Storia E, Rivista quadrimestrale della Sovrintendenza Scolastica di Bolzano, Anno 5 n.123 - 2007 Il poema dei Fanes STORIA E ANTROPOLOGIA di Brunamaria Dal Lago Veneri 88 trascorse molto tempo prima che potessi trovare un vecchio pastore che ricordava qualche cosa. Una specie di bibliografia ragionata È così che i suoi studi e le sue passioni lo portano sulla scia dei racconti dei “Monti Pallidi” delle Dolomiti. È un lavoro lungo e metodico che il Wolff svolge anche nel periodo della prima guerra mondiale e lungo tutta la sua vita Un particolare interesse hanno per lui le memorie degli antichi regni: l’Aurona, i Fanes, il regno di re Laurino, la vera epopea delle saghe dolomitiche sia della zona sudtirolese che di quella trentina e bellunese. Ne risulta la ricerca ed esposizione dei racconti dolomitici Dolomitensagen base e riferimento di ogni studio in questo campo. Karl Felix Wolff muore a Bolzano il 25 novembre 1966 all’età di 87 anni dopo un’intera esistenza dedicata alla sua opera. Sull’opera del Wolff Ulrike Kindl, docente di lingua e letteratura tedesca all’Università di Venezia pubblica i suoi lavori critici intitolati: Kritische Lektüre der Dolomitensagen von Karl Felix Wolff, Band I, Einzelsagen (1983) e Kritische Lektüre der Dolomitensagen von Karl Felix Wolff, Band II: Sagenzyklen (1997). Ulrike Kindl è anche la traduttrice e curatrice delle fiabe e leggende raccolte da Hugo De Rossi in Valle di Fassa. Questo in generale sull’opera del Wolff. Per quanto riguarda il poema del Regno dei Fanes mi pare opportuno svolgere a ritroso il cammino di Wolff alla ricerca di tutte le testimonianze, le fonti o i riferimenti da lui raccolti nel corso del tempo. Il Wolff stesso nel capitolo iniziale del Regno dei Fanes racconta di come, già nel 1929 avesse pubblicato nel giornale di Monaco “Bergkameraden”, con lo pseudonimo di Anton Allmer, un racconto intitolato Der Rote Berg (La croda rossa) con le prime notizie sui Fanes. Fra i primi nomi che il Wolff cita come fonti o comunque come occupata del tema “Fanes”, c’è una scrittrice Maria Veronica Rubatscher che si interessa della figura di Dolasilla, la Tscheduya, la guerriera, ma poi unisce, liberamente, il poema epico dei Fanes con quello di Laurino. Un secondo nome è quello di Franz Dantone, fotografo a Gries di Canazei, che con Wolff scambia le sue notizie sull’antico racconto dei Fanes. Segue Hugo de Rossi di Santa Giuliana, di quattro anni più vecchio del Wolff (8 marzo 1875-3 maggio 1940) illustrissimo raccoglitore di Fiabe e Leggende della Val di Fassa che non portò a termine forse perché nel 1913 Wolff uscì con la prima edizione delle Dolomitensagen. Dopo l’uscita Non si può trattare il tema delle leggende e delle saghe dolomitiche in generale prescindendo dalla figura di Karl Felix Wolff. Karl Felix Wolff, nasce il 21 maggio 1879 a Karlstadt, in Croazia, allora parte dell’impero austro-ungarico. Suo padre Johann era ufficiale, la madre Lucilla von Busetti, appartenente ad una famiglia di origine trentina. Gli studi del giovane Karl Felix sono seguiti dal padre. A 18 anni diventa giornalista, si interessa di archeologia, di storia, di antropologia. La sua scelta deriva forse dai racconti di una “tata” infermiera come testimonia in una sua lettera: Nell’anno 1887-1888, mi ammalai per un lungo periodo e quindi mia madre fece venire un’infermiera. Era questa un’anziana signora della Val di Fiemme che chiamavamo semplicemente “la vecchia Lena”. Io non l’ho vista mai più e le sono debitore del mio più grande ringraziamento perché ha contribuito in modo determinante sulla mia formazione culturale, raccontandomi le mie prime leggende. In seguito, quando nel 1903 visitai la Val di Fiemme, ero convinto che ogni persona dovesse conoscere queste storie. Invece 78 storiae Brunamaria Dal Lago Veneri è nata a Bolzano, dove vive e lavora. Scrittrice, pubblicista, traduttrice è autrice di testi per trasmissioni radiofoniche e televisive per il teatro. Il suo campo di ricerca è la tradizione nello spazio che và dal mito al racconto, alla storia del mondo plurilingue del quale si sente partecipe. Visiting professor presso l’Università di Lugano con corsi monografici di antropologia culturale (riti, miti, il gioco, le tradizioni; relazioni presso gli atenei di Trento, Gorizia, Trieste, Innsbruck e Vienna). Editorialista del Corriere della Sera per le edizioni del Trentino e dell’Alto Adige, lavora per la radiotelevisione nazionale e locale. Le sue opere sono pubblicate dalla Lato Side, Mondadori, Newton Compton, Manfrini, Giunti Editori, Sturzflüge (Bolzano), Folio Verlag (Bolzano-Vienna), d.t.v. (Monaco), Scarabeus Verlag (Hilden) e Durieux (Zagabria). Fra i testi pubblicati Le fiabe dei fiori, Guida insolita ai castelli del Trentino-Alto Adige, Leggende e racconti del Trentino-Alto Adige, Alto Adige, terra di riti, tradizioni e leggende, Tera ladina, Il sogno della ragione, Il Regno dei Fanes e molti altri. del lavoro di Wolff e dopo il suo ferimento in guerra (Hugo de Rossi perse un braccio) il De Rossi lasciò la sua raccolta e si dedicò quasi esclusivamente a ricerche linguistiche e a leggende della Val di Fassa. C’è poi Tita Cassan, fassano, professore a Bolzano e in primo luogo il grande Wilhelm Moroder Lusemberg, gardenese,Willi per gli amici, profondissimo conoscitore di usi,costumi, tradizioni, leggende, scomparso alla fine della prima guerra mondiale assieme al suo materiale di ricerca che il Wolff pare avesse visto e di cui rimangono solo alcune tracce in una corrispondenza con il De Rossi. Sono del Moroder comunque molte notizie che il Wolff riporta e che riguardano il poema dei Fanes e una riduzione scenica che risale al 1796. Ancora un nome: il regista tedesco Rudolf Lorenz, su incarico di una signorina von Klipstein, figlia del geologo A. von Klipstein, che fu il primo a descrivere,la natura geologica del territorio e, in particolare, la zona dell’alpe dei Fanes, vuole scrivere un’opera su questa materia, ma anche qui la guerra, la prima guerra mondiale, ferma questo lavoro che rimane solo un progetto, riferito principalmente alla ricerca letteraria di J.A. Heyl. Fu poi la volta di un compositore viennese Emil Petschnig che, prima riferendosi ad un testo del poeta Rudolf Pannwitz poi con notizie avute dal De Rossi, redige un’opera in tre atti, Die verheißene Zeit (Il tempo promesso) che parla dell’epopea dei Fanes. L’opera è rappresentata nel 1928, il 14 maggio ad Innsbruck. La parte musicale ha successo, ma il testo letterario non piace. Di questo lavoro si sono perdute le tracce. Nel 1921 Wolff pubblica sulla rivista “Der Schlern” un articolo riportando un antico canto L’ultimo dei Latrones che si riferisce al canto di Lidsanel, un eroe che compare in una seconda parte del Regno dei Fanes e in alcuni racconti trascritti dal Wolff. È di questo periodo L’incontro con il sacerdote Karl Staudacher che scrive al Wolff di essersi da tempo occupato del poema dei Fanes e di stare per comporre un’opera dal titolo Fanes Lied (Il Canto dei Fanes). Nel 1935 il poeta berlinese Eberhard König si mette in contatto con il Wolff. Ne risulta un poema L’Aurona. Nel 1944, alla morte di Staudacher, il Fanes Lied è terminato e il Wolff lo aggiunge al suo Dolomitensagen che era arrivato alla ottava edizione. Sempre attraverso Staudacher il Wolff conosce un poeta ladino della Val Badia Angel Morlang che vuole rinverdire la conoscenza e la rappresentazione del poema dei Fanes. 89 88. Il territorio dell’antico Regno dei Fanes. 89. I lastoni di Formín, regno di Spina del Mul. storiae 79 90 si laurea con una tesi sui Fanes. È del 2006 il film Le Rägn de Fanes di Susi Rattonara, Roland Verra, Hans Peter Karbon. Nel 2007 il Teatro Stabile di Bolzano riprenderà la programmazione di uno spettacolo intitolato La leggenda del regno dei Fanes, testi di Brunamaria Dal Lago e adattamento di Paolo Bonaldi. Il Regno dei Fanes: giusto per orientarsi Nel 1951, il sacerdote Angel Morlang, scrive un poema in lingua ladina Fanes da Zacan che viene rappresentato il 17 giugno, l’8, il 16 e il 28 di luglio e il 25 agosto dello stesso anno.L’opera dura più di quattro ore e nelle pause vengono cantati vecchi canti ladini. L’epopea dei Fanes viene poi ripresa da Auguste Lechner che amplia la tematica del Wolff. È del 1974 uno studio sul Regno dei Fanes- una tragedia del matriarcato, uscito sulla rivista “Der Schlern” a cura di Kläre French Wieser. Esce nel 1989, sollecitata, supportata e consigliata dalla mia professoressa Resi Gruber, gardenese, Il Regno dei Fanes, racconto epico delle Dolomiti che pubblico come “autrice e ritrovatrice” con le illustrazioni di Markus Vallazza, per i tipi della Mondatori e che diventa il testo recitato per il Teatro Stabile di Bolzano, al Festival di Spoleto. Da questa opera traggo i brani citati di seguito. Nel 1992 esce per i tipi di Haymon-Verlag il libro di Anita Pichler con illustrazioni di Markus Vallazza dal titolo Die Frauen aus Fanis, postfazione di Ulrike Kindl. Di notevole rilevanza uno studio del 1996 di Giuliano e Marco Palmier dal titolo I regni perduti dei monti pallidi con particolare rilevanza sul Regno dei Fanes attraverso ricerche storiche ed archeologiche. Nel 2000 esce, sempre sui Fanes un saggio del professor Helmut Birkhan, come contributo agli atti del convegno Ad Gredine Forestum 999-1999. Nel 2001 Veronica Irsara di San Cassiano 80 storiae Il nome Alpe di Fanes lo troviamo usato geograficamente già nel 1600, anche se non particolarmente locato nelle Dolomiti. Un’altra notizia curiosa, sempre citata dallo stesso Wolff, n el 1412 il patriarca di Aquileia mandò truppe da Tolmezzo a Cadore sotto il comando di un capitano che si chiamava Nicolò Fanis. Che fosse un antico nome o un’antica casata? Una notizia buffa. Nelle antiche storie ladine, in specie in Val di Fassa, per “gente dei Fanes” si intendevano i nani (questi Fanes non erano più garan di di un bambino di cinque o sei anni, ma la loro testa, coperta da un buffo berretto, era grossa e rotonda). Lo scrittore e ricercatore germanico E.H.Meyer nel suo Germanische Mythologie, Berlin 1891, parla di Fanes uguale a Venedigermander, quei Veneziani che le saghe dolomitiche raccontano come cercatori d’oro provenienti da Venezia. Delle donne dei Fanes, intese come esempio di società a conduzione matristica, si parla in molte leggende delle Dolomiti: Le Regine dei Fanes, La Contessa di Doleda, Donna Dindia, Donna Keniana, la Contessa di Priola e la Contessa 91 Hemma di cui si parla in Corinzia ed altre. Ma veniamo a cominciare con il poema epico chiamato il Regno dei Fanes come da me trascritto: Lassù sulle alte Conturines, dove ci sono solo cespugli e rocce, in un’arena che porta ancora il nome di Parlamento delle Marmotte, tanto tempo fa c’era un regno incantato con villaggi e campi coltivati. Conturin era il cuore di questo paese che si chiamava Fanis e Fanes i suoi abitanti. Fanis aveva valli e montagne, pianure e strade, fiumi e laghi e boschi e campi ed era così vasto che i suoi confini arrivavano alla Limidona, la grande distesa d’acqua al di là delle sette montagne di vetro, oltre le sette paludi ai confini del mondo. Il popolo dei Fanes aveva una regina che abitava il castello sulle montagne. Il castello era così grande che per girarlo tutto, dalle cucine alle stalle, ci volevano sette giorni. La sala del trono era ornata da colonne che altro non erano se non alberi con frutti e foglie I frutti saziavano da tutte le fami e le foglie guarivano da tutte le malattie. Alle pareti della sala erano appesi degli arazzi tessuti dalle regine dei Fanes e dalle loro dame. Gli arazzi rappresentavano la storia del popolo ed erano sette come sette erano le epoche del regno. L’ultimo non era ancora terminato. Il disegno tracciava le ombre del racconto che 92 andiamo a raccontare. Attorno al castello c’erano tre cinta di mura, collegate da ponti e canali. Nella prima cerchia risiedevano i custodi della sapienza del popolo, i narratori, nella seconda gli artefici, i maestri di tutte le arti, nella terza i rappresentanti delle sette stirpi che formavano il regno dei Fanes, luogo della indifferenziazione, non della mancanza di confini. Li univano i canali del sapere. La scena in cui si svolge il racconto epico, il luogo della narrazione è il modello di una organizzazione mentale che media fra il cosmo ed il corpo qui inteso come paesaggio.. Il Regno dei Fanes si sviluppa su tre livelli: una terra reale con monti, città e confini, una terra sotterranea, il regno delle alleate marmotte, un’isola lontana dove le baie sono l’eco di un sogno di vetro o la memoria di un “mare indimenticabile”. In tempi vejes vejores, 93 90. Il riparo mesolitico di Mondevál, sotto i Lastoni di Formín. 91. Il solstizio d’inverno. 92. Il Regno dei Fanes dalla cima La Varella. 93. Le Conturines. storiae 81 antichi antichissimi il regno si chiamava Terra di Maoi, Terra delle Marmotte e le sue regine erano Maolta e sua figlia Maoltina. Maolta e Maoltina abitavano le cime dei monti ed il profondo delle grotte, poi vennero i Fanes, i luminosi, che abitavano la “grande conca” la “fana” Il cuore del regno era il territorio ladino dolomitico: La Badia, la Gardena, Fassa, il Livinallongo e l’Ampezzano. Lontano, oltre le “sette paludi ai confini del mondo” c’era la città di Aglaja (Aquileia?) e poi, oltre la Limidona, l’isola degli uomini-aquila, gli uomini da un braccio solo. Ma i nomi, come in tutti i racconti, non sono che maschere, suoni per vestire di immagini uno spazio che genera azioni e fatti e personaggi. Ma, ci si potrebbe chiedere: che cos’è l’immaginario? L’immaginario è il prodotto dell’immaginazione: rappresentazione parzialmente fedele e coerente o libera rielaborazione, produzione di forme artistiche o di ipotesi scientifiche. Immagini, copia del vero, come modo di rappresentare a sé e per sè la realtà. Immagini forma -forma di conoscenza, frammenti, messaggi di culture, sogni, fantasie, giochi, ricordi, tracce, vertigini, limiti dell’osservabile, fascino dell’invisibile, ritmo del rito, narrazione del mito, tenerezza della memoria. Ombre, doppi, come immagini allo specchio, proiezioni, rappresentazioni, messaggi che si fissano, come se pensare fosse vedere e vedere fosse anche pensare in una circolarità senza fine. Ricerca di ciò che non si vede ed è assente, ma allo stesso tempo ricerca di un ordine. Ecco l’ambiguità dell’immagine, umbra e corpus nello stesso momento. Di essa, come forma di mediazione, nessuna cultura può fare a meno. Anche il sapere della natura è un’immagine del mondo. Immagini del mondo che non hanno solo e non tanto un fine conoscitivo, quanto piuttosto una funzione magico-rituale: rappresentano cioè lo scenario sul quale o entro il quale il rito è chiamato ad agire. Il luogo del rito è allora lo spazio, in cui si proietta il mondo. È il tema delle origini. La ricerca delle origini si configura non come una pura esercitazione intellettuale su dati mitici o storici che ci precedono. Essa corrisponde piuttosto ad una urgenza esistenziale destinata a liberare l’uomo dal senso di smarrimento che diviene significante solo quando trova il filo genealogico della sua presenza e della presenza delle cose nel mondo. Natura, estensione al tutto della spiegazione vitalistica della produzione degli individui e delle cose nel mondo. Creazione, cosmogonia, origine del mondo e dell’uomo, questi sono i temi con i quali l’immaginario s’affaccenda. Quello che chiamiamo il Regno dei Fanes, anche se la storia è prodotto dell’immaginazione o meglio del tentativo di ricostruire un passato mitico con personaggi ed accadimenti, ha una sua collocazione geografica. A nord il regno si estendeva verso la Pusteria ad est verso la val di Ladro e verso la conca di Cortina, a sud verso il Falzarego e san Cassiano con i ricchi pascoli dell’Armentarola e ad ovest, in direzione della val Badia, utilizzando la direttrice naturale di Marebbe, nel cuore del regno dei Fanes. 94 94. Il Gruppo di Fanes. 95. Il territorio dell’antico regno dei Bedojeres. 82 storiae Ma da dove viene il nome Fanes? Una possibile etimologia l’abbiamo da un’immagine mitologica. Se si tratta di un popolo di gente illuminata perché non scegliere, (anche in tempi molto antichi, dove sicuramente conoscenze mitologiche dovevano circolare) un nome mitico molto importane. Fanes, il luminoso. Il Protogonos, Ericopeo, il primo nato della mitologia greca. Tempo-senza-vecchiaia e Ananke generarono Etere, Caos e la Notte e l’uovo d’argento che si spaccò e diede origine a Fanes e le cose entrarono nell’apparire. Primo re del mondo, narra la mitologia, Fanes non voleva regnare e passò lo scettro a Notte. Una seconda lettura, forse la più semplice e corrente è quella che vede Fanes come derivante da “fana” la grande conca, dove risiedeva il cuore del regno. La terza immagine, assai meschina a mio parere, è quella di chiamare “Fanes”quei guerrieri che portavano in testa una specie di elmo come una padella, una Pfanne, appunto. Ma chi furono questi Fanes? Furono solo una comunità di pastori? Non si direbbe. Attraverso la leggenda abbiamo indicazioni come quella del loro animale totemico: la marmotta. La marmotta che vive nel profondo e i nani che vivono nelle Fopes- caverne (vedi le Foppes d’Arjent presso Canazei) non sono creature legate ad un mondo di cacciatori prima, di pastori poi, ma piuttosto ad un mondo di minatori. Dunque doveva esserci in antico, una miniera che dava argento e piombo. Con il piombo, unito ad altri metalli, si otteneva lo stagno, una lega più tenera per gli oggetti d’uso. La miniera della quale rimangono i segni nel racconto (le marmotte, i nani, il Morin de Selvans), ma che presto si esaurì. Di qui le mire espansionistiche ed il sogno dell’Aurona, il mitico regno dell’oro. Il Regno dei Fanes è circondato da altri regni e da altre popolazioni: Nel poema si nomina: Il Regno dei Bedayores I popoli delle betulle situati in val Pusteria Assieme ai Sillivena e ai Spaneides. Il Regno dei Landrines I Landrines, amanti del canto, vivevano in val Polena, le loro terre si estendevano attorno al lago di Landro fin sopra le Tre Cime di Lavaredo e il lago di Misurina Il Regno dei Catubrenes Facilmente riconducibile al nome di cadorini, il nome deriva dall’unione dei due termini celtici catu che significa battaglia e briga, monte, cioè luogo alto e fortificato o forse luogo dove sorgeva un castelliere ora scomparso. Il Regno dei Peleghetes Forse la media alta val Zoldana da Longarone a Forni di Zoldo Il nome deriva probabilmente dal monte Pelmo. Se ne hanno brevi notizie in un racconto, raccolto dal Wolff, dal titolo Gli stregoni del bosco Delamis. Il Regno dei Lastojeres Situato fra la valle di Cortina e la val Fiorentinapasso Giau. Il nome deriva da “Lastroni di pietra” zona di Colle Santa Lucia, Mondeval con il 95 storiae 83 Nel solco di questo torrente, dalla parte della Pala di Merjan, si trova, dicono, in un punto non ben definito, una massiccia porta d’oro l’ingresso al regno dell’Aurona., che i locali chiamano “el pais de or e de lúmos.” Il poema dei Fanes racconta dell’incontro del re dei Fanes con il magico regno dell’Aurona: 96 ricovero e i ritrovamenti (Spina de Mul) e luogo di miniere l’Aurona – il Monte Pore Il regno dei Cajutes Gravitavano attorno alla Marmolada (dall’antico nome di Rosalya) verso il gran Vernel, i bastioni di Serrauta eil Monte Migogn regno di Tcicuta, la maga, sorella dello stregone Spina de Mul. Il Regno dei Duranni Da questo regno viene Ey de Net, l’eroe dell’epopea dei Fanes. Si può collocare nella valle agordina- forse deriva da doura, acqua, ma potrebbe essere una corruzione di Tyrrehnoi, il popolo dell’allume, che però non si trova nel bacino minerario agordino. Un giorno il re passeggiava per il grande castello. Arrivato alla prima cinta, quella dei narratori, udì un vecchio cantastorie che raccontava: Buona gente io sono vecchio e molto e molto ho conosciuto, ma mai nulla di più splendido del regno sotterraneo dell’Aurona chiuso da una porta d’oro. Le sue caverne sono così piene di oro e di pietre preziose che persino l’acqua che le bagna esce colore dell’oro e le pecore che devono a quelle acqua hanno i denti d’oro. Il regno dell’Aurona è una immensa caverna, illuminata da piccole lampade. La sua gente è condannata a scavare e scavare senza fermarsi mai. Perché questo è il patto con le divinità delle tenebre. Scavare e scavare, trovare e accumulare, ma mai vedere la luce del sole. Un giorno però una lampada cadde dal soffitto e dove era la lampada rimase un buchino dal quale entrò un raggio di sole. Uno degli abitanti dell’Aurona guardò fuori e vide prati e valli ed erbe ed animali, vide il sole che scaldava il giorno e la luna che illuminava la notte e le stelle che brillavano come mille lampade sulla volta del mondo. E questo raccontò alla sua gente, ma quando tolse gli occhi dalla fessura tutti si accorsero che era diventato cieco. Così ancora una volta gli abitanti dell’Aurona tornarono nel buio delle loro caverne. Passarono anni ed anni e di quell’esperienza rimase solo il racconto. Il Regno dell’Aurona? La testimonianza è quella di un racconto del Wolff Chi giunga al passo del Pordoi venendo da Canazei ha alla sua destra la catena del Padon. È un massiccio informe di lava: la sua nera pietra tufacea, a grossi strati sovrapposti, offre un forte contrasto con le chiare e lisce formazioni rocciose delle Dolomiti, che da ogni parte lo sovrastano… Non c’è da meravigliarsi che la leggenda abbia posto sotto queste fosche montagne l’Aurona, il paese delle miniere e dei misteriosi tesori. Dal passo di Pordoi ha inizio una valle, verde di prati, che si apre verso Oriente nella piccola piana di Reba. In quel luogo che viene giù dal Padon il torrente ha il nome di “ru Aurona”. 96. Il territorio dell’antico regno dei Landrines. 97. Il territorio dell’antico regno dei Peleghetes. 84 storiae 97 98 Il racconto dei Fanes Questi Fanes erano gente pacifica. Loro alleate erano le Marmotte che nel pericolo si rifugiano nel profondo. I popoli limitrofi raccontano che i Fanes erano diventati grandi per questa alleanza che tutti conoscevano, perché conoscere le proprie radici è segno di saggezza. Questo un tempo, poiché anche la conoscenza era andata perduta e l’alleanza con le marmotte era diventata un segreto che i custodi rivelavano alla regina come dono nel suo giorno di nozze. Ora accadde che la principessa ultima erede dei Fanes andasse sposa ad un principe straniero. Il giorno delle nozze i custodi le rivelarono il segreto delle alleate marmotte, ma la principessa non ne fece cenno allo sposo. Le nozze furono celebrare, la principessa non volle regnare e il re straniero fu eletto re dei Fanes per volere della regina. Ma cosa vogliono raccontare le pacifiche donne dei Fanes, legate ad elementi della terra e del profondo, come le marmotte? Queste donne ci vengono presentate come curatrici, conservatrici e raccoglitrici dei prodotti della terra, ma anche sibille in lotta per il possesso della conoscenza e del corretto rapporto con Segue il racconto di Sommavida la principessa dell’Aurona che esce dal regno sotterraneo perché un re, Odolghes, Sabya de Fec (Spada di fuoco, spada luminosa perché tale è diventata la sua spada dopo aver a lungo colpito il grande portone d’oro degli Aurona), ne abbatte le porte d’oro e porta Sommavida come sposa a Contrin, ma decreta la fine del regno degli Aurona. È la storia del regno dell’Aurona, del regno dell’oro che scatena la follia espansionistica del re dei Fanes e con essa la distruzione del regno. La nascita e la distruzione del Regno dei Fanes costituisce l’epica più alta delle leggende Dolomitiche. L’epica minore, quella dei Selvans, delle Aguane e delle Bregostane, riporta alla memoria dell’incontro fra gli antichi abitanti di questa terra, i Selvans, di preesistenza retica e preretica che conoscevano i segreti del bosco e della natura. La nascita del Regno dei Fanes è un momento di grande poesia e malinconia- è il ricordo di un’epoca felice di pace fra gli uomini e la natura. Ma veniamo al racconto. 99 98. Il territorio dell’antico regno dei Catubrènes. 99. Il territorio dell’antico regno dei Duranni. 100. Lavorazione del ferro, stampa tedesca del XVI secolo. 101. Miniera di ferro in una stampa tedesca del XVI secolo. 102. Notturno. storiae 85 le forse segrete della natura. È un regno felice, un età dell’oro, un tempo mitico del quale si può solo raccontare, perché l’inizio del racconto è, come sempre una catastrofe. La catastrofe è la fine del regno di queste donne, sagge, conservatrici, raccoglitrici, narratrici e l’inizio del nuovo, di un’epoca nuova, l’epoca delle conquiste. Il Regno dei Fanes è rappresentato come quello delle api. Esseri di fuoco come il fulmine divino, al quale molte tradizioni le accomunano, all’essere tramite dal profondo delle divinità ctonie, le api rappresentano le sacerdotesse del tempio, le Pitonesse, le anime pure degli iniziati, lo spirito purificato dal fuoco e nutrito dal miele, tramite fra il mondo di sopra e il profondo. Una regina che possiede un regno nel quale l’interno, il centro, si irradia verso l’esterno, e che, all’inizio della storia, decide di abdicare alla sua missione in favore di un re straniero che al potere della conoscenza, al regno della pace del cuore (leggi cuore come rosa mistica, antica Atlantide, castello dei Fanes), preferisce il possesso ed il potere sulle terre e sulle genti vicine. Ma torniamo al racconto: Un giorno il re andando a caccia sulle pendici dell’Alto Nuvolau, riuscì a prendere vivo un aquilotto. Lo stava riponendo in un cesto che aveva appeso alla sella quando dal cielo piombò su di lui un’aquila con il becco di fuoco e gli artigli d’oro. La lotta fu dura ed alterna, anche perché il re straniero era un guerriero valoroso. Ad un tratto l’aquila parlò:” Ridammi mio figlio e farò di te il più potente re delle montagne”. Il re acconsentì e l’aquila propose un patto 100 86 storiae di alleanza che si sarebbe consolidato con lo scambio di uno dei due gemelli. Il re straniero non conosceva questa usanza e rimase sorpreso dalle parole dell’aquila. Ma l’aquila gli disse:”Tu sei straniero, ma fra la gente dei Fanes questo è un uso da sempre praticato. Se nascono figli gemelli, uno viene dato all’alleato i quale farà lo stesso. Così il figlio dell’uno sarà il figlio dell’altro Ma il patto deve rimanere segreto Dopo qualche tempo nel castello delle Conturines nacquero due gemelle: una era bella come il Sole e fu chiamata Dolasilla, l’altra luminosa come la Luna e fu chiamata Lujanta. La mattina dopo la nascita le balie si accorsero che al posto di Lujanta nella culla c’era una bianca marmottina. Qualche giorno dopo la nascita delle gemelle il re disse alla regina che, secondo l’usanza del suo paese, le voleva portare su un’alta montagna per presentarle al Sole, che è il signore di tutte le vite. La regina acconsentì. Il re fece chiamare uno scudiero e gli disse: “domani porterai le mie gemelle fino alle pendici dell’auto Nuvolau. Lì verrà un’aquila dal becco di fiamma e dagli artigli d’oro e sceglierà una delle gemelle. Non temere. Non raccontare a nessuno quanto ti ho detto. Al tuo ritorno dirai che uno dei Latrones ti ha assalito ed ucciso una delle gemelle… L’aquila venne. Osservò le bambine e scelse.. la più strana. Dunque, all’origine di questa storia c’è un regno, con un re straniero, una regina, due gemelle e due patti mitici con animali totemici: le marmotte per le donne, le aquile per gli uomini. C’è un regno sulle montagne ed un regno sottoterra dove un grande mulino, il “Morin de Selvans”macina pace ed abbondanza. Ma se il patto con le alleate marmotte verrà meno il mulino macinerà prima sale e poi le rocce stesse fino alla distruzione. Ma l’inizio del racconto ci traccia ancora le linee di un regno di pace, con una regina, un re e due figlie gemelle. Più tardi nascerà anche un figlio, il principe da un braccio solo, simbolo di una disperata univoca volontà di potenza, che l’aquila rapirà nell’ultima sfortunata battaglia dei Fanes portandolo nell’isola lontana, o forse nel paradiso degli eroi. Il tema delle origine è diverso a seconda delle varie culture delle quali ci si affaccenda. Abbiamo sempre e comunque una divinità o alcune divinità che hanno creato il visibile, molto spesso con il sacrificio di se stesse. Nella tradizione celtica si parla di antenati mitici che si presentano sotto forma di animale e che sono, come vedremo nel poema dei Fanes, riferimento per tutto un popolo. Il poema dei Fanes è dunque un racconto mitologico riferito ad una gente antica che è scomparsa e nello stesso tempo la narrazione-spiegazione di questa scomparsa. un tratto nelle sue espressioni e nei suoi sguardi e conferisce a tutto ciò che lo riguardava l’autorità che anche l’ultimo poveretto possiede, morendo, per i vivi che lo circondano. La morte è l autorità e l’origine del narrato. (W. Benjamin) 101 Il Mutterrecht Il mito dei Fanes Il mito cerca di spiegare l’inespiegabile; dal momento che esso viene dal fondo di verità, deve nuovamente finire nell’inesplicabile. (Kafka) Ci si potrebbe chiedere se sono veramente esistiti questi Fanes. Il mito proviene da un fondo di verità, ma questo è inesplicabile, dunque il mito stesso non può avere spiegazioni. Questa asserzione coinvolge non solo l’interpretazione del mito, ma della narrazione stessa. Ricerca di ciò che non si vede ed è assente, ma arcaicamente insito nell’uomo, e allo stesso tempo ricerca di un ordine. La paura del crollo di un ordine cosmico e delle gerarchie dei regni della natura si esprime come paura che ciò che vive appaia come morto e che l’immobile acquisti improvvisamente un soffio di vita. Il linguaggio, che è spia e contenitore di antichi miti e consapevolezze, ripete la terminologia animale e arborea per gli esseri umani. Ciò non deve stupire, perché, se è vero che immaginario e ragione si integrano reciprocamente, è altrettanto vero che l’immaginario e i suoi modi archetipi, simbolici e mitici, hanno l’antecedenza sul senso del linguaggio e sulla sua sintassi. Sta di fatto che non solo il sapere o la saggezza dell’uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta che è la materia da cui nascono le storie - assume forma tramandabile solo nel morente. Come, allo spirare della vita, si mette in moto, all’interno dell’uomo, una serie di immagini, così l’indimenticabile affiora ad Che cosa sono in fondo i “Fanes” se non un’immensa e tristissima allegoria della morte dove la dissoluzione celebra il suo trionfo? I Fanes sono un personaggio-popolo che scaturisce da un luogo, ne è la fisica concrezione, ne costituisce la natura e la rispondenza. Un popolo dove, a somiglianza dell’antico regno delle Amazzoni, vige un principio matristico, come in tutti i popoli antichi del bacino mediterraneo che veneravano un’antica Dea Madre. Ci si riferisce ad un tempo che va dai quattromila ai diecimila anni prima di Cristo e si tratta di società a conduzione matristica come è documentato in Tracia, in Macedonia, in Anatolia, nelle isole di Cipro e Creta, a Gerico, nelle valli del Nilo e nelle isole Cicladi. Parlo di società a conduzione matristica, non di matriarcato, parola ormai trita e mal definita. Si tratta del “Mutterecht” il “dovere diritto delle donne” come il matriarcato si dice in lingua tedesca, letto come valenza positiva e benefica, dovere di supportare la comunità e diritto ad essere delle sibille, delle visionarie, delle curatrici, delle donne insomma, è destinata alla fine perché contrapposta ad un nascente patriarcato. Di questo mutamento si narra nel poema dei Fanes. Al regno delle donne si sostituisce il potere degli uomini, all’animale totemico del profondo, la marmotta, quello dell’aria, l’aquila. Oltre a ciò il poema si fonda sul principio della specularità: ogni discendente è doppio, in base alla teoria dello scambio fra regno animale e regno umano. Già prima di nascere uno dei gemelli è destinato a scomparire nel profondo, a rigenerarsi in una specie di magico antropomorfismo. 102 storiae 87 103 e l’incontro fra il giovane Duranno e Spina de Mul E Spina de Mul venne. Allora il giovane Duranno raccolse una pietra e si nascose dietro ad una roccia. Quando Spina de Mul arrivò gli lanciò la pietra contro il cranio e l’osso si ruppe come un fuscello…. E Spina chiese hi sei tu guerriero che sai che solo le mie ossa, le pietre, possono essere armi contro di me? E il giovane rispose: Sono un Duranno e secondo l’uso della mia gente vado per terre sconosciute in cerca di avventura. Il mio nome nascerà con la mia fama di guerriero. E Spina gli rispose Ecco io ti darò un nome: Sarei Ey de Net, l’occhio della Notte perché sai vedere l’oscuro…. Ey de Net esercitò subito il suo nome perché raccolse da terra la Rajeta, la gemma dei Fanes che Spina aveva perduto nel combattimento Vista la fanciulla Dolosillal che dormiva in pace le regalò la pietra Rajeta con le parole: Se sei la principessa dei Fanes la pietra è tua ed io te la restituisco. Avevamo lasciato la narrazione nel momento dell’incontro dello scudiero con l’aquila dal becco di fuoco e dagli artigli d’oro e alla presentazione dei due eroi: il negativo ed il positivo. Dopo che l’aquila ebbe preso la “marmottina” e che questa, divincolatasi dalle fasce si rifugiò nel profondo.. Lo scudiero con la cesta sulle spalle si dirigeva verso il castello quando udì l’urlo di Spina de Mul. Scappò così in fretta fino al posto dove sapeva di trovare gli Splutes, i custodi dei confini. Lo scudiero aveva anche il terrore di aver perduto la seconda bambina, che era ben legata nel cesto, ma gli Splutes lo rassicurarono: Dolasilla dormiva…. Lo scudiero chiese di chi era quell’urlo bestiale e gli Splutes risposero che era di Spina de Mul il maestro stregone della stirpe dei Lastojeres.” L’aspetto ha di mulo mezzo putrefatto con la testa e le spalle ancora fiorite di pelle. Il resto sono ossa che risuonano nella notte assieme all’urlo selvaggio che fa impazzire chi lo ascolta... A questo punto del racconto ci si presenta l’eroe, l’antagonista: Ad un tratto si udirono dei passi. Si avvicino un giovane di circa quindici anni, veniva dal paese dei Duranni a guadagnarsi con le sue avventure il nome di guerriero. 88 storiae Lo spirito del male è una variante alpina del leggendario centauro cantato dai greci (Spina de Mul, mostro-stregone, inalbera una testa di mulo su un corpo mezzo putrefatto) le forze del bene sono parafrasate in un guerriero Ey de Net Occhio della Notte, perché è in grado di scorgere attraverso le tenebre la luce della conoscenza. Il feticcio della conoscenza, il cosiddetto albero del bene e del male, è nel poema epico dei Fanes la Rajeta, la pietra raggiante, lo sguardo luminoso dei Fanes, sepolto sotto la terra. Nel regno delle Marmotte? E quello che spinge il re straniero a tante sanguinose lotte contro i popoli confinanti e l’ambizione di assoggettare il popolo degli Aurona, altro non è che l’idea immanente del Fato che giace, con i suoi immensi tesori, prigionieri dei segreti inaccessibili della pietra delle rocce e del silenzio. È l’aspirazione a penetrare i segreti della Natura, segreti del regno delle donne che si negano alla speculazione maschile che farà del re un capro espiatorio del mito, ad abiurare la sua dignità di padre. Il racconto prosegue con la descrizione del Lago d’Argento (dove secondo la leggenda si troverebbe l’ingresso del regno infero) sarà il luogo dell’incontro fra l’adolescente Dolasilla (immagine della gestazione dallo stadio di inerzia a quello della natura trionfante) e i nani del racconto, che con il loro dono, la pelle delle marmotte per la corazza, l’argento per l’elmo e l’arco, le frecce fatte dalle canne del lago d’argento e le dodici trombe che segnano l’arrivo di Dolasilla, la guerriera, dischiudendo, fra realtà e magia un tragico processo di osmosi, una eterna virtualità di guerra, la nascita della ideologia di sopraffazione. E Dolasilla, il cui nome altro non è che una sequenza musicale –”Do La Si La” sequenza musi- cale, suono capace di aprire le rocce, di schiudere i cuori, come l’apriti Sesamo di Aladino, (almeno secondo lo studio dello studioso di etimologia Fritz Herzmanovsky-Orlando) diventerà una Guerriera Invincibile, una Tjeduya, la mano armata dello spirito del re dei Fanes La fine del regno dei Fanes è quindi la guerra, ma è nel segno della guerra e della figura della grande guerriera che il racconto recupera la figura dell’eroe, di Ey de Net. La guerra Per la battaglia fu scelta la pianura di Fiammes, ai limiti delle alte pareti del Pomagagnon in terra ampezzana… Accanto ad Ey de Net apparve Spina de Mul nel suo travestimento da guerriero. Portava fra le mani un piccolo arco i metallo fatato…Ad un tratto si udirono gli squilli delle trombe d’argento dei Fanes. Tra gli alberi, alla testa dei suoi guerrieri, apparve Dolasilla dalla bianca armatura. Tra i capelli neri come le ali delle aquile splendeva la Rajeta in un fosco bagliore. Ey de Net rimase fermo a guardarla mentre l’intrepida guerriera sbaragliava prima i Pelaghetes, poi i Lastojeres: Dolasilla si dirigeva fulgida come il sole verso i Duranni, mentre Ey de Net, come svegliato 104 da un lungo sonno, fissava abbagliato la principessa che con mano abile scagliava freccia dopo freccia.Si racconta che i due giovani si fronteggiarono immobili, con le armi abbassate, perduti uno nello sguardo dell’altro. I motivi reali della guerra sono, da sempre, questioni di proprietà, di produzioni fondamentali, a partire dalla terra. La guerra è un problema di appropriazione e fino a quando il desiderio di appropriazione durerà sarà possibile la guerra. Ecco il passaggio, la catastrofe, l’inizio della fine del regno dei Fanes, un regno felice, un età dell’oro, un tempo mitico del quale si può solo raccontare. La catastrofe è la fine del regno di queste donne, sagge, conservatrici, raccoglitrici, narratrici e l’inizio del nuovo, di un’epoca nuova, l’epoca delle conquiste. Ed è anche qui che la narrazione si avvicina alla verità: perché i racconti come vasi contengono realtà anche storiche ed immaginazione mescolati fra loro. Fu una questione di necessità, visto che la fortuna dei Fanes, le sue miniere andavano esaurendosi, l’espansione sulle fertili terre dei vicini? Per poter raggiungere questo potere il re straniero si servirà anche della sua stessa figlia, Dolasilla, e ne farà una Tjeduya, una guerriera, mutando così la vera natura delle donna in arma da guerra. Il poema epico di Fanes mescola e confonde, in un gioco che risulta alle volte misterioso ed estraniante, alle volte trasparente e particolarmente vicino, tutti gli elementi della tragedia. E la tragedia ha inizio con l’incontro di Dolasilla e di Ey de Net, la ferita di Dolasilla causata da una freccia di Spina de Mul e la “vocazione” di Ey de Net di divenire custode e scudiero della sua principessa. Si precisano riferimenti significativi: i nani che emergono a tratti come presenze allucinanti, artefici e fabbri, sono le controfigure di Alberico e di Mime nella tetralogia wagneriana mentre la Vergine Guerriera che cavalca accanto al padre fasciata nella bianca armatura oltre che Santa Giovanna è Brunhilde, mentre il re ricalca la minaccia e la violenza di Wotan. 103. I resti della civiltà dei Monti Pallidi: Contrín, alta Val Cordevole. 104. I resti della civiltà dei Monti Pallidi: tabià a Coi, alta Val Zoldana. storiae 89 O ancora la storia dello scudo che deve salvare Dolasilla e che altro non è se non la raffigurazione dello scudo di Achille: Erano cinque le zone dello scudo e in esso fece molti ornamenti coi suoi sapienti pensieri. Vi fece la terra, il cielo e il mare, l’infaticabile sole e la luna piena e tutti quanti i segni che incoronano il cielo, le Pleiadi, l’Iadi e la forza di Orione e l’Orsa che chiamano col nome di Carro: ella gira sopra se stessa e guarda Orione, e sola non ha parte dei lavacri d’Oceano. E vi fece poi due città di mortali belle. In una erano nozze e banchetti; spose e talami, sotto torce fiammanti.... Vi pose anche un novale molle e un campo grasso, largo, da tre arature; e qui molti aratori... vi pose anche una vigna, stracarica di grappoli, ... e vi fece una mandria di vacche corna diritte ... Infine vi fece la grande possanza del fiume Oceano lungo l’ultimo giro del solido scudo. (Iliade, XVIII, 480-605) Bello era lo scudo ed ornato di borchie d’oro e d’argent, come d’oro e d’argento sono il Sole e la Luna. Al centro il castello come un azzurro zircone, attorno le mura e il regno dalle montagne al mare. E i campi e la gente e le feste ed i banchetti..Solo un guerriero lo poteva portare. Ey de Net era il suo nome e Dolasilla avrebbe potuto salvare. Ai margini dell’arazzo la cui trama è la storia che si va narrando entrano in scena i personaggi dell’immaginario alpino: le Aguane che conoscono il 105 passato ed il futuro, ma che ignorano il presente o le Mjanines, che evocano dal profondo i visi degli esseri amati. E che sono tanto sensibili che, se si emozionano, fanno piovere. Ma la natura stessa, impervia di rocce protese a sfidare lo spazio vuoto dei cieli, ha in serbo armi segrete. L’ombra incombente di una Lilith, piuttosto che di una Madre Terra è riconoscibile in Tcicuta, la maga sorella di Spina de Mul, che si annuncia, nel rapido alternarsi del riflesso del lampo che precede la tempesta, sul Megon de Megojes, che significa “papavero dei papaveri”. Tcicuta svolge e placa la sua potenza in una oscillazione continua fra veglia e sonno: papavero e memoria sono i suoi simboli. È lei che scatena la potenza devastante dei sogni: il principe dei Cajutes, sacrificato sul campo dell’onore, appare nel sogno di Dolasilla fanciulla-guerriera che subisce la fascinazione erotica di un fantasma. Dicono che il Megon de Megojes si trovi sulla parte meridionale del Padon. Qui, come dice il nome, appare alle volte un grande campo di papaveri che crescono sulle sporgenze di una roccia nera che è l’ingresso del regno di sotto.. Sette giorni e sette notti attese Ey de Net che apparisse il Megon de Megojes sul monte Migoin. Ogni mattina gli appariva la splendida Marmolada con il suo vestito di ghiaccio e la sera il Civetta si illuminava di rosso nella luce del tramonto. Sette giorni fu alba sui ghiaccia della Marmolada e sette giorni fu sera sulle rosse rocce del Civetta. Finalmente il cielo si oscurò e sulla val Pettorina scese una fitta nebbia. Dalla nebbia spuntava il Piz Guda come un drago di fuoco. L’aria era immobile e pesante come piombo. Ad un tratto il piombo si fece liquido e caddero le prime gocce. Subito l’aria fu pregna di un profumo dolce di memorie lontane che diventano terra. La roccia si era coperta di papaveri scuri come il sangue. Ey de Net corse verso il prato di papaveri e vi trovò la Tcicuta. La Tcicuta era bellissima e sorrideva ad Ey de Net. Quando però ebbe saputo il perché della sua visita, il viso della Tcicuta divenne oscuro come il temporale “Non conosco questa fanciulla- disse – ma conosco suo padre. Non lasciarti ingannare, nobile Duranno, il re dei Fanes è condannato e tu niente potrai fare per salvarlo. Le parole sono state pronunciate… La Tcicuta interruppe il suo discorso, guardò con ironia il Duranno e disse: Anche mio fratello Spina de Mul sta diventando vecchio. Ti ha chiamato Ey de Net, Occhio della Notte perché vedi l’oscuro. Mi accorgo che alle donne dei Fanes non capita miglior fortuna che a me. Amano dei codardi, dei principi che si accontentano di poco…. La tua Dolasilla ha avuto più volte 105. Autunno nelle Dolomiti. 106. Inverno nelle Dolomiti (Valle Campo di Dentro). 90 storiae 106 E ancora le parole di Tcicuta Che guerriero sei tu mai. Diventerai quello che desideri. Solo un portatore di scudo e servirai la tua dea fino alla sua morte. Ey de Net divenne un “portatore di scudo”, compagno fedele in mille battaglie vittoriose fino a quando, allontanato dalle mire del re e dai consigli di Spina de Mul, non abbandona Dolasilla al suo destino. Si delinea anche il ruolo negativo di Spina de Mul, orrida larva delll’Ade che abita dovunque ed in nessun luogo ed invia, per la perdizione di Dolasilla, tredici fantasmi deformi, tredici bambini sottoposti al suo potere che si faranno donare le frecce magiche: Regalaci qualche cosa regalaci qualche cosa, dicevano i bambini e le si avvicinavano e le toccavano le vesti e le mani ed i capelli. Dolasilla non aveva con sé che l’arco e le frecce del Lago d’Argento. I bambini gridavano e pregavano e le campanelle legate alle loro caviglie suonavano disperatamente. Dolasilla voleva liberarsi dall’incubo di quei tredici esseri demoniaci e regalò loro le tredici frecce fatate. È così che Ey de Net, lo scudiero, l’amante, mandato temporaneamente lontano da Dolasilla lontano dal regno, non potrà più congiungersi con la sua amata che sola, indifesa, cadrà vittima delle sue stesse frecce. degli ammonimenti, ma non pare farci caso. Lei inciamperà sulla via del potere, invece di scegliere la via dell’amore. E tu principe, ti farai servo…. Ad un tratto ad Ey de Net parve che tutti i papaveri intonassero con voce guerriera una mesta canzone: Che guerriero sei tu mai/diventerai quello che desideri/solo un portatore di scudo e servirai la tua dea fino alla morte. Tcicuta rideva selvaggiamente: Hai capito cosa ti dicono i papaveri? Sali sul monte Latemar e chiedi ai nani di fabbricarti uno scudo pesante che nessun altro potrà parlare. Con lo scudo difenderai Dolasilla… Subito si fece notte, sulla vetta di Guda sfolgorava il baleno, la Serata crepitava come un fuoco. Addio- disse la Tcicuta- non pensarci troppo, l’etrnità è appena cominciata. Subito dopo scomparve. I papaveri divennero neri, si ripiegarono su loro stessi e altro non furono che un mucchietto di cenere”.. I papaveri diventano cenere, la Tcicuta scompare e al suo posto rimane un corvo. Tutti i personaggi, in qualche modo, abiurano alla natura umana per divenire incarnazione di forze primogenie, sepolte negli oscuri recessi del profondo.Lo stesso re straniero, il traditore della sua gente e di sua figlia, dopo la sconfitta diventerà pietra, il Falzarego (falsorege) Pallide luci del mattino illuminate le livide crode. L’armata dei Fanes esce dal castello. Davanti sta Dolasilal con un grande mantello a nascondere l’armatura che è diventata scura. Dietro di lei il Principe Aquila. Brillano gli occhi scuri della figlia delle marmotte. Brilla la lama oscura della morte. E Dolasilla canta il suo canto di morte I sun na èra der sfortünada vire da él, kel tokel a me te vera vay cun nost armad mess kopè impé de daydè. (sono fra le donne la più sfortunata. Vivo da uomo, questo è il mio destino/ vado in guerra con le nostre armate e porto morte anziché aiuto). Dolasilla è colpita ed alto si alza l’urlo dei Fanes Dolasilla ferida è nyun ü ten yadè, fortuna müda. (Dolasilla è ferita nessuno ci aiuta. La fortuna muta). A questo punto del racconto ci imbattiamo in un altro riferimento assai interessante. Il popolo dei Fanes, sconfitto e decimato, con a capo la vecchia regina e Lujanta, la gemella lunare, si rifugia nelle caverne delle marmotte, le antiche alleate. La regina li riunì ed intonò un canto che non sapeva di conoscere. storiae 91 107 Casa in pericolo gente in pericolo, regno in pericolo Io la regina dei Fanes ora vi chiamo Per le antiche parole, per l’antico patto, per l’antica fedeltà Ora ascoltatemi. Voi nei cunicoli, voi nelle grotte, voi nel cuore della montagna. Raccogliete il mio grido d’angoscia. Sorelle marmotte salvate le sorelle. Per l’antico patto salvate il regno dei Fanes. E il luogo dove chi è rimasto del popolo dei Fanes si nasconde ha un nome, si chiama Morin de Selvans, il mulino dei Silvani dove le marmotte dormono il loro sonno invernale per tornare in primavera, ma anche dove, secondo le antiche leggende scorrono le acque che fanno muovere il mulino del tempo.. I Fanes, al crocevia fra mitologia ed invenzione narrativa, promuovono il conubbio fra sacralità e rotazione universale, cioè l’eterno ritorno. Quale riferimento si può trarre in questa specie di viaggio fra la mitologia ed il racconto dolomitico o ancora nel viaggio fra mytos e logos che dall’inizio di questa ricerca mi sono proposta? Il 108 mytos è, anche se non pare, una scienza esatta, dietro la quale si estende l’ombra di Ananke, la Necessità e del Tempo-Senza Vecchiaia, i progenitori di Fanes, il primo nato. Ancora un riferimento mitologico che accomuna il Murin de Salvans al Mulino di Amleto come nel saggio di Giorgio di Santillana ed Herta von Dechend con il titolo: Il mulino di Amleto, saggio sul mito e la struttura del tempo. Sono il Tempo e la Necessità che muovono il “mulino d’Amleto” e gli fanno macinare, di èra in èra, prima “pace ed abbondanza, poi “sale” ed infine “rocce e sabbia”, mentre sotto di esso ribollono le acque dell’immane Maelstrom. L’eterno ritorno dei Fanes Come termina il poema dei Fanes? Termina con il mito dell’eterno avvicendarsi delle stagioni che riproduce, nello schema della crisi sacrificale e della violenza, lo stereotipo della invariata circolarità, l’eterno ritorno. Una volta all’anno, in una notte di luna crescente una barca nera fa il giro del lago di Braies. Esce da una porta di roccia e si spinge sulle acque immobili del lago. Le ali del vento notturno abbracciano le cime degli alberi. Sulla barca siedono la vecchia regina dei Fanes e Lujanta, la gemella lunare. Attendono il suono delle trombe d’argento, come è scritto nelle antiche leggende. Attendono il suono e guardano la vetta dove brilla la sacra fiamma nel cespuglio di ginepro. Attendono la grande ora, quando tornerà il tempo promesso: Il tempo dove il regno dei Fanes tornerà dove una volta era. Naturalmente un seguito, anche in Wolff, oltre che nella mia ricerca, si impone perché molte sono le domande alle quali non si è data risposta. Dove è finito il Principe Aquila rapito dall’Aquila dal Becco di Fiamma e dagli Artigli d’Oro? Nell’isola lontana, l’isola dagli uomini da un braccio solo. Furono questi i guerrieri raffigurati con un gran mantello che nascondeva un braccio? Forse. E chi fu l’erede dei Fanes se non quel Lidsanel citato in molte leggende? Ma questa è un’altra storia. 107. Latemar. 108. La Marmolada, l’antica Rosàlya. 109. Il lago di Braies. 92 storiae 109 storiae 93