No. 1 , Marzo 2007
Variabilità naturale del clima nell’Olocene ed in tempi storici:
un approccio geologico
INDICE
2
PRESENTAZIONE
3
PREMESSA (GIRAUDI C., OROMBELLI G.
E ORTOLANI F.)
ARTICOLI
5 OROMBELLI G. Le variazioni dei ghiacciai alpini negli ultimi 10 mila anni.
13 ORTOLANI F.
E
PAGLIUCA S. Evidenze geologiche di variazioni climatico-ambientali
storiche nell’Area Mediterranea .
18 GIRAUDI C. Le variazioni climatiche in Italia Centrale negli ultimi 10.000 anni.
Quaderno a cura di Forese Wezel. Messa in rete a cura di Alessandro Zuccari e Paolo Conti.
Sito web della SGI: http://www. socgeol. it
Gli Autori sono i soli responsabili delle opinioni, osservazioni e idee espresse in questo Quaderno.
© 2007 Società Geologica Italiana
PRESENTAZIONE
Geologia e ambiente terrestre in continuo mutamento
Questo è il primo numero di una serie di Quaderni divulgativi online a cura della Società
Geologica italiana che si prefigge di illustrare in maniera comprensibile la variabilità naturale
dell’ambiente fisico in cui viviamo, che è soggetto ad un cambiamento continuo nel corso del
tempo.
La conoscenza delle variazioni ambientali naturali è un parametro fondamentale di cui dobbiamo
tenere conto se vogliamo valutare in maniera scientificamente realistica il contributo che viene
effettivamente fornito dall’attività umana alle modificazioni dell’ambiente. Come dovrebbe essere
noto ai lettori, i geologi riescono a ricostruire i cambiamenti ambientali del passato anche lontano,
in quanto dispongono di un quadro a lungo termine delle variazioni ambientali naturali, ricavato
dall’analisi precisa e dettagliata di “archivi geologici naturali”. Tali archivi storici della Terra, nei
quali sono registrati i cambiamenti planetari, sono principalmente rappresentati dai sedimenti marini
e lacustri, le grandi calotte glaciali, i ghiacciai alpini e i depositi continentali.
Questo Quaderno della SGI affronta un tema al centro di un grande interesse e di preoccupazione
nella società: quello delle fluttuazioni climatiche in Italia, viste nel contesto della storia della
variabilità naturale del clima del passato. Senza la conoscenza della storia delle variazioni
climatiche e ambientali a breve, medio e lungo termine, fornita dalle Scienze Geologiche, appare
illusorio elaborare uno scenario di previsione climatica futura che abbia la necessaria attendibilità
scientifica. Senza una anamnesi particolareggiata è impossibile trovare i rimedi adeguati per curare
lo stato di salute di un paziente. La storia passata ci può indicare il ruolo ricoperto dalla variabilità
climatica naturale nell’attuale riscaldamento globale.
I limiti dei modelli attualmente divulgati sul clima risiedono nella brevità del tempo preso in
considerazione (un secolo o poco più) e nella mancanza di un fondamento ambientale che tenga
conto delle trasformazioni naturali del territorio. Su questa base vengono da taluni proposti scenari
catastrofici futuri che allarmano grandemente le popolazioni.
I tre articoli scientifico-divulgativi, che riguardano aspetti diversi della storia climatica italiana,
sono stati scritti appositamente per questo Quaderno da noti studiosi che da anni si occupano a
livello scientifico di variazioni climatico-ambientali ai quali va il vivo ringraziamento della Società.
Spero che questa iniziativa intrapresa dalla Società Geologica Italiana possa aiutare le persone
interessate, gli amministratori, i docenti e studenti, ad una migliore comprensione del ruolo
importante svolto dalle Geoscienze nello studio dei fenomeni naturali in continuo cambiamento a
tutte le scale temporali.
Il Presidente della Società Geologica Italiana
Forese Carlo Wezel
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PREMESSA
Stiamo vivendo in un periodo di cambiamento climatico, ben evidenziato dalle misure dei parametri
meteorologici e climatici degli utili 150 anni, che indicano un riscaldamento globale. In particolare
gli ultimi tre decenni risultano essere stati eccezionalmente caldi. Le cause dell’attuale
cambiamento climatico sono oggetto di dibattito scientifico. Secondo la maggior parte dei
ricercatori alle cause naturali (variabilità solare, attività vulcanica, variabilità intrinseca del sistema
climatico) si è aggiunta l’influenza delle attività umane (in primo luogo l'aumento dei gas ad effetto
serra); secondo altri ricercatori, il riscaldamento rientra tra i cambiamenti naturali che avvengono
con una normale ciclicità millenaria ed è ancora da provare, anche se non può essere esclusa,
l’eventuale influenza delle attività antropiche.
Per contribuire ad una corretta comprensione del dibattito sul riscaldamento climatico sono qui
presentati tre punti di vista "geologici", che riassumono le conoscenze sulle variazioni climatiche
nel recente passato in Italia e nel Mediterraneo, come una sorta di base di riferimento sulla quale
confrontare il cambiamento in corso, per poterne valutare entità e significato.
Sovente televisione, radio e giornali riportano notizie sul riscaldamento climatico in corso e sulle
previsioni per il futuro. A volte si parla di eventi eccezionali o periodi con caratteristiche
meteorologiche molto peculiari (l’inverno più caldo degli ultimi 150 anni, oppure la temperatura
media annua globale più elevata raggiunta negli ultimi 1300 anni, e affermazioni di questo genere).
Queste affermazioni dei giornalisti sono tratte, magari un pò enfatizzate, da pubblicazioni e
resoconti scientifici. Lo scienziato, leggendo un articolo scientifico, si rende conto che le ricerche
scientifiche hanno dei limiti metodologici e sa che esistono incertezze nella misura e nella corretta
interpretazione ambientale dei dati: egli tiene quindi conto di tali incertezze nel valutare le
conclusioni e nell’accettarle. Chi divulga e sintetizza i risultati scientifici, spesso trascura la
valutazione delle incertezze, in quanto argomento di difficile comprensione per il pubblico,
accettando senza spirito critico le conclusioni presentate in sintesi alla fine degli articoli.
Le ricerche scientifiche, siano esse sperimentali o legate allo sviluppo di modelli di simulazione
numerica, hanno dei limiti.
In campo geologico la situazione non è diversa.
Il contributo indispensabile fornito dalle Scienze Geologiche alle ricerche sul clima riguarda il
riconoscimento e l’interpretazione delle variazioni climatiche del passato:
nel passato geologico, anche recente, le variazioni climatiche sono state continue.
Occorre quindi studiare, con dettaglio sempre maggiore, gli “archivi geologici”, nei quali è
conservata traccia delle modificazioni dell’ambiente terrestre, in modo da giungere ad un grado di
conoscenza tale da permetterci di paragonare le situazioni del passato a quella attuale.
Tuttavia anche i metodi di indagine considerati più affidabili e dettagliati (carote di ghiaccio, carote
prelevate sul fondo di oceani e laghi) hanno i loro limiti, connessi da un lato alla trasformazione dei
dati paleoambientali in dati paleoclimatici, dall’altro alla difficoltà di datare con adeguata
approssimazione eventi, spesso, di breve durata.
I dati su entità e modalità di svolgimento e cronologia delle variazioni climatiche del passato non
sono ancora tali da fornire risultati paragonabili a quelli registrati dagli strumenti di misura dei
parametri meteorologici, salvo eccezioni ove si posseggano archivi con risoluzione annua e con
informazioni chimiche e fisiche con adeguata certezza trasformabili in parametri climatici (carote di
ghiaccio, anelli di accrescimento delle piante, ecc.).
Occorre quindi cautela nell’effettuare il paragone tra dati derivanti da misure strumentali e dati
derivati dallo studio degli “archivi geologici” che si riferiscono al periodo precedente l’uso di
strumenti meteorologici.
Quindi, se qualcuno dicesse che “le presenti condizioni climatiche non si sono mai verificate negli
ultimi 1000 anni” direbbe qualcosa di scientificamente non completamente corretto: la frase corretta
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dovrebbe essere “è probabile (ad esempio con probabilità maggiore del 66%) che le presenti
condizioni climatiche non si siano mai verificate negli ultimi 1000 anni”.
Lasciamo ad altre discipline il compito di indicare i limiti dei propri metodi, ma teniamo conto che
anche i modelli climatici, oltre a presentare incertezze, come gli altri metodi, possono essere
condizionati dalla scelta dei parametri da modellizzare e dalle incertezze insite nei dati utilizzati.
La lunga premessa appare necessaria perché il lettore potrebbe essere portato a sottovalutare i
risultati delle ricerche geologiche sulle variazioni climatiche del passato: gli studi geologici
forniscono (per ora) indicazioni attendibili solo dal punto di vista qualitativo/semiquantitativo e
raramente quantitativo, mentre i risultati forniti dai modelli climatici sono “numeri” e quindi
valutazioni quantitative apparentemente molto precise. Ma quei “numeri” a volte possono
nascondere incertezze tali da rendere i risultati solo “indicativi”.
Il ruolo degli studi geologici è fondamentale per la corretta valutazione degli effetti sul territorio
attesi a causa del Global Change: grazie alle ricerche geologiche è possibile avere una visione
complessiva e non solo settoriale delle variazioni ambientali prodotte da cambiamenti climatici del
passato. I processi sedimentari ed erosivi sono infatti il risultato finale delle complesse interazioni
tra tutti i fattori che condizionano il clima terrestre e le sue variazioni: lo studio del clima del
passato, e della sua influenza sugli ambienti terrestri, permetterà di formulare scenari sempre più
attendibili circa gli effetti delle variazioni di umidità e di temperatura previste dai modelli climatici
per il prossimo futuro.
C. Giraudi, G. Orombelli, F. Ortolani
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ARTICOLI
Le variazioni dei ghiacciai alpini negli ultimi 10 mila anni
GIUSEPPE OROMBELLI (*)
*Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e del Territorio, Università di Milano-Bicocca, Piazza della Scienza
1, 20126 Milano, ITALY - tel. 02 6448 2857, fax 02 6448 2895 [email protected]
1 - I ghiacciai alpini indicatori climatici
I ghiacciai alpini (e in generale i ghiacciai montani) sono ritenuti sensibili indicatori delle
variazioni climatiche. Le loro dimensioni ed i loro caratteri dipendono infatti dal bilancio
annuo tra i guadagni, sostanzialmente l’accumulo di neve, e le perdite, sostanzialmente
dovute alla fusione. Nelle Alpi, condizioni favorevoli all’espansione dei ghiacciai (bilancio
in guadagno) sono connesse con estati brevi e fresche (fusione ridotta) e con una
stagione invernale prolungata e umida, con abbondanti nevicate (accumulo elevato). Al
contrario una stagione estiva molto prolungata e calda e, lungo l’arco dell’anno, ridotte
condizioni favorevoli alle precipitazioni nevose portano ad un bilancio in perdita e ad una
contrazione dei ghiacciai. Negli ultimi 30 anni circa i bilanci dei ghiacciai monitorati nel
mondo sono quasi tutti sistematicamente in perdita, salvo limitate eccezioni (WORLD
GLACIER MONITORING SERVICE, 2006; http://www.geo.unizh.ch/wgms/). La perdita media di
spessore nei ghiacciai misurati è stata di 4 m (di acqua equivalente) dal 1980 al 1995 e di
6 m nei dieci anni successivi. Nelle Alpi il bilancio è ancora più negativo, con una perdita
media dal 1980 al 2003 (nei ghiacciai monitorati dal WGMS) di 16 m: nella sola estate
calda del 2003 i ghiacciai alpini hanno subito una perdita media di spessore di 2,5 m (di
acqua equivalente).
Nelle Alpi e in molte altre catene montuose la riduzione dei ghiacciai, accentuatasi in
questi ultimi tre decenni, è facilmente apprezzabile dalla estensione delle vaste aree
detritiche e non coperte da vegetazione, abbandonate recentemente dal ghiaccio.
Questo spettacolo costituisce l’evidenza più chiara e a tutti comprensibile degli effetti del
riscaldamento climatico in corso (fig. 1).
Fig. 1 – Il Ghiacciaio dei Forni (Alpi centrali) in una antica foto del 1890 circa e nell’estate del 1998 (foto Folladori): è
evidente l’imponente ritiro della lingua glaciale che, nell’ultimo secolo, ha abbandonato per oltre 2 km il fondovalle,
lasciando un territorio ingombro di detriti che gradualmente viene riconquistato dalla vegetazione.
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Orombelli G. Le variazioni dei ghiacciai alpini negli ultimi 10 mila anni
La fase attuale di accentuato ritiro dei ghiacciai si colloca in una più lunga storia di
variazioni glaciali, documentate sia da misure e osservazioni dirette effettuate nell’ultimo
secolo, sia da più antiche testimonianze storiche e, soprattutto, da evidenze geologiche.
Da queste fonti di informazione sappiamo che nella seconda metà del 1800 si concluse
una lunga fase di attività dei ghiacciai, nota come “Piccola Età Glaciale”. Da allora è in
corso una fase di progressivo ritiro, solo temporaneamente ed inefficacemente interrotta
da modeste fasi di riavanzata, prodottesi intorno al 1890, 1920, 1970-85. E’ rimarchevole
come il comportamento dei ghiacciai alpini abbia seguito, con un certo ritardo,
l’andamento della curva della temperatura media annua globale (WORLD METEOROLOGICAL
ORGANIZATION, 2006; www.wmo.ch/web/catalogue/) (fig. 2)
Fig. 2 - Confronto tra le variazioni della temperatura media annua per l’emisfero Nord, espressa come deviazioni dal
valore della media 1961-1990 e il numero di ghiacciai svizzeri in avanzata, tra il 1900 e il 2001. Si notino le due fasi di
avanzata intorno al 1920 e al 1980: entrambe fanno seguito, con un ritardo di un decennio, ai due minimi di temperatura
intorno al 1910 e al 1970 (modificato da WMO, 2006 e da HERREN ET AL., 2002 )
2 - Piccola Età Glaciale (XIV-XIX sec.) e Periodo Caldo Medievale (IX-XIII sec.)
Sebbene non via sia completo accordo sulla sua durata e rilevanza a carattere globale, la
Piccola Età Glaciale (PEG) nelle Alpi si ritiene sia cominciata all’inizio del secolo XIV,
quando il maggiore dei ghiacciai alpini, il Ghiacciaio dell’Aletsch, da posizioni simili a
quelle attuali iniziò ad avanzare, raggiungendo intorno al 1370-1380 la sua massima
estensione (HOLZHAUSER ET AL. , 2005). Anche gli studi storici sul clima in Europa pongono
l’inizio della Piccola Età Glaciale all’inizio del secolo XIV (LE ROY LADURIE, 2004). Dopo la
prima fase di avanzata nel secolo XIV, l’Aletsch e molti altri ghiacciai alpini hanno lasciato
tracce di due fasi successive di massima avanzata, nel secolo XVII e nel secolo XIX. Le
tre maggiori fasi di avanzata sono state intercalate da minori fasi di ritiro e da pulsazioni
intermedie. Nei ghiacciai italiani l’ultima fase di avanzata della PEG è stata in generale la
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Orombelli G. Le variazioni dei ghiacciai alpini negli ultimi 10 mila anni
più estesa, cancellando o nascondendo le tracce delle precedenti. Quasi tutti i ghiacciai
italiani mostrano morene laterali e talora frontali ben sviluppate, edificate o comunque
accresciute nella fase finale della PEG (fig. 3).
Fig. 3 – I ghiacciai della Valsavaranche (da sinistra: Moncorvé, Monciair, Occidentale del Breuil, Grand Etret)
in un modello fotorealistico da aerofografia del 2000, elaborato da D. Giordan (CNR –IRPI, Torino). Evidenti
morene terminali, direttamente appoggiate su pareti rocciose levigate dai ghiacciai pleistocenici, disegnano
il contorno dei ghiacciai nella Piccola Età Glaciale (prima metà dell’’800). Il primo ghiacciaio a destra si
allungava allora nella valle sottostante, come indicato dalla fascia di detriti più chiari che raggiunge la base
della immagine. Ora gli stessi ghiacciai si sono ridotti a sottili placche di ghiaccio , prossime all’estinzione
I grandi ghiacciai valdostani e lombardi hanno raggiunto la loro massima estensione
intorno al 1820 e poi ancora intorno al 1850-60. Con il 1860 ha inizio la fase attuale di ritiro
e molti ghiacciai si ritiene siano ora più ridotti che all’inizio della PEG, mentre un buon
numero di piccoli ghiacciai è interamente scomparso.
Gli studi sulle variazioni climatiche in epoca storica in Europa hanno da tempo messo in
evidenza una fase calda prima della PEG, nota come Periodo Caldo Medievale (secoli IX
– XIII). L’ estensione dei ghiacciai alpini immediatamente prima della PEG è poco nota,
come avviene in generale per tutte la fasi di contrazione, le cui tracce sono state distrutte
dalle successive fasi di avanzata. Vengono ipotizzate durante questo periodo caldo
posizioni frontali più arretrate delle attuali, ma pure modeste fasi di avanzata (ad es.
ghiacciai Aletsch e Gorner nel IX e XII secolo, HOLZHAUSER ET AL. , 2005 ).
Le variazioni glaciali dei millenni precedenti sono note unicamente da evidenze di tipo
geologico, stratigrafiche, morfologiche, paleobiologiche, la cui datazione è alquanto
imprecisa, spesso con l’approssimazione di numerosi decenni-alcuni secoli. Si puo’ quindi
facilmente intendere come solamente le fasi glaciali più intense e di maggiore durata
(plurisecolari) possano essere ragionevolmente ricostruite e, spesso, con limiti cronologici
molto approssimati.
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Orombelli G. Le variazioni dei ghiacciai alpini negli ultimi 10 mila anni
L’Olocene: l’attuale periodo interglaciale
E’ noto che negli ultimi milioni di anni la Terra è andata soggetta a grandiose variazioni
climatiche che si sono manifestate con il ripetersi ciclico di periodi freddi glaciali e periodi
caldi interglaciali. L’ultima glaciazione è terminata intorno a 11.650 anni fa: da allora le
temperature sulla Terra e l’estensione dei ghiacciai montani sono simili a quelle attuali. Vi
sono tuttavia state variazioni climatiche minori alle quali hanno risposto i ghiacciai.
Dopo una possibile avanzata glaciale intorno a 11 mila anni fa, che si collega idealmente
con le fasi finali dell’ultima glaciazione, i ghiacciai alpini erano già in una situazione simile
a quella attuale intorno a 10 mila anni fa. Sulla base delle evidenze disponibili relative ad
un limitato numero di ghiacciai, da 10 mila a 5 mila anni fa i ghiacciai alpini si sono
mantenuti in prevalenza in condizioni più arretrate di ora (fig. 4 e 5), salvo minori fasi di
avanzata, prodottesi intorno a 9000, 8200-8500, 7800, 6200-6300, 5800, 5500
(OROMBELLI, 1998; MAISCH, 2000; NICOLUSSI & PATZELT, 2000;. JOERIN ET AL., 2006). Tutte
queste date vanno considerate come puramente indicative, perché largamente
approssimate.
Fig. 4 - Fronte del Ghiacciaio del Ruitor nell’estate 2004 (foto C. Ravazzi). Si noti (freccia gialla) la piccola
morena deposta dall’avanzata più recente, culminata nel 1986 (CONTR.) Da allora il ghiacciaio, esposto a
Nord, è in graduale lento ritiro. La freccia azzurra indica la località ove, sotto depositi glaciali e fluvioglaciali,
vi è una antica torbiera sepolta e deformata dal ghiacciaio. La deposizione di torbe si è protratta, sia pure
con temporanee interruzioni,da circa 10 000 ad almeno 5 600 anni fa. In quell’intervallo di tempo la fronte del
ghiacciaio doveva essere più arretrata, per consentire condizioni indisturbate, favorevoli allo sviluppo della
torbiera.
Da 5000 anni al presente le fasi di avanzata sono state più numerose e le fronti dei
ghiacciai si sono spinte frequentemente oltre le posizioni attuali, fino a raggiungere più
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Orombelli G. Le variazioni dei ghiacciai alpini negli ultimi 10 mila anni
volte (e talora superare) la estensione massima, toccata l’ultima volta nelle fase finale
della PEG (fig. 3). Fasi di avanzata sono indicate intorno a 4700 - 4800 anni fa e poi,
ben documentate dal Ghiacciaio Aletsch, intorno a 2500-2600 anni fa (VI secolo a.C),
1300-1400 anni fa (VI-VII secolo d. C.). Più incerta è un’avanzata nel IX secolo d.C., e
una minore avanzata è documentata nel XII secolo, che precede immediatamente la
Piccola Età Glaciale (OROMBELLI & MASON, 1997; DELINE & OROMBELLI, 2005; HOLZHAUSER
ET AL., 2005). Quanto alla estensione raggiunta, questa sembra sia andata via via
aumentando nelle avanzate dei tre ultimi millenni. Vista nella prospettiva dell’intero
Olocene, la PEG risulta essere l’episodio di avanzata glaciale di maggior durata ed
estensione raggiunta. Anche nella seconda metà dell’Olocene sono noti periodi nei quali i
ghiacciai erano molto ridotti (anche più di ora, come nel caso dell’Aletsch intono a 32003400 anni fa e intorno a 2200 – 1900 anni fa), ma la tendenza generale sembra esser
stata quella di progressiva e crescente attività glaciale. Per questo motivo da tempo è
stato introdotto il termine “Neoglaciazione”, per indicare la (pur modesta) ripresa di attività
glaciale che ha caratterizzato la seconda metà dell’Olocene che, alle medie latitudini,
risulta essere stata un poco più fresca e umida della prima.
Al termine di questa breve rassegna ci si puo’ domandare se la situazione attuale dei
ghiacciai sia inusuale nell’Olocene o sia totalmente nuova. Chiaramente i ghiacciai alpini
sono stati più volte anche più ridotti di quanto non siano attualmente, nei passati 10 mila
anni, in condizioni ambientali naturali o, comunque, pre-industriali. Tuttavia vanno fatte le
seguenti osservazioni. Il ritiro glaciale attualmente in corso dura ormai da oltre un secolo,
si è accentuato negli ultimi decenni e non sembra volersi attenuare.
Occorre tener presente che la risposta alle sollecitazioni climatiche è rapida nel caso di
piccoli ghiacciai, per i quali anche una breve fase sfavorevole al bilancio glaciale puo’
determinarne una significativa riduzione, mentre i ghiacciai maggiori rispondono
solamente (e con un ritardo di numerosi decenni o più ) alle variazioni climatiche maggiori
e di maggiore durata.
Così in taluni ghiacciai di piccole dimensioni le condizioni attuali sono da ritenersi del tutto
nuove negli ultimi 5000 anni, e per trovare condizioni altrettanto ridotte bisogna arretrare
nel tempo a prima della Neoglaciazione. I recenti ritrovamenti della mummia di Similaun
(Oetzi) e di altri reperti archeologici deperibili, rinvenuti nella calda estate 2003 in
Svizzera, indicano che da circa 5000 anni il Ghiacciaio del Giogo Basso (BARONI &
OROMBELLI, 1996) e un piccolo ghiacciaio residuale presso il Passo Schnidejoch (Svizzera)
(GROSJEAN ET AL., 2007) non sono mai stati più ridotti rispetto alle condizioni attuali.
I ghiacciai di maggiori dimensioni sono attualmente dimensionati dalle condizioni
climatiche invalse nei decenni scorsi, ed i maggiori ancora probabilmente non hanno
risentito del riscaldamento accentuato degli ultimi tre decenni. Se si confrontano poi le
condizioni attuali con quelle della prima metà dell’Olocene, si deve tener presente che la
insolazione nella fascia temperata dell’emisfero Nord, modulata da fattori orbitali che
regolano i rapporti tra la Terra e il Sole, ha raggiunto il valore massimo all’inizio
dell’Olocene (510-520 W/m2) , intorno a 11-12 mila anni fa, ed è poi andata declinando,
dapprima lentamente poi più celermente, sino a raggiungere valori (minimi) intorno a 475
W/m2 nell’ultimo millennio e dovrebbe nell’immediato futuro tornare a crescere. Lungo gli
ultimi 10 mila anni, l’emisfero Nord ha ricevuto, quindi, una quantità di energia solare
decrescente, che puo’ spiegare la complessiva aumentata tendenza all’espansione dei
ghiacciai montani. Per spiegare le oscillazioni glaciali secolari o pluridecennali
sovrapposte a questa tendenza, da tempo è stata ipotizzata una loro relazione con le
variazioni della attività solare (Denton & Karlen, 1973; Koch & Clague, 2006), ma tale
ipotesi non pare pienamente confermata e gli stessi fisici del sole sono cauti nel valutare
l’influenza della variabilità solare sui cambiamenti climatici (SOLANKI ET AL., 2004).
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Orombelli G. Le variazioni dei ghiacciai alpini negli ultimi 10 mila anni
Fig. 5 – Principali fasi di avanzata e di ritiro di ghiacciai alpini. a: fasi di accentuato ritiro documentate dalla
torbiera del Ruitor (OROMBELLI, 1998), dal riveninento di tronchi e torba alla fronte del Ghiacciaio Pasterze in
Austria (NICOLUSSI & PATZELT, 2000) ed in taluni ghiacciai svizzeri (JOERIN ET AL., 2006) e dal rinvenimento
di resti archeologici in zone di passo recentemente liberatesi dal ghiaccio (BARONI & OROMBELLI, 1996 ;
GROSJEAN ET AL., 2007). b: Fasi di avanzata ricostruite per ghiacciai italiani (Alpi centrali e occidentali) e per
i ghiacciai Pasterze e Gepatschferner in Austria (OROMBELLI & MASON, 1997; NICOLUSSI & PATZELT, 2000). c:
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Orombelli G. Le variazioni dei ghiacciai alpini negli ultimi 10 mila anni
fasi di avanzata e ritiro della fronte del grande Ghiacciaio di Aletsch in Svizzera, ricostruite da H. Holzhauser
(distanze in km dalla massima estensione raggiunta nella PEG). d: Fasi di avanzata e ritiro nella
edificazione dell’anfiteatro morenico del Lago del Miage ricostruite da DELINE & OROMBELLI (2005). e : Curve
della insolazione a metà Giugno alle latitudini 30° N e 60°N espresse in W/m2. Nell’insieme del diagramma si
noti il prevalere delle fasi di minore estensione dei ghiacciai alpini tra circa 10 e 5 mila anni dal presente e la
maggior frequenza delle fasi di avanzata negli ultimi 5 mila anni, in concomitanza con il decremento della
insolazione. La curva dell’Aletsch (HOLZHAUSER ET AL., 2005) è la migliore documentazione delle variazioni
glaciali nelle Alpi per gli ultimi 3 millenni: si notano fasi di ritiro su posizioni più arretrate delle attuali nei secoli
XIII e XIV a.C. ( tarda Età del Bronzo), dal II secolo a. C. al I d.C. in Età Romana, e (meno accentuata) nel
Medio Evo, mentre fasi di avanzata si sono prodotte nel VI secolo a. C. (Età del Ferro) , nel VI-VII secolo
d.C. (Alto Medioevo) e nei secoli XIV-XIX (Piccola Età Glaciale).
Pertanto l’attuale accentuata fase di contrazione glaciale non appare giustificata da sole
cause naturali e puo’ essere ritenuta forzata da cause umane. Nel caso dei ghiacciai alpini
la riduzione della loro massa globale si farà risentire in una riduzione della disponibilità
idrica nei territori sottostanti, per altro già minacciata da una tendenza alla riduzione delle
precipitazioni nell’area mediterranea.
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WMO
Statement on the status of the global climate in 2005. WMO-No.998
Quad. SGI 1 (2007):12
Evidenze geologiche di variazioni climatico-ambientali storiche nell’Area
Mediterranea
FRANCO ORTOLANI(*) & SILVANA PAGLIUCA(**)
*Dipartimento di Pianificazione e Scienza del Territorio, Università di Napoli Federico II, Piazzale Tecchio,
Napoli, Italy; tel. 081/431518; [email protected].
**ISPAIM, CNR, Via Cupa Patacca, Ercolano, Napoli, Italy; 081/7717325.
1 - Descrizione dell'area di studio
L'Area Mediterranea compresa tra 45° N e 31°N circa di latitudine, caratterizzata da condizioni
climatico-ambientali differenti e da continua e diffusa presenza dell'uomo negli ultimi millenni,
rappresenta una zona di importanza strategica per lo studio delle variazioni climatico-ambientali
(fig. 1).
Fig. 1: inquadramento climatico-ambientale dell’area studiata
Il clima umido con temperatura media inferiore a 18°, precipitazioni piovose abbondanti (da circa
500 a circa 2000 mm) prevalentemente nel periodo autunno-primavera e superficie terrestre
generalmente ricoperta da suolo e vegetazione caratterizzano la parte centro-settentrionale anche
nelle aree non coltivate. Il clima subdesertico e desertico con temperatura media superiore a 18° con
precipitazioni piovose molto scarse (da meno di 100 a circa 250 mm) e superficie priva di suolo e
vegetazione caratterizzano in gran parte il margine più meridionale, a sud di 32° di latitudine.
L'area mediterranea, rappresentando la zona di confine tra zona umida e zona desertica è molto
sensibile alle variazioni climatico-ambientali; infatti, spostamenti delle fasce climatiche verso nord o
verso sud di pochi gradi di latitudine possono determinare drastici sconvolgimenti della superficie
Quad. SGI 1 (2007):13
Ortolani F. & Pagliuca S. Evidenze geologiche di variazioni climatico-ambientali storiche nell’Area Mediterranea
del suolo provocando, ad esempio, desertificazione in aree precedentemente caratterizzate da clima
umido, o, viceversa, la trasformazione di zone desertiche in aree umide.
Le ricerche, stimolate dall'osservazione di numerose discontinuità fisiche significative, evidenti in
molte sezioni stratigrafiche, sono state effettuate per gettare luce sul significato climatico dei
differenti tipi di sedimenti accumulatisi negli ultimi 2500 anni che ricoprono numerosi siti
archeologici, non influenzabili dagli interventi umani, di età compresa tra il Periodo Arcaico ed il
Medioevo, ubicati a diverse latitudini e in aree geografiche con differenti condizioni
morfoclimatiche (Ortolani et al., 1991; Ortolani & Pagliuca, 1993, 1994, 1995, 1996, 1997, 1998).
Le aree studiate sono comprese tra la Pianura del fiume Po (circa 45° N di latitudine) e il Nord
Africa (Egitto) a circa 30-31° N di latitudine; le sezioni geoarcheologiche più complete e
significative sono state studiate nelle pianure alluvionali e nelle dune costiere (fig. 1).
2 - Risultati
Lo studio delle sezioni geoarcheologiche ha consentito di individuare i seguenti importanti archivi
naturali: - grandi pianure alluvionali costiere con insediamenti archeologici particolarmente diffusi
a partire dal periodo della Magna Graecia (VIII secolo a.C.) caratterizzate da lunghi periodi di
stabilità geomorfologica e diffusa antropizzazione e da brevi periodi di instabilità geomorfologica
evidenziata da rapida aggradazione della superficie in seguito ad accumulo di sedimenti; - dune
costiere caratterizzate da periodi di attività eolica con accumulo di sabbia, fino a notevole distanza
dal mare, e da periodi di stabilità testimoniata da suoli sepolti; - spiagge con sabbie silicoclastiche
interessate da progradazione durante i periodi in cui si ha aggradazione delle pianure alluvionali; spiagge con sabbie organogene interessate da progradazione durante i periodi in cui le dune sono
caratterizzate
da
attività
eolica.
Fig. 2 (a sinistra): colonne stratigrafiche geoarcheologico-ambientali ricostruite nelle pianure alluvionali dell’Italia
meridionale (A, a sud di 42°N) e dell’Italia settentrionale (B). Se1, Se2, Se3: rispettivamente sabbie eoliche arcaiche,
romane, medievali. Al1,Al2, Al3: rispettivamente sedimenti alluvionali del Periodo freddo-umido arcaico,
altomedievale e della Piccola Età Glaciale. Sa: superfici antropizzato caratterizzate da stabilità ambientale e da
condizioni favorevoli alle attività umane.
Fig. 3 (a destra): Colonna stratigrafica geoarcheologica-ambientale ricostruita nelle dune costeiere del Salento, Sicilia
sudoccidentale ed Egitto Settentrionale: Se1, Se2, Se3: rispettivamente sabbie eoliche arcaiche, romane, medievali.
Quad. SGI 1 (2007):14
Ortolani F. & Pagliuca S. Evidenze geologiche di variazioni climatico-ambientali storiche nell’Area Mediterranea
I sedimenti, datati archeologicamente e radiometricamente, sono stati studiati e correlati a scala
mediterranea. Per ogni tipo di sedimento, accumulatosi in condizioni ambientali differenti dalle
attuali, è stata ricostruita la condizione climatica e morfologica che ne ha consentito il deposito
facendo riferimento alle aree in cui attualmente tali terreni si accumulano.
I nuovi dati geoarcheologici sono stati correlati con quelli evidenziati da varie ricerche
paleoclimatiche, a scala globale, effettuate con differenti metodologie.
Pianure alluvionali
Le stratigrafie delle Pianure Costiere del Mediterraneo evidenziano la presenza di varie superfici
antropizzate ed urbanizzate sepolte da vari metri di sedimenti alluvionali (fig. 2).
In particolare si ricostruisce la seguente successione stratigrafica, dal basso verso l’alto: superficie
antropizzata dall’VIII al V sec a.C.; sedimenti alluvionali; superficie antropizzata dal IV sec a.C. al
V-VI sec d.C.; sedimenti alluvionali; superficie antropizzata dall’VIII al XVI sec d.C.; sedimenti
alluvionali; superficie antropizzata da XVIII sec ad oggi.
Dune costiere
Le dune costiere dell’Italia meridionale e del Nord Africa, a sud di 42° di latitudine N, cono
costituite da sabbie silicoclastiche e da sabbie organogene (fig. 3). In esse è stato possibile
ricostruire la seguente successione stratigrafica: sabbie eoliche; superficie antropizzata romana e
preromana; sabbie eoliche; superficie antropizzata dal VI all’XI sec d.C.; sabbie eoliche; superficie
antropizzata dal XIV secolo ad oggi.
3 - VARIAZIONI CLIMATICO-AMBIENTALI CICLICHE
I dati acquisiti mettono in evidenza che la superficie del suolo dell’Area Mediterranea, nelle ultime
migliaia di anni, è stata significativamente interessata da varie modificazioni climatico-ambientali
naturali con drastiche discontinuità che hanno interrotto lunghi periodi di stabilità ambientale. In
base ai dati geoarcheologici, storici e archeologici sono state riconosciute modificazioni che si sono
succedute ciclicamente, indipendentemente dalle azioni dell'uomo.
Fig. 4 (a sinistra): Spostamento verso sud delle fasce climatiche durante i periodi freddo-umidi.
Fig. 5: Spostamento verso nord delle fasce climatiche durante i periodi caldi.
Quad. SGI 1 (2007):15
Ortolani F. & Pagliuca S. Evidenze geologiche di variazioni climatico-ambientali storiche nell’Area Mediterranea
Discontinuità tra il VI e IV sec aC, tra il VI e VIII sec dC e tra il XVI e XVIII sec dC
Tali discontinuità sono testimoniate dall’aggradazione delle pianure alluvionali avvenute
improvvisamente, rapidamente (durata complessiva di circa 150-200 anni) e con conseguenze
catastrofiche che hanno determinato la sepoltura delle superfici antropizzate ed urbanizzate con vari
metri di depositi alluvionali. Contemporaneamente si è determinata una consistente progradazione
delle spiagge. Vari dati paleoclimatici evidenziano che tali periodi sono stati caratterizzati da un
raffreddamento e incremento delle precipitazioni piovose anche lungo le coste del Mediterraneo
Meridionale. I dati acquisiti evidenziano uno spostamento verso sud delle attuali fasce climatiche,
come schematizzato nella fig. 4.
Discontinuità tra il II e IV sec dC e tra l’XI e XIII sec dC
In Sicilia, Salento e Africa Settentrionale si hanno evidenze della riattivazione delle dune costiere
che determinano la sepoltura dei suoli che in precedenza avevano fossilizzato i depositi eolici più
antichi. In Sicilia, nel Salento e nel Nordafrica è testimoniato l’accumulo di ingenti volumi di
sabbie organogene che determinano una consistente progradazione delle spiagge. Le spiagge con
sabbie silicoclastiche sono state interessate da marcati fenomeni erosivi.
Fig. 6: correlazione tra la stratigrafia geoarcheologico-ambientale (colonna 1), l’evoluzione delle temperature e
precipitazioni (colonna 2), delle spiagge con sabbia silicoclastica (colonna 3, a) e organogena (colonna 3, b).
Quad. SGI 1 (2007):16
Ortolani F. & Pagliuca S. Evidenze geologiche di variazioni climatico-ambientali storiche nell’Area Mediterranea
Interpretazione dei dati stratigrafici
I nuovi dati evidenziano che le condizioni ambientali sono state simili a quelle instauratesi tra il
XIX sec e l’attuale per lunghi periodi (in cui l'uomo controllava l'ambiente fisico) favorendo le
attività antropiche e lo sviluppo socioeconomico (es. tra il 350 a.C. e il 100 d.C.) e che sono invece
drasticamente peggiorate per brevi intervalli (in cui l'ambiente fisico condizionava l'uomo)
determinando alternativamente la desertificazione delle aree costiere (es. tra il 100 e il 300 d.C. e tra
il 1100 e 1300 d.C.) ed il ricoprimento del suolo antropizzato anche con vari metri di sedimenti
alluvionali (es. tra il 520-350 a.C., tra il 500-700 d.C., tra il 1500-1700 d.C.). Negli ultimi 3000
anni hanno prevalso le condizioni climatico-ambientali simili alle attuali; a queste si sono intercalati
ciclicamente brevi periodi con clima differente; in particolare, si sono alternate fasi freddo-umide e
fasi caldo-aride della durata rispettivamente di circa 150-200 anni (figg. 2, 3, 6 e 7).
Com’è noto in letteratura, l'ultimo periodo freddo è chiamato Piccola Età Glaciale (1500-1850). In
base ai nuovi dati geoarcheologici si evidenzia che i precedenti periodi freddi sono stati
caratterizzati da condizioni climatico-ambientali simili per cui sono stati da noi definiti "Piccola Età
Glaciale Alto medievale" (500-750 d.C.) e "Piccola Età Glaciale Arcaica" (520-350 B.C.). I periodi
caldi noti sono relativi al Medioevo (1000-1300) e all'età romana (100-300 d.C. circa); essi hanno
determinato invece desertificazione lungo le aree costiere del Mediterraneo (fino a circa 41-42°N),
con accumulo di notevoli volumi di sabbie eoliche che hanno invaso le zone costiere ricoprendo i
suoli antropizzati.
I risultati conseguiti con le ricerche innovative svolte nell'area mediterranea hanno messo in
evidenza che l'ambiente è stato modificato ciclicamente, con periodo di circa 1000 anni, con
differenti impatti in relazione alle diverse condizioni morfologiche e climatiche; in base alla
naturale ciclicità millenaria l'attuale periodo climatico, iniziato intorno al 1750 circa e caratterizzato
anche dall’inquinamento atmosferico provocato dall’attività antropica, rappresenta la transizione tra
la Piccola Età Glaciale ed il prossimo incremento dell’Effetto Serra.
Bibliografia
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climatico-ambientali e riflessi socio-economici nell'Alta Terra di Lavoro tra Antichità ed Età di
Mezzo. Atti Conv. "Le Scienze della terra e l'Archeometria", Napoli 20-21 febbraio 1996.
CREMASCHI M. & GASPERI G. (1989) - L'alluvione alto-medioevale di Mutina (Modena) in
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ORTOLANI F. & PAGLIUCA S. (1994) - Variazioni climatiche e crisi dell'ambiente
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ORTOLANI F. & PAGLIUCA S. (1996) - Variazioni climatico-ambientali nel periodo storico
nell'area Mediterranea: evidenze geoarcheologiche di cicliche crisi ambientali tipo "Effetto
Serra". Convegno "Il ruolo della geomorfologia nella geologia del Quaternario", Napoli, 27-29
febbraio 1996.
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negli ultimi millenni nell'Area Mediterranea e previsione dell'impatto sull'ambiente
antropizzato del prossimo "Effetto Serra". IGBP 2000, CNR, Atti Workshop su Global Change
ORTOLANI F. & PAGLIUCA S. (2005) – L’uomo e le modificazioni climatiche cicliche:
effetto serra del terzo millennio e previsione degli impatti sull’ambiente. Istituto Superiore di
Sanità – Rapporti Istisan 05/10, atti del Convegno “crisi idrica in Italia e nel Lazio: cause
generali e nuove tecniche di recupero e ricostituzione delle risorse idriche”, pp. 41-74.
Vita Finzi C., 1969 - The mediterranean valleys: geological changes in historical times. Ed.
Cambridge Univ.Press, Cambridge, 140 p.
Quad. SGI 1 (2007):17
Le variazioni climatiche in Italia Centrale negli ultimi 10.000 anni
CARLO GIRAUDI*
* ENEA C.R.E. Casaccia – C.P. 2400, 00100 Roma A.D., Italy Tel. 0630486420 [email protected]
I dati sulle oscillazioni climatiche in Italia Centrale nel corso degli ultimi 10.000 anni (il periodo
chiamato Olocene) sono stati ottenuti studiando le variazioni del Ghiacciaio del Calderone e delle
aree occupate da processi periglaciali, datando i sedimenti alluvionali di alta quota sui massicci più
elevati degli Appennini, valutando le oscillazioni di livello di alcuni laghi e studiando l’evoluzione
del delta del fiume Tevere. In particolare, alcuni dati di tipo quantitativo derivano da studi su zone
di alta quota ove l’impatto antropico è sempre stato molto ridotto o assente.
Le oscillazioni del Lago del Fucino e del lago di Mezzano
Ricerche sulle oscillazione di livello dei laghi sono state condotte sul lago bonificato del Fucino
(Appennino carbonatico abruzzese) e sul piccolo lago vulcanico di Mezzano (caldera di Latera, in
provincia di Viterbo) in modo da verificare la correlabilità cronologica delle variazioni lacustri in
due diversi ambiti geologici e morfologici.
Il lago del Fucino, bonificato nella seconda metà del XIX secolo, era presente in Abruzzo, presso
Avezzano, ed occupava la piana intermontana denominata “Piana del Fucino”. Le oscillazioni di
livello del lago sono state individuate grazie a studi geologici, archeologici e storici sintetizzati in
GIRAUDI (1998) e datate per mezzo di decine di datazioni radiocarbonio (Fig. 1 ).
Fig. 1 – Confronto tra le oscillazioni di livello dei laghi di Mezzano, Fucino e Vico. (GIRAUDI, 2004a)
Quad. SGI 1 (2007):18
Giraudi C. Le variazioni climatiche in Italia Centrale negli ultimi 10.000 anni
L’interpretazione dei dati ha indicato che le oscillazioni di livello del lago negli ultimi 30.000 anni
sono state provocare da variazioni del bilancio idrologico conseguenti ai cambiamenti climatici. In
particolare, forti aumenti di livello furono registrati nel corso della Piccola Età Glaciale (XIV-XIX
secolo d.C.). Gli aumenti di livello avvenuti nel periodo 1752-1862 d.C. coincidono con fasi di
avanzamento dei maggiori ghiacciai alpini (Fig. 2).
Alcune fasi di crescita del lago, particolarmente veloci (anni 1783-1787) o che hanno portato
l'acqua a quote eccezionali (anni 1814-1816), sono almeno in parte conseguenti ad anomali valori
della copertura del cielo causati da polveri vulcaniche (GIRAUDI, 1990) originatesi in aree anche
molto lontane dall'Italia (Fig. 2).
Fig. 2 – Confronto tra le oscillazioni di livello del lago Fucino nei secoli XVIII e XIX, fasi di espansione e di ritiro dei
principali ghiacciai alpini e quntità di aerosol di origine vulcanica presenti in atmosfera. (da GIRAUDI, 1990, modificato)
Il lago di Mezzano
Lo studio delle oscillazioni del Lago di Mezzano è stato effettuato attraverso l’esame stratigrafico di
sedimenti esposti in lunghe trincee esplorative che hanno interessato zone saltuariamente occupate
dalle acque del lago (SADORI et al. 2004; GIRAUDI, 2004a). Le trincee hanno evidenziato anche la
presenza di sedimenti lacustri del XVI-XVII secolo d.C. in aree molto lontane dal margine lacustre
attuale: la distribuzione di tali depositi ha permesso di ricostruire la superficie del lago in quel
periodo e di verificare l’attendibilità della forma del lago di Mezzano evidenziata su alcune mappe
storiche. In base ai dati raccolti, le variazioni di livello del lago di Mezzano sono correlabili a quelle
del lago del Fucino (Fig. 1).
Laghi effimeri
I laghi non perenni studiati nell'ambito del presente lavoro sono ubicati in aree di montagna
dell'Appennino Centrale (per lo più nell'Appennino Laziale-Abruzzese).
In GIRAUDI (2001) é stata evidenziata la presenza di sedimenti di laghi effimeri formatisi nel corso
degli ultimi 30.000 anni. In alcune depressioni, occupate nel passato da tali laghi, si formano ancora
specchi d'acqua effimeri in primavera, durante lo scioglimento delle nevi, o dopo periodi
particolarmente piovosi.
Quad. SGI 1 (2007):19
Giraudi C. Le variazioni climatiche in Italia Centrale negli ultimi 10.000 anni
La presenza di depressioni chiuse non è sufficiente per la formazione di laghi: i laghi si formano
solo se le condizioni climatico-ambientali sono favorevoli. Quindi la presenza di sedimenti di laghi
effimeri ci indica il verificarsi di periodi più umidi dell’attuale.
Evoluzione del delta del Tevere
L’evoluzione del delta del Tevere è stata oggetto di molti lavori sin dal XIX secolo.
In vari lavori sono state presentate ricostruzioni areali dell’evoluzione del delta nel corso del tempo
basate sui dati geologici e su informazioni storiche (BELLUOMINI et al. 1986; BELLOTTI et al., 1987;
BELLOTTI et al. 1989,1994,1995). In un lavoro più recente (GIRAUDI, 2004b) sono state riconosciute
e datate le variazioni del fronte deltizio nel corso degli ultimi 6000 anni, ed identificate, non solo le
fasi di avanzata, ma anche varie fasi di erosione ed arretramento del delta.
Secondo GIRAUDI (2004b), i gruppi di cordoni litorali affioranti al piano campagna indicano otto
fasi di avanzamento del delta (Fig. 3; 5F).
Fig. 3 – Geologia della porzione centrale del delta del F. Tevere. Da Giraudi (2004a, modificato)
Legenda:I. II. III. IV. V. VI. VII, VIII = cordoni litorali dalla prima alla ottava fase; SP= sedimenti prevalentemente
palustri; SA= sedimenti prevalentemente alluvionali; ASP= sedimenti alluvionali o di spiaggia o palustri, delle aree
comprese tra cordoni litorali di diverse fasi; P= Paleoalvei del Tevere; RAV= alvei e ventagli di crevassa di Le Vignole;
RPC= depositi di riempimento del porto di Claudio; A= aree antropizzate in antico (città, porti, accumuli antropici di
sabbia.
I quadrati neri indicano le torri costiere, il numero indica la data di costruzione.
Quad. SGI 1 (2007):20
Giraudi C. Le variazioni climatiche in Italia Centrale negli ultimi 10.000 anni
L’esame dell’andamento dei cordoni litorali ha permesso di stabilire che almeno fino al secolo VIII
a.C. la foce del Tevere era situata in corrispondenza dell’attuale alveo di Fiumicino: solo tra VIII e
IV secolo a.C. il fiume subì una diversione verso l’attuale foce di Ostia. Dal confronto con altri dati
climatici si deduce che le fasi di avanzamento del delta sono coeve con fasi climatiche più fredde e
umide, mentre le fasi di arretramento sono correlabili a periodi più caldi e aridi. L’evoluzione del
delta, seppure condizionato da interventi antropici, appare essenzialmente influenzata
dall’evoluzione climatico-ambientale dell’Appennino.
Sedimenti alluvionali di alta quota
I depositi alluvionali studiati si riferiscono principalmente al Massiccio del Gran Sasso perché su
questo massiccio tali sedimenti affiorano, su aree abbastanza estese, a quote elevate (1920÷1600
m). I dati presentati sono tratti dai lavori GIRAUDI (2005 a,b).
Negli ultimi 10.000 anni si sono verificate varie fasi di sedimentazione di depositi alluvionali,
alternate a fasi di stabilità morfologica nel corso delle quali le aree venivano colonizzate dalla
vegetazione. In alcune zone, la bassa energia dei corsi d’acqua ha permesso la conservazione di
successioni sedimentarie di dettaglio che hanno fornito indicazioni chiare sulle oscillazioni
climatiche degli ultimi 2000-3000 anni (Fig.4; 5B).
Fig. 4 – Sezione schematica nei sedimenti alluvionali della porzione occidentale di Campo Imperatore, Massiccio del
Gran Sasso. (da GIRAUDI, 2005b)
Fasi glaciali oloceniche
Sul Gran Sasso d’Italia (2912 m) è presente l’unico ghiacciaio degli Appennini, il Ghiacciaio del
Calderone, il più meridionale d’Europa, attualmente in fase di fortissima riduzione. Le fasi di
espansione glaciale indicano, in prima approssimazione, periodi di basse temperature, mentre le fasi
di ritiro indicano fasi più calde.
Secondo i dati riportati in GIRAUDI (2005a) la storia del ghiacciaio negli ultimi 10.000 anni può
essere così riassunta (Fig. 5A):
Quad. SGI 1 (2007):21
Giraudi C. Le variazioni climatiche in Italia Centrale negli ultimi 10.000 anni
Fig. 5 – Confronto tra i dati di interesse climatico derivanti dallo studio delle porzioni sommitali dei più elevati massicci
appenninici, dei laghi del Fucino e di Mezzano e del delta del F. Tevere. (da GIRAUDI, 2005a, modificato)
- nella prima metà dell’Olocene, il ghiacciaio è completamente scomparso; non è perciò corretto
considerare il ghiacciaio del Calderone come un residuo dei ghiacciai quaternari presenti
nell’Appennino Centrale;
-il ghiacciaio del Calderone si riformò in un periodo più recente di 4520-4090 anni fa e più antico di
2855÷2725 anni fa;
- si verificò una nuova fase di espansione in un periodo più recente di 2855÷2725 anni fa e più
antico della data 540÷660 d.C.;
- un’ulteriore fase di espansione glaciale si verificò tra 540÷660 d.C. e 1270÷1400 d.C.;
-l’ultima fase di espansione risale alla cosiddetta Piccola Età Glaciale, periodo caratterizzato da fasi
particolarmente fredde e umide, iniziato nel XIV – XV secolo e terminato verso la metà del XIX
secolo. Durante la Piccola Età Glaciale il ghiacciaio raggiunse, probabilmente, la massima
estensione degli ultimi 5000 anni. Dall’inizio del ‘900 è in fase di generale ritiro, ritiro diventato
drammatico nel corso degli ultimi 15 – 20 anni. Il ghiacciaio è ormai ridottissimo, diviso in varie
masse residue, coperte da detrito. Nel corso del periodo più freddo della Piccola Età Glaciale,
doveva essere presente un piccolo ghiacciaio anche sotto la più alta cima della Majella (GIRAUDI,
1998).
Processi periglaciali
I processi periglaciali si sviluppano, alle nostre latitudini, in alta montagna (aree sommitali dei più
elevati massicci dell'Appennino, Gran Sasso, Majella, Velino e Sibillini) a causa principalmente dei
fenomeni di gelo e disgelo. La discussione di questi processi è riportata in GIRAUDI (2005a) e
riguarda sedimentazione di detrito di versante, sviluppo di suoli a strisce parallele e soliflussi.
Le variazioni climatiche hanno cambiato sovente le condizioni delle aree sommitali dei massicci
montuosi: le indagini hanno permesso di verificare l’alternanza di periodi caldi, nel corso dei quali
tali versanti erano coperti di vegetazione, e freddi, nel corso dei quali le stesse zone erano interessate
da processi periglaciali.
Come si può dedurre dalla Fig 5 C,D, lo sviluppo dei processi periglaciali coincide normalmente con
i periodi più freddi o freschi.
Quad. SGI 1 (2007):22
Giraudi C. Le variazioni climatiche in Italia Centrale negli ultimi 10.000 anni
Discussione ed interpretazione climatica dei dati
I dati presentati si prestano ad essere interpretati a vari livelli dal punto di vista paleoclimatico:
possono fornire indicazioni sia sulle temperature che sul bilancio idrologico dei bacini. Un primo
confronto tra la situazione attuale e passata evidenzia alcuni dati di fatto:
- Il ghiacciaio del Calderone, scomparso nella prima parte dell’Olocene e nel Medio Evo, è
ancora presente al giorno d’oggi, anche se estremamente ridotto.
- Varie zone, attualmente interessate da fenomeni periglaciali e senza copertura vegetale,
erano colonizzate dalla vegetazione in vari periodi sia nella prima che nella seconda metà
dell’Olocene e nel Medio Evo.
E’ quindi probabile che nel corso di alcuni periodi, di durata non precisabile, la temperatura abbia
raggiunto valori superiori a quella degli ultimi decenni.
In Fig. 5 sono stati riuniti i dati relativi ai vari ambienti presi in considerazione nel presente lavoro,
al fine di ottenere una visione di sintesi che favorisca una interpretazione paleoclimatica.
Per l’interpretazione sono stati indicati periodi di clima “fresco”, “fresco e umido”, “umido”,
“caldo” e “arido”. Queste definizioni non hanno, in genere, valore quantitativo, ma sono termini
relativi necessari per qualificare le variazioni climatiche individuate.
Nel diagramma di Fig. 5 , il limite tra i periodi di clima diverso è indicato come netto e ben
databile, ma si tratta di esigenze grafiche: in effetti la cronologia è basata su datazioni radiocarbonio
che, considerando l’incertezza, non possono fornire indicazioni cronologiche troppo precise. I limiti
tra i vari periodi di clima diverso riportati in Fig. 5 debbono essere considerati perciò approssimati.
L’interpretazione del diagramma di Fig. 5 porta ad alcune considerazioni immediate:
- Il periodo compreso tra circa 7000 e 4300 anni fa appare interessato essenzialmente da fasi
climatiche calde o aride e fasi umide; il periodo successivo a circa 4300 anni fa appare
invece interessato in prevalenza da fasi fresche o fresche e umide alternate a periodi caldi o
aridi di durata minore. I due periodi sembrano ben correlabili all’Optimum Climatico
Olocenico, il primo, ed alla Neoglaciazione, il secondo.
- Il periodo compreso tra circa 4300 e 4800 anni fa, come dimostrano le diminuzioni di livello
di tutti i laghi, sembra essere il più arido in assoluto.
- Tra i periodi freschi ed umidi, in base ai dati presentati, il periodo successivo al XIV secolo
d.C. e precedente al XX secolo (la cosiddetta Piccola Età Glaciale) appare il più evidente ed
è sicuramente quello che ha lasciato le più importanti tracce sul paesaggio montano, ma
anche nel delta del Tevere e sulle sponde dei laghi studiati. Secondo GIRAUDI (2005a),
durante la Piccola Età Glaciale potrebbero essersi verificate brevi fasi particolarmente
fredde nel corso delle quali le temperature invernali raggiungevano valori di 3°C al di sotto
delle temperature attuali.
- Tra i più importanti periodi caldi della seconda metà dell’Olocene, figurano quelli compresi
tra il X ed il XIV secolo d.C. (corrispondente al cosiddetto Optimum Climatico Medioevale)
e tra III-IV e VI-VII secolo d.C. Secondo GIRAUDI (2005a), durante alcuni periodi la
temperatura invernale si manteneva 0,9 °C al di sopra di quella attuale.
- La fase di riscaldamento in atto dalla fine della Piccola Età Glaciale sta producendo effetti
molto importanti a scala globale ma appare ancora più evidente in quanto succede ad una
fase particolarmente fredda.
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