tudio del mese
S
Il Cantico di frate Sole
Fratelli e sorelle
del creato
L
a tradizione francescana situa la composizione del Cantico di frate Sole (conosciuto
anche con il titolo meno preciso di Cantico delle creature) nell’inverno tra il 1224 e
il 1225 o nella primavera successiva (la
strofa sul perdono sarebbe invece stata aggiunta poco dopo, al fine di ottenere la riconciliazione tra il vescovo e il podestà di Assisi). Il Cantico
si colloca, quindi, nella fase estrema della vita del santo,
morto quarantacinquenne nell’ottobre del 1226. Quando
dettò questo suo componimento Francesco era profondamente segnato dalla malattia, e il suo corpo già da quasi due
anni aveva impresse su di sé le stimmate della passione di
Cristo. Inoltre una malattia agli occhi contratta in Oriente
gli procurava dolori atroci, aumentati a dismisura dalla luce
del sole. In quel frangente le creature più che amiche si sarebbero dovute presentare piuttosto come sue nemiche.
Stando alla Vita seconda di Tommaso da Celano (166),
quando il medico venne per cauterizzargli gli occhi, Francesco si rivolse al fuoco chiedendogli di essere gentile nei
suoi confronti e pregò il Signore di temperare il calore e di
essere bruciato con dolcezza.
Sempre secondo la tradizione, il Cantico fu composto
dopo una notte di particolare sofferenze passata in una capanna di frasche a San Damiano. Francesco aveva gli occhi
cauterizzati e fasciati in modo che non vi penetrasse neppure un filo di luce. Radunati i frati, li pregò di ascoltare, di
trascrivere e poi imparare e cantare il nuovo cantico. Non
deve sfuggire la valenza alta del termine. Nella liturgia
«cantico» indica un brano biblico, non contenuto nel Salterio, in cui una persona innalza a Dio preghiere e lodi. Fin
dall’inizio della conversione – avvenuta tra il 1205 e il 1206
– Francesco aveva composto in latino delle lodi in cui le
creature celebravano il loro Creatore; tuttavia è solo verso il
termine della sua vita che questo genere di canto giunge a
essere espresso in volgare; ciò avvenne solo grazie al passaggio attraverso la notte oscura della sofferenza. Le circostanze della composizione sono rivelatrici sia del messaggio sia
del modo in cui fu letta la vita del poverello di Assisi.
In relazione a Francesco la narrazione biografica riveste
un ruolo decisivo: a soli tre anni dalla morte del santo, il suo
confratello Tommaso da Celano aveva già composto la Vita
prima. Questa sollecitudine si collega alla persuasione, diffusasi tra gli stessi contemporanei, che Francesco si presentasse come un «altro Cristo», cioè come la persona che con
più intensità si era identificata con la vita e il «buon annuncio» di Gesù. Non sorprende quindi constatare che le biografie francescane s’ispirino ai Vangeli. Il fatto che una
composizione così potentemente visiva e laudativa come il
Cantico sia stata dettata nell’oscurità e dopo una notte di
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tormento, esclude che essa vada letta come un esempio di
una fruizione estetica della natura. La linfa che vitalizza
tutto il Cantico di frate Sole è una fede nella bontà del Dio
creatore tanto radicata da trovar conferma persino nell’erompere del dolore.
I modelli biblici
Per comprendere il Cantico di frate Sole, accanto a componenti legate alla vita di Francesco, occorre prendere in
considerazione i modelli biblici che aiutano a situarlo in un
preciso contesto spirituale e teologico. I testi di riferimento
sono molteplici: il c. 1 della Genesi, vari salmi (8, 28, 116,
134, 148), il Cantico dei tre fanciulli (Dn 3,51-90), un richiamo alle Beatitudini (Mt 5,1-12), non privo di un riferimento
ai «Guai» (Lc 6,24-25) e corpose allusioni all’Apocalisse:
«Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria,
l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose» (Ap
4,11; cf. Ap 5,12-13). Giovanni Pozzi in riferimento alle
fonti bibliche del Cantico ha evocato l’espressione di collatio
occulta. Che cosa si debba intendere con questa espressione
è detto in modo esemplare da Goffredo di Vinsauf: «Un
trapianto mirabilmente innestato (insita mirifice transsumptio) dove qualcosa prende il suo stato nella trama come
se fosse nata dal tema stesso, eppure è stata presa altrove,
ma sembra essere di là [...] così oscilla dentro e fuori, lontana e vicina remota e presente» (Poetria nova, 250-255). Nel
Cantico di frate Sole, tutto è biblico, ma nessun verso è una
citazione.
Per cogliere l’atteggiamento di Francesco d’Assisi rispetto al creato dobbiamo domandarci fino a che punto nel
mondo, animato e inanimato, sia riscontrabile l’impronta
di Dio. Secondo il suo primo biografo, Tommaso da Celano, Francesco riferiva al loro Creatore tutto ciò che trovava
nelle creature: «Nelle cose belle riconosce la Bellezza somma, e tutto ciò che è buono grida a lui: “Chi ci ha creati è
infinitamente buono”. Attraverso le orme impresse nella
natura, segue ovunque il Diletto e si fa scala di giungere al
suo trono» (Vita seconda, 165).
In modo ancor più intenso e persuasivo rispetto a questo
passo, la semplice lettura del Cantico rafforza questa stessa
convinzione, specie se si tiene conto dell’influsso dei suoi più
pregnanti modelli biblici: il salmo 148 e il Cantico dei tre
fanciulli contenuto nel Libro di Daniele. «Lodate il Signore
dai cieli, / lodatelo nell’alto dei cieli. / Lodatelo, voi tutti,
suoi angeli, /lodatelo, voi tutte, sue schiere. / Lodatelo, sole
e luna, / lodatelo, voi tutte, fulgide stelle (...). / Lodate il Signore dalla terra, / mostri marini e voi tutti, abissi, / fuoco e
grandine, neve e nebbia, / vento di bufera che esegue la sua
parola, / (…) alberi da frutto e voi tutti, cedri, / voi, bestie e
animali domestici, / rettili e uccelli alati» (Sal 148,1-10). E il
Cantico dei tre fanciulli: «Allora quei tre giovani, a una sola
voce, si misero a lodare, a glorificare, a benedire Dio nella
fornace dicendo: (…) “Benedetto il tuo nome glorioso e santo, / degno di lode e di gloria nei secoli. (…) / Benedite, sole
e luna, il Signore, / lodatelo ed esaltatelo nei secoli. / Benedite, stelle del cielo, il Signore, / (...) / Benedite, piogge e
rugiade, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli. / Benedite, o venti tutti, il Signore (...)». (Dn 3,51-90) .
I trasparenti richiami biblici rintracciabili nel Cantico
orientano a intendere il «cum» introduttivo alla lode delle
creature e il «per» presente nelle successive lodi, che scandiscono un inno che giunge a Dio attraverso le creature e a
opera di queste ultime. È estraneo allo spirito del Cantico di
frate Sole immaginare un uomo che loda Dio a motivo dei
vantaggi a lui derivati dalle cose create. Anzi, per certi
aspetti si potrebbe persino affermare che la bontà delle creature, a causa della loro innocenza, è meno ambigua di
quella dell’uomo stesso; infati «nullu homo ène dignu Te
mentovare». Si è perciò davanti a una specie di squilibrio
tra la necessità di lodare, da un lato e, dall’altro, la consapevolezza che l’uomo non è degno di un simile compito. Per
questo, al fine di elevare la propria lode, si cerca quasi un
sostegno nelle creature.
Il Cantico di frate Sole rappresenta un appello universale
a innalzare all’Altissimo, attraverso le creature, la più corale
fra tutte le lodi. Solo alla fine della composizione apparirà
un imperativo rivolto all’uomo, o ancor più probabilmente
ai frati, il quale, però, non va disgiunto dalla presenza di
una nota umile: «Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate / et serviateli cum grande humilitate».
Un nesso cosmico tra fratelli e sorelle
Francesco, comunque, prospetta un legame universale
fra tutte le creature all’insegna della lode universale rivolta
al Signore, che non esita a qualificare come «mio». La più
palese innovazione del Cantico rispetto ai suoi sottotesti biblici sta nel prospettare un nesso cosmico di fratellanza e
sororità. Nella Scrittura è detta, in modo esplicito, la lode;
tuttavia, rispetto al nostro rapporto con le creature, in essa
non ricorre mai l’immagine di fratelli e sorelle.
Il dono primigenio concesso all’essere umano di dar nome alle cose (Gen 2,19) si riflette nella sessualizzazione del
linguaggio in virtù del quale anche il non animato diviene o
maschile o femminile. Il radicamento primordiale del Cantico nell’ambito della letteratura italiana trova riscontro anche in questo rifiuto del neutro. La dualità senza eccezioni
della nostra lingua (ma non del latino: una delle ragioni del
perché il cantico è scritto in volgare?) consente di estendere
A
a tutte le creature inanimate i nomi diretti a indicare la comunità di coloro, frati o suore (e non più monaci), che seguono la regola di vita di Francesco. Anche per questo il
Cantico, in volgare, si presenta come una specie di atto finale della vita del Santo di Assisi. In quelle parole non vi è solo
Francesco, c’è anche Chiara e le loro rispettive comunità.
L’universo si prospetta come un grande convento (da cum
venire) maschile e femminile, non come un arroccato monastero. Un intimo legame unisce tutte le comunità dei lodatori.
Il nesso di fratellanza e sororità conosce però due «complicazioni», una celeste e una terrestre. La prima riguarda
«messor lo frate Sole». L’astro è fratello, ma anche «mio signore» («messor»). La seconda concerne «sora nostra matre
Terra», espressione in cui il legame parentale raggiunge la
dimensione del paradosso. In effetti le creature vengono
dapprima elencate secondo il grado di vicinanza al sole, figura dell’Altissimo: luna, stelle, aria, vento, nuvole, acqua e
fuoco (il piccolo sole notturno). Si passa, poi, alla serie di
creature che spuntano dal basso: dalla terra nascono frutti,
fiori ed erba.
I modelli biblici del Cantico cominciano con il rivolgersi
a un mondo sottratto ai nostri occhi. Il salmo 148 inizia attribuendo la lode agli angeli che stanno nel più alto dei cieli
(cf. Dn 3,58). Di contro in Francesco la lode è legata tutta e
solo al mondo visibile. Nel Cantico non ci sono angeli o altre
creature celesti. Il creato è, prima di ogni altra dimensione,
quanto cade sotto i nostri sguardi. Per la Genesi la creatura
primigenia di Dio fu la luce (Gen 1,3); tuttavia i due grandi
luminari vengono solo al quarto giorno (Gen 1,14). Per
Francesco invece tutto inizia proprio da quella radiosa materialità che i suoi occhi piagati non riuscivano più a vedere.
Per lodare Dio non c’è bisogno di ascendere a cieli più alti di
quelli illuminati dal sole di giorno e dalla luna di notte.
Molti possono essere i riferimenti chiamati in causa per
giustificare la scelta di rendere il sole simbolo di Dio (non di
Cristo). Tra essi i pertinenti sono quelli in grado di dar ragione del verso «complicato» nel quale si afferma che Dio ci
Il Cantico di frate Sole
ltissimu, onnipotente, bon Signore, Tue so’ le laude,
la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano, et nullu homo ène
dignu Te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumini
noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora Luna e le stelle: in celu
l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Vento et per aere et
nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Aqua, la quale è multo
utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate Focu, per lo quale en-
nallumini la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso
et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra, la
quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con
coloriti fiori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo
Tuo amore et sostengono infirmitate et tribulatione. Beati
quelli ke ’l sosterrano in pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare: guai a quelli
ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne
le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà
male.
Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate.
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illumina attraverso quell’astro («et allumini noi per lui»). Il
sole è nostro fratello, ma è anche «messor» («mio signore»),
vale a dire è immagine visibile di quel «mi’ Signore» oggetto della perenne lode delle creature. Il sole è signore nello
stesso modo in cui lo è Dio, ossia lo è perché si pone al servizio di qualcun altro. La sua bellezza e il suo eccelso splendore servono a illuminare e a rinvigorire quanto è prodotto
dalla madre terra. In questo passo si coglie l’impronta lasciata nel cuore di Francesco dal «Discorso della montagna»: «Siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45). Matteo, per
rafforzare il senso della premura divina riservata agli esseri
umani, si è sentito obbligato a far ricorso all’aggettivo possessivo. Quel «suo», riferito a Dio, rimanda a una paterna
cura che fa splendere su tutti il sole. La fratellanza trova
fondamento nella paternità divina, e la lode (come la benedizione) esige di mettere tra parentesi ogni «causa seconda», ogni indagine naturale: nella semplice radiante esistenza del sole si scorge il segno della quotidiana misericordia esercitata dal Padre nei confronti delle proprie creature
viventi.
Una profonda positività
Al sole corrisponde, in basso, la terra. Se in cielo vi è un
visibile «messor» riflesso del Padre invisibile, quaggiù vi è
una madre. Anche la terra è posta al servizio di qualcun altro. La parola dell’origine dice che Dio quando iniziò l’opera della creazione (Gen 1,2) trovò che la terra (’arez) era informe (tohu) e vuota (vohu) e quindi del tutto inospitale; essa
non era posta al servizio di alcuno. La parola creatrice dà
un ordine e tutto muta: «La terra produca germogli, erbe
che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra
frutto con il seme (…). La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici, secondo la loro specie» (Gen 1,11.24). Quando Francesco evoca
la maternità della terra, lungi dall’essere soggetto al retaggio di remote culture contadine, egli richiama la Bibbia. La
presenza della lode ci indirizza verso una genesiaca, obbediente fecondità. Contro ogni regola naturale, la nostra
madre è anche nostra sorella, e lo è perché pure la terra
esegue quanto comandatole dal suo Signore. A essa e a noi è
chiesta un’uguale obbedienza.
L’azione provvidente della terra si esplica nel sostentare
e nel governare i viventi. Rispetto al testo della Genesi,
Francesco sembra però voler attenuare l’accento posto sulla
benefica azione della terra. Lo fa introducendo un richiamo
a quanto nella Bibbia manca: la gratuita esistenza di coloriti
fiori elencati, con una non casuale inversione, dopo i frutti
(«et produce diversi fructi con coloriti fiori») e quindi sottratti alla sfera della utilità. A tal proposito tornano in menti
alcuni versi di Alessandro Manzoni: «A Quello domanda, o
sdegnoso, / Perché all’inospite piagge, / all’alito d’aire selvagge, / Fa sorgere il tremulo fior, / Che spiega dinnanzi a
Lui solo / la pompa del candido velo, / Che spande ai deserti del cielo / Gli olezzi del calice, e muor» (Ognissanti,
frammenti).
Sole e luna, acqua e fuoco, nubi e vento sono in grado di
innalzare il loro canto all’«Altissimu, onnipotente, bon Signore» solo perché contraddistinti da una profonda nota di
positività. L’intera opera di Francesco è un’evidente replica
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alle tendenze a lui coeve volte a connotare in maniera negativa la materia.
Si pensi innanzitutto ai catari, una corrente religiosa
che viveva in maniera tanto drammatica la presenza del
male nel mondo da ritenere la materia opera di un Potere
malvagio contrapposto al Bene. Per Francesco invece l’universo materiale non è l’esito di un’azione compiuta da una
potenza oscura e malvagia che ha impresso nel mondo fisico il suggello della violenza, esso infatti «non può essere (...)
male, non è l’inferno in cui sono imprigionati gli angeli, ma
(...) è l’opera, il risultato di una straordinaria, onnipotente
bontà che nella creazione dell’universo si rivela anche come bellezza» (R. Manselli, San Francesco, Bulzoni, Roma
1982, 378). La lode espressa dalle creature diviene così il sigillo della positività dell’opera del Dio creatore: «Dio vide
quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen
1,31). La celebrazione della bontà del creato non elimina
però tutti gli interrogativi. La violenza presente nel mondo
dei viventi è infatti un inconfutabile dato oggettivo.
Gli animali assenti?
Più volte ci si è chiesti perché nel Cantico di frate Sole
non compaia alcuna esplicita menzione degli animali, i
quali, oltre ad avere tanta importanza nella biografia di
Francesco, sono ben presenti nei modelli biblici situati alle
spalle della lauda francescana: «Lodate il Signore dalla terra / (...) bestie e animali domestici, / rettili e uccelli alati»
(Sal 148,10); «Benedite, uccelli tutti dell’aria, il Signore /
(...) Benedite, animali tutti, selvaggi e domestici, il Signore»
(Dn 3,80-81). In realtà, si è sottilmente cercato di scorgerli
nei versi: «Laudato si’, mi’ Signore, / per sora nostra matre
Terra, / la quale ne sustenta et governa, / et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba». Queste righe possono
venir interpretate sulla base dei versetti della Genesi in cui
Dio, dopo aver ordinato alla terra di far spuntare germogli,
erbe e alberi da frutto (cf. Gen 1,10) e di far germinare esseri
viventi secondo la loro specie (cf. Gen 1,24), dà le erbe e i
frutti come alimento per tutti (cf. Gen 1,29). Nel loro insieme i versi testimoniano tanto la primordiale fraternità di
tutti i viventi, quanto la condizione vegetariana propria
dell’originario statuto del mondo. Il riferimento aiuta inoltre a comprendere perché Francesco presenti la terra a un
tempo come sorella e madre; a essa, anche partendo dalle
pagine bibliche e non solo sulla scorta della cultura popolare, va infatti attribuito il ruolo di grande generatrice. Inoltre
il verbo «governare», questa volta pensando più a linguaggio comune che a quello biblico, richiama il modo di accudire gli animali nelle loro stalle. I rimandi sono persuasivi;
tuttavia, non sono ancora sufficienti per smentire l’impressione che, specie se confrontati con le loro matrici bibliche,
il Cantico resti reticente a parlare scopertamente degli animali. Non pare forzato sostenere che, dietro tale assenza, si
celi un tema di grande portata religiosa.
Il punto di forza della visione dualista riproposta dai catari sta soprattutto nel richiamarsi allo scandalo collegato al
mondo dei viventi. La sfida si riassume in questi termini: è
mai possibile che la legge universale dell’alimentazione,
cioè la norma secondo cui la vita di ciascuno si afferma solo
distruggendo quella degli altri, sia una realtà in cui è dato
scorgere l’azione dell’«Altissimu, onnipotente, bon Signo-
re»? Si tratta di un’osservazione a cui non è agevole rispondere; tanto è vero che la più consueta prospettiva cattolica è
costretta a giudicare l’attuale stato di cose come una realtà
lontana dall’intenzione originaria di Dio e a ritenerla conseguenza di un peccato, frutto sia della libertà umana sia della
tentazione operata dal diavolo. L’ortodossia cristiana sostiene che è avvenuto qualcosa che ha modificato l’assetto
primordiale della creazione.
Gli stessi passi del libro della Genesi, a cui si è prima alluso, prevedevano d’altra parte che tutti i viventi si cibassero di frutti e di erbe. Secondo la Bibbia, solo dopo il diluvio,
quando Dio si «rassegnò» alla componente negativa presente nell’animo umano (cf. Gen 8,21), sarebbe stato concesso all’uomo di alimentarsi anche con quanto proviene
dal mondo animale (cf. Gen 9,2). All’interno di un mondo
decaduto il rapporto tra uomini e animali risulta perciò profondamente turbato.
Molti secoli dopo Francesco, e con un linguaggio assolutamente diverso (che sarebbe comunque riduttivo considerare solo comico), il poeta romanesco Giuseppe Gioacchino
Belli, in uno dei suoi folgoranti «sonetti biblici», avrebbe
posto in luce l’esistenza di questo scompenso, imputato sarcasticamente a una sopraffazione tutta attribuita alla responsabilità umana: «Prima d’Adamo, senza dubbio arcuno / er ceto delle bestie de là fori / facéveno una vita da signori / senza dipenne un cazzo da gnisuno. / Gnente cucchieri, gnente cacciatori, / nò macelli, nò botte, nò diggiuno... / e riguardo ar parlà, parlava ognuno / come parleno
adesso li dottori. / Venuto però Adamo a fa er padrone, /
ècchete l’archibbuci e la mazzola, / le carrozze e ‘r sughillo
der bastone. / E quello è stato er primo tempo in cui / l’omo levò a le bestie la parola / pe parlà solo e avé raggione
lui» (La Bibbia del Belli, Adelphi, Milano 31992, 40).
Avvertendo il gemito della creazione
Francesco non nega la presenza nel creato di una componente decaduta. Il suo sguardo sembra però orientarsi
verso la fine, quando tutto assumerà, di nuovo, l’aspetto
che aveva in principio nel giardino dell’Eden. Così almeno
pare di dover concludere se si fanno proprie alcune parole
di Tommaso da Celano che interpretano il rivolgersi di
Francesco alle creature appunto come un anticipo della
pienezza della redenzione: «E finalmente chiamava tutte le
creature con il nome di fratello e sorella, intuendone i segreti in modo mirabile e noto a nessun altro, perché aveva
conquistato “la libertà e la gloria riservata ai figli di Dio”
(Rm 8,21)» (Vita prima, 81).
Tale prospettiva è senza dubbio vera, a patto però di
affermare che Francesco viveva in qualche modo già ora
quella «libertà» perché avvertiva, con pari intensità, la presenza in grembo alla creazione del profondo gemito di cui
parla Paolo in quello stesso capitolo della Lettera ai Romani: «Tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del
parto fino a oggi» (Rm 8,22). Si potrebbe dunque sostenere
che, nella grande lode a Dio creatore contenuta nel Cantico
di frate Sole, gli animali sono presenti in modo solo allusivo
proprio perché, per entrare effettivamente in relazione con
loro, occorre la capacità di ascoltare un «gemito delle creature» inseparabile dalla croce di Cristo.
Una della caratteristiche più rilevanti del Cantico di fra-
te Sole è di essere tutto indirizzato al Dio creatore; nell’inno
cioè non si nomina mai direttamente Gesù Cristo, la cui
mediazione nel confronti del Padre è invece uno dei tratti
costitutivi della preghiera cristiana.
Si potrebbe ipotizzare che in questa scelta di riferirsi solo al Creatore abbia avuto un certo peso la presenza dei già
citati modelli derivati dall’Antico Testamento incentrati
sulla lode delle creature; tuttavia non si può neppure dimenticare che la preghiera per eccellenza del credente in
Gesù Cristo, il Padre nostro, è anch’essa rivolta direttamente al Padre senza alcun riferimento al Figlio. A proposito di
una possibile, sotterranea, parentela tra il Cantico e la preghiera insegnata da Gesù, non sembra casuale sottolineare
che, nella totale mancanza di citazioni dirette o indirette
della lauda di Francesco nella letteratura sacra e profana
delle origini, spicchi la grande eccezione di Dante. Egli,
nella sua parafrasi del Padre nostro, scrive parole ricalcate
in modo evidente su quelle poste all’inizio del Cantico:
«Laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore / da ogne creatura,
com’è degno / di render grazie al tuo dolce vapore [Spirito
Santo]» (Purgatorio XI, 4-6).
Il mistero del dolore
e la croce di Cristo
Con tutto ciò, la mancanza di espliciti riferimenti a Gesù Cristo in uno scritto composto da chi ebbe impresse nella
propria carne le stimmate resta un problema aperto. Anzi,
forse non è neppure troppo azzardato sostenere che le due
assenze fin qui rilevate, quella degli animali e quella di Gesù Cristo (a cui va aggiunta quella degli angeli), siano legate
tra loro più di quanto possa apparire a prima vista.
In un passo della Vita prima si trascorre, gradatamente,
da un momento iniziale molto prossimo al clima del Cantico di frate Sole a uno conclusivo fortemente allusivo alla
croce di Cristo: «Come descrivere il suo ineffabile amore
per le creature di Dio e con quanta dolcezza contemplava
in esse la sapienza, la potenza e la bontà del Creatore? Proprio per questo quando mirava il sole, la luna, le stelle del
firmamento, il suo animo si inondava di gaudio. O pietà
semplice e semplicità pia! Perfino per i vermi sentiva un
grandissimo affetto, perché la Scrittura ha detto del Signore: “Io sono verme e non uomo” (Sal 22,7), perciò si preoccupava di toglierli dalla strada e di metterli in un posto sicuro, perché non fossero schiacciati dai passanti» (80). In
questo brano quando si comincia a parlare di una tra le più
elementari manifestazioni del mondo animato, il discorso
cambia immediatamente di tono: dalla gioia e dalla lode si
passa alla preoccupazione, per terminare con una citazione
tratta dallo stesso salmo il cui inizio fu gridato da Gesù sulla
croce (Sal 22,2; Mt 27,46; Mc 15,34). Posti di fronte al verme e alla sua fragilità di vivente tutto muta: da allora in poi
è necessario introdurre tanto un riferimento a Gesù crocifisso («la Scrittura ha detto del Signore: “Io sono verme e
non uomo”») quanto la fattiva volontà di prendersi cura di
ogni essere debole e sofferente. La relazione può esprimersi
all’insegna della lode solo se sorretta dalla volontà di prestar
soccorso a chi è nel dolore. Il piccolo verme diviene così sia
un emblema di tutti i sofferenti, sia simbolo del nesso posto
tra il mistero del dolore presente nella creazione e la croce
di Cristo.
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Di fronte al mondo animale il cuore di Francesco non si
ferma alla lode, esso guarda a Cristo e nello stesso tempo
s’impegna nel tentativo reale, seppure sempre precario, di
portare sollievo a chi soffre: «La sua carità si estendeva, con
cuore di fratello, non solo agli uomini provati dal bisogno,
ma anche agli animali senza favella, ai rettili, agli uccelli, a
tutte le creature sensibili e insensibili. Aveva però una tenerezza particolare per gli agnelli, perché nella Scrittura Gesù
Cristo è paragonato, spesso e a ragione, per la sua umiltà al
mansueto agnello. Per lo stesso motivo, il suo amore e la sua
simpatia si volgevano in modo particolare a tutte quelle cose che potevano meglio raffigurare o riflettere l’immagine
di Dio» (ivi, 77). In questo passo Tommaso da Celano indica apertamente come l’«immagine di Dio» presente nel
creato debba venir intesa in relazione a Gesù Cristo, nel
Cantico invece questo riferimento non è percepibile.
Davanti alle contraddizioni del mondo, neppure la solidarietà e l’apertura verso Cristo conseguono tuttora un esito compiuto; anch’esse possono raggiungere solo acquisizioni parziali. Sempre nella Vita prima si narra come Francesco provò compassione per due agnellini condotti al mercato per essere venduti e quindi uccisi. Li riscattò dal loro
proprietario pagandoli, in modo esorbitante, con il mantello avuto in dono quello stesso giorno per ripararsi da un
freddo pungente. «Ma ricevuti gli agnellini, il Santo (...) si
rese conto del problema imbarazzante: “Come provvedervi?” e, per consiglio di frate Paolo, li restituì al padrone,
raccomandandogli di non venderli, di non recar loro danno
alcuno, ma di mantenerli e custodirli con cura» (ivi, 79).
Francesco non può mutare il destino generale a cui la crudeltà umana sottopone gli agnelli: ne ha sottratti alla morte
due, ma non ha potuto fare lo stesso con tanti altri in cui
pure si è imbattuto. Per questo il poverello di Assisi comprende immediatamente che il gesto di salvare una o due
creature viventi rappresenta un atto corrispondente a
quanto vuole il cuore del Signore solo se lo si muta in un
segno di speranza, in un riscatto più grande.
Creazione, non natura
La visione per cui le lodi del Dio creatore s’intrecciano
con una preoccupazione rivolta al mondo animale sfocia
nella scelta di Francesco di instaurare un rapporto con ogni
creatura. Per meglio capire questo orizzonte di pensiero,
possiamo muovere da un esempio di segno opposto e da cui
si coglie subito la grande differenza connessa al fatto di porsi di fronte alla natura e non già alla creazione. Si tratta del
canto degli uccelli descritto da Giacomo Leopardi in una
delle sue Operette morali. Per lui i suoni con i quali gli uccelli
riempiono l’aria indicano l’esistenza di una letizia capace di
recar conforto e di rallegrare in quanto non suscita l’altrui
invidia; perciò «molto lodevolmente la natura provvide che
il canto degli uccelli, il quale è dimostrazione di allegrezza,
e specie di riso, fosse pubblico; dove il canto e il riso degli
uomini, per rispetto al rimanente del mondo, sono privati»
(G. Leopardi, Elogio degli uccelli). L’intenzionalità individuata da Leopardi nella natura è, consapevolmente, la prima fra tutte le illusioni: ben sappiamo che il canto dei volatili è frutto assai più del loro duro bisogno che di una presunta letizia. È solo la soggettività umana a intendere quei
suoni leggiadri manifestazioni di una possibile e mai conse-
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16/2014
guita felicità. Nel farlo essa porta alla luce due caratteristiche le quali, attraverso la proiezione sul mondo di strutture
prettamente umane, rendono palese la ragione di quei segni di allegrezza. Ciò avviene perché quegli esseri sono ritenuti tanto innocenti quanto ignari dell’infelicità altrui: solo
così infatti possono diventare simboli di gioia. Al contrario,
il mostrare senza ritegno la propria felicità è umanamente
riprovevole in quanto non può dirsi esente né dall’una né
dall’altra delle due condizioni: l’innocenza e l’inconsapevolezza.
Quanto vale per la gioia è dicibile, a parti rovesciate,
anche per il dolore. Per chi assume una determinata ottica
non vi è neppure un angolo della natura vivente che non
testimoni la propria sofferenza. La scena incantata del giardino dell’Eden, in ragione di uno sguardo ispirato a una
laica pietas, sembra repentinamente trasformarsi, come indicato da Leopardi, in una camera di tortura: «Entrate in
un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete
ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volgere lo sguardo da nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta la famiglia di vegetali è in istato di
souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è
offesa dal sole, che le ha dato vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape nelle sue parti più sensibili, più vitali. (...) Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da
lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e bruciato
dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; questo è offeso
nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha foglie più secche;
quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa
troppo fresco; troppa luce, troppa ombra, troppo umido,
troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e
ingombero nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova
dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto
il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità
perfetta; là un zefiretto va stracciando un fiore, vola un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o di
quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le
erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi» (Zibaldone 11,7).
Significativamente diverso è il clima che si respira in
un’altra celebre descrizione, dal punto di vista botanico
estremamente precisa e analitica, presente nella letteratura
italiana: la vigna di Renzo contenuta nel c. XXXIII dei
Promessi sposi. Nel rappresentare il groviglio vitalistico di
erbacce cresciute là dove un tempo vi erano piante curate e
fruttifere, Manzoni pone in rilievo che ciò è avvenuto perché la peste ha reso impossibile l’esercizio del lavoro umano. Il giardino si è trasformato in un caos vegetale, in quanto all’uomo è stato impedito di svolgere il compito a lui affidato di custodirlo e coltivarlo (cf. Gen 2,15).
Un mondo di relazioni
Le prospettive mutano in maniera radicale se, invece di
porsi di fronte a una trasfigurazione metaforica della natura orientata sul versante della gioia o su quello, più stringente e angosciante, della sofferenza, si crede, come Alessandro Manzoni o Francesco d’Assisi, di vivere all’interno
del creato. In tal caso infatti la persona di fede è posta da-
vanti non solo a una selva di metafore, bensì alla possibilità
di muoversi nell’ambito di relazioni giudicate effettive, per
quanto incomplete, con gli altri viventi. In particolare in
Francesco questo stesso contesto obbliga a ritenere che la
presenza della lode gioiosa comporti pure l’essere in grado
di cogliere quanto davvero manca affinché il creato divenga pienamente conforme al volere di Dio.
Nessuno come Francesco ha avuto un rapporto tanto
intenso con gli uccelli del cielo. Per lui però essi divengono
testimoni non già di allegrezza, bensì dell’esistenza di un’universale volontà di relazione che non può venire soddisfatta con il semplice ricorso a una capacità proiettiva che
ci fa vedere nelle cose quanto vi è di più affine alle esigenze
della nostra anima.
Secondo Tommaso da Celano, nei pressi di Bevagna
Francesco vide raccolti molti uccelli; avvicinatosi li salutò
come sua abitudine, ma notando con stupore che, a differenza del solito, non volevano volar via, li esortò ad ascoltare la parola di Dio; fu allora che «gli uccelli manifestarono il loro gaudio secondo la propria natura» (Vita prima,
58). Qui la gioia è frutto di un reale rapporto che si instaura
tra l’uomo e gli animali e non già della dolce illusione che
contraddistingue la proiezione dei nostri bisogni sugli altri
viventi. Tuttavia, proprio questa possibilità mette in luce
anche quanto manca. Non a caso lo stesso Francesco, da
quel giorno in poi, provò un senso di rammarico per non
aver compreso prima quanto grande fosse la possibilità di
comunicazione tra l’uomo e le altre creature: come in ogni
autentica esperienza relazionale, anche nell’incontro con
gli uccelli è contenuto il desiderio di una comunione ancora più grande.
Secondo il versante più profondo (quanto spesso disatteso) della tradizione cristiana, l’idea di creazione, lungi
dal limitarsi a una dottrina riguardante il modo in cui Dio
ha dato origine a tutte le cose, diviene il fondamento della
responsabilità dell’uomo nei confronti di tutti gli altri viventi. Per comprenderlo ci si può rivolgere a un’ulteriore,
grande testimonianza letteraria: l’insegnamento dello starez Zosima, personaggio chiave de I fratelli Karamazov di
Fëdor Dostoevskij. Questo santo monaco russo afferma:
«Amate tutta la creazione divina, così in blocco, come in
ogni granello di sabbia. Per ogni minima foglia, per ogni
raggio di sole di Dio, abbiate amore. Amate gli animali,
amate le piante, amate le cose tutte. Se amerai tutte le cose,
penetrerai nelle cose il mistero di Dio. Una volta penetrato
questo, senza più interruzione verrai conoscendole sempre
più a fondo e sempre meglio, di giorno in giorno. E alla fine
amerai tutto il mondo di un integrale, universale amore.
Gli animali abbiano l’amor vostro; a essi il Signore ha donato un germe di pensiero e una gioia imperturbabile. Non
turbatela voi, non li fate soffrire, non togliete loro la gioia,
non contrastate il disegno di Dio. Uomo, non ti fare grande di fronte alle bestie. Esse sono innocenti, mentre tu,
grande come sei, appesti la terra fin da quando ci fai la tua
apparizione».
L’innocenza degli animali non li scampa però dal soffrire; e anche in questo si rileva un mistero grande e terribile della creazione. Lo testimonia, tra le molte, un’altra
grande pagina di Dostoevskij, tratta dal capitolo «Gli animali della prigione» contenuto nel libro autobiografico
Memorie di una casa di morti, in cui racconta la propria
detenzione in un carcere zarista. Vi si descrive la vita di
Belka, un cane storpio e mite, e la narrazione si conclude
con uno struggente accostamento tra un’insperata manifestazione di pietas nei confronti di quell’animale e la fine
tremenda che gli sarebbe toccata in sorte: «Ho provato ad
accarezzarlo una volta: era una cosa così inattesa per lui
che si rannicchiò di colpo su tutt’e quattro le zampe, tutto
tremante, e si mise a guaire forte per la commozione. Lo
accarezzavo spesso perché mi faceva pena. Quanto a lui,
ogni volta che mi vedeva non poteva far a meno di guaire.
Mi scorgeva da lontano e prorompeva in guaiti dolorosi,
lacrimevoli. Finì dilaniato da altri cani sul terrapieno esterno alla prigione».
Dalla riconciliazione alla lode
«Altissimu, onnipotente, bon Signore». Non sono stati
solo i moderni a chiedersi come fosse possibile, in faccia a
questo mondo, conciliare tra loro la bontà e l’onnipotenza
di Dio. Come si è detto, il Cantico è una consapevole risposta alla visione dualista contemporanea a Francesco: in esso, tutto il mondo materiale risplende e loda. Eppure i due
attributi di «onnipotente» e «bon» sono tenute assieme solo
in virtù di presentare Dio come «Altissimu», la qualifica più
ripetuta (quattro volte) nel Cantico di frate Sole, una composizione in cui Dio non è mai chiamato in modo esplicito Padre. Anche quando si parla il linguaggio della lode resta
mistero (altissimo?) dichiarare come il Signore possa essere
a un tempo onnipotente e buono. Anche se è vero che, attraverso un probabile sottotesto del Gloria recitato nel corso
della messa («Tu solus Altissimus»), va posto in rilievo che a
lui si confanno le lodi proprio perché è il solo a essere Altissimo. Ora ciò avviene compiutamente soltanto quando egli
dona alle proprie creature la forza di mutare consapevolmente il negativo in altro; ma quest’ultima sembra essere
una possibilità concessa agli uomini e preclusa agli animali:
«Laudato si’, mi Signore, per quelli ke perdonano per lo
Tuo amore et sostengono infirmitate et tribulatione».
Anche qui, forse al di là dell’intenzione primaria del testo, si sarebbe tentati di interpretare quel «per» come un
«per mezzo», come un «grazie a» e non già come un «a
motivo di». La riconciliazione interumana diviene lode al
buon Signore nel momento in cui il cuore di colui che perdona avverte in se stesso di essere, a propria volta, perdonato dall’Altissimo. Nella tribolazione la lode è legata alla
possibilità ultima di sentirsi, anche lì, amati da Dio. In questi versi del Cantico il lodante è senza dubbio Francesco. In
quelle parole egli pone la sua vita, ormai prossima a chiudersi, all’insegna della speranza di incontrare in modo definitivo il Signore, buono e onnipotente, capace di sottrarre il
proprio fedele all’ultimo annientamento: ««Laudato si’, mi
Signore, per sora nostra Morte corporale (…) beati quelli ke
trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda
no ’l farrà male».*
Piero Stefani
* L’immagine che apre, a p. 591, questo «Studio del mese» è tratta
da M. Grünewald, Risurrezione (particolare del Polittico di Isenheim),
1512-1516, olio su tavola; Colmar (Francia), Musée d’Unterlinden.
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Fratelli e sorelle del creato