Offerta di lavoro e occupazione femminile
4. OFFERTA DI LAVORO E OCCUPAZIONE FEMMINILE
PARTE II
LE POLITICHE PER L’OCCUPAZIONE FEMMINILE
P.M. Manacorda1 e G. Indiretto2
Abstract........................................................................................................................................................ 2
1. Il ruolo del lavoro femminile nell’economia .............................................................................................. 3
2. La propensione delle donne al lavoro ....................................................................................................... 5
3. Le politiche per elevare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro............................................ 8
3.1
Conciliazione e incentivazione............................................................................................... 8
3.2
Le politiche di conciliazione nell’approccio europeo ................................................................ 8
3.3
Le politiche italiane di incentivazione fiscale ......................................................................... 9
3.3.1 La tassazione di genere..........................................................................................................10
3.3.2 Il credito di imposta per le spese di cura................................................................................12
3.3.3 Il quoziente familiare.............................................................................................................13
3.4 Le politiche italiane di conciliazione...............................................................................................13
3.4.1 Congedi parentali ...................................................................................................................15
3.4.2 Servizi di cura per l’infanzia .................................................................................................16
3.4.3 Flessibilità nell’organizzazione del lavoro. ............................................................................17
4. Un’analisi dell’efficacia delle politiche ....................................................................................................19
4.1
Politiche fiscali .......................................................................................................................19
4.2
Sussidi per i servizi di cura..................................................................................................19
4.3 Politiche di sostegno alla famiglia ...................................................................................................26
4.4
Diversi modelli di intervento.................................................................................................26
4.5
Simulazione degli effetti delle politiche di incentivazione ......................................................27
4.6 Le altre determinanti dell’offerta di lavoro femminile ....................................................................28
4.6.1 Bonus bebè o bonus mamma lavoratrice? ..............................................................................28
5. La necessità di un cambiamento culturale e politico ..............................................................................29
5.1 Le proposte......................................................................................................................................30
5.2 Mirare le politiche alle diverse esigenze delle donne ........................................................................32
Bibliografia..................................................................................................................................................33
Allegato: Due esperienze europee: Regno unito e Francia .........................................................................36
1
2
Cnel
Isflol
1
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
PARTE II
LE POLITICHE PER L’OCCUPAZIONE FEMMINILE
Maria Paola Manacorda3 e Giovanna Indiretto4 (a cura di)
Abstract
Questo contributo riguarda il tema delle politiche in grado di incrementare la bassa
partecipazione al mercato del lavoro delle donne italiane. Vengono preliminarmente
trattati i temi relativi al ruolo del lavoro femminile nell’economia contemporanea e alla
propensione delle donne al lavoro. Quindi si analizzano le caratteristiche delle principali
misure politiche, sia di conciliazione che di incentivazione, avanzate negli ultimi decenni,
così come le recenti proposte in tema di incentivazione fiscale (tassazione di genere,
credito d’imposta, quoziente familiare) e ne sono messi in luce punti di forza e di
debolezza.
Un importante capitolo è dedicato all’analisi dell’efficacia dei vari tipi di politiche che
permette di giungere ad una riflessione finale sulle proposte che consentano di mirare
meglio le politiche alle esigenze delle donne. Conclude il lavoro una appendice con due
studi di caso su queste tematiche, riguardanti le esperienze del Regno Unito e della
Francia.
3
4
Cnel
Isflol
2
Offerta di lavoro e occupazione femminile
1. Il ruolo del lavoro femminile nell’economia
Molte ricerche hanno messo in luce il ruolo del lavoro femminile nell’economia dei
diversi paesi. Sia che si tratti del lavoro domestico, normalmente non riconosciuto
socialmente e non conteggiato nella contabilità nazionale, ma che secondo alcuni
potrebbe valere molti punti di Pil 5 o del lavoro per il mercato, il contributo del lavoro
delle donne all’economia è comunque rilevante. In questo contributo ci si concentrerà
sull’importanza di incentivare le donne all’ingresso nel mercato del lavoro.
Goldman Sachs stima che se i paesi dell’area euro allineassero il tasso di occupazione
femminile a quello USA che è del 68%, il loro PIL crescerebbe del 13%. In particolare in
Italia, dove esso è pari al 46,3%, il PIL potrebbe crescere di circa il 20%. Secondo due
economiste italiane, l’ingresso nel mercato del lavoro anche di solo 100.000 donne
farebbe crescere il nostro PIL di 0,28 punti all’anno, consentendo di finanziare un
incremento del 30% della spesa pubblica per le famiglie:un bel circolo virtuoso 6.
Tutti gli studi sottolineano infatti il carattere virtuoso di una crescita del tasso di
occupazione femminile: più donne occupate, più posti di lavoro creati nell’indotto (circa
15 ogni 100 donne occupate), più gettito fiscale, maggior sicurezza e benessere per le
famiglie. In particolare Ferrera sottolinea che i posti di lavoro creati nell’indotto, derivanti
dall’offerta di servizi alle famiglie, hanno il grande vantaggio di essere per definizione
locali, contribuendo così a migliorare l’economia anche di territori svantaggiati, come ad
esempio il nostro Mezzogiorno. Altri studiosi sottolineano come le famiglie a doppio
reddito incrementino in misura considerevole i consumi, i risparmi e gli investimenti.
Sono queste le ragioni, oltre ai desideri delle donne, ormai assai scolarizzate, di vedere
realizzate le proprie aspirazioni di autonomia e di valorizzazione delle proprie capacità,
che hanno spinto tutti i paesi occidentali ad attivare politiche che incentivino le donne ad
entrare nel mercato del lavoro. Uno sguardo all’istruzione universitaria italiana evidenzia,
infatti, che le donne sono presenti in tutti gli indirizzi di studio, con tassi di partecipazione
anche maggiori al 50%; ma, pur aumentando la partecipazione femminile ai vari corsi di
laurea, comprese alcune lauree a carattere scientifico, la presenza delle donne è ancora
largamente maggioritaria nelle discipline relative all’area umanistica e dell’insegnamento (il
91% dei laureati dell’area dell’insegnamento è donna, più del 70% dei laureati nell’area
linguistica, psicologica e letteraria sono donne). Mentre nelle discipline a carattere
scientifico la partecipazione delle donne, sebbene migliorata, resta pur sempre minoritaria
(nell’area relativa all’ingegneria, nell’a.a. 2004-2005, solo il 17,5% dei laureati è donna).
Queste criticità impediscono una piena valorizzazione della componente femminile
determinando un impoverimento per le donne, ma anche una perdita di potenziale per
l’economia nel suo insieme che perde risorse umane e quindi la possibilità di sostenere i
processi di crescita ad un livello elevato. In Italia, accanto alle ricerche svolte da
numerosi centri, è stata avviata anche una iniziativa politica, che ha preso le mosse dalla
cosiddetta “Nota Aggiuntiva Donne, Innovazione, Crescita” dell’ ottobre del 20077.
Secondo una ricerca della Fondazione Rodolfo Debenedetti, non ancora pubblicata ma citata in La
Repubblica del 24 novembre 2007, in Italia il lavoro domestico delle donne potrebbe valere più di 400
miliardi di euro, pari a circa 33 punti di PIL.
6 Stime riportate in Ferrera M., Il fattore D, Mondadori 2008, pag 19.
7 (Donne, Innovazione, Crescita, Nota Aggiuntiva al Rapporto sullo stato di attuazione del Programma Nazionale
di Riforma 2006-2008, ottobre 2007) e da alcuni interventi contenuti nella Finanziaria 2008.
5
3
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Tra gli effetti positivi di una crescita del tasso di occupazione femminile va
sottolineato un elemento spesso non percepito o addirittura percepito in modo distorto:
la crescita della natalità. Essa, infatti, non è sempre negativamente correlata al tasso di
occupazione femminile, anche se, in mancanza di opportune politiche di sostegno e di
conciliazione, la presenza di bambini piccoli incide negativamente sul tasso di
occupazione delle donne. Del Boca ed al. [2008] riportano che “come si può vedere, il
tasso di attività delle madri è più basso di quello delle non-madri in tutti i paesi. L’Italia e
la Spagna, in particolare, sono i paesi nei quali le madri sembrano lavorare meno e il
tasso di attività delle donne con bambini molto piccoli è particolarmente basso”. Gli
stessi autori mettono in evidenza il rapporto che esiste tra specifiche politiche di
sostegno (disponibilità di servizi di cura per i figli, impiego part-time, congedi parentali)
con le scelte di fecondità, e rilevano che la variabile più importante è il livello educativo
delle donne8 (Tav. 1).
Tavola 1 - Statistiche descrittive della posizione delle donne in alcuni paesi europei
Fonte: Del Boca, Pasqua, Pronzato, cit., tav.5, pag.15
Altre ricerche, indicano addirittura una correlazione positiva tra occupazione
femminile e fertilità. Oggi, proprio nei paesi dove è più consistente la quota di donne
occupate, si raggiungono livelli di fecondità più elevati [Oecd 2007]. Un risultato che fino
8
Del Boca et al [2008], Market Work and Motherhood Decisions in Contexts, IZA DP, No 3303, pag. 15.
4
Offerta di lavoro e occupazione femminile
a pochi anni fa sarebbe apparso irragionevole, è ormai consolidato: il lavoro delle donne,
più che un ostacolo alla maternità, può trasformarsi in un pre-requisito, a condizione che
il contesto sia favorevole alla conciliazione”.
La spiegazione avanzata da molti ricercatori sta proprio nell’innescarsi del circolo
virtuoso prima delineato: un maggior reddito delle donne produce una maggior sicurezza
e benessere della famiglia, sostenuta da politiche di offerta di servizi ed agevolazioni
economiche, e tutto ciò genera una maggior propensione delle coppie alla genitorialità.
2. La propensione delle donne al lavoro
Prima di analizzare l’efficacia delle diverse politiche di incentivazione della
partecipazione femminile al mercato del lavoro, è opportuno analizzare, alla luce di alcuni
dati, quale sia la propensione delle donne, o meglio delle coppie con figli piccoli, a questa
scelta.
In una ricerca citata da Jaumotte [2003] svolta nel 1998, su coppie con figli minori di
6 anni, è stato chiesto di scegliere tra tre modelli di lavoro nella coppia:
§ modello con maschio e femmina ambedue occupati full time;
§ modello con maschio full time e femmina part-time;
§ modello con maschio full time e femmina non occupata.
Il dato della preferenza (ricavato da dati Ocse) è stato confrontato con quello della
diffusione di ciascun modello nei diversi paesi al momento della ricerca.
Il dato medio dei Paesi analizzati mostra chiaramente (Tav. 2)9:
a) una preferenza più accentuata, 47,7%, contro il 34,4% della diffusione attuale, per il
modello “doppio full time”, dato pressoché omogeneo in tutti i Paesi (con l’eccezione
del Regno Unito). Questa preferenza è elevata sia nei paesi che hanno una diffusione di
questo modello alta come il Portogallo, o medio-alta come la Finlandia, la Svezia, la
Francia e il Belgio, sia in quelli dove la diffusione di questo modello è bassa come
l’Olanda, la Germania e l’Austria. In Italia a fronte di una diffusione del modello pari al
35% vi sarebbe una preferenza di oltre il 50%.
b) una preferenza in media di 10 punti percentuali superiore alla diffusione attuale
(29% contro il 19%) per il modello uomo full time/donna part-time. La preferenza più
marcata è espressa dall’Olanda, dal Regno Unito, dall’Irlanda e dall’Austria, mentre l’Italia
che vede una diffusione di questo modello pari al 12% esprime una preferenza pari quasi
al 28%.
c) una preferenza media pari al 10%, contro una situazione media del 38% per il
modello uomo full time/donna non occupata. Pochi paesi superano questa preferenza
media (Francia e Spagna), mentre molti paesi rimangono al di sotto di questa percentuale.
L’Italia, nella quale questo modello è assai radicato (43,3%) esprime un valore
preferenziale molto vicino alla media (10,7%).
9
Tav. 1 Oecd cit., pag. 56.
5
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Tavola 2 - Modelli occupazionali attuali e preferiti da lavoratori full time e part-time, 1998 (coppie con figli sotto i 6 anni –
percentuali)
Fonte: Jaumotte [2003], Female Labour Force Participation.
6
Offerta di lavoro e occupazione femminile
Rimanendo nel nostro Paese, quindi, più di metà delle coppie interpellate preferirebbe
il modello “doppio full time”, più di un quarto quello full time/part-time, poco più di un
decimo quello con la donna non occupata, e un altro decimo preferirebbe altri modelli
non specificati.
Secondo l’European Labour Force Survey10, la percentuale di donne inattive che vorrebbe
lavorare è pari, nei 19 paesi coperti dall’indagine, al 12%, ed è più alta tra le donne più
giovani, di scolarità medio-alta e (elemento significativo) tra le donne che non cercano
lavoro a causa dei vincoli familiari (21%). La ricerca conclude che la partecipazione al
lavoro di questi gruppi di donne oggi escluse potrebbe elevare la partecipazione
femminile del 4% in media e sarebbe più alta nei paesi dell’Europa orientale, in Italia, nel
Regno Unito e in misura minore in Austria e Danimarca. Tuttavia, conclude Jaumotte, le
preferenze espresse sono fortemente influenzate dal contesto che ovviamente potrebbe
essere modificato da opportune politiche di incentivazione.
Altre ricerche forniscono indicazioni analoghe. Secondo una indagine svolta da
ISFOL [2008] la grande maggioranza delle donne occupate manifestano soddisfazione e
interesse per il proprio lavoro11 (Tav. 3). Questa percentuale è ovviamente molto alta per
le libere professioniste (rispettivamente soddisfatte per il 91,7% e interessate al lavoro per
il 96,3%) e scende gradualmente nelle altre categorie di donne lavoratrici, fino ad un
livello del 68,7% per la soddisfazione e 62,9% per l’interesse delle prestatrici d’opera
occasionale. E’ interessante notare che sempre secondo la stessa fonte, le donne che
lavorano a tempo pieno sono più soddisfatte e interessate (rispettivamente per l’ 88% e l’
87,3%) rispetto a quelle che lavorano a tempo parziale (rispettivamente per il 76,3% e il
76,1%).
Tavola 3 – Donne occupate di 35-45 anni per posizione occupazionale, lavoro a tempo pieno e a tempo parziale e
soddisfazione e interesse per il lavoro (valori su 100 donne con le stesse caratteristiche)
Soddisfazione
Interesse
Posizione occupazionale
Alle dipendenze
85,7
84,7
Collaborazione coordinata e continuativa
80,1
78,8
Prestazione d'opera occasionale
68,7
62,9
Imprenditore
83,6
90,8
Libero professionista
91,7
96,3
Lavoratore in proprio
80,4
79,2
Socio di cooperativa
85,4
87,7
Coadiuvante
72,9
73,8
88,0
87,3
76,3
76,1
Lavoro a tempo pieno o a tempo parziale
Tempo pieno
Tempo parziale
Fonte: Isfol, cit. pag.66.
10
11
In Jaumotte [2003], cit. pag.7.
Isfol [2008], tab. 2.7, pag 66.
7
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
3. Le politiche per elevare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro
In tutti i Paesi europei la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è stata
oggetto di attenzione. Essa tuttavia si articola in modo diverso nelle diverse aree del
vecchio continente. Mentre i paesi scandinavi (e segnatamente la Danimarca) e la Francia
hanno intrapreso questo tipo di politiche da molti anni, i paesi del sud Europa hanno
tardato ad affrontare il problema, anche per ragioni culturali.
Tuttavia, anche sulla scorta degli obiettivi di Lisbona, che prevedono per ciascun
paese il raggiungimento di un tasso di partecipazione femminile al lavoro pari al 60%, il
dibattito sulla efficacia delle diverse politiche ha ripreso quota anche nel nostro Paese.
3.1
Conciliazione e incentivazione
Le politiche volte ad aumentare il livello di partecipazione delle donne al mercato del
lavoro sono definite politiche di incentivazione e vanno distinte da quelle di conciliazione,
che rappresentano un sottogruppo delle prime.
Nel linguaggio della ricerca sono definite di conciliazione quelle misure che rendono
possibile l’erogazione di lavoro per il mercato da parte di persone (nella stragrande
maggioranza donne) con vincoli familiari. Esse sono generalmente basate sulla liberazione
di tempo per la cura, e quindi comprendono l’offerta di orari flessibili e/o ridotti, come il
part-time, e l’offerta di servizi (pubblici o privati) di cura, sia per l’infanzia che per altri
familiari dipendenti (anziani e disabili).
Le politiche di incentivazione si basano prevalentemente sull’offerta di un reddito
aggiuntivo, sia direttamente alle donne sia alle loro famiglie, nell’ipotesi che esso possa
servire ad acquistare sul mercato servizi per la cura che sostituiscano la cura erogata in
casa (home production), in grande maggioranza dalle donne. Esistono inoltre politiche di
incentivazione rivolte alle imprese che assumono donne.
Queste diverse politiche non vanno perciò confuse, perché, come dimostrano le
evidenze empiriche, i loro effetti non coincidono (casomai si sommano). Così ad
esempio, se vi è una carente offerta di servizi per la cura, modesti aumenti di reddito non
raggiungono il risultato della conciliazione. Addirittura, come si vedrà più oltre, aumenti
del reddito familiare non legati alla partecipazione delle donne al lavoro (come il
quoziente familiare) possono scoraggiarla, proprio perché, mancando una attenzione al
tema della conciliazione sul piano temporale, può risultare conveniente per le donne
rinunciare al lavoro per il mercato e alla fatica che ne consegue, recuperando il reddito
necessario per altra via.
3.2
Le politiche di conciliazione nell’approccio europeo
Il Trattato di Amsterdam, ha dato vita dal ‘97 alla predisposizione di uno specifico
ruolo per la conciliazione nell’ambito delle politiche del lavoro e della famiglia (come
dimostra il Libro Bianco sul Welfare). Questa iniziativa ha reso il termine conciliazione di
uso comune. Tale utilizzo esteso viene valorizzato successivamente nell’ambito della
8
Offerta di lavoro e occupazione femminile
Carta dei diritti fondamentali siglata a Nizza nel 2000, dove viene assunto come “esercizio
combinato di diritti fondamentali” 12.
Il testo della Carta e i successivi atti elaborati dalla Commissione rompono con una
tradizione che riteneva le politiche di conciliazione esclusivamente riferite alle donne: ora
non si tratta più solo di combattere le discriminazioni a carico delle donne ma occorre
ridurre gli ostacoli all’integrazione delle donne nel mercato del lavoro.
Il tema, inteso come il complesso dei sistemi che prendono in considerazione le
esigenze della famiglia puntando sui congedi parentali, sulle soluzioni per la cura dei
bambini e degli anziani, sullo sviluppo di un contesto e di un’organizzazione del lavoro
tale da agevolare la conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare per le donne e per gli
uomini, è ormai un tema che coinvolge ed interessa più soggetti (individui, aziende,
sistema sociale) e che sta penetrando, seppure lentamente, nella cultura di chi opera per il
miglioramento dei sistemi lavorativi e sociali. Il mercato del lavoro, ancora oggi, si
dimostra troppo spesso inaccessibile per le donne che si trovano nella condizione di
dover conciliare tra le diverse esigenze. I modelli sociali ed aziendali non sono ancora
pronti a venire incontro alle esigenze dei nuovi nuclei familiari e, per troppe donne, la
soluzione si traduce frequentemente in una dolorosa scelta tra lavoro e famiglia.
Si tratta, in sostanza, di operare un passaggio di paradigma: dalla conciliazione come
esigenza individuale alla “conciliazione di sistema” che si traduce in:
§ disponibilità di servizi sostitutivi che svolgano il lavoro di cura: asili nido, scuole
per l’infanzia, scuole elementari a tempo lungo, mense scolastiche, assistenza
domiciliare per gli anziani non autosufficienti e per i diversamente abili, ecc.;
§ disponibilità, da parte delle amministrazioni pubbliche, a fornire tutti gli altri
servizi ai cittadini con orari friendly che ne facilitino la fruizione;
§ orari dei negozi continuati o di lunga durata e differenziati nell’arco della giornata
e della settimana o festivi in modo da consentire le spese senza affanno
eccessivo;
§ servizi di trasporto accessibili, frequenti, veloci con tratte ed orari friendly.
E’ del tutto evidente come il tema della conciliazione rientri, quindi, tra gli
interrogativi più diffusi di quella che viene comunemente definita domanda sociale.
A questa, come ai tanti altri interrogativi, sempre più differenziati e numerosi,
avanzati dallo stato sociale è possibile rispondere, anche coerentemente alle direttive
dell’Unione Europea, con iniziative che prevedano interventi di prevenzione e rimozione
di qualsiasi forma di discriminazione ed esclusione sociale. La promozione di interventi
precoci capaci di fornire risposte adeguate ai radicali mutamenti che stanno coinvolgendo
la condizione socio-economica di singoli individui e dei nuclei familiari costituisce non
solo un impegno etico ma un pre-requisito essenziale per lo sviluppo dell’intero Sistema
Paese.
3.3
Le politiche italiane di incentivazione fiscale
Nonostante il dibattito culturale sia attivo ormai da alcuni decenni, nel nostro paese
le politiche di incentivazione e di conciliazione sono relativamente recenti. La sola misura
legislativa adottata per incentivare con misure fiscali l’occupazione femminile è contenuta
12
Calafà L. Congedi e rapporto di lavoro 2004, Padova, Cedam.
9
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
nella Finanziaria 2006 e consiste nella fiscalizzazione degli oneri sociali per le imprese del
mezzogiorno che assumono donne13. Su questo provvedimento, entrato in vigore
nell’Agosto 2007, non sono ancora disponibili dati di monitoraggio, e, pertanto, è
impossibile valutarne l’efficacia. Va tuttavia notato che, escludendo dal beneficio le donne
del Centro-Nord, questa misura è suscettibile di creare nuovi gap tra donne, anche se
può essere comprensibile la scelta di concentrare il beneficio nelle aree dove l’inattività
femminile è più elevata.
Vi sono inoltre delle misure fiscali ancora allo stato di proposta e oggetto di dibattito
tra gli addetti ai lavori, che è comunque opportuno esaminare. Esse sono:
§ la tassazione di genere;
§ il credito di imposta per le spese di cura;
§ il quoziente familiare.
3.3.1 La tassazione di genere
La proposta di una tassazione di genere avanzata da Alesina e Ichino 14 consiste in
una riduzione dell’aliquota di imposta sul reddito da lavoro delle donne e un aumento
dell’aliquota di imposta sul reddito da lavoro degli uomini. La proposta avanzata si fonda
sull’evidenza empirica delle differenze di genere nell’elasticità dell’offerta di lavoro che
mostra una maggiore elasticità dell’offerta di lavoro femminile e una relativa anelasticità
dell’offerta di lavoro maschile e viene giustificata anche in termini dei principi della
tassazione ottimale15.
L’entità della variazione necessaria nelle aliquote di imposta e l’effetto della loro
variazione e dei redditi da lavoro sul potere di contrattazione rispetto alla distribuzione
del lavoro non pagato all’interno della famiglia, sono oggetto di analisi in Alesina, Ichino e
Karabarbounis [2007] dove il modello di offerta di lavoro di base si modifica inserendo
sia la possibilità di contrattazione fra le parti che mostrando come, se i componenti il
nucleo familiare mettono in comune i propri redditi, si possa generare un miglioramento
anche del benessere familiare inserendo una tassazione differenziata in base al genere e
cambiando quindi i rendimenti delle diverse attività lavorative.
La proposta di una tassazione differenziata in base al genere è stata ripresa e avanzata
dagli stessi autori più recentemente [Alesina e Ichino, 2008].
Diverse sono le osservazioni che si possono muovere alla proposta di una tassazione
di genere, osservazioni che qui sintetizziamo:
A questa misura ha mosso obiezioni la Commissione Europea, considerandola aiuto di Stato.
Alesina A. e Ichino A. [2007], cit.
15 “Viceversa proprio perché l'offerta di lavoro femminile è più elastica, una riduzione anche forte
dell'aliquota fiscale applicata alle donne non diminuirebbe molto il gettito fiscale prodotto dalle loro
retribuzioni perché crescerebbe l'occupazione femminile e quindi la base imponibile su cui quella minore
aliquota si applicherebbe. Questo è l'ABC della scienza delle finanze: uno dei principi cardine della teoria della
tassazione ottimale è che sia efficiente tassare di più i beni la cui offerta è rigida e di meno quelli la cui offerta
è elastica. Secondo i nostri calcoli, esposti nel saggio Gender based taxation (disponibile sul sito
http://www2.dse.unibo.it/ichino/#papinprog) queste semplici considerazioni di efficienza fiscale
suggerirebbero un'aliquota media per le donne in Italia non superiore al 67% di quella degli uomini, ma il
livello ottimale è quasi certamente ancora più basso. Questa proposta aumenta anche l'equità del sistema
perché contribuisce a compensare le donne per i costi biologici e sociali di cui si è detto. Proprio per questo
motivo, irteniamo che la tassazione differenziata tra uomini e donne non contravvenga al divieto di
discriminazione di genere, poiché in realtà è volta proprio a restringere il divario tra i sessi: non c'è ipocrisia
peggiore che imporre l'uguaglianza di trattamento tra diseguali, Alesina e Ichino [2007]”.
13
14
10
Offerta di lavoro e occupazione femminile
-
-
Se l’elasticità marginale dell’offerta di lavoro femminile è in media più elevata di
quella maschile, la letteratura non è concorde sul valore delle stime e mostra
differenze nei livelli sia all’interno dell’offerta di lavoro femminile - ad esempio fra
donne più istruite la cui offerta di lavoro risulta meno sensibile a variazioni del salario
reale [Addabbo 1999, Saraceno 2007a] e/o in base alla tipologia familiare [Del Boca e
Boeri 2007] - che all’interno dell’offerta di lavoro maschile con una maggiore
elasticità, come ricordano Del Boca e Boeri [2007], in fasi del ciclo di vita in cui
all’attività lavorativa più probabilmente si contrappongono usi alternativi del tempo
come lo studio o il pensionamento e si osserva come la proposta sottostimi il
possibile effetto della sua introduzione sull’offerta di lavoro maschile [Saint Paul
2008]. Dunque sarebbe necessario differenziare non solo in base al genere, e la stessa
definizione delle aliquote ottimali sarebbe sottoposta ad un elevato margine di
incertezza e dovrebbe tenere conto dell’esistenza di discriminazione salariale. Si pone,
inoltre, un problema di reazione dell’offerta di lavoro in termini di ore e in termini di
scelta al margine estensivo. Probabilmente la risposta in termini di un maggiore
numero di ore di lavoro offerte sarà inferiore rispetto a quanto atteso teoricamente a
causa di:
a. relativa rigidità della domanda di lavoro (pur essendo aumentato il campo di
variazione l’orario di lavoro prevalente è a tempo pieno e, inoltre, la normativa
introdotta con la Legge 30 del 2003 ha reso più difficile la reversibilità del parttime in full time);
b. per le donne che hanno problemi di cura di altri familiari (non solo bambini
piccoli) resta un problema di compatibilità degli orari di lavoro retribuito (pur
nell’ipotesi che la riduzione dell’aliquota di imposta porti le donne a offrire più
ore di lavoro) con gli orari di apertura dei servizi di assistenza e cura (ammesso
che siano effettivamente disponibili) e delle scuole (prevalentemente non a
tempo pieno). Ricordiamo, infatti, che l’incidenza del part-time pur essendo in
crescita è tuttora molto più bassa che in media nella UE e quindi l’aumento
delle ore lavorate dovrebbe attuarsi principalmente fra le donne che lavorano
full time. Ma questo, senza un adeguamento delle ore di apertura dei servizi
childcare pubblici o privati potrebbe non essere una soluzione accessibile (posto
che i servizi siano presenti nel territorio considerato). Peraltro, le differenze
osservabili territorialmente in Italia nei tassi di occupazione femminili
rispecchiano le differenze nell’incidenza dei servizi all’infanzia in particolare
nella fascia 0-3 anni, mostrando la rilevanza della presenza di servizi nelle scelte
lavorative.
c. La reazione dell’offerta di lavoro in termini di ore di lavoro offerte potrebbe
essere inferiore anche in ragione della presenza di altri elementi nella funzione
di utilità individuale non riconducibili solo all’incentivo monetario. A questo
proposito l’evidenza mostra una maggiore sensibilità dei lavoratori part-time ad
un sistema di incentivi sulla gestione dei tempi di lavoro (e sulla loro
prevedibilità) piuttosto che ad incentivi monetari (si veda a questo proposito
quanto osservato da Russo e van Hooft 2008).
I benefici per la famiglia (posto che le reazioni dell’offerta di lavoro dei suoi
componenti producano un riequilibrio della distribuzione dei tempi di lavoro) in
termini di benessere possono realizzarsi se i componenti mettono insieme i propri
redditi o, in assenza di condivisione dei propri redditi, se, in presenza di figli, si
11
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
-
considera l’effetto positivo che in altri contesti è stato empiricamente riscontrato,
dell’aumento del reddito delle madri rispetto al benessere dei propri figli. La
letteratura mostra un diverso comportamento (rispetto alla condivisione delle risorse
e alla formazione delle scelte lavorative dei coniugi/conviventi) in diverse fasi del
ciclo familiare e anche queste differenze introducono difficoltà nella valutazione
dell’esito complessivo della riforma suggerita.
Infine, sono state sollevate anche obiezioni in termini di equità alla proposta per
l’atteso aumento delle differenze di reddito fra coppie aventi diversi livelli di
reddito16. L’argomentazione dell’eterogeneità delle reazioni dell’offerta di lavoro a
variazioni del reddito da lavoro viene utilizzata da coloro che propongono di
modificare la progressività dell’imposizione fiscale in base al reddito tenendo in
considerazione gli effetti della variazione delle aliquote marginali sull’offerta di lavoro
individuale e viene avanzata la proposta di ridurre l’aliquota di imposta marginale sui
redditi medio-bassi aumentandola ai livelli molto elevati e accompagnando questa
riforma fiscale con l’introduzione di un livello di reddito minimo garantito.
3.3.2 Il credito di imposta per le spese di cura
Recentemente è stata avanzata una proposta che, pur avendo formalmente natura di
incentivo fiscale, va considerata più propriamente come un sussidio alle spese di cura (di
tipo childcare). Del Boca e Boeri [2007] propongono l’introduzione di un credito di
imposta, per le famiglie con un reddito inferiore ad una soglia e aventi familiari a carico,
che copra il 70% delle spese sostenute e documentate per la cura dei familiari, stabilendo
un tetto massimo per la copertura delle stesse e, al fine di incentivare la distribuzione del
lavoro non pagato nella coppia, legato all’attività lavorativa (anche part-time) di entrambi i
coniugi. Nel caso in cui non si superi il reddito minimo imponibile la proposta prevede
un trasferimento (imposta negativa o franchigia qualora si introducesse il reddito minimo
garantito). I costi di questa misura dipendono chiaramente dalla soglia di reddito che
viene scelta 17. L’introduzione di un credito di imposta con queste caratteristiche dovrebbe
incentivare l’occupazione femminile anche se il suo effetto dipende sia dal livello della
soglia di reddito stabilita che dalle aliquote di imposta sui redditi. L’ampliamento dei
servizi di cura e la necessità di documentare le spese sostenute potrebbero poi avere un
effetto positivo sull’occupazione regolare e ampliare la platea dei contribuenti.
“Il divario tra le coppie ricche, insieme di reddito e di lavoro, e quelle povere sia di reddito che di lavoro
aumenterebbe. I costi per il bilancio pubblico della detassazione del reddito da lavoro della insegnante
moglie del professionista (con o senza figli) sarebbero pagati dalle tasse più alte dell’operaio metalmeccanico
in una coppia monoreddito, magari con figli” [Saraceno 2007a].
17 Secondo gli autori, ponendo la soglia a 10 mila euro annui per un genitore single e circoscrivendo la
misura alle famiglie con figli di meno di 3 anni si otterrebbe che il 2% delle famiglie italiane ne potrebbero
beneficiare. Ipotizzando che il credito sia mediamente di 1.500 euro si ottiene un costo intorno ai 700
milioni di euro all’anno. In una prima articolazione della proposta gli autori, fra le varie possibili fonti di
finanziamento, indicano l’utilizzo del Fondo nazionale per la non autosufficienza; proposta di finanziamento
criticata da Saraceno [2007a] sia in base alla stessa incertezza della presenza della fonte di finanziamento nel
medio periodo che in base all’importanza delle finalità che il fondo ha e della necessità di trovare, per queste,
finanziamenti aggiuntivi.
16
12
Offerta di lavoro e occupazione femminile
3.3.3 Il quoziente familiare
Sono state avanzate diverse proposte di introduzione di un quoziente familiare 18 In
generale l’introduzione di un quoziente familiare prevede la somma dei redditi individuali
tassando i redditi sulla base di un’imposta familiare. La somma dei redditi dei componenti
il nucleo familiare viene divisa per un quoziente che rappresenta e pesa i suoi
componenti. L’imposta viene calcolata sul reddito pro-capite che risulta da questo
rapporto, quindi moltiplicata per il denominatore al fine di ottenere l’imposta familiare
complessiva. Le proposte presentate si differenziano per il peso attribuito ai membri del
nucleo familiare nel calcolo del reddito pro-capite, per l’introduzione di soglie di reddito
oltre al quale non applicare il quoziente (anticipando quindi preoccupazioni in merito agli
effetti redistributivi regressivi della proposta stessa).
Il riportare l’unità impositiva al livello familiare dal punto di vista di genere presenta
l’aspetto negativo di disincentivare l’occupazione regolare dei componenti del nucleo
familiare con redditi più bassi che, data la presenza di differenziali salariali a svantaggio
delle donne, si traduce di fatto in un disincentivo all’offerta di lavoro femminile 19. Inoltre
l’analisi degli effetti redistributivi del quoziente familiare mostra come tale proposta tenda
a ridurre la progressività dell’imposta avvantaggiando maggiormente i nuclei familiari con
redditi alti e medio-alti20. Si può poi criticare l’ipotesi di fondo implicita nel considerare la
famiglia come unità impositiva ovvero che vi sia un’unità familiare il cui benessere, nella
definizione delle scelte di allocazione delle risorse, avvenga sempre nel rispetto del
benessere dei suoi componenti con coincidenza delle funzioni di utilità individuali con
quella familiare. Tuttavia la letteratura economica e socio logica induce ad essere per lo
meno cauti nell’introduzione di una simile ipotesi 21.
Altre critiche alla proposta del quoziente familiare sono riferibili ai costi
amministrativi e organizzativi riconducibili al cambiamento dell’unità impositiva. I costi
amministrativi e organizzativi connessi all’implementazione di questa proposta vanno
dall’individuazione del nucleo di riferimento (con l’insorgere anche di un rischio morale
legato alla definizione di nuclei familiari difformi dall’effettivo nucleo a fini di vantaggi nel
calcolo di imposta) ad un aumento del carico di adempimenti per il sostituto di imposta e
dei costi di gestione e controllo da parte degli uffici finanziari e dei costi per la
compilazione delle dichiarazioni 22.
3.4 Le politiche italiane di conciliazione
Il banco di prova per l’Italia dell’assunzione degli orientamenti comunitari in materia
di conciliazione è la Legge 53 del 2000 che prevede misure di incentivazione della
conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, da valorizzare in quanto strumenti di
Per un’analisi critica delle proposte recentemente avanzate in Italia si veda De Vincenti e Paladini [2007].
Questo aspetto negativo della proposta è stato sottolineato dalla letteratura (si vedano, ad esempio, Chiuri e
del Boca [2005], Cavalli e Fiorio [2006], Leonardi e Fiorio [2007], De Vincenti e Paladini [2007], Del Boca e
Boeri [2007]).
20 Chiuri e Del Boca [2005]; De Vincenti e Paladini [2007].
21 Per un’analisi dei modelli teorici che abbandonano tale ipotesi nell’analisi dell’offerta di lavoro si veda Del
Boca [2001], Chiuri e Del Boca [2007] richiamano l’attenzione sulla debolezza di questa ipotesi con
riferimento alla proposta di introduzione del quoziente familiare.
22 Questi costi sono ben sintetizzati da Martone [2007].
18
19
13
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
progettazione sperimentale di un mutamento sociale che consiste nel trasferire una parte
del carico dell’eguaglianza tra uomini e donne e l’integrazione di queste ultime nel
mercato del lavoro.
La norma e relativo decreto attuativo, infatti, considerano come soggetti beneficiari
delle azioni di conciliazione previste, sia lavoratrici che lavoratori.
Un breve riesame delle misure di conciliazione che la legge prevede può aiutare da un
lato, a circoscrivere e, dall’altro, ad individuare gli oggetti da indagare per verificarne il
grado di attuazione.
Due sono quelle sulle quali ci si sofferma: i congedi parentali e gli interventi relativi
alla introduzione di elementi di flessibilità nell’organizzazione del lavoro. Il terzo
fondamentale elemento di una politica di conciliazione è l’offerta di servizi di cura,
specificamente per figli piccoli (0-3 anni).
Più in generale, per quanto riguarda la spesa pubblica in politiche familiari,
sappiamo23 che la sua incidenza sul PIL è in Italia solo dello 0,9% ben al di sotto della
media dell’unione Europea, pari al 2,3% - dati Oecd Fig. 1). A tale proposito va
evidenziato che il Ministero per le politiche della famiglia ha finanziato, nel 2006, un
Piano straordinario per i servizi socio-educativi nella prima infanzia, incluso un sistema
integrato di asili nido e nuovi servizi territoriali, anche nei luoghi di lavoro, con uno
stanziamento di 300 milioni di euro nel triennio 2007-2009, con l’obiettivo di portare il
tasso di copertura al 15%24. A ciò si aggiungono le misure previste nella finanziaria 2007
che prevedono uno stanziamento di 210 milioni di euro per l’anno 2007 e di 180 milioni
di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009 a favore del Fondo nazionale delle politiche
per la famiglia che si aggiungono alla dotazione iniziale di 13 milioni di euro.
Fig. 1 - Incidenza della spesa in politiche familiari sul PIL nel 2003
Notes:
- Public support accounted here only concerns public support that is exclusively for families (e.g. child payments and allowances, parental
leave benefits and childcare support). Spending recorded in other social policy areas as health and housing support). Spending recorded in
other social policy areas as health and housing support also assists families, but not exclusively, and is not included here.
- Oecd-24 excludes Greece, Hungary, Luxembourg, Poland, Switzerland and Turkey where Tax spending data are not available.
Fonte: Social Expenditure Database (www.oecd.org/els/social/expenditure).
23
24
Fonte Ministero per le politiche della Famiglia, Istituto degli Innocenti ed OCSE.
Piano straordinario dei servizi per la prima infanzia, promosso dal Ministero delle politiche per la famiglia.
14
Offerta di lavoro e occupazione femminile
3.4.1 Congedi parentali
A distanza di sette anni dall’entrata in vigore della normativa che prevede
l’utilizzazione di congedi parentali, come misura volta alla valorizzazione del ruolo
genitoriale, nella cura dei figli e della famiglia, non in alternativa all’attività lavorativa, i
dati INPS relativi evidenziano non solo lo scarso utilizzo della misura ma anche, ancora, il
persistere della tradizionale divisione dei ruoli che vuole la donna responsabile unica delle
cure familiari.
I dati, infatti, ci dicono che solo il 24% delle madri che lavorano hanno usufruito del
congedo parentale nei primi 3 anni di vita del bambino, che meno del 10% li ha utilizzati
dopo il terzo anno di vita del figlio e solo il 3% degli uomini aventi diritto.
Se, da un lato, si può ancora ritenere che la scarsa conoscenza sia la causa del
mancato ricorso, a distanza di sette anni dall’entrata in vigore della legge, forse è
necessario cominciare a pensare che siano altri i fattori che impediscono a tale legge di
decollare.
In realtà, i congedi parentali, così come previsto dalla nostra normativa, offrono un
livello di indennità che non è in grado di compensare la riduzione di reddito che
determinano. Se il basso reddito del lavoro femminile fa propendere le madri
eventualmente verso l’abbandono del lavoro, il basso indennizzo dei congedi induce i
padri (mediamente percettori di redditi superiori rispetto alle madri) a non usufruirne.
È in questo crinale che si deve collocare, in affiancamento a misure direttamente
incidenti sul lavoro, l’urgenza di definire nuove strategie in grado di incentivare il
segmento femminile della popolazione ad accedere nel mercato del lavoro e,
contemporaneamente, a supportarle nei compiti di cura. Questo è l’ambito di intervento
di un welfare sociale in grado di coniugare occupazione, produttività, competitività, equità
e benessere sociale.
Le difficoltà di accesso delle donne al mercato del lavoro continuano ad essere dovute
anche all’inadeguatezza delle attuali politiche a sostegno della genitorialità e della famiglia.
Esse sono determinate principalmente dalla scarsa cultura e dalla ridotta sensibilità
dimostrata dai soggetti istituzionali, centrali e locali, che stentano, da un lato, a presidiare i
processi di sviluppo economico assicurando la piena cittadinanza delle donne in essi e,
dall’altro, a riconoscere le problematiche di accesso al mercato del lavoro espresse dal
segmento maschile e da quello femminile. Il riconoscimento di tali diversità consentirebbe
l’adozione di soluzioni mirate sia in termini di mainstreaming (integrazione della dimensione
di genere in tutte le azioni politiche), sia in termini di azioni positive e di sostegno (servizi
di informazione, orientamento, formazione, conciliazione).
Si può affermare, dunque, che le donne italiane sono poco “attive” e coinvolte ancora
in modo marginale nella vita economico-produttiva soprattutto perché:
I.
condizionate da vincoli culturali che le portano a rinunciare a una realizzazione
lavorativa e a evitare il ricorso ai servizi di cura per l’infanzia. Tali
condizionamenti culturali agiscono prevalentemente sulle donne con bassi titoli
di studio e residenti nelle aree del Mezzogiorno;
II.
non supportate, a livello locale, da una programmazione che assuma come
priorità l’attivazione di servizi di conciliazione che facilitino e rendano più sereno
il loro ingresso nel mercato del lavoro.
15
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
3.4.2 Servizi di cura per l’infanzia
In Italia l’offerta dei servizi di cura per l’infanzia è carente rispetto ad altre realtà
europee e, laddove è presente, scarsamente e qualitativamente inadeguata: la percentuale
di accoglienza è pari all'11,4% e varia dal 5% della Regione Puglia al 27,1% della Regione
Emilia Romagna; la situazione è molto diversificata a seconda del territorio di riferimento,
e nell’arco di tre anni dovrebbe essere raggiunto l’obiettivo di portare il tasso di copertura
ad oltre il 15%25. Siamo molto lontani dal quel 33% che l’Europa ci chiede di raggiungere
entro il 2010 (Tav. 4).
Tavola 4 - Copertura territoriale dei servizi per la prima infanzia
Regioni
Piemonte
Valle d'Aosta
Popolazione 0-3 anni
(Istat 31/12/2004)*
110.345
Utenti
(Istat 2004)**
Valore assoluto
14.731
%
13,3
3.424
1.936
56,5
269.863
41.108
15,2
Provincia di Bolzano
15.926
1.841
11,6
Provincia di Trento
15.484
2.019
13,0
135.298
14.416
10,7
Friuli
29.648
2.775
9,4
Liguria
35.414
5.558
15,7
Lombardia
Veneto
Emilia Romagna
110.310
29.856
27,1
Toscana
91.048
21.450
23,6
Umbria
22.094
2.948
13,3
Marche
39.372
9.034
22,9
151.513
13.793
9,1
32.762
2.198
6,7
Lazio
Abruzzo
Molise
7.659
246
3,2
Campania
192.442
3.349
1,7
Puglia
119.249
5.937
5,0
Basilicata
15.895
815
5,1
Calabria
55.583
1.156
2,1
152.331
9.196
6,0
39.665
3.962
10,0
1.645.325
188.324
11,4
Sicilia
Sardegna
Totale
* Popolazione residente in età 0-3 anni (fino al compimento del terzo anno di età) al 31 dicembre 2004
** Bambini in età fino al compimento dei tre anni che hanno usufruito del servizio di asilo nido o servizio integrativo nel
corso del 2004
Fonte: Istat
Tale inadeguatezza deriva da:
§ incapacità delle strutture esistenti di interpretare e soddisfare i reali bisogni
dell’utenza con un’offerta di servizi quantitativamente e qualitativamente
adeguati. In Italia c’è una forte concentrazione nel segmento degli asili nido
caratterizzata da ridotta flessibilità di orari e di copertura temporale, non in linea
con le moderne esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori; inoltre gestioni
25
Piano straordinario dei servizi per la prima infanzia, promosso dal Ministero delle Politiche per la famiglia.
16
Offerta di lavoro e occupazione femminile
scarsamente imprenditoriali sono spesso causa di un basso livello qualitativo dei
servizi;
§ barriere di tipo culturale che, soprattutto in alcuni contesti territoriali, spingono le
donne ad utilizzare questi servizi come “ultima spiaggia” senza cogliere le
potenzialità che essi esprimono in chiave pedagogica ed educativa per i bambini
in termini di acquisizione di capacità relazionali e di stimoli alla crescita
psicologica; per far fronte all’impossibilità di occuparsi in prima persona della
cura dei figli, si ricorre prevalentemente alla rete familiare, non contribuendo in
tal modo a stimolare l’offerta di servizi in questo settore;
§ alto costo che la famiglia deve sostenere in caso di utilizzo di strutture private che
contribuisce a limitare il ricorso alle stesse. Dall’indagine effettuata
dall’Osservatorio prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva la spesa media annua per
poter mantenere un bambino presso un asilo nido comunale (calcolata su 10 mesi
di frequenza) per il 2006/07 ammontava a circa 3.000 euro;
§ un quadro di sintesi può essere dato da una recente indagine dell’ISTAT (Essere
madri 2007) dalla quale si evidenzia che le famiglie non utilizzano gli asili nido
perché troppo costosi (28,4%); per mancanza di posti (27,0%); perché non
disponibili nella zona di abitazione o inesistenti (20,9%) o perché hanno orari
troppo rigidi (9,7%).
La situazione italiana è, dunque, caratterizzata non solo da una offerta insufficiente,
ma anche da una domanda e una offerta di servizi di cura che stentano ad incontrarsi.
3.4.3 Flessibilità nell’organizzazione del lavoro.
La sperimentazione di forme di sostegno all’ingresso e alla permanenza di donne nel
mercato del lavoro si dovrebbe collocare in un contesto nel quale maturi la
consapevolezza dell’estrema importanza delle regole contrattuali nella definizione delle
strategie di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro.
Infatti non sono pochi i giuristi e le giuriste, studiosi delle problematiche connesse al
nesso stretto tra condizioni di vita e sistemi di regolazione del rapporto di lavoro, che
ritengono ormai ineludibile la necessità di ricostruire modelli regolativi riconducibili alla
contrattazione collettiva, in quanto questa potrebbe rappresentare uno dei principali
strumenti attuativi delle politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, in grado di
dare una forma precisa e un’altrettanto precisa sistemazione coordinata ai diversi
strumenti di conciliazione.
In particolare, il contratto collettivo decentrato potrebbe rappresentare, in effetti, il
filtro normativo ed organizzativo più vicino ed immediato tra dimensione lavorativa e
dimensione privata del lavoratore e della lavoratrice, nella promozione, implementazione
ed attuazione di misure quali:
- interventi sugli orari e sui tempi di lavoro e di non lavoro (congedi, modulazioni di
orario, banca delle ore, ecc.);
- servizi di cura e assistenza forniti ai lavoratori e alle lavoratrici (mense, nidi aziendali);
- interventi sul reddito;
- interventi regolativi relativi alle tipologie dei contratti di lavoro.
17
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Si tratta di differenti linee di intervento riconducibili all’articolazione temporale della
prestazione di lavoro, ai servizi alla persona e a forme di intervento economiche o di
sostegno comunque denominate.
Tale esigenza nasce dalla considerazione che le politiche di conciliazione, oramai, non
hanno solo natura pubblica, anche se essa rimane centrale nella loro progettazione ed
elaborazione; anche i privati (nelle relazioni contrattuali, individuali e/o collettive)
possono concorrere alla loro elaborazione e alla loro attuazione.
Ci si riferisce, in particolare, alle organizzazioni sindacali e alle organizzazioni di
categoria, cui devono sommarsi i soggetti rappresentativi delle diverse articolazioni
territoriali come Regioni, Province e Comuni.
Risultano utili, ai fini del nostro ragionamento, alcune, brevi, considerazioni
sull’andamento dell’attuazione della normativa nazionale vigente, che avrebbe dovuto
consentire l’implementazione di tali misure di conciliazione e cioè, l’ex art. 9 della legge
53/2000.
Un micro bilancio dell’attuazione della normativa in oggetto, a sei anni dall’andata a
regime, non è lusinghiero; sono ancora pochissime le proposte di progetti presentate, con
una quasi assenza delle regioni meridionali, sono molto pochi i progetti finanziati che
riguardano, prevalentemente, la riorganizzazione degli orari di lavoro.
L’assenza di dati di monitoraggio relativi all’attuazione del disposto legislativo, certi e
disponibili, obbliga a fare riferimento esclusivamente a studi di caso, dai quali si ricavano
i seguenti elementi. O non si contratta un progetto di conciliazione perché le parti sociali
non hanno ancora inquadrato il problema o non sanno come affrontarlo, oppure, non si
contratta un progetto di conciliazione perché le imprese non sono disponibili a ripensare
l’organizzazione del lavoro orientata anche al soddisfacimento delle esigenze personali
e/o del benessere di chi vi lavora, in primo luogo delle donne.
Da queste premesse si possono trarre due conclusioni diverse ma, fondamentalmente,
compatibili. La prima è che i finanziamenti dei progetti possono apparire insufficienti o,
addirittura, irrilevanti per avviare pratiche riorganizzative di tale portata; la seconda è che
se le pratiche avviate (riduzione di orari, congedi particolari, modulazioni temporali
ampie) sono parziali ed estemporanee, possono risultare controproducenti, ovvero
possono produrre effetti discriminatori e/o segreganti per chi vi fa ricorso; smentendo in
tal modo gli obiettivi che la legge si prefigge. Su questi dati asfittici non possono certo
fondarsi mirabili conclusioni se non che il risultato applicativo dell’art. 9 della legge è
sicuramente al di sotto delle meno rosee previsioni.
Tra gli strumenti che la legge promuove emerge il part-time reversibile e, comunque,
ritenuto adatto a soddisfare le esigenze delle persone (si dice, prevalentemente delle
donne) che lavorano in quanto genitori. Esso rappresenta lo strumento di flessibilità
decisamente più diffuso, per una sempre più alta percentuale di donne che vi ricorrono,
ma rientra pur sempre nel modello standard di occupazione. In realtà, la formula del parttime riduce il numero delle ore lavorate nella settimana ma non necessariamente
introduce elementi di flessibilità del lavoro. Di contro una maggiore flessibilità delle ore di
lavoro potrebbe aiutare le imprese a cambiare la struttura del lavoro.
E d’altronde, una maggiore diffusione del part-time per le donne non riduce il
bisogno di servizi di cura per l’infanzia, adeguati sia per quantità che per qualità, in
quanto comunque lavorare per il mercato significa ridurre le ore di lavoro non pagato,
tenuto conto di come si configura oggi il lavoro in famiglia.
18
Offerta di lavoro e occupazione femminile
4. Un’analisi dell’efficacia delle politiche
L’Oecd ha pubblicato nel 2004 un rapporto26, basato su di una estesa ricerca condotta
in 17 paesi tra il 1985 e il 199927. La ricerca analizza l’impatto di tre diverse politiche volte
ad aumentare la partecipazione delle donne al lavoro (e non rivolte alla domanda di
lavoro), di cui le prime due basate sull’incremento della disponibilità di reddito, e l’ultima
sulla disponibilità di tempo per le donne. Le politiche analizzate, che consentono anche di
estrapolare alcune indicazioni per il nostro Paese sono:
a. il regime fiscale riservato ai redditi delle donne che lavorano,
b. i sussidi per i servizi di cura per i bambini e i congedi parentali,
c. l’offerta di orari di lavoro flessibili ed in particolare di lavori part-time.
Il rapporto conclude che solo un mix di queste tre politiche e il loro utilizzo mirato
può contribuire all’effetto desiderato, cioè all’aumento del tasso di partecipazione delle
donne al lavoro.
4.1
Politiche fiscali
Il rapporto Oecd riflette sul fatto che in quasi tutti i paesi esaminati il secondo reddito
familiare è tassato maggiormente dell’equivalente reddito di un singolo, il che disincentiva
il secondo percipiente, (di solito la donna) dall’entrare nel mercato del lavoro. In Italia
questa differenza può andare dal 40% di tassazione in più, nel caso in cui il secondo
reddito sia pari al primo, al 60% nel caso in cui esso valga due terzi del reddito
principale 28 (Tav 5). Ciò avviene anche nei paesi, come l’Italia, nei quali non esiste, ai fini
fiscali, il cumulo dei redditi. La ragione di ciò risiede nel fatto che se il secondo membro
della famiglia lavora, si perde il corrispondente “assegno familiare” che spetta al primo
percettore di reddito, quando egli sia anche l’unico. Inoltre si perdono alcuni vantaggi
legati al test dei mezzi di accesso (in Italia, ad esempio, l’esenzione dai tickets sanitari,
l’accesso alle case popolari, la riduzione delle rette per i nidi e le mense scolastiche).
Questa situazione è stata corretta in alcuni paesi, e l’Oecd suggerisce un meccanismo
che renda la tassazione del secondo reddito più neutrale rispetto alla condizione della
donna (in coppia o single).
4.2
Sussidi per i servizi di cura
Diversi Paesi sussidiano le spese che le famiglie sostengono per acquistare sul
mercato i servizi per la cura dei figli (childcare subsidies).Tra questi i più generosi sono la
Danimarca, la Norvegia e la Svezia, mentre in questi paesi sono relativamente bassi i
cosiddetti child benefits, cioè i sussidi legati alla sola presenza dei figli che invece sono alti in
Austria e Belgio.
Oecd Economics Department, Female Labour Force Participation: Past Trends and Main Determinants in Oecd
Countries, May 2004.
27 Jaumotte F. [2003], “Female Labour Force participation: past trends and main determinants in Oecd
countries”, Oecd Economics Department Working Papers, No 376.
28 Oecd, cit Tav. 6, pag. 6.
26
19
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Anche se la ricerca non prende in esame esplicitamente il livello dei sussidi finalizzati
all’acquisto dei servizi di cura, pubblici e privati, ma solo l’ammontare della spesa pubblica
per tali servizi, essa mostra una forte evidenza del rapporto positivo tra spesa pubblica
per i servizi di cura per l’infanzia e tasso di partecipazione femminile. Com’è noto, questa
spesa varia molto nei diversi paesi e in Italia essa è particolarmente bassa. Il grafico
riportato in Jaumotte [2003] mostra che tra tutte le politiche essa è quella più fortemente
correlata con il tasso di partecipazione femminile al lavoro, seguita, più o meno a pari
merito, dalla tassazione relativa del secondo reddito, dall’offerta di sussidi per i bambini e
dai congedi parentali29 (Fig. 2). Anche un altro schema della stessa ricerca 30 mostra questa
situazione per i principali paesi esaminati (tra i quali non compare l’Italia). Infatti l’offerta
di servizi di cura per l’infanzia spiega l’alta partecipazione femminile in quattro paesi:
Svezia, Finlandia, Danimarca e Francia e in misura minore in Germania e Austria (Fig. 3).
Va inoltre considerato che, secondo l’Oecd, l’offerta di servizi di cura incentiva più il
ricorso al full time che al part-time, il che sembra indicare che la sua mancanza incide di
più sull’offerta di lavoro full time che su quello part-time, e che quindi esso può essere
considerato un efficace strumento di conciliazione 31.
Jaumotte [2003], cit., Fig.8, pag.75.
Idem, Fig. 9, pag 81.
31 Oecd, pag. 9.
29
30
20
Offerta di lavoro e occupazione femminile
Tavola 5 –
Comparazione della pressione fiscale per le persone sole e i secondi percettori, 2000-2001
Fonte: Jaumotte, Tav.4.
21
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Figura 2 – Correlazioni semplici tra la partecipazione delle donne in età 25-54 anni alle forze di lavoro e alcune variabili,
ultimi anni disponibili
Fonte: Jaumotte (2003), fig.11.
22
Offerta di lavoro e occupazione femminile
Figura 3 – Contributo delle variabili esplicative alla partecipazione femminile, 1999
(Percentuale di deviazione della partecipazione femminile dalla media Oecd)
23
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
24
Offerta di lavoro e occupazione femminile
Fonte: Jaumotte [2003], fig.13.
25
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Il rapporto evidenzia che gli assegni finalizzati alla cura dei figli, sia nella forma di
sussidi diretti sia nella forma di crediti di imposta incentivano la partecipazione delle
donne al lavoro nella misura in cui riducono il costo della cura stessa, e possono in certa
misura compensare la distorsione eventualmente introdotta dalla tassazione non neutrale
del secondo salario. Addirittura la completa copertura delle spese di cura potrebbe
portare ad un aumento del 10% nel tasso di partecipazione 32. Tuttavia, anche questo
strumento può rivelarsi inefficace in presenza di una struttura troppo compressa dei salari
delle donne. In questo caso, infatti, può avvenire che il salario dell’agente di cura, o il
costo del servizio di cura, sia non troppo lontano, o addirittura superiore a quello della
madre, che quindi potrebbe essere disincentivata dall’utilizzare questo strumento per
tornare al lavoro.
La correlazione positiva tra una generosa offerta di sussidi per la cura dei figli e la più
elevata partecipazione delle donne al lavoro va posta in relazione soprattutto all’offerta di
nidi, mentre non sembra esservi correlazione nei paesi esaminati tra la spesa pubblica per
la scuola dell’infanzia (pre-elementare) e il tasso di partecipazione femminile al lavoro. Ciò
può essere spiegato dalla circostanza che anche le madri casalinghe mandano i bambini
alla scuola dell’infanzia, per scopi educativi e di socializzazione, mentre non li mandano al
nido.
4.3 Politiche di sostegno alla famiglia
In alcuni paesi vengono erogati sussidi legati alla sola presenza dei figli (child benefits).
Questi assegni, non esplicitamente finalizzati a coprire le spese per la loro cura,
costituiscono sostanzialmente un trasferimento diretto per il mantenimento dei bambini,
e in questo senso hanno come obiettivo quello di ridurre la povertà infantile e di
promuovere l’equità tra famiglie in diverse condizioni economiche. Nella media dei paesi
esaminati tali trasferimenti aumenterebbero il reddito delle famiglie del 7,5%, ma in Italia
solo del 5%33. Tuttavia, da un punto di vista dell’incentivo alla partecipazione delle donne
al lavoro, non vi è una correlazione così alta come avviene per i sussidi alle spese di cura.
La ricerca conclude che essi risultano controproducenti, perfino rispetto al lavoro parttime. In effetti, è proprio per le donne che lavorano part-time, e che spesso hanno redditi
bassi, che l’assegno per i bambini può essere percepito come una alternativa più
favorevole rispetto all’ingresso al lavoro. Di conseguenza, conclude l’Oecd, se l’obiettivo
è l’aumento della partecipazione femminile al lavoro, l’assegno per la cura è preferibile a
quello legato soltanto alla presenza dei figli.
4.4
Diversi modelli di intervento
Sulla base del mix di politiche adottate, l’Oecd classifica i diversi paesi in tre gruppi34:
a.
paesi dove vi è un alto livello di sussidi per le spese di cura, un basso livello di
part-time e tassazione favorevole al secondo reddito. In questo gruppo che
comprende paesi come la maggior parte di quelli scandinavi, la Francia e in
Blau and Hagy [1998], cit. in Jaumotte [2003].
Jaumotte, cit. Fig.3 pag 64.
34 Oecd, cit. Pag 12.
32
33
26
Offerta di lavoro e occupazione femminile
b.
c.
4.5
misura minore l’Austria, il livello di partecipazione femminile al lavoro supera
l’80%.
paesi nei quali vi è un basso livello di sussidi per la cura e un alto ricorso al parttime. Tra questi compaiono altri paesi nordici e quelli del Pacifico. Il tasso di
partecipazione varia dall’80% della Svizzera al 65% dell’Irlanda e Giappone.
paesi nei quali vi è un basso livello di sussidi per la cura e un basso ricorso al
part-time. In questo gruppo si trovano tutti gli altri paesi esaminati (compresa
evidentemente l’Italia), e il loro livello di partecipazione varia molto, andando
da quasi l’80% del Canada, degli Stati Uniti, del Portogallo e della Repubblica
Ceca, fino ai livelli inferiori al 60% negli altri paesi.
Simulazione degli effetti delle politiche di incentivazione
L’Oecd, al termine del suo rapporto, simula gli effetti che potrebbero avere, nei
diversi paesi, le diverse politiche di incentivazione del lavoro femminile prima analizzate 35.
Attuando una più neutrale tassazione del secondo reddito, l’Italia (insieme alla Repubblica
Ceca, all’Irlanda e alla Spagna), potrebbe guadagnare tra 6 e 8 punti percentuali nel tasso
di partecipazione. Nel secondo degli altri scenari presi in considerazione, relativo ad un
aumento dei sussidi per le spese di cura, l’Italia non è citata, mentre nel terzo scenario,
relativo alla incentivazione della suddivisione del lavoro e del reddito tra i due partners
della coppia, l’Italia potrebbe guadagnare tra 2 e 4 punti di aumento del tasso di
partecipazione.
Infine il nostro Paese non è citato nello scenario cumulativo, nel quale venissero
attuate le tre diverse politiche (tassazione neutrale del secondo reddito, alto incentivo a
suddividere il reddito e un aumento della spesa per i sussidi alle spese di cura), che
porterebbe ad un aumento del tasso di partecipazione femminile di circa 10 punti nella
media OCSE. Da esso risulta tuttavia che mentre i paesi nordici potrebbero guadagnare
3 o 4 punti e quelli dell’Europa centrale fino a 10 punti, paesi come la Francia e l’Olanda
(12 punti percentuali) o la Spagna (fino a 20 punti) vedrebbero cambiare profondamente
la loro offerta di lavoro femminile.
Le conclusioni alle quali giunge la ricerca sono assai chiare e possono essere così
riassunte:
1)
Una più neutrale tassazione del secondo reddito incentiva le donne al rientro nel
mercato del lavoro.
2)
I sussidi legati alla presenza dei figli generano un incremento del reddito che
riduce la propensione delle donne al lavoro, soprattutto del lavoro part-time. Sono
invece più efficaci i sussidi per le spese di cura dei figli, che diventano
particolarmente efficaci nel caso in cui la tassazione del secondo reddito non sia
neutrale oppure nel caso di salari delle madri così bassi da non consentire l’acquisto
di servizi di cura sul mercato.
3)
Per essere efficaci i sussidi per la cura dei figli andrebbero non solo condizionati
al lavoro (anche part-time) delle madri ma anche indirizzati alle madri meno
qualificate, per le quali la decisione di lavorare è più problematica.
35
Oecd cit., Fig. 4, pag 15.
27
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
4)
I congedi parentali sono una politica di conciliazione efficace e rafforzano
l’attaccamento della donna al proprio lavoro, purché non si prolunghino oltre una
certa durata (indicativamente 20 settimane), dopodiché possono diventare uno
strumento di marginalizzazione delle donne sul posto di lavoro.
5)
Un sistema di welfare per la cura dei figli inadeguato penalizza maggiormente la
ricerca del lavoro full time che di quello part-time. Inoltre la penalizzazione
maggiore avviene per la mancanza di asili nido più che per quella di scuola
dell’infanzia (3-6 anni).
6)
Aumentare l’offerta di lavori part-time tende ad accrescere l’offerta di lavoro
femminile, anche se in misura diversa nei diversi paesi (i paesi scandinavi e quelli
del sud Europa mostrano una minore preferenza per questo strumento). Tuttavia,
il part-time quando è accompagnato da bassi salari e bassa protezione sociale
finisce con il penalizzare le donne che lo scelgono. Di conseguenza le politiche
andrebbero orientate a garantire al part-time la stessa qualità di protezione del
lavoro full time.
4.6 Le altre determinanti dell’offerta di lavoro femminile
La ricerca mette comunque in luce che, oltre alle politiche specifiche rivolte
all’obiettivo di aumentare l’offerta di lavoro femminile, vi sono almeno altre tre
determinanti che possono influenzarla in maniera marcata:
§ lo stato del mercato del lavoro e segnatamente il livello di disoccupazione
maschile e femminile;
§ il livello di istruzione delle donne;
§ gli aspetti culturali specifici di ciascun paese.
La prima determinante, oltre all’ovvia considerazione che un mercato del lavoro ben
funzionante, che quindi riduce la disoccupazione, favorisce le donne, mostra anche
un’influenza inversa, nel senso che ad una elevata disoccupazione maschile può
corrispondere una più elevata offerta di lavoro femminile, per ovvii motivi di
sopravvivenza del nucleo familiare.
Il livello di istruzione, infine, come mostrano molte ricerche 36, incide fortemente
sull’offerta di lavoro da parte delle donne, essendo massima in quelle molto istruite.
Tuttavia si scontra anch’esso con il problema della conciliazione, soprattutto in termini di
tempo disponibile.
4.6.1 Bonus bebè o bonus mamma lavoratrice?
Infine gli atteggiamenti culturali hanno anch’essi un’influenza, nella misura in cui
consentono oppure impediscono ad una donna di considerare un valore positivo la sua
partecipazione al lavoro per il mercato e non la penalizzano socialmente per il presunto
abbandono educativo dei figli. Da questo punto di vista vanno attentamente considerati
quegli atteggiamenti e quelle politiche che tendono a privilegiare la condizione della
famiglia su quella della donna nella famiglia.
36
Si veda ad esempio Jaumotte, cit., Fig.9, pag. 82.
28
Offerta di lavoro e occupazione femminile
Come osservano Del Boca e Boeri 37, a proposito del credito di imposta per le spese
di cura da essi suggerito: “E’ utile anche per rafforzare il potere contrattuale delle donne
nella famiglia ponendole nella condizione di imporre agli altri familiari di poter lavorare
acquistando sul mercato servizi specializzati di cura. E di poterlo fare anche se non sono
sposate, anche quando non convivono con un altro adulto generatore di reddito. E’ un
modo per aiutare la famiglia senza imporre il fatto di avere un famiglia. Proprio perché
non si impone alla donna di doversi da sola prendere carico dell’intera famiglia”.
E’ evidente che questo tipo di politica presuppone anche una politica che aiuti a
superare gli stereotipi culturali presenti in molte donne e uomini, stereotipi che si vanno
spontaneamente attenuando nelle coppie più acculturate 38.
5. La necessità di un cambiamento culturale e politico
Prima di avanzare alcune proposte ricavate dalla esperienza di altri paesi è opportuno
riflettere su alcune considerazioni.
1) E’ necessario interrogarsi sulle ragioni del ritardo del nostro paese rispetto al
problema del basso tasso di lavoro femminile. Queste ragioni possono rinvenirsi
non solo nella sottovalutazione del valore economico e sociale del problema, ma
anche nella scarsità e frammentazione delle politiche messe in atto, che hanno
finora investito soltanto alcuni aspetti della questione (sostanzialmente attraverso
l’introduzione, peraltro timida, del part-time e dei congedi parentali). La
conciliazione tra vita lavorativa e familiare tocca, invece, innumerevoli aspetti della
vita delle persone, ed in particolare delle donne, sia in quanto cittadine ovvero
componenti di una collettività che esprime valori condivisi, sia in quanto soggetti
economici, e dunque, confrontati con il mercato del lavoro e più in generale con il
sistema economico.
Di conseguenza tutte le politiche generali sono chiamate in causa: da quelle culturali
a quelle dello sviluppo economico, territoriale ed ambientale, da quelle sociali a
quelle del lavoro, a quelle fiscali. Marina Piazza giustamente osserva che se non si fa
di questo problema il centro di una serie di politiche coordinate non si raggiungono
i risultati voluti. A suo giudizio una strategia integrata, un “patto sociale di
conciliazione” dovrebbe fondarsi su tre sistemi: “Il primo sistema è rappresentato
dai singoli individui- donne e uomini- considerati nella pluralità delle loro scelte,
relazioni e bisogni familiari. Quindi le politiche devono andare nella direzione di
aumentare la condivisione del lavoro familiare tra uomini e donne (….). Il secondo
sistema coinvolge aziende e luoghi di lavoro con i loro sistemi di orari più o meno
rigidi. Quindi le politiche aziendali devono andare nel senso di una maggiore
flessibilità che risponda non solo alle esigenze delle aziende, ma anche a quelle degli
uomini e delle donne che vi lavorano e con sistemi di supporto che liberino tempo
(nidi, asili, mense, ecc.)(….). Il terzo sistema coinvolge la città e il territorio
circostante, con il complesso dei servizi erogati dal pubblico, dal privato e dal non
37
38
Del Boca D. e Boeri T. Chi lavora in famiglia?; Adapt, cit.
Cfr. anche Zayczik F. La resistibile ascesa delle donne, 2007.
29
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
profit, con i trasporti per la mobilità, ecc. Quindi le politiche devono andare nella
maggiore concertazione possibile guidata dal soggetto pubblico”39.
E’ quindi evidente che gli interventi dovrebbero avere carattere di sistema e fondarsi
su di una ampia e condivisa percezione del problema e delle sue soluzioni. Stato ed
Enti locali, aziende e terzo settore, sistema formativo e comunicativo40, forze sociali,
associazionismo e rappresentanza delle donne dovrebbero essere gli attori di un
vasto processo di innovazione politica e culturale che ponga al centro di diverse
politiche l’abilitazione delle donne a realizzarsi nel lavoro.
2) Molti degli interventi indicati comportano un ricorso alla spesa pubblica. E’
evidente però dall’esperienza di altri paesi che questa va considerata come un
investimento e non come una spesa improduttiva, poiché è potenzialmente in grado
di attivare quel circolo virtuoso di crescita dell’indotto, del gettito fiscale, un
maggior consumo, risparmio e investimento delle famiglie. Inoltre non tutti i costi
degli interventi devono necessariamente essere a carico dello Stato o degli enti
locali. Aziende e terzo settore possono giocare un ruolo importante nell’attivare il
circolo virtuoso (si veda più avanti l’esperienza francese).
3) Le politiche mirate ad incentivare l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro si
inquadrano in quel nuovo concetto di “welfare incentivante” che si va consolidando
in tutti i paesi avanzati, e che consiste nel mettere le persone in grado di
autosostenersi, rimuovendo i vincoli alla loro partecipazione attiva al lavoro e quindi
al benessere proprio e dell’intera società.
4) Infine, ma non meno importante, è evidente che qualunque politica mirante ad
incentivare l’offerta di lavoro femminile può risultare inefficace in presenza di una
domanda di lavoro molto debole. Ciò sembra accadere in particolare nel
Mezzogiorno, dove una diffusa disoccupazione ha creato il noto fenomeno di
“scoraggiamento”, cioè di rinuncia, da parte delle donne ad una ricerca attiva di un
lavoro. Solo delle politiche economiche più generali, miranti a rivitalizzare il tessuto
economico di questa parte del Paese, potranno rendere efficaci anche le politiche di
conciliazione che qui sono state descritte.
5.1 Le proposte
A fronte di una grande diversificazione dei bisogni e delle domande di conciliazione,
c’è necessità di mettere in campo un complesso di politiche in grado di offrire risposte
articolate e flessibili, capaci di corrispondere ad esigenze che si differenziano a seconda
del ciclo di vita lavorativa e di relazione che le persone attraversano.
Le proposte che possono essere avanzate per il nostro paese si fondano
sull’esperienza degli altri paesi, sintetizzata nella citata documentazione.
1) Una grande redistribuzione di risorse verso il welfare e la creazione di servizi. Se al primo
posto nella correlazione positiva con l’offerta di lavoro femminile vi è la spesa
Piazza M. L’isola che non c’è, Trento, 2007.
A questo proposito sia consentito citare, a mo’ di piccola nota di costume, l’attenzione che a questo
problema pone l’azienda svedese IKEA. Nelle sue pagine pubblicitarie si possono vedere non solo padri che
cucinano e che si occupano dei bambini, ma anche madri che lavorano al computer mentre il figlio maschio
adolescente prepara il cibo per la famiglia. Si tratta di piccoli segnali che testimoniano però una cultura non
ancora presente nel nostro Paese, nel quale le attività domestiche mostrate nella pubblicità sono svolte, quasi
senza eccezione, da giovani donne.
39
40
30
Offerta di lavoro e occupazione femminile
pubblica per i servizi di cura è evidente che questa dovrebbe essere la prima scelta
politica. Si può tranquillamente affermare che se vi è una correlazione tra offerta di
lavoro femminile e crescita economica allora è evidente che una ripresa della
crescita in Italia passa per un massiccio investimento nel welfare e nel sistema dei
servizi, in particolare per un’offerta di servizi per l’infanzia, e non solo per essa,
con caratteristiche di qualità, capillare distribuzione sul territorio e flessibilità di
orari. Ferrera cita41 come esempio di innesco di circolo virtuoso l’iniziativa
francese, in cui lo Stato promuove la creazione di una serie di servizi di sostegno
non economico alle famiglie, servizi di mercato offerti da individui, piccole
aziende e cooperative, che sollevano le donne non solo dal lavoro di cura ma
anche da quello, non meno gravoso, di gestione della casa e della famiglia. Tali
servizi, che secondo l’autore hanno creato in Francia circa 500.000 nuovi posti di
lavoro dal 2005, vanno da quelli più strettamente associati al lavoro di cura
(assistenza ai bambini e agli anziani) fino alla gestione e sorveglianza della casa,
bricolage e piccole riparazioni, piccole commissioni, fino alla assistenza contabile
e informatica. Lo Stato garantisce la qualità e l’accessibilità, sia economica sia
fisica a tali servizi (ciò può avvenire attraverso la definizione di livelli minimi di
prestazione e relative linee guida). Il pagamento avviene con cheques facilmente
reperibili in molti punti vendita e, ciò che più conta, le spese sostenute, purché
documentate, sono deducibili dall’imposta sul reddito per il 50% (e l’IVA per i
prestatori è anch’essa ridotta al 5,5,%). Di questo “piano”, che è a basso costo per
lo Stato, va sottolineato proprio il carattere sistemico, che ha comportato, tra le
altre cose, misure di modifica del mercato del lavoro e dei suoi meccanismi di
pagamento, nonché elaborazione di criteri di qualità e affidabilità delle
prestazioni 42.
2) Il secondo asse sul quale agire è quello di rendere questi servizi realmente accessibili a tutte
le donne e quindi consentire sia una detassazione del suo costo (credito di imposta)
sia l’eventuale erogazione di sussidi finalizzati alle spese di cura. Va notato che,
benché ambedue impegnative sul piano della finanza pubblica, le proposte 1) e 2)
non possono essere alternative: sussidi o detassazione senza la corrispondente
offerta di servizi risulterebbero inefficaci. Sulla base delle valutazioni Oecd, sembra
si possa affermare che la proposta del credito di imposta per le spese di cura sia
quella che presenta maggiori elementi di equità di genere e sociale, oltre a
presentarsi come la più semplice da introdurre e la meno costosa da gestire in
relazione al nostro sistema fiscale. Tale misura pare la più efficace perché
immediatamente percepibili e più facilmente valutabili sono gli effetti diretti sulle
persone ed indiretti sulle famiglie e l’occupazione femminile.
3) Un aumento dell’offerta di flessibilità degli orari di lavoro è necessario per la conciliazione.
Va sottolineato il carattere di flessibilità (e non di sola riduzione dell’orario di
lavoro) che deve essere assicurato per venire incontro alle esigenze di lavoratori e
lavoratrici con carichi familiari Per quanto riguarda il part-time, che dovrebbe
comunque essere reversibile, il citato rapporto di valutazione indica che l’offerta di
41 Ferrera
M., cit., pag. 34 e dello stesso autore, si veda l’articolo “La Francia dà l’esempio: 500mila posti”, in
Corriere della Sera, 11 giugno 2008.
42 In Italia alcune esperienze di questo genere (albo delle puericultrici e delle badanti, elenco dei nidi
accreditati, ecc.) sono state attivate in regioni come il Friuli-Venezia Giulia e l’Emilia-Romagna, e in singole
città, ma non sono ancora politiche generalizzate.
31
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
questa tipologia di impiego è incentivante per le donne, se ad esso vengono
assicurate le stesse garanzie di quello a full time.
4) L’ istituzione di congedi di paternità, di durata congrua (15 giorni), a retribuzione
intera e soprattutto considerato come un diritto soggettivo del padre e non, come
attualmente, derivato da quello della madre, può contribuire ad incentivare una
maggior suddivisione del lavoro di cura nella coppia.
5) Una più neutrale tassazione del secondo reddito, obiettivo che può essere raggiunto ad
esempio misurando il test dei mezzi di accesso sul salario della donna della coppia,
(come avviene per le donne single), visto che su di essa ricadrebbe il peso del
mancato accesso facilitato ai servizi di cura.
6) Una maggior integrazione delle politiche di sostegno alla famiglia con quelle di sostegno alla
donna nella famiglia. Il quoziente familiare, così come i sussidi legati alla sola
presenza di figli, andrebbero modulati tenendo conto anche della presenza o
meno della madre lavoratrice.
5.2 Mirare le politiche alle diverse esigenze delle donne
Come si evince dal rapporto Reyneri di questo sottogruppo, esiste una segmentazione
dell’offerta di lavoro femminile, in particolare sulla base del titolo di studio ma anche della
localizzazione geografica, che va attentamente considerata nella impostazione e
valutazione delle politiche di incentivazione e conciliazione. Sembra, infatti, che a fronte
di una fascia di donne di elevata scolarità e quindi molto propense al lavoro anche full
time, in quanto desiderose di valorizzare il proprio capitale umano, vi è all’estremo
opposto una fascia di donne di bassa scolarità per le quali il lavoro, anche a tempo pieno,
è una necessità inderogabile a causa della mancanza del partner, della sua disoccupazione
o del suo basso reddito. In mezzo vi è una fascia di donne di media-bassa scolarità per le
quali la scelta se lavorare o meno è oggetto di continua valutazione e negoziazione con se
stesse e con la famiglia, in relazione alle tipologie di lavoro che esse trovano e alle
relative opportunità, di reddito e di tempo, che queste consentono.
Di conseguenza, mentre gli strumenti di conciliazione, e in particolare l’offerta di
servizi per la cura di buona qualità e flessibilità oraria, devono essere offerti a tutte le
donne, quelli di incentivazione andrebbero mirati alle donne sulle quali essi possono
effettivamente agire.
Si può schematicamente dire che:
§ alle donne della prima fascia (scolarità e reddito alto, lavoro full time) occorre
offrire soprattutto strumenti di conciliazione che liberino il tempo, nella forma di
sussidi o credito di imposta per i servizi di cura, oltre naturalmente all’offerta dei
servizi stessi con caratteristiche di continuità e flessibilità di orari, mentre non
sembrano necessarie politiche generiche di incremento del reddito;
§ alle donne della fascia intermedia occorrono strumenti di incentivazione, nella
forma di part-time, servizi di cura e relativi sussidi o credito di imposta;
§ alle donne della terza fascia (bassa scolarità e basso reddito) occorrerebbe offrire
strumenti di sostegno economico oltre che di conciliazione, come sussidi più
elevati, legati al lavoro extradomestico, ma in progressione inversa al reddito che
esse possono ricavare dal lavoro, fino eventualmente alla copertura totale di tali
costi per le madri a basso reddito e lavori full time.
32
Offerta di lavoro e occupazione femminile
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35
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Allegato: Due esperienze europee: Regno unito e Francia
REGNO UNITO
Il caso del Child Tax Credit e del Working Tax Credit
Un contributo importante alla riflessione sulle proposte in atto in Italia può pervenire
dall’esame di esperienze straniere significative in tema di politiche fiscali e redditi familiari.
A tal fine si è selezionato il caso inglese perché presenta un sistema articolato di misure
fiscali rivolto a sostenere tanto le famiglie quanto l’occupazione femminile.
Il caso inglese dei Tax Credits, esplicitamente rivolti a sostenere il costo dei servizi di
cura delle famiglie e dei lavoratori, presenta elementi di interesse legati agli obiettivi ed alla
strategia utilizzati (riconoscimento delle spese per i servizi di cura ma anche incentivo al
lavoro), alla portata della misura di carattere generale, in grado di raggiungere un’ ampia
parte della popolazione, infine perché, trattandosi di una misura a regime, ad essa sono
riferite alcune prime valutazioni.
Nel Regno Unito il Child Tax Credit (CTC) e il Working Tax Credit (WTC) sono stati
introdotti nell’aprile 2003, nel quadro di un ampio processo di riforma del welfare operata
dal governo laburista a partire dal 1997, per affrontare i vasti problemi legati alla
disoccupazione ed al disagio sociale rilanciando il lavoro. E’ interessante sottolineare che
la strategia degli interventi di riforma operati è stata indirizzata a sostenere comunque il
lavoro, dove ad esempio la concessione di aiuti ed indennità è stata legata alla
partecipazione di programmi (New Deals) o all’esercizio di un lavoro (misure work/hours
related), e facendo attenzione affinché il regime di aiuto non inficiasse la convenienza a
lavorare, secondo il principio di “rendere il lavoro più conveniente del welfare”. In questo
senso, ad esempio, il sostegno, operato nel Working Tax Credit alle spese di cura dei
genitori che lavorano, è finalizzato tra l’altro a rendere comunque conveniente il lavoro
femminile anche in presenza di bassi salari.
I Tax Credits in esame costituiscono la principale forma di intervento a sostegno delle
famiglie e dei bambini e sono di fatto indennità, trasferimenti finanziari alle famiglie che
comprendono il sostegno delle spese di cura.
Il Child Tax Credit supporta in generale le persone che hanno figli, mentre il Working
Tax Credit costituisce una misura rivolta ai lavoratori per il sostengo dei bassi salari, che
prevede uno specifico elemento (childcare element) per il rimborso delle spese di cura
sostenute dai genitori che lavorano.
Child Tax credit
Il Child Tax Credit supporta le famiglie con bambini, indipendentemente dal fatto che i
genitori lavorino. E’ importante sottolineare che tra gli obiettivi del governo inglese a
sostegno delle famiglie con bambini, vi era anche quello di intervenire con riferimento al
vasto problema della povertà infantile, che interessava al momento dell’avvio delle
riforme un grande numero di famiglie inglesi.
Possono fare richiesta del Child Tax Credit le famiglie o le coppie43 o le persone
responsabili di almeno un bambino (da 1 a 16 anni) o di un giovane (generalmente una
Da notare che le coppie che possono fare richiesta della Child Tax Credit sono le coppie sposate, le coppie
conviventi, le coppie in regime di civil-partnership (unioni/patti civili) ovvero le coppie omosessuali.
Ricordiamo che l’istituzione dei civil-partnership risale al 2004, ma è divenuta operativa dal 2005.
1
36
Offerta di lavoro e occupazione femminile
persona ancora in formazione, comunque non oltre i 20 anni di età). Il Child Tax Credit
costituisce un’indennità corrisposta direttamente alla persona che si occupa in via
principale del bambino, normalmente la madre, ma può essere anche persona diversa da
un genitore purché essa abbia la responsabilità in via principale del bambino. Si può
scegliere tra un pagamento settimanale o mensile. L’indennità è pagata direttamente
presso il conto bancario o altra istituzione che accetti pagamenti diretti (building society
account). L’ammontare del Child Tax Credit varia al variare di alcuni fattori quali il numero
dei bambini o dei giovani a carico, l’eventuale presenza di un disabile, il livello di reddito.
Con riferimento al reddito, possono fare richiesta del Child Tax Credit le famiglie che
hanno un reddito massimo di 58.178 sterline annue; il reddito massimo è aumentato fino
a 66.350 nel caso di un bambino al di sotto di un anno, per effetto di un ulteriore
elemento detto baby-element 44. Se la persona è single o separata in via definitiva, le
condizioni di accesso alla misura, tra cui il reddito, vengono riferite alla situazione
personale.
L’indennità/pagamento è decrescente all’aumentare del reddito e si compone di due
elementi:
una componente famiglia pagata a ciascuna famiglia con almeno un bambino e che
può arrivare fino a £ 1.845 (valore indicato per l’anno 2007/2008);
una componente connessa al bambino per ciascun bambino della famiglia, che può
arrivare fino a £1.845 (sempre relativamente all’anno 2007/2008).
Il Child Tax Credit è corrisposto indipendentemente dal fatto che il genitore lavori o
meno. Esso si somma al Child Benefit 45 che costituisce l’altra principale forma di
trasferimento finanziario rivolta ai genitori; inoltre se i genitori lavorano essi possono
ricevere il contributo del Working Tax Credit e quello relativo al suo “elemento bambino”
(v. in seguito).
Working Tax Credit
Il Working Tax Credit costituisce un esempio più articolato di intervento: esso sostituisce la
precedente misura del Working Families Tax Credit (introdotta nel 1999, con l’obiettivo di
sostenere le famiglie a basso reddito con bambini) ed estende per la prima volta il sistema
dei Tax Credits anche ai lavoratori senza figli. La misura è rivolta alle persone che lavorano
e sostiene i bassi salari; contiene due extra benefit collegati alla disabilità (presenza di una
persona disabile in famiglia o disabilità del lavoratore) e alla responsabilità di uno o più
bambini o giovani, per i quali si sostengono spese di cura (childcare element).
Possono fare richiesta del Working Tax Credit tutti i lavoratori che hanno almeno 25
anni e che lavorano per almeno 30 ore alla settimana. Per i genitori o le coppie o i
responsabili per uno o più bambini o per un giovane a carico, i disabili, lavoratori over 50,
le condizioni di accesso alla misura sono più favorevoli relativamente all’età ed alle ore di
lavoro richieste 46.
I valori indicati si riferiscono all’annualità 2007/2008 (v. in proposito www.directgov.uk)
Il Child Benefit, in pratica un assegno familiare, è un benefit non collegato al reddito e riconosciuto per ogni
figlio fino al 16° anno di età. E’ corrisposto alla persona che si occupa in via principale del bambino,
normalmente la madre che può farne richiesta dopo la nascita del bambino.
4 In particolare: in caso di disabilità che costituisca uno svantaggio per il lavoro è sufficiente avere almeno 16
anni e lavorare almeno 16 ore alla settimana; se si hanno più di 50 anni e si rientra al lavoro dopo un periodo
di indennità è sufficiente avere almeno 16 ore di lavoro alla settimana; se si è responsabili di un bambino è
sufficiente avere almeno 16 anni e un lavoro di almeno 16 ore alla settimana.
2
3
37
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
L’ammontare dell’indennità dipende da vari fattori relativi al reddito, alle ore lavorate,
alla presenza di un coniuge a carico o lavoratore, alla presenza e al numero dei figli, alla
presenza di un disabile, all’entità delle spese per i servizi di cura.
Per quanto riguarda il reddito viene preso in considerazione il reddito familiare (della
coppia che fa richiesta), mentre per le persone singole o separate le condizioni di accesso
alla misura si riferiscono alle condizioni personali. Vi è un reddito massimo consentito
per accedere alla misura di 58.178 sterline annue (il reddito massimo è aumentato a
66.350 nel caso vi sia responsabilità di un bambino al di sotto di un anno, baby-element) ma
bisogna considerare che l’indennità corrisposta decresce al crescere del reddito familiare.
Il pagamento del Working Tax Credit è fatto direttamente al lavoratore in busta paga o
presso un conto bancario.
I genitori che lavorano e che rientrano nelle condizioni di accesso previste dalla
misura, possono fare richiesta dell’elemento bambino, se sostengono spese di cura. La
misura è connessa al lavoro, poiché è previsto che per ricevere tale indennità entrambe i
partners della coppia lavorino almeno 16 ore alla settimana. Non è così, nel senso che
non è richiesto che il secondo partner lavori, quando esso sia invalido o quando vi sia
presenza di un disabile.
Esempi di calcolo delle indennità per l’anno 2007/2008 (v. www.direct.government.uk)
WORKING TAX CREDIT – ELEMENTI
IMPORTO MASSIMO DOVUTO - ANNUALITA’
2007/2008
Elemento base pagato a ciascun avente diritto a ricevere la
working tax credit
£ 1.730
Elemento secondo adulto
£ 1.700
Elemento “genitore solo”
£ 1.700
Elemento pagabile con 30 ore di lavoro settimanale (uno o più
figli)
£ 705
£ 2.310
Elemento disabile
Elemento disabilità grave
Elemento per i lavoratori over 50 che ritornano al lavoro dopo
un periodo di indennità
Childcare element , per il quale si possono ricevere fino all’80%
dei costi eleggibili per i servizi di cura riconosciuti
£
980
£ 1.185 (in caso di lavoro dalle 16 alle 29 ore per
settimana)
£ 1.770 (lavoro per 30 ore a settimana)
£ 175 costi massimi eleggibili per settimana per un
bambino
£ 300 costi massimi eleggibili settimanali per due o
più bambini
38
Offerta di lavoro e occupazione femminile
Reddito lordo annuale
congiunto (£)
Child Tax Credit (£)
Un bambino
Due bambini
Tre bambini
Senza lavoro
2.390
4.240
6.090
5.000
47
2.390
4.240
6.090
8.000
48
2.390
4.240
6.090
10.000
2.390
4.240
6.090
15.000
2.205
4.055
5.900
20.000
545
2.205
4.050
25.000
545
545
2.200
30.000
545
545
545
35.000
545
545
545
40.000
545
545
545
45.000
545
545
545
50.000
545
545
545
55.000
210
210
210
60.000
-
-
-
Fonte: http://www.hmrc.gov.uk/leaflets/wtc1.pdf
Il childcare element rimborsa l’80% dei costi delle spese sostenute e riconosciute ma ha
un tetto massimo settimanale. Da notare che le spese riconosciute e rimborsabili, sono
determinate da regolamenti nazionali o locali e che comprendono un’ampia gamma di
servizi (vi è una lista di servizi di childcare in riferimento ai vari territori).
Il pagamento dell’elemento bambino del Working Tax Credit è dato direttamente al
principale responsabile del bambino nella famiglia, unitamente al Child Tax Credit.
Si presume che le persone con redditi annuali fino a £ 5.000 siano lavoratori part-time (tra le 16 e le 30 ore
settimanali).
6 Nelle famiglie con un reddito annuale superiore a £ 8.611, si presume che almeno un adulto lavori 30 o più
ore alla settimana.
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39
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
FRANCIA
La ricerca si è focalizzata sugli strumenti di flessibilità e/o di conciliazione
riconosciuti e rintracciati sul sito del governo francese.
Il sito è costantemente aggiornato, contiene una banca dati di tutti i provvedimenti
attivi, ogni informazione è corredata dalla data di inserimento. Tutto ciò offre al
ricercatore la tranquillità di risultati certi.
L’ambito di ricerca assai vasto, data la numerosità delle politiche dalle quali dipende la
conciliazione vita familiare-lavoro, ha consigliato l’individuazione e l’uso di parole-chiave
quale guida nel mare dei provvedimenti, almeno in potenza, interessanti.
Queste sono state identificate in: servizi per l’infanzia, congedi dal lavoro,
sussidi/premi, inserimento/reinserimento al lavoro, conciliazione, flessibilità.
Il risultato è stato confrontato con Oecd 2006, Starting strong II, Early childhood
education and care, che, alle pagg. 325 e segg. illustra il contesto sociale, normativo e
strutturale della Francia.
Dal Diritto del lavoro (Guide pratique du droit du travail):
Congedi e assenze del lavoratore dipendente
Congedo di paternità: un lavoratore può chiedere di beneficiare di un congedo
indennizzato della durata da 11 a 18 giorni di calendario. La medesima indennità è
prevista per i padri in cerca di lavoro o per gli stagers della formazione professionale.
Durante il congedo il lavoro è sospeso ed il salario non è erogato. Al rientro il lavoratore
deve trovare il suo precedente posto di lavoro o posto simile con una remunerazione
almeno equivalente.
Congedo di solidarietà familiare: permette a tutti i salariati di assentarsi per assistere
un familiare malato grave. (ndr: è definito “familiare” un ascendente, un discendente, una
persona che ne condivida il domicilio) Ha una durata massima di 3 mesi, rinnovabile una
sola volta. Con l’accordo del datore di lavoro, può essere trasformato in lavoro a tempo
parziale. Il periodo di tale congedo è conteggiato nella determinazione dei diritti legati
all’anzianità.
Congedo di sostegno familiare: introdotto nel 2006 dalla legge “de financement de la
Securitè sociale pour 2007”, si rivolge ai salariati con un’anzianità di lavoro minima
nell’impresa di due anni. Non remunerato, ha una durata di 3 mesi, può essere rinnovato
ma non può superare l’anno nella carriera lavorativa di una persona. Può essere utilizzato
per assistere un familiare (vedi sopra per la definizione), non remunerato dal datore di
lavoro ma la persona che ne usufruisce può essere “impiegato” dalla persona che ne
usufruisce, come previsto dal Code de l’action sociale et des families (informazioni ulteriori e
più dettagliate sul modo di utilizzo possono essere trovate nel sito delle caisses d’allocations
familiales. Prima dell’uscita e prima del reingresso il lavoratore ha diritto ad un incontro di
orientamento professionale con il datore di lavoro.
Congedo parentale d’educazione: per la nascita o l’adozione di un figlio
lavoratrici/tori dipendenti, con almeno un anno di anzianità nell’impresa, possono
beneficiare di un congedo (durata totale massima di 3 anni) che permette di interrompere
o di ridurre l’attività professionale. Nel primo caso (interruzione), il contratto di lavoro è
sospeso; nel secondo caso, il part-time deve essere uguale ad almeno 16 ore settimanali.
Sono la/il lavoratrice/tore che decide la durata mentre è con il datore di lavoro che deve
essere convenuta la ripartizione. In mancanza di accordo, decide il direttore dell’impiego.
40
Offerta di lavoro e occupazione femminile
Al finanziamento del congedo può provvedere l’interessato/a con il suo compte epargne
temps (CET, una sorta di salvadanaio alimentato con retribuzioni non utilizzate o somme
diverse derivanti da accordi collettivi) o, se ricorrono le condizioni, con il complement de
libre choix d’activitè (vedi sotto)
Congedo per bambino malato: senza condizioni particolari di anzianità lavorativa
(possono usufruirne anche quanti in cerca di lavoro, può essere utilizzato per curare un
bambino malato. 3 giorni per anno, in generale, che diventano 5 se il bambino ha meno di
un anno o se sono 3 i bambini di cui si ha cura. Ma, se la malattia o l’incidente o
l’handicap sono di particolare gravità, il congedo diventa di presenza parentale e, quindi,
più lungo e usabile al bisogno (non deve, cioè, essere continuativo).
Incitamento (sostegno) alla ripresa di attività
Interessamento alla ripresa di attività dei beneficiari di indennità del regime di
solidarietà (cumulo dei redditi con le indennità o premi forfettari): le persone in cerca di
lavoro che percepiscono come indennità un sostegno economico di solidarietà specifico,
possono cumulare, per un determinato periodo e a certe condizioni, l’indennità con il
reddito dell’attività ripresa. Per talune attività, i titolari dell’indennità beneficiano di un
premio mensile
Aiuto alla ripresa di attività delle donne (ARAF): è un aiuto per la cura dell’infanzia
destinata alle madri alla ricerca di lavoro. Possono usufruirne donne all’avvio o alla ripresa
del lavoro, che creano impresa o che sono in formazione, quale sostegno finanziario per
far fronte ai costi generati dalla cura dei bambini. Il dispositivo è normato in modo molto
circostanziato ma, qualora non siano in possesso dei requisiti richiesti, le donne in
difficoltà possono rivolgersi all’ANPE perché sono possibili deroghe alle regole.
L’ammontare dell’indennità differisce in base alle varie situazioni: per un bambino
inferiore a 6 anni che vada a scuola, l’ammontare è uguale a 305 €, a 460 € se uno dei
bambini non è scolarizzato.
Il premio di ritorno all’impiego: un premio di 1.000 € può essere erogato ai beneficiari
dell’indennità di solidarietà specifica (ASS), del reddito minimo di inserimento (RMI) o
dell’indennità di genitore solo (API). Tale premio non è soggetto a tassazione e la data del
versamento è correlata al tipo di inserimento realizzato: dopo 4 mesi di attività
professionale, dopo un mese se il tipo di inserimento è un contratto di lavoro.
Il premio per l’impiego (PPE): è un aiuto per il ritorno all’impiego e al mantenimento
dell’attività professionale. È concesso alle persone che esercitano un’attività professionale
salariata o non salariata, a determinate condizioni di risorse; l’ammontare è calcolato in
percentuale del reddito dell’attività. È dedotta dalle imposte sul reddito o versato
direttamente al beneficiario se non è soggetto ad imposta. Per il premio versato nel 2008,
il reddito 2007 sottoposto a tassazione non doveva superare i 16.251 € per i redditi
individuali e i 32.498 € per i redditi cumulati.
Il salario minimo di crescita (SMIC, diverso dal RMI): è il salario orario al di sotto del
quale è vietato remunerare un salariato, qualunque sia la tipologia della sua
remunerazione. Questo garantisce ai lavoratori, il cui salario è più debole, la garanzia del
potere d’acquisto. Per il 2008 è fissato in 1.308,88 € lordi mensili per un orario di lavoro
di 35 ore settimanali.
41
Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
PAJE – prestazioni di accoglienza dei bambini
I Diversi Servizi di Cura
Per i bambini di meno di 6 anni sono previsti diversi modi di cura:
§ una modalità di accoglienza collettiva
§ una modalità di accoglienza individuale
§ una riduzione o una sospensione dell’attività professionale dei genitori
finalizzata alla cura dei bambini
§ servizio minimo di accoglienza degli allievi in periodo di scioperi
Premio alla nascita o all’adozione (anche per le coppie di fatto, preferenze per
famiglie monoparentali, monoreddito o con più bambini fino a 3, dal 4° il reddito
aggiuntivo ammesso decresce). L’ammontare del premio è di Euro 863,79 per i figli
naturali e di Euro 1.727,59 per i bambini adottati o in affidamento preliminare
all’adozione.
Sussidio di base per bambini a carico di meno di 3 anni o figli adottivi di meno di 20:
Visite mediche obbligatorie a) entro i primi 8 giorni; b) da 9 giorni a 10 mesi; c) dal 24° al
25° mese. Preferenze per famiglie monoparentali, coppie di fatto, alto numero di figli,
redditi bassi. Ammontare € 172,77 mensili a famiglia. Durata: dalla nascita al mese
precedente al compimento del 3° anno di età. Moltiplicabile per parti gemellari.
Cumulabile con il Sussidio giornaliero di presenza parentale e con il Sussidio di sostegno
familiare ma no n con il Complement familial. Il Sussidio di base è automatico per chi ha
beneficiato del Premio alla nascita o all’adozione.
Il complemento di libera scelta di attività (CLCA) e il Complemento facoltativo di
libera scelta di attività (COLCA): Condizioni per accedere: avere almeno un figlio
naturale, adottato o in affidamento; essere o avere un congiunto disoccupato di ritorno o
esercitare un’attività lavorativa a tempo parziale per potersi dedicare alla cura dei bambini.
Se i bambini sono almeno 3 si ha la possibilità di scelta fra CLCA e COLCA (Complement
Optional, facoltativo) che è un sussidio di maggiore importo per un periodo più corto. La
scelta è definitiva e non revocabile. I beneficiari del CLCA non devono ricevere il
COLCA; nessuna pensione, neanche d’invalidità; neppure indennità giornaliere di
malattia, maternità, paternità e d’infortunio sul lavoro o di disoccupazione. L’ammontare,
a partire dal 31/12/08, nel caso non si lavori più per niente, è di € 363,27 al mese se si
percepisce il Sussidio di base del Paje (Prestazioni di accoglienza dei bambini), e di €
536,03 se non lo si percepisce. Nel caso si sia salariati a tempo parziale e si percepisca il
sussidio di base del Paje, il sussidio CLCA è di € 234,83 mensili se il tempo di lavoro è
inferiore al 50%. Se non si percepisce il Sussidio di base del Paje, l’ammontare sale a €
407,60 mensili sempre per un tempo di lavoro <50%. La durata dei versamenti varia in
funzione del numero dei figli: se uno, dalla nascita, dall’adozione, dall’affidamento o dalla
fine del congedo di maternità o paternità fino al mese prima del compimento del 3° anno
di età; se i figli sono più di uno tra i termini di partenza dei versamenti si aggiungono
quelli relativi alla cessazione dell’attività e l’inizio dell’attività a tempo ridotto.
Cumulabilità consentite: 2 indennità per 2 attività a tempo parziale se della coppia fino ad
un ammontare intero per una cessazione completa di attività;
Il Complemento di libera scelta del modo di cura: previsto per i bambini di meno di 6
anni di età, nati, adottati o in affidamento, dal 2004, in favore delle famiglie che hanno
una badante apposita (assistante maternelle agrèe) o una garde a domicile. Se salariati, i
beneficiari devono avere un reddito minimo di € 377,86 se vivono soli e di € 755,72 se in
42
Offerta di lavoro e occupazione femminile
coppia; se non salariati devono essere in regola con i versamenti previdenziali. Sono
esentati dal minimo di reddito i beneficiari di sussidi e adulti handicappati, i disoccupati e
i beneficiari di sussidi d’ingresso, o di sussidi di solidaritè specifique; i beneficiari di reddito
minimo d’ingresso o di sussidio di genitore unico se titolari di contratto di lavoro o
d’ingresso, iscritti all’ANPE come soggetti in cerca di lavoro o in formazione remunerata.
Il salario lordo giornaliero della badante non deve superare gli € 43,15 e il datore di lavoro
non deve beneficiare dell’esonero dal versamento dei contributi sociali per il personale
che occupa. Il beneficio consiste nella presa in carico pubblica di parte del salario della
badante e varia secondo il reddito del datore di lavoro e l’età dei bambini. Resta a carico
del datore di lavoro un minimo ineliminabile di almeno il 15% del salario della badante.
Nel caso della Assistente maternelle agrèe, il carico pubblico è commisurato al numero di
bambini affidati alla cura; nel caso di Garde à domicile è a forfait a prescindere dal numero
di bambini.
Presa in carico del CAF dei contributi sociali: totale per le Assistentes maternelles agregèes;
50% per la garde a domicili con il limite di € 402 mensili per i bambini fino a 3 anni e di €
201 per i bambini da 3 a 6 anni. Possibilità di cumulo con alcune condizioni.
Garde d’enfant per bambini che hanno genitori lavoratori con orari sfasati. Iniziativa del
SDFE – Service des Droits des Femme set de l’Egalité, che tende ad assicurare la cura
continuativa dei bambini. Il servizio è offerto a domicilio dove non ci siano altri servizi
classici (nidi, asili, scuole, ecc.) ed è assicurato alla totalità dei soggetti cosa che allarga la
fascia di età dei bambini affidati in cura.
Obiettivi/condizioni: articolare e coordinare meglio le politiche familiari e quelle
occupazionali, rispondere adattivamente alle esigenze del territorio, rispettare il benessere
dei bambini e le condizioni di lavoro dei dipendenti.
Sussidio educativo parentale (APE – Allocation Parentale d’Education).
Nel 2002, 550.000 famiglie beneficiano di APE di cui 500.000 a titolo di base per il 1°
figlio e il restante per il 2° figlio. Nel 1994 è intervenuta una riforma che allarga le
condizioni di fruibilità di APE alle famiglie con un 2° figlio di meno di 3 anni.
Una ricerca condotta per gli anni dal 1993 al 2002 dimostra come il tasso di attività e
il tasso di qualificazione delle donne in età fra i 20 e i 49 anni di età sia costantemente
cresciuto. L’allargamento di APE al 2° figlio ha avuto tuttavia un impatto negativo
sull’attività lavorativa delle donne il cui tasso è passato, nel periodo considerato, dal 70%
al 55% cosicché, alla fine, più di 20 punti separavano i tassi di attività delle donne con 1
solo figlio da quelle con 2 figli. A fruire di APE allargata al 2° figlio sono state soprattutto
le donne giovani e meno qualificate. Per queste donne, fasce deboli sul mercato del
lavoro, l’utilizzo di APE allargata ha comportato una diminuzione del tasso di
disoccupazione dall’11% al 5%. In genere, il rientro al lavoro dopo il compimento del 3°
anno di età del 2° figlio comporta l’accettazione forzata di lavori meno qualificati, a
tempo parziale e a termine.
Il servizio minimo di accoglienza in periodi di scioperi (SMA) è risultato di un
accordo fra lo stato e 1900 comuni volontari per accogliere i bambini durante le ore
normali di insegnamento. L’obbligo di accoglienza esiste già per i collegi ed i licei ma non
per le scuole materne ed elementari.I sindaci sono liberi di scegliere se predisporre uno
SMA o no in caso di sciopero. I comuni che avranno provveduto riceveranno un
rimborso pari a 90 € per gruppo da 1 a 15 bambini con le risorse che provengono dai
salari delle persone in sciopero.
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Il lavoro che cambia
Contributi tematici e Raccomandazioni
Indennità/aiuti (diverse da quelle riportate sopra)
ARE: aiuto per il ritorno all’impiego,
ASS: indennità di solidarietà specifica per le persone in cerca di lavoro,
API: indennità per genitori singoli,
RMI: reddito minimo di inserimento.
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Offerta di lavoro e occupazione femminile
Hanno assicurato una collaborazione tecnica, scientifica ed organizzativa:
Alessandra Righi (Istat)
Le opinioni espresse nei contributi rimangono di esclusiva responsabilità degli autori.
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Le politiche per favorire l`occupazione femminile