ANTOINE NIVIÈRE
Padre Alexander Schmemann, redattore del Messaggero dell’Esarcato (Parigi, 1946-1951)
Relazione della conferenza di Antoine Nivière alla Conferenza diocesana del 14 dicembre 2008,
seduta di chiusura del Congresso per il venticinquesimo anniversario del decesso di padre Alexandre
Schmemann.
Il contributo di Antoine Nivière, che qui proponiamo in traduzione italiana, offre una ricostruzione
importante ai fini della conoscenza del contesto e del periodo preparatorio delle opere teologiche
della maturità di P. Alexander Schmemann. Questa fase preparatoria si collocò nell’ambito ecclesiale
dell’Arcivescovado-Esarcato per le Chiese Ortodosse Russe in Europa occidentale e del suo peculiare
statuto canonico sotto il Patriarcato di Costantinopoli, sicché molti spunti di riflessione vennero
sviluppati da P. Schmemann proprio in relazione alla situazione della diaspora russa e della diocesi
nella quale maturò la sua crescita ecclesiale e la sua vocazione sacerdotale. Questo contributo
costituisce dunque uno spaccato – attraverso gli interventi di P. Alexander – sulla posizione
ecclesiologica dell’Esarcato, che possiamo sottolineare essere stata determinata da un percorso
storico vieppiù marcato dalla consapevolezza che l’essenza della Chiesa si realizza nell’unità
giurisdizionale locale e nella Comunione eucaristica con il pleroma dell’Ortodossia. Tanto l’opera di
P. Schmemann quanto la tradizione dell’Esarcato hanno avuto sinora scarso peso nelle discussioni e
nei percorsi o scelte di sviluppo dell’Ortodossia in Italia. In tale contesto, sicuramente meno
sviluppato rispetto ad altri paesi della “diaspora”, sia dal punto di vista sociologico sia dal punto di
vista della maturità delle istanze che hanno rappresentato legittimamente la Chiesa ortodossa nel
nostro paese, il contributo metodologico e i risultati della riflessione ecclesiologica di Padre
Alexander costituiscono un viatico per il cammino dei prossimi anni, in cui si potrà valutare appieno,
al di là delle distinzioni giurisdizionali, la reale portata della crescita che la comunità ortodossa ha
conosciuto nell’ultimi anni in Italia, non solo in termini quantitativi, ma, soprattutto, in quelli
essenziali di una coscienza ortodossa che voglia essere autenticamente e unicamente testimone del
Regno di Dio.
AAA
Sommario:
Introduzione
Schmemann editore della rivista diocesana
Schmemann autore di articoli pubblicati nella rivista
Schmemann polemista
Conclusione
1
Introduzione
Per cinque anni, dal 1946 al 1951, padre Alexander Schmemann è stato il redattore capo della rivista
dell’Arcivescovado che usciva all’epoca, in russo, sotto il titolo Cerkovnyj Vestnik ZapadnoEvropejskogoj eparkhii «Messaggero ecclesiastico della diocesi dell’Europa occidentale» (fino al n° 8,
datato agosto 1947), quindi sotto il titolo di «Cerkovnyj Vestnik Zapadno-Evropejskogo pravoslavogo
russkogo Ekzarkhata», «Messaggero ecclesiastico dell’Esarcato ortodosso russo dell’Europa
occidentale». Questo relativamente breve lasso di tempo corrisponde a un periodo importante nella
storia dell’Esarcato, ma anche in quella di padre Alexander Schmemann, trovandosi queste due storie
di fatto strettamente legate. Nella storia della diocesi, questo periodo si apre con la morte del
Metropolita Evlogij, nell’agosto 1946, e con la sua difficile successione, sullo sfondo della ripresa dei
conflitti inter-giurisdizionali nell’emigrazione russa tra il Patriarcato di Mosca, la Chiesa russa
all’Estero e l’Esarcato, che sceglie di restare definitivamente sotto la giurisdizione di Costantinopoli.
Fu anche un periodo in cui c’era molto da fare: rianimare le strutture diocesane, messe in sordina
durante la guerra, ripristinare i contatti tra le parrocchie… Sul piano personale, questa stessa epoca
segna, per padre Alexander Schmemann, l’inizio del suo servizio come sacerdote e teologo. Con la
morte del Metropolita Evlogij, si aprì una fase nuova per il giovane Schmemann – che aveva soltanto
25 anni –, una fase d’impegno maturo e consacrato alla Chiesa. In un bell’articolo, poco conosciuto,
che padre Alexander dedicò, molti anni più tardi, ai tre vescovi che segnarono il suo percorso – i
metropoliti Evlogij e Vladimir, a Parigi, e Leonzio, a New York –, Schmemann descriverà questo
passaggio dall’“infanzia ecclesiale” all’età adulta nel modo seguente: «La mia infanzia ecclesiale e,
legata a quest’infanzia, la visione incomparabile che avevo della Chiesa e del paradiso ebbero fine con
la morte del Metropolita Evlogij». Nel 1945, Schmemann ha appena terminato i suoi studi all’Istituto
Saint-Serge ed è impegnato come assistente della cattedra di Storia della Chiesa, tenuta dal professor
Antoine Kartachev. Cominciò poi la preparazione di un dottorato, di cui passerà la discussione finale
nel 1950. Il 2 novembre 1946, Alexander Schmemann è ordinato diacono dal Metropolita (allora
ancora Arcivescovo) Vladimir, nella cattedrale Sant’Alexander Nevskij, la chiesa dove, con il suo
fratello André, aveva iniziato a servire come accolito, quindi come ipodiacono, sotto il defunto
Metropolita Evlogij. Il 30 novembre, è ordinato sacerdote da Mons. Vladimir, nella chiesa di SaintSerge, ed è nominato assistente del rettore della chiesa di Clamart, l’archimandrita Cyprien (Kern), suo
altro maestro all’Istituto Saint-Serge, con il quale si formerà nel servizio all’altare. I legami con la
chiesa di Clamart sono anche di natura familiare: Alexander Schmemann vi aveva sposato Juliana
Ossorguine, nel gennaio 1943, entrando così nella vasta famiglia Boutenev-Troubetskoï-Ossorguine,
attorno alla quale si era costituita la Comunità di Clamart. Più tardi, nella primavera del 1951, padre
Schmemann sarà nominato rettore della parrocchia vicina di Petit-Clamart, ma vi resterà soltanto per
poco tempo, prima della sua partenza per gli Stati Uniti.
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I. Schmemann, redattore della rivista.
La rivista «Il Messaggero ecclesiale», che era stata pubblicata tra il luglio 1927 e il giugno 1940 a
cadenza mensile, riprende le pubblicazioni dopo la morte del Metropolita Evlogij, nell’ottobre 1946. I
tre primi numeri sono interamente dedicati alla scomparsa del fondatore della diocesi e all’elezione del
suo successore, in un contesto ecclesiale e politico segnato da molte tensioni. La pubblicazione è
garantita, sotto la direzione del segretario diocesano, l’archimandrita Savva Chimkevitch, da alcuni
collaboratori anonimi, fra i quali si indovinano le fugure di Pierre Kovalevsky, Serge Verkhovskoy e
soprattutto Alexander Schmemann, al quale spettò, probabilmente, il grosso del lavoro redazionale.
Sulla propria scheda di stato di servizio, conservata negli archivi dell’Arcivescovado, si può leggere
che Schmemann svolse mansione di redattore del Messaggero a partire dall’ottobre 1946, anche se
l’ufficializzazione di questo ruolo avverrà soltanto quattro mesi più tardi. La scelta dell’archimandrita
Savva si spiega facilmente. Conosceva perfettamente Alexander Schmemann, e suo fratello André.
Infatti, era stato il loro istruttore alla Scuola dei cadetti di Villiers-le-Bel, all’inizio degli anni ’30. Più
tardi, durante la guerra, li aveva ritrovati in rue Daru, loro, giovani accoliti e in seguito ipodiaconi, lui,
diventato segretario diocesano e sacerdote in servizio alla cattedrale. Esisteva un’amicizia profonda ed
una reale complicità tra loro. Fu probabilmente padre Savva a proporre di affidare la redazione della
rivista diocesana ad Alexander Schmemann, recentemente diplomato all’Istituto Saint-Serge, nel quale
vedeva un uomo di fiducia, fedele all’Arcivescovado nonché teologo di ottime speranze.
Regolata la successione del Metropolita Evlogij, le cose si misero rapidamente in posto. Nel quarto
numero del Messaggero, uscito nel gennaio 1947, il giovane sacerdote annuncia ufficialmente la sua
nomina a redattore della rivista. In un editoriale, che figura come dichiarazione di intenti, giustifica la
ripresa della pubblicazione della rivista: il «Messaggero ecclesiale», spiega, deve fare intendere la
voce della diocesi e dimostrare «la volontà di quest’entità puramente ecclesiale di opporsi agli
elementi distruttivi non ecclesiali», in particolare presentando «la verità di fronte all’informazione
falsa e tendenziosa» diffusa sulla situazione della Chiesa in Russia e sull’Esarcato. Per lui, non si
trattava di fare un semplice bollettino amministrativo, ma di pubblicare una vera rivista, capace di
fornire un’informazione sulla vita della Chiesa nell’insieme, non soltanto della diocesi, ma di tutta
l’Ortodossia nella sua dimensione pienamente universale. Occorre, certamente, riferirsi al contesto
dell’epoca, in cui praticamente qualcosa di simile non era ancora stato fatto e non esistevano mezzi
d’informazione ortodossa (almeno in Occidente). Questa nuova linea editoriale sarà presentata da
padre Schmemann in una relazione consegnata al Consiglio diocesano il 14 marzo 1947. Padre
Alexander vi insiste nuovamente sugli obiettivi della rivista, che deve «rafforzare l’unità del popolo
ecclesiale disperso, mantenere il legame con il centro diocesano e difendere quest’unità di fronte agli
attacchi provenienti da qualsiasi parte». I lettori, aggiunge, attendono «prese di posizione chiare e
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coraggiose su tutti gli argomenti di attualità che segnano la nostra vita ecclesiale». Il Consiglio
diocesano approvò il progetto, nella sessione del 31 marzo 1947.
Abbiamo potuto trovare soltanto un breve estratto di memorie dove padre Schmemann parla del suo
lavoro come redattore del «Messaggero ecclesiale». È molto breve, a margine di un elogio postumo
del Metropolita Vladimir, eletto nell’ottobre del ’46 come successore del Metropolita Evlogij: «Ci fu
dato allora un vescovo i cui metodi erano radicalmente diversi da quelli dell’epoca di Evlogij. La
principale qualità che si trovava, tra molte altre, nel nostro nuovo gerarca era il suo distacco. All’epoca
avevo spesso l’occasione di incontrarlo nella mia qualità di redattore del “Messaggero ecclesiale”,
sicché divenni uno dei suoi sodali». È da sottolineare che padre Schmemann collega qui esplicitamente
il suo lavoro redazionale presso l’amministrazione della diocesi alla personalità del nuovo metropolita.
E continua il suo ritratto così: «Se, con il Metropolita Evlogij, la chiesa era percepita come una
famiglia, come il gregge, con il Metropolita Vladimir era riportata alla sua fonte, alla sua intenzione
originale, al giorno senza tramonto del Regno di Dio». Già in un editoriale pubblicato nel giugno del
’47, nel «Messaggero ecclesiale», in occasione dell’anniversario dei quarant’anni dell’ordinazione di
Mons. Vladimir, padre Schmemann rendeva omaggio al vecchio metropolita e alla sua determinazione
per preservare la libertà e la stabilità della diocesi di fronte alle influenze esterne, spesso estranee alla
Chiesa. Ricordando il coraggioso «Non possumus!» – per riprendere l’espressione utilizzata da
Antoine Kartachev per definire il rifiuto di Mons. Vladimir di accettare gli ordini venuti da Mosca,
nell’agosto 1946, nel periodo successivo alla morte del Metropolita Evlogij –, padre Alexander
scriveva: «Ad un momento difficile e torbido, Mons. Vladimir ha preso su di sé la croce
dell’amministrazione della nostra diocesi: quanti insulti, attacchi, calunnie, incomprensioni egli ha
dovuto sopportare e continua ancora a sopportare». E Schmemann ne approfittava per ricordare il
ruolo del vescovo nella chiesa, sottolineando che il vescovo è «legato alla sua chiesa, alla sua diocesi,
di un legame non soltanto amministrativo, ma anche spirituale e mistico». L’opportunità che si era
offerta all’emigrazione, insisteva, era precisamente quella di aver rotto con la prassi della Chiesa russa
del XIX secolo – e, ancora spesso, del XX secolo –, quando i vescovi erano nominati e trasferiti con
semplice decreto amministrativo sinodale, mentre, nelle condizioni peraltro difficili dell’emigrazione,
il legame vivo tra il vescovo e i membri della sua diocesi aveva potuto essere restaurato. Sul modello
dei metropoliti Evlogij e Vladimir, ciascuno trovava nel vescovo, non soltanto un responsabile
ufficiale e un amministratore, ma soprattutto «un padre e un pastore che conosce tutte le sue pecore».
Forte della fiducia del Metropolita Vladimir, padre Alexander riuscirà a fare rivivere la rivista
diocesana e a conferirgli una dimensione nuova, che non aveva nel periodo prebellico, sia dal punto di
vista della varietà degli argomenti sia da quello della qualità teologica. È indubbio che uno dei
principali meriti di padre Schmemann risiede nel fatto di avere saputo mobilitare le forze vive della
diocesi e attirare nuovi collaboratori. Cito il suo editoriale del gennaio ’47: «Il periodo attuale della
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nostra vita ecclesiale, a causa delle difficoltà e sfide che occorre affrontare, esige che utilizziamo tutte
le nostre forze» per fare intendere «la voce realmente ecclesiale e collegiale di tutta la nostra diocesi,
la sua legittimità, la sua vita e il suo servizio autentico alla Chiesa». Di conseguenza p. Schmemann
mise a frutto i legami personali che aveva con l’Istituto Saint-Serge, con i suoi insegnanti e con gli ex
studenti, fece appello ai professori confermati (Basile Zenkovsky, Cassien Bezobrazov, Georges
Florovsky, Cyprien Kern, Nicolas Afanasiev, Antoine Kartachev, Léon Zander) e ai rappresentanti
della nuova generazione (Théodose Spassky, Alexis Kniazeff, Serge Verkhovskoy, Jean Meyendorff).
Si rivolse poi verso sacerdoti della diocesi passati per l’Istituto Saint-Serge (Alexander SemenoffTian-Chansky, Alexandre Rehbinder, Elie Mélia, Romain Zolotov), ma anche verso chierici esterni
alla diocesi, anche non russi (i futuri metropoliti Emilianos Timiadis, greco, e Giorgio Khodr,
libanese). Si vede in questo la volontà di apertura, di testimoniare l’universalità dell’Ortodossia, non
chiudersi nell’ambiente strettamente russo («il russkost’»). Nella gestione quotidiana del «Messaggero
ecclesiale», i principali collaboratori di Alexander Schmemann furono Jean Meyendorff, che era il
direttore della rivista, l’archimandrita Sylvestre (Haruns) e l’arciprete Antoine Karpenko, che si
occupavano delle questioni amministrative e della spedizione. Dal punto di vista editoriale, la rivista
usciva a cadenza bisettimanale, con un’impaginazione che variava dalle 20 alle 36 pagine, a seconda
dei numeri. La rivista era dunque assai consistente, comprendeva sempre tre parti: all’inizio, una parte
ufficiale, che dava notizia dei decreti e messaggi emessi dal Metropolita e dall’Amministrazione
diocesana; quindi, una parte non ufficiale destinata a raccogliere articoli di fondo su argomenti di
teologia, di pastorale, di catechesi, di esegesi, di liturgia, di storia della Chiesa; infine, una parte
informativa, riportante brevi notizie sulla vita delle parrocchie della diocesi, ma anche su eventi di
rilievo per la vita di altre Chiese ortodosse, nonché recensioni di libri e riviste, non soltanto ortodosse,
ma anche cattoliche ed ecumeniche. Rimarchiamo ancora questo spirito d’apertura. Tirando le somme,
ventotto numeri saranno pubblicati sotto la redazione di padre Alexander, fino all’estate del 1951, data
della sua partenza per l’America. La fine del suo lavoro alla testa della redazione non è citata nella
rivista. Tuttavia, sulla sua scheda di stato di servizio conservata negli archivi diocesani, Schmemann
segna di aver svolto la sua funzione di redattore del «Messaggero» fino al giugno del ’51. Nel numero
di agosto-settembre, il suo nome scompare, sostituito da quello dell’archimandrita Sylvestre, nuovo
redattore.
II. Schmemann autore di articoli nella rivista.
Se prendiamo in considerazione il periodo che va dal gennaio 1947 al luglio 1951, quando padre
Alexander era redattore del «Messaggero diocesano», e vi aggiungiamo ancora il secondo semestre
dell’anno 1951 nonché il primo semestre del 1952, osserviamo che il teologo, pur essendosi ormai
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trasferito negli Stati Uniti, continuò a pubblicare sulla rivista parigina, firmando un totale di dieci
articoli. A questi si aggiungono alcune note di lettura e varie brevi notizie, non firmate, riguardanti la
vita dell’Esarcato e di altre Chiese ortodosse.
Questi sono i titoli di questi articoli, con la data di pubblicazione (li indichiamo nell’ordine
cronologico di pubblicazione):
«La Pentecoste, festa della Chiesa» (maggio 1947);
«Chiesa, emigrazione, spirito nazionale» (gennaio 1948);
«Pasqua e battesimo» (maggio 1948);
«Chiesa ed organizzazione ecclesiale», un lungo articolo in tre parti (novembre 1948 - luglio 1949),
che sarà riproposto come estratto autonomo;
«Controversia sulla Chiesa» (giugno-luglio 1950);
«“Sul neo-papismo”» (agosto-settembre 1950);
«Il Patriarca ecumenico e la Chiesa ortodossa» (agosto-settembre 1951);
«Liturgia e pratica liturgica» (febbraio-marzo 1952);
«Quaresima e liturgia eucaristica» (giugno-luglio 1952);
«Epilogo» (agosto-settembre 1952).
La semplice enumerazione di quest’articoli ci sembra interessante e indicativa, poiché in essa si
delineano già le linee portanti dell’opera teologica di Alexander Schmemann. Se proviamo a stabilire
una classificazione tematica, ci accorgiamo che quattro di loro riguardano argomenti di teologia
liturgica mentre altri sei hanno per oggetto la riflessione teologica sulla Chiesa, cioè l’ecclesiologia, in
particolare relazione con le questioni relative all’organizzazione canonica di ciò che si designa in
genere con il termine di “diaspora”.
Non è possibile fare qui un’analisi dettagliata di tutti quest’articoli. Ci limiteremo dunque ad alcune
osservazioni generali, cominciando con gli articoli di teologia liturgica. In questo settore, la prima
constatazione – cosa che costituisce, probabilmente, l’aspetto più rilevante –, è che i quattro articoli di
teologia liturgica anticipano le grandi intuizioni e le principali direttive del pensiero teologico di padre
Schmemann.
Ricordiamo
che
allora,
all’Istituto
Saint-Serge,
Schmemann
si
occupava
dell’insegnamento di Storia della Chiesa; inizialmente la sua tesi di dottorato doveva riguardare la
Chiesa bizantina, ma – come si può vedere – la sua sensibilità di “liturgista” è già all’opera e i suoi
articoli contengono già numerosi temi-chiave che riprenderà, molti anni più tardi, in America, nelle
sue grandi monografie. Così, l’articolo «Liturgia e pratica liturgica» come quello sulla Pentecoste
(«Pentecoste, festa della chiesa») contengono alcune delle idee portanti che troviamo sviluppate nella
monografia Eucaristia. Il sacramento del regno, mentre l’articolo «Quaresima e liturgia eucaristica»
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prefigura il sua La Grande Quaresima, e «Pasqua e battesimo» annuncia Con l’acqua e lo Spirito. Tra
questi temi ricorrenti, c’è innanzitutto l’esperienza della gioia, «del mistero gioioso della presenza del
Signore nella Liturgia», la convinzione profonda di questa «gioia ecclesiale che dà un senso alla nostra
esistenza terrena». Altro tema principale è quello dell’attesa escatologica e della realizzazione della
Parusia, da cui deriva una vera teologia del tempo liturgico. «La quaresima e la liturgia eucaristica
sono due aspetti della vita della Chiesa», insiste, come due fuochi, quelli «dell’attesa e della
pienezza»» e «dell’escatologia e della storia».
Altra convinzione altrettanto fondamentale nel pensiero teologico di Schmemann, è il suo approccio
essenzialmente realistico alla liturgia, approccio che si toglie il marchio di qualsiasi interpretazione
nominalista o mistagogico. In «Quaresima e liturgia», padre Alexander si leva contro la tendenza
all’allegorismo liturgico, attraverso il quale si cerca di spiegare tutto come «una sorta di “simbolo”
liturgico», cosa che conduce – sostiene – a introdurre una dicotomia tra la vita quotidiana nel mondo e
la vita nella Chiesa: «La liturgia è, in tutto e per tutto, realistica», sottolinea, e ciò vale tanto per i
sacramenti quanto per il tempo della Chiesa. In «Liturgia e pratica liturgica», padre Alexander parte
dalla constatazione che esiste attualmente una crisi della vita liturgica dovuta al fatto che il Typikon,
l’ordo di origine monastica, non è (o non è più) applicato e che la sua applicazione si rivela del resto
oggi impossibile. Da ciò deriva lo stato d’anarchia oggi predominante, nel quale si constatano due
estremi: da un lato, coloro che assolutizzano l’ordo e, dall’altro, coloro che lo relativizzano. Piuttosto
che chiudersi in considerazioni ritualistiche, Schmemann sottolinea che occorre ritornare all’essenziale
e porsi la domanda fondamentale: che cos’è la liturgia, a cosa serve? Come risposta egli propone la
seguente definizione: «La liturgia è la preghiera comunitaria della Chiesa, l’atto sacramentale della
cattolicità, nel quale la Chiesa, unanimemente e con un solo cuore, confessa la sua fede, innalza la sua
preghiera, intercede, rende grazia e glorifica Dio». Da questa definizione, padre Alexander trae molte
conclusioni, tanto teoriche quanto pratiche: lo scopo della liturgia, dice, è di costruire la Chiesa, di
manifestarla qui e adesso, di incarnarla nel corpo di Cristo. La liturgia è celebrata dalla Chiesa intera,
non è affare di professionisti o di specialisti. Questo lo conduce ad insistere sul fatto che il «mistero»
della liturgia non deve escludere la sua «comprensione»: «La celebrazione deve essere compresa e
meditata in tutte le sue parole, in tutte le sue parti, come nel suo insieme», scrive.
III. Schmemann polemista.
Nell’articolo, già citato, che padre Alexander dedicò ai tre metropoliti che segnarono il suo percorso
ecclesiale, egli ricorda con insistenza a quale punto gli anni 1946-1951 furono segnati dalla necessità
di difendere la Chiesa, o più esattamente una certa visione della Chiesa: «Erano anni difficili,
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predominati da dibattiti sulle questioni giurisdizionali e da ogni sorta di polemica. Si era chiamati di
continuo a fare delle scelte, a difendersi, a giustificarsi». Questa visione della Chiesa, era quella dei
metropoliti Evlogij e Vladimir, quella dei professori dell’Istituto Saint-Serge di quell’epoca, era la
visione di un’Ortodossia aperta, interessata alla dimensione universale della Chiesa, attaccata alla sua
eredità e alla sua tradizione russa, ma allo stesso tempo cosciente della sua inevitabile installazione in
Occidente. Le polemiche giurisdizionali nell’emigrazione russa, che infuriavano tra il 1926 e il 1931,
si erano con il tempo un po’ attenuate, ma erano destinate a riprendere con ancor maggior vigore dopo
la fine della guerra, in un contesto sociologico, politico ed ecclesiale nuovo: l’impressione ingannevole
che la Chiesa in Russia era tornata libera, l’azione dei «sostenitori del ritorno» in URSS e l’arrivo di
una nuova ondata di profughi dall’Europa dell’Est, la scomparsa pressoché totale – anche se
temporanea – della «Chiesa russa all’estero» (tutte le sue parrocchie in Francia si ricollegarono infatti
al Patriarcato di Mosca), la prospettiva – anch’essa rapidamente tramontata dopo la morte del
Metropolita Evlogij – di vedere l’Esarcato ritornare nel seno di Mosca. In questo contesto generale di
grande turbolenza, occorreva per ciascuna delle tre giurisdizioni ribadire i propri principi, esporre i
rispettivi punti di vista.
Padre Alexander Schmemann prese parte attiva a questi dibattiti, sostenendo la posizione
dell’Esarcato. Lo fece attraverso sei articoli. Il primo, intitolato «Chiesa, emigrazione, spirito
nazionale», costituisce un contributo originale, i seguenti sono risposte alle reazioni suscitate nelle
altre due giurisdizioni dalle sue argomentazioni. Tre di queste reazioni emanavano da esponenti della
Chiesa russa all’estero: così «Chiesa ed organizzazione ecclesiale» fu in risposta al libro dell’arciprete
Michel Pol’skij sulla situazione canonica del potere ecclesiale supremo in URSS e all’estero;
«Controversia sulla Chiesa» rispondeva a un articolo dell’arciprete Georges Grabbe sui «Fondamenti
canonici della Chiesa russa all’estero»; «Epilogo» fu scritto in confutazione di un opuscolo di padre
Pol’skij in cui si attaccava lo statuto dell’Esarcato. Gli ultimi due articoli, «“Sul neo-papismo”» e «Il
Patriarca ecumenico e la Chiesa ortodossa», fanno seguito ad un testo dello Ieromonaco Sophronij
(Sacharov), allora nella giurisdizione del Patriarcato di Mosca in Francia, intitolato «L’unità della
Chiesa a immagine dell’unità della Santa Trinità», nel quale padre Sophronij attaccava il Patriarcato di
Costantinopoli, accusandolo di velleità “neo-papiste”.
Anche a questo proposito, non è qui possibile proporre un’analisi dettagliata di questi articoli di padre
Schmemann: occorre leggerli attentamente, nella misura in cui contengono molti elementi di
riflessione che restano ancora di grande attualità, anche se la situazione ecclesiale è del tutto cambiata
dal 1950. Va tuttavia detto che il grande merito di padre Alexander, in tutti questi articoli, è di avere
sempre avuto la preoccupazione di trattare le questioni di ecclesiologia e di organizzazione ecclesiale
non a partire da un’interpretazione dei canoni congetturale o soggettiva, ma sulla base di una
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riflessione complessiva di ciò che è la Chiesa. «La canonicità, scrive, va definita sempre e soltanto
sulla base dell’essenza eterna della Chiesa, alla luce della sua missione eterna». Di conseguenza, tutto
il suo percorso può essere visto nello sforzo di liberare l’interpretazione della Chiesa da tutte le scorie
legate agli elementi che le sono esterni – storici, politici o che altro –, onde promuovere ciò che egli
chiamava «una vera rinascita della coscienza ecclesiale».
Se riguardiamo ai principali temi affrontati, vi riscontriamo innanzitutto l’affermazione «del doppio
fondamento della cattolicità della Chiesa», nella sua dimensione allo stesso tempo locale e universale,
e, legata a questo tema, la questione del primato e della conciliarità. Alexander Schmemann ribadisce
«il principio locale dell’organizzazione della Chiesa» che si manifesta, inizialmente e soprattutto,
attorno a un solo e unico vescovo in un dato luogo, attraverso il mistero eucaristico: «L’essenza
dogmatica della Chiesa esige, per la sua realizzazione, l’unità di tutti i cristiani ortodossi che vivono in
un dato luogo, in uno solo e stesso organismo, avente alla sua testa un solo vescovo», scrive. Altrove,
aggiunge: «Tanto il senso quanto la gioia della Chiesa dipendono dal fatto che i suoi membri, che
vivono proprio qui, in questa regione, in questa città, quali che siano le loro differenze umane,
formano una nuova entità unita: l’incarnazione vivente dell’unità della Chiesa universale». Nella
Chiesa, afferma ancora, tutto ha carattere universale: «La Chiesa una e universale non è divisibile in
lotti: è un organismo vivente, nel quale ogni membro vive della vita della totalità e riflette in sé la
pienezza della totalità». Da qui deriva la sua denuncia dei due flagelli che sono, da un lato, il
nazionalismo e, dall’altro, l’ipertrofia dell’autocefalia. Per lui, la Chiesa non può definirsi a partire da
criteri puramente etnici, il criterio nazionale non è una «delle caratteristiche costitutive della Chiesa» –
scrive –, ma, al contrario, è «un’autentica eresia che minaccia la nostra salvezza». Senza negare il
carattere nazionale proprio di ogni popolo né rifiutare l’espressione delle diversità linguistiche o
culturali, padre Alexander insiste sulla condizione speciale della Chiesa, che resta essenzialmente
“altra”, poiché essa ha la sua propria vita e la sua propria vocazione, che è quella di «costruire il corpo
di Cristo, [facendo] crescere, con la grazia, la totalità in Cristo».
Altro soggetto di preoccupazione è costituito dalle derive dell’autocefalismo, di fronte alle quali
Schmemann ricorda che l’Ortodossia non è una giustapposizione né una sovrapposizione di Chiese
autocefale, le une poste accanto alle altre: «la Chiesa ortodossa non è una federazione di entità,
estranee le une rispetto alle altre, ma è il corpo unitario di Cristo». E altrove ancora: «È triste vedere
che, al giorno d’oggi, l’autocefalia è compresa in modo puramente giuridico, è considerata come un
mezzo di difesa usato dalle Chiese le une contro le altre, d’isolamento orgoglioso. È ancora più triste
vedere che le relazioni tra le Chiese sono concepite in termini di diritto internazionale». Nelle loro
reciproche relazioni, le Chiese territoriali hanno bisogno di un legame, e questo legame è reso
possibile, nel rispetto di un certo ordine gerarchico, grazie «a un centro organizzativo» che,
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nell’Ortodossia contemporanea, è garantito dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli. Questa
responsabilità particolare, il padre Alexander la giustifica, sottolineando che se, sul piano ontologico,
tutte le chiese locali sono uguali e tutti i loro vescovi sono uguali, esistono tuttavia tra loro differenze
d’ordine gerarchico e di servizio o dignità.
Da qui, arriviamo alla situazione canonica dell’Esarcato ed all’organizzazione ecclesiale della
“diaspora” in Europa occidentale. Difendendo l’Esarcato dalle accuse ricorrenti all’epoca, provenienti
dalla Chiesa russa all’estero e dal Patriarcato di Mosca, secondo le quali il Metropolita Evlogij e i suoi
successori si sarebbero «accasati dai Greci», padre Schmemann sottolinea che i responsabili della
diocesi hanno preso la decisione di rivolgersi al Patriarca che è innegabilmente il primo nell’ordine
d’onore dell’unica e sola Chiesa ortodossa, e che l’hanno fatto «non per capriccio, ma perché tale è la
norma oggettiva della vita della Chiesa», spiegando cosa intendesse con queste parole: «Respinti fuori
del territorio della nostra Chiesa locale, su un territorio dove non esiste una Chiesa ortodossa locale
propria, pensiamo che, in attesa di un regolamento d’insieme della vita ecclesiale in questi paesi nuovi
per l’Ortodossia, spetti al Patriarca ecumenico garantire la nostra appartenenza all’organismo
universale della Chiesa». Certamente – come riconosce – l’Esarcato creato nel 1931 aveva un carattere
provvisorio, ma questo concetto di «provvisorietà» aveva un valore molto relativo, onde prosegue:
«Agli inizi, tutto nella vita ecclesiale dell’emigrazione era inevitabilmente provvisorio…, ma non è
venuto il momento di rivedere questa nozione di provvisorietà e prendere coscienza di ciò che la
Tradizione della Chiesa esige da noi, nelle condizioni che ci sono state date da Dio?». In un altro testo
precisa: «Fino ad oggi, tutte le nostre istituzioni ecclesiali qui, in Europa occidentale, avevano e hanno
un carattere provvisorio, poiché erano legate al fenomeno dell’emigrazione, fenomeno per sua natura
provvisorio. Ma ora diventa sempre più ovvio che, anche se l’emigrazione russa – come qualsiasi
emigrazione – è forse qualcosa di provvisorio, l’Ortodossia in Europa occidentale, al contrario, non lo
è. Nel corso di questi ultimi decenni, si sono installati in Europa occidentale e vi vivono ormai
centinaia di migliaia di ortodossi, non soltanto russi. Molto tra loro resteranno qui per sempre,
indipendentemente dal futuro dei loro paesi d’origine. Di conseguenza, l’organizzazione ecclesiale di
questi fedeli deve ricevere un carattere che non sia più provvisorio, ma definitivo e conforme
all’organizzazione canonica e allo spirito della Chiesa ortodossa».
Entrando nel merito delle proposte concrete, padre Schmemann prospettava per la “diaspora” in
Europa occidentale una soluzione che potremmo riassumere come segue: avanzare tutti insieme verso
la costituzione di una Chiesa autonoma multi-etnica, in legame canonico con tutta l’Ortodossia – e
questo legame doveva essere garantito dal Patriarca ecumenico «nella sua qualità di primo
nell’episcopato ortodosso». Questo poiché, riteneva, è «il legame canonico con il Trono ecumenico, in
ragione del suo primato – che, fino ad oggi non è stato revocato da alcun concilio –, che libererebbe
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tutte le Chiese dell’Europa occidentale della necessità di scegliere una giurisdizione piuttosto che
un’altra, con tutte le passioni nazionalistiche che questo comporterebbe». Notiamo ancora che è questa
visione che si trova affermata, a nome dell’Esarcato, nel appello all’unità degli ortodossi dell’Europa
occidentale lanciato dall’Assemblea diocesana del 1949, una dichiarazione la cui redazione è in gran
parte opera di padre Alexander, ma che – purtroppo – all’epoca passò inascoltata. Allora, certamente,
la situazione dell’Esarcato era imperfetta. Schmemann ne era consapevole e lo scriveva: «Sappiamo
con certezza che la nostra esistenza come Esarcato russo, parallelo ad una diocesi greca, deriva da un
criterio nazionale», ma aggiunge: «Noi ci limitiamo ad affermare cosa comporta la Tradizione della
Chiesa e che cosa esige da noi, se vogliamo realmente manifestare, in modo ortodosso, il nostro
dogma della Chiesa, in tutta la sua pienezza».
Affrontando la questione, importante per gli emigrati russi e per i loro discendenti, dei legami con
l’eredità della Russia, padre Schmemann sottolineva la necessità di dare la precedenza alla santità ed
allo Spirito: «La salvezza della Russia non dipende dal fatto che noi renderemo la nostra vita ecclesiale
russa o no, ma, al contrario, dalla nostra capacità di fare luce sul nostro attaccamento alla cultura russa
attraverso la nostra vita ecclesiale, cioè sottoporlo al valore supremo del Regno di Dio». Egli riconosce
sì che «esiste un sacro dovere per i Russi ortodossi che vivono all’estero, un dovere di fedeltà e di
testimonianza, un dovere di difesa della verità e di denuncia» (non dimentichiamo che scriveva in un
periodo in cui la Chiesa in Russia era perseguitata e sottomessa a uno Stato ateo e antireligioso). «Ma
– aggiunge – tutto ciò resterà una semplice lotta umana, troppo e soltanto umana, se non sarà stabilito
sulle fondamenta eterne della Chiesa». Fu questa preoccupazione a spingere padre Alexander
Schmemann a parlare di «due cammini», uno per i cristiani ortodossi in Russia e l’altra per i cristiani
ortodossi in Europa occidentale, cioè per noi qui, due cammini diversi, scriveva, ma che si incontrano
«nella fedeltà alla verità di Cristo». Questa è una affermazione che anche uno dei nostri arcivescovi
defunti, Mons. Georg (Wagner), anche lui grande liturgista, amava ribadire, citando proprio questa
frase in occasione dell’ultima Assemblea diocesana che il signore gli concesse di presiedere, un anno
prima della sua morte, nel 1992: mi sembra che sia una lezione che, forse, non è ancora stata
sufficientemente meditata. Come meriterebbe di essere meditata anche quest’altra dichiarazione di
padre Alexander: «Tutte queste questioni devono potere trovare una soluzione, a patto che si
manifestino nella coscienza ecclesiale la sete dell’unità e il desiderio di mettere la Chiesa al sopra di
tutto…», poiché, scrive altrove, «il superamento delle divisioni non può essere raggiunto che
attraverso un ritorno creativo alle fonti viventi della Tradizione ecclesiale, attraverso un’unità
autentica, e non mediante “compromessi” o “buone relazioni”». E aggiunge: «Sappiamo che questo
richiederà tempo ed esigerà l’abbattimento di non pochi stereotipi e abitudini, e soprattutto esigerà uno
sforzo spirituale, nella preghiera, nella pazienza e nell’amore».
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Conclusioni
Per l’Esarcato, il breve periodo durante il quale padre Alexander Schmemann fu redattore del
«Messaggero ecclesiale» è stato di capitale importanza, poiché, in occasione di polemiche contingenti,
padre Alexander fu in grado di esporre la visione canonica dell’Esarcato ed esprimere la coscienza che
l’Esarcato ha nutrito di sé, le quali, al di là delle forme a volte “fluttuanti”, dovute “a crisi e
turbolenze” momentanee – come lo stesso padre Alexander riconosceva –, restano profondamente
incise nella sua peculiarità giurisdizionale fino ai giorni nostri. Possiamo dunque affermare che è
anche grazie a padre Alexander Schmemann che l’Esarcato ha preso del tutto coscienza circa la sua
vocazione al servizio dell’emancipazione di un’Ortodossia localmente unificata e multi-etnica.
Certamente, l’Esarcato è ancora lontano oggi di avere risposto del tutto a questa vocazione. Cerca
tuttavia, con altri, la strada che permetterà di arrivare, proprio qui, «alla realizzazione dell’autentica
essenza della Chiesa», perché la Chiesa, come manifestazione del Regno di Dio, è sempre in corso di
costruzione, fino alla seconda e gloriosa venuta del Signore.
Antoine Nivière
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