista: – direttamente; – o sul conto corrente n° 13703848 intestato a SESSA MICHLE Via Gen. Ciro Nastri, 17 - LANCUSI di FISCIANO (SA) UN DOVERE? Chissà! 2 L’AREOPAGO LETTERARIO (la Rivista bimestrale di Scienze Sociali, di Lettere ed Arti) PERCHE’ LA CULTURA POSSA DARE UNA MANO ALLA NATURA Bandisce Il XXVI CONCORSO NAZIONALE: “L’ECOLOGIA: Ambiente e Natura” di Poesia e Pittura la cui cerimonia di premiazione, con i Patrocini delle Istituzioni Nazionali e degli Enti Locali, si terrà nell’ Aula Consiliare “Gaetano Sessa” del Comune CITTA’ DI FISCIANO (Salerno) Sabato 6 Giugno 2015 - ore 17,00 Poeti, Artisti, Voi che siete amanti del Bello, salvate il PIANETA-TERRA con il suo Ambiente e la sua Natura, suggerendo, con la Vostra partecipazione, Messaggi ed Azioni. BANDO - REGOLAMENTO DEL CONCORSO Art. 1- La XXVI Edizione del Concorso, come sempre, è riservata ad Opere inedite e non premiate in altri Concorsi, aperta ai Poeti di Lingua Italiana, in TEMA ECOLOGICO. contributo di 15 Euro. Il tutto alla Segreteria del Concorso in via Ciro Nastri 17- Lancusi (SA) o su c.c.p. 13703848- Michele SessaLancusi (SA), entro e non oltre il 30 aprile 2015. POESIA (in lingua o vernacolo) - fino a tre liriche, max 40 versi ognuna, in sette copie, con in calce nome, cognome ed indirizzo dell’Autore; Art. 3 - Tre i Premi in Euro per ogni Sezione: - PREMIO di PITTURA “Clelia Sessa” – senza limiti nelle dimensioni e nelle tendenze pittoriche. - PITTURA e POESIA (giovani) “ Diego Fiume”. Art. 2 - NESSUNA TASSA DI LETTURA E’ DOVUTA. Tuttavia, al solo fine di sopperire alle spese postali, telefoniche e di stampa, ogni Concorrente potrà far pervenire, in uno con i gruppi di Poesie o per ogni Tela, un al 1° Classificato: Euro 500,00 e Pergamena; al 2° Classificato: Euro 300,00 e Pergamena; al 3° Classificato: Euro 200,00 e Pergamena. Eventuali Menzioni d’Onore, a giudizio della Giuria, il cui operato è insindacabile. Art. 4- I partecipanti, saranno avvertiti in tempo utile Art. 5- La partecipazione al Concorso comporta l’accettazione e l’osservanza di tutte le Norme del Bando-Regolamento. 3 NARRATIVA ITALIANA DEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE A CENTO ANNI DI DISTANZA di FRANCESCO CAIAZZA Il centenario dello scoppio della prima guerra mondiale, che per noi cade in realtà il 24 maggio 2015, ci invita a fare una riflessione, perché, comunque, ha segnato per sempre la storia e l’immaginario mitico del nostro popolo. Dopo troppi decenni di letargo finalmente si registra una sorta di m o b i l i t a z i o n e a t t r a v e r s o m o s t re , appuntamenti artistici, incontri a tema, perché è l’occasione di riportare in primo piano tutto un mondo di sofferenze, d’ideali, di valori, di eventi drammatici, che sono stati raccolti in fotografie, corrispondenze, ricostruzioni filmate, racconti dal vivo, episodi sconcertanti. E’ una massa enorme di materiale: si parla di ben quattro miliardi di messaggi postali, ricevuti e spediti da soldati impegnati sui più svariati fronti, con il sostegno delle “regie poste”, d’istituzioni private, di cittadini, documenti sonori e audiovisivi, cartoline, nuove pubblicazioni. Per lo scopo si è costituito da noi, come in tanti altri Paesi, un Comitato storicoscientifico per gli anniversari d’interesse nazionale, presieduto dall’ex Presidente del Senato Franco Marini, che ha già collocato online più di 250 mila immagini; si tratta di manoscritti, stampe di trincea, fotografie… Un aspetto che ritengo interessante è il coinvolgimento di tantissimi Stati degli altri continenti, per il semplice motivo che anche nelle Americhe, nell’Australia, nell’Africa… ci sono milioni di discendenti di soldati che hanno combattuto la Grande Guerra, la quale ha coinvolto particolarmente il nostro continente per ben 1565 giorni: dal 28 giugno 1914 a Sarajevo all’11 novembre 1918, con l’agghiacciante bilancio, secondo una stima più accreditata, di 16 milioni di morti. Come si vede, alla fine ci sarà una ricchissima raccolta, da trasmettere alle generazioni future per realizzare una lettura più distaccata e lucida di quella tremenda fase storica del mondo, che ha segnato con u n m a rc h i o t r a g i c o l a c o s c i e n z a dell’umanità. Dobbiamo subito chiarire che in realtà allo scoppio della guerra ci furono da noi momenti di sconcerto: sia i movimenti di carattere sociale, sia i politici della vecchia generazione che quelli emergenti non avevano idee chiare: “quot capita tot sententiae” (di questo bisogna tener conto nello sviluppo del mondo della narrativa). Alla fine prevalse la retorica interventista, che rievocava le glorie di antiche guerre e risvegliava il senso vero dell’orgoglio nazionale; questo perché la politica europea dell’epoca non si pose l’obiettivo di creare unità d’intenti allo scopo di prevenire conflitti, ma ciascuna potenza si attivò a ricorrere ai sistemi della diplomazia segreta, per realizzare alleanze con alcuni popoli a danno di altri: “homo homini lupus”. All’indomani, invece, della fine del conflitto, il quadro devastante di oltre seicentomila vittime italiane, in aggiunta ai risultati scarsi e deludenti per l’Italia, che pure era stata determinante nel successo finale, diede vigore a quelle forze che non avevano mai creduto nelle ragioni del conflitto. Per questo tanta parte della storiografia si è schierata contro una guerra ritenuta assurda, che ha creato una sanguinosa apocalisse. D’altra parte, come opportunamente ci ricorda Saviano, “Fu il pretesto, la miccia che incendiò la secca prateria europea. L’inizio simbolico, la scusa: non c’è libro di scuola che non ricordi così l’attentato a Sarajevo del 1914. Quel giorno è diventato l’archetipo dei pretesti.” 4 Da qui è scaturita tanta parte della narrativa nostrana, che, sulla stregua di quella straniera, si è poi liberata chi sa da quale incomprensibile contrarietà e ha mostrato i propri sentimenti, riflessioni più ponderate, le emozioni, gli stati d’animo individuali e collettivi. Tutto è diventato materia viva e palpitante da raccontare: impressionanti descrizioni di suoli impervi, sudici, dove bisognava avanzare unicamente a piedi, con il rischio di andare a finire altrove se il capofila leggeva erroneamente la mappa. Si rivisitano località mai sentite prima, che si distinguevano per impraticabilità, per miasmi; si racconta di vestiti del tutto inadeguati alle necessità, del cibo insufficiente e scadente, di assalti che si esaurivano nello spazio di poche centinaia di metri, per poi arretrare con un consistente numero di militari in meno. Castelli, rive di fiumi, ponti, grotte… danno il senso di una guerra combattuta da poveri e spesso analfabeti soldati, i quali si sentivano veri eroi se riuscivano a portare un prigioniero nella propria trincea, o a sottrarre il fucile al nemico, tornando, però, mutilati al campo. Vivevano come una realtà rarefatta, situazioni e vicende al limite del verosimile, che, comunque, erano finalizzate alla realizzazione del sogno di una patria gloriosa. Si enfatizzavano, così, anche i piccoli e insignificanti episodi, opportunamente rivestiti delle penne del pavone, da offrire alla propaganda che esaltava il concetto di una patria invitta e invincibile. Non aveva nessuna considerazione l’idea che, comunque, un conflitto così devastante fosse il segno di grande debolezza per uno Stato, è un macigno che si abbatte sul progresso, è un inasprimento del rapporto economico, commerciale, politico con gli altri popoli, è la certezza di un’ecatombe inimmaginabile, o di una serie infinita di mutilazioni per i più fortunati. Si può dire che la ferina sete di sangue spegne ogni anelito all’amore universale, alla fratellanza umana, alla carità cristiana. Una sorta di mostro bestiale s’impossessa della coscienza degli individui spingendoli al “cupio dissolvi”. Da tanti narratori è stato sottolineato come la popolazione italiana abbia assistito disorientata alla prima fase del conflitto; successivamente è stata mobilitata con l’arruolamento in massa di tutti i giovani. Tutte le principali attività economiche e le strutture portanti del Paese venivano convogliate verso le operazioni belliche, con notevole disagio per tante attività, come ad esempio, l’agricoltura, che veniva a perdere le forze giovanili in grado di affrontare il duro lavoro dei campi. Le stesse fabbriche dovettero dirottare la loro attività sulle esigenze di carattere militare: cannoni, camion, fucili, divise… Era il tempo in cui anche “la tradotta che parte da Torino, a Milano non si ferma più, ma la va diretta al Piave, cimitero della gioventù”, come canta una canzone dell’epoca. Il mondo della cultura in genere, di cui la narrativa è una componente rilevante, venne a trovarsi di fronte ad una radicale inversione di tendenza di una realtà internazionale che, sostanzialmente, aveva raggiunto un modus vivendi tra i popoli del vecchio continente, che erano riusciti a creare una, direi, coscienza europea come spinta ad un futuro di pace e di progresso sociale ed economico. Infatti da un’analisi del clima dell’epoca viene fuori che proprio il mondo della narrativa era speculare di quello intellettuale in genere, nonché di quello politico, nel senso che, ad una concezione che sosteneva di astenersi dalle ragioni di una partecipazione al conflitto, si contrapponeva quella della necessità di un coinvolgimento diretto, anche come una straordinaria esperienza umana a carattere eroico. Orbene, nella seconda fase del secolo scorso si è andata sviluppando una nuova riflessione, che ha preso le mosse da studi iniziati all’estero e introdotti anche in Italia: parte non tanto dagli avvenimenti storici in sé, quanto dai riflessi che hanno lasciato 5 impressi nei diari, nei romanzi, nelle poesie, nelle lettere; la stessa storiografia, sulla stregua della narrativa, si è arricchita di altri temi: il fante che diventa un automa, un numero; la sua dedizione alla patria, spontanea o forzata, viene colta nella sua dimensione psicologica; la vita nuda e cruda al fronte è vista come rapporto insolubile tra l’uomo e la terra madre, tra l’essere pensante e la dura e inospitale trincea; il mondo dell’adolescenza vive la sua linea d’ombra nell’immersione in una lotta corpo a corpo, che spalma inesorabilmente lo stato d’innocenza giovanile. Si sono affrontati con maggiore consapevolezza gli effetti psicologici sui combattenti frastornati dalle cannonate assordanti, dagli assalti insensati e avventati, dall’ubbidienza ad assurdi ordini, dai traumi dei feriti e dei morenti, i quali affidavano il loro ultimo messaggio per la mamma ai commilitoni che li assistevano, dagli incubi che agitavano le notti dei combattenti. Qualcuno mi raccontava che dopo i primi mesi di trincea e d’irruzioni notturne, aveva acquisito una particolare sensibilità riguardo ai colpi di cannoni o di mitragliatrici, per cui, all’istante in cui partiva il colpo, lo percepiva immediatamente, tanto da ripararsi in tutta fretta nella trincea, dietro un albero o una roccia: non era un vero sonno il suo. A questo si aggiunge la luce nuova che è stata accesa sui monumenti, sulle steli, sulle memorie affidate a epigrafi, bronzi, marmi o pietre a cui è stato sottratto, da tanta parte della narrativa, l’alone della celebrazione solenne, l’enfasi della retorica, per cogliere appieno tutto un mondo interiore che rivela una completa associazione tra i drammi del fronte e la condizione di estrema precarietà: il rifacimento personale del narratore ha assunto, in questo caso, anche il compito di relegare in una nicchia il mito enfatizzato della gloria patria, per portare alla ribalta una drammatica realtà. Questo in forza dell’enorme potere che ha il romanzo, quello, cioè, di far vibrare intensamente le corde della memoria; ha la capacità di dare un nome e un’identità a coloro che in questo momento non vediamo, ma che non fanno parte della lista ufficiale di chi non c’è più: il narratore, nella sua veste anche di educatore, ha il privilegio e la responsabilità di indicarli ai lettori, spesso ignari, come modelli da imitare. Ma si assume anche il compito di richiamare i responsabili delle sorti delle nazioni che il racconto della guerra è finalizzato a ricercare la pace ad ogni costo, a meditare sui drammi devastanti provocati dai conflitti, anche per i vincitori, ad esaltare il valore della vita umana che, dal clima di odio che viene creato di proposito, diventa nient’altro che una vera e propria merce, a mostrare alle nuove generazioni come anche nelle difficoltà sia possibile, anzi, necessario utilizzare insieme i mezzi che consentono di difenderci da ogni sorta di sciagura. Intendiamoci, una parte, non consistente, del mondo della narrativa nostrana si fece condizionare da una visione del fenomeno particolare proveniente dall’estero, che si preoccupava più che altro di manipolare ideologicamente gli eventi, facendo diventare vero e proprio spettacolo l’immane tragedia bellica, utilizzando forme di comunicazione appositamente escogitate, per cui le nuove tecnologie belliche, lanciafiamme, armi chimiche... venivano rappresentate come mostri personificati. Si andava, così, a creare nel lettore quell’immaginario narrativo, dove le memorie e i simboli mitologici assumevano dimensioni reali. Si affidavano all’immaginazione vicende sensazionali, torture atroci, scenari apocalittici solo per Panificio - Biscottificio Roberto Franco Via Ten. Nastri, 29 - LANCUSI (SA) Tel. 089.878271 6 la suggestione perversa che esercitavano sui lettori. Analizzando, invece, le tantissime altre e valide voci dei nostri narratori, per quello che si riferisce agli eventi strettamente storici e anche alle motivazioni che determinarono il conflitto, possiamo affermare che non si differenziano più di tanto. Quanto, invece, a valutare l’opportunità dell’evento, le posizioni si diversificano, in quanto ai sostenitori entusiastici dell’intervento si contrappongono tanti che hanno subito una scelta scellerata, anche se alcuni di essi hanno compiuto regolarmente il compito di ubbidire al richiamo della patria. Nella prima schiera troviamo Vittorio Locchi con “La sagra di Santa Gorizia”, dove viene esaltato l’amor di patria che rende sopportabile qualsiasi sacrificio, trattandosi di un nobile ideale. Il cuore del romanzo è una vita vissuta attimo per attimo in perfetta comunità, condividendo sacrifici, stenti, privazioni, che poi hanno realmente cementato l’unità degli Italiani, come ci dimostra l’azione di due giovani militari, che affrontano il destino con coraggio e fede profonda. In questa prospettiva si muove sostanzialmente Giuseppe Prezzolini con “Antologia della guerra”, che raccoglie voci di diversi narratori, dove il filo conduttore è il sentimento dell’unità nazionale, che ancora non era percepita dalla totalità della popolazione come valore forte e condiviso. Si concludeva così il processo unitario del Risorgimento, che sembrava foriero di vera e propria redenzione sociale. Bottega D’Arte CELENTANO (rame, ottone, ferro battuto) di Vittorio Villari Via Ponte don Melillo, loc. Pastenelle, 2 FISCIANO (SA) Non diversamente si presenta Ardengo Soffici con “Kobilek”, dove affronta l’avventura bellica con straordinario entusiasmo, tanto che non si avvilisce neanche quando viene ferito, perché l’idea della morte attraversa tutta la narrazione, ma che dovrebbe essere ambita, non demonizzata, considerandola come riscatto di fronte alla mediocrità della vita. Un autentico atto di fede è quello che sprigiona il lavoro “Scarpe al sole” di Paolo Monelli, che si affida ad una sorta di memoria autobiografica, che ruota intorno alle vicende belliche di cui l’autore è stato protagonista in qualità di capitano degli alpini. Il racconto ricostruisce l’atmosfera del reggimento alpino in cui confluivano i più svariati dialetti, le più svariate esperienze, i canti, le fatiche sulle montagne, le attese spasmodiche di un attacco, il mutevole stato psicologico dei combattenti: tutti ingredienti che hanno cementato, come abbiamo visto con Locchi, il sentimento dell’unità nazionale. Un vero e proprio atto di fede profonda nell’ideale di patria è, del resto, quello di Piero Jahier, che, pronto a sacrificare la vita, ha raccontato la movimentata esperienza bellica in “Con me e con gli alpini”, in cui esalta il senso di “comunità”e di solidarietà della vita nelle trincee, dove si cementò per sempre l’unità nazionale, tema, che, come si vede, accomuna tantissimi narratori. Sulla stessa linea si pone Salvator Gotta con “Piccolo alpino”, dove narra le avventurose ed eroiche imprese di un ragazzo negli anni della Grande Guerra, insignito poi di medaglia d’oro al valore militare. Il cuore del romanzo è la componente “eroica”, che, del resto, ha conquistato intere generazioni. Il cuore di Carlo Emilio Gadda si può dire che bruciasse ardentemente per la patria, un ideale nobile da salvaguardare anche col sacrificio della vita. In prima linea a Caporetto nella drammatica vicenda del famigerato 1917, riuscì a salvare la pelle, 7 ma non a sfuggire alla cattura da parte degli Austriaci. La sua è una testimonianza dove l’intensità dell’amore per la patria è accompagnata da profonde riflessioni su un evento che ha lasciato il segno nella storia dell’umanità. Meditò a lungo sulla opportunità o meno di pubblicare il “Giornale di guerra e di prigionia”, per il fatto che riteneva estremamente deludenti i benefici ottenuti da una guerra comunque vinta. Con vivo entusiasmo partecipò al conflitto Filippo Tommaso Marinetti, che considerava la vicenda bellica come l’occasione per realizzare il suo ideale, quello dell’identificazione tra vita reale e mondo della letteratura. Nel romanzo “Alcova d’acciaio” egli intravede l’idea centrale del futurismo, realizzata dalla rapidità e modernità delle armi ma, ancora più, il rapporto a sfondo sentimentale, quasi erotico, tra il soldato e l’uso dell’arma che lo rende appagato. Sull’altra sponda vediamo diversi autori della narrazione delle vicende belliche, che non hanno mancato di sottolineare la non condivisione della scelta dell’intervento in un conflitto assurdo. Il romanzo “Trincea”di Carlo Salsa è una testimonianza forte di vita trascorsa al fronte, dove le sofferenze quotidiane dei militari vengono vissute con un’intensità straordinaria. Vi risaltano evidenti la difficoltà ad accogliere così duri sacrifici e l’amara considerazione di combattere una guerra sconcertante. Il racconto scorre su un’amara riflessione riguardo al valore della vita umana, bruciata dagli orrori di una sorta di apocalisse. Lo stesso Renato Serra, in “Esame di coscienza di un letterato”, partiva da una considerazione fatalistica della vita, per cui ciascuno di noi ha un proprio destino; in questa visione la guerra è vista come una vera e propria ineluttabilità, anche se razionalmente non è ammissibile nessun tipo di conflitto, in quanto evento insensato destinato a lasciare tutto come prima. La sua riflessione è lo specchio delle difficoltà in cui si dibattevano i letterati, e i narratori in particolare, di quella fase storica, incapaci di rappresentare la nuova società che si andava ormai irrimediabilmente delineando. Antonio Gibelli, in “La grande guerra degli italiani”, ha portato avanti una scrupolosa analisi psicologica dei combattenti. Prendendo in considerazione le lettere dei soldati, ne ha analizzato la psicologia, le emozioni, i comportamenti, nonché la ricaduta dei devastanti momenti bellici sulla mente del militare, spesso sconvolgendola. Il soldato, che rinuncia alla propria personalità, è trasformato in automa, a cui applicare con assoluta sicurezza tutti i comandi possibili.Giovanni Comisso, con “Giorni di guerra”, ci racconta la sua sofferta esperienza bellica e la vita straziata dei commilitoni che consumavano la loro giovinezza in un interminabile alternarsi di emozioni, paure, stati d’ansia, morti atroci… L’esplosione di gioia a conclusione del conflitto attenua solo in parte i segni indelebili che il conflitto ha lasciato sul suo cuore. NEL SOLCO DI UNA TRADIZIONE CASSA RURALE ED ARTIGIANA BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI FISCIANO Corso S. Giovanni Battista Tel. 089.878990 - 089.951166 LANCUSI di FISCIANO (SA) Filiale di MERCATO S. SEVERINO (SA) Via T. Falco, 29 - Tel 089.8431144 Filiale di BRACIGLIANO (SA) Via Donnarumma, 10 - Tel. 081.0018891 Filiale di MONTORO INF. (AV) Via Risorgimento, 6 - Tel. 0825.062646 8 Perfino Emilio Lussu, che pure era un interventista, in “Un anno sull’altopiano”, esprime tutta la sua amarezza e la delusione profonda per una guerra che, purtroppo, trovava totalmente impreparati la nazione, i militari, gli intellettuali. Stigmatizza l’improvvisazione del Comando Generale, l’impreparazione dei giovani soldati, la mancanza di armi efficienti e moderne. Riporta gli scempi di ogni natura a cui si è sottoposti, l’orrore delle stragi che si consumano per la conquista di una collina o di un braccio di fiume, senza considerare poi la condizione psichica di chi è perennemente sospeso tra la vita e la morte. Il soldato è semplicemente uno strumento a disposizione di chi lo utilizza con fredda determinazione. In “Terra matta” di Vincenzo Rabito un soldato siciliano, scarsamente acculturato, col compito di trasportare e seppellire cadaveri, trascorre le lunghissime giornate nelle trincee, al freddo e tra la melma e le piogge torrenziali, nella spasmodica attesa dell’attacco improvviso a cui rispondere. Il protagonista del lavoro di Aldo Palazzeschi “Due imperi… mancati” è il soldato, costretto oppure abbagliato dagli entusiasmi suscitati per la gloria patria, alle prese ora con il terrore delle mitragliatrici o degli agguati notturni, ora con la sofferenza di essere stato strappato ai familiari e ad una condizione di vita probabilmente non soddisfacente ma nel calore del focolare domestico. Sono prevalsi gli interessi o le convinzioni di politici, militari e di tanti del mondo della cultura, che hanno scatenato un conflitto, che ha stravolto valori civili, sociali, umani. Eugenio Garrone, in “Lettera dal fronte di un soldato italiano”, coglie con grande intensità lo stato d’animo del combattente al fronte, che, oltre a dedicarsi a scavare trincee, a combattere, a recuperare cadaveri e feriti, vive come in un’atmosfera irreale nel silenzio cupo della notte come del giorno. Il soldato entra in sé stesso e si sente come oppresso dai più cattivi pensieri e da uno stato d’ansia che l’opprime: deve immaginare, prevedere le mosse e le intenzioni del nemico; è uno stato di tensione che diventa più acuto di notte, quando alla dura realtà che sta vivendo si associa il pensiero dei familiari che trepidano per lui. Federico De Roberto, ne “La paura e altri racconti della grande guerra”, ci porta “in medias res”, ossia ci fa respirare l’odore degli spari, le lingue di fuoco, i battiti accelerati, la comunanza di esperienze nelle trincee, la spasmodica attesa, le piogge torrenziali; non senza l’apprensione di una mossa a sorpresa da parte del nemico: il tutto, però, crea anche un’atmosfera particolare, nel senso che la condivisione di esperienze fa considerare tutti i commilitoni “fratelli “: Siciliani e Veneti, Piemontesi e Napoletani, Lombardi e Pugliesi. Il racconto termina con il suicidio del soldato Morana che, non condividendo una guerra assurda, per non essere tacciato di vigliaccheria, si uccide, ben sapendo che si tratta di una morte senza senso. Un aspetto caratteristico della guerra è stato colto da Andrea Molesini con “Non tutti i bastardi sono di Vienna”. Così Famiglia Cristiana: “Dalla guerra alla vita. Un ragazzo diventa uomo mentre l’Italia sconfitta e umiliata si prepara a risalire la china. Villa Spada, a pochi chilometri dal Piave, nell’anno fatale della disfatta di Caporetto, è teatro delle vicende di una famiglia colta ed eccentrica, della servitù e del comando nemico… Sullo sfondo è l’immenso fondale di guerra. Si scontrano psicologie e sentimenti, orgoglio e patriottismo, vinti e vincitori che si trovano alla fine perduti nella stessa tragedia.” In definitiva si tratta di una dura condanna CASA DEI FIORI di ANTONIO SIMONE FIORI - PIANTE - ADDOBBI Via Del Centenario - LANCUSI Tel. 089.878766 9 della guerra. Sulla stessa lunghezza d’onda è la riflessione che ci offre Il lavoro di Emilio Gentile “Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo” (“La grande guerra degli Italiani 1915-1918”). Un paziente, scrupoloso lavoro di ricerca è alla base dell’opera, che ci presenta lo scenario devastante della guerra, dove sono protagonisti personaggi politici e militari, operatori economici, fenomeni sociali, eventi culturali e, soprattutto, una massa enorme di soldati uccisi. Molto interessante e originale è il corredo fotografico, che fissa le immagini dei protagonisti, che risultano così più efficaci di qualsiasi racconto. La “Raccolta di lettere dei caduti” di Adolfo Omodeo contiene una miriade di voci accorate di chi vive giorno per giorno in una continua “sospensione” psicologica. E’ un bisogno dell’autore di portare al centro della vicenda bellica non tanto la documentazione ufficiale, spesso retorica, quanto le testimonianze vive di giovani, magari umili e poco acculturati, che sono i veri protagonisti di una vicenda che ha cambiato la storia. Oltre alla folta schiera dei suddetti narratori e di tanti altri ancora, vedi, ad esempio, Antonio Baldini con il “Nostro Purgatorio”, “maturavano”, come ci ricorda il Flora, “esperienze varie sotto quel pensiero dell’imminente morte che è una guerra, sebbene non tutti, anche sul letto di morte, s a p e s s e ro a b b a n d o n a re u n a l o ro mistificazione o magari una fissazione”. Per concludere, l’orientamento prevalente della nostra narrativa all’indomani del primo conflitto si è mosso nell’ambito della cultura fondamentalmente nazionalistica, come forza rigeneratrice, come riscoperta di un ideale di patria che nel corso di oltre mezzo secolo, a partire dall’unità d’Italia, si era andato esaurendo sia sotto l’aspetto politico sia dal punto di vista economico e sociale. A questo inatteso scenario nazionale attinsero, purtroppo, poi a piene mani le forze eversive che impunemente sfruttarono il terreno fertile per instaurare un regime totalitario. Il mondo subacqueo ENZO TROISI: “ IL TROPICO DEL MEDITERRANEO” Un reportage paesaggistico della biologia marina Con il TROPICO DEL MEDITERRANEO il salernitano ENZO TROISI, in un racconto visivo, ha reso le meraviglie biologiche e scientifiche che si annidano nel nostro mare Mediterraneo. Immagini di paesaggi fantastici e di specie rare che esplorano scorci, flora e fauna marina. Paesaggi purissimi, dai colori a volte inenarrabili; immagini suggestive di un mondo sommerso dai settanta metri alla superficie. cavallucci marini, murene, polipi, gamberi, granchi, paguri, attinie, tartarughe, meduse e ancora rocce brillanti e alghe e vegetali… Una vivacità di colori; un mondo fascinoso ed affascinante, troppo sconosciuto, però. Una fantasmagoria di colori in una luce diversa… Formazioni coralline, alghe e vegetali, cernie, Michele Sessa Pazienza, amore, passione, professionalità che han reso così un capolavoro! 10 DANTE E LA FAMIGLIA di MARIO AVERSANO “Famiglia”: ecco l’ennesima volta che una parola impiegata dall’Alighieri solleva questioni e domande; e che, guardate tutte le carte e le posizioni assunte dalla critica, ci siamo persuasi a un pensiero drastico: che Dante, puta caso redivivesse, risponderebbe ai novelli esegeti del suo concetto familiare - diciamolo scherzosamente - non con le parole ma col coltello (Convivio IV, XIX, 11). Tanta gli sarebbe apparsa la bestialitade valutativa di cui nei fatti egli risulta essere vittima. Questo accade, per esempio, quando ci si imbatte in persone che rilevano nella sua opera (vedi il Lorenzo Renzi del Mulino 2007) addirittura una “deriva antifamiliare e antimatrimoniale”; e sarebbe l’analoga di quella che troviamo nell’autore della Sonata a Kreutzer: Dante e Tolstoj malati di misoginia e di sessuofobia. Più in generale, secondo Renzi, in Dante si riscontrerebbe “un certo scarso interesse per la madre di famiglia (salvo la figura della Madonna) e la famiglia in generale”; sicché “l’espressione amore coniugale per lui non doveva avere un grande significato”. E all’uopo anche si fa notare che Gesù non frequenta coppie sposate. Siamo alle battute finali dell’antica tragedia dell’antidantismo, acuitasi negli ultimi decenni. Ed è dell’altro ieri il rinforzo che a tali esternazioni si adopera a fornire Marco Santagata (Mondadori 2012), il quale vorrebbe sigillare la dissacrazione dell’Alighieri uomo, e del suo ‘privato’ familiare, con una di quelle stoccate che non lasciano scampo: facendo osservare come l’exul inmeritus non si faccia scrupolo di giocare pateticamente e insinceramente “la carta della famiglia”, e di spacciare fin passione per la moglie Gemma al solo scopo di rimettere piede in Firenze. Con queste opinioni, si sappia, Renzi procede sulla medesima scia di quel Guglielmo Gorni che, or non è molto, regalava al poeta, fra i tanti epiteti, quello di poveruomo. La riprovazione di tali asserti diffamatori che abbiamo premesso con la lingua stessa del poeta, radicale com’è, richiede ovviamente delle altrettanto radicali motivazioni. Ci accingiamo a renderle, ma chiarendo in primis tre cose: 1) la sostanza del discorso che veniamo a produrre qui in Benevento non è frutto di riflessioni d’un momento, di questi giorni, e precede di molto l’avvento del Sinodo sulla famiglia voluto da Papa Bergoglio; da lustri abbiamo nel cassetto un intero libro in materia; 2) ne trattavamo già in un commento al Paradiso pubblicato nel 2000: nel quale, tra l’altre, all’endecasillabo Vergine madre, figlia del tuo figlio, con cui principia l’ultimo canto del Poema, figurava la seguente nota: “la presenza, in un solo verso, di ben tre parole direttamente evocatrici della ‘generazione’ - madre-figlia-figlio – rivela con chiarezza l’obiettivo che l’A. persegue: riprendere il tema ‘familiare’, che nel canto precedente è indotto fin dall’inizio e concluso nei versi finali in ordine alla famiglia umana e cristiana, per compierlo nella prospettiva del divino e risolverlo nella luce del mistero”; 3) la nostra “reazione” alla di GIUSEPPE CAPACCIO Fotolaboratorio digitale e tradizionale Via IV Novembre, 44 LANCUSI (SA) Tel. 089.878575 - 9565009 - Fax 089.878575 Filiali Foto Fast: Salerno - Via Torrione, 141 - Tel. 089.795216 S. Marco di Castellabate - Via C. De Angelis, 19 11 novissima editoria scaturisce non da preconcetti ideologici o da particolari simpatie verso l’istituto familiare antico e moderno, bensì dallo sprone da cui, oggi specialmente, ogni intellettuale degno di questo nome dovrebbe sentirsi punto: alla caccia della bella verità, che almeno in temperie letteraria non può presentarsi, fatta salva qualche volta, né soggettiva né relativa. Intendiamo quella verità del cui amore il poeta ci comunica - nella Questio de aqua et terra (dunque quasi alla fine della vita) - di essere stato di continuo nutrito fin dalla puerizia: “cum in amore veritatis a pueritia mea continue sim nutritus…”. Una notizia, questa, che viene curiosamente sorvolata dai dantisti, e massime nell’attuale fase storica, sempre più aggrappata, per sopraggiunta sclerosi ermeneutica, al vecchio luogo comune del “dubbio” perenne; ma che invece – a riflettere - vale, se non a provare, a darci almeno un indizio circa la qualità dell’educazione che a Dante fu impartita, e a difendere lui e la sua famiglia da facili insinuazioni di precarietà affettiva e di condotte etico-politiche poco lineari. Per procedere senza sospetto di devianze, o di parzialità, conviene affidarsi anche questa volta alla semiosi obbligata: la teoria-metodologia espressamente rivolta ai testi-intertesti-intratesti, come la esponemmo or son vent’anni, nel Dante cristiano del 1994.Così noteremo senza difficoltà che le suddette esternazioni negative sono conciliate dalla annosa dittatura della semiosi illimitata, la teoria che centralizza non l’auctor, ma il lector in fabula (e perciò stesso non agevola l’individuazione della chiave che ci vuole per entrare in Dante). Ma può servire un altro attimo di controllo dello “stato dell’arte”, a scoprirne alcune radici. Lo scetticismo antifamiliare da secoli predomina nelle esposizioni della Commedia, e più di recente con partenza da alcuni dati che vengono esibiti con pretesa di statistica probante: per esempio la scarsa presenza nell’opera dantesca della voce “matrimonio”. Tanto si riscontra fin dalla pubblicazione del più autorevole sussidio enciclopedico esistente, realizzato per il settecentenario della nascita del poeta (1965), l’Enciclopedia Dantesca: “Dante non parla che incidentalmente del matrimonio”. Così passano sotto silenzio le tante coppie che hanno cittadinanza nelle sue terzine; e non ci si accorge che egli seleziona e narra le loro vicende con un programma chiaro ed inequivocabile: fornire il Galateo delle regole inderogabili per il raggiungimento della felicità in terra, cioè di una pacifica convivenza tra gli uomini. Non potrà mai capire Dante chi non s’accorge che la Commedia è il massimo (se non l’unico) poema della Pace, e perciò stesso della Famiglia. Si spiega così la presenza di ‘storie’ familiari, belle e brutte, in ogni Cantica. Anzi, per stare al computo quantitativo, uno spoglio attento rivela che il poeta ha in testa la famiglia già dal primo verso (vedremo) e fino all’ultimo, e che non c’è canto dove essa non trovi stanza; e che di mogli e mariti, e relativi ascendenti e rampolli, egli sempre racconta e giudica, a dirla con i Padri della Chiesa, in bono oppure in malo. Questo accade non perché egli abbia gusto e tendenza a spettegolare - accusa che più volte gli è stata mossa, anche da pulpiti importanti - ma per ben diverse esigenze di rappresentazione. Ora va subito posto in chiaro che nessuno disprezza più di Dante il gossip, il chiacchiericcio e le mormorazioni, e loro dintorni (vedi in proposito un mio saggio in Dante e il Giubileo, Olschki 2000). Al momento basti informare di questo: l’unica volta che Virgilio, il mite Virgilio, non riesce a frenare i nervi e per poco non “si rissa” (Inf. XXX, 132), cioè non si arrabbia fino alla rissa con Dante alunno, è quando questi, ancora fragile nel carattere e nella dottrina, “si fissa” a seguire fino in fondo il volgare battibecco tra mastro Adamo e Sinone: nei protocolli danteschi ben pochi degli attuali programmi televisivi troverebbero accoglienza. Tornando a mogli e mariti, va detto che il più è giocato tra fedeltà e adulterio, e relative conseguenze non soltanto 12 domestiche. Dante è contro l’infedeltà a un patto che impegna il religioso ed il civile, e non già contro la famiglia. Si ricorderà, per dirne qualcuna, l’adagio della Giovanna vedova di Nino Visconti, rimbrottata in quanto non lo ama più e si risposa per interesse (Purg. VIII, 73); ma anche il presto della consorte del tiranno Pisistrato, il quale la contraddice serenamente, con viso temperato, quando lei chiede vendetta d’un bacio che un giovane ha dato a sua figlia in pubblico: “Che farem noi a chi mal ne disira/ se quei, che ci ama, è per noi condannato?” (Purg. XV, 104-105). Fino al fortissimo di Pasife moglie di Minosse, che tradendo concepì l’infamia di Cretì (Inf. XII, 12), il Minotauro. E qui va colto il destro per invitare a resipiscenza i critici del canto V dell’Inferno, quello di Francesca da Polenta e Paolo Malatesta, perché smettano di addurlo – come fa Renzi – a prova del pensiero eversivo, antimatrimoniale ed antifamiliare, che lo impronterebbe: quando esso è invece tutto cristiano e al tempo stesso marcatamente politico. Il peccato carnale infatti, tiene a sottolineare il poeta, quando spezza il vincolo tra i coniugi, pregiudica la “fermezza di pace” che le nozze stabiliscono tra le famiglie, le città, i regni. Si spiega così l’elenco delle donne menzionate, Semiramide e Didone, Cleopatra ed Elena: tutte regine che, rompendo la fede uxoria, provocarono le maggiori discordie, guerre e distruzioni. L’adulterio, per Dante, è uno dei grandi nemici della Pace. Ma quando i prototipi del matrimonio e della famiglia sono assunti in bono, Dante riserva loro delle sequenze che sono tra le più memorabili della Commedia, con accenti di partecipazione espressa a volte in modi che, non saranno eterni, appartengono tuttavia al sentimento e al linguaggio amoroso comune ancora oggi: segnatamente con un ricorso ai possessivi mio-mia, tuo-tua. Dante li distribuisce senza distinguere né per ceto né per fede religiosa, e li impiega tanto per una aristocratica, la bella donna di Carlo Martello (“Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza”: Par. IX, 1), e per una illustre pagana, Marzia, come per una fiorentina qualunque, la Nella, rimasta vedova di Forese Donati. Il ritratto che questo penitente di gola in Purgatorio traccia della moglie ha davvero del commovente, basato com’è sui valori della fedeltà e della integrità dei costumi, sopravvissuti in una città resa barbara dalle ricchezze mal lucrate; cose che rendono la vedovella tanto più cara al cielo: “Tanto è a Dio più cara e più diletta/ la vedovella mia, che molto amai/ quanto in bene operare è più soletta” (Purg. XXIII, 91 ss.). Quali incartamenti allora, ci chiediamo, autorizzano a diffondere il falso allarme d’un Dante antifamiliare, e poco sensibile agli slanci dell’amore tra coniugi? Perfino il giramondo Ulisse, campione del desiderio di conoscenza, non si stacca dalla famiglia a cuor leggero, ma deve lottare contro il debito amore/lo qual dovea Penelope far lieta (Inf. XXVI, 95-96); e il poeta men che mai approva il suo cedere ad altro ardore ed amore, dacché la sua vittoria su quelli familiari lo conduce alla morte precipitandolo nel basso Inferno, e riducendolo, non sfugga, a meschina lucciola. Ulisse deroga al precetto biblico del ritorno in patria al sopraggiungere della vecchiaia, per essere sepolti cum patribus, nella tomba di famiglia. Il che dovrebbe far riflettere i troppi interpreti dell’episodio e del personaggio inclini alla retorica del viaggio e dell’esperienza senza limiti. M a s p e c i a l m e n t e p u ò s u o n a re paradigmatico l’exemplum della sunnominata Marzia, moglie due volte di Catone l’Uticense, scelto a far da custode del Purgatorio. Dante non esita ad estremizzare i possessivi del legame matrimoniale, e raddoppia il tua nel giro di una sola terzina: “... li occhi casti/ di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega,/ o santo petto, che per tua la tegni” (Purg. I, 78-80). E qui per ragioni di spazio ci fermiamo quanto alla voce matrimonio. Ma non senza sottolineare che l’indissolubilità di tale sacramento, e la sua necessità vitale trovano chiarissima enunciazione già nel Convivio, e nei parametri che tra poco citeremo. 13 Non meno scoraggia, d’altra parte, il relato enciclopedico al termine “famiglia”. Già lascia perplessi lo spazio che copre: poco più di mezza pagina, e senza neppure un rigo di bibliografia (abbondante invece altre volte); il che comporta un palese giudizio di “secondarietà” del vocabolo. Ma ciò che più ferisce è constatare come le poche osservazioni apposte alla rubrica delle ricorrenze (quattordici nella Commedia, sei negli altri scritti) nulla riportano di quel che l’Alighieri realmente teorizzava e poetava della famiglia, e azzerano l’importanza che essa riveste nella sua opera e che, lo stiamo vedendo, è somma. Passi la nota, così fugace quanto ovvia, della nostalgia dell’esule: Era già l’ora che volge il disìo …; col seguito (tutto ovidiano) di: Tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente... Ma parlare, poi, unicamente di un alone sentimentale in cui sarebbe immerso il più ampio quadro che della famiglia il poeta ha dipinto (quale giace – come è noto - nel XV del Paradiso), risulta di tale pochezza che può prendersi a testimonianza dell’incomprensione generale non solo di quel canto, ma dell’intera Commedia. Nessuno, ora dobbiamo annunziarlo, ha compreso che fermarsi al ‘privato’ del singolo nucleo familiare e ignorarne il potenziale ‘pubblico’ comporta fraintendimento e distorsione interpretativa: perché questa pittura, come s’è rilevato per quella di Francesca e Paolo, va sì letta col cuore, ma non come fantasia d’un visionario: per intenderla bene occorre metterla a fuoco e guardarla col monocolo politico. Osserviamo come è rappresentato quello che può dirsi un ”interno” del basso Medioevo, ai vv. 121 ss., ben conosciuti: “L’una vegghiava a studio de la culla/ e, consolando, usava l’idioma/ che prima i padri e le madri trastulla;/ l’altra, traendo alla rocca la chioma,/ favoleggiava con la sua famiglia/ de’ Troiani, di Fiesole e di Roma”. Padri e madri schizzati nello stesso verso. Non interdistanti, dunque, ma fin gioiosi nell’amore per i figli, in una convivenza sana ed operosa. Nella famiglia che il poeta rimpiange, e così propaganda, le mogli non vengono per Francia diserte, non sono abbandonate dai loro uomini per sete smodata di guadagni e di novità all’estero. Ma riflettiamo ancora. Queste donne che filano, e che fanno scattare la riprovazione del lusso eccessivo nelle vesti e negli ornamenti, hanno procacciato a Dante l’accusa di antifemminismo, di miope laudator temporis acti, di pensatore arretrato, di nemico del progresso economico fiorentino, e simili. Ho già risposto nel mio Dante e i precursori dell’Unità d’Italia (dato a stampa in Benevento, Edizioni Auxiliatrix, 2010), riportando la bella difesa del Solmi, che risale ai primi del secolo scorso. Aggiungo ora un dubbio di tipo, come dire, conoscitivo: su quanto dell’opulenza arrisa a Firenze grazie all’arte e al commercio dei tessuti non sia dipeso dall’umile lavoro delle ignote tessitrici del tempo di Cacciaguida. N é m i n o re i m p o r t a n z a a n d re b b e riconosciuta al loro “favoleggiare”: perché reca un consistente avallo alla concezione assoluta che Dante ebbe della famiglia, siccome creatrice e trasmettitrice di valori, di amore della patria e della sua storia, ma anche d’un seme, d’un sangue. La memoria aggancia qui il tema genealogico, cioè il discendere non dalla maligna Fiesole, ma dalla Roma del buono Augusto (buono=pacificatore), qual è segnato nell’incontro con Brunetto Latini tra i Sodomiti; ma perciò stesso prospetta un rinvio al teologale: al Resto biblico. Viene chiamato in causa Paolo di Tarso, che nelle sue Lettere per tre volte si dichiara della stirpe di Beniamino, la stessa a cui appartengono la Madonna e Gesù Cristo. Donde l’implicito della parentela dantesca con i beniamini, coi “ben nati”, di cui è adombramento già in quell’Io non Enea, io non Paulo sono, che non senza calcolo il poeta ha messo in prologo al viaggio per l’Oltretomba (Inf. II, 32). Né manca l’esplicitazione, il riconoscimento diretto dell’appartenenza davidica, che gli giunge per bocca del grande imperatore Giustiniano: O bene nato…(Par. V, 115). A questo punto si fa palese che Dante non 14 avrebbe potuto disconoscere la “famiglia” senza incorrere nell’assurdo d’un dimezzamento: di se stesso, del proprio sangue e dei propri meriti. E però queste mura della Firenze antica non fanno gioco a sé. La famiglia per Dante è necessaria non solo per l’uomo-marito, ma anche per l’uomo nei rapporti con l’esterno. Essa costituisce il punto di partenza da cui si sviluppa la umana civilitade, secondo che leggiamo in Conv. IV, IV, 2 ss. Un uomo, insegna il trattatista, a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così come una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza; e questa abbisogna della cittade, che a sua volta richiede avere fratellanza con le circavicine cittadi; perciò furono fatti i regni; e infine, per mantenerli in pace, la Monarchia universale. Il percorso della civiltà in terra comincia dunque dal privato della famiglia nucleare e si allarga estendendosi nel politico dei luoghi tutti – quartiere-città-regno-impero - in cui nasce e trascorre la vita l’intera umanità: che diventa perciò essa stessa “famiglia”. Siamo però al Convivio, si potrà obiettare, che è un trattato in prosa composto nei primi anni del Trecento; che ne sarà, di questa filosofia etico-politica, nella Commedia? Presto detto: toccherà a Beatrice dare il riscontro che risolve ogni dubitanza. Per bocca di lei, il ‘personale’ familiare viene congiunto con l’universale politico, e stretto al punto che il genere umano acquisisce la denominazione – e non poteva essere diversamente – di umana famiglia; la cui miseria o felicità sarà fatta dipendere unicamente da coloro che governano: “Tu, perché non ti facci meraviglia/ pensa che ‘n terra non è chi governi;/onde si svia l’umana famiglia” (Par. XXVII, 139-141). Ma la linea di traguardo della famiglia non rimane nello stadio della logica politica terrena. La riscontriamo infatti anche nell’Oltre, allorché il poeta teologo ne disegna l’orizzonte in campi che sfuggono all’occhio fisico dell’uomo, quelli del divino e dei suoi misteri. Dante, isomma, vuole che la famiglia campeggi fin dove è possibile, anche nell’Infinito e nell’eterno. Riassumiamo le tappe di questa onnipresenza: a) le anime dei Beati sono divise in famiglie: quelle dei sapienti, per esempio, costituiscono la quarta famiglia (Par. X, 49); b) le nove gerarchie degli Angeli compongono la famiglia del cielo (Purg. XV, 29); c) le tre Persone formano il congiuntissimo Consistorio de la Trinitade (Conv. IV, V, 3), e il Padre spira e figlia (Par. X, 51), vale a dire costituisce la Famiglia trinitaria. Tanto ancora andrebbe riferito sull’argomento, ove ci fosse altro spazio: ad esempio sulla famiglia e l’Inferno. Qui non possiamo che limitarci a qualche rilievo. Il primo può riguardare il verso iniziale della Cantica e del Poema, cui s’è già sopra accennato: Nel mezzo del cammin … Dante traduce, come tutti sanno, l’inizio del Cantico di Ezechia, riportato nel Libro di Isaia: In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi… (XXXVIII, 10). Questo monarca peccò di superbia; ma raggiunto dalla minaccia di una morte a breve, si ravvede: per timore dell’Inferno, ma soprattutto di rimanere senza figli, di veder troncata la sua discendenza (come spiega tra gli altri san Girolamo). La sua famiglia si sarebbe estinta. Perciò egli chiede ed ottiene da Dio di restare in vita altri 15 anni, per poter espiare il suo peccato. Così può generare Manasse, la cui nascita assicura la continuità della stirpe di Jesse fino all’avvento del Salvatore. Riferimento in bono, dunque: come poi col sintagma filosofica famiglia di Inf. IV, 132, dove il sostantivo suona anche di biasimo per una delle invidie più perfide, quella ‘culturale’. BISHOP pub Piazza Regina Margherita LANCUSI (SA) - Tel. 347.7122731 15 Non meno significativo appare, d’altro canto, l’inserto della famiglia in una sede pure demarcativa, quella del primo incontro di Dante pellegrino coi dannati al loro imbarco per l’Inferno. Allora non senza predisposizione strutturale Dante autore – ed anche questo è sfuggito - li raffigura che bestemmiano, in una col nome di Dio, segnatamente quello di tutte le appartenenze alla galassia della famiglia, a cominciare dai parenti e dalla loro progenie: “Bestemmiavano Dio e lor parenti,/l’umana spezie e ‘l loco e ‘l tempo e ‘l seme/ di lor semenza e di lor nascimenti” (Inf. III, 103105). Per il che l’Inferno si presta ad essere definito - con la sola eccezione del primo cerchio, che, si sa, accoglie anche Virgilio come “il regno dell’antifamiglia”, dove tutti anziché in concordia e in pace (come avviene nelle ‘famiglie’ del Purgatorio e del Paradiso) stanno in guerra continua, e invece di amore si scambiano esclusivamente offese, odio ed inimicizia senza fine. PERCHÈ IL TERRITORIO NON È PIÙ IN GRADO DI ASSORBIRE LE PRECIPITAZIONI LA PRIMA EDIZIONE DEL CONCORSO DI FOTOGRAFICO di SILVIA SINISCALCHI* In una delle sale di Palazzo Calvanese di Lanzara (Castel San Giorgio), lo scorso 28 novembre si è svolta la premiazione della prima edizione del concorso nazionale di fotografia “Dott. Geol. Gennaro Barba”, intitolato alla memoria del suo ideatore e promotore (importante figura nel campo della geologia italiana, scomparso di recente), e incentrato sul tema de “La professione e il paesaggio geologico attraverso la fotografia”. L’evento, valevole anche come corso di aggiornamento professionale per i geologi, è stato animato dalle relazioni della prof. Maria Mancini (“I precursori geologi del primo Novecento e la foto”), del prof. Vincenzo Aversano (“Lettura geografica del territorio e fotografia geologica”) e del giornalista Martino Iannone-Ansa Roma (“Fotografia, geologia e giornalismo”), con la partecipazione di un folto pubblico di addetti ai lavori e semplici uditori. Promosso e organizzato dall’Ordine dei Geologi della Campania attraverso la Commissione Giovani e dal coordinatore Domenico Sessa (presidente della commissione dei giovani geologi e consigliere dell’Ordine dei Geologi della Al microfono Domenico Sessa con i Relatori Campania), con il patrocinio del Consiglio Nazionale dei Geologi e della Società Geografica Italiana, il Concorso, oltre a essere il primo di una serie di appuntamenti tematici destinati a ripetersi nei prossimi anni, ha rappresentato un momento di confronto sulla professionalità del geologo, vero “fotografo” del territorio e figura di riferimento più che mai necessaria in questi tempi di generale crollo dei paesaggi del cemento. La fotografia può essere infatti 16 considerata un efficace strumento per la conoscenza e valorizzazione dei paesaggi geologici, nonché per la loro difesa – come ha sottolineato Sessa durante il suo discorso introduttivo – difesa che i geologi salernitani hanno voluto ricordare con un’iniziativa originale: la pubblicazione di un calendario sul paesaggio geologico d’Italia, grazie alle foto dei 122 partecipanti al concorso (divisi nelle sezioni “Giovani” e “Senior”), che, oltre a quello di altri paesi, hanno ritratto il paesaggio geologico italiano con scatti scientificamente validi e di alta qualità. È stato non a caso davvero arduo il lavoro di selezione della commissione valutatrice, come ha evidenziato in collegamento telefonico da Roma Gianvito Graziano (presidente dell’Ordine Nazionale dei Geologi), membro della giuria insieme a Francesco Peduto (Presidente dell’O.R.G. Campania), Francesco Russo (Vice Presidente O.R.G. Campania), Domenico Sessa (Presidente Commissione Giovani), Claudio Cerreti (Vice Presidente della Società Geografica Italiana), Maria Mancini (già direttore dell’archivio fotografico della Società Geografica Italiana), Vincenzo Aversano (fondatore e coordinatore scientifico del Laboratorio di Cartografia e Toponomastica Storica dell’Università degli Studi di Salerno), Erik Messori (fotografo e giornalista del National Geographic), Martino Iannone (fotoreporter e giornalista dell’Ansa Roma). Graziano, nel ricordare che la fotografia, oltre a essere uno strumento di conoscenza, può essere adottata anche come efficace mezzo di denuncia e prevenzione del dissesto idrogeologico, ha proposto questo specifico tema come motivo ispiratore della prossima edizione del concorso. Gli ha fatto eco Franco Peduto che, evidenziando la profonda competenza dei geologi nell’analisi delle problematiche del paesaggio, ha sottolineato come l’abile appropriazione di queste ultime da parte di architetti e urbanisti riveli tutte le sue carenze a fronte dei numerosi casi di dissesto e frane distruttive, dimostrando le catastrofiche conseguenze della mancanza di adeguate competenze geologiche nella pianificazione urbanistica. Proprio per questo motivo è importante investire sulla preparazione dei Un momento della cerimonia più giovani e sull’esperienza dei più anziani, ha evidenziato Erik Messori in collegamento telefonico da Dublino, che ha rilevato anche l’alto potere istruttivo dell’osservazione e valutazione delle fotografie in concorso, attraverso cui la terra è ritratta da molte angolazioni diverse. Di queste differenti angolazioni, spesso relative a un medesimo oggetto analizzato da più punti di vista, sono stati interpreti non solo i geologi ma, come ricordato da Maria Mancini, anche i geografi, soprattutto tra il XIX-XX secolo, quando era molto più stretta l’affinità scientifica tra geografia e geologia. Lo testimoniano le oltre 150.000 riprese custodite dall’archivio fotografico della Società Geografica Italiana, che indicano come l’uso scientifico della ripresa fotografica sia stato adottato dai geografi sin dalla fine dell’Ottocento: della fotografia intesa come documento accompagnato da un’opportuna ed esaustiva descrizione didascalica si sono infatti resi promotori e interpreti studiosi del calibro di Olinto Marinelli, Giotto Dainelli (autore di circa 40.000 foto) e Ardito Desio, geografi e geologi allo stesso tempo; ma molte altre fonti sul tema potrebbero essere scoperte con una più approfondita ricerca negli archivi italiani. A tale visione scientifica della fotografia del paesaggio geologico si è parzialmente contrapposta quella di Martino Iannone, che ha piuttosto evidenziato la necessità per i geologi di acquisire un metodo giornalistico e 17 divulgativo per rendere più efficaci e comunicative le proprie riprese fotografiche, trasformandosi in “reporter del territorio” e imparando a trasformare uno scatto in una miniera informativa e in una denuncia più efficace e immediata di qualsiasi altro documento, spendibile quindi anche a scopo scientifico e conoscitivo. Sulle pre-condizioni necessarie per ottenere una buona foto geologica si è soffermato anche Vincenzo Aversano, che ha rilevato la sostanziale identità tra foto di argomento geografico e geologico, considerata l’odierna e pressoché totale antropizzazione dei luoghi, con la conseguenziale impossibilità di fotografare ambienti naturali tout court. La presenza di elementi antropici risulta però importante sia per evidenziare la natura dinamica del paesaggio, che non deve confondersi con la staticità di un panorama, sia per rendere più intuitiva la scala di osservazione e il grado di pericolosità di un fenomeno naturale. Nonostante le derive degli studi geografici di ispirazione marxista, privilegianti il tempo più dello spazio, le polemiche dei geografi sulla rappresentabilità o meno del paesaggio e la considerazione che una foto non può trasmettere gli elementi immateriali, naturali e antropici che lo rendono vivo (come per esempio gli odori, i suoni, i sapori, la temperatura, ma anche la rete toponimica), resta però indubbio che una foto paesaggistica contiene non solo aspetti estetico-comunicativi ma soprattutto importanti informazioni sull’organizzazione dello spazio e sul “genere di vita” di una collettività. Di qui anche le finalità di denuncia che una foto geografica e geologica di un paesaggio può avere – come dimostrano alcuni esempi relativi ai disastri del passato, puntualmente preannunciati da una serie di approfonditi reportage fotografici – soprattutto oggi che il paesaggio fonde in sé lo spazio e il tempo, la descrizione e la denuncia, diventando punto di incontro tra geografi tradizionalisti e progressisti e luogo di confronto per l’applicazione delle istanze della cosiddetta “eco-effiquity” (un neologismo coniato dallo stesso Aversano, per esprimere la necessità, nella pianificazione territoriale, di salvaguardia ecologica, efficienza economica ed equità sociale). La cerimonia di premiazione ha quindi visto la presentazione delle opere selezionate, illustrate, per conto della giuria, dal prof. Aversano, che ne ha spiegato i contenuti e i punti di forza, relativi alla creatività, all’originalità, alla qualità della fotografia, all’aderenza al tema e alla capacità di trasmettere in modo chiaro un aspetto geografico e geologico del paesaggio illustrato, in senso diacronico e sincronico. Per la categoria Senior il primo, secondo e terzo premio sono stati quindi rispettivamente attribuiti a Luigi Di Nuzzo (O.R.G. Campania), Simone Genovese (O.R.G. Sicilia) e Roberto Pellino, mentre per la categoria Giovani a Simone De Simone (O.R.G. Lazio), Viola Oggioni (O.R.G. Lombardia) e Marco Roti (O.R.G. Umbria). La premiazione dei vincitori è stata intervallata dal sentito intervento di Dario Barba, figlio di Gennaro, che ha pubblicamente elogiato il meritorio operato di Mimmo Sessa, sostenuto dall’appoggio degli amministratori locali e del dott. Francesco Longanella, sindaco di Castel San Giorgio, che ha portato ai presenti il saluto della sua amministrazione comunale. A conclusione dell’evento, Mimmo Sessa, esprimendo soddisfazione per la riuscita della serata – ulteriormente vivacizzata da un ricco buffet offerto a tutti i presenti – ha ringraziato e dato appuntamento a tutti i partecipanti alla seconda edizione del premio che si svolgerà il prossimo anno. *Università degli Studi di Salerno Pasticceria “La Dolce Vita” Bar - Pasticceria Dolci di produzione propria Via Don Minzoni, 12 - Tel. 089.878153 BARONISSI (SA) 18 Lettera di Natale COME VORREI L’ITALIA E IL MEZZOGIORNO di GIUSEPPE IULIANO A volte certi desideri uno li porta con sé per tutta la vita, senza mai manifestarli. Questo Natale per liberarne qualcuno, faccio uno sproposito e scrivo una lettera. Destinazione non il cielo ma sotto il cielo, all’attenzione degli uomini. Perché da Italiani e meridionali ci facciamo un regalo di nessuna meraviglia e pretesa, ma semplicemente di libertà e buonsenso. È da troppo tempo che sacrifichiamo fiato e speranza. Anzi le cose sono peggiorate. Siamo sempre più affannati e disorientati. Dopo anni di cecità e sordità – per molti di noi anche di mutismo – è subentrata la fase dell’agnosticismo, della paralisi e della distanza. Il nostro Paese rassomiglia sempre di più a un’Italietta capricciosa, confusa e poco presente. E quindi poco credibile. Un’Italietta ipocrita che mentre chiama tutti a sacrifici e responsabilità unitarie, di fatto continua a creare divisioni e separazioni. Con disagi e malesseri sempre più diffusi e cronici. Al nostro Paese soffocato da vecchie e nuove emergenze serve una svolta di sistema e di comportamenti. Le buone intenzioni sono ormai insignificanti “pannicelli caldi” mentre la straordinarietà della malattia merita una non più rinviabile terapia salvavita. La politica che dovrebbe dare risposte ai problemi continua ad essere l’affermazione e il consolidamento di se stessa e di quanti vi gravitano intorno. Questo gioco perfido continua senza segni di cedimento e favorisce sempre di più l’affermarsi dell’antipolitica. Le parole sono nude come l’onestà e, quest’ultima come ci insegna Giovenale, “è lodata ma muore di freddo”. E i segni di sofferenza in una società povera di verità ed onestà mostrano oggi tutti i loro limiti, tanto da creare dopo scollamento e disaffezione il rifiuto dei cittadini finanche all’esercizio dei diritti normali. C’erano stati segnali, lanciati come un SOS, che non sono stati debitamente raccolti. La necessità di trovare sbocchi a un’emergenza ormai esponenziale invece di facilitare scelte, patti ed intese, irrigidisce ancor più verso una “durezza e una purezza” che non portano da nessuna parte. La politica della contrapposizione e del muro contromuro in una società liquida, si liquefa pur essa. Troppa la distanza fra il Paese reale e quello ideale. Sfilacciamenti e corrosioni si contano ovunque e i cittadini ormai semplici spettatori, disorientati e spiazzati, continuano a mostrare segni di nervosismo e di sprezzante disamore. Ecco spiegate le ragioni di come montano rifiuto e rabbia. Quest’ultima, finora governata dal giudizio e dalla prudenza, ha tenuto lontano dalla ribellione. Ma le odierne disubbidienze civili, dalle manifestazioni di piazza agli scioperi al rifiuto dell’esercizio di voto, fanno non solo riflettere ma cominciano anche a preoccupare. Gli ultimi dati elettorali, riscontrabili dalle Regionali di questo novembre, sono una risposta significativa del malessere che serpeggia e che rischia di consolidarsi. L’affluenza alle urne ha registrato meno del 50% dell’elettorato (37,6% in Emilia; 44,1% in Calabria). Il vero esercizio della democrazia, contrariamente a certi trionfalismi, non è dato dai consensi che un partito consegue ma dal coinvolgimento dei cittadini alla 19 cosa comune. Questo significa aderire ad un processo dialettico i cui risultati, di qualsiasi significato e valenza, si spalmano sull’intera comunità. Se l’Italia preoccupa per la poca luce, il Sud indigna (e si indigna) per il buio pesto. Se il Nord rallenta, il Sud è fermo. Il Sud continua ad accumulare negatività. La denuncia delle sue minorità non è lamentela né disfattismo. Non è polemica stupida né sterile; è una verità storica - ormai secolare - che si trascina dietro vittimismo, indifferenza e rassegnazione. Contro di essi siamo chiamati responsabilmente a sorgere, insorgere, risorgere. Veniamo a noi e all’esame del buio che ci affligge e ci mortifica. Per un’area da sempre in debito di lavoro, in sei anni - si legge nel Rapporto Svimez - sono andati perduti 583 mila posti di lavoro (985 mila nell’Italia intera). Con essi nel Sud c’è stato un crollo di consumi e quindi anche uno scadimento della qualità della vita. Le previsioni per il 2015 confortano solo il Centro Nord con una modesta variazione in positivo. Al Sud meno segue meno. E qualcuno, illuminato ambasciatore del nostro territorio, dice che è lamentismo! “Il Mezzogiorno – scrive Nando Santonastaso (Il Mattino, 20.10.14) – sarà ancora in recessione: e faranno otto gli anni consecutivi di crescita negativa, un primato europeo!” Anche per gli investimenti le previsioni sono nere. La stima è che tra un anno il Nord avrà spinte positive e il Sud, invece, un ulteriore calo. Il braccio della bilancia continuerà a pendere laddove ci sono maggiori pesi. Come se non bastasse il Sud continua a perdere popolazione, vuoi per le nuove emigrazioni, vuoi per la contrazione delle nascite. Il 2012 e il 2013 sono stati anni zero. Il numero dei nati è stato inferiore a quello dei morti. Il 2013 ha registrato il valore più basso dall’Unità d’Italia (appena 177mila nati). Ciò che preoccupa maggiormente è la condizione dei giovani e la loro quasi assoluta marginalità, che, come evidenzia il Rapporto Svimez, non studiano né scelgono altre strade di formazione, privi di qualsiasi intraprendenza. A loro non resta altro che – come i nonni e i bisavi - la via dell’espatrio. Ecco spiegate anche le ragioni che il Sud non attrae gli immigrati. Quel poco che c’è tiene in condizione di precarietà gli stessi residenti. E l’apprensione è confermata dalla povertà delle famiglie che continua a crescere. I dati in previsione, vero colpo di grazia, contano per il Sud una contrazione che nei prossimi 50 anni porterà via altri 4,2milioni di persone. Nella politica di sviluppo il discorso è lo stesso: il Sud continua ad arretrare. Mancano investimenti strategici e una progettazione a lungo termine. Risultato è che gli investimenti privati sono scarsi (solo il 12,4%) e quelli pubblici sono stati spesi per la maggior parte al Nord. Al Sud, nel frattempo, si continua a discutere di idee ed infrastrutture. Questa lenta corrosiva demolizione sta disgregando inesorabilmente famiglie e società, proprio quel blocco monolitico che Come natura crea, “MATTEO” gela! Specialità Frutta ripiena Via Del Centenario, 126 - Tel. 089.957396 LANCUSI (SA) - ITALY 20 in anni di persistente miseria aveva portato sotto i riflettori della storia la schermatura inossidabile del “familismo amorale”, su cui Banfield e la sociologia yanhee avevano costruito la specificità e la minorità del Mezzogiorno. Così stanno le cose, tra promesse, attese, errori e ritardi. Il Sud appare abbandonato a se stesso. Sembra un’altra frase ad effetto, quella pronunciata da Graziano Delrio, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alla Politica di Coesione Territoriale: ”Faremo del Mezzogiorno ciò che è stata la Germania Ovest per la ricostruzione dell’ex Ddr dopo la caduta del Muro”. E già qualcuno come Pino Aprile ha chiarito, in controtendenza, l’arcano sul processo di unificazione delle Germanie, ammonendo sul divario che si è allargato a forbice a sfavore della Germania Est “letteralmente saccheggiata e colonizzata (sono termini usati dagli analisti tedeschi) riducendo la popolazione in uno stato di minorità, sottraendo loro o chiudendo le aziende capaci di far concorrenza a quelle dell’Ovest”. (Terroni ‘ndernascional, Piemme, novembre 2014) Insomma il Sud non può permettersi neppure di desiderare la normalità. È questa la sua (e la nostra) tensione morale ed umana. Un’aspettativa per un sogno antico di libertà e civiltà. “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”, ammonisce Bertolt Brecht. Noi abbiamo rinunciato alla forza del mito. Ci sostiene oggi, orgogliosamente, quella della memoria. Un impeto di orgoglio contro la vergogna, il silenzio, le minacce, le paure, l’accettazione passiva. Il Sud ha bisogno di invertire la marcia: deve difendere le sue ricchezze ambientali dalla cementificazione, dalle trivelle, dalla “monnezza”, e difendersi dalla malavita organizzata. Per cominciare bastano un po’ di coraggio e di orgoglio. Il resto verrà da solo. Ed allora alziamo la testa, “pentiti” per davvero di una storia che ci ha visti finire comparse compiacenti o paurose. Il Sud non è la somma di luoghi comuni che ci viene frequentemente proposta: una sequela di clan e ammazzamenti, lazzaretti per assistiti, terreno di coltura per sfaccendati ed avventurieri, un’immensa discarica a cielo aperto. Ancora ci flagella e crocifigge la definizione, cucitaci addosso all’epoca del Grand Tour e ripresa da Benedetto Croce: Napoli (e il Sud) è “un paradiso abitato da diavoli”. La vita non può continuare ad essere qualcosa di umanamente terribile. Avere fame di libertà non é né reato né peccato. Siamo stanchi di accumulare prove, delusioni ed amarezze; respirare scorie e mangiare veleni. Quest’ansia e questa fame antica di “selvaggio dolore di essere uomini” (P.P. Pasolini, Ballata delle madri) ci aiuteranno comunque a superare ogni indecisione e a costruire una cultura della resistenza. È il prezzo necessario per uscire dalla società delle colpe ed entrare in quella della coscienza. Bastano i piedi nudi per entrare nella storia e restarci. Le calze servono per appendere questa lettera al camino e aspettare, dopo anni di cenere e carbone, che si materializzi la luce della cometa nell’auspicio del Natale: “Beati gli uomini di buona volontà”. Ma forse una fiduciosa risposta cristiana e di fede non basta. Serve anche l’altra, quella della “rivoluzione meridionale” invocata da Guido Dorso contro fiancheggiatori e profittatori che con le loro imbottiture coreografiche, autentici “cavalli di Troia”, da sempre occupano con prepotenza e sfrontatezza la scena e la cosa pubblica. In questa sfida ci caratterizziamo gramscianamente per il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. Già! È sempre la volontà, la soluzione e la salvezza per costruire e meritarci i tempi nuovi. 21 PERCHE’ IL TERRITORIO NON E’ PIU’ IN GRADO DI ASSORBIRE LE PRECIPITAZIONI? di DOMENICO SESSA “Il Paese evidentemente sta male perché se abbiamo paura di un temporale vuol dire che il territorio non è più in grado di assorbire le precipitazioni anche se si tratta di una cosiddetta “bomba d’acqua”. Questo è emblematico di un sistema che sta collassando. Queste le dichiarazioni all’inizio del 2014 del Presidente del Consiglio Nazionale dei Geologi Gian Vito Graziano, dopo il bilancio dei temporali che avevano martoriato il Nord Italia. La cosa preoccupante è che oggi, ancora non si è del tutto percepito, sotto il profilo culturale, che dobbiamo allontanare i nostri interessi, ovvero le nostre case, le nostre fabbriche, dalle zone che hanno una normale pericolosità e che poi noi stessi, urbanizzando, facciamo diventare rischio elevato. In particolare, dobbiamo allontanarci fisicamente dalle aree di esondazione di fiumi, canali o torrenti che nella loro naturale evoluzione periodicamente vanno oltre gli argini. Bisogna delocalizzare le strutture che insistono in queste aree e non lottizzare più a ridosso. Ma questo cambio culturale è ancora lontano dai pensieri dell’uomo. In Italia la lottizzazione selvaggia ha permesso di costruire addirittura sui corsi d’acqua, e oggi, un temporale può mettere in serio rischio “innanzitutto tutte le aree metropolitane” perché sono ad alta densità abitativa. Non solo per le frane, ma soprattutto per le esondazioni causate da un’urbanizzazione scellerata, magari soltanto perché nel corso degli anni molti a Gragnano (Na) torrenti sono stati cementificati e si continua a farlo. Basta quindi un po’ di pioggia e si mettono a repentaglio le vite umane. Scarsa prevenzione, risorse latitanti, eccessivo consumo del suolo e abusivismo edilizio. E le violente piogge che peggiorano la situazione, e l’Italia continua a franare. Il moltiplicarsi di eventi estremi, sfasamenti stagionali e precipitazioni brevi hanno messo a dura prova i suoli del Paese, che non riescono più ad assorbire: “Senza le opere infrastrutturali per la raccolta e la regimazione delle acque, non si risolve niente”!!! Nonostante le ripetute tragedie, anche negli ultimi dieci anni sono state edificate nuove strutture in zone esposte a pericolo di frane e alluvioni. In Italia si registra un eccessivo consumo di suolo. Ma i rischi aumentano anche a causa dell’urbanizzazione diffusa e caotica, dell’abusivismo edilizio e dell’alterazione delle dinamiche naturali dei fiumi. Ma non solo. Anche le risorse stanziate – sempre minori – dopo ogni tragedia finiscono spesso s o l t a n t o p e r t a m p o n a re i d a n n i , ripristinando lo stato esistente, “quando sarebbe invece necessario pianificare interventi concreti di ripensamento di quei territori in termini di sicurezza e gestione corretta del rischio. Va ricordato poi come il territorio italiano presenti già criticità evidenti, anche perché predisposto per sua natura – essendo costituito per l’80% da colline e montagne di recente formazione e costituite da rocce argillose poco compatte – a fenomeni di dissesto idrogeologico. Così sotto l’azione di piogge violente le rocce rischiano di crollare, i suoli argillosi non sono più in grado di assorbire altra acqua, mentre le acque piovane scendono a valle ingrossando fiumi e torrenti, fino a farli straripare. Due comuni su tre (circa il 66%), sono considerati a rischio idrogeologico. A trionfare negli ultimi anni è stato poi anche il business dell’emergenza. Eppure, è stato più volte spiegato dai geologi come un euro 22 speso in prevenzione ne faccia risparmiare almeno 4 per riparare i danni. Intanto gli stessi Geologi sono poco considerati nelle pubbliche amministrazioni!! Soltanto 55 amministrazioni hanno invece intrapreso azioni di delocalizzazione di abitazioni dalle aree esposte a maggiore pericolo e in appena 27 comuni si è provveduto a delocalizzare insediamenti industriali. In ritardo anche le attività rivolte a informare i cittadini sui rischi: soltanto 472 i Comuni che hanno dichiarato di portare avanti queste iniziative, necessarie come forma di prevenzione e per permettere alla popolazione di non trovarsi impreparata di fronte a situazioni di emergenza.Se il ministero dell’Ambiente è stato più volte oggetto dei tagli e della scure delle diverse leggi di stabilità, anche quando i soldi sono stati racimolati per le alluvioni e per rispondere all’emergenza poco è stato speso. “Dei primi soldi stanziati dopo la frana di Sarno, a quindici anni di distanza risulta completata meno della metà dei progetti. Intanto con la gestione scorretta del nostro territorio: dal consumo di suolo, agli abusivismi edilizi, passando per la diminuzione dei terreni agricoli, l’Italia continua ad essere impreparata e al primo temporale il territorio non è in grado più di assorbire le precipitazioni! PIER FRANCESCO MASTROBERTI allora, della cattedra di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, che ne intuisce le capacità e la grande propensione per quest’arte. Questo incontro determina, infatti, una svolta fondamentale nel suo percorso artistico e culturale, portandolo, per gradi, ad un espressivismo dai forti contenuti, sostanziato dalla complessità ed universalità delle tematiche trattate, che gli hanno procurato, fin dagli inizi di questa sua avventura, consensi da ogni parte ed apprezzamenti di critici autorevoli. PERCORSO ARTISTICO Pier Francesco Mastroberti Pier Francesco Mastroberti manifesta, fin da piccolo, una notevole propensione artistica, in particolare per il disegno. Paesaggi del posto vengono impressi dalla sua matita, con un disegnare semplice, elegante, perfino discreto. Laureatosi in medicina e chirurgia, per un periodo di circa quattro anni Mastroberti è medico condotto a Sant’Angelo le Fratte, poi dal 1970 esercita la professione a Salerno. Qui ha sempre vissuto, operando parallelamente nella dimensione della creatività: pittore, grafico, disegnatore, caricaturista, scultore, acquisendo uno spazio sempre più ampio e solido nel mondo artistico. La scultura è l’espressione che, per sua esplicita ammissione, privilegia. Ad essa era approdato anche per le sollecitazioni di un artista prestigioso e sensibile come il maestro Giovanni De Vincenzo, titolare, Mastroberti è uno dei medici fondatori dell’A.M.A.r.S., Associazione dei Medici Artisti Salernitani. Negli anni ‘70/’80 ha realizzato vignette e caricature per il Bollettino Ufficiale dell’Ordine dei Medici e per alcune riviste mediche. Negli anni successivi ha partecipato a mostre e rassegne d’arte in Italia e in Francia. Nel 2012 ha creato il Pulcinella Mentore per il World for Child Welfare per l’associazione Mentoring Italia/USA. Ha realizzato numerosi ritratti commemorativi a: “Clelia Sessa”, Lancusi; “Nicola De Cesare”, Agenzia Marittima Nicola De Cesare di Salerno; “Giovanni Siniscalchi”, Centro Commerciale Siniscalchi di Salerno; “Andrea Fortunato” (Policlinico di Perugia); “Pasquale Atenolfi”, Galleria dei Presidenti di Palazzo S. Agostino a Salerno. Alcune sue sculture sono presenti in musei d’arte contemporanea. 23 TESTIS TEMPORUM di ANIELLO GUARINIELLO Recensione di MICHELE SESSA Quando gli anni sono tanti anche le giornate autunnali, simboleggianti il fuggire del tempo, si apprezzano di più. Nell’autunno inoltrato non mancano i dolci giorni in cui, quando il cielo si schiarisce e poche restano le nuvole, nel cielo si formano torme di cavalli o si costruiscono insolite figure che in un breve lasso di tempo si trasformano. Nel guardarle, estatici, i ricordi ci assalgono, illuminati dal pallido sole o, a sera, dalla pallida luna. Si rimembra quanto, più che adolescenti o già maturi, si è raccolto nella vita e, pur se l’anima è stanca, ci si bea nel giovarsi dei frutti del passato canto di gioie e d’amore… Sarà capitato forse così ad Aniello (Nello) Guariniello che, in un giorno autunnale, avrà dato inizio - corpo e vita- a TESTIS TEMPORUM (edito da Litosprint - senza prezzo), diventato di colpo un vero inno all’amore! Il cuore dell’Autore, rivivendo, ha ritrovato “ i violenti marosi/ (che)…si frangon furiosi/” e che, anche nell’esercizio glorioso della sua professione di arguto penalista, si vedeva come elefante a ballare sul filo di ragnatela dinanzi a…” due occhi imploranti/ e due mani avvinte da ceppi/”. Il valore però poi della grande, appassionata difesa, riusciva a sciogliere quei ceppi e l’emozione che ne seguiva diveniva assai violenta nel vedere finalmente gli occhi del detenuto che si liberavano e sorridevano! Nella rima o nell’informale prosastico, la lirica del Guariniello si sviluppa come corde di arpa pizzicate sul corpo dell’amata “ primavera di sole/ per sanarsi dalle ferite dell’amore/”. Il cuore del poeta trabocca di versi che affondano in ricordi lontani delle dolci memorie amorose, in lingua spagnola, in latino, in francese, nella madre lingua, per celebrare le tante carezze d’amore. Melania con la sua “ buffa cuffietta rosa” e Laura, la neve di febbraio, la ninfa di Tindari con le dotte citazioni e i ricordi ineffabili di Parigi, Harlem, Lugano, NewYork, Lione, il p r i m o a m o re , i c a r i s s i m i g e n i t o r i … La poesia è verità; chi la contempla ne è attratto perché conosce così il segreto della vittoria sulla vita. Lo spirito fervente crea con gioia e nel momento sublime della creazione, la bellezza, in un serto di stelle, si libra nell’aria, accompagnata da musiche divine. Il candore di un’anima soave, quale quella di Aniello Guariniello, con la poesia, diventa scala alla divinità| Ogni ricordo un gesto d’amore, un sorriso alla vita, memorie che inebriano l’anima e tanto fanno rivivere. Profondo e semplice, serio e riflessivo, il poeta si esprime con la sua parola che resta acqua limpida come alla sorgente, con i sapori della roccia da cui sgorga. Un cuore affascinato dall’armonia della musica, dell’amore; dalle memorie dolci ispirate da una donna, che, continuamente, protegge e difende. Tutto quel che freme, trema, piange, spera, anela, delira nell’immensità della vita, il poeta con flash ne esprime l’infinito dilatato nell’ansia del respiro, del sospiro, dei palpiti, nella melodia incantata, nell’ululato del vento selvaggio, sulle onde dell’intrepido passato. Animato da profonda spiritualità il poeta si affida al Signore Iddio, ne implora il perdono che è più forte di ogni peccato e la misericordia che non ha limiti. “Non penso al triste autunno/ che spoglia gli alberi/ ed i miei anni…/”. E’ rassegnato cosciente il poeta e gode i tramonti prodigiosi degli ultimi inni di gioia! La sua sensibiltà eguaglia il suo intelletto! In fondo, però, siamo tutti tristi e per questo anche nel crepuscolo è tanto bello credere nella luce. Il tempo veglia: tanto porta e tutto comporta, per cui si dà il caso che si trovi anche il tempo per dare aria, vita e luce ad una “ musicalità” che proviene da versi per troppo tempo rinchiusi in un cassetto ed ora, pronti e vivi, come scriccioli da combattimento vengono fuori baldanzosi e si fanno largo per farsi apprezzare. Con voce chiara, melodiosa, conturbante, senza orgoglio, senza superbia, nella umiltà dei sentimenti, questi versi ricordano , risplendenti, le sabbie dorate proclamate con la paressia della schietta libertà di parola e con la più pura franchezza. E’ sempre bello credere nella luce, finanche nelle ore buie della notte. La poesia è per la gioia e per lo sfogo dello spirito. La si porta nello sguardo, nel sorriso, nella voce che vibra d’emozione. Aniello Guariniello è uomo che fa onore alla propria vita perché cosciente che su questa terra la vita fluisce come il fiume che muta, e muta e muta. Il tempo allora è sacro ed ogni momento deve essere celebrato per cui anche questo momento il poeta ha voluto celebrarlo da pari suo. 24 ESEMPIO DI COMPARAZIONE STILISTICA DI TRE TESTI POETICI di ANTONIETTA SORRENTINO “La pioggia nel pineto” di G. D’Annunzio, “Temporale” di G. Pascoli, “O pioggia feroce”di C. Rebora sono tre poesie con tre motivi esistenziali che rappresentano tre poeti con problematiche differenti. Dal quadretto impressionistico di Pascoli al naturalismo panico di D’Annunzio alla purificazione deista di Rebora. Ne “La pioggia nel pineto” lo straordinario virtuosismo verbale evoca quello che rappresenta il cardine della poesia dannunziana, cioè uno stile di vita inimitabile diretto alla fusione panica con la natura. Il messaggio della vita oltremondana è colto attraverso le “parole nuove”della pioggia in un’atmosfera ascensionale (climax ascendente) che dalla pioggia la quale bagna “la solitaria verdura”(vv.34-35) arriva all’apoteosi finale della trasfigurazione panica della coppia eletta di innamorati”fatta virente”(v.100), avvinta dal fenomeno meteorologico alle trame “del verde vigor rude”(v. 112). La resa della trasfigurazione panica avviene attraverso una fitta trama musicale fatta di schemi ritmici liberi che vanno dalla rima baciata all’uso di rime e consonanze all’interno dello stesso verso. Il virtuosismo musicale si regge anche su una sapiente modulazione fonica delle vocali per rendere il suono delle gocce di pioggia che si posano sulla vegetazione: la a per rendere i toni chiari , la o per creare il suono cupo della pioggia sui rami e sulle foglie. E poi ancora tipico dello stile dannunziano vi è una profusione di figure retoriche: dall’anafora, basata sulla ripetizione dei”piove” alla clausola a fine verso di “si spegne”, allitterazioni(“verde vigor”, “ciel cinerino”vv. 45 e 112), paronomasie, la variegata ripetizione di altre clausole ancora l’anafora del nome della donna – Ermionepreso a prestito da una canzone popolare e ripetuto al termine delle strofe. Lo sfondo naturalistico caratterizza anche la lirica “Temporale” di Giovani Pascoli. Concepita nell’agosto 1892, fu pubblicata nella 3^edizione di “Myricae”. Subito in apertura una suggestiva onomatopea (“bubbolìo” v.1) che tende a riprodurre il brontolìo lontano del tuono. A seguire connotazioni cromatiche: “l’orizzonte”che “rosseggia”, “infuocato a mare”(v.3), “nero di pece a monte”(v.4). Pochi versi ellitticiad eccezione del secondo- che veicolano, un’atmosfera straniata carica di aspettative per il sopraggiungere di chissà quale minaccia . Niente o poco a che fare con la magniloquenza verbale di D’Annunzio: certo entrambi descrivono un temporale ma le soluzioni stilistiche, formali e filosofiche li allontanano fino a farli diventare poli opposti dello stesso ellisse cioè il Decadentismo. Il primo fa della pioggia uno strumento il cui linguaggio nuovo ammette l’autore al rito iniziatico della trasfigurazione panica con la natura. Il secondo crea un’atmosfera di meravigliato stupore infantile che vede minacciata la pace del proprio nido. Nel resto del cielo si accampano nubi più chiare che sembrano stracci per la loro forma irregolare. Inizia qui dal verso 5 un criptato procedimento analogico avente lo scopo di associare il casolare bianco che si staglia sul nero delle nubi ad un’ala di gabbiano. L’analogia accosta a sorpresa elementi della realtà che non hanno niente in comune ed è l’uso della paratassi nominale la quale, annullando i passaggi logici, avvicina immediatamente gli elementi stessi discoprendo rapporti segreti tra le cose, quella corrispondenza segreta, bisbigliata appena che rimanda a Baudelaire. E’tuttavia il ruolo del poeta e dell’intellettuale che, dai pochi versi di questa poesia, esce rigenerato e carico di un nuovo compito. Compito che si riallaccia alla grande tradizione francese del poeta visionario (che Pascoli converte nel fanciullo meravigliato e stupito) in grado di vedere e portare alla luce, ai nostri occhi la fitta trama di corrispondenze tra le cose. La soluzione è diametralmente opposta rispetto a D’ Annunzio il quale pure si interrogava 25 sul ruolo dell’intellettuale soprattutto in rapporto alla diffusione della tecnologia e dei nuovi mezzi espressivi come ad esempio il cinema. In un primo momento D’Annunzio reagisce con un atteggiamento di chiusura cercando di salvaguardare la poesia conservandola in uno spazio incontaminato nel quale sono ammessi solo gli eletti come dimostra nella lirica poc’anzi commentata. Gli eletti saranno i protagonisti delle gesta d’oltremare agli inizi del ‘900 quasi a continuazione delle gesta dei gloriosi antenati latini. La diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione e produzione è inarrestabile e sarà sostenuta da quella variegata fetta di intellettuali genericamente chiamati futuristi. A questo punto D’Annunzio fa si che l’esteta disgustato dalla modernità protegga quel mondo di rarefatta bellezza proprio servendosi della tecnologia tanto vituperata. E’il passaggio da Andrea Sperelli a Claudio Cantelmo modello di superuomo che bene si riallaccia sia all’Ubermensch tedesco sia alla osannata guerra “sola igiene del mondo” propagandata più tardi dai circoli futuristi. Pascoli propone una soluzione diversa abbracciando l’ ideologia socialista di Andrea Costa con la conseguente emancipazione delle masse proletarie che Marx aveva catapultato nella storia. Anche quando inneggia alle imprese coloniali lo fa vedendo in esse il riscatto degli emigranti italiani disprezzati e sfruttati all’estero che rientrano in possesso di una terra loro appartenuta durante l’impero romano. Mentre in D’Annunzio la pioggia è atto, in Pascoli è ancora potenza , preannunciata come cupa minaccia che può irrompere da un momento all’altro e se D’Annunzio , attraverso la pioggia, arriva a diventare egli stesso natura, in Pascoli tutto concorre a dare l’essenza rivelata preesistente della natura medesima. E’il linguaggio stesso di D’Annunzio a sottolineare il percorso ascensionale che porta all’apoteosi mistica nella natura con la ripetizione a distanza di certe clausole con variazioni minime:”secondo le fronde /più rade, men rade”(vv.38-39), “secondo la fronda/più folta, men folta” (vv. 86-87 ) fino all’avvincente osmosi finale pari solo a un rito orgiastico. Niente di tutto ciò in Pascoli che recide l’ascensione mistica e, in 7 versi, rende in maniera immediata non la sintesi con la natura ma la connessione tra elementi lontani della natura stessa che si rivelano all’uomo il quale a sua volta li osserva stranito senza la possibilità di parteciparvi attivamente. Per D’Annunzio” l’argentea pioggia monda”(vv. 83-84 ) per Clemente Rebora diventa “feroce” come nella omonima poesia”O pioggia feroce” tratta dalla raccolta “Frammenti lirici” pubblicata nel 1913 sulla “Voce”. Fil rouge di tutta la raccolta è l’impegno sociale e la lirica attribuisce alla pioggia un valore sociale di strumento purificatore dalle “lordure e dalle menzogne”(v. 2). Ancora la lezione di D’Annunzio emerge ma veicolata in altra direzione. Mi riferisco a tutta la simbologia dell’acqua ne “La città morta” opera nella quale l’acqua dà la vita ma anche la morte. Ancora è un motivo musicale che trova esaltazione nell’assoluto silenzio”…Dianzi, quando sono scesa alla fonte con Bianca Maria - proferisce Anna ne “La città morta”, non si sentiva …nulla! Era la calma perfetta…Soltanto la fonte piangeva e rideva”. L’acqua della fonte ha parole di morte e di vita e, ancora sulla voce dell’acqua, Anna spiega alla nutrice “L’acqua diceva un’infinità di cose che entravano in me come una trasmissione…M’ha persuasa a fare quel che è necessario…la buona acqua pura che viene dal profondo…dal profondo…”. E’un invito al suicidio come si deduce dall’attrazione verso il profondo. L’acqua è il simbolo delle lacrime e della morte come spiega poi Anna che ne esalta la funzione di sorgente vitale sopravvissuta all’incendio che ha distrutto ogni cosa. Dunque un duplice messaggio portato dalle “nuove parole”dell’acqua in “La città morta” e ne “La pioggia nel pineto”. Il significato purificatore dell’acqua prevale nella lirica di Rebora il quale le attribuisce anche una funzione sociale di “implacabile scossone” dato “alle lordure …delle anime impure”(vv. 2-3). La pioggia ha qui una direzione discendente che dall’alto scroscia e asporta i detriti degli uomini facendoli confluire in sordidi rigagnoli putrescenti. Sembra quasi di vederlo questo fiume in piena che rompe gli argini e penetra vorticosamente nelle 26 cose pulendone anche gli angoli più remoti per poi deviare le scorie giù in fondo alla valle. E’ forte il suono delle striglie roboanti rese con dantesca memoria attraverso rime”aspre e chiocce”: “menzogne/rogne” ( vv. 3 e 6), “spazza/bazza”( vv.33-34 ). Si consideri poi la presenza del suono cupo reso dalla u nella prima parte della poesia (vv. 1-24 ) sostituito nei versi 25-32 dalle assonanze e/o oppure o/e con le parole chiave in “ero” e “orte” come morte che al v. 31 esemplifica l’azione della pioggia la quale opera come la morte richiamando una delle due interpretazioni attribuite alla pioggia da D’Annunzio. Quest’ultimo se ne inebria insieme alla compagna Ermione per raggiungere l’apoteosi panica della trasfigurazione con doppia valenza cinetica:verso l’alto come superuomo/Ubermensch che si eleva al di sopra dell’omonima moltitudine democratica; verso l’altro ossia come passaggio frontale da uno stato all’altro da uomo ad elemento naturale. Mi sovviene in questo momento la trasumanazione che Bernini ha dato di Apollo e Dafne con le dita della fanciulla già diventate teneri rami e le gambe già bloccate nel terreno dai piedi ormai radici. Ecco una metamorfosi simile avrà immaginato D’Annunzio con questi due personaggi che camminando insieme nella pioggia “passano nella natura” assumendone i frutti: la pesca al posto del cuore, gli occhi tramutati in risorgive, le mandorle in luogo dei denti ( vv. 106-109 ). In Rebora si ha un movimento discendente: dall’alto la pioggia lava e trascina le impurità fino a raggiungere il fondo con la morte per poi risalire verso l’alto attraverso la speranza della resurrezione in Dio. Apoteosi panica in D’Annunzio, apoteosi cristiana in Rebora, apoteosi e straniamento naturalistici in Pascoli. UMBERTO GIORDANO: PSICOLOGIA DEI PERSONAGGI COME ANDREA CHENIER di RENATO AGOSTO Umberto Giordano, nato a Foggia il 27/8/1867 e morto a Milano il 12 novembre del 1948, fu allievo di P. Serrao presso il Conservatorio di Napoli per la composizione e di E. Bossi per l’organo, nonché di Giuseppe Martucci per il pianoforte e A. Ferri per il violino. Dopo alcuni tentativi operistici (Malavita e Regina Diaz) che peraltro non riscossero successo, raggiunse una enorme popolarità con Andrea Chenier (1896), rinnovata poi nel 1898 con Fedora. Soprattutto in queste opere il Giordano dà la misura del suo eccezionale senso teatrale, trasformando in accesa melodia una situazione, uno stato d’animo, della sua abilità di strumentatore. Emergono in Andrea Chenier gli indiscussi valori tipici della scuola verista, cui non vanno disgiunti gli elementi più deteriori avvertibili soprattutto nella assoluta mancanza di autocontrollo e nella incapacità di approfondimento. Le opere successive, pure a tratti, notevoli per lo sforzo di aggiornarsi e per la cura meticolosa di scavare al di là delle apparenze, segnano un costante distacco dal pubblico e una inarrestabile decadenza: (Siberia, 1903), (Marcella, 1907), (Mese Mariano, 1910), (Madame San-Gène, 1915), (La cena delle beffe, 1924) e per finire (Re, 1929). L’Andrea Chenier, traendo argomento dalla Rivoluzione francese, reca in sé le caratteristiche dell’ingegno musicalmente duttile e dell’intuito teatralmente vivace del suo autore. In questa opera Giordano centra il meglio del suo forte temperamento drammatico, abile nella successione dei contrasti scenici e passionali e nell’impeto vocale delle romanze che sgorgano fluide dall’estro del musicista pugliese. 27 La genuina vocazione teatrale del Giordano, infatti, riesce nell’Andrea Chenier, pur trattandosi di argomento storico, a mantenere le vicende nello sfondo, senza minimamente condizionare la validità musicalmente perenne dei suoi personaggi. L’elemento drammatico congiunto nell’enfasi lirica ha tutto il suo riscatto nell’aria di Maddalena che raggiunge le vette del più puro lirismo specie nell’ultima parte che è la sublimazione dell’amore assurto a valore universale. Passionalità, non disgiunta da fremiti di ribellione sono nel “ credo” rivoluzionario di Gerard, l’ex servitore che la rivoluzione ha riscattato ed asservito al contempo. I personaggi di quest’opera costituiscono tipi teatrali di scultoreo rilievo, in particolare il protagonista, il cui violento patriottismo, solo raramente si concede a squarci lirici, bensì sia costantemente partecipe della più cupa drammaticità. E’ sul protagonista che l’autore ha concentrato i tesori della sua fantasia creatrice, fissando in forme suggestivamente dense di calore, squarci lirici che sono altrettanti sprazzi di illuminazione che ne rischiarano la tormentosa psicologia. L’intera partitura musicale che riguarda il protagonista, tranne qualche scatto di consapevole ribellione, è un canto forte e vaporoso. L’Andrea Chenier è un dramma, dunque, altamente suggestivo che sprigiona fascino anche nella sventura, proprio perché selvaggio e violento anche nell’ardore patriottico. La fantasia creatrice di Umberto Giordano, giammai vaga tra armonie fine a se stesse, attinge virile energia a quell’ardente scintilla del patriottismo di tutti i tempi che è capace di ridestare il nazionale ardimento, infiammando gli spiriti di chi la sua musica ha la ventura di ascoltare, con il fuoco sacro di un’alta spiritualità artistica. Patriottismo ma anche tanta solitudine vi domina nell’Andrea Chenier, peraltro espressa con vibrata intensità di accenti, in cui meglio si condensa e si realizza il processo evolutivo dell’arte del musicista. Nell’Andrea Chenier i personaggi sono tutti parimenti riusciti e di eguale spicco, come figure di un altorilievo che si sviluppi in costante prospettiva frontale. CARO GINO… “…ora sei solo nella porta accanto e con altri occhi contempli il Mistero! Con gratitudine” È la dedica dei frati e degli amici di San Antonio con cui Massimo Del Regno, per il Centro di Documentazione per la Storia di Mercato San Severino, ha voluto aprire il volume che, ricco di testimonianze e di affetto, ha curato per la Memoria di Luigi Noia (1937-2011). Uno studioso, alacre e profondo, della Storia locale e non solo, Gino Noia, tanto apprezzato per le sue “qualità umane e culturali che, forse, in vita, lui stesso non aveva saputo valorizzare” scrive nella commossa presentazione Massimo Del Regno. Il volume contiene le numerose testimonianze e gli scritti, con pensieri e citazioni che certamente assicureranno alle generazioni future la sua memoria. Inoltre, nella ricca appendice ricerche edite ed inedite, interventi e scritti di Luigi Noia. (M. S.) SPIRITO FRATERNO Si ridesti lo spirito fraterno Che tanto animò i nostri avi... Godiamo col Prossimo in eterno, tutti umani, senza più schiavi. Esempio di Obama, Raùl, Bergoglio, ognun, con forza gridi “Sì, lo voglio!” Michele Sessa 28 MEDAGLIONI D’ARTE di DOMENICO SESSA PIER FRANCESCO MASTROBERTI CENTRO STUDI PER LA FONDAZIONE CARMINE MANZI Nel Complesso rupestre “Madonna della Virtù” a Matera - la Capitale Europea della Cultura 2019 - a cura del Circolo Culturale “La Scaletta”, lo Scultore lucano PIER FRANCESCO MASTROBERTI, in una Personale di Scultura di Arte Presepiale, ha esposto ben cinque Presepi. Grandissimo ne è stato il successo. Presieduta dal filosofo Giuseppe Cacciatore è nato il Centro Studi per la Fondazione Carmine Manzi, al fine di rilanciare e proseguire le finalità dell’Accademia di Paestum. Saranno coinvolti soprattutto i giovani talenti con una serie di iniziative volte alla formazione e alla promozione sociale. Già tante le convinte adesioni. LUTTO la N.D. LUISA D’AMATO TROISI L’OLIMPO DEL XXI SECOLO NON E’ PIU’ Una Antologia a cura di Emilia Altobelli e Gianni Ianuale che raccoglie Autori che valorizzano la società nella quale vivono ed operano. Si scava nei loro cuori e si capisce, come afferma Biagio di Meglio nella presentazione, che “ la poesia è la più forte medicina per guarire i malanni; l’arte un indelebile antitodo per guarire i nèi; la cultura la bandiera di tutti quelli che amano la libertà, quale sigillo d’amore”. Tra gli Autori presenti ci piace segnalare Mario Senatore e Francesco Terrone. Un’Amica, una Poetessa, un’Anima Pia. Al marito, Avv. Renato, ai figli, alla cara nipotina, ai cognati e parenti tutti, le più vive e sentite condoglianze della nostra Redazione. Per la sua Anima Benedetta, un REQUIEM. CU D. CUTINO TIN O Sistemi di Pesatura S.r.l. Via Gen. Nastri, 12 - Tel. 089.953494-089.954338 LANCUSI (SA) - ITALY