Contacts et acculturations
en Méditerranée Occidentale
Colloque international
d'archéologie
Maquette Véronique GÉMONET - CCJ / CNRS
co-organisé par l’UMR5140
« Archéologie des Sociétés Méditerranénnes » (Lattes)
le Centre Camille Jullian (Aix-en-Provence)
et la ville de Hyères-les-Palmiers
avec la participation du Centre Archéologique du Var
CONTACTS ET ACCULTURATIONS
EN MEDITERRANEE OCCIDENTALE
Hommages à Michel BATS
Hyères
Forum Casino
15 - 18 septembre 2011
Comité d’organisation
Philippe BOISSINOT, Alain BOUET, Dominique GARCIA, Thierry JANIN,
Rosa PLANA, Réjane ROURE, Jean-Christophe SOURISSEAU, Florence VERDIN
Comité scientifique
Jean-Pierre BRUN, Michel GRAS, Jean-Paul MOREL, Michel PY, Pierre ROUILLARD,
Henri TREZINY, Bruno D’AGOSTINO, Emanuele GRECO, Mario LOMBARDO
Carmen ARANEGUI, Javier DE HOZ, Joan SANMARTI
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PROGRAMME
Jeudi 15 septembre
13h30 accueil
14h
discours introductifs
14h30 Emanuele GRECO – "Avec Michel à Sybaris ... brève ma intenso"
Michel GRAS – Pour un dialogue franco-italien
Alain SCHNAPP, Bruno D’AGOSTINO – Michel Bats : une approche anthropologique
de l’archéologie
15h30 pause
16h
Henri TREZINY – Silences et ambiguïtés des sources littéraires sur les origines de
Marseille
16h30 Sophie COLLIN-BOUFFIER, Loup BERNARD, Delphine ISOARDI – Le site de
Marseilleveyre entre Grecs et indigènes : Etat de la question, recherches récentes et
nouvelles approches
17h
Isabelle DAVEAU, Michel PY – Grecs et Etrusques à Lattes : nouvelles données à partir
des fouilles de la Cougourlude
17h30 Bernard DEDET – Pratiques funéraires et identité culturelle : Marseille et les indigènes du
Sud de la Gaule
18h
discussion
18h30 visite d'Olbia de Provence (navette à la gare routière)
19h30 Apéritif dinatoire de la ville de Hyères-les-Palmiers à Olbia
Vendredi 16 septembre
9h
9h30
10h
Rosa PLANA, Pierre ROUILLARD, Pierre MORET – Les Ibères à la rencontre des Grecs
Pere CASTANYER, Marta SANTOS et Joaquim TREMOLEDA – Nouvelles données sur
l’évolution urbaine d’Emporion
Irad MALKIN – Les réseaux d’Artémis d’Ephèse
10h30 pause
11h
Jean-Pierre BRUN, Priscilla MUNZI, Martine LEGUILLOUX, Laetitia CAVASSA –
Banquets rituels à Cumes au IVe siècle avant J.-C.
11h30 Réjane ROURE, Claire JONCHERAY, David OLLIVIER, Pierre EXCOFFON, Carine
DEAL, Clarisse LACHAT, Valérie SALLE – Les dépôts rituels domestiques en milieu grec
12h discussion
12h30 repas
14h
Philippe BOISSINOT – Identité et acculturation : les concepts anthropologiques sont-ils
utiles aux archéologues ?
14h30 Mario LOMBARDO – Frontière(s) et identité(s) en Italie Méridionale
15h
Carmen ARANEGUI – Les identités des Ibères
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15h30 pause
16h
Dominique GARCIA – Urbanisme préromain et identités en Méditerranée nordoccidentale
16h30 Angela PONTRANDOLFO, Alfonso SANTORIELLO – Les fouilles récentes de Fratte
17h
Claude POUZADOUX, Luca CERCHIAI, Natacha LUBTCHANSKY – Du bon usage de
la violence dans les images étrusques et italiotes
17h30 discussion
19h30 Buffet offert par le Centre Archéologique du Var dans les jardins de la villa Noailles (Hyères)
Samedi 17 septembre
9h
9h30
10h
Laurence MERCURI – La Provence orientale et la Méditerranée à l’âge du Fer
Laura BOURDAJAUD, Thierry JANIN, Martine SCHWALLER – Le service funéraire en
Gaule méditerranéenne
Daniela UGOLINI – L'identité face au commerce : le cas languedocien
10h30 pause
11h
Javier DE HOZ – L´écriture après l´économie. Peuples et réponses
11h30 Aldo PROSDOCIMI – Sur les débuts de l'écriture dans le domaine celtique. Italie, Ibérie,
Gaule, Bretagne
12h
discussion
12h30 repas
14h
Antoine HERMARY – Les figurines en terre cuite en Gaule du Sud
14h30 Jean CHAUSSERIE-LAPREE, Lise DAMOTTE, Jean-Christophe SOURISSEAU –
Productions et consommations de céramiques à pâte claire autour de l’étang de Berre
15h
Anna-Maria PUIG – La céramique de Rosas
15h30 pause
16h
Joan SANMARTI – Colonisation, cuisine et formes de consommation en Ibérie
septentrionale
16h30 Michaël DIETLER – Rencontres culinaires : la culture matérielle incorporée
17h
discussion
17h30 Discussions finales et clôture du colloque
18h30 Concert de Rébétikè à Olbia - groupe Rebet Asker (navette à la gare routière)
Dimanche 18 septembre
10h
Visite d’une exposition sur le sanctuaire d’Aristée au musée archéologique de Hyères
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"Avec Michel à Sybaris ... brève ma intenso"
Emanuele GRECO (Directeur de l’Ecole italienne à Athènes)
La mia non sarà una comunicazione da convegno scientifico, ma, sulla scia degli argomenti trattati
nel volume, vuol essere piuttosto una riflessione scaturita dalle esperienze di studio e di lavoro e,
soprattutto, dal piacere della lunga frequentazione napoletana con Michel Bats.
Ho già ricordato il nostro incontro massaliota del 1990, poco dopo l’apparizione del I volume delle
Études Massaliètes che avevo recensito su AION con tono sussiegoso (del quale abbiamo molto
riso in seguito) e dei primi scambi di informazioni che precedettero l’arrivo di Michel al Centre Jean
Bérard a Napoli. A quel tempo il nostro eroe si era reso celebre per i suoi esemplari scavi di Olbia e
aveva dato da poco alle stampe la sua tesi su Vaiselle et alimentation à Olbia de Provence, un vero
monumento eretto sull’altare dell’antropologia archeologica, a dimostrazione che ci sono studiosi
capaci di produrre concretamente modelli operativi e non solo disquisizioni teoriche.
Da parte mia, con il caro ed indimenticabile Dinu Theodorescu (con cui ho passato una vita tra il
piacere dello studio e della ricerca e le discussioni animate, per non dire litigi, che continuano anche
oggi.... perchè non sono qui per colpa sua, essendosene andato senza chiedere il permesso e
lasciando non solo rimpianti, ma cose incompiute) con Dinu, dicevo, eravamo impegnati da almeno
15 anni nelle nostre ricerche pestane che si svolgevano in un quadro di collaborazione che,
ovviamente, comprendeva il Centre Bérard. Dunque, a Michel toccò entrare in Magna Grecia
attraverso la porta pestana, continuando come direttore il lavoro iniziati prima di lui da Mireille
Çebeillac, frutto dell’intelligente collaborazione intellettuale tra G.Vallet, O.Ferrari, R.Martin,
F.Parise Badoni, B.d’Agostino e M.Taddei.
La simpatia immediata e la sintonia che Michel era capace di stabilire con chiunque entrasse in
rapporto con lui non gli impedivano di esercitare attraverso la sua bonarietà, quella sacrosanta
capacità di critica e, se volete, anche di assumere un sospettoso atteggiamento di attesa, prima di
emettere un giudizio.
Me ne accorsi quando, alla fine di un giro sui cantieri pestani, discutendo di stratigrafie davanti ad
un saggio aperto nei terreni alle spalle del Museo, Michel mi fece i complimenti, ammirato dalla
correttezza con cui lo scavo veniva condotto.
Si, va bene, i complimenti fanno sempre piacere, ma, riflettendo subito dopo, ebbi quasi
l’impressione che scaturissero anche da un senso di piacevole sorpresa.
Pensai dentro di me che si stesse chiedendo com’era possibile che uno che non era stato a Lattes o
ad Olbia scavasse in modo corretto. Noi eravamo stati vaccinati dalle roventi discussioni degli anni
’80. Forse le ricordano solo quelli della mia e della generazione precedente la mia (i sopravvissuti).
Mandato in cantina il metodo Wheeler-Courbin, era arrivato Harris, il matrix e poi la rivoluzione
Py con una delle prime utilizzazioni del computer che io ricordi nel campo dell’archeologia classica.
Chi non si adeguava era un arretrato: se non sai scavare (con il metodo, elevato allora a sistema di
vita, da noi specialmente a Settefinestre) non esisti. Permettetemi una parentesi che è anche una
curiosità su un aspetto che non riesco del tutto a spiegarmi: non arrivo a capire perché in Grecia
non solo le eforie, le soprintendenze, ma anche le missioni archeologiche straniere scavano con i
quadrati di Weehler, quando sono all’avanguardia…per esempio in un celeberrimo cantiere di scavo
ad Atene, entro quadrati teorici, cioè senza testimoni, operano per tagli di cm 10.... così come ho
visto fare (ed allora era già un modello avanzato) negli scavi Adamesteanu in Lucania alla fine degli
anni ‘60, mentre altrove si seguivano i muri o si compivano sterri. Mi stupisce, insomma, non
vedere applicato nell’Ellade il metodo nemmeno da parte dei rappresentanti dei paesi che lo hanno
inventato ed ampiamente applicato.
Dunque, Michel arriva nel Sud d’ Italia e certamente si aspetta di trovare sterri e quadrati….e non
ha del tutto torto, anche se già in quegli anni ’90 la situazione si andava normalizzando.
C’era poi in agguato un altro argomento, decisamente più forte ed attraente: il rapporto tra
archeologia, antropologia e storia. Ne parlerà in modo più adeguato Alain Schnapp, ne sono certo.
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Qui tocco i temi e i problemi scaturiti dal confronto con Michel.
Anche in questo caso, la discendenza dalla scuola ‘scettica’ napoletana (con Ettore Lepore
indiscusso ed indimenticabile punto di riferimento) era un vaccino antico ed ampiamente
consolidato contro l’archeologia del pasticcio combinatorio.
Ricordo gli elogi che ricevetti da Luisa Breglia dopo la pubblicazione di un mio breve articolo nel
volume curato da Paolo Poccetti sulla Identità dei Brettii. Aveva provocato grandi risate il mio
sarcasmo contro una certa archeologia che si occupava del mondo indigeno in Magna Grecia,
basata sull’assioma che i Greci della costa fabbricano vasi e gli Indigeni, quando sono buoni
comprano i vasi e danno in cambio caciotte, quando sono cattivi passano la vita a costruire
fortificazioni ed a fare la guerra con chiunque passi dalle loro parti (specialmente Alessandro il
Molosso!). Essendo questo ultimo punto di vista dominante nella letteratura, non c’era da
meravigliarsi se uno venuto da fuori pensasse che noi pensassimo tutti alla stessa maniera.
Certo con le Annales avevamo un rapporto mediato, così come con Levi-Strauss di cui avevamo
pur letto qualcosa, ma comunque ci era toccato il privilegio di ascoltare lezioni di Vernant e di
Vidal-Naquet, fantastiche aperture intellettuali, ma, utili a capire il terreno solo nella misura in cui
noi, per nostro conto, fossimo poi capaci di costruire modelli interpretativi iuxta i principia della
scienza archeologica…vaste programme !
Prima della nostra breve esperienza sibarita l’argomento che sto toccando aveva avuto un’occasione
di confronto non marginale. A Paestum, sempre in quegli anni caratterizzati dalla bulimia frenetica
che ci spingeva ad aprire saggi ovunque, ma specialmente nelle estese aree private (ancora oggi
proprietà privata) per versare nel dossier topografico i dati della città antica situata al di fuori del
gigantesco spazio pubblico, avevamo esplorato una casa greca arcaica, la prima (e, che io sappia,
ancora unica). La stratigrafia era di un’impressionante chiarezza: la casa e la vicina strada (una delle
tante che attraversano la città da nord a sud) risalivano all’ultimo quarto del VI secolo a.C.: a questa
epoca a nostro avviso (mio e di Dinu) risale la realizzazione dell’impianto urbano di Poseidonia
(circa tre quarti di secolo dopo la fondazione); alla prima fase della casa appartiene l’andrôn ed il
bench di pietra situato presso l’ingresso. In una seconda fase, il pavimento era stato rialzato, il
bench era finito sotto terra (per essere evidentemente sostituito da klinai di legno). Ma la cosa più
sorprendente era che sul pavimento, con le tracce dell’imposta della trapeza, giacevano tutti i resti di
un’ultima cena: il cothon che l’aveva illuminata, kylikes per bere vasi per versare, anfore da vino e,
accanto all’ingesso, i frammento di un ‘angolo di cottura’ in mattoni crudi con i resti di un pasto
carneo e diverse centinaia di gusci di frutti di mare; all’estremità opposte due terrecotte figurate
segnalavano forse la presenza di un altarino domestico.
Non entro qui nel merito di questo rappresentante del reale (una volta tanto, da affiancare, sempre
in posizione ancillare, per carità, ai grandi modelli teorici del simposio e del banchetto, tutti
dipendenti dalla lirica greca o da Platone) un reale modesto, provinciale, nel quale banchetto e
simposio condividono (quale orrore!) lo stesso spazio, non solo, ma nel medesimo ambiente c’era
pure il forno per cuocere la carne; e poi- ma che scostumati !- avevano buttato gli ossi per terra con
i gusci dei frutti di mare. Si, è questo il punto, nessuno aveva spazzato quel pavimento, perché la
casa, tutta la casa era stata completamente e, direi, bruscamente abbandonata.
Nello strato che copriva il bench di pietra della prima fase rinvenimmo il piede di uno skyphos con
il nome graffito del proprietario, Mnastor (ovviamente in dorico) Pretendente, un bel nome, non
proprio da teta. Si può immaginare che sia stato il primo occupante della casa (520-500 a.C.) mentre
il successore aveva operato le modifiche di cui ho detto, fino all’abbandono (470 circa a.C.).
I ruderi della casa erano stati poi ricoperti da cumuli di rifiuti di età successiva, sui quali erano state
in seguito edificate strutture domestiche di epoca ellenistica e romana. Mi sembra ancora oggi non
privo di significato l’abbandono repentino della casa tardo - arcaica.
Certo, il bonario sarcasmo di Michel di allora non è ancora oggi completamente infondato: a suo
avviso, una tale fenomenologia poteva esser stata prodotta da un numero infinito di cause: per
esempio i costruttori di epoca romana potevano aver rimosso tutti gli strati di vita successivi….ma
rimane il fatto che in quell’andron si era consumata un’ ‘ultima cena ’ negli anni intorno al 470 a.C.
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Io non invocavo e non invoco la storia evenemenziale a soccorso (tra l’altro è totalmente assente!)
ma cercavo di correlare il dato proveniente dallo scavo della casa ad altri ‘fenomeni’ (nel senso
letterale di cose cha appaiono) archeologici noti da tempo con quelli che andavamo mettendo in
luce contestualmente, per segnalare, se non altro, un’epoca caratterizzata da profonda crisi e da
grandi cambiamenti sociali ed istituzionali.
Certo si trattava pur sempre di cime di iceberg; non possiamo, infatti, escludere a priori la più ovvia
ed attuale delle spiegazioni: quella che a Paestum in quel periodo c’era stato lo sciopero degli
addetti alla raccolta delle immondizie!
E di questo passo siamo arrivati a Sibari.
Io avevo cominciato a lavorare a Sibari già nel 1994. Il progetto non era altro che la versione
spostata sulle rive del Crati dell’approccio che tenevamo a Paestum sin dal 1974.
Roland Martin di quel modo di impostare la ricerca aveva dato una definizione che mi sembra
tuttora esemplare: pochi saggi ( e, pertanto, poca spesa) grandi risultati.
Attenzione : il sistema vale, a condizione che l’oggetto della ricerca sia un sito già indagato.
A Paestum la scelta fin dall’inizio fu assai chiara: niente scavi nuovi (costosi e spesso inutili per non
dire deleteri, se si trattava di mettere in luce altri isolati della città romana).
Meglio programmare campagne di rilievo mirato all’esame di edifici o i complessi monumentali e
aree estese, secondo un taglio topologico, per eseguire, poi, a ragion veduta, saggi puntuali allo
scopo di cercare di capire la planimetria del monumento (spesso non del tutto chiara), indagando,
nel contempo, gli strati che ne permettevano la datazione e le fasi che lo avevano preceduto.
In tal modo si andava componendo la pianta della città per quella parte già portata alla luce (il nome
del progetto era appunto Atlas) come era possibile fare dopo i grandi sterri della prima metà del XX
secolo e nello stesso tempo si acquisivano dati sulla storia precedente la fase ultima, quella visibile,
anche se nei limiti delle esplorazioni in profondità, le quali erano, per loro stessa natura, di
estensioni assai ristrette (tranne nel caso dell’ekklesiasterion del V secolo a.C. che fu esplorato
integralmente perché ricadeva nel cortile del santuario romano repubblicano che lo ricopriva, le cui
strutture non erano perciò di impedimento alla esplorazione in profondità).
A Sibari venne anche Dinu, solo in una delle prime campagne (per impostare la rete topografica
con i suoi, allora giovani, allievi Paolo Vitti e Ottavio Voza).
Ma, anche allora, tempi di magra quasi più che oggi (il che è quanto dire!) oltre all’aiuto fraterno di
Elena Lattanzi e Silvana Luppino, non ci mancò l’appoggio del Centre, ed il Centre voleva dire
Michel, innanzitutto.
Nelle prime campagne ebbi anche la collaborazione assai preziosa, tra altre, di Priscilla Munzi, che
mi piace ricordare perché da Sibari è passata a Laos ed è poi approdata al Centre Bérard, quasi una
destinazione fatale. La discussione dei risultati della ricerca che abbiamo avuto in situ durante le
frequenti visite di Michel e Ludi al cantiere sibarita è stata per me un’ennesima occasione di piacere
e di arricchimento intellettuale per la possibilità di avere scambi di opinioni suggerimenti e consigli,
quanto mai salutari.
A me premeva allora mettere in evidenza quello che ritenevo il risultato più importante di quei
primi anni di scavo.
Uno dei primi problemi che avevo affrontato riguardava la cronologia del cosiddetto lungo muro
(cioè il muro di cinta di Copiae) ed il suo rapporto con la città precedente, vale a dire Thuri, perché
Sibari è un antefatto lontano nel tempo e sprofondato in gran parte nelle viscere di una terra
fangosa; insomma Sibari è un’altra storia che finisce nel 510 a. C., mentre quella di Thuri e Copiae,
più facilmente abbordabile, ma sempre dopo aver abbassato la falda, è in perfetta continuità, fatte
salve le modifiche che la città (come tutte le città antiche, e non!) ha conosciuto nel corso di circa
1000 anni di vita.
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I risultati non mancarono: è provato ormai grazie a quei primi sondaggi che il muro di cinta di
Copiae (databile con ogni probabilità alla fine del I sec.a.C. o ai primissimi anni del I d.C.) è fondato
su una delle plateiai che attraversano la città da est ad ovest.
Immediatamente all’esterno, a nord, della muraglia subito sotto la coltre di terra alluvionale (quella
che ha ricoperto tutta la pianura alla fine dell’Evo Antico) abbiamo rinvenuto mausolei e tombe di
età imperiale romana a loro volta impiantati sopra la città di età classico-ellenistica precedente.
Insomma, Thuri era più grande di Copiae, e quando alla fine dell’età repubblicana era stato eretto il
muro della città romana, la necropoli di questa era stata impiantata sopra i ruderi delle case della
città precedente. Inaspettatamente, si parava davanti ai nostri occhi la possibilità, davvero rara, di
indagare un giacimento chiuso, un quartiere (o forse anche qualcosa di più) la cui vita si era
interrotta ad un certo punto e che era diventato da quartiere urbano intra moenia a necropoli extra
moenia.
L’occasione era ghiotta ed assai propizia e con Michel cominciammo a disegnare il piano di azione
(che prevedeva anche il coinvolgimento delle truppe di Lattaria).
Nel frattempo io mi ero spostato ad est sempre alla ricerca delle plateiai ‘ippodamee’ descritte da
Diodoro Siculo (che ho ritrovato puntualmente nonostante qualche scettico).
Alla campagna del 1999, breve ma intensa, parteciparono Michel Bats e Pascal Ruby.
Anche in quel caso avevo messo le mani su un quartiere di Thuri tagliato fuori dalle mura di Copiae
che da nord a sud procedono con un taglio diagonale, in direzione sud-est.
Avevo con i miei collaboratori riportato alla luce non solo un bel tratto della stessa plateia su cui ad
ovest era impiantato il muro di cinta, ma anche l’incrocio con la più orientale delle plateiai nordsud.
Ma, di nuovo, anche in quello spazio tagliato fuori dalle mura della città romana potevamo indagare
un quartiere di Thuri abbandonato.
Qui l’apporto di Michel è stato provvidenziale, grazie alla sua magistrale conoscenza della ceramica
ellenistica; lo studio che ne fece è alla base della nostra conoscenza della storia di quell’angolo di
città dove la vita si arrestò alla metà del III sec.a.C.
Insomma l’archeologia fornisce così una chiave di lettura assolutamente inedita: la recessione a
Thuri era cominciata ben prima della II punica; una volta di più possiamo evitare di mettere in
rapporto di causa ed effetto cocci e date di battaglie.
Bisogna, pertanto, fare, in questo caso, i conti con una visione ricavata dalla documentazione
archeologica in maniera assolutamente autonoma; e l’archeologia dice chiaramente che, con la II
punica alla fine del III secolo a.C, venne a compimento un processo cominciato prima, come
speriamo sarà possibile dimostrare ampliando la base documentaria.
Intanto prendiamo atto che l’esplorazione archeologica apre orizzonti di conoscenza impensabili
rispetto alla vulgata dipendente solo dalle fonti scritte.
Caro Michel, il nostro progetto, come sai, è rimasto in aria.
Dopo un po’ abbiamo preso strade diverse, io nell’Ellade, e tu nella tua amata Provenza.
Ma non è detta l’ultima parola. Fra non molto, quando sarò anch’io, come te, un arzillo pensionato,
forse potremo coronare il sogno di andare a Sibari a scavare insieme.
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Pour un dialogue franco-italien. Témoignage
Michel GRAS (Directeur de Recherche CNRS)
Un matin d’un jour d’hiver du début de 1991, je me morfondais dans le RER C bloqué - pour des
raisons inconnues de moi - au-dessus de la Seine, non loin de la maison de la radio. À ma droite on
apercevait, dans la brume froide, le pont Mirabeau (« sous le pont Mirabeau / coulent la Seine et
nos amours… »).
Les vers d’Apollinaire ne réussissaient pourtant pas à retenir mon attention. Je me rendais comme
tous les matins à mon bureau du CNRS, encore pour peu de temps au Quai Anatole-France. Parmi
mes préoccupations, une revenait de manière lancinante : il fallait trouver un directeur pour le
Centre Jean-Bérard de Naples qui sortait d’une période assez trouble sur le plan administratif, en
dépit d’excellents résultats scientifiques, et je savais que, sur le choix du directeur, se jouait le futur
de ce Centre fondé par Georges Vallet en 1966.
Notre arrêt se prolongeait. Tout à coup, mes voisins me virent sursauter et me regardèrent d’un air
inquiet et vaguement hostile comme cela arrive régulièrement dans les transports parisiens. Je
venais de trouver le nom que je cherchais depuis plusieurs mois et qui, en un éclair, s’était déjà
imposé à moi : il fallait Michel Bats à la direction de Naples.
Michel Bats. Nous ne nous connaissions finalement alors assez peu. Il venait du Béarn, alors que
mes références étaient le Languedoc, la Provence et la Savoie. Je l’avais croisé pour la première fois
à Bordeaux en décembre 1986 au colloque sur Grecs et Ibères au IVe siècle avant J.-C. J’avais été
ébloui par son livre Vaisselle et alimentation à Olbia de Provence, Paris, 1988 dont j’avais fait un
compte rendu enthousiaste (De la céramique à la cuisine. Le mangeur d’Olbia, dans REA, 1989, p.
65-71). Personnalité attachante mais surtout homme de terrain doté d’un fort bagage théorique, il
était en train d’importer de nouveaux savoirs chez mes amis archéologues languedociens en leur
parlant de Jack Goody et de quelques autres. Chercheur au CNRS, il était alors affecté à l’équipe de
Lattes.
Le même jour, entre deux réunions, j’appelai Guy Barruol, le "Nestor" languedocien de ces annéeslà, dont la sagesse m’était indispensable. Je lui parlai de mon idée, redoutant une raison
incontournable qui la rendrait immédiatement caduque. Barruol, lapidaire comme toujours, me
répondit : « C’est jouable. Il faut voir avec lui ». Michel Bats fut aussitôt en ligne : je me rendis
compte que cela lui tombait sur la tête mais lui faisait plaisir. Je lui donnai un temps de réflexion.
Le plus dur n’était pas fait. Je n’étais en rien le seul acteur de cette pièce. Les trois personnages qu’il
fallait convaincre étaient par ordre alphabétique Charles Pietri, alors directeur de l’Ecole française
de Rome, qui souhaitait une tutelle plus forte de Rome sur Naples, Yves Saint-Geours, en
responsabilité au ministère des affaires étrangères et Georges Vallet, ancien directeur à Rome , alors
directeur de recherche émérite au CNRS, qui était encore plus près du terrain, si je puis dire,
puisqu’il résidait à Naples et s’était rapproché d’un Centre qu’il n’avait jamais vraiment quitté des
yeux.
Pietri et Vallet, les deux directeurs avec lesquels j’avais eu le privilège de travailler à Rome, ne
furent pas faciles à convaincre et je ne dis pas cela pour me donner le beau rôle. Ils n’avaient rien
contre Bats qu’ils ne connaissaient pas mais c’est précisément cette méconnaissance qui les
inquiétait. Il est vrai que choisir Bats était une vraie révolution dans l’histoire du "Bérard" puisque,
depuis la fondation, tous les directeurs et directeurs adjoints avaient été des anciens "romains", ce
que Bats n’était pas. J’y voyais pour ma part un avantage pour donner un signal fort de changement.
Il y avait aussi le fait que Bats était un spécialiste de la Gaule plus que de l’Italie méridionale mais
sur ce point le dossier pouvait se plaider.
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Vallet fut indécis un temps : il fallut organiser une rencontre dans la maison de Bourgogne,
rencontre qui faillit mal tourner puisque Bats, bloqué par un retard du TGV, arriva avec retard ;
puis, autour des fromages de chèvre et du pouilly-fuissé, et malgré l’orage qui éclatait, le climat se
détendit : en quelques heures, Vallet jugea Bats « sympa » ce qui pour lui voulait dire pas mal de
choses.
Pietri, rencontré à plusieurs reprises, se fit tirer l’oreille. Jusqu’au 14 mai 1991 à l’occasion d’une
rencontre bilatérale franco-algérienne, où Saint-Geours était également présent, et où je le revois
encore, appuyé contre une console du salon bleu du Palais Farnèse, et riant tout en tirant sur sa
pipe et me disant « Vous êtes vraiment têtu ! ». Ce jour-là, j’ai su que c’était gagné : Pietri ne riait
ainsi que quand il était d’accord. Ce fut, hélas, la dernière fois que je le vis rire : il devait mourir
quelques mois plus tard.
Bats partit ainsi à Naples. Il eut l’occasion de me dire souvent que ce choix avait changé sa vie. Il
changea aussi celle du Centre. En effet, tout en s’inscrivant dans la continuité sur de nombreux
points, Michel Bats apporta au Centre, outre ses qualités intellectuelles, une autre manière de
travailler : il apprit au personnel la PAO, révolutionnant ainsi la fabrication des publications. Il
ouvrit surtout un nouveau dialogue franco-italien, entre le Midi de la France et l’Italie méridionale.
En effet, et c’était là le véritable enjeu, ces deux régions actives sur le plan archéologique vivaient
côte à côte et sans échanges intellectuels ou presque. Les migrations étaient à sens unique : des
anciens de Rome revenaient en Provence. Cette fois le mouvement se faisait dans l’autre sens : un
méridional d’adoption "descendait" dans le Sud italien. De là naquirent entre Naples, Salerne, Aixen-Provence et Lattes notamment, de nouveaux réseaux. Et tout naturellement quand Michel Bats
dût partir à la fin de son mandat, ce fut encore un provençal, Jean-Pierre Brun, qui prit le poste
pour écrire une nouvelle page de la riche histoire du Centre Jean Bérard.
Il faudrait plus de temps, et plus de pages, pour mesurer l’apport profond du séjour de Michel Bats
à Naples. Il y eut certes beaucoup d’initiatives, à commencer par la fouille de Cumes qui allait
conditionner la vie du Centre pour longtemps ; mais la dimension intellectuelle devra être un jour
analysée avec soin, également à la lumière de plusieurs publications en préparation. Mais cela peut
déjà se mesurer par l’apport du Mezzogiorno à la bibliographie de Michel.
Michel Gras
Directeur de l’Ecole française de Rome
décembre 2010
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Michel Bats : une approche anthropologique de l’archéologie
Bruno D’AGOSTINO (Université de Naples), Alain SCHNAPP (INHA)
Pour les chercheurs de notre génération le lien entre antiquité et anthropologie apparaît comme une
dimension cruciale de la recherche. L’influence de l’école française d’anthropologie de Claude LéviStrauss à Maurice Godelier n’a cessé de modeler la réflexion des antiquistes italiens ou français
qu’il s’agisse d’Ettore Lepore, de Jean-Pierre Vernant, de Pierre Vidal-Naquet ou de Paul Veyne. Ce
que Jacques le Goff définit comme anthropologie historique n’aurait pas pu trouver sa place dans
le nouveau champ de l’histoire sans l’influence d’une pensée anthropologique dont les origines se
confondent avec la sociologie de Durkheim et de Mauss. La présente communication voudrait
explorer en quoi le travail de M. Bats s’insère dans cette tradition historiographique.
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Etrusques et Phocéens en Occident
Silences et ambiguïtés des sources littéraires sur l’histoire et la topographie de Marseille
Henri TREZINY (CNRS, Aix-en-Provence)
Dans cette réflexion, qui se réfère explicitement à un article de Michel Bats sur les origines de
Marseille (Les silences d’Hérodote…), je voudrais aborder plus largement la question de l’utilisation
des textes anciens par les archéologue et les historiens, en prenant trois exemples. D’abord (en
commençant par la fin), les textes de César et de Lucain sur le siège de Marseille en 49 av. J.-C. Puis
les vers bien connus de l’Ora maritima d’Aviénus qui décrivent la topographie de la ville. Enfin,
revenant aux origines, les sources sur la fondation de Marseille et l’épisode d’Aristarché, déjà
étudiés par M. Bats dans l’article mentionné, et sur lesquels on aura sans doute à revenir dans ce
colloque. Je défendrais l’idée que ces textes ne doivent pas avoir à nos yeux la même valeur selon le
contexte et le genre littéraire dans lequel ils s’inscrivent.
Le site de Marseilleveyre entre Grecs et indigènes
Etat de la question, recherches récentes et nouvelles approches
Sophie COLLIN BOUFFIER (Université de Provence), Loup BERNARD (Université de
Strasbourg), Delphine ISOARDI (CNRS, Aix-en-Provence)
Entre 2006 et 2008, la mise en place d’un PCR sur l’occupation du bassin de Marseille dans
l’Antiquité (Centre Camille Jullian) a été l’occasion de revenir sur le site de Marseilleveyre, connu
depuis la deuxième moitié du 19e siècle dans la littérature archéologique. Qualifié alors d’oppidum,
il avait révélé en surface et en plusieurs points du plateau un mobilier essentiellement daté des
premières décennies du VIe siècle av. J.-C. Les prospections et les sondages effectués entre 2007 et
2010 ont renouvelé l’approche du site et permis de réfléchir sur l’occupation de la zone sud du
bassin de l’Huveaune, depuis le site du Roc de la Croix jusqu’au massif de Marseilleveyre. La
communication se propose de dresser un bilan de la documentation disponible : prospections
anciennes et fouilles récentes, et de présenter les nouveaux questionnements que les découvertes du
site et les parallèles régionaux autorisent sur la dynamique des relations entre Grecs et indigènes au
premier Âge du Fer.
11
Grecs et Étrusques à Lattes : nouvelles données à partir des fouilles de la Cougourlude
Isabelle DAVEAU (INRAP) et Michel PY (CNRS, Lattes)
L’existence d’un habitat du Ier âge du Fer au lieu-dit la Cougourlude, en bordure du ruisseau de la
Lironde, à 1 km au nord-est du comptoir de Lattara (Lattes, Hérault), était connue depuis
longtemps à travers divers sondages et découvertes. Depuis 2006, des fouilles préventives ont
touché cette zone basse où la Communauté d’Agglomération de Montpellier a entrepris
l’aménagement d’un vaste chenal devant servir d’exutoire au fleuve Lez en cas de crues. Une
première opération, conduite par Oxford Archéologie dans le secteur du Mas de Causse, a
notamment fourni, sous un complexe probablement cultuel d’époque hellénistique et romaine, un
intéressant dépôt de 313 disques en bronze à rebord perlé de typologie étrusque. Les fouilles
réalisées par l’Inrap de juin à septembre 2010 ont concerné deux secteurs, l’un prolongeant sur
5 000 m2 la fouille du Mas de Causse en contrebas de l’ensemble cultuel, l’autre, à 140 m au nord,
couvrant deux hectares sur une bande de 500 m de long sur la rive droite d’un paléochenal de La
Lironde. Ces deux secteurs ont fourni d’abondantes traces d’un habitat occupé dès le début du
premier âge du Fer mais se développant subitement à la fin du VIe s. et au début du Ve s. av. n. è.,
pour atteindre son extension maximale estimée à plus de 15 ha. À cette époque, l’agglomération est
traversée par deux profonds fossés perpendiculaires à la Lironde, dédiés soit à la gestion de l’eau,
soit à la protection de certaines parties du village. À partir de 475, la majeure partie de l’habitat est
abandonnée. Cette désertion peut être mise en relation avec l’évolution du comptoir voisin de
Lattara qui, après un court épisode où une présence étrusque est attestée, est investi par une
population clairement autochtone.
L’un des intérêts évidents de la fouille de la Cougourlude est de fournir pour la première fois une
vision fortement documentée du peuplement indigène du delta du Lez antérieurement et
contemporainement à la fondation de Lattara, et d’éclairer d’un jour nouveau les conditions de cette
implantation. L’analyse en cours de la céramique de la Cougourlude, très abondante, fait apparaître
l’implication croissante de l’établissement dans les courants d’échange méditerranéens, avec
notamment des proportions d’amphores en forte progression entre 600 et 475 et une part non
négligeable de vaisselle tournée régionale ou étrangère. Cette masse d’apports amphoriques montre
par ailleurs que l’agglomération indigène, dont l’économie de base agro-pastorale ne fait guère de
doute, jouait également déjà un rôle de débarcadère accessible depuis l’étang littoral. Le faciès de
ces importations, où la part grecque – principalement massaliète – devient fortement prédominante
après le milieu du VIe s., permet de contester l’hypothèse d’une continuité de la domination
étrusque sur les échanges de cette partie du littoral languedocien qui avait été émise à la suite des
découvertes de Lattara, et de montrer que l’implantation de négociants tyrrhéniens dans le comptoir
nouvellement fondé correspondait à un événement ponctuel, sans passé spécifique ni avenir
durable.
12
Pratiques funéraires et identité culturelle : Marseille et les indigènes du Sud de la Gaule
Bernard DEDET (CNRS, Lattes)
La comparaison entre les coutumes funéraires des populations indigènes du Sud de la Gaule au
second Âge du Fer et celles en usage dans la colonie grecque de Marseille met en évidence deux
ensembles bien tranchés de pratiques. La réflexion prend en compte le « recrutement » des
cimetières selon l'âge au décès, l'implantation des tombes, le traitement des corps, inhumés ou
brûlés, et de leurs restes, ainsi que le mobilier placé auprès des défunts. Les mœurs indigènes en ce
domaine sont ici traditionnelles. Elles ne sont ni transformées ni seulement modifiées au contact
des colons grecs, quelle que soit la proximité ou l’éloignement géographique par rapport à Marseille
et aux autres établissements coloniaux. Pour leur part, les usages massaliètes reflètent bien plutôt les
coutumes grecques de l'époque et aucune influence des mœurs indigènes ne semble transparaître
non plus dans les tombes de la colonie. Cette étanchéité en cette matière, qui reflète sans doute des
conceptions très différentes de la mort et de l'au-delà, est une pièce à verser au dossier du contact et
des échanges entre Grecs et Gaulois du Midi méditerranéen de la France.
Les Ibères à la rencontre des Grecs
Rosa PLANA (Université de Provence), Pierre ROUILLARD (CNRS, Nanterre), Pierre MORET
(CNRS, Toulouse)
Les auteurs envisageront les caractères propres des modalités de rencontre des Grecs dans la
Péninsule Ibérique, notamment en reprenant la question de l’emporion. Plusieurs dossiers seront
ouverts pour évaluer la richesse des contacts : le premier traitera de l’urbanisme et de l’architecture
(caractères, évolution), notamment dans deux régions (Ampurdan et Bas Segura) ; le second
analysera les différents usages des vases grecs dans les nécropoles et le troisième abordera la
question de l’apparition de l’architecture sacrée.
13
Nouvelles données sur l’évolution urbaine d’Emporion
Pere CASTANYER, Marta SANTOS, Joaquim TREMOLEDA (Museu d’Arqueologia de CatalunyaEmpúries)
Les données fournies par les fouilles déjà connues emmenées à l’ancien Palaia Polis, l’actuel Sant
Martí d’Empúries, nous permettent de suivre les transformations de l’occupation de cet endroit
depuis le premier établissement indigène jusqu’à l’arrivée des colonisateurs grecques pour installer le
premier comptoir commercial. Dans cette communication on veut mettre en discussion les résultats
des dernières recherches archéologiques réalisées dans le quartier portuaire et dans le secteur
centrale de la Neàpolis, à travers desquels nous pouvons connaître diverses aspects sur l’origine et
le développement postérieur d’Emporion.
Les fouilles récentes de la partie nord occidentale remarquent, d’abord, les liassions de ce nouveau
noyau urbaine avec la mer, lesquelles nous ont permis découvrir le point de communication de la
cité avec l’enfoncement portuaire et, même aussi, l’ancien niveau de la plage qu’y avait au pied des
murs que délimitaient ici la ville. Les évidences archéologiques de l’aire du port étaient couvertes
par une grande couche de sable, de plus de 3 mètres d’auteur, qui aujourd’hui comble
complètement des cailloux qui indiquaient le niveau d’époque archaïque, au dessus desquels y avait
une grande accumulation de blocs appartenant aux murs ou remparts de limite de la cité. Plus à l’est
et à l’ouest de cet unique point d’accès, la roche que forme le substrat naturelle remonte très
rapidement et dessine une ancienne falaise à peine visible à l’actualité par la sédimentation sableuse.
L’aspect et les caractéristiques de cette voie d’accès, et aussi des murs que limitaient cet quartier
nord occidentale de la cité ont changé au long des siècles, à partir d’un premier clos daté à la fin
VIème siècle avant J.-C.- début Vème siècle avant J.-C. jusqu’à la reforme du IIème siècle avant J.C., qui signifie la construction d’une tour bastion d’angle et la modification de la voie d’accès que,
hypothétiquement, nous pouvons mettre en relation avec une remodelage de la fonction du vieux
port parallèle à la création des nouvelles aires portuaires. Encore plus intéressantes sont les
trouvailles de plusieurs offrandes et d’objets rituels (olpes, kernoi, figures de terre cuite, etc.)
correspondantes à différentes couches datées majoritairement dans le Vème siècle avant J.-C et qui,
probablement, appartenaient à un sanctuaire proche à l’aire du port et les traces duquel sont encore
difficiles à préciser.
Finalement, nous voulons faire attention à les données fournies par les fouilles réalisés dans la
partie centrale de la Neàpolis, encadrées dans le projet de recherche sur l’ensemble agora et stoa,
spécialement relatives à la configuration urbanistique antérieure à la construction de ces bâtiments
dans le milieu de IIème siècle avant J.-C et que nous pouvons remonter jusqu’a le premier
aménagement urbaine. En ce qui concerne à ce secteur on veut signaler l’identification d’une trame
de petites ruelles qui donnent une orientation hypothétique sur les dimensions des îlots des
maisons. Le second objectif sera d’essayer d’avoir une vision plus réale sur l’organisation et la
structure de ces maisons, ainsi que de ses caractéristiques constructives pour avoir, en conclusion,
des éléments plus précis sur l’urbanisme des phases initiales d’Emporion.
Les réseaux d’Artémis d’Ephèse
Irad MALKIN (Université de Tel-Aviv)
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Banquets rituels à Cumes aux Ve et IVe siècles avant J.-C.
Jean-Pierre Brun, Laetitia Cavassa, Martine Leguilloux, Priscilla Munzi
Un programme de recherches archéologiques sur la colonie grecque de Cumes a été confié en 1993
à Michel Bats par la Surintendance archéologique de Naples. Dans le cadre d’un vaste projet
associant quatre partenaires, la Surintendance, l’Université « Federico II », l’Université
« L’Orientale » et le Centre J. Bérard, les travaux ont porté sur le forum, les remparts et l’habitat,
l’amphithéâtre ainsi que les abords de la ville. L’équipe du CNRS a été chargée de ce dernier volet
ayant comme objectif la recherche des ports. L’enquête sur les secteurs périphériques, au sud et au
nord de l’acropole, en bordure de la mer et de la lagune de Licola, a permis de préciser la
chronologie du site, sa topographie, sa sédimentologie, l’évolution de son environnement. A défaut
de structures portuaires, nos fouilles ont mis au jour des vestiges aussi divers que des tombes de
l’âge du fer, un sanctuaire grec, une nécropole grecque et romaine ainsi que des bâtiments
byzantins.
Au nord des remparts de la ville, aux marges de la lagune de Licola, un sanctuaire extra-urbain est
établi dès l’époque archaïque au-dessus de la nécropole pré-hellénique. Vers le milieu du Ve siècle,
le sanctuaire se développe : un nouveau bâtiment comprenant au moins trois pièces ouvrant sur une
galerie est alors construit. Ses particularités architecturales permettent de l’interpréter comme un
hestiatorion, aménagement courant dans les sanctuaires grecs à partir du VIe siècle. Les salles à
banquets, le portique et la cour ont connu des modifications mineures au cours du IVe siècle, et,
vers la fin du siècle, le bâtiment fut détruit. De nombreux vases de cuisine et de table,
principalement des coupes à boire, furent alors répandus au-dessus des vestiges du bâtiment. Les
comptages effectués par catégories montrent une nette prédominance des urnes et des faitouts pour
préparer la nourriture auxquels viennent s’ajouter dans une moindre mesure des coupes à boire et
des vases miniatures destinés aux offrandes. Une fosse creusée dans ce niveau contenait des vases
intacts et des terres cuites votives qui témoignent probablement d’une cérémonie de clôture comme
dans d’autres sanctuaires de cette époque.
Associés à la vaisselle de cuisine et de table, des déchets alimentaires composés d’ossements
animaux et de coquillages attestent de la pratique de banquets rituels pris dans le sanctuaire. La
composition de la faune montrent une prépondérance de la consommation de porcelets et
d’agneaux qui diffère des pratiques alimentaires courantes de cette époque.
En l’absence d’indication certaine permettant l’identification de la ou des divinités adorées, telles
qu’inscriptions ou ex-voto significatifs, l’analyse de la composition de la vaisselle et de la faune ainsi
que les parallèles architecturaux suggèrent l’hypothèse d’un sanctuaire dédié à Déméter et Coré
dont le culte est d’ailleurs bien attesté à Cumes à cette époque par les sources.
15
Les dépôts rituels domestiques en milieu grec
Réjane ROURE (Université De Montpellier), Claire JONCHERAY (Université de Provence),
David OLLIVIER (CAV), Pierre EXCOFFON (Ville de Fréjus), Carine DEAL (Ville d’Hyères),
Clarisse LACHAT, Valérie SALLE
Avec la collaboration de Clément Sarrazanas, Benjamin Girard, Michel Py et Maeva Serieys
Si la religion grecque a fait l’objet d’études et de recherches pléthoriques, ses aspects domestiques
sont encore relativement mal connus, tout du moins (ou notamment) dans ses aspects les plus
quotidiens et ses développements les plus matériels : dans l’espace domestique. Ce manque de
connaissances est indubitablement lié à la faiblesse des données concernant l’habitat grec dans son
ensemble, soulignée par M.-C. Hellmann dans sa récente synthèse sur l’architecture domestique
grecque. Les fouilles archéologiques concernant directement les structures de la vie quotidienne des
Grecs, que ce soit en Grèce propre ou dans le monde colonial, sont encore peu nombreuses ou
trop récentes pour que les éléments en soient accessibles. La publication des fouilles d’Olynthe par
N. Cahill a apporté un éclairage non négligeable, mais qui est loin de combler encore toutes les
zones d’ombre.
Les fouilles menées sous la direction de Michel Bats à Olbia de Provence, dans l’îlot VI, entre 2002
et 2009, ont livré une importante documentation sur l’habitat grec de la période hellénistique.
L’exploration complète des niveaux de fondation des trois maisons présentes à l’origine dans l’îlot a
livré, dans l’une d’entre elles, plusieurs éléments vraisemblablement liés à des pratiques
dépositionnelles rituelles, et en particulier un dépôt de plusieurs objets, regroupés, dans la tranchée
de fondation d’un mur de séparation interne de la maison.
Il conviendra bien entendu de s’interroger sur la notion même de dépôt, de faire le bilan de nos
connaissances sur les aspects domestiques de la religion dans le monde grec, tout en mettant en
perspective l’importance des pratiques rituelles tournant autour de la protection de la maison – de
sa construction à sa fonction d’espace de vie. On présentera par ailleurs les pratiques de dépôts
rituels domestiques dans l’espace de la maison gauloise, bien attestés dans différents sites du
Languedoc et de la Provence, afin de s’interroger sur la nature – et éventuellement les
correspondances – de ces deux pratiques, au sein de cet espace de contacts et d’acculturation qu’est
la Gaule méditerranéenne protohistorique.
16
Identités ethno-culturelles et acculturations
Identité et acculturation : les concepts anthropologiques sont-ils utiles aux archéologues ?
Philippe Boissinot (EHESS, TRACES/CRPPM, Toulouse)
S'il est indéniable que les faits archéologiques nourrissent les réflexions sur la diversité humaine,
contribuant de la sorte au grand projet de l'anthropologie historique, il est moins sûr que ces
observations concourent à une compréhension théorique des pratiques humaines, d'autant plus
que les perspectives primordialistes et évolutionnistes, qui s'en étaient vaguement nourries, sont
aujourd'hui largement critiquées par les anthropologues. Au mieux, le document archéologique
exemplifie-t-il ce qui a été élaboré ailleurs, sans apporter de raffinement à des conceptions qui
viennent de l'ethnologie ou de la sociologie, voire même de l'histoire. Ainsi en est-il du concept
d'acculturation qui, appliqué au Midi protohistorique, vérifie ce que l'on savait grâce à R. Bastide
notamment, à savoir que, d'une "culture" à l'autre, les traits techniques (matériaux et modes de
construction) se diffusent moins difficilement que les aspects symboliques (forme de la
construction) par exemple ; mais, devant l'impossibilité d'une approche relationnelle et subjectiviste,
l'analyse du protohistorien tourne court assez rapidement. Avant d'être le mot-valise qu'il est
devenu dans les sciences sociales et le langage ordinaire, et auquel des travaux archéologiques
croissants se réfèrent, souvent de manière maladroite, l'identité est un concept philosophique
indispensable à l'élaboration de nos connaissances. Or, la pratique archéologique, par sa nature
même, nous prive de critères d'identité, souvent "arbitraires" sans l'être systématiquement, mais
nécessaires à la "bonne" compréhension des phénomènes entrevus, ce qui explique sa faible
contribution à la théorie anthropologique ; ainsi, pour appliquer judicieusement le concept
d'acculturation, faut-il savoir quand commence une "culture" et quand il s'agit d'une deuxième, dans
le temps et dans l'espace. En ne recourant qu'à l'archéologie, nous sommes placés dans l'espace
"flottant" des pratiques que l'on peut, d'une certaine manière, étudier de manière "objective", au
prix d'une naturalisation des faits observés, privilégiant la dynamique, au détriment de la statique.
Mais, pour répondre à la question : « que s'est-il passé ici ? », – laquelle relève surtout du deuxième
aspect, celui qui correspond aux attentes du public de l'archéologie –, sommes-nous tenus, nous
protohistoriens, de nous informer des débats anthropologiques les plus récents, tout en les
maintenant en coulisses, car ne pouvant y contribuer avec nos seules ressources. Dans ce domaine,
il en est comme du rôle de l'artiste pour Tchekhov, nous devons poser les bonnes questions sans
être tenus d'y répondre. Je crois que c'est également l'une des leçons majeures du travail de notre
ami Michel Bats.
17
Frontière(s) et identité(s) en Italie Méridionale
Mario Lombardo (Université de Lecce)
La 'frontière', entendue dans le sens qu'elle assume dans la perspective de la frontier history,
constitue un contexte d'interactions - à différents niveaux - entre societés et cultures diverses, les
unes 'locales' les autres provenant de l'extérieur.
Les dynamiques de ces interactions 'de frontière', lorsqu'elles ne sont pas destructives, favorisent
l'émergence de processus de définition et affirmation de formes identitaires (ethniques, politiques,
etc.) d'ordre subjectif (emic) ou objectif (etic), qui contribuent à créer/fixer/maintenir/déplacer des
'frontières' dans le sens 'linéaire' de limites, 'confins', entre différentes entités ethniques ou
politiques.
L'Italie Méridionale entre le VIIIème et le IVème siècles av. J.Chr. constitue un 'contexte de
frontière' complexe et traversé par des dynamiques trés articulées qui intéressent, avec différentes
formes et issues sur le terrain des identités, soit les processus d'interaction entre populations
indigènes et 'colonisateurs' grecs, soit les relations entre les différentes composantes des unes et des
autres.
Ici, on évoquera, avant tout, les lignes générales de ces dynamiques 'de frontière' dans leur issues
principales : en partant de la période des établissements coloniaux, et en passant par celle de
l'expansion des apoikìai grecques et de leurs territoires à la dépense des populations indigènes (avec
différents temps, formes et issues respectivement dans les cas des Sicules, des Oenotres, des
Chones, des Iapygiens, etc.), on arrivera à la phase de la native reaction, et du 'renversement de la
frontière', qu'on peut lire en rapport avec d’importants phénomènes ethnogénétiques dans le
monde indigène (Lucaniens, Campaniens, Brettiens), qui favorisent à leur tour l'émergence de
réponses identitaires nouvelles (d'ordre ethno-politique) de la part des Grecs (Italiotai).
Ensuite on portera l'attention sur quelques aspects et moments qui me semblent présenter un
intérêt particulier dans la perspective de cette section de notre Colloque, centrée sur les identités
ethno-culturelles.
On regardera en particulier à:
1. L'identité des Achéens d'Italie et leurs frontières:
a. Metaponte, Tarente, les Oenotres et les frontières entre Italìa et Iapyghìa
b. La coalition des colonies achèennes et la conquête de la Siris ionienne.
c. Les cités des Oenotres, les Serdaioi et les identités dans l'empire sybarite.
2. Tarente et les populations iapygiennes : dynamiques 'de frontière' et processus de définition
identitaire dans la région apulienne.
3. L'ethnogenèse des Lucaniens et des Brettiens et les 'frontières' dans la nouvelle 'frontière' de
l'Italie méridionale.
18
Les identités des Ibères
Carmen ARANEGUI GASCO (Université de Valencia)
La question des identités, était-elle envisagée dans l’Antiquité? Il y a probablement des collègues
bien mieux doués que moi pour répondre à cette question dans cette rencontre d’amis de Michel
Bats. Permettez-moi, de toute façon, d’exprimer mon avis: le fait que les historiens anciens
donnent un nom aux peuplades ne signifie pas qu’ils accordent à celles-ci, quoique reconnaissables
par leurs mœurs et leur folklore, des identités spécifiques. Ceci du fait que l’identité était alors liée
aux attitudes politiques que l’Histoire Ancienne réservait aux citoyens, les seuls capables de se
montrer consciemment comme partie d’un tout.
Par contre, de nos jours, l’identité est le résultat d’un discours revendicatif qui fait entrer dans
l’Histoire des gents autrefois anonymes. Et les ethnonymes que nous tous employons dans nos
travaux peuvent prendre un sens identitaire, parfois inconsciemment de notre part. Un sens
identitaire changeant par rapport aux sources, aux contextes et au but des discours.
Michel Bats voit un marqueur grec dans un cratère attique d’Ensérune et je vois plutôt une
influence ibère dans le même objet. Il observe la pièce de Marseille tandis que mois je le fais des
nécropoles d’Ibérie. Comment trancher la question ?
Serait-il plus juste de reconnaître que les gents d’Ensérune et celles de Murcie, par exemple,
étaient, les unes et les autres, un peu grecques et un peu ibères? Est-il possible de mesurer
l’identité ? Pourrait-on concevoir ici des identités synthétiques, comme celle des Gallo-romains ?
L’identité peut-elle être acquise?
Bien sûr. Au Siècle des Lumières les concepts d’hellénisation et romanisation ont constitué les
fondements de l’identité des éclairés européens, non pas par la voie de l’histoire vécue mais dut fait
qu’ils se déclaraient dépositaires des savoirs et des arts de l’Antiquité (Hobsbawm, Ranger, 1983).
Avec la France, les Scandinaves, les Russes et les Germains se sont appropriés du monde classique
pour construire une identité collective, caractéristique des temps modernes. Mais, de la même façon
qu’on peut y être inclus, on peut aussi en être exclus. C’est le cas de l’Espagne, si l’on lit Voltaire
(1694-1778) ou J.-B. Bory de Saint-Vincent (1778-1846). La défaite de l’armée napoléonienne a
contribué à élargir la distance entre l’Espagne et la France (J. Perez a étudié la Légende Noire), et,
comme contrepartie, a donné lieu à la naissance de l’hispanisme, là aussi pour bien marquer les
différences.
Que pouvons-nous donc dire à propos des Ibères et de l’identité ? D’abord, si c’est question
d’autoreprésentation, il faudra voir du côté des différents auteurs. Et ceci dit, il est impossible que,
par le biais de l’archéologie, une revendication ethnique soit satisfaite. Mais, suivant C. Renfrew,
l’histoire de l’archéologie est l’histoire des identités
Renfrew, C. (1996) : Fordword en Bahn, P. Archaeology : Cambridge Illustrated History.
Cambridge, CUP, pág. vii.
19
Urbanisme préromain et identités en Méditerranée nord-occidentale
Dominique GARCIA (Université de Provence)
« Ville de Marseille », « cité grecque oubliée », « agglomération indigène », « port étrusque », «
oppidum celto-ligure », « habitats ibérique »... sont autant d'appellations parmi d'autres qui sont
utilisées pour désigner des agglomérations préromaines de Méditerranée nord-occidentale. Nous
développerons et discuterons les trois critères principaux employés pour appréhender l'identité de
ces sites. Le plus pertinent des critères parait être la présence d'une ou plusieurs mentions dans un
texte ancien, même si parfois la localisation même du site ou la date de la citation pose problème.
L'analyse des techniques architecturales et de l'urbanisme, par comparaison avec des sites de
référence, est de plus en plus mise à contribution : la ville apparait avant tout comme un concept
dont on peut retrouver l'origine ethnique à la lecture du plan. Enfin, la culture matérielle - la
céramique en particulier - sert souvent de base à l'identification ethnique des habitants du site.
A partir de différents exemples archéologiques et anthropologiques nous présenterons les intérêts
et les limites de cette approche identitaire des agglomérations protohistoriques et son poids
historiographique.
Les fouilles récentes de Fratte
Angela PONTRANDOLFO (Université de Naples), Alfonso SANTORIELLO (Université de Naples)
20
Du bon usage de la violence dans les images étrusques et italiotes
Claude POUZADOUX (Université Paris ouest), Luca CERCHIAI (Université de Salerne), Natacha
LUBTCHANSKY (Université de Tours)
De l’Étrurie à Tarente, sur les tombes peintes, les vases et les reliefs, la représentation de sacrifices
humains, de scènes d’infanticide, de suicides et de violences faites aux femmes et aux vieillards a
suggéré depuis le XIXe siècle l’existence d’un goût marqué des populations de l’Italie antique pour
les représentations de la violence. Cette spécificité culturelle semblerait même confirmée par le fait
que de nombreuses représentations grecques de scènes violentes étaient majoritairement destinées à
une clientèle étrusque ou italique, et qu’on voit apparaître de nouveaux épisodes mythologiques
absents du répertoire attique qui sont l’occasion de mettre en scène des corps mutilés, en particulier
des têtes coupées et du sang versé. Des images d’actes violents à une culture de la violence, il n’y a
qu’un pas, rapidement franchi par une historiographie encline à souligner la sauvagerie des
populations italiques.
Ce type d’approche est aujourd’hui nuancé par des analyses qui mettent au jour l’expression d’une
violence ritualisée, qui trouve des échos dans les sources littéraires d’époque romaine, notamment
dans l’épopée virgilienne. C’est en reprenant l’étude de ces images que nous voudrions tout d’abord
identifier les signes et les codes de la violence dans l’Italie antique par rapport au monde grec et
évaluer ce que ces modes de représentation doivent aux contacts et aux échanges culturels à l’œuvre
en Italie, en nous référant à la vexata quaestio de la diffusion de la culture hellénique auprès des
commanditaires indigènes. La confrontation de l’art étrusco-italique et de la céramique italiote
permet de percevoir des traitements variés notamment dans le recours ou non au sang versé.
L’autre aspect de ce dossier s’intéressera au rôle de ces cultures dans la transmission des
représentations de la violence de la Grèce à Rome et dans l’élaboration d’une expression du
pouvoir caractéristique des aristocraties italiques.
La Provence orientale et la Méditerranée à l’âge du Fer
Laurence MERCURI (Université de Nice)
Le bilan des importations méditerranéennes dans la région qui s’étend de l’Estérel à l’actuelle
frontière italienne conduit à réfléchir sur l’évolution de la frontière à l’Est du massif durant l’âge du
Fer, sur la cohérence géo-culturelle de ces importations, sur l’existence ou non d’une zone
« grecque » et d’une zone « étrusque », sur la situation avant et après la fondation de Massalia et sur
la place d’Antipolis et de Nikaia dans ce contexte.
21
Quel accompagnement pour quel mort ?
Les services funéraires protohistoriques en Languedoc occidental
Laura BOURDAJAUD (Université de Montpellier), Thierry JANIN (Université de Montpellier),
Martine SCHWALLER (SRA Languedoc-Roussillon)
Pour la séquence comprise entre la fin de l’âge du Bronze (9e s.. av. n. è.) et la fin du 3e s. av. n. è.,
la pratique quasi exclusive de l’incinération est adoptée par les populations du Languedoc
occidental. On dispose ainsi de plusieurs centaines de sépultures, rassemblées en nécropoles, qui
permettent entre autre une lecture des assemblages funéraires. Leur composition, quantitative et
qualitative, associant les vases cinéraires, les récipients voués aux liquides et ceux destinés aux
solides, paraît être fonction du sexe et de l’âge au décès des défunts. Le cas des sépultures doubles,
voire triples, apporte également de précieuses indications sur la notion même de service. Le
mobilier métallique semble également étroitement lié à ces paramètres sociaux. Certains objets, tels
les broches à rôtir et les simpulums en sont de bons exemples.
Par ailleurs, ces mobiliers sont parfois accompagnés de restes osseux animaux qui pourraient
éventuellement témoigner de pratiques de consommation en relation avec les funérailles ; leur
dépôt semble également fonction du ou des défunts.
En se fondant sur des exemples nombreux, on s’interrogera sur la notion de service funéraire, et on
tentera d’en analyser les variétés et les évolutions.
L’identité face au commerce : exemples languedociens
Daniela UGOLINI (CNRS, Aix-en-Provence)
Au début du VIe s. av. J.-C. s’amorce dans le Midi le mouvement des échanges commerciaux et des
contacts réguliers entre les peuples du littoral et le monde méditerranéen. Les conséquences, on le
sait, ont été notables à différents niveaux. Du point de vue du mobilier céramique, l’arrivée de plus
en plus massive des vases tournés a représenté un véritable tournant dans la vie quotidienne des
autochtones. La baisse rapide des vases non tournés trahit le délaissement d’une tradition ancestrale
qui va de pair avec l’appauvrissement du répertoire des formes en usage. En particulier,
disparaissent celles qui sont les plus typiques des cultures régionales. D’un autre côté, la vaisselle
importée a introduit de nouvelles habitudes et suscité une certaine émulation. En examinant
quelques cas, on tentera de mettre en évidence les choix opérés alors dans la région LanguedocRoussillon par rapport à l’offre commerciale et dans quelle mesure, malgré une progressive
tendance à la standardisation, les réponses à la nouvelle situation peuvent traduire des réflexes
identitaires.
22
La logique de l’écriture
L´écriture après l´économie. Peuples et réponses
Javier DE HOZ (Université de Madrid)
Selon un point de vue commun à l'heure actuelle le contrôle de l'économie est la principale cause de
l'invention ou de l'adoption de l'écriture dans l'Antiquité.
Il ya cependant des cas où nous ne voyons pas clairement comment et pourquoi un prêt d'écriture a
eu lieu. Le problème est particulièrement difficile parce que les supports utilisés pour l'écriture
seulement dans une minorité de cas, ou dans des conditions écologiques très particulières, ont
survécu.
Je présenterai le problème des relations de l'écriture avec des activités économiques à travers une
série de cas ayant des caractéristiques différentes tant du point de vue de l'information comme du
point de vue du contexte historique.
Un exemple clair de l'adoption de l'écriture pour l'utilisation économique : les écritures ibériques.
Cas clairs avec une documentation insuffisante: l'alphabet grec original, l'écriture de Tartessos.
Cas dans lesquels l'explication par l'économie est difficile à appliquer: l'alphabet crétois, l'alphabet
laconien, l'écriture celtibérique.
Un cas particulièrement ambiguë: l'écriture gallo-grecque.
Sur les débuts de l’écriture dans le domaine celtique. Italie, Ibérie, Gaule, Bretagne
Aldo PROSDOCIMI (Université de Padoue)
23
Vaisselle et alimentation …
Les figurines en terre cuite dans le Sud de la Gaule
Antoine HERMARY (Université de Provence)
Alors que les villes grecques d’Italie du Sud et de Sicile ont produit, aux époques archaïque et
classique, des quantités impressionnantes de figurines en terre cuite, les fouilles de Marseille n’ont
livré que très peu d’exemplaires de ce type de mobilier, qu’il s’agisse d’importations ou de
productions locales. On présentera un bilan sur ce point et, en s’appuyant également sur les
quelques figurines trouvées dans l’épave de la Pointe Lequin, sur la circulation de ce type d’objet sur
les côtes de Provence et du Languedoc. Tout en étant isolées, des découvertes faites à Lattes et à
Ensérune témoignent de réseaux de diffusion tout à fait différents, la petite tête féminine trouvée à
Lattes se rattachant aux séries grecques de la fin de l’époque archaïque, tandis qu’une figurine
d’Ensérune est caractéristique des productions puniques.
Production et consommation des céramiques à pâte claire autour de l’étang de Berre
(seconde moitié VIe et Ve s. av. J.-C.)
Jean CHAUSSERIE-LAPREE (Ville de Martigues), Lise DAMOTTE, Jean-Christophe SOURISSEAU
(Université de Provence)
Les céramiques à pâte claire le plus souvent dites massaliètes ont longtemps nourri la recherche de
Michel Bats. La définition de cette production, ou plutôt de ces productions tournées, très diffusées
dans le Midi de la Gaule dès le VIe s. demeure cependant difficile à préciser. A partir
essentiellement de contextes de découvertes de Marseille et de Saint-Pierre-lès-Martigues, nous
tenterons de caractériser la production spécifiquement massaliète et les grandes lignes de son usage
en milieu grec phocéen, ce qui permettra de dégager les principales caractéristiques de productions
probablement non massaliètes, en usage dans le secteur de l’étang de Berre dès la seconde moitié du
VIe s. et dans le courant du Ve s.
24
Caracterización de los talleres cerámicos de Rhode (Roses, Catalunya)
Anna Maria PUIG GRIESSENBERGER (Ayuntamiento de Roses/Museo de la Ciutadella)
Rhode es una colonia massaliota fundada en el golfo de Roses a partir del segundo cuarto del siglo
IV a. de C. Se sitúa justo en el extremo opuesto de una bahía donde años antes Massalia había
fundado Emporion, a pocas millas de distancia. Hasta hace poco Rhode no había sido estudiada en
profundidad; si se tenía constancia de sus talleres cerámicos, dados a conocer por Enric Sanmartí y
Yves Solier. Una reciente monografía ha permitido profundizar no sólo en la evolución
cronológica, histórica y urbana del yacimiento, sino también revisar las producciones de sus talleres
cerámicos. El artículo se centrará en este tema, en los principales rasgos que caracterizan los talleres
y los diversos tipos cerámicos que produjeron, y en el marco cronológico que justifica su aparición
en la segunda mitad del siglo IV a. de C. y su final en el 195 a. de C.
En primer lugar debemos abandonar la clasificación de los talleres de Roses en función de sus
formas i/o combinaciones decorativas, como se ha venido haciendo hasta ahora. No es posible
sostener esta diferenciación iniciada por Sanmartí y ampliada posteriormente por distintos autores.
Las combinaciones decorativas son múltiples y no pueden relacionarse con formas precisas, es
decir, no existen concordancias evidentes. Solo se observa una cierta identidad en las producciones
asociadas a los sellos NIKIA////IWN.C, PAR y KAKA. No obstante, los trabajos arqueológicos no
han permitido conocer cuántos talleres u oficinas formarían parte del kerameikos de Rhode a lo
largo del tiempo. Solo se han recuperado dos hornos y algunas instalaciones asociadas.
Aunque se trata de unos talleres artesanales, con un volumen de producción y difusión no muy
amplia, se supone que en el momento de mayor expansión dispondrían también de una
superestructura que supervisaría y daría cohesión a las diferentes fases del proceso de fabricación y
comercialización.
La producción más conocida de los talleres, no la más antigua, es la vajilla de barniz negro. El
momento inicial se ha situado en el último cuarto del siglo IV a. de C., conviviendo con las
producciones áticas y de pequeñas estampillas. Esto incide de modo que las primeras formas y
decoraciones tengan un carácter “helénico”, siguiendo el estilo y el gusto por estos productos de
mayor difusión, aunque se dan ciertos rasgos de innovación. Cuando deja de importarse la vajilla
ática, Roses toma el relevo en el ámbito de su mercado más próximo, respondiendo a una demanda
específica. En el siglo III la producción crece y evoluciona, llegando a niveles de mayor
estandarización; ahora la vajilla se decora con motivos propios, diferenciados. En los últimos años
la producción seguirá adaptándose a la tendencia vigente, que se consolidará con la campaniana A.
Una de las hipótesis que se plantean en torno a los talleres de Roses es su filiación massaliota. En
realidad los talleres empiezan produciendo cerámica de pastas claras ya en la segunda mitad del
siglo IV a. de C., antes de la fabricación de barniz negro, elaborando las formas más comunes y de
mayor tradición de los talleres de Marsella. Cuando Roses inicia la vajilla de barniz negro, las pastas
claras tenderán a disminuir, aunque no cesarán a lo largo del siglo III, adoptando el repertorio
formal massaliota e innovando, aunque en menor grado. Es interesante observar como ciertas
formas de pasta clara massaliota también se imitaran y producirán en barniz negro. Otros productos
secundarios de los talleres son las cerámicas de cocina, con las típicas chytrai, caccabai, lopades y
sus tapadoras, y una cerámica gris, que entronca con la cerámica gris de la costa catalana.
El final de los talleres se produce de manera repentina entorno a los hechos que provocan la
anulación de la colonia en el 195 a. de C., con la imposición romana en el territorio a través de la
campaña de Catón. Si Roses no se hubiera posicionado manifiestamente en contra, ¿sus talleres
habrían alcanzado los niveles de producción masiva y comercial de los talleres
25
Colonisation, cuisine et formes de consommation en Ibérie septentrionale
Joan SANMARTI (Université de Barcelone)
Les rapports entre indigènes et colonisateurs ont été souvent envisagés en Ibérie sous une optique
imprégnée par la nature de la colonisation européenne du XIXe-XXe siècles, notamment par J.
Maluquer de Motes. L'évolution des communautés indigènes de petite échelle vers la formation de
sociétés complexes que l'on constate dans ce territoire entre le VIIe et le IVe siècles av. n.e. aurait
été dirigée par les colonisateurs Phéniciens, puis grecs qui, dans le but de favoriser les échanges
commerciaux, auraient encouragé l'intensification de la production et du pouvoir achat en milieu
indigène, mais auraient en même temps agi pour empêcher la formation de pouvoirs politiques
solides. De même, le contact avec les colonisateurs aurait suscité l'adoption parmi les indigènes de
pratiques culturelles exotiques, notamment grecques, de sorte qu'ils auraient subi un processus
d'hellénisation (ou de punicisation); ils seraient devenus, en quelque sorte et en quelque mesure,
grecs (ou puniques). Depuis les années quatre-vingts ces idées ont été mises en cause par des
chercheurs qui, a partir de différentes sources théoriques (notamment le marxisme structurel et le
matérialisme culturel) ont préféré de comprendre les changements socio-culturels du VIe siècle av.
n.e. comme le résultat de processus internes des sociétés indigènes. La nature des rapports entre
indigènes et colonisateurs est ainsi considérée d’un point de vue très différent.
Tel que je l'ai proposé dans des travaux préalables fondés sur l'analyse d'ensemble de l'origine,
volume, nature et distribution du matériel céramique importé dans les sites de l'Ibérie
septentrionale, il est possible d’attribuer aux sociétés indigènes –plus précisément à leurs élites– des
rôles actifs dans les choix des matériels acquis aux colonisateurs, jusqu'au point que l'on peut même
envisager la possibilité que la nature changeante de leur demande ait considérablement conditionné
la structure économique de ces sociétés coloniales. Je propose maintenant d'élargir cette optique
vers l'analyse de l'adoption de pratiques culinaires exotiques et de formes spécifiques de
consommation des aliments, non pas comme un signe d'"hellénisation", mais comme
l'appropriation sélective de traits culturels étrangers par les élites ibériques dans le but de mieux
signaler leur nature différenciée par rapport au reste de la population. Pour ce faire, j'étudie d'une
part la distribution dans les sites indigènes des vases culinaires importés (et de leurs imitations) et je
tâche de montrer, à partir d’arguments indépendants (architecture domestique, nombre et qualité
d’autres importations, etc.) qu’il s’agit de pratiques propres à l’élite de la société ibérique. D'autre
part, j'analyse la composition de la vaisselle importée en différents sites que l’on peut supposer
occupés pas des groupes sociaux divers, dans le but de montrer que les différences que l'on y
observe, et que l’on peut interpréter par l’adoption de pratiques de consommation exotiques,
peuvent être expliquées elles aussi par des raisons sociales.
Rencontres culinaires : la culture matérielle incorporée
Michaël DIETLER (Université de Chicago)
26
POSTERS
Mondo greco occidentale ed Etruria. Il tema di “Ercole alla fonte” nella glittica.
Laura AMBROSINI ((ISCIMA/CNR)
Tra le gemme considerate greco-occidentali è stato possibile identificare e ritrovare a Londra una
gemma già pubblicata da Micali, Visconti e Gori, con iscrizione aithna, inserita negli Etruskische
Texte, che forse può aprire delle nuove prospettive di studio del tema di Hercle alla fonte,
ampiamente diffuso nel bacino del Mediterraneo. La nostra gemma, uno scarabeo d’agata, è
compresa nel LIMC per ben due volte, sotto le voci Herakles ed Hercle. Secondo il Boardman
l’intaglio assomiglia ad un'opera etrusca, ma l’iscrizione è greca, pertanto il manufatto potrebbe
essere di manifattura greco occidentale; il Boardman, riprendendo un’idea del Mansuelli, interpreta
l’iscrizione come una sorta di esortazione magica all’acqua a scorrere. Il Gori aveva collegato
l’iscrizione al verbo αιονάω, nel senso del lat. aspergo, perfundo ed il Mansuelli aveva poi precisato
"l'ingiunzione rivolta dall'eroe alla fonte: αἳονα ("sgorga!") si è tramutata in violenta minaccia". La
Schwarz, dal canto suo, nella voce Hercle del LIMC aveva avanzato timidamente l’ipotesi che
l’iscrizione, giudicata greca dal Boardman, potesse forse essere etrusca. Il Winckelmann aveva
invece creduto a Filippo Buonarroti che nelle sue Animadversiones in Museum Florentinum p. 12
aveva sostenuto che l’iscrizione fosse un'aggiunta moderna. Il termine aithna potrebbe essere
identificato con quello di Aitne, ninfa di Sicilia, figlia di Ouranos e Ge, oppure di Oceano, eponima
della città di Etna e del vulcano; in ogni caso la ninfa sarebbe collegata alla Sicilia orientale, non
contemplata nella cartina di distribuzione dei luoghi relativi alle "acque di Ercole", edite anche di
recente. Il dato è rilevante perché, a nostro avviso, lo scarabeo potrebbe essere stato realizzato da
un artigiano greco (proveniente dalla Sicilia?) operante in Etruria; ci sembra, anzi, che il confronto
con una gemma in calcedonio conservata anch’essa a Londra, raffigurante un atleta nudo con
strigile, con un alabastron ed un disco, grazie all'identico rendimento dell’anatomia, induca ad
ipotizzare che si tratti di due opere realizzate probabilmente dal medesimo artigiano.
27
Caractéristiques, évolution et particularités de la population indigène dans l'environnement
de la région de colonisation grecque de l'Empordà. Le cas du Mas Castellar de Pontós (VIeIIIe s. av. J.-C.).
David ASENSIO (Université de Barcelone), Enriqueta PONS (Museu d’Arqueologia de
Catalunya)
Au cours de la première moitié du VIe siècle av. J.-C. une enclave coloniale grecque s'établit à
l'extrême ouest, l'Emporion Focea ; présence renforcée grâce à la fondation de la cité de Rhodes à
proximité, au milieu du Ve siècle av. J.-C. Dans l'environnement immédiat de ces villes coloniales,
on reconnaît aisément une population indigène très dense et dynamique composée d'un éventail
d'implantations de typologie très variée. Nous y trouvons de grandes villes de premier niveau (Puig
de Sant Andreu et Illa d'en Reixac), comme des centres spécialisés (Mas Castellar de Pontós et
même, Perelada) et de petites implantations rurales (Mas Gusó, Camp de l’Ylla). Il est certain que
ces communautés ont eu un niveau de contact et d'interrelation privilégié avec les agents coloniaux
nouveaux venus. Il est vraisemblable de penser que ce lien, plus étroit et plus intense que les liens
normaux, pourrait comporter la genèse de certaines particularités dans quelques sphères
importantes de ces communautés, comme par exemple les formes architecturales ou la culture
matérielle.
Il est même probable qu'aussi bien la nature que la structure interne de cette population comme son
évolution dans le temps (entre les VIe et IIIe siècles av. J.-C.) ait d'une certaine manière été
conditionnée par le phénomène colonial. Ainsi, les relations avec les noyaux coloniaux peuvent
avoir constitué un facteur déterminant aussi bien dans le renfort défensif d'une implantation
(Ullastret), que dans le démantèlement contemporain des murailles d'autres lieux (Pontós), ainsi que
dans la réorientation et la spécialisation économique de plusieurs centres indigènes voisins (Pontós,
Perelada).
En marge d'une révision globale des établissements de cette région, avec quelques nouveautés
intéressantes, nous soulignerons en particulier le registre du complexe de Mas Castellar de Pontós
(Alt Empordà), lieu qui sans aucun doute fournit une documentation exceptionnelle visant à
évaluer archéologiquement la consistance des niveaux d'interdépendance entre les communautés
ibériques locales et les contingents coloniaux.
28
Cavalli senza cavalieri. Il tripode di Cap d’Agde e i tripodi etruschi tardo-arcaici con protomi
equine
Giacomo BARDELLI (Université d’Innsbruck)
Durante un’esplorazione subacquea condotta nell’agosto del 1986 al largo di Cap d’Agde, in località
Tour de Castellas, fu rinvenuto un tripode etrusco in bronzo ornato da decorazioni figurate, quasi
completamente integro. Appartenente alla serie dei tripodi cosiddetti “a verghette”,
tradizionalmente annoverati tra i prodotti della toreutica vulcente di epoca tardo-arcaica, il tripode
di Cap d’Agde ha permesso di incrementare il corpus degli esemplari noti e ha riproposto alcune
questioni non ancora pienamente approfondite, come, ad esempio, il problema della seriazione
cronologica e quello dell’interpretazione dei soggetti figurati che decorano tutti i tripodi della serie.
Lo studio di questa classe di reperti, infatti, è stato spesso limitato a un’analisi strettamente storicoartistica che, pur fornendo un contributo fondamentale per delineare la fisionomia delle produzioni
vulcenti sullo scorcio del VI secolo a.C., ha tuttavia relegato in secondo piano aspetti fondamentali
quali le caratteristiche tecniche e la comprensione del significato e della funzione dei tripodi.
L’esemplare emerso dalle acque di Cap d’Agde è di notevole interesse, poiché trova confronti
precisi all’interno della serie limitatamente alla scelta di alcuni soggetti posti a decorazione delle
verghette. In particolare, sia su questo tripode sia su altri compaiono tre gruppi formati da due
protomi equine contrapposte, collocate a intervallare singole figure antropomorfe, alcune delle quali
connotate da attributi divini. E’ il caso di un tripode conservato al British Museum sul quale,
insieme ai cavalli, sono rappresentati Eracle, una figura alata intenta a trasportare una fanciulla e un
personaggio armato di spada, o di un altro tripode oggi a St. Louis, in cui appaiono due figure
femminili e un personaggio maschile, tutti rappresentati secondo lo schema della corsa
inginocchiata. Sul tripode di Cap d’Agde i tre gruppi equini sono invece associati a figure femminili
alate, da identificarsi con esseri divini o demoniaci. Ai tripodi interi è inoltre possibile associare
alcuni frammenti isolati, anch’essi ornati da protomi equine, a testimonianza della frequenza di un
soggetto iconografico ritenuto evidentemente di particolare importanza. Diventa pertanto
necessario comprendere e spiegare il perché della scelta operata dai toreuti etruschi e, al tempo
stesso, quale significato potessero eventualmente assumere le protomi equine in relazione ai
differenti soggetti raffigurati – nonché rispetto ad altri tripodi in cui risultano invece del tutto
assenti. Si trattava di semplici decorazioni con funzione paratattica o è possibile pensare che fossero
in qualche modo integrati nei cicli figurativi ?
Il denominatore comune delle protomi equine permette in ogni caso di circoscrivere un gruppo di
tripodi all’interno della classe a verghette e consente di approfondire un aspetto particolare della
ricerca su questi materiali, all’interno di un progetto che aspira a definire con maggior chiarezza il
funzionamento e le caratteristiche delle officine bronzistiche etrusche del tardo arcaismo.
Il testo etrusco di Pech Maho e i testi su lamine di età arcaica
Valentina BELFIORE (Ph.D in “Allgemeine Sprachwissenschaft”)
Le considerazioni sulla presenza Etrusca presso le coste mediterranee della Gallia attraverso le
iscrizioni sono già state in gran parte effettuate in passato relativamente al piombo iscritto di Pech
Maho e alle ulteriori iscrizioni restituite da anfore da trasporto rinvenute nel relitto del Gran Ribaud
e da Saint-Blaise, oltre alle iscrizioni da Lattes. E’ stata inoltre sottolineata anche la presenza greca
in Italia, a conferma del clima vicendevole di scambi di età arcaica in area tirrenica.
Nondimeno, ulteriori riflessioni sulla lamina di Pech Maho permettono di arricchire questo quadro.
Estendendo i confronti ai testi su lamine dello stesso periodo, in piombo, bronzo o oro, è possibile
in particolare valutare gli aspetti epigrafici e alcuni elementi lessicali da considerare in relazione con
i dati provenienti dagli studi sulla diffusione dei commerci marittimi e interni.
29
La frontiera lungo i fiumi Imera settentrionale e meridionale: dinamiche insediative nella
Sicilia centro-settentrionale tra età tardo-arcaica ed età classica.
Oscar BELVEDERE, Aurelio BURGIO (Dipartimento di Beni Culturali, Università di Palermo)
Nella Sicilia centro-settentrionale, la zona di spartiacque tra i fiumi Imera settentrionale,
meridionale e Platani è riconosciuta già da anni come un’area cardine nelle relazioni tra le diverse
aree dell’isola, sia in riferimento alle proiezioni politiche ed economiche delle poleis coloniali, in
particolare tra Himera, Akragas e le comunità indigene dell’entroterra, sia in riferimento agli
avvenimenti che tra la fine del V secolo ed il IV secolo vedono il progressivo contrarsi degli
insediamenti e l’affermarsi del dominio punico. L’area descritta è dunque una zona di frontiera,
zona di incontro e scontro tra le comunità, nella quale si possono cogliere complessi sistemi di
articolazione territoriale. La dislocazione dei siti lungo i bacini dei due Imera evidenzia infatti una
stretta connessione in termini di intervisibilità, bene espressa dalla prevalente ubicazione lungo le
principali direttrici viarie, in particolare sui rilievi dalle spiccate connotazioni strategiche;
parallelamente, è attestata la presenza di un tessuto insediativo molto denso, articolato in
comprensori, ciascuno strutturato con un sito dominante e insediamenti di minor rilievo di norma a
controllo di vie di accesso e dei principali snodi viarii.
Terravecchia di Cuti, Cozzo Mususino, Serra di Puccia, sono tra i più importanti insediamenti di
questa zona: a veri e propri centri abitati (Terravecchia, Mususino, Monte Chibbò), si affiancano
più piccoli villaggi (Serra di Puccia-Cozzo Puccia, Monte Catuso-Monte Guercia, Monaco, Cozzo
Vurrania, Balza Falcone), tutti arroccati in luoghi dalla forte connotazione strategica; selezione che
non esaurisce però le forme di insediamento, poiché la ricerca topografica sistematica ha
documentato l’esistenza di un fitto tessuto rurale, con piccoli siti (Monte Piombino, Cozzo Re) e
tracce di attività che si dispongono spesso nelle aree contigue alle cime più alte.
Specifico rilievo riveste l’identificazione di siti a destinazione sacra: antefisse e frammenti di statue
in terracotta di grande modulo attestano la presenza di piccoli santuari sia all’interno di insediamenti
(Cozzo Mususino, Serra di Puccia), sia in aree suburbane (Cozzo Mususino, Serra di Puccia,
Terravecchia di Cuti), in posizione enfatica lungo uno dei principali accessi al centro abitato. Al
momento l’indagine territoriale, benché condotta in modo intensivo e sistematico, non ha portato
all’identificazione di santuari rurali, extraurbani, che pure saranno esistiti anche in questo territorio.
L’identificazione di un numero molto ampio di insediamenti ha dunque restituito un’immagine
diversa da quella tradizionale, di un popolamento distribuito non soltanto su cime e rilievi
dominanti, alcuni occupati già nell’età del Ferro (Serra di Puccia-Cozzo Puccia), ma caratterizzato
da siti rurali dispersi intorno agli insediamenti maggiori. L’analisi di dettaglio di questa distribuzione
è stata condotta attraverso i Sistemi Informativi Territoriali, e tale approccio ha permesso di
indirizzare la ricerca archeologica verso analisi cognitive, focalizzando l’attenzione sull’evoluzione
storica del territorio, e, in prospettiva, sui rapporti tra colonie (Himera anzitutto) e territorio, tra
comunità “indigene” (sicane) e territorio, valorizzando anche la sfera del sacro.
30
L’évolution du timbrage sur amphores vinaires italiques aux IIe et Ier av. n. ère à partir du
corpus toulousain.
Laurence BENQUET (INRAP GSO, UMR 5608)
Le corpus établi pour une thèse soutenue en 2002 réunissait près de 670 estampilles provenant des
fouilles anciennes dont 570 sur amphores vinaires italiques ce qui en fait le plus important
répertoire de références pour le bassin méditerranéen. La révision de la chronologie des contextes
de découverte entamée lors de l’ACR « Toulouse gauloise » ainsi que de la typochronologie ont
permis de proposer un schéma évolutif des courants commerciaux entre les côtes tyrrhéniennes de
l’Italie et l’isthme gaulois durant les deux derniers siècles avant notre ère. Les fouilles d’archéologie
préventive menées par l’INRAP dans le quartier Saint-Roch et sur l’oppidum de Vieille-Toulouse
depuis le début des années 2000 ont fait augmenter de près de 20 % ce corpus avec la particularité
de fournir des contextes stratigraphiques sûrs. Cette masse de matériel permet une approche
statistique objective afin de proposer une évolution chronologique du timbrage selon l’origine
géographique de l’objet.
La céramique fine ibérique du nord-est de la Catalogne
Josep BURCH (Institut catalan de recherche sur le patrimoine culturel / Université de Gérone)
Jordi SAGRERA (Université de Gérone)
Les productions céramiques ibériques du nord-est de la Catalogne embrassent une grande variété de
formes. Elles sont issues, non pas du hasard, mais de la fonction à laquelle elles étaient destinées.
L’une d’elles est associée à la consommation et à l’ingestion d’aliments dans le cadre de la nutrition
quotidienne. On fabriquait donc tout un éventail de pièces en rapport avec les deux grandes
manifestations du rituel de l’alimentation : le service et la consommation. La diversité des éléments
cuisinés ou des quantités à servir contribua à l’apparition d’une remarquable diversité de formes. À
la fonction, il faudrait ajouter l’incidence d’autres aspects non négligeables, comme les modes, qui
furent probablement à l’origine de changements, surtout dans le domaine de la décoration et, plus
particulièrement, les influences venues d’ailleurs, qui favorisèrent l’adoption par la population locale
de modèles qui ne lui étaient pas propres.
Pour ce qui concerne les ustensiles ménagers liés à la consommation alimentaire, nous présentons
avec ce poster l’étude de ce que nous avons baptisé céramique ibérique fine de table. Nous avons
volontairement laissé de côté d’autres productions qui, bien que conçues pour être employées pour
la consommation d’aliments, peuvent être englobées en raison de leurs caractéristiques dans
d’autres groupes de céramiques, notamment les productions faites à la main ou celles que nous
pourrions rattacher au plus large ensemble des poteries de cuisine.
Partant des travaux effectués par Nolla, Barberà et Mata, classification systématique de la céramique
grise emporitaine — une production très caractéristique fabriquée aux II et I siècles av. J.-C. autour
de la cité d’Empúries —, cette étude comprend dans un sens plus global la classification formelle
des poteries ibériques du nord-est catalan faites au tour et pensées pour être utilisées durant la
consommation d’aliments, que ceux-ci soient liquides ou solides. Elle inclut différentes productions
qui ont reçu diverses dénominations : céramique grise emporitaine , céramique grise de la côte
catalane ou, partiellement, céramique commune ibérique.
Concrètement, cette classification regroupe les formes selon la fonction à laquelle elles devaient être
destinées. Chaque groupe est défini par une lettre de l’alphabet. Les bols, probablement employés
pour servir et consommer des aliments, sont représentés par la lettre A. Les petits bols,
vraisemblablement destinés à d’autres finalités en raison de leurs dimensions, par la lettre B, les
plats par le C, les verres biconiques par le D, les pichets par le E, les coupes par le F, et ainsi de
suite. Finalement, dans chaque groupe, on peut trouver des séries formelles différenciées. Il a ainsi
été possible de mieux connaître les actes associés à la consommation alimentaire, tout en
approfondissant les sériations céramiques devenues utiles pour des questions purement
archéologiques, comme par exemple les datations.
31
La « céramique commune massaliète » du site de Lattara (Lattes, Hérault) au Vème siècle av.
notre ère. Approche typologique et classification.
Emilie COMPAN (associée UMR5140 « Archéologie des Sociétés Méditerranéennes », Lattes)
L’étude de la céramique claire massaliète du site de Lattes (-475/-375) a permis de mettre en
évidence et d’isoler une production massaliète de céramique commune se différenciant des autres
productions de céramique claire fine par une pâte plus grossière, au dégraissant de mica en paillettes
plus grosses, avec une pâte proche de celle des amphores massaliètes.
François Villard dans son étude sur la céramique grecque de Marseille (VIe-IVe siècles av.) Essai
d’histoire économique, de 1960, différenciait déjà quatre types d’argiles utilisées dans la céramique
locale dont « une argile qui varie du brun au rouge clair, tendre, assez grossière, cette technique se
caractérise par une quantité inhabituelle de grosses paillettes de mica. La surface qui en est couverte,
prend souvent, malgré son irrégularité, un aspect chatoyant. »
Il note que « l’argile à grosses paillettes de mica est typiquement locale. Elle résulte probablement
d’un mélange de terre extraite d’une des 2 couches des carrières de Saint-Henry et de fragments de
micaschiste, apporté de l’extérieur : des blocs de minéraux très fortement micacés ont été en effet
trouvés, à diverses reprises dans les fouilles. Cette argile très micacée a été non seulement utilisée
pour des pesons mais aussi pour des canalisations, des tuiles hellénistiques ou romaines et même
pour des éléments d’architecture. »
On regroupera ainsi sous le terme de « céramique commune massaliète » (code COM-MAS sous
Syslat) des vases tournés, composé de la même pâte que les amphores massaliète, destinés à la
préparation et/ou à la cuisson des aliments. Cette céramique se caractérise par une pâte assez
grossière, beige à rose clair, au dégraissant de grosses paillettes de mica, dure. Les vases ont des
parois épaisses. Les formes pourraient s’inspirer des céramiques grecques et des céramiques non
tournées locales, la forme la plus emblématique est le mortier massaliète.
Cette mise en évidence d’une nouvelle catégorie céramique nous permet de progresser dans
l’identification des différentes productions dites massaliètes, provenant de la cité phocéenne mais
aussi d’ateliers locaux.
32
Vaisselle et alimentation à Pech Maho (Sigean, Aude) : l’îlot 1 à la fin du IIIe s. av. n. è.
Anne-Marie CURE (Université Montpellier 3, UMR5140 « Archéologie des Sociétés
Méditerranéennes »)
L’étude que nous proposons porte sur la vaisselle provenant des fouilles menées en 1970 et 1971
par Y. Solier dans la partie nord-est de l’îlot 1 (fouilles 54 et 58). Les neuf secteurs explorés à cette
occasion se répartissent sur quatre unités fonctionnelles, dont le dernier niveau d’occupation, scellé
par la destruction brutale du site vers la fin du IIIe s. av. n. è., renferme un abondant mobilier
céramique.
Ces conditions particulières de conservation ont déjà permis de proposer une analyse fonctionnelle
des pièces, fondée sur la répartition des grandes catégories céramiques (vaisselle de table, de cuisine
et de stockage), mais aussi sur le petit mobilier. Il en ressort une relative différenciation des
secteurs, cette partie de l’îlot étant caractérisée par la présence de deux ateliers métallurgiques et
d’espaces de stockage. Néanmoins, les différentes pièces semblent également toutes avoir abrité des
activités liées à la préparation ou à la prise des repas, avec toujours une part plus ou moins
importante de vaisselle parmi le mobilier recueilli.
Cette étude a pour objectif, à travers une analyse par secteur, de caractériser les ensembles de
céramique de cuisine et de table d’un point de vue fonctionnel, en mettant en avant la forme des
récipients et leurs possibilités d’utilisation, et en les associant, dans la mesure du possible, aux
préparations culinaires et aux habitudes de consommation. L’approche se veut également culturelle,
puisque ces assemblages seront interprétés à la lumière du contexte régional, tout en tenant compte
du caractère propre de l’établissement, qui se présente comme un véritable emporion où transitent
des marchandises et des individus d’autres régions de la Méditerranée.
Contacts d’écritures : l’épigraphie paléohispanique du Midi gaulois.
Coline RUIZ DARASSE (Docteur EPHE IVe section)
La langue ibère est traditionnellement considérée comme l’une des langues véhiculaires ayant
permis, à l’âge du Fer, le développement d’échanges économiques entre le Nord-Est de la péninsule
Ibérique et le Midi gaulois. La reprise de la documentation des sites majeurs de l’épigraphie
paléohispanique de la zone (notamment Ensérune et Ullastret) montre que le caractère véhiculaire
de cette langue doit être à nouveau questionné. L’étude de l’onomastique et sa remise en contexte
archéologique permet de proposer de nouvelles perspectives méthodologiques pour préciser les
pratiques graphiques et leurs acteurs.
33
Western Greek amphorae : Reconsidering production sites and the evolution of
morphological types
Verena GASSNER
In the past time the importance of amphorae and in particular of Western Greek amphorae as
guide fossils of cultural identity as well as of cultural contacts was discussed in many and sometimes
controversial studies. Today we agree that this large and complex class developed in the Greek
sphere of influence in the Central Mediterranean, but still the exact circumstances and the possible
site(s) of origin are much discussed. The same holds true for their chronology. Though the
similarities and shared features of Western Greek amphorae, previously classed as Corinthian B,
Ionian or Ionian Massaliote amphorae, are now clear we still lack a general terminology and a
consistent description of their evolution. This is partly due to various approaches, considering only
part of the material in geographical or chronological regard, like the much used typology of Ch.
Van der Mersch for the amphorae from the second half of the 5th to the 3rd c. BC, or handbooks
like Diocer, regarding only pottery from a clearly described, but limited region, to mention only a
few. Though all these attempts are useful, coherent and correct for the purpose they were designed
for, at the end they result in a pasticcio that at least does not help to comprehend the underlying
structures and the development of Western Greek amphorae.
One of the main problems we are confronted with when trying to reconstruct the history of
Western Greek amphorae is the fact that we often cannot distinguish if differences in the
morphology of the vessels or of distinct parts of them are due to chronological or to geographical
differences as amphorae are export items par excellence and therefore are expected to be found
also in greater quantities on sites wich are distant from their area of production. One possible
approach to solve this problem is the classification of representative quantities of amphorae
according to their fabric in order to get an overview over the development of amphorae from one
production centre or region.
In the last years we have started to create a structured system of fabrics from the Central
Mediterranean which is accessible in a web based data base, called FACEM (Fabrics of the Western
Mediterranean: www.facem.at). Though the degree of certainty reached by this purely
archaeological method can certainly not compete with that of archaeometric analyses its advantages
lie in the fact that samples may be rather small (normally a fresh break is sufficient), the cheapness
of the application and in consequence in the possibility of screening large quantities of finds.
This contribution will try to summarize the results that have been achieved from the samples of
Western Greek amphorae collected in this data base covering a time span from the 6th to the 3rd c.
BC. Of course at the present state of research these data do not allow the general reconstruction of
the evolution of Western Greek amphorae in Southern Italy and therefore cannot answer the many
questions connected with this class of vessels in extenso. In their majority the samples stem from
very fragmented vessels, mostly rims, and thereby exclude the creation of a new terminological
system that remains a desideratum for the next years. But the sampling of a great variety of
amphorae types and their arrangement in diachronic series according to their fabric types results in
new insights what concerns production regions and the specific features of their morphology in
Campania and the Southern parts of Calabria. The topic becomes extremely interesting in the Ionic
– Adriatic region where we are confronted with a puzzling variety of morphological types. This
concerns the Ionian coast of Italy as well as the Epirote coast including the area of Corfu, one of
the secure production centres of so-called Corinthian B amphorae. In sum the samples allow the
conclusion that apparently so-called Corinthian B types as well as Corinthian A variants have been
produced from the same raw materials, presumably on both the Epirote and on the Italian side of
the region. The same might hold true for so-called Graeco-Italian amphorae from the 3rd c. BC
onwards. At the present state of research the reasons why certain shapes have been preferred on a
particular site remain unclear as do their mutual relations.
All in all the classification and arrangement of amphorae according to their (supposed) production
sites will enable us to get a better picture of the similarities, the evolution and finally the
distribution of these amphorae and thus will help us towards a better understanding of economic
exchange and commercial relations between different centres of Magna Grecia.
34
Muro Leccese (Puglia, Italia). Forme e funzioni delle ceramiche d’uso quotidiano in un
contesto messapico del IV sec. a.C.
Liliana GIARDINO (Docente di Urbanistica del Mondo Classico, Università del Salento), Catia
BIANCO (Dottore di Ricerca in Topografia Antica, Università del Salento), Teresa Oda
CALVARUSO (Dottore di Ricerca in Topografia Antica, Università del Salento), Francesca
MASTRIA (Dottoranda di Ricerca in Archeologia, Università di Lleida), Francesco MEO
(Dottorando di Ricerca in Storia Antica, Università del Salento).
L’abitato moderno di Muro Leccese, situato nella penisola Salentina interna, a una decina di
chilometri da Otranto, si sovrappone a un centro messapico attivo tra la fine dell’VIII secolo a.C. e
il bellum sallentinum. Ben noto per i resti monumentali delle mura della fine del IV secolo a.C., il
centro riceve una pesante distruzione durante lo scontro con Roma, ma già a partire dall’età romana
registra una rioccupazione con forme insediative a carattere sparso.
Il poster è finalizzato ad offrire uno spaccato della vita quotidiana di una città messapica nel IV
secolo a.C. Le ceramiche presentate provengono da un edificio residenziale ubicato nel settore
centrale dell’abitato, attraversato da una delle strade più importanti del tessuto viario, in quanto
tratto urbano di una via di collegamento diretto con Otranto. Più in particolare, il campione
proviene da un settore funzionale ben caratterizzato, costituito da una sala da banchetto, da un
ambiente-dispensa e da una cucina.
L’esame della documentazione materiale rinvenuta nei tre ambienti permette di cogliere alcune
interessanti linee di lettura su un contesto abitativo messapico di IV secolo a.C.
Una prima considerazione evidenzia la scarsità numerica delle ceramiche da mensa a vernice nera,
talvolta di produzione tarantina, e la netta predominanza delle produzioni locali.
Le forme più diffuse appartengono alla ceramica a fasce, o non decorata, sempre di produzione
locale. Le funzioni sono collegate all’uso del cibo e sono relative al consumo del pasto (coppette,
piatti e brocche) e alla sua preparazione (bacini per mescolare e impastare); alla conservazione degli
alimenti (anforette da dispensa, grandi contenitori). A quest’ultima funzione è destinato anche un
numero rilevante di contenitori che ripropongono ancora una forma e una classe di tradizione
protostorica: la situla ad impasto. Particolarmente articolato è il repertorio morfologico dei vasi
destinati alla cottura del cibo: olle a corpo globulare o tegami con coperchio, per cibi semiliquidi
come zuppe di verdure o bolliti di carne; pentole e casseruole munite di coperchio per la cottura
prolungata di stufati e di zuppe di legumi; teglie per abbrustolire cereali e legumi o cuocere focacce
e pani.
Una seconda considerazione interessa la quasi totale assenza di documenti significativi relativi allo
svolgimento di attività produttive domestiche, quali la tessitura, mentre risultano numerose le
attestazioni legate allo svolgimento di pratiche rituali (ceramica miniaturistica).
Una terza peculiarità è rappresentata dalla notevole persistenza di forme (lekanai) e classi ceramiche
(ceramica a fasce) di tradizione arcaica, se non addirittura protostorica, come le già citate situle ad
impasto.
Data l’attuale assenza di repertori ceramici specifici dedicati al mondo messapico di IV secolo a.C. il
contesto proveniente da Muro Leccese può pertanto rappresentare una prima esemplificazione
significativa.
35
Herakleia di Lucania (Basilicata, Italia). Forme e funzioni delle ceramiche d’uso quotidiano
in un contesto italiota tra III e II sec. a.C.
Liliana GIARDINO (Docente di Urbanistica del Mondo Classico, Università del Salento), Catia
BIANCO (Dottore di Ricerca in Topografia Antica, Università del Salento), Teresa Oda
CALVARUSO (Dottore di Ricerca in Topografia Antica, Università del Salento), Francesco MEO
(Dottorando di Ricerca in Storia Antica, Università del Salento)
La colonia thurino-tarantina di Herakleia presenta caratteristiche particolari rispetto alle altre
colonie dell’arco ionico, in quanto non sembra conoscere la crisi che investe Metaponto e Taranto
nel corso del III a.C., ma fino a tutto il II secolo a.C. mostra i segni di una notevole vivacità
economica, sicuramente collegata alla stipula del foedus prope singulare con Roma Pyrrhi
temporibus. Herakleia si configura pertanto come uno dei pochi centri italioti che permetta di
conoscere le trasformazioni avvenute nell’ambito di un rapporto politico privilegiato con Roma.
La prosperità economica eracleota nel III e II secolo a.C. è testimoniata da una diffusa attività
edilizia e da un’intensa produzione artigianale. La prima interessa soprattutto l’architettura
domestica e permette di seguire l’evoluzione della casa dal tipo a cortile di III secolo a.C. sino a
quello a cortile porticato di II secolo a.C. (L. Giardino, Aspetti e problemi dell’urbanistica di
Herakleia, in Siritide e Metapontino, Napoli 1998, 171-207). La produzione artigianale è
documentata dalle molte matrici e dalle numerose fornaci che gli scavi archeologici hanno
individuato in più punti dell’abitato. Tra queste ultime sono di particolare interesse per la storia
economica di Herakleia quelle rinvenute nel settore nord-orientale della terrazza meridionale (via
Napoli) in quanto attive soltanto per tutto il III secolo a.C. e destinate alla produzione di vasellame
da mensa e di anfore da trasporto (L. Giardino, Herakeia, in E. Lippolis (a cura di), Arte e
artigianato in Magna Grecia, Napoli 1996, 35-43).
Il poster è finalizzato a presentare una esemplificazione dei due precedenti aspetti attraverso un
campione circoscritto ad una singola abitazione, ubicata nel quartiere occidentale della collina del
Castello, costruita agli inizi del III secolo a.C. e frequentata fino agli inizi del I secolo a.C. Essa
offre pertanto uno spaccato significativo degli aspetti economici e culturali di Herakleia nel periodo
immediatamente successivo alla stipula del foedus.
Forme e funzioni delle ceramiche rinvenute all’interno della casa offriranno in primo luogo uno
spaccato delle abitudini quotidiane ed alimentari dei suoi abitanti e delle attività produttive svolte in
un ambito domestico; in secondo luogo permetteranno di definire il rapporto con le produzioni di
via Napoli, l’ambito di circolazione delle singole classi e, da ultimo, affinità e differenze con la
cultura materiale delle altre città italiote e in particolare della ‘metropoli’ Taranto e della vicinissima
Metaponto.
36
Les pointes de flèche grecques à l’âge du Fer en France méditerranéenne
Benjamin Girard (Chercheur associé UMR 5140 / UMR 5594)
Les pointes de flèche de typologie grecque forment un aspect spécifique des armements de l’âge du
Fer en France méditerranéenne. Les modèles considérés sont les flèches à douille et ailerons en
bronze de petites dimensions, et les flèches à soie et empennage foliacé de section dissymétrique en
bronze et en fer du type dit d’Olympie (défini dans Déchelette 1910, p. 225).
Originaires de Méditerranée orientale, les petites flèches à douille sont attestées à partir du VIIe s.
av. J.-C. dans la péninsule ibérique, en lien avec l’expansion phénicienne au cours de la période
orientalisante (flèches dites phénico-puniques : Quesada Sanz 1997). En revanche leur diffusion sur
les côtes de Méditerranée nord-occidentale à partir du VIe siècle avant J.-C., de la Catalogne à la
Provence, puis vers les régions nord-alpines d’Europe occidentale, tient à l’installation de Marseille
puis de ses comptoirs, de même que celle des flèches à soie du type dit d’Olympie attestées du Ve
au IIIe s. av. J.-C.
La présence de ces objets en milieu sud-gaulois, reconnue très tôt par la recherche européenne, a
suscité plusieurs études à grande échelle ou dans le contexte du Sud-Est de la Gaule (en dernier
lieu : Arcelin, Chausserie-Laprée 2003). Le travail récent de l’auteur consacré aux matériels
métalliques de l’âge du Fer provençal a permis à l’appui de nombreux documents inédits de
réactualiser sensiblement le corpus disponible, relativement abondant en Provence occidentale avec
plus de 120 exemplaires (Girard 2010). La découverte d’un exemplaire du type dit d’Olympie lors
des fouilles récentes à Olbia de Provence mérite d’être soulignée, puisque les attestations en milieu
grec en France méridionale faisaient quasiment défaut jusqu’à présent.
Cette documentation, issue de sites et contextes allant de l’habitat au dépôt en passant par des
couches de destruction et datés du VIe au IIIe siècle avant notre ère, permet de modifier et
compléter utilement la typologie mise en place en Grèce-même à partir des exemplaires du
sanctuaire d’Olympie (Baitinger 2001) et d’en préciser l’évolution typo-chronologique. Elle autorise
ainsi une nouvelle approche de cette catégorie d’objets à travers le réexamen de leurs contextes
archéologique et historique, dans la perspective des phénomènes de commerce, d’acculturation et
de conflit entre populations grecques nord-occidentales et populations sud-gauloises.
Bibliographie
Arcelin, Chausserie-Laprée 2003 : ARCELIN P., CHAUSSERIE-LAPRÉE J. - Sources antiques
et images de l’archéologie dans le sud-est gaulois. In : MANDY B., DE SAULCE A. - Les marges
de l'Armorique à l'âge du Fer. Archéologie et histoire : culture matérielle et sources écrites. 23e
colloque de l'AFEAF, Nantes, 13-16 mai 1999. Rennes, 2003, p. 255-268 (Suppl. à la RAO, 10).
Baitinger 2001 : BAITINGER H. - Die Angriffswaffen aus Olympia. Berlin, New-York, W. de
Gruyter, 2001 (Olympische Forschungen, XXIX).
Déchelette 1910 : DÉCHELETTE J. - Manuel d’archéologie préhistorique, celtique et galloromaine, tome II : Archéologie celtique ou protohistorique, Première partie : Age du Bronze. Paris,
Picard, 1910.
Girard 2010 : GIRARD B. - Le mobilier métallique de l’âge du Fer en Provence (VIe - Ier siècle
avant J.-C.). Contribution à l’étude des Celtes de France méditerranéenne. Thèse de doctorat
d'Archéologie, Université de Bourgogne / Université de Provence, 2010, 3 vol.
Quesada Sanz 1997 : QUESADA SANZ F. - El armamento Ibérico. Estudio tipológico,
geográfico, funcional, social i simbólico de las armas en la Cultura Ibérica (siglos VI-I a. C.).
Montagnac, M. Mergoil, 1997 (Monographies Instrumentum, 3).
37
El guerrero de Corno Lauzo: revisión de los materiales
Raimon Graells Fabregat (Forschungsstipendiat der Alexander von Humboldt-Stiftung, RGZM,
Mayence)
El nombre de Corno Lauzo se asocia, para los protohistoriadores, a la tumba de guerrero de la
primera Edad del Hierro más conocida del Sureste de Francia. Ese espectacular conjunto dado a
conocer por O. y J. Taffanel, en 1960, se ha convertido en un referente para analizar las
aristocracias guerreras del sur de Francia en contacto con las grandes culturas del Mediterráneo.
Pero al mismo tiempo no ha sido objeto de un estudio de detalle ni revisión más allá de la primera
publicación. A tal efecto, como punto de referencia para los estudios relativos a los contactos entre
poblaciones mediterráneas y las élites locales, creo pertinente discutir en el marco del presente
homenaje al Prof. M. Bats una revisión del conjunto.
El estudio detallado de los materiales que integran el ajuar de la tumba de Guerrero de Corno
Lauzo ofrece una nueva imagen del personaje a través del cambio que se observa en la panoplia y
en los elementos importados. Particularmente tipológico, el estudio que se presenta se centra en la
discusión de los elementos de panoplia defensiva (el casco y la coraza) y los elementos de vajilla
metálica (cista de cordones y, ahora, también una pátera). La restauración, inédita, de los elementos
metálicos de la tumba, en el RGZM, permite confirmar importantes consideraciones que ratifican
observaciones de carácter tipológico.
Además de la tipología, la presente discusión se extiende y adentra en aspectos de lógica asociativa y
de contexto, tanto regional como particular dentro del grupo de tumbas de guerrero que
caracterizan el momento central del s. VI aC en la región.
Como resultados más significativos, el llamado “casco” corresponde en realidad a un vaso metálico
y la coraza, que permanece, cambia su morfología a favor de un cardiophylax discoidal decorado.
De esta manera, la primera reconstrucción de los elementos de la tumba, basada en las tumbas de
Sesto Calende y de Calaceite, se abandona y la revisión aproxima el conjunto a los ajuares-tipo
identificados en el área catalano-languedociense durante el s. VI aC.
La tumba de Corno Lauzo sigue siendo la gran tumba de guerrero, pero con un ajuar de primer
rango militar distinto, dentro de los parámetros del sur de Francia y Catalunya, es decir, sin casco, y
con un ajuar vascular más articulado (y más coherente) en relación a la cronología y contexto de la
tumba.
Bibliografía
Graells, R. (2010) : Las tumbas con importaciones y la recepción del Mediterráneo en el nordeste
de la Península Ibérica (ss.VII-VI aC), Revista d’Arqueologia de Ponent Serie Extra, 1, Lleida.
Taffanel, J., Taffanel O. (1960) : “Deux tombes de chefs à Mailhac”, Gallia XVIII, 3-32.
38
Les imitations de céramique coloniale des sites ibériques d’Ullastret, Baix Emporda,
Catalogne
Aurora Martin, Ferran Codina, Gabriel de Prado (Museu d’Arqueologia de Catalunya-Ullastret)
L’arrivée de la céramique ibérique tournée et des céramiques coloniales dans le nord-est catalan
durant la première moitié du VIe s. av. n. è. fut rapidement intégrée et entraîna l’adoption de l’usage
du tour rapide dans le monde indigène dès le milieu de ce siècle. Dans ces nouvelles productions de
céramiques indigènes tournées, à Ullastret il faut souligner, sans oublier les céramiques proprement
ibériques, les imitations de vases d’origine coloniale.
Les plus anciennes sont les imitations de céramiques grecques de l’aire phocéenne du golfe du Lion
ou d’Empúries. Dans un premier temps les céramiques grises monochromes, puis plus tard celles à
pâte claire peinte, qui perdurèrent jusqu’à la fin du Ve s. av. n. è. ou jusqu’au début du IVe siècle.
De ces premières productions il faut aussi souligner les essais non réussis d’autres produits, tels que
ceux des céramiques de cuisine tournée, qui furent fabriquées durant une courte période, à la fin du
VIe s. av. n. è.
Les changements des fluxs commerciaux et l’arrivée massive de céramique attique à Ullastret dès la
deuxième moitié du Ve s. av. n. è., aura une forte influence dans les productions indigènes,
lesquelles connaitront un changement important en ce qui concerne la technique de fabrication tout
comme les modèles utilisés. À partir de ces nouveautés il faut souligner l’abandon progressif de la
céramique ibérique peinte au profit de nouvelles productions décorées de peinture blanche appelées
indigètes, qui copient des motifs géométriques ou végétaux ou bien encore durant le dernier quart
du V ème siècle le début de la production de la vaisselle de table de la côte catalane, laquelle connut
apparemment ses premières manifestations à Ullastret, avec un répertoire formel copiant parfois
des formes de la céramique attique.
Durant le IVe s. av. n. è., parallèlement à une importante arrivée d’amphores puniques centroméditerranéennes, seront copiés des modèles de vaisselles et de vases de cuisine provenant de l’aire
punique, lesquels coexistent durant tout le long de ce siècle ainsi que durant le IIIe siècle avec ceux
du modèle grecque. En premier lieu nous faisons référence aux céramiques communes de cuisine,
lesquelles peu à peu remplaceront celles non tournées, ainsi que les imitations de la céramique
commune fine carthaginoise ; dans ce groupe la forme la plus représentée est l’olpé, que l’on trouve
aussi produite en céramique de la côte catalane.
Finalement, dès le IIIe s. av. n. è., on note l’importance des imitations de la vaisselle à vernis noir
d’origine italique, celle des petites estampilles ainsi que la campanienne A.
39
La nécropole augustéenne de la villa de Sivier (Istres, Bouches-du-Rhône)
Frédéric MARTY, Bérengère PEREZ
Le site de Sivier, à Istres, est situé à 900 m au nord de l’étang de l’Olivier, en bordure septentrionale
de la dépression de Saint-Jean, sur d’anciennes terrasses cultivées, entre 40 et 60 m d’altitude. Le
vallon, largement ouvert sur l'étang dont le niveau est proche de la cote 0, est encadré par de petits
reliefs tabulaires miocènes, faiblement élevés.
Une villa gallo-romaine, en position dominante, exploitait les potentialités agricoles du vallon,
comme en témoignent les différents murs de terrasse et un chemin antiques repérés en sondages.
Elle se dote d’un atelier de potiers au milieu du Ier s. ap. J.-C. La fouille d’un four à tuiles et
amphores gauloises ne laisse aucun doute quant à la vocation viticole du domaine à cette époque.
Une petite nécropole à incinération, du dernier quart du Ier s. av. J.-C., doit être liée à une phase
ancienne de l'habitat.
Un décapage sur 125 m² a permis de localiser cette nécropole. Elle se compose de trois structures.
La première est une fosse charbonneuse peu profonde. La deuxième est une fosse-bûcher
contenant les restes osseux d'un individu adulte dont la plus grande partie a été prélevée. Du
bûcher, constitué surtout de pin, d'olivier et plus modestement de chêne, restaient deux planches
carbonisées. Posée dessus, une urne complète CNT-ALP 1a3 contenait encore des fragments de
coquilles de moules. Tout près, une petite fosse contenait les restes regroupés d'une incinération en
position secondaire. Les ossements, dispersés, se rapportent à un sujet adulte. Ils étaient
accompagnés de deux balsamaires en céramique et d'une urne CNT-ALP 1a8. Dans les deux cas,
on a retrouvé des restes d'offrandes alimentaires, quelques objets de parure et de toilette ainsi
qu'une abondante clouterie.
L'ensemble funéraire de Sivier constitue un exemple intéressant de petite nécropole rurale ayant
fonctionné au dernier quart du Ier s. av. J.-C. En effet, la plupart des nécropoles du début de
l'époque romaine publiées régionalement sont en relation avec une agglomération. Bien que le
nombre de crémations soit réduit à deux, leurs types sont à la fois différents et complémentaires : la
tombe 1 est une incinération secondaire avec dépôt des résidus de la crémation dans une fosse, sans
organisation apparente, alors que la seconde structure est une fosse-bûcher. Ce rite est en rupture
avec les pratiques indigènes du Ier s. av. J.-C. où la coutume veut que les ossements soient triés et
qu'une partie d'entre eux soit placée dans un vase cinéraire, le plus souvent accompagné d'offrandes
secondaires. L'incinération secondaire avec couche de cendre, sans séparation des ossements, de
même que les premières fosses-bûcher, apparaissent réellement à l'époque augustéenne. Nous
observons donc, à Sivier, les prémices de nouvelles pratiques funéraires introduites par la
romanisation qu'il faut probablement mettre en relation avec l'installation de colons venus
implanter leur établissement afin d'exploiter les terres du vallon de Saint-Jean.
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Le mobilier céramique du Cayla de Mailhac (Aude) aux Ve et IVe s. av. n. è. : Contacts et
échanges en Languedoc occidental.
Sébastien MUNOS (doctorant Université Montpellier 3, UMR 5140 « Archéologie des Sociétés
Méditerranéennes »)
Le début du second âge du Fer (Ve et IVe s. av. n. è.) dans le Midi de la France voit les céramiques
tournées régionales prendre une place essentielle dans la vaisselle des populations indigènes. Ces
diverses productions de céramique ibéro-languedocienne, grise monochrome ou pâte claire
s’inspirent très souvent des formes de céramiques importées dont notamment les productions
attiques, ibériques ou massaliotes. Alors que certains ateliers existent déjà au VIe s. av. n. è.,
l’abondance des céramiques tournées régionales croît sans interruption pendant tout l’âge du Fer au
profit de celles importées et modelées. Leurs répertoires typologiques présentent tant de points
communs avec les types importés qu’elles ont été identifiées pendant longtemps comme des
productions exogènes. Elles sont depuis près de 30 ans attribuées avec certitude à des productions
indigènes, et sont sans aucun doute un témoin d’influences et d’emprunts dans un territoire
largement en contact avec le reste du monde méditerranéen. Ces productions apparaissent alors
comme le résultat de la réadaptation de formes méditerranéennes et du renouvellement du
répertoire "traditionnel" issu de la céramique non tournée. Certains chercheurs ont pu voir dans
cette évolution la preuve d’une acculturation des populations indigènes, alors que d’autres y ont vu
l’installation de commerçants méditerranéens qui ont produit des céramiques adaptées à un
commerce régional. Si la réalité semble plus complexe, il s’agit dans tout les cas d’une modification
importante de la vaisselle indigène reflet d’une évolution technique et économique. Cette évolution
participe au changement culturel - voire à l’acculturation - des populations indigènes ; les contacts
entre le Midi de la France et le reste du monde méditerranéen apparaissent alors comme une des
causes de ce phénomène. À travers l’étude du faciès céramique de l’oppidum du Cayla de Mailhac
(Aude) aux Ve et IVe s. av. n. è., ce travail souhaite illustrer ces contacts avec la Méditerranée
visibles à la fois dans les céramiques importées et les céramiques tournées régionales. Par cette
étude de cas, nous verrons comment ce site, à l’interface des mondes continentaux et
méditerranéens, s’intègre dans les réseaux d’échanges de Méditerranée Occidentale.
Genova al centro dei commerci massalioti lungo le rotte dell’alto Tirreno
Cristina NERVI (Laureata e Specializzata in Archeologia Classica, Università di Genova)
Genova rappresenta uno dei porti di maggior interesse lungo le vie commerciali del Mar Tirreno,
sia per la sua collocazione centrale nella costa ligure, sia per il suo ruolo mediatore tra entroterra ed
insediamenti costieri.
Si propone lo studio di alcuni contesti ceramici che presentano attestazioni massaliote,
soffermandosi in particolar modo sulle produzioni anforiche, risalenti anche ad orizzonti precoci di
VII a.C..
La città appare legata a commerci massalioti all'interno di un ricco panorama commerciale;
interessante è indagare in quale rapporto si ponga il centro portuale collocato tra Massalia ed
Etruria, che implicazioni e conseguenze possano aver questi poli nei rapporti di scambio della città
e più in generale nell'ampio contesto delle rotte marittime.
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Les estampilles sur amphores d’Olbia
Fabienne OLMER
A travers les estampilles sur amphores découvertes à Olbia-de-Provence on tentera de proposer
un aperçu des diverses régions et produits qui ont contribué à alimenter le site durant les périodes
hellénistique et romaine. Si le vin, l’huile et les saumures forment la majorité du cortège des denrées
consommées nous verrons à mettre en lumière les spécificités de ce site particulier dans le domaine
provençal.
Un signe de la présence phocéenne en Languedoc occidental : un tétartémorion trouvé à
Béziers
Richard PELLE, Hervé PETITOT et Laurent VIDAL
La monnaie a été trouvée au cours d’une fouille archéologique préventive menée par l’INRAP pour
l’Office public de l’Habitat de Béziers au 27-29 de la rue Kléber. Elle a porté sur un ensemble
funéraire romain, longeant une voie, découvert en diagnostic par le Service Archéologique
Municipal de Béziers (resp. Elian Gomez). L’ensemble atteste une mise en valeur agricole au plus
tard à partir du début de la seconde moitié du VIe s. av. notre ère. Compte tenu de la datation
proposée pour l’émission de la monnaie, cette dernière s’insère dans la série des objets
remarquables (notamment les vases à figures noires) qui marque pour le moins le déploiement en
Languedoc de l’entreprise commerciale grecque et peut-être plus spécifiquement phocéenne.
Au VIe s. av. J.-C., les peuples celtes, celtibères ou italiques n’ont pas encore acquis la notion
d’échanges à travers un objet de petite dimension et de bien faible valeur portant la marque
distinctive d’une cité-état bien éloignée de leurs territoires respectifs. Les monnaies isolées ne
peuvent qu’indiquer la présence, même ponctuelle, ou le passage, de personnes connaissant la
monnaie et sachant l’utiliser, comme des commerçants ou des colons d’origine grecque ou
d’indigènes vivant dans une cité grecque, indice dès lors d’une acculturation. Le tétartémorion
phocéen qui atteste cette situation à Béziers, n’était certainement pas considéré comme un objet
précieux conservé avec grand soin par un autochtone, au regard de sa petitesse. Il pourrait être lié à
l’introduction de la viticulture dans le Biterrois par ces précédentes personnes si son enfouissement
rentre dans le cadre de fosses de plantations (bien que la fouille n’ait pas pu clairement le
déterminer), peut-être favorisée avec la fondation de la colonie d’Agathé vers 540.
La répartition des trouvailles des monnaies archaïques grecques dans le sud de la Gaule montre
bien leur sphère de diffusion très limitée ; elles se rencontrent autour de Massalia et des proches
voies d’accès maritimes ou fluviales (Rhône, étang de Berre) et autour de la colonie importante
d’Ampurias. Il en est quasiment de même avec les monnaies archaïques émises par l’atelier
massaliète avec juste une particularité pour le Roussillon où 3 exemplaires ont été retrouvés, bien
que toujours sur des sites proches de la mer ou des lagunes. Un grand vide existe sur la carte entre
le Rhône et l’Orb qui correspond étonnamment au territoire des Volques Arécomiques, peuple qui
n’émettra du numéraire que très tardivement (fin du IIe s. av. J.-C. au plus tôt). Cette absence assez
nette, qui pour la période classique setraduit aussi par une faible représentativité du numéraire par
rapport à d’autres régions limitrophes, semble indiquer une certaine réticence de ce peuple à utiliser
un moyen d’échange qui sans doute n’est pas immédiatement perçu comme une facilité ou une
méthode comptable. En poussant la réflexion plus loin, il est possible aussi d’y voir des sphères
d’influences commerciales, non grecque et n’utilisant pas la monnaie comme moyen d’échanges.
Les quantités très importantes de céramiques étrusques retrouvées à Lattara ou dans les territoires
de l’Hérault et du Gard pourraient témoigner dans ce sens pour le 1er Âge du Fer.
42
Forme di identità e interazione nel Tirreno settentrionale : possibili indicatori, fra persistenza
ed acculturazione. Alcune note.
Eliana Piccardi (dottoranda Università di Genova – Université de Provence)
Il Tirreno settentrionale, settore di per sé non individuabile mediante confini geografici definiti,
viene deliberatamente eletto, in quest’analisi, come interessante osservatorio potenziale, tra età del
Ferro e romanizzazione, grazie alle convergenze in esso di vari elementi autoctoni ed allogeni,
malgrado si tratti di un’area -anche dal punto di vista dei dati noti- meno ricca e meno
omogeneamente indagata rispetto, ad esempio, a quella francese meridionale.
Al di là di quanto già noto dalle fonti storico-letterarie, partendo da elementi dell’economia, della
cultura materiale -ma non solo-, si è avviato un vaglio per la ricerca e la valutazione di indicatori
utili, in questo comprensorio, ai fini di una migliore definizione sia delle connotazioni identitarie sia
di quelle innescate dai contatti esterni.
Si propongono, in questa sede, alcune notazioni, anche in forma di approccio metodologico, alla
base di tale indagine.
Écritures et identités ethniques de l’Italie entre VIIème et IVème siècle av. J.Chr.
Paolo POCCETTI (Università di Roma 2)
En Italie pendant la période comprise entre VIIème et IVème siècle av.J.Chr. on assiste à des faits
qui se déroulent en parallèle et notamment :
- L’adoption et la diffusion d’un système d’écriture ;
- La différentiation et l’évolution de ce système par rapport à la diversité des langues et des identités
ethniques ;
- La parution des langues qui se manifestent à travers l’écriture ;
- L’organisation politique des communautés qui correspondent aux langues et/ou écritures
concernées.
Notre présentation à poster essayera d’esquisser un panorama critique à la lumière des réflexions
générales les plus récentes, sur les points suivants :
- Les procédés de la transmission et de l’adoption d’un système d’écriture en parallèle à d’autres
faits de civilisation et d’échanges technologiques ;
- Les procédés par lesquels le système d’écriture en question passe du domaine individuel au
patrimoine d’une communauté ;
- Les procédés par lesquels un système d’écriture devient un élément qui distingue et identifie une
communauté par rapport aux autres ;
- La dialectique entre évolution de la langue et de l’écriture.
Notre enquête focalisera des aspects méthodiques et spécifiques, s’appliquant aux données des
écritures des cultures indigènes de l’Italie au seuil de l’histoire, et notamment :
- Dans quelle mesure un alphabet, d’une part, reproduit d’une manière fidèle le modèle d’où il est
issu et, de l’autre, il témoigne d’une élaboration plus ou moins développée ;
- Les parcours de standardisation d’un alphabet par rapport à la langue concerné à travers les
convergences et divergences avec d’autres systèmes ;
- Dans quelle mesure un système d’écriture reflète l’identité ethnique ou culturelle et l’organisation
politique du milieu qui l’a adopté ;
- Dans quelle mesure les différentiations alphabétiques signalent des diversités culturelles .
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La question des échanges et de leurs répercussions dans le domaine funéraire d’après l’exemple
de la nécropole protohistorique du Causse à Labruguière (Tarn).
André RIVALAN (doctorant Uiversité de Montpellier), Laura BOURDAUD (Université de
Montpellier)
Les fouilles préventives menées en 2010 par Mosaïque Archéologie dans la nécropole
protohistorique du Causse ont entraîné la découverte d’un ensemble de 354 tombes à incinération,
dont certaines se distinguent nettement par la nature de leurs assemblages. À partir de l’analyse de
ces quelques sépultures singulières, et surtout de leur évolution au cours du temps (900-450 av. n.
è.), nous verrons tout d’abord en quoi leur mobilier d’accompagnement témoigne parfois de gestes
funéraires spécifiques ou encore d’un statut particulier, avant d’élargir notre propos aux divers
apports que celui-ci est susceptible de fournir sur la question des échanges interrégionaux. La
présence d’un certain nombre d’objets importés voire celle de quelques imitations locales
constituent effectivement de précieux indices sur les relations de nature commerciale voir même
culturelle, que cette communauté a pu entretenir avec d’un côté les populations du Languedoc
occidental et de l’autre, les communautés du quart sud-ouest de la France. Cette démarche
impliquera bien évidemment la prise en compte des autres ensembles découverts sur ce même site
et publiés en 2003 par J.-P. Giraud, F. Pons et T. Janin, et conduira en outre à confronter nos
observations à celles déjà formulées par plusieurs auteurs au sujet de certains ensembles funéraires
languedociens (Nickels et al. 1989 et Janin 2000).
Bibliographie
Giraud, Pons, Janin 2003 : GIRAUD (J.-P.), PONS (F.), JANIN (T.) - Nécropoles
protohistoriques de la région de Castres (Tarn). Paris, Maisons des Sciences de l’Homme, 2003, 3
vol. (1 : 276 p. ; 2 : 268 p. ; 3 : 231 p.) (Documents d’Archéologie Française, 94).
Janin 1993 : JANIN (T.) - Âge au décès et "statut social" dans les sépultures à incinération du
Premier âge du fer languedocien : première approche. Bulletins et Mémoires de la Société
d’anthropologie de Paris, n.s., t. 5, 1993, pp. 203-208.
Janin 2000 : JANIN (T.) - Nécropoles et sociétés Elisyques : les communautés du premier âge du
Fer en Languedoc occidental. Dans : JANIN (T.) éd. – Mailhac et le premier âge du Fer en Europe
occidentale. Hommages à Odette et Jean Taffanel. Lattes, ARALO, 2000, pp. 117-132
(Monographies d’Archéologie Méditerranéenne, 7).
Nickels et al. 1989 : NICKELS (A.), MARCHAND (G.), SCHWALLER (M.) - Agde, la nécropole
du Premier Age du Fer. Paris, 1989, 498 p. (suppl. à la RANarb, 19).
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Les produits végétaux consommés à Olbia-de-Provence (Hyères, Var) à partir de l'étude des
carpo-restes
Núria ROVIRA (associée UMR5140 « Archélogie des Sociétés Méditerranéennes »)
L'échantillonnage systématique effectué sur le site d'Olbia (Hyères, Var) durant les campagnes de
fouilles de 2002 à 2008, dirigées par M. Bats (CNRS, UMR 5140), a permis de collecter un certain
nombre de restes de semences et de fruits archéologiques pour les différentes phases d'occupation
de la ville (du dernier quart du IVe s. av. n. è. à la première moitié du Ier s. de n. è.).
Ces restes fournissent des renseignements sur la consommation et l'utilisation de produits végétaux
par ses habitants, ainsi que sur les activités qui se sont développées autour de la manipulation de ces
produits. Il faut signaler notamment la présence d'ensembles carpologiques en relation à la
consommation humaine, ainsi qu'au nourrissage des animaux domestiques.
Certains fruits comme le raisin, des céréales comme le froment, l'amidonnier et l'orge vêtue, ainsi
que des légumineuses comme le pois ou l'ers, constituent les espèces cultivées prédominantes au
cours des différents périodes d'occupation. De façon plus ponctuelle, il faut noter la présence
d'olives, de noisettes, de figues, de fèves, de lentilles, du millet italien et de la caméline. Les plantes
sauvages sont majoritairement représentées par des adventices (d'hiver et de printemps), des
rudérales et des espèces liées à des milieux broussailleux secs.
Adoption et adaptation des pratiques méditerranéennes de l’isthme gaulois
Corinne Sanchez
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Apport des graffites d'Olbia à l'onomastique massaliète
Clément SARRAZANAS (Université Montpellier 3)
L'onomastique des cités massaliètes demeure encore assez mal connue, à cause notamment d'une
documentation limitée, éparse, et parfois non accessible. Ainsi, l'ouvrage de référence, le Lexicon of
Greek Personal Names, n'inclut pas dans son corpus les noms attestés à Marseille même. Par
ailleurs, il n'existe pour le moment aucun recueil onomastique complet qui soit consacré aux cités
fondées par Phocée et ses colonies. L'onomastique du domaine olbien est cependant relativement
moins mal connue, grâce aux célèbres dédicaces du sanctuaire d'Aristée, à l'Acapte, qui ont livré
près de 225 anthroponymes, en majorité grecs, mais avec au moins une vingtaine de noms d'origine
celtique.
Le site d'Olbia a quant à lui livré près de 300 graffites alphabétiques grecs sur céramique. Dans la
mesure où la plupart de ces graffites ont été retrouvés en contexte domestique, il convient d'y voir
le plus souvent le nom du propriétaire de la céramique. Celui-ci a en général gravé son nom sous
une forme abrégée, en se contentant d'en inscrire les premières lettres. L'étude des graffites
significatifs (nombre de lettres suffisant pour reconnaître une ou plusieurs syllabes) permet d'établir
plusieurs constats :
Une majorité de ces graffites révèle des noms bien grecs (par ex. Ath-, Asty-, Diogen-, Diony-,
Eph-, Héra-, Kléa-, Nikôn, Pyth-, Sthé-, Psil-), soit parce que sont employées des lettres que le
gallo-grec n'utilisait pas ou peu (hèta, théta, psi), soit parce que les graffites, même abrégés,
permettent d'identifier des racines grecques bien connues. Pratiquement aucun graffite ne révèle à
coup sûr un nom « gallo-grec ». Les habitants d'Olbia (du moins ceux qui inscrivaient leurs noms
sur leur vaisselle) étaient donc des individus grecs, ou suffisamment hellénisés pour porter des
noms grecs et savoir les écrire.
La mise en rapport des graffites olbiens avec les noms (complets) des fidèles d'Aristée permet de
mettre en lumière des correspondances possibles, ce qui pourrait confirmer qu'une bonne partie des
fidèles venait bien d'Olbia même (par ex. Asty[lè] ou Asty[anax], Dém[étrios], Diony[sios], Ou[lis]).
Une comparaison avec l'onomastique des autres cités massaliètes et/ou phocéennes permet souvent
de proposer des parallèles et des restitutions possibles aux abréviations n'ayant pas de parallèle
connu à l'Acapte, et tend donc à illustrer des habitudes onomastiques communes (par ex.
Spha[iros], et un possible [G]ypt[is]).
Enfin, plusieurs graffites olbiens indiquent des anthroponymes jusqu'ici non attestés dans le
domaine massaliète (Bal-, Sthé-, Str-), et même parfois très rares dans le reste du monde grec (Kloi-,
Psil-).
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Set cerimoniali ed offerte nei luoghi di culto indigeni della Sicilia occidentale.
Francesca Spatafora (Direttore Parco Archeologico di Himera)
In questi ultimi anni sono stati riportati alla luce diversi contesti connessi alla sfera del sacro in
alcuni centri indigeni della Sicilia occidentale. Un santuario extramoenia, interpretato come un
thesmophorion, ad esempio, è stato scoperto sulla Rocca d’Entella, dove sorgeva l’omonima città
elima ricordata dalle fonti; fin da età arcaica vi si svolgevano culti di tipo ctonio documentati da una
serie di offerte deposte all’interno di anfratti rocciosi, forme di culto che ben presto si
caratterizzano in senso demetriaco, così come attestano le offerte e i materiali connessi alle
cerimonie che si svolgevano nel piccolo santuario fino alla piena età ellenistica.
Un luogo di culto è stato poi scoperto immediatamente all’esterno del muro di fortificazione
dell’antica Makella (La Montagnola di Marineo), la città ricordata dalle fonti letterarie ed epigrafiche
che sorgeva lungo la valle dell’Eleuterio, immediato entroterra della città punica di Solunto. Nella
piccola area sacra, databile ad età tardo-arcaica, si svolgevano semplici cerimonie a carattere
religioso documentate dalla numerosa suppellettile rinvenuta attorno alla vera e propria offerta
consistente nella deposizione di armature di bronzo di tipo greco.
Anche nell’anonimo centro indigeno di Monte Maranfusa, nella media Valle del Belice, naturale
entroterra di Selinunte, alcune specifiche azioni rituali caratterizzano in senso sacro edifici assai
simili a quelli a carattere domestico, mentre a Cozzo Spolentino, situato sulla linea di spartiacque tra
il Belice e il Sosio, immediatamente al di fuori del centro abitato, un piccolo spazio sacro in uso in
età ellenistica, ha restituito una serie di offerte ben connotate sotto il profilo culturale.
La nuova documentazione è pertinente ad un ambito cronologico compreso tra l’età tardo- arcaica
ed il primo ellenismo e attesta, sia attraverso il regime delle offerte che attraverso l’utilizzazione di
specifici set ceramici destinati alla celebrazione delle cerimonie o di materiali miniaturizzati che
evocano quei rituali, significativi momenti di interazione tra le comunità locali dell’entroterra e i
Greci stanziati lungo le coste dell’isola.
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Contributions aux Hommages
Le plan à abside et la résidence palatiale du mont Lassois: entre autochtonie et acculturation.
Bruno Chaume, Arianna Esposito (Université de Bourgogne - UMR 5594 ArTeHiS)
Le plan absidial se rencontre à toutes les époques et dans quasiment toutes les sociétés d’Europe
moyenne et méridionale. Il est beaucoup plus courant qu’on aurait pu le penser il y a une vingtaine
d’années, lorsque le débat Nickels-Dedet battait son plein. P. Brun l’avait d’ailleurs souligné dans
une première synthèse sur l’habitat des âges du Bronze en Europe moyenne.
Pourtant, dans la littérature archéologique ce type de plan s’impose souvent comme un critère pour
mesurer, par exemple, le degré d’hellénisation dans les sociétés italiques d’Italie méridionale ou en
Sicile ; ou le poids d’une présence ou d’une influence exogène et plus particulièrement
méditerranéenne sur les sociétés hallstattiennes. S’attacher à ce dossier relève ainsi d’emblée du
débat sur les contacts et les échanges, sur les emprunts et les adaptations.
Il est clairement établi aujourd’hui, et les dernières découvertes du Midi de la France renforcent
cette lecture, que le plan absidial était connu en Languedoc-Roussillon bien avant l’installation des
Grecs de Marseille, une situation comparable à celle observée en Asie Mineure où ce type
architectural est très ancien, en tout cas bien antérieur à la colonisation grecque. Les découvertes
récentes de Mailhac “ Le Traversan ” et de Ruscino, pour ne citer que deux des exemples les plus
représentatifs, démontrent la justesse du raisonnement de B. Dedet lorsqu’il envisageait, pour les
maisons absidiales du midi de la France, une origine indigène.
En Grande Grèce et en Sicile, plusieurs cas d’édifices à simple ou double abside sont connus.
L’interprétation grecque et l’interprétation indigène sont alternativement avancées, ce qui en
dernière instance revient à affirmer la nature plus ou moins grecque ou plus ou moins indigène d’un
établissement.
A partir d’une série d’études de cas, en Gaule et en Italie méridionale, nous souhaiterions revenir
sur les formes et les modes d’emprunts envisageables ainsi que les voies qui auraient pu véhiculer ce
type de plan. Un raisonnement élargi par modèles et analogies est sans doute périlleux, mais il peut
également s’avérer utile pour individualiser des problèmes ou vérifier des hypothèses, à condition
bien entendu de tenir compte de la diversité des contextes culturels, géographiques et
chronologiques abordés.
L’acculturation n’est pas une voie à sens unique sous forme de simple superposition d’idées qui
peuvent ensuite être reproduites automatiquement. Il s’agira dès lors, dans le cadre de cette
contribution, de s’interroger également sur les fonctions liées à ce type de plan et sur les
phénomènes éventuels de « bricolage culturel ».
Entre rigueur et tryphé: les pratiques alimentaires dans la Grèce d'Occident (VIe-IIIe s.av.JC).
Cecilia D'Ercole (Directrice d'Etudes EHESS)
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Contacts et acculturations en Méditerranée Occidentale