a cura di Alessandro Schiavetti Catalogo realizzato in occasione della mostra KIMONO E SAMURAI Il gesto. L’eleganza. Lo spirito. Dal 13 luglio al 15 settembre 2013 Sala esposizioni, Fondazione Geiger Piazza Guerrazzi 32, Cecina (LI) Mostra e catalogo a cura di Alessandro Schiavetti Testi in catalogo di: Paolo Cammelli Federico Gavazzi Giancarlo Mariani Giuseppe Piva Alessandra Scalvini Alessandro Schiavetti Graphic Design e impaginazione: Fabrizio Pezzini Fotografie: Valentina Phaedra Ragozzino Illustrazioni Sumi-e: Kazuko Kataoka Servizi di traduzione: Daria Cavallini Prestatori Collezione Paolo Cammelli (Pistoia) Collezione Giancarlo Mariani (Firenze) Gloria Gobbi – Antichi Kimono (Roma) Giuseppe Piva – Arte Giapponese (Milano) Via di Monserrato 43b/44 - Roma Via d’Alarcon 20 - Porto Azzurro - Isola d’Elba Bandecchi & Vivaldi – Editore ISBN Via San Damiano 2 - Milano INDICE PresentazionePag. 4 Arte e cultura in Giappone - Cronologia Pag. 6 SamuraiPag. 10 Storia dell’armatura giapponesePag. 11 Approfondimento: Miyamoto MusashiPag. 21 Approfondimento: Le donne samuraiPag. 26 Approfondimento: L’ultimo samuraiPag. 27 Glossario armaturePag. 28 Nihontō – SpadePag. 30 Approfondimento: la storia dei 47 rōnin pag. 34 Approfondimento: Seppukupag. 38 Per una migliore conoscenza delle nihontōPag. 39 KimonoPag. 42 Il Kimono: storia di un’icona culturalePag. 43 Glossario kimonoPag. 62 Ukiyo-e XilografiePag. 66 Ukiyo-e: immagini del mondo fluttuantePag. 67 PRESENTAZIONE di Alessandro Schiavetti KIMONO E SAMURAI Samurai. Bushidō. Spiritualità. Poi ancora eleganza, gesto, kimono. Nei due mondi che contraddistinguono l’universo maschile e femminile giapponese nell’immaginario occidentale, è la magnificenza di un universo dedito al gesto e all’attenzione per la cerimonialità che li unisce e diventa di loro il vero trait d’union. Del Giappone ci ha parlato per la prima volta Marco Polo durante il suo viaggio in Estremo Oriente alla fine del XIII secolo; nel Milione, l’isola di Zipangu è descritta dal viaggiatore come indipendente, popolata da genti “di bella maniera” e di bell’aspetto, ma soprattutto è descritta come isola molto ricca. Nel momento in cui Polo parla del Giappone sottolineando che “no si potrebbe contare la ricchezza di questa isola” voglio pensare romanticamente che non si sia limitato alla sola descrizione dell’oro presente ovunque nei palazzi da lui stesso visitati, ma che sia rimasto colpito da quello che la tradizione storico-letteraria e quella cinematografica hanno portato del Giappone alla moderna visione occidentale, ovvero un connubio armonico di perfezione e spirito, annoverabili a questo punto sotto l’unico termine, profondamente interiore, di ricchezza. Se osserviamo le stampe di due grandi artisti giapponesi come Hokusai (1760-1849) e Hiroshige (1797-1858) ci rendiamo conto con estrema facilità di quanto questa società ruoti attorno a sistemi di vita tutti incentrati sul “gesto”, attraverso scene quotidiane popolate da numerose persone dedite alle mansioni più disparate; grazie a questo possiamo capire quanto la società giapponese sia raffinata e complessa nello stesso momento. Dalle stampe, dalla storiografia e dall’antiquariato impariamo molto su uno spaccato di vita meticoloso come un mosaico di emozioni tutte incastrate magicamente tra loro; uno stile di vita imperniato sul particolare e sul cerimoniale che ci riconduce a colori tenui e fiochi che trasportano brio e profumi prettamente primaverili, che col vento sottile smuovono i drappeggi delle vesti e solleticano le fronde dell’acero palmato, nel mentre l’arte degli intrecci e l’eleganza dei tessuti diventano moda di un millennio, palesandosi nella sbalorditiva e suprema bellezza dei kimono. Questi aspetti di vita si ritrovano anche all’interno del Bushidō; qui si abbracciano rispetto, onore, dedizione. Il samurai era dedito alla propria famiglia, al proprio paese e al proprio imperatore; credeva fermamente nel rapporto signore-suddito e la propria dedizione la firmava col sangue nel keppan, giuramento che poi veniva bruciato e sciolto nel saké per esser successivamente bevuto. Il samurai nel suo essere storia e leggenda era solenne, di poche parole, pronto a tutto ed estremamente fedele al proprio credo che ruotava attorno ai punti cardine che volendo possiamo ricondurre ad alcuni precetti del Buddhismo, dello Shintoismo e del Neo-Confucianesimo. Il samurai non tollerava la resa, avendo una concezione quasi religiosa della battaglia; nonostante le fonti storiche abbiano cercato di abbagliare questa leggendaria figura di fiori di ciliegio e di cerimonie del tè, trasformando le loro armature in “armature romantiche”, essi erano di fatto molto inclini alla vita militare e a rigidi allenamenti. Nel kimono altresì, la bellezza senza tempo delle stoffe e delle tecniche nella loro stessa realizzazione ci riporta ad una visione calma e illuminata alla luce aperta dei giardini zen, e alla perfezione della vestizione, mentre alle loro spalle un intero popolo affonda le radici nella rigida e severa esercitazione del gesto, via unica per il conseguimento di quello che nello zen, appunto, racchiude vita e morte sullo stesso piano, ovvero il raggiungimento di un atteggiamento positivo nei confronti di entrambe. La Fondazione Hermann Geiger propone all’interno della mostra “Kimono e Samurai” quello che lo zen ha amplificato nel corso della storia dell’arte, nella sua ricerca di profondità degli elementi e nella ricerca della libertà, conditio sine qua non il gesto stesso non avrebbe mai assunto il significato più importante del suo essere parte integrante dell’arte giapponese stessa e nel suo continuo divenire di eleganza e perizia delle tecniche; il tutto attraverso una ricca collezione di capolavori che fanno capo ad armature, kabuto, menpō, lame, paraventi, tsuba e netsuke, stampe, obi e kimono. 4 PRESENTATION by Alessandro Schiavetti KIMONO AND SAMURAI Samurai. Bushidō. Spirituality. And then elegance, gestures, kimono. In the two worlds that represent the Japanese male and female universes in the Western imagination, it is the magnificence of a universe devoted to gestures and attention for the ceremonial that links them. The first one to talk about Japan was Marco Polo during his travel to the Far East at the end of the 13th century. In his Book of the Marvels of the World, he described the Isle of Zipangu as an independent island and a very rich place whose inhabitants had fair complexions, were well made and “civilized in their manners”. When Marco Polo talked about Japan mentioning that “the quantity and richness of this island cannot be counted”, I like to think – romantically – that he did not confine himself to the mere description of the gold and riches he saw everywhere in the palaces he visited, but that he was also struck by the very same image of Japan that we, in the West, have received through the historical, literary and film tradition, that is a harmonious marriage of perfection and spirit, which we can call inner richness. If we observe the prints of two great Japanese artists like Hokusai (1760-1849) and Hiroshige (1797-1858), we can easily realize how this society revolves around systems of life all focussed on the “gesture”, through everyday scenes where a number of people are devoted to performing the most varied duties. That is how we can appreciate the refinement and, at the same time, the complexity of this society. Japanese prints, history and antiques give us a thorough cross-section of life in this country, like a mosaic of emotions, all magically combined together; a lifestyle pivoting on the detail and the ceremonial, with its delicate, pale colours and the spring scents, with the slight wind that moves the drapes of the clothes and tickles the foliage of the Japanese maple, while the art of weaving and the elegance of fabrics mark out the fashion of a millennium through the astonishing, supreme beauty of kimonos. These same aspects can be found in the Bushidō ideal, which is based upon respect, honour and commitment. The samurai was devoted to his family, his country and his emperor. He firmly believed in the lord-subject relationship and sealed his devotion with blood in the oath of allegiance called keppan, which was then burnt and dissolved in saké to be drunk. The samurai, who epitomized history and legend at the same time, was a solemn man of few words. Ready to do anything, he was totally faithful to his creed which revolved around a few key principles deriving from Buddhism, Shintoism and Neo-Confucianism. The samurai could not tolerate surrender, as they had an almost religious view of the battle. Despite the attempts by historical sources to mix up these legendary figures with cherry blossoms and tea ceremonies, transforming their suits into “romantic armours”, they were in fact particularly prone to military life and intensive training. The timeless beauty of kimono fabrics and manufacturing techniques conveys the calmness and open light of Zen gardens, the perfection of clothing, the attitude of a people that is deeply rooted in the strict practice of gesture – the only way to adopt the positive Zen attitude whereby life and death are not separate, and one is impossible without the other. The exhibition “Kimonos and Samurai”, staged by the Hermann Geiger Foundation, provides an insight into these key concepts that the Zen philosophy has amplified in the history of art, through its search for the depth of the elements and freedom, without which the gesture would never have acquired its most important meaning, that is to say being an integral part of Japanese art in its continuous becoming, with its elegance and craftsmanship. All this is shown through a rich collection of armours, kabuto, menpō, bladed weapons, folding screens, tsuba and netsuke, prints, obi and kimono. 5 ARTE E CULTURA IN GIAPPONE - CRONOLOGIA 6 PERIODO JŌMON 3000 a.C. – IV secolo a.C. La cultura Jōmon è la più antica cultura ceramica al mondo, caratterizzata da decorazioni con motivi a corda. Il periodo è diviso in antica, media e tarda fase Jōmon. PERIODO YAYOI IV secolo a.C. III secolo d.C. Nelle isole del Giappone viene introdotta la metallurgia; utensili in ferro e oggetti artistici in bronzo (come le campane dōtaku). PERIODO DEI TUMULI (KOFUN) III-VI secolo d.C. Viene introdotta dalla Cina la pratica di erigere tumuli funerari (Tomba dell’imperatore Nintoku a Ōsaka, 313-399 d.C.). Prime raffigurazioni pittoriche nelle tombe. Sempre legati all’arte funeraria sono gli haniwa, cilindri in argilla con immagini umane (ma anche animali o abitazioni). Viene eretto per la prima volta il santuario interno del Tempio shintō di Ise (VI secolo), a sud est di Kyōto, che da allora viene regolarmente ricostruito ogni vent’anni. PERIODO ASUKA 538-710 d.C. Nel 538 d.C., attraverso la Corea, arriva il Buddhismo. Dopo cinquant’anni di conflitti, con la vittoria di Soga no Umako (587 d.C.) il Buddhismo è adottato come religione ufficiale. Nel distretto di Asuka sono eretti i templi Hōkōji (588 d.C.) e Hōryūji (607 d.C., ricostruito dopo il 670 d.C.). Nella “sala d’oro” dell’Hōryūji, lo scultore Tori realizza la Triade del Buddha Shaka (“Buddha storico”). Influenza degli stili cinesi Wei e, successivamente, Tang. PERIODO NARA 710-784 d.C. Viene fondata la nuova capitale, Nara, che diventa il centro del Buddhismo, nuova religione di stato. Molti templi, tra i quali lo Yakushiji, vengono spostati dal distretto di Asuka a Nara. Costruzione del Tōdaiji, per volere dell’imperatore Shōmu, e diffusione in tutto il Giappone del culto del Buddha Shaka e del Buddha Rushana (“Buddha della luce suprema”). Colossale Statua del Buddha Rushana (752 d.C.), nello stile Tang. Viene eretto il Tōshōdaiji (759 d.C.) in onore del monaco cinese Ganjin. Il sutra illustrato Kako genzai ingakyō (metà VIII secolo) è la più antica pittura su rotolo conservatasi. PRIMO PERIODO HEIAN 794-894 d.C. Viene fondata Heian-kyō, l’attuale Kyōto. I monaci riformatori Saichō e Kūkai introducono, sempre dalla Cina, il Buddhismo esoterico (mikkyō). Kūkai fonda il Kongōbuji (816 d.C.) che sarà il modello per molti altri templi mikkyō. Avvicinamento tra Buddhismo e Shintoismo, nei luoghi e nelle forme dei templi. TARDO PERIODO HEIAN (FUJIWARA) 894-1185 d.C. Fine delle relazioni ufficiali con la Cina (894 d.C.): nasce nei Giapponesi la consapevolezza del valore e dell’originalità del proprio patrimonio culturale. Si sviluppa una letteratura nazionale: il primo romanzo, il Taketori monogatari (fine IX – inizio X secolo), la prima raccolta di poesie in waka (strofa tradizionale di 31 sillabe) nel 905 d.C., il Genji monogatari, scritto da Murasaki Shikibu nel 1005 d.C. Si sviluppa la pittura Yamato-e, pittura profana con soggetti e storie rigorosamente nazionali. Cresce il peso politico della famiglia Fujiwara, a scapito di quello dell’imperatore. Nella corte si afferma il culto del Buddha Amida (“Buddha della luce e del paradiso occidentale”), al quale è consacrato l’Hōjōji (1022 d.C.): il tempio, eretto per volontà di Michinaga Fujiwara, è simbolo del potere dei Fujiwara. Costruzione dell’Hōōdō (“Sala della fenice”), nella residenza estiva di Michinaga: qui è collocata la colossale statua del Buddha Amida (1053 d.C.) dello scultore Jōchō, che sarà un modello per oltre un secolo di arte religiosa. Diffusione in moltissime copie decorate del Sutra del loto: Kiyomori Heike dona i trentatré rotoli del sutra Heike nōkyō (1164 d.C.) al santuario di Itsukushima. Parallelamente, nel XII secolo nasce una pittura profana di altissima qualità, con produzione di paraventi (byōbu) e rotoli dipinti (emaki), ispirati a romanzi e storie della tradizione letteraria giapponese. La decorazione delle opere in lacca urushi vede giungere a perfezione la tecnica del maki-e. Il periodo Heian si conclude col declino dei Fujiwara e la lotta tra i clan militari Taira (Heike) e Minamoto (Genji). PERIODO KAMAKURA 1185-1333 d.C. Con la vittoria di Minamoto no Yoritomo (1185 d.C.) viene instaurato il governo (bakufu) degli shōgun: il Giappone è retto con un sistema feudale. Il centro del potere è a Kamakura, presso l’odierna Tōkyō. Ricostruzione dei templi buddhisti di Nara, Tōdaiji e Kōfukuji, distrutti dai Taira. Qui operano gli scultori Unkei e Kaikei, dal potente stile espressivo e realistico. Dalla Cina, con la quale sul finire del XII secolo vengono ripresi i rapporti, arriva il Buddhismo zen: Kamakura diventa il centro della cultura zen e qui sono eretti i templi di Kenchoji (1253 d.C.) e Engakuji (1282 d.C.). Lo zen determina la perdita d’importanza delle icone e quindi della scultura. Si afferma invece la pittura monocroma a inchiostro (suiboku-ga). Per soddisfare le esigenze dei committenti aristocratici prosegue la realizzazione di numerosi emaki, come l’Heiji monogatari emaki (tardo XIII secolo). di Federico Gavazzi PERIODO MUROMACHI (ASHIKAGA) 1336-1573 d.C. Il Giappone è governato dagli shōgun della famiglia Ashikaga. Ashikaga Yoshimitsu fa erigere il monastero zen di Shōkokuji (1382 d.C.) e, a Kyōto, il Kinkaku (1398 d.C.) o “Padiglione d’oro”, in uno stile che fonde elementi zen con elementi architettonici della tradizione giapponese. Ashikaga Yoshimasa fa realizzare il Ginkaku (1489), o “padiglione d’argento”, e il Tōgudō nel parco della villa di Higashiyama. Agli inizi del XVI secolo sono realizzati i karesansui teien (“giardini asciutti”) di Ryōnanji e Daisen-in nel tempio zen di Daitokuji a Kyōto. La cerimonia del tè (cha no yu) diventa un’arte raffinata. Sviluppo della pittura monocroma a inchiostro grazie ai monaci zen, tra i quali il maestro Shūbun, e a Sesshū, e nascita della scuola Kanō, fondata da Kanō Masanobu. PERIODO AZUCHI-MOMOYAMA 1573-1615 d.C. Tramonta il potere degli Ashikaga e nel 1573 d.C. Oda Nobunaga ottiene il controllo del governo. Dopo la sua morte, un periodo di lotte tra i Toyotomi e i Tokugawa si conclude con la definitiva vittoria di Tokugawa Ieyasu (1615 d.C.). I vari capi militari erigono numerosi castelli (es. Azuchi, Himeji, Ōsaka), molti dei quali presto distrutti. Per questo breve periodo il Giappone è aperto all’influenza occidentale e cristiana (è raggiunto dai Portoghesi nel 1543 d.C.). Emerge una ricca classe mercantile. Si afferma in generale un ricco stile decorativo, caratterizzato da opulenza e dal grande impiego dell’oro nell’architettura, nelle arti figurative, nei tessuti. Parallelamente prosegue la tradizione della pittura a inchiostro. Fiorisce la scuola Kanō con Kanō Eitoku (autore delle decorazioni interne del castello di Azuchi) e Kanō Sanraku; si affermano gli artisti Hasegawa Tōhaku, Kaihō Yūshō, Unkoku Tōgan, Tosa Mitsunori. Grande sviluppo dell’industria tessile. Epoca d’oro della ceramica: Raku, Bizen, Seto, Shino, Oribe. PERIODO EDO (TOKUGAWA) 1615-1867 d.C. Con la vittoria di Ieyasu si apre il periodo Edo (antico nome di Tōkyō, dove lo shōgun stabilì il suo bakufu). Periodo di grande crescita economica e formazione di una ricca classe mercantile. Gli scambi commerciali con Spagnoli e Portoghesi sono proibiti, mentre è consentito ai soli Cinesi e Olandesi di operare nel porto di Nagasaki. Ieyasu fa costruire il Castello di Nijō (1603 d.C.) a Kyōto e il Mausoleo Tōshōgu di Nikkō a Edo: eccesso di decorazione e opulenza. A Kyōto la famiglia imperiale fa costruire le ville di Katsura (dal 1620 d.C.) e di Shugaku-in (1655 d.C.): semplicità e armonia. In pittura abbiamo gli ultimi grandi maestri della scuola Kanō: Kanō Tan-yū e Sansetsu. Honami Kōetsu e Sōtatsu sono i padri della scuola Rimpa, caratterizzata dal recupero della tradizione e dall’eleganza; Ogata Korin e Ogata Kenzan ne furono i continuatori. La scuola Nanga si afferma invece tra i letterati, prima a Kyōto poi a Edo, e si basa sullo studio della cultura cinese: Gion Nankai, Yanagisawa Kien, Ike Taiga, Yosa Buson. La scuola Maruyama-Shijo (fondata da Maruyama Ōkyo) si apre invece ai principi del realismo e della prospettiva occidentali. Originale e unica l’esperienza dei “tre eccentrici”, Nagasawa Rosetsu, Soga Shōhaku e Itō Jakuchū, identificati da uno stile espressivo e grottesco. La pittura di genere si evolve nell’ukiyo-e che si esprime al massimo nella forma popolare delle xilografie: i maestri sono Torii Kiyonobu, Torii Kiyomasu, Okumura Masanobu, Suzuki Harunobu, Torii Kiyonaga, Tōshūsai Sharaku, Kitagawa Utamaro, Katsushika Hokusai e Utagawa Hiroshige. PERIODO MEIJI - TAISHŌ 1868-1926 d.C. Nel 1867 Tokugawa Yoshinobu è costretto a rimettere il potere politico nelle mani dell’imperatore. Il Giappone si apre al mondo e si assiste alla sua rapidissima modernizzazione secondo il modello occidentale: istituzione del sistema parlamentare (1885 d.C.) e promulgazione della Costituzione (1889 d.C.). La politica estera è segnata dalle guerre vittoriose contro Cina (1894-95 d.C.) e Russia (1904-05 d.C.) e dall’annessione della Corea (1910 d.C.). Il Giappone diventa la potenza egemone in Estremo Oriente. Prima Guerra Mondiale. Arte, architettura e arti applicate subiscono l’influenza occidentale. In architettura assistiamo all’introduzione di nuove tecniche e nuovi materiali (ferro, vetro, cemento armato). Nelle arti figurative, attorno ai primi maestri europei e alle nuove accademie d’arte, nascono tendenze occidentalizzanti (pittura Yōga); come reazione alcuni gruppi artistici mantengono stili e tecniche tradizionali (pittura Nihonga). La scultura tradizionale e quella occidentalizzata convivono, con una costante deriva degli artisti verso le tecniche europee. PERIODO SHŌWA 1926-1989 d.C. In architettura si preferiscono sempre più le tecniche occidentali e, dopo la distruzione causata dalla Seconda Guerra Mondiale, la ricostruzione vede l’impiego delle più avveniristiche soluzioni formali e funzionali (anche in chiave antisismica). Le arti figurative vedono ancora la compresenza di una corrente filoccidentale e di una tradizionalista, ma la prima finisce per prevalere, dando all’arte giapponese un volto sempre più internazionale. 7 ART AND CULTURE IN JAPAN - CHRONOLOGY JŌMON PERIOD 3000 BC 4th century BC The Jōmon culture produced the oldest pottery in the world. Clay items were decorated with rope patterns. The period is divided into Earliest, Middle and Late Jōmon. YAYOI PERIOD 4th century BC 3rd century AD Techniques in metallurgy were introduced in the Japanese islands based on the use of iron for tool manufacturing and bronze for art objects, such as dōtaku bells. PERIOD OF BURIAL MOUNDS (KOFUN) 3rd-6th century AD The practice of building large tombs was introduced from China (Tomb of Emperor Nintoku, Ōsaka, 313-399 AD). Early pictures in the tombs. Funeral art also produced the haniwa, terracotta clay figures which were made in numerous forms, including humans, but also animals and houses. The inner shrine of the Shintō Grand Shrine of Ise (6th century) was built for the first time, south-east of Kyōto. Since then, the shrine has been rebuilt every 20 years. ASUKA PERIOD 538-710 AD In 538 AD, Buddhism arrived in Japan through Korea. After fifty years of conflicts, Buddhism was adopted as the official religion with the victory of Soga no Umako (587 AD). The Hōkōji (588 AD) and Hōryūji (607 AD, rebuilt after 670 AD) temples were erected in the Asuka district. In the “golden hall” of the Hōryūji temple, the sculptor Tori cast the Shaka Triad (“Historical Buddha”). Influence of the Chinese styles Wei and, later, Tang. NARA PERIOD 710-784 AD The new capital Nara was established, which became the centre of Buddhism, the new state religion. Many temples, including Yakushiji, were moved from the Asuka district to Nara. The Tōdaiji was built according to the will of Emperor Shōmu. The cult of Shaka Buddha and Rushana Buddha (“Buddha coming from the sunlight”) spread across Japan. The huge Statue of Rushana Buddha (752 AD) was completed in Tang style. The Tōshōdaiji (759 AD) was built to honour the Chinese monk Ganjin. The illustrated sutra Kako genzai ingakyō (mid-8th century) is the most ancient scroll yet found. EARLY HEIAN PERIOD 794-894 AD The capital of Japan was moved to Heian-kyō, present-day Kyōto. Reformer monks Saichō and Kūkai introduced Esoteric Buddhism (mikkyō) from China. Kūkai founded the Kongōbuji (816 AD) which would then become the model for many other mikkyō temples. Buddhism and Shintoism moved closer, in the places and shapes of temples. LATE HEIAN PERIOD (FUJIWARA) 894-1185 AD The official relations with China were put to an end (894 AD). The Japanese became aware of the value and originality of their cultural heritage, including an incipient national literature: the first novel, Taketori monogatari (late 9th – early 10th century), the first collection of waka poetry (a traditional stanza consisting of 31 syllables) in 905 AD, the Genji monogatari, written by Murasaki Shikibu in 1005 AD. The Yamato-e painting style developed during this period. It was a profane kind of style, with subjects and stories of national inspiration. The political weight of the Fujiwara family increased, to the detriment of the Emperor. The cult of Amida Buddha developed (“Buddha of light and of the western paradise”) to whom the Hōjōji (1022 AD) is dedicated, i.e. the temple built according to the will of Michinaga Fujiwara, symbol of the Fujiwaras’ power. Building of the Hōōdō (“Phoenix Hall”), in the Michinaga summer residence. Here is the huge statue of Amida Buddha (1053 AD) by sculptor Jōchō, which will be a model for over a century of religious art. Many decorated copies of the Lotus sutra were circulated: Kiyomori Heike presented the sanctuary of Itsukushima with the thirty-three scrolls of the Heike nōkyō sutra (1164 AD). At the same time, during the 12th century, high-quality profane painting developed with the manufacture of folding screens (byōbu) and painted scrolls (emaki), inspired by novels and stories belonging to the Japanese literary tradition. Urushi lacquer picture decorations brought the maki-e technique to perfection. The Heian period ended with the decline of the Fujiwara family and the struggle between the Taira (Heike) and Minamoto (Genji) military clans. KAMAKURA PERIOD 1185-1333 AD Following the victory of Minamoto no Yoritomo (1185 AD), the shōgun government (bakufu) was established: Japan was ruled with a feudal system. The centre of power was Kamakura, present-day Tōkyō. The Buddhist temples of Nara, Tōdaiji and Kōfukuji, which had been destructed by Taira, were rebuilt. Sculptors Unkei and Kaikei, with their powerful expressive and realistic styles, worked here. Toward the end of the 12th century, relations with China were resumed and Zen Buddhism was introduced to Japan: Kamakura became the centre of Zen culture with the erection of the temples of Kenchoji (1253 AD) and Engakuji (1282 AD). With Zen, icons and sculpture lost importance to the benefit of monochrome ink painting (suiboku-ga). In order to meet the requirements of aristocratic clients, emaki continued to be made such as the Heiji monogatari emaki (late 13th century). 8 by Federico Gavazzi MUROMACHI PERIOD (ASHIKAGA) 1336-1573 AD Japan was governed by the shōguns of the Ashikaga family. Ashikaga Yoshimitsu erected the Zen monastery of Shōkokuji (1382 AD) and, in Kyōto, the Kinkaku (1398 AD) or “Golden Pavilion”, in a style that mixed Zen features with architectural elements of the Japanese tradition. Ashikaga Yoshimasa erected the Ginkaku (1489 AD), or “Silver Pavilion”, and the Tōgudō in the park of the Higashiyama residence. At the beginning of the 16th century, the karesansui teien (“dry landscape”) of Ryōnanji and Daisenin were created in the Zen temple of Daitokuji in Kyōto. The tea ceremony (cha no yu) became a refined form of art. Monochrome ink painting developed further thanks to Zen monks, including master Shūbun, and to Sesshū; the Kanō school, founded by Kanō Masanobu, began its growth. AZUCHI MOMOYAMA PERIOD 1573-1615 AD The Ashikaga lost their power and, in 1573 AD, Oda Nobunaga gained control of the government. After his death, a period of conflicts between the Toyotomi and Tokugawa ended with the final victory of Tokugawa Ieyasu (1615 AD). The military leaders erected numerous castles (e.g. Azuchi, Himeji, Ōsaka), many of which were soon destroyed. During this brief period, Japan was open to Western and Christian influence (the Portuguese arrived in Japan in 1543 AD). An affluent merchant class developed. A rich, decorative style caught on, which was characterized by opulence and a wide use of gold in architecture, figurative arts and fabrics. The tradition of ink painting continued its development. The Kanō school flourished, with Kanō Eitoku (the author of the decorations inside the Azuchi castle) and Kanō Sanraku; artists Hasegawa Tōhaku, Kaihō Yūshō, Unkoku Tōgan, Tosa Mitsunori became popular. The textile industry developed significantly. This was the golden age of baked clay: Raku, Bizen, Seto, Shino, Oribe. PERIODO EDO (TOKUGAWA) 1615-1867 AD The Edo period began with the victory of Ieyasu. Edo was the ancient name of Tōkyō, where the shōgun established his bakufu. The period was characterized by significant economic growth and the development of a rich merchant class. Trade with the Spanish and the Portuguese was not allowed, and only the Chinese and the Dutch could operate in the harbour of Nagasaki. Ieyasu had the Nijō Castle (1603 AD) in Kyōto and the Nikkō Tōshōgu shrine in Edo built with an excess of decoration and opulence. The imperial family erected the Katsura (from 1620 AD) and Shugaku-in (1655 AD) residences with simplicity and harmony. In painting, this was the period of the last great masters of the Kanō school: Kanō Tan-yū and Sansetsu. Hon-ami Kōetsu and Sōtatsu were the fathers of the Rimpa painting school, which was characterized by the comeback of tradition and elegance; Ogata Korin and Ogata Kenzan were its followers. The Nanga school established itself among men of letters, initially in Kyōto and then in Edo, and was based upon the study of Chinese culture: Gion Nankai, Yanagisawa Kien, Ike Taiga, Yosa Buson. The Maruyama-Shijo school (founded by Maruyama Ōkyo) opened out to the principles of Western realism and perspective. It is worth mentioning the original, unique experience of the “Three Eccentrics”, Nagasawa Rosetsu, Soga Shōhaku and Itō Jakuchū, who were characterized by an expressive, grotesque style. Genre painting evolved into ukiyo-e, which found its utmost expression in the popular form of wood-block printing: its masters were Torii Kiyonobu, Torii Kiyomasu, Okumura Masanobu, Suzuki Harunobu, Torii Kiyonaga, Tōshūsai Sharaku, Kitagawa Utamaro, Katsushika Hokusai and Utagawa Hiroshige. MEIJI - TAISHŌ PERIOD 1868-1926 AD In 1867 Tokugawa Yoshinobu was forced to return governing power to the Emperor. Japan began a programme of modernization based on the Western model: a parliamentary system was created (1885 AD) and the Constitution was promulgated (1889 AD). As far as foreign politics is concerned, Japan beat both China (1894-95 AD) and Russia (1904-05 AD) in war and annexed Korea (1910 AD). Japan became the hegemonic power in the Far East. World War I broke out. Art, architecture and applied arts were influenced by Western canons. New techniques and materials were introduced in architecture (iron, glass, concrete). In figurative arts, the Yōga style of painting developed around the first European masters and the new art academies together with westernizing tendencies. As a reaction to this, a few artistic groups kept sticking to traditional styles and techniques (Nihonga painting). Traditional and westernized sculpture coexisted, with artists steadily drifting towards European techniques. SHŌWA PERIOD 1926-1989 AD In architecture, Western techniques are ever more widespread. After the destruction of World War II, the country was reconstructed according to ultramodern trends and standards, both formally and functionally, including earthquake-proof building design. Figurative arts are still characterized by the coexistence of pro-Western and traditionalist currents, but the former have come to prevail, which has given Japanese art an ever more international focus. 9 STORIA DELL’ARMATURA GIAPPONESE di Giuseppe Piva Sebbene ufficialmente un impero, il Giappone è stato controllato per circa sette secoli da una casta militare che ha lasciato all’imperatore una sovranità solo apparente e un ruolo più religioso che politico. I bushi (o samurai, come oggi li chiamiamo usualmente) sono stati di fatto gli amministratori dell’impero con una organizzazione militare di stampo feudale governata dallo shōgun. Per questo motivo armi ed armature sono sempre state considerate importanti simboli di potere e di condizione sociale. L’armatura giapponese nasce tra il X e l’XI secolo come evoluzione dei modelli antichi composti solo da grandi piastre metalliche; tra il XII e il XV secolo essa completa la sua trasformazione diventando quella che oggi tutti conosciamo. All’inizio di questo periodo i samurai combattevano a cavallo utilizzando l’arco come arma principale e l’armatura di questo periodo era concepita per affrontare scontri tra cavallerie poco numerose; riservata ai guerrieri di alto lignaggio, viene chiamata ō-yoroi, letteralmente “grande armatura”. L’elmo (kabuto) è costruito con piastre rivettate per formare una calotta semisferica e prevede una protezione per il collo (shikoro) la cui piastra superiore prosegue in avanti ripiegandosi a protezione del volto (fukigaeshi). La corazza è realizzata con piccole piastre di ferro allacciate tra loro, così da essere al contempo resistente e flessibile, seppur non certo leggera. Un elemento aggiuntivo (waidate) viene applicato sotto il braccio sinistro per coprire l’apertura attraverso la quale la corazza viene indossata. Sui lati ci sono poi due grandi spallacci di forma quadrata (sode), mentre il grembo è protetto da quattro larghi elementi (kusazuri); il tutto realizzato con la stessa tecnica costruttiva a piccole piastre legate (hon-kozane). La ō-yoroi, ottimo equipaggiamento per i cavalieri, era tuttavia troppo pesante e scomoda per un combattimento corpo a corpo. Essa dunque rimase in uso solo finché i giapponesi non dovettero per la prima volta far fronte ad un attacco esterno. Nel 1274 - e successivamente nel 1281 - i Mongoli tentarono infatti l’invasione del Giappone, vestiti con comode armature in resistentissimo cuoio bollito; i loro eserciti erano organizzati per falangi e la cavalleria aveva un ruolo secondario. Così i Giapponesi si trovarono a fronteggiare un tipo di combattimento al quale non erano abituati. Fu solo grazie all’arrivo di violentissime tempeste (i kamikaze, “venti divini”) che i Mongoli dovettero ritirarsi: la strategia militare giapponese si era dimostrata inefficace e fu necessario rivedere completamente ogni aspetto della tattica e dell’equipaggiamento delle forze armate. Tenendo quindi la ō-yoroi come modello, vennero introdotte delle variazioni e progettate armature per la fanteria (dōmaru e haramaki) con un kusazuri diviso in più parti e senza waidate. Queste nuove armature, più confortevoli da indossare, diventarono di uso comune anche tra l’aristocrazia militare e, a metà del periodo Muromachi (1333-1568), la ō-yoroi cadde in disuso. Queste nuove armature da fanteria ricalcavano ancora il modello tradizionale e non se ne discostavano se non per qualche adattamento, per essere utilizzate da soldati a piedi armati di picche e spade al posto dell’arco; la vera spinta innovativa doveva ancora arrivare. È il 1543 quando la prima nave portoghese arriva in Giappone, al largo dell’isola di Tanegashima, portando la grande innovazione che già in Europa aveva rivoluzionato gli eserciti e i loro equipaggiamenti: l’archibugio, un’arma destinata a stravolgere ogni regola del combattimento tradizionale ed estremamente potente, poiché chiunque poteva in poco tempo imparare ad utilizzarla in maniera efficiente. Il Giappone è in questo momento al culmine di uno stato di tensione tra i vari clan guerrieri e questa nuova arma giunge proprio nel periodo più idoneo perché venga immediatamente recepita. Verso la fine del XV secolo il potere dello shōgun come autorità centrale si era difatti notevolmente affievolito e il Giappone era in preda a una sostanziale anarchia durante la quale i singoli clan cercavano di espandere il proprio controllo sul territorio a scapito di quelli vicini. La guerra di Ōnin (1467-1477) aveva segnato l’inizio del sengoku jidai, “l’epoca degli stati combattenti” e, in questo contesto di guerra civile, gli archibugi diventarono l’arma risolutiva. Nel 1575 Oda Nobunaga utilizzò le nuove armi da fuoco nella battaglia di Nagashino, riuscendo a massacrare velocemente l’esercito di Takeda Katsuyori, il cui padre Shingen era stato ironicamente considerato un innovatore per aver introdotto le cariche a cavallo. È comprensibile come a questo nuovo tipo di combattimento debba obbligatoriamente conseguire una completa revisione dell’armatura. Nasce innanzitutto l’esigenza di produrre equipaggiamenti pratici, semplici da realizzare e riparare, le cui piastre fossero resistenti alle pallottole ma non troppo pesanti. Nasce quindi quella che viene chiamata “armatura moderna” (tosei gusoku), i cui cambiamenti ne coinvolgono ogni singolo elemento. L’elmo diventa più resistente e pesante per sopportare i colpi degli archibugi, mentre i fukigaeshi e i sode, perdendo la loro funzione difensiva, spariscono o diventano piccoli e puramente decorativi. La corazza (dō) è ora realizzata con piastre di grandi dimensioni legate in modo semplice o addirittura rivettate ed incernierate, mentre vengono alleggerite le protezioni al volto (mengu), alle braccia (kote) e alle gambe (haidate). I vantaggi di questa nuova armatura sono molti: è più resistente e più economica da costruire, più agevole in battaglia perché manca di protezioni di grandi dimensioni e più pratica, poiché in caso di pioggia i lacci non si appesantiscono dell’acqua assorbita. Alcune armature copiano poi i modelli europei (nanban) o addirittura ne incorporano alcuni elementi e nasce una vera e propria moda per questo “esotismo” militare. 11 La tosei gusoku, concepita per far fronte a una situazione di guerra civile in cui le armi da fuoco giocavano il ruolo principale, divenne l’unico tipo di equipaggiamento utilizzato e rimase in voga anche dopo che Tokugawa Ieyasu ottenne il controllo sull’intero arcipelago giapponese (1600-1615). Gli eserciti dovevano difatti controllare la situazione di tensione successiva alla “pace” che metà dei clan avevano dovuto subire passivamente in seguito alla sconfitta di Sekigahara; in un secondo tempo l’armatura ricoprì invece il ruolo di divisa da parata, da utilizzare per gli incontri e le occasioni ufficiali, la più importante delle quali fu senza dubbio il sankin kōtai, la residenza obbligata a Edo per i feudatari (daimyō): un intelligente espediente dello shogunato Tokugawa per impoverire e controllare gli altri clan. Periodicamente, difatti, tutti i daimyō avevano l’obbligo di recarsi a Edo, la nuova capitale, con costosi e sfarzosi cortei (daimyō gyoretsu) per rifornire lo shogunato di soldati e per lasciarvi i propri familiari in ostaggio. La necessità sociale di condurre una vita dispendiosa durante la permanenza a Edo, con una ricca residenza da mantenere, portò quindi allo svuotamento delle casse dei vari daimyō, a beneficio di una produzione di opere d’arte e suppellettili di notevole qualità, nonché di armature elegantissime, sontuose e stravaganti. L’armatura diventa ora un importante simbolo di status sociale in grado di comunicare la ricchezza e l’importanza del proprio clan; per questo motivo durante il periodo Edo (1615-1867) l’abilità dei fabbri si orienta maggiormente verso le caratteristiche estetiche piuttosto che verso quelle funzionali. Le decorazioni sono ora sempre più spinte e magnificenti, con fini applicazioni in oro, abili lavorazioni del ferro, lacche, sete colorate e quant’altro. Alcuni armaioli si specializzano nelle tecniche di lavorazione a sbalzo (uchidashi) producendo dō, menpō e kabuto di eccezionale qualità. È in questo periodo di ricerca estetica che tornano in auge le grandiose ō-yoroi e le dō-maru, con ampi sode e complesse legature multicolori: le nuove tecniche vengono applicate ai modelli dell’antichità e vengono prodotte armature di una ricchezza mai raggiunta. Nel XIX secolo il Giappone attraversa una crisi economica e politica che sfocerà nell’abolizione dello shogunato; in questi ultimi decenni la tendenza ad imitare le armature antiche non accenna a diminuire, ma la produzione è molto più limitata e gli armaioli di vero talento sono sempre più rari. Nel 1870 la struttura feudale viene infine abolita: la classe dei guerrieri non esiste più e, assieme ad essa, svanisce la necessità di produrre elmi ed armature. TECNICHE ED ELEMENTI Lungo tutta la sua evoluzione l’armatura giapponese ha mantenuto inalterate le proprie caratteristiche estetiche fondamentali: tipicamente realizzata con piccole piastre in ferro o in pelle (kozane) legate per mezzo di 12 fettucce in seta (odoshi) o di rivetti, presenta sempre determinati elementi che restano quasi inalterati per secoli. La superficie viene di solito ricoperta con uno strato di lacca al fine di proteggere l’armatura dalla ruggine e al contempo di decorarla: i colori più utilizzati sono il nero (kuro-urushi) e il rosso (shu-urushi) e talvolta vengono aggiunti ornamenti ottenuti con polvere d’oro (maki-e). Un particolare tipo di lacca, chiamato sabi-nuri, viene invece impiegato per ottenere un risultato che, pur somigliando alla superficie naturale del ferro, mantiene la propria funzione protettiva. In questo caso, infatti, si mescola alla lacca un poco di limatura di ferro, così che questa risulti ruvida e rugginosa. Gli elementi fondamentali dell’armatura giapponese sono sei (hei no rokugu): La parte più importante dell’armatura è senza dubbio l’elmo; sebbene esistano elementi ricorrenti e regole costruttive comuni, le diverse scuole di armaioli produssero nel corso dei secoli innumerevoli varianti di forme e modelli di kabuto. I più conosciuti sono senza dubbio quelli a struttura lamellare, realizzati con un certo numero di piastre verticali rivettate. Due tipologie di elmi a struttura lamellare sono immediatamente riconoscibili: i koboshi kabuto, in cui ogni piastra è fissata a quella adiacente per mezzo di lunghi rivetti sporgenti cosicché l’elmo ne risulta interamente ricoperto, e i suji bachi kabuto, con i rivetti ribattuti e quindi invisibili. L’elmo porta spesso sul davanti una decorazione ben visibile (maedate) che raffigura abitualmente simboli familiari o simboli religiosi e mitologici. Un secondo elemento importante dell’armatura è la maschera. Il menpō assolve difatti diverse funzioni: protegge il volto, permette un saldo fissaggio dell’elmo con appositi ganci, sostiene la protezione per la gola (yodarekake) e crea un’espressione spaventosa sul volto del guerriero. Il busto è protetto dal dō, una corazza senza maniche, da cui pendono delle protezioni a più piastre sovrapposte per proteggere il grembo (kusazuri). Le spalle sono invece generalmente protette da sode più o meno grandi. Le protezioni per braccia (kote), cosce (haidate) e stinchi (suneate) sono spesso costruite nello stesso stile e vengono raggruppate con il nome di sangu. Elementi ausiliari dell’armatura e quindi non sempre inclusi sono invece: Nodowa: protezione per lo sterno realizzata come un grande yodarekake. Guruwa: collare rigido per proteggere la gola. Manchira: cotta di maglia da indossare sotto l’armatura. Wakibiki: protezioni addizionali per le ascelle. Kogake: protezioni in ferro per i piedi. HISTORY OF THE JAPANESE SUIT OF ARMOUR by Giuseppe Piva Although officially an empire, Japan was controlled for about seven centuries by a military caste that left the emperor with little sovereignty and a religious rather than a political role. The bushi (or samurai, as they are generally called today) were actually the administrators of an empire which had a feudal military organization governed by the shōgun. For this reason, weapons and suits of armour have always been considered important symbols of power and social status. The Japanese armour developed between the 10th and 11th centuries as an evolution of ancient models which consisted only of large iron plates; between the 12th and 15th centuries, the suit of armour completed its transformation and took the form that we know today. At the beginning of this period, the samurai fought on horseback and used bows as their main weapons. The suit of armour, conceived to withstand fights between small cavalries, was reserved for highranking knights and was called ō-yoroi, literally “great suit of armour”. The helmet (kabuto) features a central dome constructed of a number of metal plates riveted together and a neck guard (shikoro) with a recurving upper plate protecting the face (fukigaeshi). The cuirass was constructed from small iron plates connected together, which made it strong and flexible, although definitely not light in weight. An additional element (waidate) was applied under the left arm to cover the opening from which the cuirass was worn. On the sides are two large rectangular shoulder guards (sode), whereas the lap is protected by four wide elements (kusazuri). Again, the assembly technique is based on small scales (hon-kozane) all connected together. The ō-yoroi was an excellent suit of armour for knights, but it was too heavy and inconvenient for hand-tohand fighting. Therefore, it fell out of use when the Japanese had to face an external attack. In 1274 – and later in 1281 – the Mongols attempted to invade Japan, dressed in comfortable armours made of durable boiled leather; their armies were organized in phalanxes and cavalry played a secondary role. So the Japanese found themselves involved in a kind of fighting they were not used to. It was only thanks to massive typhoons (the kamikaze, “divine winds”) that the Mongols were forced to fall back: the Japanese military strategy had proved ineffective, which made it necessary to rethink each and every aspect of the armed forces’ tactics and equipment. The basic model of the ō-yoroi was retained, but variations were introduced and infantry armours were designed (dōmaru e haramaki) with a kusazuri divided in several parts and without waidate. These new armours, which were more comfortable to wear, became common among the military aristocracy and, in the midMuromachi period (1333-1568), the ō-yoroi fell out of use. These new infantry armours still followed the traditional model and differed from it only because of a few minor adjustments, so that they could be used by foot soldiers armed with pikes and swords instead of bows. But the real innovation was still to come. It was the year 1543 when the first Portuguese ship arrived in Japan, off the island of Tanegashima, introducing the great innovation which had already revolutionized the European armies and their equipment, i.e. the harquebus, a very powerful weapon that would soon change the rules of traditional fighting, since anyone could learn how to use it effectively in a very short time. In those days, Japan was at the height of a state of tension between the warrior clans, and this new weapon arrived at exactly the right time. As a matter of fact, toward the end of the 15th century, the power of the shōgun as the central authority had greatly diminished and Japan was in a state of nearanarchy during which each clan attempted to expand its control over the territory to the detriment of its neighbours. The Ōnin war (1467-1477) had marked the beginning of the sengoku jidai, “the Warring States Period” and, during this civil war, harquebuses became the decisive weapon. In 1575 Oda Nobunaga used the new firearms in the Battle of Nagashino and quickly defeated the forces under Takeda Katsuyori, whose father Shingen – ironically – had been considered an innovator for introducing cavalry charges. It is easy to understand that this new type of fighting required a complete revision of the suit of armour. First of all, it became necessary to produce practical outfits, that should be easily manufactured and repaired, whose scales had to withstand bullets without being too heavy. That was the beginning of the so-called “modern armour” (tosei gusoku), whose changes involved every single element of the outfit. The helmet became stronger and heavier in order to withstand the shots of the harquebuses, while the fukigaeshi and the sode, which had lost their utilitarian purpose, disappeared or became purely vestigial. The cuirass (dō) is now made of larger plates, connected in a simple way or riveted, whereas the facial armour (mengu), the vambrace (kote) and the thigh armour (haidate) have been made lighter. This new armature has many advantages: it is stronger and more economical to manufacture; it is more comfortable to wear in battle because it does not have cumbersome guards and it is also more practical, because the thongs do not get soaked with water in case of rain. Certain armours copy 13 European patterns (nanban) or even include elements after the Western fashion. The tosei gusoku, conceived to face a civil war context where firearms played a key role, became the only type of equipment used and remained popular even after Tokugawa Ieyasu established hegemony over most of Japan (1600-1615). Sure enough, the armies had to control the tense situation that followed the “peace” that half of the clans had been forced to accept passively after the defeat of Sekigahara. Afterwards, the suit of armour was used as a parade uniform to be worn for official meetings and occasions, such as the sankin kōtai, by which the great feudal lords (daimyō) had to reside at Edo: a clever policy of the Tokugawa shogunate aimed at impoverishing and weakening the other clans. Periodically, all the daimyō were required to go to Edo, the new capital, followed by expensive, lavish processions (daimyō gyoretsu) in order to provide the shogunate with soldiers. They also had to leave their wives and families in Edo as hostages. The social necessity to lead a costly life during their stay in Edo, with a rich residence to keep, drained the coffers of the daimyō but led to the production of highquality works of art and furnishings, including plush, gorgeous and eccentric armours. The suit of armour has now become an important social status symbol indicating the wealth and importance of one’s clan. For this reason, during the Edo period (1615-1867) the smiths were more concerned with the look of the armour rather than its function. Decorations were ever more extreme and magnificent, with fine gold trimmings, artful ironwork, lacquers, colourful silks and so on. A few armourers specialized in embossing (uchidashi) and produced very high-quality dō, menpō and kabuto. In this period of aesthetic research, the great ō-yoroi and dō-maru, with wide sode and complex multi-coloured thongs, came back into fashion: the new techniques were applied to ancient models and lavish armours were produced like never before. During the 19th century Japan went through a political and economic crisis that would eventually lead to the abolition of the shogunate. The trend to imitate ancient armours continued, but production was limited and talented armourers were fewer and fewer. In 1870 the feudal system was abolished. The warrior class did not exist anymore, which made it unnecessary to produce helmets and armours. TECHNIQUES AND ELEMENTS Throughout its evolution, the Japanese armour remained basically unchanged from the aesthetic point of view. It was typically made with small iron or 14 leather scales (kozane) laced together with silk cords (odoshi) or rivets and featured a number of elements that have not changed for centuries. The surface was generally lacquered in order to protect the armour from rusting and decorate it at the same time: the colours most frequently used were black (kuro-urushi) and red (shu-urushi), along with occasional decorations made with powdered gold (maki-e). A specific kind of protective lacquer, called sabi-nuri, was used to obtain a result similar to the natural surface of iron. Iron filings were added to the lacquer so that the coat of paint was rough and rusty. The six major components of the Japanese armour are known collectively as hei no rokugu: The most important part of the armour is definitely the helmet. Although there are recurring elements and common manufacturing rules, down the centuries the different armour schools produced numberless versions of kabuto in terms of shapes and models. The best known are the lamellar ones, which consisted of vertical riveted scales. Two types of lamellar helmets are easily recognizable: koboshi kabuto, which features myriads of small, stud-like rivets on the helmet bowl, and suji bachi kabuto, where rivets are clinched and therefore invisible. The helmet is often adorned with a clearly visible decoration (maedate), generally a family emblem or a sculptural object representing mythical entities or religious symbols. The second important element is the facial armour. The menpō serves a number of functions: covering the face, securing the helmet with special hooks, supporting the throat guard (yodarekake) and creating an awesome facial expression in the warrior. The bust is protected by the dō, a sleeveless cuirass, while the lap is guarded by superimposed panels (kusazuri). The shoulders were generally protected by guards of different sizes called sode. Armoured sleeves (kote), thigh armour (haidate) and shin armour (suneate) are often constructed in the same style and known collectively as sangu. Additional elements of the armour, not necessarily included in every outfit, are the following: Nodowa: a breastbone guard manufactured like a large yodarekake. Guruwa: a type of throat guard shaped as a rigid collar. Manchira: a chain mail to be worn under the armour. Wakibiki: additional armpit guards. Kogake: armoured sock that covered the top of the foot. 15 Okegawa-dō tosei gusoku. Armatura per samurai. Metà del periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva - Arte Giapponese. Questa importante armatura porta il kamon di tipo suisha (mulino ad acqua) del clan Doi nella variante utilizzata durante il periodo Edo dal ramo che governava come daimyō il dominio di Kariya. Le forme e gli straordinari particolari mostrano l’elevato status del samurai di appartenenza. Il kabuto a cinque piastre è infatti di una rara forma allungata mentre la maschera è anch’essa inusuale, con laccatura in argento e l’interno in velluto. Il dō (corazza) è elegantemente decorato con rivetti a forma di fiori di ciliegio. I kote nascondono sull’avambraccio sinistro un comparto per medicinali, mentre i suneate (schinieri) sono laccati in oro. 16 Byōtoji-dō tosei gusoku. Armatura per samurai. Metà del periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva - Arte Giapponese. Il pesante elmo di tipo sujibachi è costruito con sessantadue resistenti piastre sagomate a forma di “S” così da opporre maggiore resistenza all’impatto di lame e proiettili di archibugio. I rivetti sono ribattuti e risultano invisibili. La maschera a mezzo volto è decorata con una finitura yasurime a linee parallele. Molto pesanti sono anche i kote che proteggono le braccia, realizzati in maglia molto fitta. Il dō a piastre orizzontali rivettate a vista (byōtoji) è elegantemente ricoperto con borchie in shakudo, una lega di rame oro dal colore violaceo e lucido che contrasta con il ferro della corazza. 17 Dangae-dō tosei gusoku. Armatura per samurai. Prima metà del Periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva - Arte Giapponese. L’elmo di tipo zunari è ornato con due wakidate originali a forma di corna, con la particolarità delle due punte protese in avanti e non di lato come in genere avviene per questo tipo di tatemono. Il dō presenta due tipi diversi di legature ed è ornato con kanamono dorati di ottima fattura che includono un kamon con il carattere “sopra”. A protezione delle spalle, al posto dei più tradizionali sode, questa armatura è provvista di larghi ko-ire circolari, finiti in crine di orso. La stessa finitura è prevista per l’ultima piastra del kusazuri. 18 Nuinobe-dō tosei gusoku. Armatura per samurai con il kamon del clan Maeda. Inizio del periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva - Arte Giapponese. L’armatura porta il kamon di tipo ume (fiore di pruno) della famiglia Maeda, daimyō del dominio di Kaga dal 1583 e per tutto il periodo Edo con rendita seconda solo a quella del clan Tokugawa. L’eccezionale elmo di tipo ko-boshi è di altissimo livello: i 1.550 rivetti che uniscono le 62 pesanti piastre sono disposti con impressionante regolarità e la loro dimensione diminuisce a mano a mano che si sale verso la sommità. La firma all’interno del kabuto è quella di Saotome Ietada, fondatore della scuola Saotome e considerato il miglior armaiolo del periodo Edo. Gli interni del dō e dello shikoro (protezione per il collo) sono laccati in oro, secondo l’usanza della regione di Kaga per indicare lo status elevato del samurai. 19 Byakudan-nuri tachi-dō tosei gusoku. Armatura per samurai laccata in byakudan. Metà del periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva - Arte Giapponese. Elegante armatura finemente lavorata e laccata in oro, ricoperta da un sottile strato di lacca rossa che fa trasparire il lucente metallo sottostante. L’elmo di tipo suji-bachi è di forma rialzata (kōseizan), costituito da 62 piastre coperte nelle direzioni cardinali da quattro placche in ottone decorate e ottone dorato, che scendono da un ricco tehenno-kanamono (ornamento del foro centrale) negli stessi materiali. Forma e peso dell’elmo (con splendido maedate raffigurante la testa di uno shikami, demone della tradizione giapponese) suggeriscono una datazione anteriore del coppo rispetto all’armatura. L’utilizzo di un elmo più antico era pratica comune durante il periodo Edo per le armature importanti. 20 Approfondimento MIYAMOTO MUSASHI Miyamoto Musashi (1584 - 1645), vero nome Shinmen Musashi no Kami Fujiwara no Genshi, è considerato il più grande samurai della storia del Giappone, famoso per le sue abilità di spadaccino e per essere stato un artista nella pittura, nella forgiatura di tsuba e nella letteratura. A 13 anni affrontò, sconfiggendolo, il samurai Arima Kihei; sempre giovanissimo partecipò alla famosa battaglia di Sekigahara. Iniziò a peregrinare per il Giappone in cerca di avventure. Musashi studiava la psicologia e le debolezze dell’avversario per usarli a suo favore. Il presentarsi con grande ritardo ai duelli e la sua scarsa igiene personale servivano a far innervosire il nemico. A Kyōto Musashi fu sfidato da Seijuro (il capoclan dei Yoshioka) e anche qui, presentandosi in ritardo, vinse l’incontro. La stessa tattica fu adottata anche nel duello contro il fratello di Seijuro. La famiglia Yoshioka preparò quindi un’imboscata per Musashi che invece, presentandosi con anticipo all’appuntamento, riuscì ad uccidere il nuovo giovane capo del clan. I vari duelli in cui si cimentò resero Miyamoto sempre più famoso: si narra che a 29 anni avesse già combattuto, sempre vittorioso, 60 incontri. Lo scontro più illustre lo ebbe nel 1612 sulla spiaggia di Muko-jima. Musashi si presentò in ritardo. Il suo avversario, Sasaki Kojiro Ganryu, appena lo vide gettò il fodero della spada a terra e si lanciò contro di lui. Quel gesto di rabbia fece capire a Miyamoto che avrebbe vinto anche quella volta, cosa che infatti avvenne. Negli anni seguenti partecipò a guerre e assedi. Raggiunti i 50 anni si ritirò dai combattimenti e si dedicò all’arte e alla letteratura. Nel 1640 scrisse l’Hyoho Sanjugo Kajo (“I trentacinque precetti della strategia”) in cui riassumeva la sua esperienza di guerriero. Tre anni dopo scrisse la sua opera più famosa, il Gorin-no-sho (“Il libro dei cinque anelli” o “Il libro dei cinque elementi”). Musashi descrive sia le tecniche di combattimento sia i concetti filosofici inerenti all’arte della spada. Una settimana prima di morire (il 19 maggio 1645), scrisse il breve Dokkōdō (“La Via che bisogna percorrere da soli”). Alla fine della cerimonia funebre di Musashi, si narra che si udì un tuono nel cielo sereno: era l’anima di Miyamoto che abbandonava il proprio corpo. Miyamoto Musashi (1584 - 1645), whose real name was Shinmen Musashi no Kami Fujiwara no Genshi, is considered the greatest samurai in the history of Japan. Renowned for his swordsmanship, he was also an artist in painting, in the forging of tsuba and in literature. At the age of 13, he duelled with samurai Arima Kihei and defeated him. When he was still very young, he fought in the Battle of Sekigahara. Then he started travelling across Japan in search of adventures. Musashi studied his opponent’s psychology and weaknesses to use them in his favour. He used to arrive at the duel late and neglected his hygiene, which irritated the enemy. In Kyōto, Musashi was challenged to a duel by Seijuro, master of the Yoshioka clan. Musashi arrived late and won the duel. He adopted the same tactics in the swordfight against Seijuro’s brother. The Yoshioka clan then laid an ambush on Musashi, but this time he arrived much earlier than agreed and managed to kill the young new head of the clan. His duelling made him ever more famous: the story goes that at 29 years of age he had fought and won 60 duels. His most famous one took place in 1612 on the beach of Muko-jima. Musashi arrived late. On seeing him, his opponent, Sasaki Kojiro Ganryu, threw the scabbard of the sword on the ground and flung himself against him. This angry gesture made it clear to Miyamoto that he would win again. In the following years he took part in wars and sieges. When he turned 50, he retired from action and devoted himself to arts and literature. In 1640 he wrote the Hyoho Sanjugo Kajo (“Thirty-five Instructions on Strategy”) where he summed up his experience as a warrior. Three years later, he wrote his most famous book, the Gorin-no-sho (“The Book of Five Rings” or “The Book of Five Elements”). Musashi describes the fighting techniques and philosophical concepts related to swordsmanship. A week before he died, he wrote the short work Dokkōdō (“The Way to Go Forth Alone”). It is said that at the end of Musashi’s funeral a crack of thunder pounded in the clear sky above: it was Miyamoto’s soul that left his body. 21 Koboshi kabuto. Elmo da samurai. Scuola Haruta, XVII secolo. Inizio del periodo Edo (1615-1867). Okina menpō Yoshiatsu. Maschera per armatura da samurai. Metà del Periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva – Arte giapponese. Elmo a 62 piastre rivettate. Ogni piastra porta al centro una fila di trenta rivetti. In totale si contano 1.890 rivetti, di dimensione decrescente approssimandosi verso la cima dell’elmo. La forma del coppo è di tipo tenkokuzan, ovvero avvallato al centro e con la parte superiore leggermente più alta, ma la sagoma è particolarmente tondeggiante, con un’apparenza quasi “gonfia” nella parte posteriore, rimandando così ai modelli akoda nari (a forma di zucca) degli elmi medievali. Uno tsunomoto è fissato nella parte superiore della visiera (mabizashi) per reggere un maedate (ornamento frontale) di tipo kuwagata (corna di cervo stilizzate). Sebbene l’elmo non sia firmato, la forma e alcune caratteristiche costruttive suggeriscono un’attribuzione alla scuola Haruta, una delle più vecchie del Giappone. Maschera in ferro molto spesso e pesante, finemente lavorata e finita con lunghi baffi. La firma può essere letta come “Yoshiazu, abitante di Morioka, fece questo in acciaio per [la famiglia] Shimizu”. La maschera può rientrare sicuramente nella tipologia ressei, date le caratteristiche che ne configurano un’espressione “feroce”, ma la presenza dei lunghi baffi indica generalmente un chiaro riferimento alla figura di Okina e alla sua veneranda età. 22 So-fukuri kabuto. Elmo da samurai a 62 piastre. Inizio del periodo Edo (1615-1867). Bijo menpō. Maschera per armatura da samurai. Metà del Periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva – Arte giapponese. In questo elmo a 62 piastre i suji molto prominenti sono coperti in rame dorato. Tehen no kanamono di eccezionale fattura a sei livelli. Anche il maedate è originale del periodo Edo. Maschera di tipo me no shita men (“a mezzo volto”) in ferro naturale. L’espressione aggraziata e la mancanza di rughe denota la tipologia bijo, “bella donna”. Yodare-kake (protezione per la gola) a tre piastre lisce laccate in nero (kuro-urushi) e legate in sugake odoshi. 23 Kakuzukin-nari kawari kabuto. Elmo “straordinario” da samurai. Inizio del periodo Edo (1615-1867). Provenienza: Kyōto, Museo Arashiyama. Ressei menpō. Maschera per armatura da samurai. Scuola Myōchin. Metà del Periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva – Arte giapponese. Il kakuzukin, un tipo di copricapo in voga all’inizio del periodo Edo, era costruito con un tessuto di forma rettangolare, cucito lungo i bordi. Questo elmo simula tale berretto con una sovrastruttura in harikake, cartapesta mista a lacca, sebbene, a differenza di altri esemplari, riproduca anche delle plissettature nel centro. In genere i kakuzukinnari kabuto sono completamente lisci, ma questo ha una complessità di lavorazione superiore e anche all’interno è incisa una decorazione a linee parallele. La forma kakuzukin fu utilizzata dal secondo shōgun Tokugawa, Hidetada (al potere dal 1605 al 1623), e da Hosokawa Tadaoki (1563-1646), signore del dominio di Kukamoto. Ferro con decori in argento. La forma della bocca e del mento, assieme all’uso d’intarsi d’argento per disegnare i baffi, sono caratteristiche utilizzate da Myôchin Munesuke ed è quindi possibile attribuire il presente lavoro ad un fabbro della sua scuola. 24 Kawari kabuto. Elmo “straordinario” da samurai con forma di fantasia. Metà del periodo Edo (1615-1867). Ressei menpō. Maschera per armatura da samurai. Metà del Periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva – Arte giapponese. La forma non è conosciuta e rappresenta un unicum nel suo genere. Sembrerebbe non raffigurare un elemento reale, come spesso avviene per i kawari kabuto, se non forse un grande maedate di forma kuwagata, tipico delle armature medievali. Gli elmi “straordinari” con una calotta in ferro e rivestimenti in harikake iniziarono ad essere prodotti durante il periodo Momoyama (1573-1615) quando l’imporsi di kabuto dalle forme spettacolari dovette confrontarsi con esigenze pratiche: ottenuto mischiando lacca urushi e cartapesta, questo materiale è molto leggero ed estremamente resistente agli urti e quindi fu ampiamente utilizzato per gli elmi dei più importanti generali. Maschera per armatura in lacca rossa (shu-urushi) con espressione violenta (ressei). Interno in lacca nera. Yodarekake (protezione per la gola) a quattro piastre lisce laccate in oro e legate in kebiki odoshi (allacciatura fitta). 25 Approfondimento Le donne samurai Le donne samurai (onna bugeisha, o donna guerriera) rivestivano una certa importanza in quanto si occupavano prevalentemente dei propri figli e del proprio uomo, della loro educazione oltre che dell’andamento vero e proprio della casa; se una donna nasceva in una famiglia samurai, anch’essa era samurai appartenendo allo stesso gruppo sociale; una onna bugeisha doveva saper infondere umiltà, obbedienza e rigore, imparava da piccola disciplina e autocontrollo, anche se la sua condizione sociale era chiaramente subordinata ai maschi. Doveva in ogni caso saper difendere la casa durante l’assenza del marito e spesso era preparata in arti marziali e addestrata all’uso del naginata (una lunga lama montata su un’asta) che divenne arma simbolica delle donne samurai. Tra le loro tecniche c’era anche quella di nascondere dei piccoli pugnali tra la capigliatura come fossero dei fermagli e anche l’uso di un particolare ventaglio chiamato tessen. Molte mogli vedove rispondevano alla chiamata per partecipare a battaglie a fianco degli uomini. Anche se non è storicamente provato come personaggio realmente esistito, la figura di Tomoe Gozen, moglie di Minamoto Yoshinaka del clan Minamoto ha avuto un grosso impatto sulla classe guerriera, specialmente su molte scuole di naginata (oggi stesso il naginata-jitsu è un’arte marziale praticata prevalentemente in Giappone da donne), e lo si riscontra dalla sua presenza su molte opere pittoriche (ukiyo-e). Nel romanzo dell’Heike Monogatari (trattato sull’ascesa della famiglia Taira) si legge una delle leggende che parla della guerra Genpei (1180-1185) combattuta tra i Taira e i Minamoto, dove proprio Tomoe Gozen, durante la battaglia di Awazu del 1184, guidò le truppe contro i nemici disarcionando lei stessa il guerriero più forte, per poi decapitarlo. Samurai women (onna bugeisha, or female warrior) were very important people as they were trained to protect their husbands, children and households; if a woman was born in a samurai family, she was also a samurai as she belonged to the same social group; an onna bugeisha was to be able to convey humility, obedience and rigour; as a young girl, she was taught discipline and self-control, even though her social condition was clearly subordinate to males. In any case, she had to be able to defend her household when her husband was away and often she was trained in martial arts and in the use of the naginata (a wooden shaft with a long blade on the end), which became the symbolic weapon of samurai women. They used to hide small daggers in the hair, like hair slides, and also resorted to a particular fan called a tessen (war fan). Many widowed wives responded to the call of duty to take part in battles alongside with men. Although her existence has not been historically ascertained, Tomoe Gozen, wife of Minamoto Yoshinaka of the Minamoto clan, had an enormous impact on the warrior class, and especially on many naginata schools (even today naginata-jitsu is a martial art practiced in Japan mainly by women), as can be seen from many pictorial works (ukiyo-e). The novel Heike Monogatari (an epic account of the ascent to power of the Taira family) contains a legend about the Genpei war (1180-1185) fought between the Taira and the Minamoto, where Tomoe Gozen, during the Battle of Awazu, led the troops against the enemies, personally unhorsed the strongest warrior and then cut off his head. 26 Approfondimento L’ULTIMO SAMURAI Alla fine del XIX secolo, il governo Meiji abolì l’intero sistema feudale e formò un esercito moderno, facendo così scomparire di fatto la tradizionale élite guerriera; il termine samurai non venne quasi più usato; gli abiti e gli ornamenti del guerriero cambiarono drasticamente. Non c’era più bisogno che gli uomini uscissero armati in strada e il diritto dei samurai di poter girare con le due spade fu, appunto, abolito. Tuttavia un piccolo nucleo di fanatici, ormai senza impiego, considerò tutto questo un tradimento nei confronti della storia stessa; il più deluso tra questi fu Saigō Takamori che continuò a insegnare la via della spada in privato e, per tre anni, preparò di nascosto un’insurrezione. Pronto ad uscire allo scoperto, accusò uno degli agenti del governo che controllava le sue scuole di spada di volerlo uccidere e eliminare. Con questo pretesto nel 1877 guidò l’ultimo attacco dei samurai, la famosa ribellione di Satsuma, dove comandò ventimila uomini contro le forze del governo. I suoi uomini vennero quasi tutti sterminati e Saigō morì. Non è chiaro come sia morto, probabilmente o suicidandosi in un rifugio o dissanguato per colpa di un proiettile. La sua testa comunque venne tagliata da un luogotenente per mantenere alta la sua reputazione e, dopo la sua morte, “L’ultimo samurai” venne perdonato. At the end of the 19th century, the Meiji government abolished the entire feudal system and formed a modern army. This decision led to the disappearance of the traditional warring élite. The term samurai almost fell out of use. The outfit and trimmings of the warrior changed radically. There was no more need for men to carry weapons and the samurai were no longer allowed to go out armed with two swords. However, a small number of fanatics – who had become unemployed – felt that this was a betrayal of history itself. Among the most deeply disillusioned was Saigō Takamori who continued to teach swordsmanship in private and spent three years preparing for an insurrection. When he was ready to come out into the open, he claimed that one of the government agents who controlled his sword schools wanted to kill him and get rid of him. Using this as an excuse, he responded in 1877 with the last attack of the samurai, the famous Satsuma Rebellion, in which he led some twenty thousand men against government forces. Almost all of his men were killed and Saigō died, too. It is not clear whether he committed suicide in a mountain hideaway or died from a bullet wound. However, a lieutenant cut off his head in order to imply a warrior’s death and uphold his good name. After his death, the “last samurai” was forgiven. 27 GLOSSARIO ARMATURE 28 Bitsu cassa per riporre l’armatura. Daimyō feudatari con grandi possedimenti (dal periodo Edo con una rendita annuale di almeno 10.000 koku). Dō corazza per il tronco. Fukigaeshi alette frontali sul kabuto ottenute rivoltando la prima piastra dello shikoro. Spesso portano il kamon della famiglia del samurai. Haidate protezione per le cosce. Kabuto elmo dell’armatura giapponese. Kamon simbolo araldico. Katchu shi armaiolo; costruttore di armature o di parti di armatura. Kawari bachi/kabuto coppo/elmo di forma non convenzionale (lett. “straordinaria”). Kote protezioni per le braccia. Kusazuri serie di protezioni pendenti dal dō per coprire il grembo. Maedate ornamento frontale del kabuto. Men no shita men (o Menpō) maschera da armatura a mezzo volto, spesso con il naso staccabile. Shikoro protezione per il collo attaccata al coppo dell’elmo. Sode protezioni per le spalle. Suneate schinieri. Wakidate ornamenti laterali del kabuto. Yodarekake protezione per la gola attaccata al menpō. Yoroi armatura; termine utilizzato in genere per le armature medievali. ARMOUR GLOSSARY Bitsu a box for storing the armour. Daimyō feudal lords who owned large estates (from the Edo periodo, they headed domains with a yearly income of at least 10,000 koku). Dō a cuirass for the trunk. Fukigaeshi front winglets on the kabuto obtained by upturning the first plate of the shikoro. Often, they are decorated with the kamon of the samurai’s family. Haidate a thigh armour. Kabuto the helmet of the Japanese armour. Kamon a coat of arms. Katchu shi armourer; armour maker. Kawari bachi/kabuto a helmet bowl of unconventional shape (lit. “extraordinary”). Kote an armoured sleeve. Kusazuri pendant sections hanging from the dō to cover the lap. Maedate a decorative fitting mounted on the front of the kabuto. Men no shita men (o Menpō) a mask covering the face below the eyes; often the nose could be detached. Shikoro the neck guard for the helmet. Sode shoulder guards. Suneate a shin guard. Wakidate decorative features fitted to the sides of the kabuto. Yodarekake a throat defence attached to the menpō. Yoroi armour; term generally used for medieval armours. 29 30 Tantō (pugnale), scuola di forgiatura Bizen. 1630-1650. A firma Osafune Sukesada. Collezione Paolo Cammelli. Tantō di cm 22, struttura morohazukuri, scuola di tradizione Bizen, forse la più famosa ed apprezzata nel Giappone medioevale ed anche oggi – firma Bizen Kuni Ju Osafune Sukesada. Ammirevole pugnale d’inizio epoca Shinto, che dopo ben 400 anni conserva ancora integre tutte le sue originarie caratteristiche, nella hada e nello hamon. 31 32 Tantō (pugnale), scuola di forgiatura Tegai. Inizi 1700. A firma Yoshu Ju Fujiwara Kanenaga. Collezione Paolo Cammelli. Tantō (pugnale) forgiato nel 2008 a firma Yoshindo Yoshihara. Collezione Paolo Cammelli. Tantō di cm 31,5 di classica forma e lunghezza, scuola di tradizione Yamato Tegai a firma Yoshu Ju Fujiwara Kanenaga. Prodotto ad inizio 1700 fra l’era Genroku e la Hōei, il pugnale è classificato come Tokubetsu Kicho (extraordinary work). Il nome della scuola deriva dal Tegaimon (cancello) del tempio Tōdai-ji di Nara in cui i forgiatori vivevano e lavoravano, producendo lame che poi i monaci commercializzavano. Tantō di cm 24 a firma Yoshindo Yoshihara - Mukansa e Tokyo to Mukei Bunkazai - maestro forgiatore al di sopra di ogni giudizio e Tesoro Vivente della città e prefettura di Tokyo. Lama di recente produzione, ma simile nella tipologia ad un esemplare del grande artista Bizen Osafune Kagemitsu (attivo dal 1303 al 1335). Le piccole dimensioni servivano per facilitarne l’occultamento sotto le vesti. Politura a cura del Maestro Leon Kapp. Wakizashi (spada corta) forgiata nel 2008 a firma Yoshindo Yoshihara. Collezione Paolo Cammelli. Wakizashi di cm 48 a firma Yoshindo Yoshihara. Spada corta e molto robusta, simile a quella conservata a Firenze nel Museo Nazionale del Bargello. La politura della lama è opera di un valente mukansa giapponese. 33 Approfondimento LA STORIA DEI 47 RŌNIN Nei primi anni del 1700 il daimyō Asano Takumi no kami Naganori, signore di Akō, mentre era all’interno del palazzo shogunale a Edo e veniva istruito sulle regole da seguire per accogliere l’Imperatore, fu gravemente offeso dal maestro di protocollo Kira Kozukenosuke Yoshinaka. Per reazione Asano sfoderò un pugnale per colpire Kira, colpa considerata gravissima perché compiuta nel palazzo dello shōgun. Asano fu costretto a suicidarsi tagliandosi il ventre (seppuku) e i samurai che lo accompagnavano si ritrovarono nella condizione di rōnin, samurai girovaghi senza un signore. Dopo poco tempo 47 di loro si ritrovarono e decisero di vendicare Asano. La vendetta fu compiuta il 15° anno dell’era Genroku, 12° mese, 14° giorno (30 gennaio 1703): i rōnin assaltarono il palazzo di Kira e, dopo un feroce scontro con le guardie, gli tagliarono la testa e andarono a deporla sulla tomba del loro signore. Nonostante avessero seguito le regole del bushidō, dopo circa due mesi il governo li condannò e tutti compirono il suicidio rituale. Ancora oggi le loro tombe sono visibili presso il tempio Sengakuji a Tōkyō. La storia da subito suscitò grande scalpore e da essa venne ricavato il dramma Chūshingura, che diventò subito un classico, parte integrante della tradizione giapponese: la storia fu proposta nel teatro delle marionette (bunraku) e successivamente nel kabuki e ancora oggi viene regolarmente messa in scena nel periodo di fine anno. At the start of the 18th century, the daimyō Asano Takumi no kami Naganori, lord of Akō, was inside the shōgun palace in Edo to be instructed on the rules to be followed to welcome the emperor when he was seriously offended by a court official named Kira Kozukenosuke Yoshinaka. As a reaction, Asano drew his dagger to stab Kira. This action was considered a grave offence, because it was committed within the boundaries of the shōgun’s residence. Asano was compelled to commit seppuku (self-disembowelment), so his retainers were left leaderless and became rōnin. After some time, forty-seven of them banded together in order to avenge their master. In Genroku 15, on the 14th day of the 12th month (30 January 1703) the revenge was taken: the rōnin attacked Kira’s residence and, after a fierce struggle with his retainers, they cut off his head and carried it to their lord’s grave. Although the rōnin had followed the precepts of bushidō, after about two months they were sentenced to death and ordered to commit seppuku. Their graves can still be seen at the Sengakuji Temple in Tōkyō. The story immediately caused a sensation and inspired the drama Chūshingura, which soon became a classic and an integral part of Japanese tradition. It was staged in the puppet theatre (bunraku) and later in the kabuki. Even today the drama is put on regularly at the end of the year. 34 Tsuba Choshu Kawaji. Metà del periodo Edo (16151867). Ferro con intarsi in oro; mm 71x67x4. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Iscrizione in corsivo sul lato ura e firma “Choshu Hagi ju, Kawaji Tomonao”. Tomonao, fabbro della scuo- la Kawaji, era fratello di Tomomichi. Più tardi aprì la propria scuola Kawaji Beppa. Come in questo caso, le sue opere sono generalmente realizzate in nikubori ji-sukashi e ita tsuba consukidashibori. Talvolta usava combinare tecniche della scuola Bushu Ito con quelle Shoami. 35 Tsuba Choshu. Metà del periodo Edo (1615-1867) Ferro intagliato; maru-gata; mm 60x47x4. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Motivo con hyotan namazu. Il motivo del pesce gatto (namazu) che esce da una zucca si correla al concetto zen di elusività. Come scrisse D.T. Suzuki nel 1959: “L’elusività della verità o della realtà, quando uno cerca di descriverla per mezzo di concetti logici o di definizioni, è come cercare di catturare un pesce gatto con una zucca”. Tsuba Choshu. Metà del periodo Edo (1615-1867). Ferro con lumeggiature in oro; maru-gata; mm 71x68x5. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Motivo con ninfee. L’opera è firmata “Choshu Hagi ju Nakai Zensuke Tomotsune”. La Choshu fu la più grande scuola di produzione di tsuba fin dai primi anni del XVII secolo. Il ramo Nakai nacque circa cent’anni dopo con il primo Tomotsune e continuò per tutto il periodo Edo. Il ferro è ben forgiato e la patina è scura. Tsuba Kyo-sukashi. Metà del periodo Edo (1615-1867). Ferro; maru-gata; mm 78x78x5. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Motivo con kamon e fiori. L’inusuale disegno a traforo include due kamon inseriti in un paesaggio naturale con una pianta, alcuni fiori e onde. Le dimensioni e la tipologia del disegno suggeriscono l’attribuzione ad un artista di Kyōto. Tsuba Kaga Yoshiro. Fine del periodo Muromachi (1336-1573). Ferro con intarsi hira-zogan in ottone; mm 82x82x4. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Motivo con ruote e volpe. Tsuba Yoshiro della regione di Kaga in stato di conservazione originale. Il ferro mostra un tekotsu di ottima fattura e gli intarsi sono intatti. Nel XVI secolo l’ottone era ancora un metallo importato dalla Cina e considerato molto prezioso. La forma di tipo mokko con intarsi a forma di cuore è quella utilizzata tipicamente per le montature di tipo handachi. La tecnica hirazogan, con l’intarsio levigato allo stesso livello della superficie della tsuba, è tipica della zona di Kaga. Trattamento a punti martellati in alcune zone della superficie. Tsuba Bushu. Seconda metà del periodo Edo (1615-1867). Ferro; maru-gata; mm 78x78x6. Giuseppe Piva – Arte giapponese. La tsuba raffigura una veduta di stile cinese, con pagode che si stagliano su rocce e alberi con rami articolati, probabilmente presa da qualche dipinto di scuola Kano. Il ferro è ben forgiato e la patina è scura. Firmata “Bushu ju Masatsune”. 36 Choshu tsuba. Provincia di Nagato, metà del periodo Edo (1575-1615). Ferro traforato e intagliato; mm 71x65x4,5. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Tsuba Aizu Shoami. Seconda metà del periodo Edo (16151867). Ferro con lumeggiature in oro; mokko-gata; mm 85,9x79,2x3,4. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Firmata: “Choshu Hagi Ju Yoshikatsu”. Tsuba ovale in ferro con decoro traforato (sukashi) e intagliato (takabori) a motivo di crisantemi e fasci di erba, simboli dell’autunno. Il bordo è decorato con una complessa damaschinatura in oro (zogan). Incoraggiati dal governo locale, i fabbri di Hagi produssero tsuba destinate all’esportazione verso le altre province, talvolta copiando gli stili delle altre scuole e talvolta, come in questo caso, mostrando le loro caratteristiche tradizionali. I soggetti più comuni sono quelli naturalistici (fiori, frutta, animali o paesaggi di tipo cinese). Motivo con attributi di Kato Kiyomasa, uno dei più famosi samurai del Giappone: sono raffigurati, in bassorilievo con dorature, un elmo di tipo eboshi decorato sul fianco con un grosso kamon circolare di tipo janome (occhio di serpente) e un grande katamayari, un tipo di arma in asta; sul retro un frustino da cavallo (muchi). La superficie della tsuba è lavorata sul fronte in ishimeji per simulare la pietra, mentre il retro è finito in tsuchimeji, una sorta di martellamento. Soten daishō. Periodo Edo (1615-1867). Ferro; tate maru-gata; dai: mm 78x74; sho: mm 75x71. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Scene dalla guerra di Genpei con figure di guerrieri in bassorilievo e dettagli in oro. Bordo a torciglione in shakudo. La scuola Soten fu fondata da Soheishi Nyudo a Hikone (Goshu) nel XVII secolo. Il soggetto che maggiormente si diffuse, quando questo stile divenne di moda, fu quello degli episodi tratti dalla guerra tra Taira e Minamoto (Gen-Pei). Le opere più antiche sono caratterizzate da una maggiore definizione dei particolari e possono essere realizzate in shakudo, laddove quelle più tarde sono rifinite più grossolanamente e sono sempre in ferro. 37 Approfondimento SEPPUKU Il seppuku (conosciuto in Occidente anche con il termine harakiri) indica il suicidio rituale praticato dal samurai. Il gesto veniva eseguito, secondo un rito estremamente codificato, per espiare una colpa o per non subire una morte disonorevole per mano del nemico. Nel periodo Edo divenne anche una forma di condanna a morte, rispettosa del condannato. Il taglio del ventre doveva essere eseguito da sinistra verso destra e poi verso l’alto, esattamente sull’addome, ritenuto sede dell’anima e quindi di emozioni e volontà: con il taglio l’anima poteva liberarsi e tornare pura. Era questo il modo più onorevole che il samurai aveva per togliersi la vita, dimostrando inoltre il suo coraggio. Il samurai doveva essere seduto su uno sgabello o, più spesso, in ginocchio con le punte dei piedi distese in modo che il corpo esanime potesse cadere solo in avanti, raggiungendo la morte più onorevole. Per preservare ancora di più l’onore del samurai e fare in modo che il dolore non gli sfigurasse il volto, un fidato compagno, chiamato kaishakunin, decapitava il samurai appena egli si era inferto la ferita all’addome: il kaishakunin doveva essere un abile spadaccino in grado di tagliare quasi completamente il collo, con un colpo netto ma senza provocare il distacco della testa. L’arma usata per autoinfliggersi il taglio al ventre poteva essere il tantō (coltello), anche se più spesso, come avveniva sul campo di battaglia, la scelta ricadeva sul wakizashi, conosciuto anche col nome di “guardiano dell’onore”. Anche le donne praticavano il suicidio conosciuto col nome di jigai; il taglio era alla gola, dopo essersi legate i piedi insieme, per non assumere posizioni scomposte dopo l’agonia. Seppuku (also known in the Western world as harakiri) is the ritual suicide committed by the samurai. Seppuku was performed, according to a strictly codified ritual, as an expiation of guilt or to die with honour rather than at the hands of enemies. During the Edo period it was also a form of capital punishment which was respectful of the condemned person. The disembowelment had to be performed from left to right in a slicing motion and then upwards, into the abdomen, which was thought to contain the soul and be the source of emotions and will. Therefore, when the samurai stabbed himself in the stomach, the soul would be released and regain purity. This was the most honourable way for a samurai to commit suicide and show his courage. The samurai had to sit on a stool or on his heels so that his lifeless body could only fall forward, for a more honourable death. In order to preserve the honour of the samurai and prevent pain from disfiguring him, a trusted attendant, called kaishakunin, decapitated the samurai as soon as the warrior cut his belly. The kaishakunin needed to be a very skilled swordsman: he had to cut the neck almost completely, with a sharp stroke, without severing the head. The weapon used for the self-disembowelment could be the tantō (knife), although more frequently – as was the case on the battlefield – the choice fell on the wakizashi, also called the “guardian of honour”. Women had their own ritual suicide, jigai. The woman cut her throat, after tying her legs together, in order to ensure a decent posture in death. 38 Per una migliore conoscenza delle nihontō (lame giapponesi) di Paolo Cammelli Caratteristiche fondamentali Elemento essenziale di una nihontō (viene spesso usato anche il termine tōken) è che sia forgiata per stratificazione a caldo di acciaio al carbonio, usando esclusivamente il metodo tradizionale tramandato dai maestri artigiani giapponesi per oltre mille anni. La lavorazione produce dalle 20.000 alle 30.000 stratificazioni di spessore molecolare, rendendo la spada giapponese estremamente resistente alla flessione ed alla rottura. Un maestro forgiatore impiega mediamente 10 giorni per produrre una lama. L’odierno valore commerciale di un’autentica lama giapponese è dato dall’importanza dell’artista e dallo stato di conservazione del manufatto. Fra le cinque principali scuole di forgiatura medioevali, ricordiamo la Yamato (la più antica) e la Bizen (la più famosa). Entrambe risultano ben rappresentate nelle lame presenti in mostra, sia nei due splendidi manufatti di epoca Edo, che in quelli di recente produzione (definiti shinsakutō) ad opera del mukansa e Tesoro Vivente maestro Yoshindo Yoshihara. Mitologia Si narra che il Dio Susa no ō, figlio del creatore delle isole giapponesi, uccise un drago dalle otto teste e dentro la coda vi trovò una lunga spada, poi passata in eredità agli imperatori giapponesi, che consegnò a sua sorella, la dea solare Amaterasu. Ancora oggi, durante l’incoronazione, all’imperatore è consegnata una spada, simbolo dell’unione fra cielo e terra. Principali tipologie Dai-shō – così si definisce l’insieme delle due spade del samurai, una lunga (dai) l’altra corta (shō). Katana o Uchigatana – questa tipologia sostituì la tachi ed è ancora oggi in uso. La spada inserita nel fodero viene portata dal samurai dentro la propria cintura (obi) con la lama rivolta verso l’alto per facilitare la rapidità di estrazione. Lunghezza generalmente variabile fra i 60,6 ed i 65 cm. in funzione dell’altezza del guerriero. Tachi – spada sensibilmente ricurva, in uso nei tempi più antichi fino a metà del XV secolo, da portare in un fodero appeso alla cintura, con il tagliente rivolto verso il basso. Lunghezza variabile, generalmente oltre i 65 cm. Tantō – pugnale, sempre di dimensioni inferiori ad uno shaku (30,3 cm). Wakizashi – spada corta per uso da taglio o da combattimento in luoghi angusti. Il samurai la portava infilata nell’obi assieme alla katana. Nomenclatura della spada giapponese Ha – è il tagliente temperato ed affilato della lama, la parte più dura della spada. Molti i fattori che concorrono alle sue superlative caratteristiche di taglio e resistenza: il sistema di forgiatura per stratificazione, i tipi di acciaio usato ed il loro contenuto in carbonio, le capacità del maestro forgiatore nell’eseguire la tempera (yakiire). Da “sfatare” una distorta immagine cinematografica della katana giapponese: infatti non è la lama che taglia una piuma che vola, ma eventualmente la grande capacità del samurai nell’usare la spada. Hada – è così definita come visivamente appare la trama superficiale di una lama. In genere si ha somiglianza con le venature del legno. Ogni forgiatore esprime la sua arte in tale visione naturalistica dell’aspetto esteriore delle superfici del metallo. Hamon – è il disegno che appare sul tagliente della lama a seguito della tempera detta yakiire. Il processo di indurimento per shock termico provoca una cristallizzazione dell’acciaio e la conseguente formazione di “figure” di diverso colore che vanno ad evidenziarsi vicino al filo della lama. È il forgiatore che a priori studia e crea la realizzazione di un suo personale e artistico hamon. Seguendo un’ispirazione in parte scintoista, generalmente appaiono figure simili a onde, nuvole, elementi della natura. Kissaki – punta della spada. Koshirae – termine genericamente usato per indicare la montatura, il fodero della spada. Le tipologie, la laccatura e le decorazioni artistiche variano in funzione della destinazione d’uso. Mukansa – titolo conferito ai forgiatori di rara bravura e significa: “maestro al di sopra di ogni giudizio”. Nakago – è il codolo, la parte terminale della lama. Il nakago non è temperato e generalmente riporta incisa a bulino la firma (mei) del maestro forgiatore e talvolta la data. Saya o Shirasaya (con Sayagaki) – semplice fodero, non decorato né laccato, in legno stagionato di magnolia, usato per conservare e proteggere la lama dall’umidità. 39 Per sayagaki si intende l’eventuale iscrizione esterna a bella calligrafia di una perizia sulla lama. Tatara – fornace in cui viene artigianalmente prodotto l’acciaio poi destinato alla fabbricazione delle lame giapponesi. Il processo di fusione dura tre giorni consecutivi, immettendo nel tatara sabbia ferrosa e carbone di legna. Tsuba – è la guardia in metallo della lama, inserita sulla stessa quando montata sul koshirae. Oltre a proteggere la mano ha spesso assunto funzioni decorative. Tsuka – è l’impugnatura del koshirae. Ricoperta di semplice same (pelle del pesce razza) oppure ulteriormente avvolta di lacci in seta e cotone, il tutto per rendere più sicura la presa della mano, che potrebbe venire meno a causa di sangue o sudore. Yakiire – è il processo di tempera, per raffreddamento repentino in acqua della lama incandescente. Si avvia così un processo fisico-chimico che trasforma ed indurisce le molecole dell’acciaio, rendendo il manufatto molto resistente ed atto al taglio. For a better understanding of nihontō (japanese bladed weapons) by Paolo Cammelli Basic features An essential element of a nihontō (the term tōken is also frequently used) is for it to be hot-forged in alternating layers of carbon steel using only the traditional method handed down by Japanese sword makers for over a thousand years. The lamination process results in a complex structure of 20,000 to 30,000 layers of molecular thickness, which makes the Japanese blade highly resistant to bending and breaking. A forging master normally needs 10 days to manufacture a blade. The present commercial value of a genuine Japanese bladed weapon is given by the importance of the artist and the state of conservation of the artefact. Among the five medieval forging schools, it is worth mentioning Yamato (the most ancient one) and Bizen (the most famous one). The two are well represented in the bladed weapons on show in the exhibition, both in the two magnificent Edo artefacts and in the recent manufacture items (called shinsakutō) created by mukansa and Living Treasure master sword maker Yoshindo Yoshihara. Mythology The story goes that the God Susa no ō, son of the creator of the Japanese islands, killed an eight-headed dragon whose tail contained a long sword. This sword from the dragon’s tail was presented by Susa no Ō to his sister Amaterasu, goddess of the sun, who then bequeathed the weapon to the emperors of Japan. Even today, during the enthronement ceremony, the emperor receives a sword symbolizing the union between heaven and earth. Main types Dai-shō – This is the Japanese term for a matched pair of samurai swords, the long (dai) and the short one (shō). Katana or Uchigatana – This type of sword is the 40 descendant of the tachi and is still used today. The sword contained in its scabbard is worn by the samurai thrust through a belt-like sash (obi) with the sharpened edge facing up for easy, quick extraction. The length ranges from 60,6 to 65 cm, depending on the warrior’s height. Tachi – A markedly curved sword, used in ancient times and until the mid-15th century, it was worn hung from the belt with the cutting edge down. The length is variable, generally over 65 cm. Tantō – A dagger, always smaller than a shaku (30,3 cm). Wakizashi – A short blade for cutting or close quarters fighting. The samurai used to carry it inside the obi together with the katana. Nomenclature of the Japanese sword Ha – It is the hardened, tempered cutting edge of the blade, the hardest part of the sword. Many factors contribute to its excellent features in terms of cutting and strength: the multi-layered forging system, the types of steel used and their carbon contents, the skills of the forging master in tempering the material (yakiire). It is important to debunk the typical film image of the Japanese katana: indeed, it is not the blade that cuts a flying feather, but rather the extraordinary skill of the samurai in using the sword. Hada – It is the grain pattern of a blade, generally similar to wood grain. Every forging master expresses his art through this naturalistic vision of the outer appearance of metal surfaces. Hamon – It is the temper pattern along the blade edge resulting from the quenching process called yakiire. The hardening process by thermal shock results in the crystallization of steel with the subsequent formation of patterns of different colour near the edge of the blade. It is the forging master who studies and creates his own personal, artistic hamon. Following a partially Shinto inspiration, the patterns that appear are similar to waves, clouds and natural elements. Kissaki – The point of the sword. Koshirae – A term generally used to indicate the scabbard, handle and fittings. The types, lacquering and artistic decorations vary according to the intended use. Mukansa – Title conferred to exceptionally skilled forgers, meaning “master whose work is above judgment”. Nakago – It is the tang, i.e. the butt of the blade. The nakago is not tempered and normally carries the engraved signature (mei) of the forging master and sometimes the date. Saya or Shirasaya (with Sayagaki) – It is the simple scabbard, neither decorated nor lacquered, made of seasoned magnolia wood, used to keep and preserve the blade from humidity. The sayagaki is an appraisal written in calligraphy on the blade. Tatara – It is the smelter used for making sword steel. The melting process goes on for three consecutive days during which ferrous sand and charcoal are placed into the tatara. Tsuba – It is the metal sword guard mounted on the koshirae. Besides protecting the hand, it also fulfils a decorative function. Tsuka – It is the handle of the koshirae. It is covered with simple same (skin from belly of giant ray) or wrapped in silk and cotton thongs in order to improve grip and prevent slipping due to blood or sweat. Yakiire – It is the hardening process whereby the white-hot blade is quickly cooled in water. By so doing, a physical-chemical process is started that transforms and hardens the steel molecules. The blade acquires strength and becomes suitable for cutting. 41 42 Il kimono, storia di un’icona culturale di Alessandra Scalvini Dietro il termine kimono (letteralmente “cosa da indossare”, da ki “indossare” e mono “cosa”) si nasconde la storia, il patrimonio di conoscenze e la cultura del vestire di un popolo, tanto da non poter essere considerato solo un semplice indumento, ma uno dei maggiori simboli culturali del Giappone. Il kimono è una veste a forma di “T” realizzata da un unico rotolo di stoffa lungo circa 12 m e largo 40 cm, dal quale si ricavano diverse strisce, che saranno poi cucite assieme: due più lunghe che coprono verticalmente il corpo, passando sopra le spalle; due liste per le maniche; una piccola lista per il colletto e due strisce di metà larghezza che vanno a formare i risvolti frontali. Il kimono si indossa portando il lembo sinistro sopra quello destro (viceversa solo per vestire i defunti), aggiungendo una cintura (obi) che viene avvolta più volte intorno alla vita prima di essere annodata a fiocco sulla schiena. A differenza del kimono maschile, quello femminile non ha taglie, il tessuto in eccesso deve essere sapientemente rimboccato al di sotto dell’obi, in modo che la veste raggiunga l’altezza delle caviglie, considerata la giusta lunghezza. Il kimono rispecchiava perfettamente quelle che erano anche le esigenze socio-culturali secondo cui, quando si entra in casa, è opportuno togliersi le scarpe e sedersi, a gambe incrociate gli uomini e in ginocchio le donne, sul tatami, luogo deputato anche al riposo e alla consumazione dei pasti. Il kimono, facile da pulire poiché si lavavano le varie strisce di stoffa scucendole e poi imbastendole nuovamente insieme, si prestava bene a tali movimenti ed era facile da sistemare una volta tornati in piedi. Il kimono non valorizza particolarmente le forme femminili, la biancheria da indossare deve schiacciare il corpo e conferirgli una forma il più cilindrica possibile, anche grazie ad alcune imbottiture utilizzate per permettere alla stoffa di restare dritta e tesa. La sensualità della donna deve imporsi nell’eleganza e nell’armonia dei suoi gesti, nel fascino del celato, ecco perché nei kimono molta attenzione è riservata anche alla parte interna, che solo le persone a lei più vicine potranno vedere e apprezzare, così come l’animo stesso della donna. Per la scelta del kimono da indossare scendono in campo diversi fattori: l’occasione d’uso e il grado di formalità dell’evento, la stagione, l’età e lo stato civile della donna. A seconda dell’importanza dell’avvenimento al quale si deve partecipare, verrà scelto un certo tipo di kimono con determinate caratteristiche; la lunghezza delle maniche, ad esempio, indica chiaramente se una donna è sposata o meno: le giovani ragazze nubili avranno delle lunghissime maniche, con cui richiamare l’attenzione degli uomini, le donne maritate porteranno invece maniche più corte. I colori e i disegni delle vesti vanno scelti in base al periodo dell’anno, i motivi e le colorazioni devono infatti evocare mesi e stagioni. I kimono maschili sono più semplici, quello più formale è completamente nero ed è reso più solenne dall’aggiunta dell’hakama (una specie di gonna-pantalone molto lunga) e dell’haori e dalla presenza di 5 kamon. La Cina, nel VII secolo, influenzò non solo la vita politica del Giappone, ma anche il suo abbigliamento. Furono adottati due tipi di vesti caratteristiche della Corte cinese: il kimono si è evoluto da una di esse, chiamata tarikubi (“collo sovrapposto sul davanti”) che, nel periodo Heian (794–1185), si trasformò in un abito specifico dell’isola nipponica, il jūnihitoe (“dodici vesti sfoderate”). Le donne di Corte usavano indossare fino a 12 vesti, una sopra l’altra, infilate poi nell’hakama. Sotto a tutto ciò portavano una sorta di sottoveste detta kosode (“manica piccola”). Durante il periodo Kamakura (1185–1333), la creazione dello shogunato portò a una semplificazione dell’abbigliamento che condusse all’utilizzo come capo esterno del semplice kosode, considerato l’indumento principale, sia maschile che femminile, anche nel corso del periodo Edo (1615–1868). La sempre maggiore richiesta di kosode in seta portò alla creazione di veri e propri cataloghi con i modelli delle decorazioni. Lo studio di queste pubblicazioni mostra l’esistenza di diversi stili nell’ambito dei kosode: ad esempio nell’era Keichō (1596–1615) usavano composizioni geometriche con colori forti, mentre nell’era Kanbun (1661–1673) le decorazioni erano più semplici ma più grandi. Nel 1682 e nel 1683 furono emanate delle leggi suntuarie per frenare lo sfarzo con cui la classe mercantile si vestiva, leggi che comunque furono subito raggirate. A fine XVII secolo la decorazione del kosode si concentrò solo sulla metà inferiore, mentre nella II metà del Settecento molto spesso si trovavano dei motivi di piccoli dimensioni solo sul bordo inferiore della veste. Le riforme Tenpō, tra il 1841 e il 1843, imposero una drastica riduzione di beni di lusso per i mercanti, che elusero tali imposizioni indossando dei preziosi sottokimono sotto a dei sobri kimono. La bellezza e la ricercatezza di questi particolari potevano essere scoperte solo da persone che avevano una certa intimità con il soggetto che li indossava, questa tendenza divenne una vera e propria moda nominata iki (“eleganza sobria”). 43 Nel 1854 il Giappone fu costretto ad aprirsi all’Occidente; durante il periodo Meiji (1868–1912) il governo si adoperò per la modernizzazione e l’occidentalizzazione del paese. Artigiani e artisti giapponesi furono mandati in Europa per apprendere le tecniche più moderne riguardanti le attrezzature e i materiali tessili e per studiare le tinture chimiche, visto che il Giappone era ancora vincolato alle tinture vegetali. Questo avvicinamento all’Occidente portò dei cambiamenti anche nell’abbigliamento: prima gli uomini, poi le geisha, infine le donne in generale, iniziarono ad indossare abiti occidentali, seppure con qualche adattamento. In questo periodo il termine kosode fu sostituito dal termine più generico kimono, che sostanzialmente indicava lo stesso oggetto con delle differenze riguardanti solo le maniche: il kimono aveva un’apertura del giromanica più grande e le maniche staccate dalla veste, mentre nel kosode erano unite al corpo dell’indumento. Le donne continuarono a portare il kimono, ma va sottolineato che le correnti artistiche occidentali influenzarono i motivi tradizionali nipponici. L’inizio del Novecento vide la nascita di un nuovo tipo di donna, giovane e indipendente, lavoratrice, con una certa disponibilità economica: i kimono più apprezzati furono quelli informali, dai colori sgargianti e motivi vivaci, acquistabili a prezzi contenuti. Negli anni Dieci si diffuse lo stile detto taishō roman che presenta disegni fantasiosi e dinamici che si rifacevano alla natura. 44 I motivi decorativi dei kimono, durante i periodi Taishō (1912–1926) e inzio Shōwa (1926–1989), risentirono dell’influenza prima dell’art nouveau e poi dell’art déco; questo tipo di vesti furono considerate come un sinonimo di modernità e di stile ricercato, pur rivelando ancora un’anima giapponese. La modernizzazione nipponica nel campo dell’abbigliamento si vide anche attraverso i disegni simbolo della modernità (grattacieli, automobili, aerei, treni e scene di guerra) sui sottokimono e sulle fodere degli haori maschili e anche, alcune volte, sui kimono da bambini. Il Giappone si ritrovò in ginocchio dopo la pesante sconfitta della Guerra del Pacifico. Dopo il 1945, il kimono fu visto per molto tempo come emblema dell’ultranazionalismo del paese; i giapponesi volevano invece lasciarsi alle spalle questo difficile passato e, dal punto di vista dell’abbigliamento, la questione fu facilitata non solo dall’occidentalizzazione del vestiario, ma anche dall’importazione dall’America di cotone e dall’introduzione della macchina da cucire e dei cartamodelli. Oggi molte giapponesi continuano ad amare lo stile occidentale, tuttavia il kimono resta ancora molto usato sia grazie alla promozione di kimono più semplici, pratici e economici; sia per la moda, sviluppatasi tra le giovani, di ricercare kimono vintage; sia per le feste in cui, come da tradizione, alla donna è richiesto di indossare il kimono. The Kimono, history of a cultural icon by Alessandra Scalvini The term kimono (which literally means “thing to wear”, from ki “wear” and mono “thing”) unfolds the story, the heritage and the clothing culture of a people, so much so that it cannot be considered as a mere garment, but one of the most important cultural symbols of Japan. The kimono is a T-shaped robe made from a single bolt of fabric, about 12 m (13 yd) long and 40 cm (15 in) wide. The finished kimono consists of several strips of fabric sewn together: two longer panels covering the body lengthwise, passing over the shoulders; two panels forming the sleeves; a smaller strip for the collar and two half-width strips for the narrow front panels. The kimono is worn with the left side over the right (the other way round when dressing the dead for burial), adding a sash (obi) which is wrapped around the waist and then tied at the back in a bow. Unlike the male garment, the female kimono is one size. The exceeding fabric must be skilfully rolled up behind the obi, so that the robe reaches down to the ankles, which is considered the appropriate length. The kimono perfectly met the sociocultural requirements whereby, when going indoors, people were supposed to take off their shoes and sit cross-legged (the men) or on their knees (the women) on the tatami, which was also the place for rest and meals. The kimono was easily washed as separate panels, which were then sewn again, and it was very convenient for those kinds of movements. It was also easy to tidy the kimono up when the person was standing again. The kimono does not make the most of the female form; the underwear is supposed to flatten the body and give it a cylindrical shape with the additional aid of waddings used to keep the fabric straight and stretched. Femininity depends on elegance, on the harmony of gestures, on the appeal of what cannot be seen. This is the reason why the inner parts of the kimono are also very accurate: only the people that are closest to her can see and appreciate them, like the soul itself of the woman. The choice of which type of kimono to wear depends on a number of factors: the intended use, the formal or informal nature of the event, the season, the age and the marital status of the woman. Depending on the importance of the event to be attended, a different kimono will be chosen. The length of the sleeves, for instance, is a clear indication of whether a woman is married or not: young, unmarried girls will wear extremely long sleeves, in order to attract men, whereas married women will wear shorter sleeves. The colours and patterns of these traditional garments are normally chosen according to the period of the year, since motifs and tones are supposed to recall months and seasons. Male kimono are simpler. The most formal one is full black and made more solemn by adding the hakama (a sort of very long divided skirt), the haori and 5 kamon. During the course of the 7th century, China influenced not only the political life of Japan but also its clothing tradition. Two typical robes of the Chinese court were adopted: the kimono is an evolution of one of these, called a tarikubi (“overlapping neckline”) which, during the Heian period (794–1185), evolved into a specific garment of the Japanese island, i.e. the jūnihitoe (“twelve-layer robe”). The court ladies in Japan used to wear up to 12 robes, one on top of the other, which were then covered with the hakama. Beneath all this, they wore a sort of undergarment called a kosode (“small sleeve”). During the Kamakura period (1185–1333), the establishment of the shogunate led to a simplification in clothing: the kasode became the outer garment and the main outfit for both men and women, also during the Edo period (1615–1868). The ever increasing demand for silk kosode led to the creation of proper catalogues with decoration patterns. The study of these publications shows the existence of different styles of kosode: for instance, during the Keichō period (1596–1615) people preferred geometric compositions in strong colours, whereas during the Kanbun period (1661–1673) decorations were simpler but larger. In 1682 and 1683 sumptuary laws were enacted to put a stop to the conspicuous outfits of the merchant class, but such restrictions were pretty much ignored. At the end of the 17th century, the kosode was decorated only in its lower part, while in the second half of the 18th century small patterns could be found only on the lower hem of the garment. The Tenpō reforms, between 1841 and 1843, imposed a drastic reduction on luxury items for merchants, who circumvented the rule by wearing precious under-kimono beneath simple kimono. The beauty and refinement of these details could only be noticed by people who were on intimate terms with the person wearing them. This trend became a real fashion called iki (“sober stylishness”). In 1854 Japan was forced to open out to the West. During the Meiji period (1868–1912), the government started a programme of modernization and westernization of the country. Japanese craftsmen and artists were sent to Europe in order to learn new techniques in the field of textile 45 equipment and materials and to study chemical dyes, since Japan was still using vegetable dyes. The opening of Japan to the West also introduced changes in clothing. The men first, then the geisha and later women in general started to wear Western clothes, although with a number of slight adaptations. In this period, the term kosode was replaced by the more generic word kimono, which indicated the same item, only with a few differences in the sleeves: the kimono had a larger armhole and the sleeves were detached from the garment, whereas in the kosode they were sewn onto the robe. Women continued to wear the kimono, but Western artistic currents started to influence traditional Japanese motifs. At the beginning of the 20th century, a new type of woman began to appear: a young, independent working person, with quite some money at her disposal: informal kimono were much appreciated, in bright colours and patterns, and they could be bought at reasonable prices. In the 1910s the so-called taishō roman style became popular, with its dynamic, fanciful patterns inspired by nature. The decorative patterns of kimono, during the Taishō 46 (1912–1926) and early Shōwa (1926–1989) periods, were influenced first by art nouveau and later by art déco; these models epitomized modernity and refinement, but still had a Japanese soul. Japanese modernization in clothing was also evident through the new patterns inspired by the symbols of modernity (skyscrapers, cars, aeroplanes, trains and military designs) on under-kimono, on the linings of male haori and, sometimes, also on children’s kimono. Following the crushing defeat in the Pacific War, Japan was brought to its feet. After 1945, the kimono was considered as the emblem of ultra-nationalism. But the Japanese wanted to leave the past behind and, as far as clothing was concerned, things were made quite easy not only by the westernization of fashion but also by the imports of cotton from America and the introduction of sewing machines and paper patterns. Many Japanese women still love Western fashion, but the kimono continues to be very widely used owing to the large supply of simpler, cheaper and more practical kimono, to the interest of young women in vintage kimono and to the tradition of wearing this traditional garment on special occasions. Uchikake (kimono per sposa), periodo Showa, misure cm 133x200. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. É indossato aperto, senza obi, sopra ad un’altra veste chiamata kakeshita. Decorato con motivi beneauguranti in ricami policromi e fili d’oro. 47 Kimono estivo da donna, periodo tardo Meiji (1900-1920), misure cm 117x159. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Tecnica yuzen (il disegno è creato tracciando delle linee in pasta di riso. Asciutta la pasta si applicano i 48 colori sul tessuto, la pasta poi viene lavata via e al suo posto restano delle sottilissime linee bianche) con applicazioni di fili d’oro e d’argento. Seta sha (seta a trama larga, leggera e trasparente, molto adatta ai kimono estivi). Nagajuban (sottokimono da donna), periodo Showa, misure cm 128x141. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Tecnica shibori (la seta viene costellata di piccolissimi nodi, poi viene tinta. Una volta che i fili della legatura saranno stati tolti, e la pressione che essi avranno esercitato sulla stoffa avrà causato dei piccolissimi rialzamenti del tessuto, apparirà il motivo decorativo). 49 Kimono da bambino, periodo inizio Showa (anni ’30), misure cm 82x94. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Il kimono è realizzato in seta dipinta a mano con applicazioni e decorazioni in fili d’oro. 50 Furisode (kimono formale da donna nubile), periodo Showa (circa anni ’50), misure cm 126x157. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Tecnica yuzen (il disegno è creato tracciando delle linee in pasta di riso. Asciutta la pasta si applicano i colori sul tessuto, la pasta poi viene lavata via e al suo posto restano delle sottilissime linee bianche) con applicazioni di fili d’oro. Il furisode è realizzato in seta rinzu (seta ottenuta tramite una tessitura molto complessa, è tra le più costose). 51 Kurotomesode (kimono formale da donna sposata) con 5 kamon, periodo Showa, misure cm 128x162. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Tecnica yuzen (il disegno è creato tracciando delle linee in pasta di riso. Asciutta la pasta si applicano i 52 colori sul tessuto, la pasta poi viene lavata via e al suo posto restano delle sottilissime linee bianche) con applicazioni di fili d’oro. Il kimono è realizzato in seta chirimen (ha una superficie leggermente ruvida, ottenuta attorcigliando i fili durante la tessitura). Particolare del Kurotomesode (kimono formale da donna sposata) con 5 kamon, periodo Showa, misure cm 128x162. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. 53 Nagajuban (sottokimono da donna), periodo inizio Showa (circa 1930), misure cm 124x135. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Tecnica yuzen su seta (il disegno è creato tracciando delle linee in pasta di riso. Asciutta la pasta si applicano i colori sul tessuto, la pasta poi viene lavata via e al suo posto restano delle sottilissime linee bianche). 54 Nagajuban (sottokimono da donna), periodo Meiji (fine ‘800), misure cm 127x131. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Il sottokimono da donna è realizzato in seta chirimen (ha una superficie leggermente ruvida, ottenuta attorcigliando i fili durante la tessitura). Nagajuban (sottokimono da uomo), periodo Showa (anni ’50), misure cm 132x137. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Il sottokimono è un modello realizzato in seta e dipinto a mano. 55 Kimono da donna, periodo inzio Showa (circa 1930), misure cm 125x148. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Seta meisen (la seta prodotta con questa tecnica si ottiene dalla tessitura di fili pre-colorati che, a causa dell’impossibilità di essere allineati regolarmente, creano motivi morbidi e brillanti). 56 Haori da uomo, periodo Showa (anni ’40), misure cm 132x85. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. L’Haori è realizzato in seta e dipinto a mano nella fodera interna. Kimono da bambina, periodo Showa, misure cm 90x97. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Seta dipinta a mano con applicazioni di fili d’oro. 57 58 Maru obi, periodo Taishō, misure cm 32x410. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Fukuro obi, periodo Showa (anni ’50), misure circa cm 31x406. Antichi Kimono di Gloria Gobbi. Estremamente formale, usato dalle geisha e dalle spose, è molto complicato da indossare. In broccato di seta con raffigurazioni di gru. In broccato di seta sul davanti e tessuto a tinta unita più economico sul retro. Tigre con cucciolo. Netsuke in avorio, occhi intarsiati in corno nero. Tomotada, scuola di Kyōto. XVIII secolo. Altezza: cm 3,8. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Firmato “Tomotada” entro riserva rettangolare. Potente netsuke raffigurante una tigre che protegge il proprio cucciolo. Seduta sulle quattro zampe in una complessa posizione con quelle anteriori incrociate, la tigre ruota la testa alla propria destra e sovrasta completamente il piccolo, ritratto con espressione rilassata mentre si gratta il muso. Il pelo è inciso con tratti delicati e la patina è molto forte, con un contrasto netto tra il fronte, più bianco, e il retro del netsuke, di colore molto più scuro. Il lungo himotoshi, come d’uso per Tomotada, parte da sotto la coda e termina a metà del tronco dell’animale. Sarumawashi. Netsuke in avorio. Attribuito a Insai; scuola di Ōsaka. XVIII secolo. Altezza: cm 8,3. Giuseppe Piva – Arte giapponese. L’ammaestratore di scimmie ritratto in piedi e sorridente, con un abito dalle ampie maniche, un largo copricapo, il fagotto legato attorno alle spalle, una canna di bambù nella mano sinistra, il cesto per il cibo dell’animale appeso alla cinta e una piccola scimmia sulla spalla che gioca con il suo cappello. Le origini degli spettacoli con scimmie sono da cercarsi nella credenza popolare che i macachi avessero dei poteri curativi e queste performance facevano parte di rituali religiosi. Il primo spettacolo di tipo prevalentemente profano di cui si abbia notizia fu organizzato nel 1245 e da allora questo tipo d’intrattenimento conobbe una crescente fortuna. Anche oggi è possibile incontrare artisti da strada con le loro scimmie ammaestrate. Il netsuke è di qualità elevata ed è possibile azzardare un’ attribuzione ad Insai, un netsukeshi di Osaka. Sebbene Insai non ci abbia lasciato opere firmate, egli è descritto come abile intagliatore di avorio esperto nelle figure di sarumawashi. 59 Serpente arrotolato. Netsuke in legno di bosso, occhi intarsiati in corno nero. Tanri. Inizio del XIX secolo. Lunghezza: cm 6. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Firmato “Tanri” entro riserva ovale. Lumaca. Netsuke in legno di ciliegio. Tadatoshi, scuola di Nagoya. Inizio del XIX secolo. Lunghezza: cm 4. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Firmato “Tadatoshi” con caratteri in rilievo entro riserva rettangolare. La lumaca è patinata in un marrone rossastro che la fa risaltare sul guscio più chiaro sul quale è appoggiata; il guscio è decorato con lo stesso colore solamente sul perimetro esterno con una fascia orizzontale. Gli himotoshi naturali sono formati dal corpo e dal lato inferiore della conchiglia. Tadatoshi è uno dei primi allievi di Tametaka, fondatore della scuola di Nagoya. Negli anni della maturità creò un proprio stile personale e produsse, come in questo caso, opere finissime e molto dettagliate. Topolino con grande castagna. Netsuke in legno, occhi intarsiati in unimatsu. Scuola di Kyōto. XVIII secolo. Lunghezza: cm 3,8. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Il netsuke è intagliato in legno di bosso ed è databile alla fine del XVIII secolo. Il topo è ritratto mentre trattiene tra le zampe una grossa castagna. La forma compatta e la resa della superficie donano all’opera una certa potenza e un ottimo senso tattile. Pera con vespa. Netsuke in legno, occhi intarsiati in corno nero. Sangetsu. XIX secolo. Altezza: cm 5. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Firmato “Sangetsu” entro riserva irregolare. Esemplare di netsuke raffigurante una vespa che si ciba della polpa di una pera marcita. Sangetsu è il più famoso tra il gruppo dei cinque cosiddetti “wasp carvers” e questo esemplare spicca sugli altri conosciuti per le grandi dimensioni e soprattutto per la resa degli himotoshi: se difatti in genere Sangetsu si limita ad utilizzare gli usuali due fori tondi, in questo caso ha proseguito con il tema della “pera marcia” intagliando in maniera naturalistica il frutto sul retro fino a creare il passaggio per la corda del sagemono. La tecnica ukibori consiste nel lasciare il decoro in rilievo rimuovendo il materiale attorno ad esso. Cervo accucciato. Netsuke in legno, occhi intarsiati in corno nero. Ransen, scuola di Osaka. XIX secolo. Lunghezza: cm 4,5. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Firmato “Ransen” entro riserva ovale. Il cervo è raffigurato disteso, con la testa alzata e voltata verso la propria sinistra e le zampe ripiegate sotto il corpo per formare degli himotoshi naturali. Shishi. Netsuke in avorio, occhi intarsiati in corno. Scuola di Kyōto. Fine del XVIII - Inizio del XIX secolo. Lunghezza: cm 4,4. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Shishi, il mitico leone cinese che si pensava avesse poteri di protezione, è raffigurato accucciato mentre si gratta un orecchio con una zampa posteriore, formando così una composizione compatta e solida. L’animale è intagliato con linee pulite e decise; le proporzioni perfette possono suggerire una attribuzione a Okatomo, anche in relazione ad un netsuke dello stesso raro soggetto conservato al Los Angeles County Museum of Art. 60 Daikon e topolini. Netsuke in avorio. Scuola di Kyōto. Inizio del XIX secolo. Lunghezza: cm 6,4. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Raro netsuke in avorio raffigurante due topolini su un frutto di daikon. Sebbene la raffigurazione di topolini intenti a sgranocchiare un daikon sia tipica, benché rara, nell’iconografia giapponese, il soggetto in realtà è qui di tipo shunga, ovvero erotico, alludendo con il daikon ad un corpo femminile. Cavallo al pascolo. Netsuke in avorio, occhi intarsiati in corno nero. Scuola di Kyōto. XVIII secolo. Altezza: cm 6. Giuseppe Piva – Arte giapponese. Bel modello di cavallo tipico della scuola di Kyōto, raffigurato con la zampa anteriore sinistra leggermente sollevata; i dettagli finemente incisi. Il cavallo al pascolo è uno dei soggetti preferiti dei netsukeshi del XVIII secolo. È stato suggerito che la forma arrotondata del corpo, spesso lasciata quasi stilizzata, si riferisca alla testa dell’immortale Fukurokuju e sia quindi di buon auspicio per una lunga vita. Questo netsuke è intagliato su un grande pezzo di avorio, le cui qualità tattili si rivelano riempiendo appieno il palmo di chi lo impugna. 61 GLOSSARIO KIMONO Kimono da donna: si dividono in varie tipologie, tra le quali: Women’s kimono. There are various styles of kimono, including: Kurotomesode: per le donne sposate, la veste più formale di tutte. Completamente nero con decorazioni solo nella parte inferiore. Solitamente presenta 5 kamon dipinti su schiena, maniche, e petto. Creato nell’epoca Meiji. Furisode: è la veste formale per le donne nubili. Interamente decorato. Con maniche molto lunghe (dai 75 ai 114 cm). Si è sviluppato durante il periodo Edo. Uchikake: per le spose. È indossato aperto, senza obi, sopra ad un’altra veste. Solitamente in broccato pesante, presenta motivi di buon auspicio e il bordo tocca fino a terra. Kurotomesode: this is the most formal kimono for married women. All black, it is patterned only below the waistline. Usually it has 5 kamon painted on the sleeves, chest and back. It was created during the Meiji period. Furisode: it is the formal robe for unmarried women. Entirely decorated, with very long sleeves (from 75 to 114 cm), it developed during the Edo period. Uchikake: for brides. It is worn outside another robe, without obi. It is normally heavily brocaded and decorated with congratulatory patterns. It is padded along the hem and trails along the floor. Nagajuban: paragonabile ad una sottoveste, sia da uomo che da donna, si indossa sotto il kimono. L’unica parte visibile è il colletto, spesso removibile, per facilitare il lavaggio e la sostituzione. Poiché i kimono maschili sono particolarmente sobri, il nagajuban permette anche agli uomini di indossare fantasie più vivaci. Haori: è un soprabito, lungo al massimo fino alla coscia, che serve a rendere più formale il kimono maschile. Solitamente è nero e nell’interno sono dipinte scene di vita quotidiana o paesaggi giapponesi. Per chiudere l’haori si usa un cordone con due nappe. Inizialmente utilizzato solo dagli uomini, furono le geisha nel periodo Meiji ad estenderne l’uso anche alle donne. Obi: è una cintura che va stretta intorno al kimono. Quello delle donne è particolarmente lungo e largo e riccamente decorato, mentre quello per gli uomini è più stretto e più semplice. Fu durante il periodo Edo che si iniziò ad annodarlo sulla schiena, anziché sul davanti. Esistono vari tipi di obi, tra cui: Nagajuban: similar to a petticoat, used both by men and women, it is worn beneath the kimono. The only visible part is the collar edge. Collars are often removable, to allow them to be washed and changed. Since men’s kimono are often subdued in colour and pattern, the nagajuban allows men to wear more lively designs. Haori: it is a sort of overcoat, sitting at thigh length, which adds formality to the male kimono. Generally it is black. Linings, however, are colourful and feature everyday life scenes or Japanese landscapes. It is fastened with a tasselled, woven string. Initially it was worn only by men. During the Meiji period, the geisha extended its use to women. Obi: it is the sash worn with the kimono. The obi used by women is particularly long and wide, as well as richly decorated. The men’s obi is narrower and simpler. During the Edo period the custom developed to tie the obi in the back, instead of in the front. There are various types of obi, including: Maru obi: estremamente formale, usato dalle geisha e dalle spose; alto circa 33 cm e lungo 420 cm, è molto complicato da indossare. Fukuro obi: meno formale del maru obi, è largo indicativamente 30 cm e lungo 420 cm; di solito presenta due diversi tessuti, un broccato sul davanti e una stoffa più economica sul retro, spesso a tinta unita. Maru obi: it is the most formal obi, used by geishas and brides; about 33 cm wide and 420 cm long, it is very difficult to wear. Fukuro obi: less formal than the maru obi, it is approximately 30 cm wide and 420 cm long; normally it is made sewing two pieces of cloth together, brocade on the front and a cheaper, plain fabric on the back. Kamon: stemma di famiglia. Solitamente consiste in un disegno geometrico o nella stilizzazione di una pianta, un animale o un oggetto all’interno di un cerchio. Vengono rappresentati sul kimono per dargli solennità. Netsuke: sculture di dimensioni ridotte, di solito in avorio o in legno, avevano due fori (himotoshi) attraverso cui passava una cordicella, a cui erano attaccati gli inrō (delle scatolette a scomparti, con cui si sopperiva all’assenza di tasche nei kimono), fissata a sua volta all’obi. Affinché gli inrō non scivolassero via, dalla parte opposta del cordoncino era collocato il netsuke. 62 Kimono Glossary Kamon: a family crest. Normally it consists of a geometric shape or the stylization of a plant, an animal or an object within a circle. It adds formality to the kimono. Netsuke: they are miniature sculptures, made of ivory or wood, with two holes (himotoshi). A cord was laced through these holes to hold the inrō (a stack of nested boxes which made up for the lack of pockets in the kimono). The inrō was hanging from the obi. In order to prevent the inrō from sliding down, the ends of the cord were secured to the netsuke. Aironi in un canneto. Coppia di paraventi a sei ante. Scuola Rimpa. Metà del periodo Edo (1615-1867). Inchiostro, pigmenti e gofun su fondo d’oro; cm 346x125. Giuseppe Piva - Arte giapponese. L’airone bianco è considerato in Giappone, e in Oriente in genere, un animale nobile e quasi sacro, dotato di una grazia innata e simbolo di longevità. In questa coppia di paraventi il soggetto è trattato con estrema esemplificazione delle forme e con l’utilizzo di colori brillanti, secondo i canoni estetici della scuola Rinpa. Il fondo oro è quindi lasciato completamente piatto, così come il blu profondo e smagliante dell’acqua è scandito solamente da alcune bianche increspature sulla superficie. Un maggiore naturalismo è stato invece utilizzato per la resa delle canne che ospitano gli animali e le foglie assumono diverse tonalità del verde e del marrone. Le canne e gli aironi si muovono in ogni direzione e il fascino di questi paraventi sta proprio nel contrasto tra la piatta tranquillità dello sfondo e il vivo movimento di piante e animali che riempiono la scena. Il termine “Rinpa” deriva dal carattere pa (scuola) e dalla seconda sillaba del nome “Kōrin”: Ogata Kōrin (16581716) non fu il creatore di questo stile, che deve la sua origine invece a Hon-ami Kōetsu e Tawaraya Sotatsu, ma ne fu il maggiore diffusore. I modelli estetici di Ogata Kōrin influenzarono intere generazioni di artisti fino all’epoca moderna. 63 64 Paesaggio con piante di banane e peonie. Paravento a sei ante. Yano Sessō (1714-1777). Metà del periodo Edo (1615-1867). Inchiostro, pigmenti e gofun su fondo d’oro; cm 380x181. Giuseppe Piva – Arte giapponese. L’opera è firmata Hōkyō Sessō Hitsub e riporta i sigilli dell’artista. Avendo lavorato per i samurai della famiglia Hosokawa, le opere di pittori della scuola Yano sono conservate all’Eisei-Bunko. 65 66 Ukiyo-e: immagini del mondo fluttuante di Giancarlo Mariani Con la battaglia di Sekigahara (1600), Tokugawa Ieyasu riuscì a unificare il Giappone nelle mani della sua famiglia. La città promossa a sede dello shōgun Tokugawa fu un villaggio di pescatori, Edo, presso il quale fu costruito un grande castello. Questo fu l’inizio di un lungo periodo senza guerre civili e conflitti religiosi, durante il quale la popolazione di Edo si moltiplicò, fino a formare, nel XVIII secolo, la prima metropoli con oltre un milione di abitanti. I cittadini di Edo, i chōnin, erano un gruppo eterogeneo di mercanti e artigiani (ma anche viveur, cortigiane, attori e via dicendo) dotato di energia, intraprendenza e voglia di vivere, caratteristiche che spesso mettevano a repentaglio l’ordine shogunale. Scarsamente riconosciuta nel sistema a caste del bakufu, nel quale il più ricco dei mercanti era pur sempre considerato meno del più misero dei samurai, questa classe, paragonata spesso alla borghesia occidentale dei secoli XVIII e XIX, si dedicò alla ricerca del bello e del lussuoso, oltre che al tentativo di un’elevazione sociale almeno simbolica, ispirandosi in questo alla corte imperiale, alla nobiltà e a una Cina antica, direttamente sconosciuta ai più. I cittadini di Edo si appropriarono del termine buddhista ukiyo, che allora era usato per definire il mondo degli uomini dove tutto è fugace, con la connotazione negativa di “illusorio” e “deludente”: uki è il sughero che fluttua nell’acqua senza pace e yo è la società umana. Fecero di questo termine una bandiera in cui il bicchiere non veniva visto mezzo vuoto ma mezzo pieno, nel quale il fiore di ciliegio, per i samurai emblema di bellezza e caducità insieme, veniva golosamente assaporato con tutti i sensi. Si coltivava il bello e il raffinato in tutte le sue possibilità, non solo negli oggetti ma anche nella letteratura, nel teatro, nello sport e nella sensualità. Si dovevano trovare i mezzi per portare ai cittadini questa filosofia di vita non elitaria. La stampa, attraverso l’incisione di matrici in legno, fu uno dei mezzi più importanti per diffondere lo spirito ukiyo (la “e” che vi viene aggiunta significa “pittura”, “immagine”). L’uso della xilografia per riprodurre immagini era di derivazione cinese e, fino a quel momento, era stata usata quasi esclusivamente nei templi buddhisti per immagini e testi sacri. Dalla seconda meta del ‘600, si fece ricorso alla xilografia per produrre romanzi popolari illustrati e di seguito stampe singole. Il tutto era impresso solo con inchiostro nero (sumizuri-e): in alcuni casi si procedeva con una colorazione a mano. Progressivamente aumentarono la qualità e la grandezza della carta e, attorno al 1740, apparvero con continuità incisioni arricchite con matrici colorate. Finalmente, nel 1765, comparirono stampe in piena policromia (nishiki-e), le stampe broccato, con un’ampia gamma di colori ed effetti. La xilografia giapponese non era una produzione individuale, ma il risultato della collaborazione di molte persone. Come punto di partenza c’era l’editore, colui che individuava un’esigenza di mercato e realizzava il prodotto tenendo assieme le varie professionalità e investendoci denaro. L’editore prendeva contatto con il pittore a cui dava indicazioni su cosa disegnare. Avuti i disegni, realizzati su carta molto sottile, andava nella bottega dell’incisore e qui veniva preparata la prima matrice, incollando il disegno su tavole di ciliegio e scontornando i segni. Successivamente venivano stampati alcuni fogli di prova su cui erano indicati i colori e che servivano per preparare le matrici per le parti in colore. La stampa giapponese viene realizzata ponendo il foglio sopra alla matrice inchiostrata a pennello, con incisi i riferimenti per posizionare il foglio; a questo punto si strofina il foglio con il baren, un tampone a più strati. Il numero delle matrici è variabile e si può arrivare a superare la decina. È difficile valutare l’importanza del pittore nel risultato finale: a lui si devono la qualità del segno e la composizione estetica dell’immagine ma, in questa complessa sinergia, è l’editore che cura la produzione e la regia dell’operazione, fino alla distribuzione capillare del prodotto. Tornando alla cultura chōnin, per citare alcuni esempi di fonti d’ispirazione alta, si può accennare al Genji monogatari di Murasaki Shikibu, che costituiva una fonte d’ispirazione costante. I titoli dei capitoli del romanzo, codificati in simboli, erano decorazioni per kimono e oggetti di ogni tipo. Le storie del principe vennero attualizzate e parafrasate e il protagonista, grande amatore e gentiluomo, si ritrovò al centro di molte storie erotiche. L’elemento fondante della cultura ufficiale era la rigida censura dei Tokugawa, che non ammetteva riferimenti agli avvenimenti presenti e tantomeno allusioni agli shōgun. Le opere letterarie a cui si faceva riferimento erano antichi testi cinesi e giapponesi, che garantivano scarsa relazione con il presente, o monumentali raccolte di poesie come il Manyōshū, o testi di autori contemporanei legati al mondo dei chōnin: l’elevazione culturale di questi cittadini si fondava su testi di alto livello, sia letterario che estetico. Il regime shogunale si preoccupava della rottura di un ordine sociale e non poteva tollerare che le figlie dei mercanti fossero vestite in maniera più lussuosa di quelle dei samurai. Le pulsioni si dovevano esprimere in luoghi decorosi e controllati. Le cortigiane di alto grado, le oiran, erano il sogno dei cittadini comuni: belle, riccamente vestite, con profonda cultura, sostituivano le principesse imperiali e i loro nomi erano famosi come le attrici e le “veline” dei nostri giorni. Lo spirito dei cittadini di Edo era imbelle ma, a teatro e in letteratura, si appassionavano alle storie di grandi guerrieri; personaggi come Yoshitsune, Kiyomori e Benkei erano conosciutissimi. Anche la casta dei samurai, rimasta senza guerre, non restò immune dallo spirito chōnin e si dedicò ad abbellire i suoi “strumenti”. Le antiche lame furono montate con nuovi e raffinati accessori e spesso le decorazioni delle stampe ukiyo-e e quelle di questi manufatti sono le stesse. Non dobbiamo farci idee sbagliate sul periodo Edo: la vita era dura, le carestie erano ricorrenti, le cortigiane-principesse erano bambine comprate dai contadini affamati e ci si rivolgeva ai piaceri con la consapevolezza che non potevano durare. Lo spirito giapponese di allora era legato ai ritmi del ciclo naturale. Non erano arrivate le laboriose elucubrazioni del pensiero occidentale, la rivoluzione scientifica e industriale era di là da venire. Guardare a questa epoca con la nostra preparazione e sovrastruttura è fuorviante, e allora entriamo in sintonia, per un attimo fugace, con gli appartenenti a questo mondo, fluttuando assieme a loro. 67 Ukiyo-e: images of the floating world by Giancarlo Mariani After the Battle of Sekigahara (1600), Tokugawa Ieyasu unified Japan under the rule of his family. The town chosen to be the seat of power was a fishing village, Edo, where a huge castle was built. This was the beginning of a long period without civil wars or conflicts during which Edo grew to a metropolis with an estimated population of over one million by the 18th century. The citizens of Edo, called chōnin, were a mixed group of merchants and craftsmen (but also pleasure-seekers, courtesans, actors and so on) endowed with energy, resourcefulness and a strong will to live, which often jeopardized the shogunal order. Scarcely recognized in the bafuku caste system, where the richest of merchants was nevertheless considered of a lower rank compared to the lowest-ranking samurai, this class – often likened to 18th- and 19th-century Western bourgeoisie – devoted itself to the pursuit of beauty and luxury and attempted to elevate itself socially, at least symbolically, drawing inspiration from the imperial court, from nobility and from an ancient China that almost none of them knew directly. The citizens of Edo took possession of the Buddhist term ukiyo, which at that time was used to define the evanescent, impermanent world of men where everything floats, with the negative connotation of “deceptive” and “illusory”: uki is the cork that floats endlessly in water and yo is human society. This term epitomized their philosophy: you should always look at the bright side of a difficult situation, and the cherry blossom, which the samurai considered as the symbol of beauty and fragility at the same time, was to be relished in all senses. Beauty and refinement were cultivated in all aspects, not only in objects, but also in literature, theatre, sport and sensuality. It was necessary to find a way to spread this non-elite philosophy among the citizens. Print, through woodblock engraving, was one of the most important means to circulate the ukiyo spirit (the “e” added to this word means “painting”, “image”). The use of woodblock printing to reproduce images came from China and, up to that moment, it had been used almost exclusively in Buddhist temples to recreate sacred images and texts. Starting from the second half of the 17th century, woodblock printing was used to produce illustrated popular novels and then individual prints. The impression was carried out with black ink only (sumizuri-e) and, in certain cases, the images were coloured by hand. As time passed, the quality and size of paper increased and, around 1740, woodcuts enriched with colours started to appear. Finally, in 1765, multi-coloured brocade pictures (nishiki-e) became popular, with a wide range of effects. Japanese woodblock printing was not an individual production, but the result of the collaboration between several people. The starting point was the publisher, i.e. the person who identified a market requirement and produced the artefact, organizing the different professionals and investing money. The publisher got in touch with the painter and told him what to draw. Once the drawings were ready, which were made on very thin paper, the engraver prepared the first block, glueing the drawing on a plank of cherry wood. Wood was then cut away, based on the drawing outlines. Then a few test sheets of 68 paper were printed and used to indicate the colours necessary to prepare the blocks for the coloured parts. The Japanese print was produced by pressing the sheet of paper onto the inked woodblock, positioning the paper according to a few reference points. At this stage, a multi-layer hand tool called a baren was used to burnish the back of the sheet. The number of woodblocks is variable and there can be over ten of them. It is difficult to assess the importance of the painter in the final result: the quality of the stroke and the aesthetic composition of the image depend on him, but in this complex process it is the publisher who supervises the production cycle and distributes the product. As far as chōnin culture was concerned, it is worth mentioning the Genji monogatari of Murasaki Shikibu as a constant example of high inspiration. The novel’s chapter titles, coded in symbols, were used as decorations for kimonos and objects of any kind. The stories of the prince were revised in contemporary terms and paraphrased so that the protagonist, a passionate lover and a gentleman, found himself involved in a number of erotic tales. The fundamental element of the official culture was the strict censorship imposed by the Tokugawa government, which did not tolerate references to present-day events, least of all to the shōgun. The literary works that could be taken as sources of inspiration were ancient Chinese and Japanese texts that guaranteed little relation to the present time, or monumental collections of poems like the Manyōshū, or texts of contemporary authors connected to the world of the chōnin: the“cultural elevation”of these citizens was based on high-level texts, both from the literary and the aesthetic viewpoints. The shogunal regime feared the disruption of the social order and could not accept that merchants’ daughters should be dressed more sumptuously than those of the samurai. Instincts were to be satisfied in respectable, controlled places. The oiran, highranking courtesans, were the dream of the average citizen: good-looking, elegantly dressed and highly educated, they replaced imperial princesses and became celebrities, like the actresses and WAGs of our time. Edo citizens were unwarlike, but when it came to theatre and literature, they loved the stories of the great warriors of the past, such as the renowned Yoshitsune, Kiyomori and Benkei. Also the samurai, who had been left without wars to fight, became influenced by the chōnin spirit and devoted themselves to the embellishment of their “tools”. The ancient blades were mounted with new, refined accessories and, often, the decorations of ukiyo-e prints are the same as those on these artefacts. We should not develop wrong ideas about the Edo period: life was hard, famines were recurrent, the courtesans-princesses were the young daughters of impoverished peasant families and people sought pleasure in the awareness that it could not last. In those days, the Japanese spirit followed the rhythms of the natural cycle: the country had not yet been touched by the wearisome lucubrations of Western thought, and the scientific and industrial revolutions were a long way off. Looking upon this era in the light of our background and trappings could be misleading, so let’s try to be tuned in to the people belonging to this world and float with them for a brief moment. Cinque personaggi in una barca coperta durante una gita di piacere.personaggi Serie: Immagini stagioni. Sugimura 1684, Cinque in unanelle barca coperta durante Jihei, una gita di stampa colorata a mano,nelle frammento 15,2 x 16,6. Colleziopiacere. Serie: Immagini stagioni.cmSugimura Jihei, 1684, ne Giancarlo Mariani. stampa colorata a mano, frammento cm 15,2x16,6. Collezione Giancarlo Mariani. La sfera del sole che si riflette nell’acqua, suggerisce di una gitasfera di piacere, in una calda giornata. Dueuna uomini La del soleeffettuata che si riflette nell’acqua, suggerisce gita suonano a loro. Appoggiato a uno dei atdi piacere,davanti effettuata in una calda giornata. Duepilastri uominiunsuotore del teatroa kabuki specializzato in ruoli femminili nano davanti loro. Appoggiato a uno dei pilastri un (onnaattore gata) sta intonando una canzone. Il fanciullo sulla sinistra è del teatro kabuki specializzato in ruoli femminili (onnagata) distratto e forse annoiato e guarda fuori dalla barca. Questa immagine puòuna essere presaIlafanciullo emblema dello spirito ukiyo, sta intonando canzone. sulla sinistra è distratben descritto da Asai Ryōi (1612-91) nell’introduzione all’Uto e forse annoiato e guarda fuori dalla barca. Questa immakiyo del mondo fluttuante): “… vivere gine monogatari può essere (Racconti presa a emblema dello spirito ukiyo, ben solo nell’attimo cantare, bere sakè, provare piadescritto da Asaipresente… Ryōi (1612-91) nell’introduzione all’Ukiyo cere solo ad ondeggiare, come una gallegmonogatari (Racconti delessere mondosolo fluttuante): “…zucca vivere solo giante sulla presente… corrente di un fiume”.bere sakè, provare piacere nell’attimo cantare, solo ad ondeggiare, essere solo come una zucca galleggiante sulla corrente di un fiume”. 69 70 La scelta del kimono da indossare. Serie: Motivi di broccati alla moda. Utagawa Toyokuni III (Kunisada I), 1849-50 ca., xilografia policroma, trittico di oban (cm 25,5x35,3 l’uno). Collezione Giancarlo Mariani. La dama al centro sta asciugandosi davanti alla toilette; dietro di lei una candela accesa e un futon ammucchiato sugge- riscono una levata di primo mattino. A destra una donna più anziana (le sopracciglia rasate e i denti tinti di nero indicano una donna sposata e con un gusto passato) mostra due kimono appena tolti dagli incarti. Altri incarti sono a terra dietro di lei. L’atmosfera e le ricche suppellettili indicano l’interno di un palazzo di una famiglia ricca e importante. 71 La rasatura della grande fronte di Fukurokuju da parte di una ragazza. Suzuki Harunobu, 1769-70 ca., xilografia policroma, chuban tate-e (cm 21x27,5). Collezione Giancarlo Mariani. Fukurokuju, simbolo di longevità e saggezza, è uno degli shichifukujin, le sette divinità popolari portatrici di doni e buona fortuna. Le linee del disegno con cui viene dipinta la divinità sono tracciate nello stile tipico della classica scuola Kanō, mentre il resto del disegno è in stile ukiyo-e. Pitture con questo soggetto sono caratteristiche delle ōtsu-e (“pitture della citta di Otsu”), dove però il rasatore è un altro degli shichifukujin, Daikoku. Asukayama, località periferica di Edo dove erano stati piantati centinaia di ciliegi per il piacere della popolazione. Serie: Mitate Meisho Sakura Tsukushi (Vedute di luoghi famosi per la fioritura dei ciliegi). Keisai Eisen, 1830 ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 26x37,7). Collezione Giancarlo Mariani. Le prescrizioni della censura contro il lusso produssero edizioni in cui veniva impiegato un numero limitato di colori: gli aizuri-e, stampe monocrome con solo i toni del blu, oppure altre con blu, verde e rosso mattone. In questo caso, rappresentando visioni notturne, si limita la tavolozza rientrando nei parametri della censura. Il tipo di donna di Eisen non è più quello dei pittori precedenti: piccola e vitale, piena di sensualità, andava incontro ai gusti popolari. 72 La cortigiana Hanaogi, la oiran di più alto livello della casa Ogiya. Serie: Zensei matsu no yosoi jūni shi (Abbigliamento dei giovani pini nel loro splendore: 12 rami). Gosotei Toyokuni II, 1830 ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 22x36,6). Collezione Giancarlo Mariani. La Ogi-ya (“Casa del ventaglio”), aveva come cortigiana principale Hanaogi, scelta tra le ragazze più belle e dotate di preparazione culturale; le sue competenze principali erano la calligrafia, scrivere poesie e capacità di conversare. Il dragone giallo dipinto sul suo kimono era in Cina uno dei simboli della cultura, in quanto ritenuto di immensa sapienza. Nella complicata iconografia di questa serie, alle dodici immagini è associato anche un segno zodiacale, in questo caso il Topo (Ne). La geisha Kume di Shinbashi alla festa di fine anno vicino ad Asakusa. Serie: Tōkyō Jiman Jūni ka getsu (L’orgoglio di Tōkyō durante i 12 mesi). Taisho Yoshitoshi, 1880, xilografia policroma, oban tate-e (cm 25,2x37,4). Collezione Giancarlo Mariani. Una serie che continua nella tradizione di abbinare giovani e belle ragazze con i mesi, i segni zodiacali, le attività più varie. Questo esemplare è di seconda tiratura (cc. 1890): lo si evince dalla cancellazione del prezzo, che era nella piccola tabella accanto ai dati dell’editore, e da un’inchiostrazione più raffinata rispetto alla prima. Nella tabella con il prezzo era scritto “atai nijigo rin” (“costo 225 rin”). 73 74 Miyamoto Musashi sōshū hakone no sanchu… Miyamoto Musashi è assalito da un branco di lupi tra le montagne. Serie: Trittici di guerrieri (musha-e). Utagawa Kuniyoshi, 1861, xilografia policroma, trittico di oban (cm 25,2x36,7 l’uno). Collezione Giancarlo Mariani. Miyamoto Musashi (1584-1645) è un famoso rōnin, guerriero e pittore; sviluppò uno stile di combattimento che utilizzava insieme le due spade portate dai samurai: tachi e wakizashi. A 16 anni partecipò alla battaglia di Sekigahara (1600), militando nella parte che risultò sconfitta. In seguito si ritirò per un lungo periodo tra le montagne più impervie del Giappone, perfezionando il suo stile di combattimento. Il presente trittico allude a questo periodo. Musashi si difende con le due spade dall’attacco di un branco di lupi mentre il suo compagno Sekiguchi Yatarō sta fumando tranquillo seduto davanti al fuoco. Un altro esemplare di questo trittico è nella collezione di Claude Monet. 75 Il bandito Kidōmaru assale il gruppo di Raiko. Serie: Yobu Hakkei (Otto azioni guerresche). Utagawa Kuniyoshi, 1836 ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 24,9x36,4). Collezione Giancarlo Mariani. Sotto l’Imperatore Murakami (947-968 d.C.) il paese era infestato dai banditi, tra cui Kidōmaru. Raiko fu incaricato di risolvere il problema e a tale scopo formò una squadra 76 di forti guerrieri, tra cui Kintaro, il bambino rosso dalla forza erculea, ormai diventato adulto. Kidōmaru era un bandito cultore delle arti magiche, raffigurato con la pelle blu e un’espressione feroce, disegnato spesso mentre tende agguati nascondendosi sotto una pelle bovina. Qui sta sferrando il suo attacco nella brughiera di Ichihara attraversata da turbini di vento. Il monaco guerriero Negoro No Komizucha, con un lungo bastone chiodato e una naginata, corre sotto una pioggia di spade e lance. Serie: Taiheiki Yeiyuden (Storie del periodo Taiheiki). Utagawa Kuniyoshi, 1848-49 ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 24,9x36,8). Collezione Giancarlo Mariani. Il periodo Taiheiki (“Della grande pace”), nel secondo quarto del XIV secolo, nonostante il nome fu un periodo di lotte feroci tra i fedeli della famiglia imperiale e i seguaci dello shōgun della famiglia Ashikaga. Kuniyoshi in queste immagini allude a personaggi e periodi più vicini a lui, modificando i nomi per evitare la severa censura del periodo Tokugawa. Il rōnin Yukukawa Sampei Munenori taglia con la katana una lanterna a mano durante l’attacco al palazzo. Serie: Seichū Gishi den (Vera lealtà dei seguaci). Utagawa Kuniyoshi, 1847-48 ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 25x36,3). Collezione Giancarlo Mariani. Questa è la serie più famosa tra le molte eseguite da Kuniyoshi e altri autori sulla storia dei 47 rōnin (La vendetta dei fedeli vassalli). È importante notare che questi fogli appartengono alla prima tiratura, prima della numerazione della serie e della reincisione del marchio dell’editore. I fogli, anche in presenza di alcuni danni da insetti, mantengono i colori e il segno delle matrici molto freschi. 77 Yazama Jūjirō Motooki fa un segnale con il fischietto durante l’assalto al palazzo di Kira Yoshinaka. Serie: Seichū Gishi den (Vera lealtà dei seguaci). Utagawa Kuniyoshi, 1847-48 ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 25,6x36,8). Collezione Giancarlo Mariani. Ci troviamo di fronte ad una prima tiratura delle molte che ebbe questa serie. Oltre ad essere successivamente numerata, nelle ultime tirature vennero reincise nuove matrici e il tono generale risulta consunto. I testi sono di Ippitsu-an e i nomi, specie nelle rappresentazioni teatrali, vengono cambiati per ragioni di censura. Ad esempio Kira Yoshinaka diventa Kōno Moronao e tutta la storia viene romanzata con molteplici varianti. Sanada Yoichi Yoshitada e Matano Gorō Kagehisa lottano ferocemente nella battaglia di Ishibashiyama del 1180 sulle rocce in riva al mare. Serie: Musha-e (Immagini di guerrieri). Utagawa Toyokuni I, 1815 ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 25,6x37,2). Collezione Giancarlo Mariani. Matano Gorō Kagehisa, guerriero e lottatore del clan Taira, è spesso rappresentato, oltre che nello scontro con Sanada, anche nell’incontro di sumo con Kawazu Saburō Sukeyasu. Nel MFA di Boston, rilegata assieme ad altre immagini di guerrieri, c’è un altro esemplare senza il blu di Prussia e senza kiwame e marchio editore. Nel nostro caso, una rottura sull’ideogramma “Go”, la presenza del blu di Prussia (apparso alla fine degli anni ‘20) e la presenza del marchio di Sanoya-Kihei, attesta al 1830 la tiratura. 78 Una bella donna vista di spalle. Keisai Eisen, 1840 ca., xilografia policroma montata a kakejiku, kakemono-e (cm 31x146). Collezione Giancarlo Mariani. Le donne di Eisen non hanno nulla in comune con quelle disegnate dai suoi predecessori, che spesso raffiguravano tipologie idealizzate e poco riscontrabili nelle donne giapponesi. Eisen si libera della sudditanza verso modelli ideali e raffigura donne che ognuno poteva incontrare per strada. Il kimono è disegnato con pipistrelli: in Cina il pipistrello aveva un significato beneaugurante, di fortuna e prosperità. Le cinque benedizioni tradizionali (Wu fu) sono raffigurate con 5 pipistrelli. Una ragazza incede verso sinistra, portando sotto il braccio destro un involto con sopra dipinto il mokkō hon, simbolo della scuola di canto Tokiwazu. Kikugawa Eizan, 1825-30 ca., xilografia policroma montata a kakejiku, kakemono-e (cm 29,5x122). Collezione Giancarlo Mariani. La ragazza raffigurata sembra andare a lezione di canto; il fagotto che porta sottobraccio contiene spartiti di canto della scuola Tokiwazu, iniziata da Miyakoji Monjidayū che nel 1742 cominciò a suonare nel teatro kabuki, diffondendo il suo stile di canto. Nella metropoli di Edo vi erano numerosi maestri di canto e di strumenti musicali e numerose persone andavano a imparare. 79 Finito di stampare