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Dal blocco allegato di "Notizie dal mondo"
1-15 giugno 2006:
a) Stavolta esordiamo con l’Afghanistan. Un conflitto molto meno seguito ma nient’affatto
irrilevante per le strategie imperiali di Washington in Asia centrale. Un significativo banco di
prova per il governo di centrosinistra italiano. Saranno proni anch’essi, dopo il centrodestra,
a sua maestà imperiale? Basta pensare ai trascorsi e alla triade Prodi-Parisi-D’Alema per
darsi una risposta. Una raffica di notiziole comunque perché non ci si accusi di
prevenzione: Italia / Afghanistan (1, 10, 15); Afghanistan (2, 8, 15); Italia (4). Un’occhiata
a Italia (9) sull’Iraq. Sul ritiro dall’Iraq, asserito dall’attuale governo di centrosinistra, è da
tenere a mente quanto prefigurato dal precedente governo di centrodestra che aveva
annunciato la stessa cosa per fine anno (cfr. blocco di notizie 15-30 maggio: Italia / Iraq.
17 maggio. Un illuminante scritto di Stefano Chiarini). Istruzioni per l’uso: nella fase
imperialista il mondo è una scacchiera ed i teatri di guerra ne sono solo i quadratini. Ah, sul
tema Afghanistan un’occhiata a Francia / Afghanistan (14). A buon intenditor nessuna
parola.
b) Corno d’Africa. Somalia (6, 8, 14). Un USA / Somalia all’11. Scenari lontani. L’Africa
solitamente fuori dall’attenzione internazionale, carità pelosa a parte. A Mogadiscio
arrivano le Corti islamiche. Sembra un deja vu. Comunque da seguire.
c) Dal caldo africano al freddo himalayano. Nepal (3, 11) con i maoisti ad un passo dal
governo. Situazione interessante anche per le contaminazioni (maoiste) sulla confinante
India (3). A Washington hanno già aperto la pratica e l’India interessa in funzione anti-Cina.
Il fantasma di Mao potrebbe intralciare certi disegni imperiali della Casa Bianca già avviati
di recente con lo sdoganamento nucleare di Nuova Delhi.
d) Situazione molto delicata in Palestina. Sul referendum di Abbas cfr 7, 11. Ma anche,
d’accompagno, Israele (12) e Palestina / Israele (14).
Tra l’altro:
Euskal Herria (2, 8, 13, 14, 15 giugno)
Iraq (5, 8, 9, 15 giugno)
Siria (3 giugno)
USA / Iraq (14 giugno)
USA / Iran (2 giugno)
Iran (3, 4 giugno)
Venezuela (1 giugno)
Bolivia (3 giugno)
Perù (8 giugno)
Ucraina (6, 13 giugno)
Ucraina / Russia (6 giugno)
Ci fermiamo qui. Stavolta siamo stati clementi.
Italia / Afghanistan. 1 giugno. L’intervento in Afghanistan? Diverso e peggiore rispetto a quello in
Iraq. Gino Strada, fondatore di Emergency, intervistato da il Manifesto, è perentorio: «mi permetto
di ricordare che l’intervento in Afghanistan inizia il 7 ottobre 2001, portato avanti dall’aviazione di
un paese senza nessun coinvolgimento, neanche tentato, delle Nazioni Unite. Il 12 settembre una
risoluzione dell’ONU assicurava che il Consiglio di Sicurezza si sarebbe impegnato ad assicurare
alla giustizia gli attentatori e i mandanti degli attacchi terroristici, di tutti gli atti di terrorismo,
secondo la Carta delle Nazioni Unite. Venticinque giorni dopo un paese decide di bombardare un
altro paese con un atto che è stato di terrorismo internazionale, esattamente come è stato quello al
World Center (...). Gli interventi di tamponamento ex post [l’avallo successivo dell’ONU, ndr] non
sanano la situazione di illegalità che, ripeto, è particolarmente grave per gli italiani [il riferimento
è alla violazione dell’art. 11 della Costituzione, ndr]».
Italia / Afghanistan. 1 giugno. Gino Strada difende anche l’azione di Emergency. Le
organizzazioni umanitarie stanno subendo una progressiva «militarizzazione» e le pressioni
aumentano su quelle riottose a schierarsi con l’attuale autorità imperiale di Washington. Su
Repubblica Guido Rampoldi tira fuori appunto il caso dell’ospedale di Emergency a Kabul: «Aprire
un centro sanitario che rimette in sesto i combattenti d’un regime spaventoso», scrive il giornalista
di Repubblica, «a noi non pare un grande affare per la pace e per l’umanità». Replica Strada: «Nei
nostri ospedali curiamo tutti, questo è certo: non abbiamo mai chiesto a nessuno come la pensa, chi
è, cosa vota, che cosa ha fatto nella sua vita. E di questo siamo orgogliosi. D’altronde ci ispiriamo,
semplicemente, alla Dichiarazione universale dei diritti umani e alla deontologia medica. Mi
inorridisce sentire parlare, di nuovo, di pallottole o bombe umanitarie. C’è una logica terrificante
dietro quello che scrive Rampoldi, che non soltanto va contro i princìpi di Emergency –sarebbe
poca cosa– ma contro ogni deontologia medica e contro qualsiasi diritto umanitario
internazionale. È la logica del fai-da-te, del cow boy, la logica della barbarie».
Russia. 1 giugno. Il Pentagono mira a schierare una base di missili intercettori in uno dei Paesi
dell’Europa orientale. Mosca replica preannunciando postazioni anti-missile ai confini. Secondo il
vice premier e ministro della Difesa, Sergei Ivanov, questo intendimento diventerà esecutivo nei
piani per lo sviluppo dello strumento militare dal 2006 al 2010. «Siamo al corrente di piani per la
creazione di postazioni anti-missile in Polonia. Questi progetti ci preoccupano molto e li teniamo in
considerazione nei nostri piani per i prossimi cinque anni», dice Ivanov all’agenzia Itar-Tass.
Aggiunge che le spese di ammodernamento e di gestione raggiungeranno entro il 2010 il rapporto di
parità, mentre «attualmente il 60% del bilancio è devoluto alle spese di gestione dell’esercito e
della marina e il 40% allo sviluppo». Questo rapporto cinque anni fa era pari al 70 e 30%.
Venezuela / Russia. 1 giugno. La Russia costruirà in Venezuela due stabilimenti per la produzione
di armi e munizioni. Ieri, il presidente venezuelano Hugo Chávez ha annunciato che Mosca ha già
sottoscritto un contratto per la fornitura al Venezuela di 100mila fucili di assalto Kalashnikov.
«Così potremo difendere ogni strada, ogni collina, ogni angolo», ha detto Chávez in visita in
Ecuador, dove ha firmato una serie di contratti per forniture energetiche. Secondo l’agenzia
Associated Press, la società Rosoboronexport avrebbe confermato che le trattative sono in corso
senza però fornire dettagli sui tempi e sulla capacità di produzione dell’impianto. Chávez ha detto
anche ai giornalisti che un primo lotto di 30mila Kalashnikov dovrebbe arrivare in giugno, notizia
confermata dall’industria russa. L’accordo non è visto di buon occhio dagli USA che considerano
Chávez una presenza destabilizzante nella regione. Nel mese di maggio il dipartimento di Stato
USA ha bandito la vendita di armi al Venezuela per i contatti di quel Paese con l’Iran e Cuba e per
la «mancanza di supporto nella lotta al terrorismo». Secondo fonti di stampa gli USA sarebbero
preoccupati dalle iniziative del Venezuela volte al rafforzamento del suo apparato militare. In aprile
il Venezuela ha ricevuto tre elicotteri militari russi, primi di un lotto di 15 ordinati a Mosca.
Secondo Chávez, contribuiranno alla protezione del Venezuela nell’eventualità di una invasione
USA. Il governo venezuelano ha ripetutamente accusato Washington di tentare di destabilizzare il
governo ed il paese.
Venezuela. 1 giugno. Tagli alla produzione petrolifera per mantenere il prezzo del greggio su un
livello di poco inferiore ai 70 dollari al barile. Lo ha chiesto oggi, invano, il capo di Stato
venezuelano Hugo Chávez, nel corso del 141° incontro dei paesi produttori di petrolio appartenenti
al cartello dell’Opec in corso a Caracas. Il tetto di produzione giornaliera si manterrà quindi sui 28
milioni di barili decisi in precedenza. Secondo il ministro dell’Energia iraniano Kazem VaziriHamaneh e quello del Qatar, Abdullah al-Attiyah, con l’attuale tendenza al rialzo dei prezzi, un
decremento della produzione non è una misura praticabile. Secondo Frederic Lassere di SG
Securities di Parigi, con l’attuale costo al barile vicino ai 70 dollari, se il direttivo dell’Opec avesse
deciso di diminuire la quantità di petrolio estratto, avrebbe lanciato un segnale politico negativo
difficile da far accettare ai consumatori. Soprattutto in considerazione del fatto che nei prossimi
mesi, in concomitanza con l’arrivo dell’estate e della stagione degli uragani, la domanda di petrolio
da parte degli Stati Uniti tenderà ad aumentare molto, con forti pressioni inflattive sul costo del
greggio.
Venezuela. 1 giugno. Chávez è favorevole ad una politica di alti prezzi dell’oro nero per diverse
motivazioni, di natura interna ed internazionale. Prima di tutto le ragioni di politica nazionale. La
sostanziale mancanza di sufficienti investimenti tecnologici negli apparati produttivi e i contrasti tra
Chávez e i dirigenti della società petrolifera di Stato, la Pdvsa, seguiti al golpe contro di lui del
2002, hanno determinato una notevole compressione delle capacità produttive, scese da 3,5 milioni
di barili al limite degli attuali 2,2-2,5 milioni di barili al giorno. Dopo il tentato golpe contro Chávez
dell’aprile 2002 e il rapido ritorno al potere dell’ex colonnello, i vertici della Pdvsa avviarono una
serrata della produzione che costrinse Chávez a sostituirli in blocco con esponenti a lui
politicamente vicini. Da allora, però, i livelli produttivi non sono mai riusciti a risalire ai picchi
precedenti a tali vicende. In un simile contesto, un elevato prezzo del petrolio sui mercati
internazionali può compensare difficoltà strutturali e di relazioni tra governo e holding petrolifera di
Stato. In secondo luogo, se i prezzi dell’oro nero rimangono elevati, il leader venezuelano può
continuare a finanziare al meglio i programmi di natura sociale volti a migliorare i livelli di
alfabetizzazione della popolazione, i servizi sanitari e l’incremento di alloggi popolari.
Venezuela. 1 giugno. Vi sono poi ragioni di politica internazionale dietro la richiesta di Chávez di
tagliare la produzione di greggio. Sin dalla sua visita in Cina alla fine del 2004, Chávez ha iniziato a
utilizzare l’arma del petrolio come un vero e proprio strumento diplomatico, funzionale alla
realizzazione dei suoi obiettivi di politica estera. Mentre i paesi del Medio Oriente, membri
dell’Opec, sono consapevoli che accettare un taglio alla produzione significherebbe innescare forti
tensioni che porterebbero a sostanziali aumenti del prezzo del petrolio e a una possibile spirale
inflazionistica mondiale e sul mercato statunitense, già provato dalle polemiche sulla questione
nucleare iraniana, Chávez non ha simili timori. Anzi, il suo obiettivo è proprio quello di usare la Oil
Diplomacy, come qualcuno l’ha già definita, contro gli Stati Uniti. Con la stagione degli uragani
alle porte e la probabile crescita della domanda di energia nel corso dei mesi estivi, mantenere il
costo del petrolio a livelli elevati significherebbe indebolire ancora di più la dirigenza statunitense,
costretta a fronteggiare pressioni inflazionistiche, e magari indurla ad assumere un atteggiamento
diverso verso Caracas. Non è un caso che non appena si è diffusa la notizia dell’apertura di
Condoleezza Rice a un possibile dialogo con l’Iran per la questione nucleare, il prezzo del petrolio
al barile è immediatamente sceso di due dollari. La repentina discesa del costo del greggio induce
quindi a ritenere che, tra le motivazioni congiunturali alla base della calcolata apertura della Casa
Bianca sull’Iran, vi siano anche considerazioni di natura petrolifera e di costi della materia prima.
Venezuela. 1 giugno. Se il prezzo del petrolio resta elevato, le chance di Chávez di usare le riserve
energetiche a sua disposizione per ulteriori finalità diplomatiche aumentano di molto. Per esempio,
potrà continuare a fornire greggio a costi ridotti a nazioni come quelle caraibiche o ad altri paesi
latino-americani in temporanea difficoltà come recentemente con l’Ecuador, accrescendo le proprie
risorse di influenza ‘dolce’ internazionale. E potrà utilizzare i fondi ottenuti dalla vendita del
petrolio per sostenere i grandi progetti infrastrutturali come il gasdotto del sud che dovrebbe essere
utilizzato per trasportare il gas naturale dal nord al sud del cono latino-americano e favorire così
l’integrazione energetica dell’America Latina, da lui considerata un passo essenziale per la
successiva integrazione economica. Non solo, con un prezzo del greggio elevato, diverrebbe
economicamente conveniente estrarre le, attualmente poco utilizzate, immense risorse petrolifere
presenti in Venezuela presso la valle del fiume Orinoco, dove, secondo recenti prospezioni
effettuate dalla Chevron, si troverebbero riserve accertate per almeno 275 miliardi di barili, una
quantità tale che, se confermata, potrebbe permettere al Venezuela di rivaleggiare con l’Arabia
Saudita nel primato mondiale delle riserve possedute. La caratteristica del petrolio dell’Orinoco è
quella di essere particolarmente pesante e denso e quindi richiedere processi di raffinazione più
costosi. Ma se i livelli internazionali del prezzo del greggio restassero alti potrebbero rendere
economicamente competitivo anche tale tipo di petrolio, accrescendo in proporzione geometrica il
peso specifico del Venezuela sulla scena mondiale. Le scelte e gli obiettivi politici perseguiti da
Chávez verrebbero considerati con un’altra prospettiva e lo stesso presidente potrebbe quantomeno
ridurre di intensità le crescenti critiche dell’opposizione interna sulle enormi risorse finanziarie
venezuelane spese all’estero per solidarietà con governi o movimenti politici considerati dai
bolivariani amici.
Venezuela / Ecuador. 1 giugno. L’offensiva politica, via petrolio, continua: Chávez firma a Quito,
con il presidente ecuadoriano Alfredo Palacio, un accordo di cooperazione petrolifera. L’Ecuador,
che pochi giorni fa ha dichiarato decaduto il contratto con la statunitense Oxy, potrà raffinare fino a
100mila barili al giorno del suo greggio nelle raffinerie venezuelane, con un risparmio di 200-300
milioni di dollari l’anno. Nonostante sia produttore ed esportatore di petrolio, l’Ecuador è costretto
ad importare i derivati petroliferi, il gas e la nafta, per 1.8 miliardi di dollari l’anno. L’accordo
prevede anche un’integrazione energetica e accordi di cooperazione fra le due compagnie statali,
Pdvsa e Petrocuador. L’Ecuador «recupera le sue risorse energetiche», ha detto Chávez e Palacio
ha parlato di «un giorno memorabile nella storia dell’Ecuador».
Euskal Herria. 2 giugno. Misure cautelari solo per Permach. Degli otto dirigenti di Batasuna, la
Procura obbliga solo Joseba Permach a presentarsi quotidianamente ai commissariati per la firma e
gli vieta di uscire dallo Stato spagnolo. Il giudice Fernando Grande-Marlaska ha quindi rimandato
liberi Arnaldo Otegi, Jon Gorrotxategi, Karmelo Landa, Rufi Etxeberria, Joseba Alvarez, Juan Kruz
Aldasoro, Pernando Barrena, specificando però che non muta la situazione processuale degli
imputati adducendo, come motivazione, tra le altre, il fatto che «le norme devono essere
interpretate attendendo alla realtà sociale del momento nel quale si applicano». Della serie: come
si usa la cosiddetta “giustizia”. Il magistrato ha motivato le misure restrittive per Permach per aver
il portavoce di Batasuna detto, la scorsa settimana, che, se gli otto dirigenti fossero stati incarcerati,
il processo di pace sarebbe entrato «in una situazione di blocco». In un’intervista a Radio Euskadi
(26 maggio scorso), Permach aveva criticato «Rubalcaba (ministro dell’Interno, ndr) e gli assistenti
di Zapatero» perché «stanno tirando molto la corda» e avvertito l’esecutivo spagnolo che stava
ponendo «al limite del colasso» la possibilità di aprire un processo politico in Euskal Herria con
l’accentuare le persecuzioni nei confronti degli indipendentisti.
Euskal Herria. 2 giugno. Il reato commesso dagli otto esponenti di Batasuna è quello di aver
convocato una conferenza stampa in un hotel di Iruñea, il 24 marzo, ed esposto il punto di vista
della formazione indipendentista rispetto al cessate-il-fuoco decretato dall’ETA. Il solo Otegi non
era presente perché a casa, malato. Lo scorso venerdì il giudice aveva allargato l’imputazione a un
«reato di minacce terroriste», legando l’intervista a due rappresentanti di ETA pubblicata da Gara,
la presentazione della commissione negoziatrice di Batasuna e dichiarazioni di Joseba Permach che
poneva l’attenzione sulla gravità del momento politico (per una serie di atti persecutori contro la
sinistra abertzale) e la possibilità di un «blocco» nel processo negoziale in via di apertura.
Euskal Herria. 2 giugno. Per il giudice Fernando Grande-Marlaska tutte le iniziative della sinistra
abertzale (patriottica) «sono conseguenza di un piano orchestrato dall’insieme della rete
dell’organizzazione terrorista ETA, al fine di obbligare i poteri legittimi a negoziare e ad assumere
le sue esigenze come condizione indispensabile del cessate definitivo dell’esercizio della violenza».
Per questo respinge la tesi che i divieti alle manifestazioni di Batasuna e le iniziative giudiziarie
contro i suoi membri «chiudano o limitino l’esercizio legittimo dei diritti civili e politici».
Euskal Herria. 2 giugno. Batasuna critica la politica della UE in Sri Lanka. L’inclusione della
guerriglia tamil, LTTE, nella lista delle organizzazioni «terroriste» dell’Unione Europea (UE) è un
attacco al processo di pace in Sri Lanka. Secondo il movimento basco la decisione è «conseguenza
della pressione esercitata dal governo di Colombo e degli Stati Uniti», il che suppone, aggiunge,
«un chiaro allineamento della UE contro una delle parti integranti il processo di pace dello Sri
Lanka». La UE «criminalizza l’LTTE, mentre il ricorso sistematico alla guerra sporca e alle
organizzazioni paramilitari da parte di Colombo contro il popolo tamil prosegue impunito».
USA / Iran. 2 giugno. Senza clamori la Casa Bianca stringe il cerchio intorno all’Iran. Washington
ha già adottato, unilateralmente, un insieme di misure economiche e finanziarie tendenti a soffocare
l’Iran impedendogli di accedere al sistema bancario internazionale. Negli ultimi mesi la svizzera
Ubs Ag e l’olandese Abn Amro Holding hanno annunciato di aver posto fine ad ogni operazione
con il governo iraniano dopo che nei loro confronti erano state aperte due inchieste del
Dipartimento della Giustizia USA. Parallelamente, agitando lo spauracchio iraniano-sciita,
Washington sta cercando di legare ancor più a sé i paesi arabi –sunniti– del Golfo, la Giordania e
l’Egitto, da un lato per imbarcarli nella «crociata contro il terrorismo» e convincerli ad
abbandonare al loro destino i palestinesi e la resistenza irachena e dall’altro a sostenere il tentativo
americano-francese –tramite la Hariri Inc. l’ultradestra libanese e Walid Jumblatt– di disarmare la
resistenza libanese e palestinese e portare al potere in Siria, al posto dell’attuale regime alawitasciita del presidente Bashar, l’ex vicepresidente sunnita Abdel Halim Khaddam e i fratelli
musulmani. Quasi un risarcimento di Washington ai sunniti per aver dato agli sciiti la
Mesopotamia.
USA / Iran. 2 giugno. Il governo di Teheran, da parte sua, si è dichiarato pronto a colloqui diretti
con Washington ma ha respinto l’approccio di Washington che ha posto condizioni non trattabili.
Ieri il ministro degli Esteri iraniano, Manucher Mottaki, ha detto che le proposte USA non
sarebbero altro che «un tentativo della Casa Bianca di riparare le smagliature con gli alleati
europei» e «un pretesto per coprire i fallimenti statunitensi in Iraq e nella regione». Il braccio di
ferro si è quindi spostato nella riunione dei cinque grandi più la Germania. Qui gli USA hanno fatto
passare un pacchetto di «incentivi», se Teheran decide di piegarsi; in caso contrario, un impegno
collettivo a rimandare il dossier al Consiglio di Sicurezza per l’adozione di sanzioni. Mosca e
Pechino hanno salutato positivamente l’apertura di Washington ma non sembrano ancora del tutto
convinte ad accettare il varo di misure punitive contro Teheran; in particolare respingono il
richiamo all’articolo VII della Carta ONU, che implica l’uso della forza, primo passo per azioni
belliche. Gli USA, con la loro «apertura senza condizioni» che Teheran non poteva che respingere,
intendono superare formalmente le perplessità europee e il “no” di Cina e Russia all’adozione di
misure coercitive contro l’Iran. L’«apertura» deriverebbe inoltre dalla necessità di costruire un
fronte internazionale in grado di sostenere l’assedio a Teheran e, un domani, un’eventuale blitz, in
un momento di grave difficoltà per l’Amministrazione, a causa dell’andamento disastroso della
guerra in Iraq e in Afghanistan, e a pochi mesi dalle elezioni di medio termine di novembre negli
States.
USA / Iran. 2 giugno. Secondo la BBC, gli USA avrebbero raggiunto un accordo con Russia e Cina
(i paesi che si sono sempre opposti a sanzioni contro l’Iran): qualora a Teheran rifiutino il loro
ultimatum-proposta, Mosca e Pechino appoggerebbero una dura risoluzione dell’ONU.
Afghanistan. 2 giugno. La vittoria dei taliban «è solo questione di tempo». Lo ha detto il
responsabile militare del movimento insorgente afgano, il mullah Madadallah. Nella prima
intervista rivolta all’Occidente dal ritiro talebano nel dicembre 2001 sotto i bombardamenti a
tappeto USA, la guerriglia riconosce eccessi nei suoi anni di governo e ricorda agli alleati europei
che il loro nemico sono gli Stati Uniti. All’emittente Al Jazeera, il dirigente talebano ammicca e
allo stesso tempo avverte le truppe della NATO, il cui numero sta crescendo nel paese, assicurando
che «noi non consideriamo come nostri principali nemici gli altri paesi che fanno parte della
coalizione straniera distaccata in Afghanistan; il nostro nemico numero uno sono gli Stati Uniti».
Ha quindi aggiunto: tornando al potere applicheremo una politica meno dura. «Abbiamo appreso
molte cose che dobbiamo avere in considerazione in futuro. La nostra attuazione, con la volontà di
Dio, sarà differente per soddisfare tutti gli strati del popolo afgano». Ha quindi affermato di essere
in permanente contatto con la guida talebana, il mullah Omar. La guerriglia è protagonista in questi
mesi di una crescente offensiva contro l’occupazione del paese.
Cina / Palestina. 2 giugno. Pechino riceve il governo palestinese. Il ministro degli Esteri cinese, Li
Zhaoxing, si è incontrato ieri con il suo omologo palestinese, Mahmud al Zahar. Lo riferisce
l’agenzia Xinhua. La Cina, come ha fatto la Russia, rompe così il blocco imposto da USA ed Israele
all’attuale Esecutivo palestinese. Al-Zahar si recherà poi anche in Iran, Indonesia, Malesia e Sri
Lanka. Non sono riferiti i termini dell’incontro, ma analisti ritengono sia stato incentrato sulla
posizione del governo di Hamas di fronte all’iniziativa di pace araba, adottata al vertice di Beirut
nel 2002. Questa stabilisce che i paesi arabi normalizzeranno le proprie relazioni bilaterali con
Israele se questi si ritira dai territori occupati nella guerra del 1967 e riconosce uno Stato
indipendente palestinese con Gerusalemme come capitale. Il portavoce ministeriale ha sottolineato
che il governo cinese non ha mai considerato Hamas un’«organizzazione terrorista» e ribadito che
il principio di “pace in cambio di terra” deve essere la base per dare soluzione al conflitto.
Germania. 3 giugno. Le riforme neoliberiste stanno creando problemi alla Grande Coalizione
tedesca (socialdemocratici e democristani al governo). Il governo di Angela Merkel vuole
restringere le norme per gli aiuti ai disoccupati. L’Esecutivo prepara dure ripercussioni per chi non
accettasse la terza offerta di impiego ed il lavoro gratis di coloro che dipendono dall’aiuto pubblico.
Si tratta dei tagli più duri dalla Seconda Guerra Mondiale.
Montenegro. 3 giugno. Il Montenegro ha proclamato oggi la sua indipendenza in una sessione
straordinaria del Parlamento divenendo pertanto un nuovo Stato dei Balcani. Sancita così la fine
della Jugoslavia.
Siria. 3 giugno. In un discorso registrato, il capo di al Qaeda in Mesopotamia, Abu Musab al
Zarqawi, differenziandosi da quanto sostenuto dallo stesso Bin Laden, ha invitato i sunniti a portare
avanti una vera e propria crociata contro gli sciiti non solo in Iraq (contro ogni ipotesi di unità
nazionale per combattere le truppe straniere) ma anche –in questo in perfetta sintonia con i piani di
USA e Francia– contro la resistenza libanese degli Hezbollah, della quale ha chiesto il disarmo.
Hezbollah, dice al Zarqawi, sarebbe diventata «lo scudo che protegge l’esercito sionista dagli
attacchi dei mujaheddin in Libano».
Libano. 3 giugno. Cresce la tensione nel paese. Venerdì scorso l’uccisione, a Sidone, con
un’autobomba, di due esponenti della Jihad islamica. Due giorni dopo i più duri scontri di confine
tra Hezbollah ed esercito di Tel Aviv che si siano avuti dal 2000. Giovedì sera, una trasmissione
satirica alla televisione libanese Lbc (vicina al leader delle falangi cristiano-maronite di estrema
destra, Samir Geagea) nella quale si metteva in ridicolo il segretario degli Hezbollah, sheik Hassan
Nasrallah, ha dato fuoco alle polveri. Migliaia di giovani sono scesi in piazza nella periferia sud di
Beirut, a maggioranza sciita, bloccando per ore le strade che vanno verso l’aeroporto. I manifestanti
si sono diretti poi verso la centrale piazza dei martiri e si sono scontrati con i militanti della destra
falangista guidati dal figlio di Amin Gemayel, Sami, a rue Monot. Sassaiole e incidenti anche sulla
linea di confine con il quartiere di Ain Rumaneh. Solamente il dispiegarsi dell’esercito lungo la
“linea verde” che divideva in due la capitale libanese durante la guerra civile (1975-1990) e gli
appelli alla calma dello stesso Nasrallah, hanno evitato, per ora, il peggio.
Iran. 3 giugno. «L’Occidente non può costringere l’Iran a rinunciare al proprio diritto di avere
tecnologia nucleare per scopi civili. Per questo la nazione e il governo iraniani sono decisi ad
acquisire energia nucleare», ha affermato ieri il presidente Mahmoud Ahmadinejad durante un
incontro con il segretario generale dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oci), Ekmeleddin
Ihsanoglu. Alcuni osservatori fanno però notare che il governo iraniano non ha ancora ufficialmente
risposto all’accordo raggiunto giovedì dal gruppo 5+1 (i 5 grandi del Consiglio di Sicurezza più la
Germania) su un «pacchetto sostanziale» di incentivi in cambio della sospensione immediata di
ogni attività di arricchimento di uranio e dell’assicurazione che non saranno adottate misure da
parte dell’ONU. Perentoria la segretaria di Stato statunitense Condoleezza Rice: l’Iran non può
tergiversare e deve rispondere «nel giro di settimane» alla proposta-ultimatum, ribadendo che la
sospensione dell’arricchimento dell’uranio «non è negoziabile», altrimenti «la parola passerà al
Consiglio di Sicurezza dell’ONU».
Iran. 3 giugno. Non usa mezzi termini lo “zar” dell’intelligence statunitense, John Negroponte.
L’Iran è «il principale Stato sponsor del terrorismo nel mondo» e «potrebbe avere la bomba
nucleare entro il 2010», ha affermato in un’intervista alla britannica BBC. Indirettamente gli
risponde Ahmadinejad: «La ragione della loro posizione non è la preoccupazione per le armi
nucleari, ma l’accesso dell’Iran alla tecnologia, che significa aprire la strada a tutti i Paesi
indipendenti, specialmente i Paesi islamici, per avere tecnologia nucleare». In attesa di una risposta
ufficiale del governo iraniano, però, la Russia ha messo le mani avanti. Il presidente Putin ha
affermato che «è troppo presto» per parlare di sanzioni contro l’Iran nel caso in cui Teheran si
rifiuti di accogliere le richieste della comunità internazionale sul suo programma nucleare. E ha
escluso l’ipotesi di un ricorso alla forza.
Nepal. 3 giugno. Prova di forza ieri a Kathmandù. Convocati dal Partito Comunista del Nepal Maoista, che si levò in armi dieci anni fa, 300mila persone, molte delle quali arrivate da diverse
aree del paese, sono scese in piazza nella capitale nepalese. Era la loro prima manifestazione
autorizzata da tre anni a questa parte. Ressa sul piazzale, poi, per cercare un varco e vedere i volti
praticamente sconosciuti dei dirigenti della guerriglia che si succedevano nei loro discorsi, udibili
grazie ad un gigantesco sistema di altoparlanti. Una stazione radio mobile diffondeva le loro parole
per tutta la valle di Kathmandù. È la prima grande manifestazione pacifica della guerriglia dopo il
ridimensionamento del re Gyanendra. Più che un semplice corteo si è trattato di una prova di forza:
la dimostrazione che la guerriglia gode di un forte appoggio popolare e che non è dunque solo
truppa di montagna ma corpo attivo nella società nepalese. Si è svolta pacificamente e rispettando
gli accordi presi con il governo. Il corteo si è attenuto a un percorso che ha evitato alcuni luoghi
sensibili, come il palazzo reale.
Nepal. 3 giugno. I maoisti chiedono un’accelerazione nel processo di cambiamento. Chiedono che
il voto per l’assemblea costituente, che dovrà scrivere una nuova Costituzione, non sia gestito da un
governo legittimato dalla vecchia. Krishna Bahadur Mahara, il capo negoziatore dei maoisti,
prendendo la parola alla manifestazione di ieri, ha accusato il nuovo governo di frapporre ostacoli e
di non decidere la data per le elezioni della speciale assemblea che dovrà redigere una nuova
Costituzione. Ha inoltre denunciato l’inadempimento, da parte dell’esercito, della tregua bilaterale e
chiesto l’immediata dissoluzione dell’attuale Parlamento, «incapace di rappresentare il paese». Il
parlamento attuale è stato eletto nel 1999 durante la monarchia e dal re dissolto nel 2002 prima
dello scadere del suo mandato quinquennale. Alla fine di aprile, dopo un mese di proteste popolari,
il re ha gettato la spugna ed ora, dicono i maoisti, parlamento e governo sono l’espressione di una
stagione ormai passata. I maoisti vorrebbero un governo ad interim nel quale, anche se la richiesta
non è esplicita, i guerriglieri siano rappresentati più che simbolicamente. C’è chi pensa che i maoisti
puntino alla guida del governo. Il governo provvisorio attuale, espressione dei sette partiti che con i
maoisti formarono la famosa agenda dei 12 punti siglata in India nel novembre scorso per
rovesciare re Gyanendra, è guidato da Girija Prasad Koirala, leader del partito del Congresso.
Nepal. 3 giugno. Il 18 maggio scorso è già stata messa nero su bianco la svolta storica che fa del
Nepal una repubblica, anche se il re vi mantiene un ruolo decorativo. Le «reali» forze armate hanno
smesso di essere reali e la corona ha perso prerogative politiche e privilegi. Secondo Pushpa Kamal
Dahal, meglio noto come Prachanda, il leader dei maoisti, è però troppo poco. Non solo il Nepal
non è ancora la repubblica che la guerriglia prefigura ma, stando a quanto riporta la stampa, la
coalizione del governo starebbe, ha detto Prachanda in un’intervista, «marginalizzando, bypassando
e minimizzando» il ruolo del movimento. La manifestazione di ieri è stato un chiaro messaggio di
avvertimento. Al momento, comunque, la tregua decretata dalle due parti tiene, il governo non
chiama più «terroristi» i maoisti e i processi in tribunale a loro carico saranno chiusi. Una
commissione mista di sei persone (per il governo ci sarà il ministro dell’Interno Krishna Sitaula)
dovrebbe sedersi a breve ad un tavolo negoziale. Uno dei punti nodali sarà la smobilitazione
dell’esercito guerrigliero ma anche il capitolo impunità per le uccisioni del passato da ambe le parti.
I maoisti vorrebbero una supervisione ONU. Ma per adesso su quello che è uno dei punti nodali del
processo di pace non c’è ancora nessuna indicazione.
India. 3 giugno. Prosegue e si intensifica l’azione politico/militare del movimento Naxalita, di
ispirazione maoista. «La più grande minaccia alla sicurezza interna mai affrontata», li ha definiti
un mese e mezzo fa il primo ministro indiano Manmohan Singh (cfr “notizie dal mondo” 16 aprile).
Efficiente la loro struttura militare ed in crescita il numero dei militari e poliziotti morti a causa
della guerriglia Naxalita che opera ormai in diversi Stati indiani: Orissa, Maharashtra, West Bengal,
Chattisgarh, Madhya Pradesh e Andhra Pradesh. Nato nei primi anni Ottanta nella cittadina di
Naxalbari (da cui il movimento prende nome e in cui troneggia ancora un busto di Charu
Mazumdar, padre ideologico dei guerriglieri maoisti), il movimento di ispirazione maoista mira ad
instaurare un governo del popolo nella repubblica indiana e fornisce appoggio alle rivendicazioni
dei contadini e dei gruppi tribali degli stati in questione. Per molto tempo, i guerriglieri maoisti
sono stati considerati poco più che banditi, disperati che assaltavano granai e caserme della polizia
per ottenere cibo o visibilità. Liquidata per anni come fenomeno marginale e anche un po’
folkloristico, la guerriglia maoista è stata, secondo gli esperti, ampiamente sottovalutata. Talmente
sottovalutata da avere avuto la possibilità, nell’ultimo anno, di compiere una serie di attacchi senza
precedenti. Attacchi compiuti secondo il modello, ormai consolidato, dei maoisti del vicino Nepal:
assalti a posti di polizia e caserme, uniti a operazioni populiste alla Robin Hood di grande effetto,
come rubare quintali di riso ai ricchi per distribuirlo gratuitamente ai poveri. Gli scontri con la
polizia sono ormai all’ordine del giorno.
India. 3 giugno. I guerriglieri Naxaliti sono una vera e propria struttura militare, gerarchicamente
organizzata in “Commissioni” (Centrali, Statali, di zona, di distretto e di area) e in “Squadre
combattenti di guerriglia”: ciascuna squadra comprende alcuni dalam, battaglioni composti da nove
o dodici guerriglieri. In ciascun dalam combattono almeno quattro o cinque donne, e sono sempre
più numerose le militanti che ottengono addirittura il comando. Ultimamente, a Narayanpur, «per
rafforzare la disciplina tra le truppe» è stato creato un dalam composto esclusivamente da donne,
sotto il comando di Nirmal Ekka, una dottoressa. Essere donna, in effetti, facilita l’accesso alle
abitazioni dei tribali e ai villaggi, e garantisce una maggiore libertà di azione: le guerrigliere hanno
giocato un ruolo decisivo, ad esempio, durante le campagne elettorali e le elezioni locali e regionali
facendo propaganda, dando suggerimenti agli elettori e indottrinando le donne lavoratrici sugli
obiettivi e i programmi della guerriglia. Si battono inoltre contro la discriminazione nei confronti
delle caste più basse, per i diritti delle donne e incoraggiano i matrimoni intercastali. Proprio la
povertà, la rabbia e l’insoddisfazione di contadini e degli strati più disagiati della popolazione in
genere, unite alla pressoché totale latitanza delle istituzioni nelle regioni in questione, hanno fornito
ai Naxaliti una solida piattaforma su cui operare più o meno indisturbati contro le diseguaglianze
sociali ed economiche della popolazione. E di programmare, secondo gli analisti, una vera e propria
strategia a lungo termine che dovrebbe portare, nelle intenzioni dei ribelli, a risultati analoghi a
quelli ottenuti dai maoisti nepalesi. «È un problema di sicurezza», dichiara Ajay Sahni, portavoce
dell’Institute for Conflict Management di Delhi, «ma è soprattutto un problema di politiche
economiche e di responsabilità di cui il governo deve farsi carico se non si vuole rischiare di
ritrovarsi con una situazione analoga a quella nepalese. Secondo le nostre previsioni, difatti,
nonostante l’apparente anacronismo storico e ideologico, la guerriglia di stampo maoista, se non
viene fermata in tempo, dilagherà in India e nel subcontinente indiano come e più della guerriglia
integralista islamica».
Bolivia. 3 giugno. Parte la rivoluzione agraria. Definendola più ampia e profonda della riforma
nazionale iniziata in questo settore nel 1953, il presidente Evo Morales ha dato il via ufficiale alla
«vera rivoluzione agraria». Con una cerimonia a Santa Cruz de la Sierra sono stati dati i primi
30mila km quadrati di terre. Qui, nel bastione dell’opposizione, con un forte movimento che chiede
l’autonomia o addirittura la secessione, sede del più forte organismo dei terratenientes, ferocemente
contrario a ogni ipotesi di riforma agraria, è iniziata la distribuzione delle terre ai contadini poveri,
con l’assegnazione dei primi titoli di proprietà. Proprio a Santa Cruz Morales aveva tentato di
trovare un accordo con i proprietari terrieri cruceños, ma senza alcun risultato e finito male, con la
rottura dei negoziati e la minaccia di formare una sorta di guardia bianca armata a difesa delle
proprietà. Le terre distribuite sabato appartenevano allo Stato ma presto toccherà anche alle
proprietà private, che saranno acquisite dallo Stato, senza compensazioni, fra i latifondi
improduttivi. Secondo il governo, quasi il 90% delle terre è appannaggio di 50mila famiglie e nel
dipartimento di Santa Cruz l’80% sarebbe nelle mani di 12 famiglie.
Bolivia. 3 giugno. Ai terratenientes di Santa Cruz, che assicurano che si difenderanno con la forza
«dall’orda di contadini degli altipiani che non sono nati qui e ora pretendono di rubare la nostra
terra», sabato Morales ha risposto che dovranno abituarsi all’idea che le terre «rubate dai loro
predecessori durante la Conquista spagnola ritornino ai loro proprietari originali». Oltretutto
molte delle famiglie latifondiste ottennero le terre proprio con la riforma agraria del 1953, a
beneficiare della quale furono però più gruppi di potere che piccoli produttori, per poi espandersi
illegalmente generazione dopo generazione, anche attraverso accordi illegali con imprese straniere.
Il viceministro dell’agricoltura, Alejandro Alvarez, ha detto che la redistribuzione delle terre «non
pone alcun problema giuridico», ma ha voluto precisare che neppure il governo scarta l’uso della
forza nel caso ci sia resistenza ad abbandonare la terra confiscata. Ai contadini ora il compito di
avviare produzioni ecologiche, senza fertilizzanti né agenti chimici.
Bolivia. 3 giugno. I medici boliviani hanno scioperato giovedì in segno di protesta contro il recente
arrivo di 700 loro colleghi cubani, che presteranno assistenza nelle zone depresse del paese. In
favore della missione cubana si erano invece mobilitati centinaia di infermieri. Si è appreso intanto
che il consorzio indiano Jindal Steel and Power si è aggiudicato la concessione del giacimento di
ferro di El Mutún, uno dei più grandi del mondo, con una promessa di investimento iniziale di
2.300 milioni di dollari. Nei giorni scorsi Morales aveva sigillato «l’alleanza strategica» con La
Habana e con Caracas accogliendo il presidente venezuelano Chávez e il vicepresidente cubano
Lage. Tra gli accordi sottoscritti, la costruzione di impianti petrolchimici ad opera della compagnia
boliviana Ypfb e di quella venezuelana Pdvsa, l’appoggio ai produttori rurali, l’assegnazione di
borse di studio a giovani boliviani.
Bolivia. 3 giugno. Il progetto di Costituzione del presidente della Bolivia, Evo Morales, per
l’Assemblea Costituente che sarà eletta il 2 luglio, antepone i diritti collettivi di indigeni e
contadini, nazionalizza la terra e le risorse naturali. Viene affermata la «volontà indeclinabile» di
avere uno sbocco sul Pacifico, che la Bolivia ha perso nel XIX° secolo. Oltre al castigliano, saranno
idiomi ufficiali l’aimara ed il quechua, e la bandiera indigena multicolore, la whipala, avrà lo stesso
riconoscimento dell’attuale rossa, gialla e verde, secondo il documento “Rifondare la Bolivia”,
editato dal Movimento al Socialismo, che, assicura l’agenzia Efe, sta finora circolando in via
riservata. «Dal 1826 ad oggi, la Bolivia ha visto oltre una dozzina di assemblee costituenti. In tutte
queste, gli indigeni, i contadini ed i settori maggioritari sono stati marginalizzati dalla vita
repubblicana», dicono le prime righe della proposta. «La storia della Bolivia è la storia della
resistenza indigena-popolare di fronte alla discriminazione e alla povertà», è scritto ancora
nell’introduzione del documento, e segnala che i popoli indigeni «hanno diritto
all’autodeterminazione e alla territorialità».
Italia. 4 giugno. Subito dopo la visita di D’Alema a Washington sono sempre più insistenti le voci
che vorrebbero il governo emanare un decreto legge sulle missioni militari, un decreto unico su tutte
le missioni: dal finanziamento del rientro dall’Iraq agli impegni di spesa per i contingenti impegnati
dall’Afghanistan ai Balcani e all’Africa. Sarà imbarazzante perché la tecnica del decreto unico, che
priva il parlamento di qualsiasi opportunità di discussione strategica sulle diverse missioni anche
nella fase successiva di ratifica di un provvedimento già in vigore, è quella adottata dal centrodestra
dal 2003 in poi e sistematicamente contestata dal centrosinistra finché è rimasto all’opposizione.
Iraq. 5 giugno. Il certificato di morte delle 24 vittime civili di Haditha smentisce la versione
ufficiale fornita dai marines. A rivelarlo è il Washington Post in una lunga riscostruzione di come è
stata finora gestita la vicenda all’interno delle forze armate statunitensi. Alle cinque del pomeriggio
del 19 novembre 2005 furono chiamati dei camion per portare via i corpi di 24 civili. «L’unità che
arrivò nella cittadina di Haditha», scrive il quotidiano, «trovò bebè, donne e bambini, ai quali era
stato sparato alla testa e al petto. Tutti erano stati uccisi da colpi d’arma da fuoco, secondo il
certificato di morte che è stato redatto». Tuttavia il giorno dopo il capitano Jeffrey Pool, un
portavoce dei marines in Iraq, affermava: «quindici iracheni sono stati uccisi ieri dall’esplosione di
una bomba sul ciglio della strada ad Haditha». Malgrado quello che i marines videro una volta
arrivati sul posto, nota il Post, la versione ufficiale è stata mantenuta per sei mesi.
A gennaio arrivò il generale Peter Chiarelli, nuovo numero due militare USA nel Paese. Il suo
atteggiamento, nota il giornale, è diverso da quello di altri ufficiali. Fu lui a scoprire che l’inchiesta
sull’accaduto non era mai stata fatta. Il colonnello Gregory Watt fu incaricato d’indagare e il 9
marzo informò Chiarelli che il certificato di morte dei 24 iracheni uccisi riferiva che erano morti per
colpi d’arma da fuoco, mentre la versione ufficiale parlava di una bomba e di uno scontro con
insorti. I marines non hanno ancora corretto quel loro comunicato su Haditha del 20 novembre e al
momento rimane ancora da chiarire come gestirono quella vicenda e se contribuirono a quello che
appare un tentativo di nascondere quanto accaduto, conclude il giornale.
Irlanda del Nord. 6 giugno. Paisley chiede ancora più tempo per formare l’esecutivo. Il dirigente
del Partito Democratico dell’Ulster (DUP), Ian Paisley, ha chiesto ai governi britannico ed irlandese
di far slittare di due settimane, dal 24 novembre all’8 dicembre, l’ultimatum per la formazione
dell’Esecutivo. Questa proroga allungherebbe ulteriormente i tempi, comportando la modifica
dell’attuale legislazione, che include la minaccia di dissoluzione dell’Assemblea
l’amministrazione diretta, da parte di Londra e Dublino, di questa parte di isola irlandese.
e
Somalia. 6 giugno. Mogadiscio in mano alle corti islamiche. Le milizie dei Tribunali sconfiggono i
“signori della guerra”, che abbandonano la capitale. Dopo diverse settimane di combattimenti e
circa 350 morti, le milizie delle Corti islamiche hanno assunto ieri il controllo di tutti i punti
strategici della città, decretando la sconfitta di quella strana “Alleanza per la restaurazione della
pace e contro il terrorismo” che riuniva sotto le stesse insegne i principali “signori della guerra” del
paese. Primi contatti tra i vincitori e il governo di transizione somalo guidato da Mohamed Ali
Gedi. L’esponente principale delle corti, Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, ha rassicurato la
popolazione: «L’unione delle Corti islamiche non è interessata a continuare le ostilità e concorrerà
pienamente alla restaurazione della pace e della sicurezza dopo la vittoria del popolo con il
sostegno di Allah». Intervistato dalla France Presse, Ahmed ha detto: «Comincia una nuova era
per Mogadiscio, senza i “signori della guerra”». La Somalia soffre la legge del più forte da
quando, nel 1991, fu rovesciato il dittatore Mohamed Siad Barre. Questi tribunali islamici sono
emersi a partire dal 2004.
Somalia. 6 giugno. Ex insegnante, studioso di arabo e letteratura in Libia e in Sudan, Sheikh Sharif
è a capo dell’Unione dei Tribunali islamici dal 2004. Nelle sue frequenti uscite alla radio o in
televisione, non ha mai nascosto di voler instaurare uno stato islamico basato sulla shari’a. Lo
stesso movimento che dirige è nato dall’esigenza di portare ordine all’interno della capitale somala,
sostituendo la legge della giungla con quella coranica. Ha progressivamente conquistato l’appoggio
di fette consistenti della popolazione, stanche dell’anarchia e dello strapotere dei “signori della
guerra”. L’Unione riunisce ufficialmente 12 corti, ma i tribunali islamici starebbero proliferando,
assumendo in alcuni casi una connotazione clanica. Hanno le loro milizie, con compiti di polizia.
Secondo quanto denuncia Washington, darebbero riparo a combattenti stranieri e presunti membri
di al Qaeda. Un punto, quest’ultimo, su cui permangono molti dubbi, ma che ha spinto gli Stati
Uniti a finanziare massicciamente i “signori della guerra” dell’Alleanza.
Somalia. 6 giugno. Il futuro del paese è avvolto nell’incertezza: i “signori della guerra” usciranno
di scena? Le Corti troveranno un modus vivendi con il premier di transizione Mohammed Ali Gedi
e, soprattutto, con il presidente Abdullahi Yusuf Ahmed, che nel 1992 sbaragliò in una battaglia
epica nel Puntland i miliziani di Al Itihaad, antesignani delle Corti? Ma, soprattutto, gli Stati Uniti e
l’Etiopia potranno sopportare nel Corno d’Africa uno Stato a forte impronta islamica? Dalla città di
Baidoa (250 chilometri da Mogadiscio), dove il governo si riunisce per ragioni di sicurezza, Gedi ha
licenziato i suoi quattro ministri-“signori della guerra” (tra cui Qanyare Afrah e Muse Sudi, già
responsabili rispettivamente del dicastero della sicurezza interna e del commercio) e ha detto che
vuole instaurare un dialogo con le Corti. Queste ultime gli hanno risposto di essere interessate e
avrebbero avanzato la candidatura del loro membro anziano, Sheikh Hassan Dahir Aweys, per
occupare uno dei dicasteri lasciati vuoti dai “signori della guerra” caduti in disgrazia. Il vento sta
cambiando a Mogadiscio. Resta da vedere se gli USA sono disposti a ingoiare una nuova disfatta,
sia pur indiretta, nello stesso paese da cui furono costretti a ritirarsi ignominiosamente nel 1993.
Ucraina. 6 giugno. La Crimea si dichiara «NATO-free» dopo proteste per l’arrivo di marines USA.
Il parlamento della Crimea, regione autonoma dell’Ucraina, ha dichiarato la penisola territorio
«NATO-free», ossia libero dalla presenza e dall’influenza dell’Alleanza Atlantica. I deputati hanno
votato all’unanimità –61 a 0– la risoluzione. Il Parlamento ha così chiesto, ieri, l’annullamento delle
manovre militari (Sea Breeze 2006) previste prossimamente nella penisola, nel quadro della
crescente collaborazione del governo ucraino con la NATO, e che si tengono da qualche anno nel
mar Nero. Il suo presidente, Viktor Yushenko, ha accusato la Russia di aver fomentato questa
decisione. Di fatto sulla presenza dei marines lo scontro è ora anche giuridico: la presenza è
«illegale» perché non autorizzata dal Parlamento nazionale (Rada), benché prevista in un decreto
firmato proprio da Yushenko, che tuttavia la Rada ha rigettato più volte. Un nuovo voto è stato
rinviato al 14. Molti temono che Sea Breeze faccia da cavallo di Troia all’ingresso effettivo della
NATO in Ucraina, da sempre caldeggiato da Yushenko. La penisola di Crimea, ceduta dall’URSS
all’Ucraina negli anni Cinquanta, è un bastione dell’opposizione. Qui, a Sebastopoli, Mosca tiene
ancora ormeggiata dopo il crollo dell’URSS la flotta del Mar Nero, il cui ritiro dal territorio ucraino
(previsto per il 2017) è oggetto di interminabili negoziati con Kiev.
Ucraina / Russia. 6 giugno. Yushenko è sempre più in difficoltà, dopo la spaccatura del fronte
arancione e il risorgere del filorusso Yanukovich. A più di due mesi dalle elezioni non c’è ancora
un governo. La costa ucraina si presenta inquieta anche più a est, sul mar d’Azov che segna il
confine con la Russia, dove in questi giorni si è riacceso il contenzioso tra i due paesi per la
proprietà del piccolo ma strategico stretto di Kerch. Sempre a est, nelle province a maggioranza
russofona di Kharkov e Luhansk e in città come Dnipropetrovsk e Nikolaiev, le autorità locali
hanno deciso di ripristinare l’uso del russo come lingua ufficiale, accanto all’ucraino. Uso
cancellato –con poca lungimiranza visti i gravi problemi burocratici che ne sono scaturiti– proprio
dalla rivoluzione arancione. Ora il Partito delle Regioni di Yanukovich cavalca la protesta di
Feodosia (dove in un hotel sanatorio di stampo sovietico sono acquartierati 249 marines USA),
chiedendo le dimissioni del ministro della Difesa, Gritsenko, mentre Mosca ventila ritorsioni
economiche contro Kiev. Persino i socialisti di Moroz, alleati di Yushenko, minacciano di uscire
dalla proposta coalizione di governo «arancione» che sbloccherebbe la crisi, se il presidente
insisterà sull’opzione pro-NATO. Per via di questa delicata situazione, si continua a rimandare la
visita di Putin nel paese. Stessa sorte per quella del presidente statunitense, George W, Bush,
prevista questo stesso mese. Mosca, intanto, ha annunciato per il 30 giugno un forte aumento del
prezzo del gas. Nelle negoziazioni, però, rileva il quotidiano Den, avrà di fronte «un paese senza
governo».
Palestina. 7 giugno. Il Documento di Riconciliazione Nazionale che il presidente Mahmud Abbas
(Abu Mazen) intende sottoporre a referendum è stato elaborato da membri dei principali movimenti
palestinesi incarcerati in Israele. Prevede un riconoscimento implicito di Israele. Questo documento,
che Hamas nega di dare per buono al 100%, prevede la fine degli attentati in territorio israeliano e
la creazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967, il che, appunto, presuppone un
riconoscimento implicito di Israele. Tra i principali punti del testo: diritto al ritorno dei rifugiati;
Stato indipendente nei territori occupati nel 1967 con Gerusalemme capitale; modernizzazione e
riattivazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con adesione di Hamas
e Jihad Islamica; diritto a resistere con tutti i mezzi, anche con le armi quindi, ma limitato ai territori
occupati nel 1967; rafforzamento dell’Autorità Palestinese; governo di unità nazionale con la
partecipazione di tutti i gruppi, particolarmente Al Fatah e Hamas; le negoziazioni (con Israele)
sono competenza dell’OLP e del presidente dell’Autorità Palestinese, a condizione che ogni
accordo cruciale sia approvato dal Consiglio Nazionale Palestinese (il Parlamento dell’OLP) o
sottoposto a referendum. Tra gli estensori del documento: Marwan Barghouti (Al Fatah),
Abdelkhaled Al-Natche (Hamas) e membri della Jihad, del FPLP (Fronte Popolare) e del FDLP
(Fronte Democratico).
Iraq. 7 giugno. Il Pentagono intende inviare a breve in Iraq 3.700 uomini di stanza in Germania,
per rafforzare il contingente iracheno. Lo afferma la Cnn, citando fonti militari anonime. Le truppe
dalla Germania devono avvicendare le unità che stanno terminando la loro missione, ma il generale
Casey, comandante del contingente, aveva sperato di poterle tenere di riserva, se la situazione della
sicurezza nel Paese lo avesse permesso. Gli USA hanno in Iraq circa 134mila militari.
Brasile. 7 giugno. Irruzione in Parlamento. Oltre 500 membri del Movimento de Libertação dos
Sem Terra (Mlst, una dissidenza del Movimento Sem Terra) hanno lanciato un’automobile contro il
portone della Camera dei Deputati e hanno poi fatto irruzione all’interno, armati di pietre e bastoni.
La protesta, originata dal rifiuto dei parlamentari di ricevere una delegazione del movimento, si è
conclusa con 23 feriti, di cui uno grave, e centinaia di arrestati. Tra questi il leader del Mlst, Bruno
Maranhao, esponente del Partido dos Trabalhadores del presidente Lula. Da tempo le
organizzazioni contadine premono perché vengano superate le lungaggini nell’applicazione della
riforma agraria e nella distribuzione delle terre.
Euskal Herria. 8 giugno. La Polizia spagnola irrompe durante una conferenza stampa di Batasuna
e ne ordina la sospensione. Convocata ieri ad Iruñea, mirava a rendere pubblica la proposta di
soluzione politica della formazione patriottica basca illegalizzata sul conflitto nei Paesi Baschi. Il
provvedimento è stato disposto dal giudice Fernando Grande-Marlaska. Sconcerto tra i giornalisti
presenti in sala. Molti di loro hanno protestato e sostenuto di non aver mai assistito a niente di
simile nel corso della loro carriera giornalistica. Fonti giuridiche dell’Audiencia Nacional hanno
spiegato che il giudice ritiene illegali tutte le attività di Batasuna, incluse le conferenze stampa,
anche se realizzate in locali chiusi. Il provvedimento mostra che non si è interrotta l’offensiva
contro Batasuna guidata da Grande-Marlaska, nonostante la scorsa settimana non abbia imposto
misure cautelari significative contro gli otto dirigenti di Batasuna.
Somalia. 8 giugno. George Bush annuncia di voler preparare una risposta statunitense per evitare
che la Somalia diventi un rifugio per Al Qaeda. Gli ha risposto il capo delle corti islamiche di
Mogadiscio, Sheihk Sharif Sheikh Ahmed: le sue milizie, ha detto in un’intervista, potrebbero
«dare una lezione agli americani». Intanto, alti funzionari legati all’amministrazione Bush, lo
riporta la stampa USA, hanno confermato oggi, sotto anonimato, che Washington sosteneva i
“signori della guerra”. Una posizione mai esplicitata ufficialmente, quantunque fosse evidente a
tutti gli osservatori ed analisti dell’area.
USA / Iraq. 8 giugno. Stati Uniti sotto choc: turbe psichiche per un soldato su dieci. È il senso del
reportage che USA Today ha dedicato ieri ai soldati che tornano dall’Iraq con turbe mentali. Sono
uno su dieci, raccontano al giornale i medici che li esaminano al ritorno, ricordando che in base alla
«turnazione» sono almeno 500mila i soldati che hanno «servito» laggiù. C’è quindi un potenziale di
50mila giovani «trasformati in spostati», ma siccome al rientro non presentano ferite «visibili» il
loro problema è di fatto ignorato.
Afghanistan. 8 giugno. La NATO punta ad aumentare la sua presenza militare in Afghanistan per
far fronte all’aumento degli attacchi della guerriglia soprattutto nel sud del paese. È quanto emerge
dalla due-giorni dei ministri della difesa della NATO a Bruxelles, argomento principale appunto
l’Afghanistan. Secondo quanto preannunciato nei giorni scorsi, la NATO è pronta a portare le
truppe sul campo dagli attuali 9mila soldati a un numero che si aggira tra i 15mila e i 17mila entro il
prossimo luglio, e potrebbe ulteriormente accrescere la sua presenza entro la fine dell’anno. «Non ci
illudiamo che il nostro compito sia facile», ha detto il segretario generale della NATO, Jaap de
Hoop Scheffer, in una conferenza stampa al termine del consiglio ministeriale. A conferma, il
ministro della difesa afgano, Abdul Rahim Wardak, per la prima volta presente ad un vertice della
NATO, ha previsto un incremento ulteriore dell’attività guerrigliera, sulla base di informazioni a
sua disposizione, nel sud del paese, durante la prossima estate, quando avverrà la parziale
sostituzione delle truppe presenti attualmente nella missione “Enduring freedom” con quelle fresche
della NATO.
Perù. 8 giugno. Nelle sue prime dichiarazioni alla stampa straniera, Alan García si mostra
conciliante verso Caracas, dopo gli attacchi a Chávez che avevano mosso in campagna elettorale.
García ha escluso in maniera decisa di volersi porre alla testa di un fronte regionale antichavista,
come qualcuno aveva pronosticato, e ha anzi auspicato il mantenimento di buoni rapporti con il
Venezuela. Del resto né García né Chávez hanno interesse a una rottura delle relazioni
diplomatiche. Come scrive l’analista politico Isaac Bigio, «la guerra verbale condotta dai due è
servita all’aprista (il partito di García, ndr) per assicurarsi il voto della destra e al bolivariano per
far sì che Humala lo seguisse e si spostasse a sinistra. Oggi entrambi hanno raggiunto il loro
scopo. García è arrivato al governo, Chávez è riuscito a creare per la prima volta un movimento di
massa affine in Perù (dove in precedenza non esisteva nulla)». Intanto, alle “aperture” di García, lo
sconfitto Ollanta Humala ha risposto scartando qualsiasi ipotesi di accordo e promettendo di portare
in piazza l’opposizione al governo. «La lotta continua», ha affermato l’ex militare.
Perù. 8 giugno. La vittoria di García e l’ondata chavista. Domenica Alan García ha vinto in 10 dei
25 dipartimenti e a Lima (un terzo dell’elettorato) ha avuto il 66%. Humala, invece, ha vinto negli
altri 15 e nei 6 della sierra del sud, con più del 60%. Il paese è spaccato geograficamente ed
elettoralmente in due. Sul piano politico, il voto degli indigeni e dei poveri (il 52% della
popolazione), per Humala, appare più coeso e convinto mentre per Garcia ha votato in termini
significativi, turandosi il naso, anche la destra spaventata dal discorso chavista e anti-liberista di
Humala. Analisti osservano che il nuovo governo nasce stretto in una tenaglia (da destra e da
sinistra) e che il vero sconfitto di domenica è prima di tutto la destra peruviana. Stando ai numeri
Humala non ha vinto, ma per dire che abbia effettivamente vinto Alan e che l’ondata chavista si sia
fermata, in Perù, è ancora presto.
Perù. 8 giugno. Alan García è tornato al potere dopo la sua prima esperienza nel periodo 1985-90,
conclusasi tra accuse di corruzione e violazioni dei diritti umani, con il paese in preda a
un’inflazione galoppante (i prezzi erano aumentati fino a 33mila volte) e una violenza politica in
continua crescita. Nonostante questo saggio di malgoverno, il leader dell’Apra ha ottenuto la
vittoria grazie al voto del ceto medio-alto, che ha fatto convergere i suoi consensi su di lui per far
fronte alla «minaccia Humala», l’ex militare nazionalista considerato vicino a Chávez e a Morales.
Ad assicurare il trionfo di García sono stati gli elettori di Lima (un terzo del totale), che al primo
turno si erano espressi a favore della candidata della destra Lourdes Flores, e quelli della costa
settentrionale. Per Ollanta Humala si sono pronunciati invece in modo massiccio i dipartimenti del
sud del paese, le zone più povere e più indie dove il suo discorso radicale e messianico ha trovato
terreno fertile: Ayacucho, Arequipa, Puno, Cuzco, Apurímac e Huancavelica. Se Garcia ha vinto
con 6 milioni e 100 mila voti, Humala, in soli 5 mesi, ne ha raccolti ben oltre 5 milioni. Per questo,
anche se l’onda radicale dell’America latina non è riuscita a proiettarlo al palazzo di Pizarro a Lima,
gli ha dato un peso politico molto consistente.
Perù. 8 giugno. La composizione del Congresso emerso dal voto del 9 aprile vede la maggioranza
relativa dei seggi (45 su 120) assegnata al partito di Humala (Unione per il Perù), mentre il Partito
Aprista Peruviano del suo antagonista Alan García figura al secondo posto con 36 parlamentari.
Seguono Unidad Nacional, la coalizione della neo-liberista dura Lourdes Flores, con 17 seggi, la
fujimorista Alleanza per il Futuro dell’ex presidente fuggiasco Fujimori con 13, il Fronte del Centro
(5), Perù Possibile del presidente uscente Toledo (2), il religioso evangelico Restaurazione
Nazionale (2). A condizionare ancora di più l’operato del nuovo capo dello Stato sarà l’appoggio
che l’ex presidente Fujimori gli ha assicurato dal Cile, dove si trova in attesa di estradizione. Nel
corso della campagna elettorale Humala aveva denunciato il «patto di impunità» tra García e
Fujimori, un patto confermato anche dalla presenza, tra le fila dell’attuale vincitore, di numerosi ex
collaboratori dell’uomo forte del passato regime, tra cui Vladimiro Montesinos. Quanto al futuro
vicepresidente, l’ammiraglio a riposo Luis Giampietri, non si è distinto solo nel periodo Fujimori:
nel 1986, durante la prima presidenza di Alan García, diresse l’assalto militare al penitenziario di El
Frontón, durante il quale furono massacrati centinaia di prigionieri politici.
Perù. 8 giugno. Alcune valutazioni sul voto peruviano. Il quotidiano messicano La Jornada
pubblica un’analisi del sociologo Carlos Reyna, per il quale «il voto di Humala è più solido del voto
di García perché il suffragio per il vincitore è venuto per paura, mentre il voto al nazionalista è
stato dato nonostante la campagna di paura orchestrata contro Humala; in altri termini, questo
consenso è espressione di una scelta più sentita». Altri analisti peruviani rilevano la sconfitta dei
partiti che apertamente hanno difeso le tesi della destra, cioè i partiti legati all’ex presidente Alberto
Fujimori e a Lourdes Flores. Quest’ultima, sconfitta al primo turno delle presidenziali, informa alaiamlatina, si è premurata di ricordare a García che ha vinto «con i voti prestati e con quelli della
paura». In un’intervista al sito di Rebelión, il sociologo statunitense James Petras ricorda la grande
avanzata di Humala, che ha dovuto far fronte «a tutti i partiti della destra e del centro destra, a tutti
i mezzi di comunicazione di massa, a tutte le multinazionali e all’ambasciata degli Stati Uniti». Ed
ha aggiunto: «i risultati elettorali vanno sempre dietro le lotte sociali». Il che, aggiunge, non
impedirà che queste lotte si impongano anche sul terreno elettorale in una prospettiva a medio
termine.
Italia. 9 giugno. «Il ritiro del contingente italiano non avrà un impatto significativo sullo sforzo
della coalizione». Con poche, sprezzanti parole Rumsfeld liquida l’addio all’Iraq annunciato dal
nuovo governo Prodi. All’ok infastidito del capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, nella sala
stampa della NATO fa seguito una grande risata. Il ritiro sarà indolore, dice Rumsfeld. Una battuta
che sottintende che l’impegno dello Stato italiano nel Golfo non è poi così essenziale come continua
a ripetere il vecchio governo. Subito dopo il dileggio, Rumsfeld si spende in parole di comprensione
con Roma: «ogni paese può fare ciò che crede appropriato quando lo crede appropriato». Il
ministro alla Difesa, Arturo Parisi, alla sua prima ad una riunione della NATO, smorza i toni e si
avventura, imbarazzato, in piroette diplomatiche. «È evidente che sul tema Iraq siamo portatori di
due punti di vista diversi, veniamo da due storie diverse. Arriviamo a questo confronto partendo da
storie diverse, non c’è nessun segreto da svelare ma c’è un confronto che tiene conto del fatto che
nel tempo siamo sempre stati alleati e amici. Ho avuto già occasione di dire che anche nelle
migliori famiglie si registrano delle divergenze, quello che conta è che si svolgano in un quadro che
non ignori l’Alleanza (Atlantica, ndr) che ci lega come Italia e come Europa».
Iraq. 9 giugno. Sì del parlamento ai ministri degli interni e della difesa. Il parlamento iracheno ha
approvato ieri i candidati del premier Maliki per i ministeri degli interni e della difesa. Agli interni
va Jawad al-Bolani, uno sciita che controlla Bassora; alla difesa il generale Abdel Qader Jassim, un
sunnita finora a capo dell’esercito, che ha guidato i reparti iracheni che insieme agli statunitensi
attaccarono Falluja.
Iraq. 9 giugno. «Una vittoria di Pirro. Anzi avrà un effetto negativo, perché un mito non si uccide
con la forza ma con l’intelligenza». A sostenerlo è Loretta Napoleoni, consulente della Homeland
Security, l’antiterrorismo USA, autrice di un libro su Abu Musab al-Zarqawi (Al Zarqawi. Storia e
mito di un proletario giordano, edito da Marco Tropea).
Iraq. 9 giugno. Di Zarqawi si è scritto e detto di tutto. Ben poco c’è da aggiungere, molto invece da
chiarire, scrive Michele Giorgio su il Manifesto di oggi. Innanzitutto Ahmed Fadeel Al Khaleyleh,
il suo vero nome, non era un palestinese come da tempo il suo clan familiare in Giordania ha
chiarito. Inoltre non è chiaro se sia stato luogotenente di Osama bin Laden. Senza dubbio Zarqawi
fu uno delle migliaia di combattenti arabi che parteciparono, accanto ai mujaheddin afghani, alla
lotta contro i sovietici in Afghanistan. Tuttavia non è stato mai accertato che sia stato un
collaboratore di bin Laden. «Zarqawi», spiega l’analista egiziano Diaa Rashwan, uno dei massimi
esperti arabi di islamismo radicale, «in realtà è andato in Iraq per combattere il suo Jihad, per
diventare un comandante importante, e solo nel 2004 ha chiesto di entrare in al Qaeda. Bin Laden
ha accettato ma la posizione di Zarqawi è rimasta più quella di un alleato che di un dirigente
effettivo di al Qaeda». Il giordano infatti ha presentato la propria ‘bayat’, l’atto di sottomissione, a
bin Laden solo nell’ottobre 2004 e il suo gruppo si è trasferito definitivamente in Iraq solo
nell’estate 2003. Non sono peraltro secondarie le differenze «ideologiche» che esistevano tra i due.
Zarqawi è descritto come un takfiri, ovvero un estremista islamico che tende a considerare gli altri
musulmani come apostati poiché non vivrebbero nel rispetto assoluto dei principi coranici e
dell’Islam. «Se davvero era takfiri, Zarqawi lo manifestava a modo suo», precisa Rashwan, «i
takfiri (da Takfir wa hejra, una piccola organizzazione nata in Egitto ma presente anche in
Giordania, in particolare nella città meridionale di Maan, ndr) si isolano dal resto della società
islamica che condannano in blocco. Zarqawi no, lui era selettivo, colpiva solo alcuni musulmani e
non altri. Ha passato più tempo a colpire gli sciiti che le forze anglo-americane. La sua era una
ossessione, nei suoi comunicati parlava soprattutto del pericolo sciita. Bin Laden invece è più
interessato al jihad contro gli Stati Uniti e, fatto non secondario, non ha mai preso di mira gli
sciiti». Zarqawi riuscì a incontrare per la prima volta bin Laden dopo il 1999 a Kandahar. Secondo
testimoni al capo di al Qaeda non piaceva l’irruenza del giordano e la sua insistenza sul fatto che
«tutti gli sciiti vanno giustiziati».
Iraq. 9 giugno. La sparizione di Zarqawi «potrebbe supporre un fatto decisivo in favore dei gruppi
di resistenza iracheni». Lo dichiara Diaa Rashwan, uno dei massimi esperti arabi di islamismo
radicale, all’emittente Al Jazeera. Al Qaeda, peraltro, nella terra dei due fiumi di recente aveva
perduto forza rispetto ad altre formazioni armate. «Quando parliamo della lotta armata in Iraq»,
precisa l’analista, «dobbiamo tenere presente che non si deve confondere il terrorismo con la
resistenza all’occupazione. Zarqawi e i terroristi, che colpiscono civili, sequestrano e uccidono
ostaggi, sono responsabili di un 20% delle azioni armate in Iraq. L’80% è rappresentato da
organizzazioni che prendono di mira solo i militari delle forze di occupazione nel loro paese».
Italia / Afghanistan. 10 giugno. Prodi conferma a De Hoop Scheffer il «pieno impegno» dell’Italia
alla missione in Afghanistan. Jaap de Hoop Scheffer, segretario generale della NATO, è arrivato
ieri a Roma per avere rassicurazioni per il piano già approvato in sede NATO, cui l’Italia è
obbligata a dare il proprio contributo: l’allargamento della missione ISAF nel sud del paese, nelle
zone già di competenza della missione statunitense Enduring Freedom. «L’Afghanistan resta la
nostra priorità operativa numero uno», ha ribadito nei suoi incontri con il presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, il presidente del consiglio Romano Prodi e il vice-premier e
ministro degli esteri Massimo D’Alema. Lo Stato italiano ha comunque assicurato che sarà della
partita. Prodi, secondo il portavoce del segretario NATO, «ha sottolineato con forza il pieno
impegno dell’Italia in Afghanistan». In questo contesto, recita il comunicato dell’Alleanza
Atlantica, «l’ISAF si espanderà a sud (dell’Afghansitan, ndr) più avanti, nel corso dell’estate,
portando altre Prt (Provincial reconstruction team, i settori in cui dagli occupanti USA è stato
suddiviso il paese, ndr) sotto guida NATO e incrementando significativamente i livelli generali
dell’ISAF. Le forze ISAF saranno robuste, ben equipaggiate e opereranno con le necessarie regole
d’ingaggio per rispondere con forza a qualsiasi minaccia e sfida alla sicurezza che possa
emergere». Durante l’incontro, si è discusso inoltre di Darfur, Iraq e allargamento della NATO.
Turchia / Kurdistan. 10 giugno. Sindaco kurdo condannato a quindici mesi di carcere per
un’intervista. Aydin Budak, sindaco di Cizre, cittadina kurda al confine con l’Iraq, è stato ieri
condannato a 15 mesi di reclusione dalle autorità turche per «propaganda terrorista». Budak
avrebbe espresso solidarietà al Partito dei Lavoratori Kurdi (PKK) in un’intervista alla Roj Tv,
emittente televisiva curdo-danese dalle autorità turche definita «canale di al-Qaeda». È l’ultimo
episodio di una campagna in corso in Turchia ai danni del DTP, Partito della Società Democratica,
da sempre solidale verso le minoranze etniche in Turchia e del quale Aydin Budak è esponente di
spicco. Assoluzione invece, l’altroieri, per la sociologa turca, Pinar Sedek, che ha passato due anni e
mezzo in carcere. Si era rifutata di rivelare, nonostante le torture, i nomi di guerriglieri del PKK
presenti nelle sue inchieste sociologiche. La procura aveva chiesto l’ergastolo. Vista la sua «non
collaborazione» era stata accusata di aver partecipato all’organizzazione di un’esplosione avvenuta
nel 1998 nel Bazar Egizio di Istanbul, esplosione che Ankara attribuì al PKK e dovuta, invece, ad
una fuga di gas.
Palestina. 11 giugno. Hamas ha condannato la decisione del presidente Abu Mazen di convocare
un referendum a Gerusalemme, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, il 26 luglio prossimo, sul
“documento dei detenuti”. «È un colpo di stato contro le scelte del popolo palestinese e la
legittimità conferita dagli elettori al governo», ha affermato il leader di Hamas Mushir al-Masri,
precisando che il movimento utilizzerà tutti i mezzi giuridici per impedire la consulta. In ultima
istanza chiederà alla popolazione di boicottare la consultazione. «Chi ha convocato il referendum
dovrà assumerne le gravi conseguenze», ha avvertito, tra queste il fatto che «lo scrutinio marcherà
una divisione storica del popolo palestinese». Il primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese,
Ismail Haniye, in una dichiarazione al quotidiano tedesco Der Spiegel, ricorda che tra le attribuzioni
del presidente non c’è quella di convocare questo tipo di consultazioni. Altre organizzazioni della
resistenza, come Jihad Islamica, hanno respinto la convocazione del referendum. I gruppi della
sinistra, FPLP e FDLP, insistono nel chiedere ad Abbas che non compia questo passo e che
permetta il prosieguo di negoziazioni non vincolate. L’iniziativa di Abbas mira da obbligare Hamas
a far sua la proposta negoziale, con i suoi grossi limiti inclusi, che la direzione palestinese porta
avanti da 15 anni a questa parte. Mira a legare mani e piedi ad Hamas prima dell’inizio di
qualunque negoziazione seria.
Palestina. 11 giugno. Abu Mazen, se riuscirà a vincere il referendum, si rafforzerà nettamente sul
piano interno. Più di tutto pensa di ritrovarsi in posizione più forte per esigere da Israele una ripresa
dei negoziati e il blocco del piano unilaterale che il primo ministro israeliano Ehud Olmert intende
attuare in Cisgiordania. Questa però è solo un’ipotesi, se non addirittura un sogno. Le previsioni
indicano ben altro. Abu Mazen rischia di andare ad una spaccatura violenta del fronte interno
palestinese senza per questo ottenere il risultato che vuole: riportare Israele al tavolo delle trattative.
Olmert infatti ha definito «senza significato» e «un gioco interno» l’iniziativa del presidente
palestinese in un’intervista pubblicata ieri dal Financial Times, in anticipo sul tour che effettuerà in
Europa. «Il referendum è un gioco interno tra una fazione e un’altra. È senza significato (...) per
quanto riguarda le possibilità di dialogo fra noi e i palestinesi». Secondo Olmert in futuro non ci
saranno negoziati «perché i palestinesi non sono pronti ad assumere le loro responsabilità dato che
il governo estremista, fondamentalista e religiosamente radicale di Hamas non è disposto e perché
Abu Mazen è troppo debole», ha detto il primo ministro dello Stato teocratico d’Israele. Olmert,
nell’intervista, ribadisce che il suo piano di ritiro unilaterale da una parte della Cisgiordania include
il mantenimento e rafforzamento delle colonie sioniste più importanti e la giudeizzazione di
Gerusalemme. La sua intenzione, riaffermata nell’intervista, di incontrarsi a fine mese con Abbas,
ha il fine speculativo dichiarato di scatenare la guerra civile inter-palestinese. Dice infatti: «Voglio
discutere e ricercare con lui la forma per aiutarlo a far fronte alla sfida di Hamas e dei terroristi
nel seno della comunità palestinese».
Nepal. 11 giugno. Il parlamento nepalese ha tolto il diritto di veto delle leggi al re Gyanendra, la
cui funzione diventa esclusivamente protocollare. Lo si è appreso oggi da fonte ufficiale. La misura
decisa dal nuovo governo ad interim insediato a fine aprile è stata adottata ieri sera e la notifica del
parlamento è stata resa pubblica oggi. Il potere esecutivo appartiene ora al Consiglio dei ministri e
quello legislativo al Parlamento, ha spiegato il presidente del parlamento Subash Nemwang.
USA / Somalia. 11 giugno. Washington non ci sta ad accettare il fallimento dei suoi piani nel corno
d’Africa e propone la messa in moto di un “Gruppo di Contatto sulla Somalia”. Già individuati
Gran Bretagna, Norvegia ed Italia per difendere i suoi interessi geostrategici nell’area. Washington
ha sostenuto i “signori della guerra”, che si disputano da diversi anni il potere nel paese, con
l’obiettivo di frenare l’espansione dei tribunali islamici. Dopo quattro settimane di combattimenti
questi “signori della guerra” sono stati cacciati dalla capitale, Mogadiscio, e le violenze all’ordine
del giorno in città sono come d’incanto sparite. Il presidente dei tribunali islamici, jeque Sharif
Sheikh Ahmed, ha tenuto a chiarire che la Sharia (legge islamica) non sarà imposta se non dopo
decisione del popolo somalo. Ha quindi ribadito che i tribunali non proteggono gli attivisti di Al
Qaeda, come sta propagandando l’amministrazione statunitense.
Israele. 12 giugno. L’esercito israeliano «è il più etico del mondo». A poche ore dall’ennesima
mattanza di palestinesi (un’intera famiglia massacrata sulla spiaggia di Beit Lahia ed altri tre
palestinesi uccisi in altrettanti raid aerei) il primo ministro israeliano, Ehud Olmert, senza sprezzo
del ridicolo, ha inteso così difendere Tsahal, l’esercito d’Israele, dalle ondate di critiche che si sono
levate anche all’interno di Israele. La Presidenza dell’Autorità Palestinese ha denunciato «la
persistenza di questi assassinii». Il ministro dell’Interno e dirigente di Hamas, Said Siam, ha
inscritto questi attacchi «nella guerra continua dei sionisti contro il popolo palestinese». Il braccio
armato di Hamas ha continuato, in risposta ai continui attacchi, a lanciare decine di razzi artigianali
contro città israeliane ed ha avvertito che la sua risposta potrebbe non fermarsi qui.
USA. 12 giugno. Il relatore dell’ONU contro la Tortura, Manfred Nowak, ha qualificato come
«cinismo assoluto» gli argomenti che utilizza l’amministrazione Bush per mantenere centinaia di
persone incarcerate a Guantanamo senza processo e senza nemmeno sapere se e quando
recupereranno la libertà.
Argentina. 12 giugno. Soldati, non poliziotti. Il presidente Kirchner ha regolamentato la Legge di
Difesa Nazionale che respinge la teoria delle cosiddette “nuove minacce” (terrorismo, narcotraffico,
delinquenza organizzata). I problemi della sicurezza interna, ha spiegato la ministra della Difesa
Nilda Garré, resteranno fuori dalla competenza delle forze armate, che dovranno limitarsi alla difesa
dei confini nazionali o a missioni internazionali nell’ambito dell’ONU. La legge era stata approvata
nel 1988, ma mancando la regolamentazione non era diventata esecutiva.
Euskal Herria. 13 giugno. «Presentarci come popolo». Batasuna invita le forze abertzale
(patriottiche) basche a convergere su un’unica candidatura e lista in vista delle elezioni presidenziali
e legislative che si celebreranno il prossimo anno, in primavera, nello Stato francese. Ieri Xabi
Larralde, accompagnato da altri tre membri della Mesa Nacional, ha avuto incontri nei territori
baschi sotto occupazione francese.
Ucraina. 13 giugno. Crisi nella coalizione arancione. Il partito del presidente dell’Ucraina, Viktor
Yushenko, ha dato ieri per rotte le negoziazioni con i suoi alleati della «rivoluzione arancione».
Quasi tre mesi dopo le elezioni generali (26 marzo), Nostra Ucraina, di Yushenko, ha constatato che
le negoziazioni, aperte il 13 aprile, «non hanno alcun futuro». A fungere da detonatore di questa
situazione è il mancato accordo su chi debba ricoprire le varie cariche, dalla guida del governo alla
Presidenza del Parlamento (Rada). Ad accapigliarsi in merito sono il Partito Socialista
(socialdemocratico, 33 seggi), Nostra Ucraina (86 seggi) ed il partito di Julia Timoshenko (129
seggi). Portavoci di Nostra Ucraina hanno evocato la possibilità che si ricerchi un accordo, per la
formazione del governo, con il Partito delle Regioni di Viktor Yanukovich, la formazione più votata
alle elezioni e che ha 186 seggi. Questa formazione, erede del rovesciato regime dell’ex presidente
Leonid Kuchma, ha dato la sua disponibilità per un accordo. Un accordo che, in ogni caso,
rappresenterebbe una ferita mortale per la già moribonda «rivoluzione arancione», che ha portato le
élite più pro-occidentali al potere a Kiev. A rischio, ora, sono l’ingresso nel WTO
(l’Organizzazione Mondiale del Commercio) e i negoziati con la NATO.
Euskal Herria. 14 giugno. Lakua considera una vergogna giuridica ed un atto altamente
irresponsabile la querela del TSJPV. Il Tribunale Superiore di Giustizia del Paese Basco (TSJPV)
ha accolto la querela presentata dal Foro Ermua (associazione di “resistenza costituzionalista”
spagnola contro il nazionalismo basco) nei confronti del governatore basco Juan José Ibarretxe,
Arnaldo Otegi, Pernando Barrena e Juan Joxe Petrikorena, per l’incontro avuto il 19 aprile scorso
nel palazzo governativo. Ibarretxe avrebbe cioè avuto un incontro ufficiale con persone poste fuori
legge. L’Esecutivo autonomico, che ha sede a Lakua, ha replicato, così, ad una parte della querela,
quella che riguarda il lehendakari (governatore, ndr), perché dei tre dirigenti di Batasuna non dice
nulla. Di fatto non fa menzione di questa formazione, il cui nome è sostituito da quello generico di
sinistra abertzale (patriottica, ndr) nella dichiarazione letta dal portavoce di Ibarretxe, Miren
Azkarate. Batasuna è una formazione illegalizzata dalla “democrazia” spagnola. Sul piano politico,
Lakua osserva la «responsabilità ultima» di chi ha dato impulso ad «una Legge dei Partiti
[predisposta espressamente per mettere fuori dalla legalità Batasuna, che ha peraltro larghi consensi
elettorali, ndr] che costituisce una aberrazione politica e democratica».
Francia / Afghanistan. 14 giugno. Parigi sempre più accodata a Washington. Il 26 maggio è
iniziata la seconda fase delle operazioni aeree in Afghanistan del contingente francese. Lo riferisce
l’agenzia Afis News. Con il nome in codice Operation Serpentaire (Mangiatore di Serpenti), i piloti
francesi stanno effettuando missioni di “close air support” e ricognizione tattica in supporto alla
operazione Enduring Freedom (Oef) e alla International Security Assistance Force (ISAF). Questa
fase di operazioni in supporto alle forze della coalizione, terminerà a ottobre. Un contingente di
militari francesi a Bagram coordina da terra le forze aeree francesi.
Somalia. 14 giugno. Africa dell’Est sanziona i “signori della guerra” somali. Sei paesi dell’area
(Kenia, Uganda, Sudan, Djibouti, Etiopia, Eritrea) hanno fatte proprie le sanzioni annunciate dal
Kenia contro i “signori della guerra” somali (congelamento dei conti ed interdizione del territorio)
ed esigono che siano giudicati per crimini contro l’umanità. Il governo di Nairobi, promotore
dell’iniziativa, ha criticato velatamente gli Stati Uniti per aver dato il loro appoggio a questi gruppi,
sconfitti dalle milizie islamiste. Il ministro keniano degli Esteri, Raphael Tuju, ha detto, in un
incontro tra i rappresentanti dei paesi su citati, che il paese che ha aiutato i “signori della guerra” ha
contribuito ad aggravare il conflitto a Mogadiscio e sta sabotando «gli sforzi della comunità per
aiutare il popolo della Somalia a ricostruire il proprio paese». Tuju ha ricordato, quindi, che i
“signori della guerra” «hanno terrorizzato» Mogadiscio negli ultimi 15 anni.
Somalia. 14 giugno. Le truppe delle scuole coraniche hanno preso stamane anche Jowhar, 90 km a
nord di Mogadiscio, già sede del governo provvisorio. Lo si apprende, a Nairobi, da fonti
considerate attendibili. Quasi non c’è stata battaglia, tranne sparatorie marginali. In realtà i signori
della guerra che vi si erano asserragliati dopo essere stati sconfitti a Mogadiscio, l’avevano
abbandonata ieri sera puntando con i loro miliziani verso nord, mentre uno o due erano rientrati
nella capitale esprimendo la disponibilità a collaborare con i tribunali coranici. A quanto si
apprende da fonti vicine al premier del governo federale Alie Gedi –attualmente a Nairobi– la presa
di Jowhar era stata annunciata all’esecutivo, con modalità di fatto concordate. Si trattava di dare
un’ulteriore spallata ai “signori della guerra”, e su questo tutti erano d’accordo. Gli accordi
prevedono che le corti islamiche abbiano sì il controllo militare, ma non vi prendano il potere
(niente sharia, ad esempio), che sarà invece gestito d’intesa tra i clan locali, allo stato riuniti
pacificamente a Jowhar. La città riveste una posizione strategica significativa in caso si volessero
muovere attacchi militari verso il nord della Somalia.
Palestina / Israele. 14 giugno. Hamas denuncia l’indifferenza mondiale di fronte alla continua
mattanza di Israele contro i palestinesi. Il suo portavoce Sami Abu Zuhri ha aggiunto che «Hamas e
tutti i gruppi della resistenza armata non hanno altra opzione che difendere il nostro popolo, ed il
mondo deve assumersi la responsabilità per l’esplosiva situazione nella quale si trascina tutta la
regione».
Palestina / Israele. 14 giugno. Quel che dice l’ONU è «indifendibile». Il primo ministro israeliano,
Olmert, ha dichiarato ieri alla Camera dei Comuni britannica che il suo governo non accetterà
«mai» di ritirarsi da tutti i territori palestinesi (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est) come
prevedono varie risoluzioni dell’ONU. Questo perché le frontiere che esistevano prima della loro
occupazione da parte di Israele nel 1967 oggi sono «indifendibili».
Iran. 14 giugno. I Non Allineati rivendicano il diritto dell’Iran all’energia nucleare. Il Movimento
dei Paesi Non Allineati ha presentato alla giunta dei Governatori dell’Agenzia Internazionale per
l’Energia Atomica una dichiarazione nella quale rivendica che tutti i paesi del mondo, incluso
l’Iran, devono avere, senza discriminazioni, diritto di acceso all’energia nucleare per fini pacifici. Si
tratta del principale disaccordo della giunta che si celebra questa settimana. Russia e Cina hanno
ribadito di essere contrari a sanzioni.
USA / Iraq. 14 giugno. Bush preme sulle dirigenze dei Paesi europei, asiatici e mediorientali
perché diano maggiore aiuto alle operazioni in Iraq. Il presidente statunitense George W. Bush ha
detto oggi, in conferenza stampa alla Casa Bianca, che dei 13 miliardi di dollari promessi per la
ricostruzione dell’Iraq durante una conferenza di donatori a Madrid, solo tre sono stati
effettivamente versati.
Euskal Herria. 15 giugno. ETA invita lo Stato francese alla negoziazione e al dialogo politico.
In un comunicato a vari mezzi di comunicazione, Euskadi Ta Askatasuna (Patria basca e Libertà)
invita le autorità francesi a mostrare la loro volontà di dare soluzione al conflitto politico mediante
dialogo e negoziazione. ETA si rivolge anche all’opinione pubblica francese perché «non collabori
con il processo di colonizzazione territoriale contro Euskal Herria». Parigi «abbandoni la via della
repressione contro i cittadini baschi ed Euskal Herria nel suo insieme» e «si coinvolga nelle
discussioni e negoziazioni per risolvere il conflitto». Parte dei territori baschi, tra l’altro, sono sotto
occupazione francese. ETA rileva che «l’oppressione della Francia verso Euskal Herria e la lotta
della cittadinanza basca per i suoi diritti» è una realtà «sconosciuta» per gran parte della
cittadinanza francese. «Quello che più si conosce sono le azioni di ETA», così come, prosegue il
comunicato, le situazioni derivate da questa attività armata. «Ma censura e silenzio non faranno
sparire l’esistenza del conflitto», dichiara l’organizzazione politico/militare basca, prima di
assicurare che questo continuerà finché lo Stato francese non riconoscerà Euskal Herria. Non viene
comunque meno il cessate-il-fuoco iniziato lo scorso 24 marzo «nella convinzione che la risposta
che riceviamo sarà in consonanza con il passo intrapreso. Per superare un conflitto di molti anni, è
necessario edificare una pace basata sui diritti di Euskal Herria e sulla giustiza. Questa è la
volontà di ETA».
Euskal Herria / Francia. 15 giugno. «La ricerca di una soluzione politica nel Paese Basco
spagnolo dipende dalla sovranità spagnola». Lo Stato francese risponde così, a stretto giro di posta,
tramite il suo ministro degli Esteri, all’ETA. Parigi circoscrive il suo sostegno a Madrid solo
nell’ambito della lotta contro ETA e lascia intendere che non sente Euskal Herria come un affare
interno. Fonti del Quai d´Orsay fanno sapere che lo Stato francese «appoggia senza riserve il
governo spagnolo nella sua volontà di chiudere con tutte le forme di violenza nel Paese Basco». Il
primo ministro francese, Dominique De Villepin, in visita a Madrid lo scorso 13 marzo, in
conferenza stampa insieme al presidente spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero, aveva sostenuto
che «non è affare della Francia intervenire in una questione che corrisponde alla sovranità
spagnola».
Euskal Herria / Spagna. 15 giugno. Zapatero ribadisce che quest’estate inizierà contatti con
l’ETA, dopo che avrà comunicato questo mese al Congresso l’inizio del dialogo. Il presidente del
governo spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, lo ha detto nel corso di un’intervista rilasciata
stasera all’emittente SER. Ha detto di aver già in testa quando comparire al Congresso per dar conto
di questo dialogo, ma non ha fornito precisazioni. Ha quindi riconfermato i suoi sforzi per ottenere
il sostegno del Partito Popolare nel processo di “normalizzazione politica”.
Serbia. 15 giugno. Il governo della Serbia ha riconosciuto formalmente l’indipendenza del
Montenegro, separatosi da Belgrado con il referendum del 21 maggio scorso. Il risultato del
referendum era stato di fatto già accolto nei giorni scorsi, con la proclamazione da parte del
parlamento di Belgrado di uno “Stato indipendente serbo” subito dopo la dichiarazione ufficiale di
sovranità del Montenegro fatta dal parlamento di Podgorica. Successivamente l’indipendenza
montenegrina era stata riconosciuta da Russia, Unione Europea e USA. L’esecutivo di Belgrado
assicura ora di voler dar vita a «relazione amichevoli e di buon vicinato» con Podgorica, nonostante
la contrarietà alla secessione espressa durante la campagna referendaria dal primo ministro serbo
Vojislav Kostunica e le perplessità dichiarate –insieme all’opposizione montenegrina unionista–
sullo svolgimento dello scrutinio di maggio. Belgrado ha preso anche l’impegno di non dar corso a
conseguenze –ventilate nei mesi scorsi– nei confronti della diaspora montenegrina residente
stabilmente in Serbia (almeno 300mila persone), cui il governo Kostunica afferma di voler anzi
proporre la cittadinanza serba.
Italia / Afghanistan / USA. 15 giugno. «Entro ambiti ragionevoli e in relazione alle nostre
possibilità la nostra presenza militare in Afghanistan potrà anche avere un certo incremento». Lo
ha detto il ministro degli Esteri italiano, Massimo D’Alema, nel corso della sua lunga audizione, ieri
pomeriggio, davanti alle commissioni esteri riunite di camera e senato. Alla vigilia della sua
partenza per Washington, dove è atteso dalla segretaria di Stato statunitense Condoleezza Rice,
Massimo D’Alema ha illustrato a deputati e senatori le linee della politica estera del governo Prodi.
Sull’Afghanistan ha offerto una certezza, opposta a quella della sinistra della sua coalizione che
chiede da tempo di ridiscutere la missione. «La presenza militare italiana non è in discussione», ha
detto. A Washington Massimo D’Alema si presenta preceduto da un articolo pubblicato ieri dal
Wall Street Journal nel quale, nelle prime righe, ricorda di essere stato l’ultima volta alla Casa
Bianca nel 1999 «quando ero primo ministro e il problema era quello dell’intervento umanitario in
Kosovo». A buon intenditor...
Italia / Afghanistan / USA. 15 giugno. Più o meno nelle stesse ore si esprimeva il presidente del
Consiglio, Romano Prodi, a Berlino davanti ai giornalisti tedeschi. «Dall’Iraq non ci ritireremo alla
spagnola ma alla olandese», ha detto Prodi, aggiungendo che la notazione non è sua ma del
segretario generale della NATO, Jaap De Hoop Scheffer. Nel momento in cui decise il ritiro delle
truppe dall’Iraq, l’Olanda fu «caldamente invitata» dalla NATO a incrementare la sua presenza
militare in Afghanistan. Cosa che fece, mandando nella regione sud altri 1.400 soldati. Al prezzo di
una spaccatura nella coalizione di governo. LA NATO preme sull’Italia non tanto per i caccia Amx
quanto per truppe specializzate (gli italiani sono al momento circa 1.400) che operino sul terreno. Il
ministro Parisi ieri, sul Corriere della Sera, ha scritto che sull’Afghanistan «definiremo l’entità del
nostro contributo sulla base dei problemi che si pongono alla comunità internazionale (cioè agli
Stati Uniti, ndr)».
Italia / Afghanistan. 15 giugno. Su Kabul, sul ri-finanziamento della missione in Afghanistan
prevista per il 30 giugno, i “no war” si dividono in governisti e non. «Non possiamo rischiare di far
cadere il governo perché altrimenti torna il centrodestra e ce lo teniamo per altri 60 anni»,
sostengono i realpolitik pronti ad indossare l’elmetto con buona pace delle grandi adunate contro la
guerra, delle strade e le piazze di mezza Italia colorate d’arcobaleno, delle roboanti conferenze
stampa per annunciare contestazioni e proteste contro la violazione dell’art. 11 della Costituzione.
«Una logica terrificante», tuona Piero Bernocchi dei Cobas, tra i pochi a non avere peli sulla lingua
e a rivolgersi a muso duro ai parlamentari pacifisti della sinistra: «Si stanno assumendo una
responsabilità enorme. Se il governo esordisce facendo la guerra in Afghanistan che senso ha
difenderlo? Non possono minimizzare la questione come se niente fosse».
Italia / Afghanistan. 15 giugno. «L’impiego delle forze armate non può essere mai identificato con
l’intervento umanitario, che deve essere condotto con forze civili anche per non riproporre vecchie
politiche di potenza e di intervento unilaterale che non aiutano la causa della pace né quella dello
sviluppo». A pagina 106 del programma dell’Unione giace sepolto un chiaro codicillo che dovrebbe
impegnare tutti i parlamentari dell’Unione. Almeno sulla carta, quindi, il no ad un aumento delle
truppe in Afghanistan, come ventilato ieri da D’Alema, è il Rubicone da non attraversare per tutti.
Ma a ben vedere lo è anche la riproposizione del decreto di finanziamento così come scritto dal
precedente governo Berlusconi. Il verde Mauro Bulgarelli è esplicito: «Basta con le ipocrisie,
quello che era sbagliato all’opposizione lo è anche oggi. L’Afghanistan è un fallimento completo
dell’amministrazione Bush e va chiamato con il suo nome: guerra. Le nostre truppe vanno ritirate
prima che il prezzo di vite umane diventi ancora più alto. Karzai», aggiunge, «non è nemmeno il
sindaco di Kabul. In difesa di quali interessi siamo lì? Terremo fede ai nostri impegni pacifisti e se
la missione resta questa voterò no». Anche Loredana De Petris, un’altra ambientalista, concorda
sulla necessità di un chiarimento: «La discussione dei capigruppo non basta, o la missione cambia
o noi non la votiamo. La situazione sul terreno peggiora di giorno in giorno. E se siamo lì per la
ricostruzione certo non possiamo mandare cacciabombardieri e truppe speciali». Piero Di Siena,
sinistra Ds e senatore dell’Ulivo, dalla sua posizione di confine vede un’aria pesante: «L’intesa o è
di tutta l’Unione o non è. Se la maggioranza non è autosufficiente in politica estera il governo
crolla». E poi aggiunge sibillinamente: «Lavoriamo tutti su giusti e responsabili compromessi».
Italia / Afghanistan. 15 giugno. «Via dall’Afghanistan? Devo ancora decidere». La pacifista doc,
Lidia Menapace, intervistata oggi da il Giornale, si avventura in contorcimenti e capziosità per
distinguere l’impresa in Iraq da quella in Afghanistan; e questa da quella in Jugoslavia portata
avanti dal governo di centrosinistra del 1999 con gli USA del “democratico” Clinton. Richiesta su
come si stia orientando sulla sua scelta di voto in Senato, la senatrice esordisce dicendo: «Trovo la
questione mal posta». Ritiene che si stia assistendo «ad una sorta di ribaltamento dei ruoli, come se
i media volessero prendere loro una decisione in vece del parlamento, che è sovrano». Al
giornalista che le riferisce che «per il Corriere della Sera lei ha già deciso di votare contro»,
replica perentoria: «Io ho smentito il Corriere della Sera. Quindi...». Cosa intende fare in
Parlamento, allora? «Deciderò al momento del dibattito, in Parlamento. Adesso sto riflettendo, su
un argomento complesso che non può essere affrontato con una battuta». Il giornalista incalza, le
chiede se «trovi punti di distanza apprezzabili fra la missione dell’esercito italiano in Irak e quella
in Afghanistan». Risponde: «È evidente che li trovo, scusi». Quali sono dunque queste «differenze
su cui sta riflettendo», chiede il giornalista, che prova a suggerire: «Il tipo di mandato
internazionale, diverso da altre missioni?». «Ci sono tante missioni e tanti diversi mandati»,
risponde la Menapace accogliendo nella «diversità» anche la missione nella ex Jugoslavia. In
relazione alle sue riflessioni dell’oggi afferma: «Un nodo è il passaggio di ruolo tra le Nazioni
Unite e la NATO, che non appare documentato». Legittimamente esterrefatto per questa
argomentazione che la Menapace peraltro ribadisce, come se il problema sia giuridico-formalistico,
alla domanda («Quindi questo è il nodo più rilevante per lei?») la senatrice mette le mani avanti:
«Sì, ma non vorrei che lei prendesse un singolo dettaglio nel quadro di un ragionamento
complessivo e lo adoperasse per spararci sopra un titolo!». Poi, richiesta ancora sull’argomento
principale dell’intervista («E se le chiedo a che punto è la sua riflessione sull’Afghanistan lei cosa
mi risponde?»), la sua risposta è un emblematico (in tutti i sensi!) «no comment». Quindi?
«Deciderò il giorno del dibattito, ma solo dopo aver discusso nel mio gruppo».
Italia / Afghanistan. 15 giugno. Lidia Menapace. Giovanissima prende parte alla Resistenza
partigiana e nel dopoguerra è impegnata nei movimenti cattolici e con varie organizzazioni
progressiste. Insegnante, simpatizza per il Partito Comunista Italiano ma nel 1969 è tra le fondatrici
de il Manifesto. Rappresenta una delle voci più importanti del femminismo italiano, dei movimenti
della cosiddetta “società civile” e del cammino verso la nonviolenza. Nelle elezioni politiche del
2006 si candida con Rifondazione Comunista al Senato e risulta eletta. La sua candidatura è resa
possibile in sostituzione di Marco Ferrando, l’esponente di una delle correnti di minoranza di
Rifondazione Comunista. Ferrando è stato protagonista di una polemica che ha comportato la
rimozione dalle liste del partito per volontà della sola segretaria del partito. Il 13 febbraio 2006
rilascia un’intervista al Corriere della Sera in cui sulla guerra in Iraq, ferma restando la sua
contrarietà agli «atti di terrorismo di matrice fondamentalista», si dice convinto del «diritto alla
legittima resistenza dei popoli aggrediti» contro i contingenti militari, anche quello italiano; inoltre,
accennando alla strage di Nassiriya in cui morirono 19 italiani (molti dei quali carabinieri),
denuncia un collegamento tra l’invio di militari nella città irachena e gli interessi dell’ENI nello
sfruttamento di pozzi di petrolio nell’area. Fausto Bertinotti e il responsabile dell’Area
Organizzazione del partito, Francesco Ferrara, escludono Marco Ferrando dalle liste di
Rifondazione: le sue idee sono incompatibili con le tesi non violente della maggioranza. Lo
rimpiazzano appunto con Lidia Menapace.
Afghanistan. 15 giugno. La più imponente offensiva militare di USA e “alleati” dopo il 2001 ha
inizio ufficiale oggi. Operation Mountain Thrust (Assalto alla Montagna) vuole «bonificare» le
roccaforti taliban prima del passaggio alla NATO. Il generale Benjamin Freakley, comandante delle
forze USA in Afghanistan, ha detto che coinvolgerà oltre 11mila soldati della coalizione guidata
dagli USA, di cui 2.300 statunitensi, 3.300 britannici, 2.200 canadesi e 3.500 afghani; mobiliterà
artiglieria pesante, mezzi corrazzati e supporto aereo e si concentrerà nei distretti montagnosi delle
province meridionali e orientali di Kandahar, Helmand, Uruzgan e Zabul. Sono le roccaforti dei
combattenti taliban, e sono le zone che il prossimo luglio passeranno dal controllo delle truppe USA
alla NATO-ISAF (la Forza multinazionale di «stabilizzazione dell’Afghanistan»). Nel corso
dell’estate circa 6mila soldati della NATO dunque giungeranno in Afghanistan, e il ridispiegamento
nella parte meridionale del paese permetterà alle truppe USA di ridimensionarsi da 23mila a 20mila
uomini. L’obiettivo strategico dell’operazione lanciata oggi è appunto «bonificare» la zona prima
del passaggio. I comandi USA dicono che l’offensiva permetterà di «estendere l’autorità del
governo centrale di Kabul», il che significa quantomeno ammettere che il presidente Hamid Karzai
non controlla il paese.
Afghanistan. 15 giugno. Ma i ribelli sono sempre più forti. Uccisi ieri due marines. I
combattimenti più pesanti sono previsti nelle montagne tra l’Uruzgan occidentale e il Helmand
nord-orientale, dove lo scorso fine settimana le truppe britanniche hanno avuto i loro primi caduti in
combattimento da quando si sono dispiegate nella zona. Il fatto è che in maggio anche i taliban
hanno lanciato la propria offensiva, «preventiva» al dispiegamento della NATO. Ma se le offensive
di primavera-estate sono ricorrenti in Afghanistan, sembra che ogni anno le forze dei taliban si
presentino più forti. Il comandante Taleban Mullah Dadullah afferma di avere una forza di 12mila
uomini armati (erano poche migliaia l’anno scorso) e di controllare una ventina di distretti delle
province di Kandahar, Helmand, Zabul e Uruzgan. È appunto là che le truppe USA e “alleate”
concentreranno la loro offensiva.
Afghanistan. 15 giugno. «Sono in corso violenti scontri a fuoco nel sud dell’Afghanistan»: con
queste parole il portavoce delle milizie islamiche talebane, Muhammad Hanif, ha confermato alla tv
satellitare Al Jazeera l’offensiva della coalizione a guida statunitense. «Stiamo combattendo nella
zona di Qala Moussa, nella provincia di Helmand», ha affermato Hanif, «e nella stessa zona
abbiamo distrutto diversi veicoli militari americani». Un portavoce statunitense, il tenente
colonnello Paul Fitzpatrick, ha spiegato che l’attacco prende di mira soprattutto i vertici dei taliban.
Ora si è aperta la «fase successiva», ha spiegato Fitzpatrick: «Stiamo spostandoci nelle province
settentrionali dell’Afghanistan meridionale».
Afghanistan. 15 giugno. Cinque anni dopo la guerra che ha scalzato il governo Taleban e doveva
sbaragliare al Qaeda, l’Afghanistan è ancora in guerra, con una forza Taleban riorganizzata e in
crescita. L’uomo di fiducia degli Stati Uniti, con il loro avallo, ha tollerato che i «signori della
guerra» responsabili della guerra civile dei primi anni ’90 mantenessero le proprie ariee di
influenza (e milizie) in veste di governatori. Nel frattempo la ricostruzione non è decollata. Molte le
promesse, molto poco si è mantenuto e quando si cerca di capire cosa, saltano fuori iniziative
d’immagine. Non una sola centrale elettrica è stata costruita, non c’è stato alcun investimento
nell’infrastruttura rurale. La principale attività economica del paese è tornata a essere la produzione
di oppio e derivati (eroina), i narcotrafficanti offrono agli agricoltori redditi ben più alti delle
agenzie internazionali che si affannano a «eradicare» le coltivazioni di papavero. E l’oppio
arricchisce i “signori della guerra” ed alimenta corruzione nel governo.
Iraq. 15 giugno. Gigantesca operazione militare contro la Resistenza. È cominciata ieri a Baghdad
un’offensiva del governo iracheno coadiuvato dalle truppe d’occupazione. Secondo le cifre ufficiali
sono impegnati 50mila effettivi locali e 7.200 occupanti stranieri. Il piano include l’imposizione del
coprifuoco nella capitale e nelle sue vicinanze dalle 21.00 alle 06.00. Si tratta del più consistente
dispositivo militare nella capitale dalla caduta della città nelle mani degli invasori nell’aprile 2003.
Cina. 15 giugno. Vertice di Shanghai. Oggi Cina, Russia e quattro Repubbliche ex sovietiche
dell’Asia centrale hanno sottoscritto una dozzina di accordi di cooperazione economica, politica e
militare che permetteranno ai sei dell’OCS –l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai– di
lavorare insieme su diversi terreni in modo più pragmatico ed efficace, manovre militari comprese,
previste per il 2007 in territorio russo. Presente il presidente iraniano Mahmud Amadinejad, invitato
come osservatore assieme ai leader di Mongolia, India e Pakistan. A Washington c’è chi non
nasconde il timore che l’OCS diventi un’alleanza strategico-militare anti-USA.
USA. 15 giugno. Altri 66 miliardi di dollari per Iraq e Afghanistan. Li ha stanziati il Senato degli
Stati Uniti che ha votato oggi un bilancio suppletivo da 94 miliardi di dollari e mezzo, di cui 66
miliardi, appunto, per sostenere le occupazioni di Iraq e Afghanistan. Il voto del Senato, che segue
quello della Camera martedì, è definitivo. Il provvedimento attende ora solo la firma del presidente
George W. Bush. Con i nuovi stanziamenti salgono a 410 miliardi di dollari le somme
complessivamente stanziate ad hoc dal Congresso degli Stati Uniti per la «guerra al terrorismo»
(320 miliardi per l’Iraq e 89 miliardi per l’Afghanistan, secondo i dati del centro studi
parlamentare).
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notizie dal mondo 1-15 giugno 2006