Storia E, Rivista quadrimestrale della Sovrintendenza Scolastica di Bolzano, Anno 5 n.123 - 2007
Il poema dei Fanes
STORIA E ANTROPOLOGIA
di Brunamaria Dal Lago Veneri
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trascorse molto tempo prima che potessi trovare
un vecchio pastore che ricordava qualche cosa.
Una specie di bibliografia ragionata
È così che i suoi studi e le sue passioni lo portano
sulla scia dei racconti dei “Monti Pallidi” delle
Dolomiti. È un lavoro lungo e metodico che il
Wolff svolge anche nel periodo della prima guerra
mondiale e lungo tutta la sua vita Un particolare
interesse hanno per lui le memorie degli antichi
regni: l’Aurona, i Fanes, il regno di re Laurino,
la vera epopea delle saghe dolomitiche sia della
zona sudtirolese che di quella trentina e bellunese.
Ne risulta la ricerca ed esposizione dei racconti
dolomitici Dolomitensagen base e riferimento di
ogni studio in questo campo.
Karl Felix Wolff muore a Bolzano il 25 novembre
1966 all’età di 87 anni dopo un’intera esistenza
dedicata alla sua opera.
Sull’opera del Wolff Ulrike Kindl, docente di lingua e letteratura tedesca all’Università di Venezia
pubblica i suoi lavori critici intitolati: Kritische
Lektüre der Dolomitensagen von Karl Felix Wolff,
Band I, Einzelsagen (1983) e Kritische Lektüre
der Dolomitensagen von Karl Felix Wolff, Band
II: Sagenzyklen (1997). Ulrike Kindl è anche la
traduttrice e curatrice delle fiabe e leggende raccolte da Hugo De Rossi in Valle di Fassa. Questo
in generale sull’opera del Wolff.
Per quanto riguarda il poema del Regno dei Fanes
mi pare opportuno svolgere a ritroso il cammino
di Wolff alla ricerca di tutte le testimonianze, le
fonti o i riferimenti da lui raccolti nel corso del
tempo.
Il Wolff stesso nel capitolo iniziale del Regno
dei Fanes racconta di come, già nel 1929 avesse
pubblicato nel giornale di Monaco “Bergkameraden”, con lo pseudonimo di Anton Allmer, un
racconto intitolato Der Rote Berg (La croda rossa)
con le prime notizie sui Fanes. Fra i primi nomi
che il Wolff cita come fonti o comunque come
occupata del tema “Fanes”, c’è una scrittrice
Maria Veronica Rubatscher che si interessa della
figura di Dolasilla, la Tscheduya, la guerriera, ma
poi unisce, liberamente, il poema epico dei Fanes
con quello di Laurino. Un secondo nome è quello
di Franz Dantone, fotografo a Gries di Canazei,
che con Wolff scambia le sue notizie sull’antico
racconto dei Fanes.
Segue Hugo de Rossi di Santa Giuliana, di quattro anni più vecchio del Wolff (8 marzo 1875-3
maggio 1940) illustrissimo raccoglitore di Fiabe
e Leggende della Val di Fassa che non portò a termine forse perché nel 1913 Wolff uscì con la prima edizione delle Dolomitensagen. Dopo l’uscita
Non si può trattare il tema delle leggende e delle
saghe dolomitiche in generale prescindendo dalla
figura di Karl Felix Wolff.
Karl Felix Wolff, nasce il 21 maggio 1879 a
Karlstadt, in Croazia, allora parte dell’impero
austro-ungarico. Suo padre Johann era ufficiale,
la madre Lucilla von Busetti, appartenente ad una
famiglia di origine trentina.
Gli studi del giovane Karl Felix sono seguiti dal
padre. A 18 anni diventa giornalista, si interessa
di archeologia, di storia, di antropologia. La sua
scelta deriva forse dai racconti di una “tata” infermiera come testimonia in una sua lettera:
Nell’anno 1887-1888, mi ammalai per un lungo
periodo e quindi mia madre fece venire un’infermiera. Era questa un’anziana signora della
Val di Fiemme che chiamavamo semplicemente
“la vecchia Lena”. Io non l’ho vista mai più e le
sono debitore del mio più grande ringraziamento
perché ha contribuito in modo determinante sulla
mia formazione culturale, raccontandomi le mie
prime leggende. In seguito, quando nel 1903
visitai la Val di Fiemme, ero convinto che ogni
persona dovesse conoscere queste storie. Invece
78 storiae
Brunamaria Dal Lago Veneri è nata a
Bolzano, dove vive e lavora. Scrittrice,
pubblicista, traduttrice è autrice di testi
per trasmissioni radiofoniche e televisive per il teatro. Il suo campo di ricerca
è la tradizione nello spazio che và dal
mito al racconto, alla storia del mondo
plurilingue del quale si sente partecipe.
Visiting professor presso l’Università
di Lugano con corsi monografici di antropologia culturale (riti, miti, il gioco,
le tradizioni; relazioni presso gli atenei
di Trento, Gorizia, Trieste, Innsbruck
e Vienna). Editorialista del Corriere
della Sera per le edizioni del Trentino
e dell’Alto Adige, lavora per la radiotelevisione nazionale e locale. Le sue
opere sono pubblicate dalla Lato Side,
Mondadori, Newton Compton, Manfrini, Giunti Editori, Sturzflüge (Bolzano),
Folio Verlag (Bolzano-Vienna), d.t.v.
(Monaco), Scarabeus Verlag (Hilden) e
Durieux (Zagabria). Fra i testi pubblicati
Le fiabe dei fiori, Guida insolita ai castelli del Trentino-Alto Adige, Leggende
e racconti del Trentino-Alto Adige, Alto
Adige, terra di riti, tradizioni e leggende, Tera ladina, Il sogno della ragione,
Il Regno dei Fanes e molti altri.
del lavoro di Wolff e dopo il suo
ferimento in guerra (Hugo de
Rossi perse un braccio) il De
Rossi lasciò la sua raccolta e si
dedicò quasi esclusivamente a
ricerche linguistiche e a leggende della Val di Fassa.
C’è poi Tita Cassan, fassano,
professore a Bolzano e in primo
luogo il grande Wilhelm Moroder Lusemberg, gardenese,Willi
per gli amici, profondissimo conoscitore di usi,costumi, tradizioni, leggende, scomparso alla
fine della prima guerra mondiale assieme al suo materiale di
ricerca che il Wolff pare avesse
visto e di cui rimangono solo
alcune tracce in una corrispondenza con il De Rossi. Sono
del Moroder comunque molte
notizie che il Wolff riporta e che
riguardano il poema dei Fanes e
una riduzione scenica che risale al 1796. Ancora un nome: il
regista tedesco Rudolf Lorenz,
su incarico di una signorina von
Klipstein, figlia del geologo A.
von Klipstein, che fu il primo a
descrivere,la natura geologica
del territorio e, in particolare, la
zona dell’alpe dei Fanes, vuole
scrivere un’opera su questa materia, ma anche qui la guerra, la
prima guerra mondiale, ferma
questo lavoro che rimane solo
un progetto, riferito principalmente alla ricerca letteraria di
J.A. Heyl.
Fu poi la volta di un compositore viennese Emil Petschnig che,
prima riferendosi ad un testo
del poeta Rudolf Pannwitz poi
con notizie avute dal De Rossi,
redige un’opera in tre atti, Die
verheißene Zeit (Il tempo promesso) che parla dell’epopea
dei Fanes. L’opera è rappresentata nel 1928, il 14 maggio ad
Innsbruck. La parte musicale ha
successo, ma il testo letterario
non piace. Di questo lavoro si
sono perdute le tracce.
Nel 1921 Wolff pubblica sulla
rivista “Der Schlern” un articolo
riportando un antico canto L’ultimo dei Latrones che si riferisce
al canto di Lidsanel, un eroe che
compare in una seconda parte
del Regno dei Fanes e in alcuni
racconti trascritti dal Wolff. È di
questo periodo L’incontro con
il sacerdote Karl Staudacher
che scrive al Wolff di essersi da
tempo occupato del poema dei
Fanes e di stare per comporre
un’opera dal titolo Fanes Lied
(Il Canto dei Fanes). Nel 1935 il
poeta berlinese Eberhard König
si mette in contatto con il Wolff.
Ne risulta un poema L’Aurona.
Nel 1944, alla morte di Staudacher, il Fanes Lied è terminato
e il Wolff lo aggiunge al suo
Dolomitensagen che era arrivato alla ottava edizione. Sempre
attraverso Staudacher il Wolff
conosce un poeta ladino della
Val Badia Angel Morlang che
vuole rinverdire la conoscenza
e la rappresentazione del poema
dei Fanes.
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88. Il territorio
dell’antico Regno
dei Fanes.
89. I lastoni di
Formín, regno di
Spina del Mul.
storiae
79
90
si laurea con una tesi sui Fanes.
È del 2006 il film Le Rägn de
Fanes di Susi Rattonara, Roland
Verra, Hans Peter Karbon.
Nel 2007 il Teatro Stabile di Bolzano riprenderà la programmazione di uno spettacolo intitolato
La leggenda del regno dei Fanes,
testi di Brunamaria Dal Lago e
adattamento di Paolo Bonaldi.
Il Regno dei Fanes:
giusto per orientarsi
Nel 1951, il sacerdote Angel Morlang, scrive un
poema in lingua ladina Fanes da Zacan che viene
rappresentato il 17 giugno, l’8, il 16 e il 28 di luglio e il 25 agosto dello stesso anno.L’opera dura
più di quattro ore e nelle pause vengono cantati
vecchi canti ladini.
L’epopea dei Fanes viene poi ripresa da Auguste
Lechner che amplia la tematica del Wolff.
È del 1974 uno studio sul Regno dei Fanes- una
tragedia del matriarcato, uscito sulla rivista “Der
Schlern” a cura di Kläre French Wieser.
Esce nel 1989, sollecitata, supportata e consigliata
dalla mia professoressa Resi Gruber, gardenese, Il
Regno dei Fanes, racconto epico delle Dolomiti
che pubblico come “autrice e ritrovatrice” con le
illustrazioni di Markus Vallazza, per i tipi della
Mondatori e che diventa il testo recitato per il
Teatro Stabile di Bolzano, al Festival di Spoleto.
Da questa opera traggo i brani citati di seguito.
Nel 1992 esce per i tipi di Haymon-Verlag il libro di Anita Pichler con illustrazioni di Markus
Vallazza dal titolo Die
Frauen aus Fanis,
postfazione di Ulrike
Kindl.
Di notevole rilevanza
uno studio del 1996
di Giuliano e Marco
Palmier dal titolo I regni perduti dei monti
pallidi con particolare
rilevanza sul Regno
dei Fanes attraverso
ricerche storiche ed
archeologiche.
Nel 2000 esce, sempre sui Fanes un saggio del professor Helmut Birkhan, come
contributo agli atti del
convegno Ad Gredine
Forestum 999-1999.
Nel 2001 Veronica
Irsara di San Cassiano
80 storiae
Il nome Alpe di Fanes lo troviamo usato geograficamente già
nel 1600, anche se non particolarmente locato nelle Dolomiti.
Un’altra notizia curiosa, sempre citata dallo stesso Wolff, n el 1412 il patriarca di Aquileia mandò
truppe da Tolmezzo a Cadore sotto il comando di
un capitano che si chiamava Nicolò Fanis. Che
fosse un antico nome o un’antica casata?
Una notizia buffa. Nelle antiche storie ladine, in
specie in Val di Fassa, per “gente dei Fanes” si
intendevano i nani (questi Fanes non erano più
garan di di un bambino di cinque o sei anni, ma la
loro testa, coperta da un buffo berretto, era grossa
e rotonda). Lo scrittore e ricercatore germanico
E.H.Meyer nel suo Germanische Mythologie,
Berlin 1891, parla di Fanes uguale a Venedigermander, quei Veneziani che le saghe dolomitiche
raccontano come cercatori d’oro provenienti da
Venezia.
Delle donne dei Fanes, intese come esempio di
società a conduzione matristica, si parla in molte
leggende delle Dolomiti: Le Regine dei Fanes,
La Contessa di Doleda, Donna Dindia, Donna
Keniana, la Contessa di Priola e la Contessa
91
Hemma di cui si parla in
Corinzia ed altre.
Ma veniamo a cominciare
con il poema epico chiamato
il Regno dei Fanes come da
me trascritto:
Lassù sulle alte Conturines, dove ci sono
solo cespugli e rocce,
in un’arena che porta
ancora il nome di Parlamento delle Marmotte,
tanto tempo fa c’era un
regno incantato con villaggi e campi coltivati.
Conturin era il cuore
di questo paese che si
chiamava Fanis e Fanes
i suoi abitanti. Fanis
aveva valli e montagne,
pianure e strade, fiumi
e laghi e boschi e campi ed era così vasto che
i suoi confini arrivavano alla Limidona, la
grande distesa d’acqua al di là delle sette
montagne di vetro, oltre le sette paludi ai
confini del mondo. Il popolo dei Fanes aveva
una regina che abitava il castello sulle montagne. Il castello era così grande che per girarlo
tutto, dalle cucine alle stalle, ci volevano sette
giorni. La sala del trono era ornata da colonne
che altro non erano se non alberi con frutti e
foglie I frutti saziavano da tutte le fami e le
foglie guarivano da tutte le malattie. Alle pareti della sala erano appesi degli arazzi tessuti
dalle regine dei Fanes e dalle loro dame. Gli
arazzi rappresentavano la storia del popolo
ed erano sette come sette erano le epoche del
regno. L’ultimo non era ancora terminato. Il
disegno tracciava le ombre del racconto che
92
andiamo a raccontare. Attorno al castello
c’erano tre cinta di mura, collegate da ponti
e canali. Nella prima cerchia risiedevano i
custodi della sapienza del popolo, i narratori,
nella seconda gli artefici, i maestri di tutte le
arti, nella terza i rappresentanti delle sette
stirpi che formavano il regno dei Fanes, luogo
della indifferenziazione, non della mancanza
di confini. Li univano i canali del sapere.
La scena in cui si svolge il racconto epico, il luogo
della narrazione è il modello di una organizzazione mentale che media fra il cosmo ed il corpo
qui inteso come paesaggio.. Il Regno dei Fanes si
sviluppa su tre livelli: una terra reale con monti,
città e confini, una terra sotterranea, il regno delle
alleate marmotte, un’isola lontana dove le baie
sono l’eco di un sogno di vetro o la memoria di un
“mare indimenticabile”. In tempi vejes vejores,
93
90. Il riparo mesolitico di
Mondevál, sotto i Lastoni
di Formín.
91. Il solstizio d’inverno.
92. Il Regno dei Fanes
dalla cima La Varella.
93. Le Conturines.
storiae
81
antichi antichissimi il regno si chiamava Terra di
Maoi, Terra delle Marmotte e le sue regine erano
Maolta e sua figlia Maoltina. Maolta e Maoltina
abitavano le cime dei monti ed il profondo delle
grotte, poi vennero i Fanes, i luminosi, che abitavano la “grande conca” la “fana” Il cuore del
regno era il territorio ladino dolomitico: La Badia,
la Gardena, Fassa, il Livinallongo e l’Ampezzano. Lontano, oltre le “sette paludi ai confini del
mondo” c’era la città di Aglaja (Aquileia?) e poi,
oltre la Limidona, l’isola degli uomini-aquila, gli
uomini da un braccio solo. Ma i nomi, come in
tutti i racconti, non sono che maschere, suoni per
vestire di immagini uno spazio che genera azioni
e fatti e personaggi.
Ma, ci si potrebbe chiedere:
che cos’è l’immaginario?
L’immaginario è il prodotto dell’immaginazione:
rappresentazione parzialmente fedele e coerente
o libera rielaborazione, produzione di forme artistiche o di ipotesi scientifiche.
Immagini, copia del vero, come modo di rappresentare a sé e per sè la realtà. Immagini forma
-forma di conoscenza, frammenti, messaggi di
culture, sogni, fantasie, giochi, ricordi, tracce,
vertigini, limiti dell’osservabile, fascino dell’invisibile, ritmo del rito, narrazione del mito,
tenerezza della memoria. Ombre, doppi, come
immagini allo specchio, proiezioni, rappresentazioni, messaggi che si fissano, come se pensare
fosse vedere e vedere fosse anche pensare in una
circolarità senza fine. Ricerca di ciò che non si
vede ed è assente, ma allo stesso tempo ricerca
di un ordine.
Ecco l’ambiguità dell’immagine, umbra e corpus
nello stesso momento. Di essa, come forma di
mediazione, nessuna cultura può fare a meno.
Anche il sapere della natura è un’immagine del
mondo.
Immagini del mondo che non hanno solo e non
tanto un fine conoscitivo, quanto piuttosto una
funzione magico-rituale: rappresentano cioè lo
scenario sul quale o entro il quale il rito è chiamato ad agire. Il luogo del rito è allora lo spazio,
in cui si proietta il mondo.
È il tema delle origini. La ricerca delle origini
si configura non come una pura esercitazione
intellettuale su dati mitici o storici che ci precedono. Essa corrisponde piuttosto ad una urgenza esistenziale destinata a liberare l’uomo dal
senso di smarrimento che diviene significante
solo quando trova il filo genealogico della sua
presenza e della presenza delle cose nel mondo.
Natura, estensione al tutto della spiegazione vitalistica della produzione degli individui e delle
cose nel mondo.
Creazione, cosmogonia, origine del mondo e
dell’uomo, questi sono i temi con i quali l’immaginario s’affaccenda.
Quello che chiamiamo il Regno dei Fanes, anche se la storia è prodotto dell’immaginazione
o meglio del tentativo di ricostruire un passato
mitico con personaggi ed accadimenti, ha una
sua collocazione geografica.
A nord il regno si estendeva verso la Pusteria
ad est verso la val di Ladro e verso la conca di
Cortina, a sud verso il Falzarego e san Cassiano
con i ricchi pascoli dell’Armentarola e ad ovest,
in direzione della val Badia, utilizzando la direttrice naturale di Marebbe, nel cuore del regno
dei Fanes.
94
94. Il Gruppo di
Fanes.
95. Il territorio
dell’antico regno dei
Bedojeres.
82 storiae
Ma da dove viene il nome Fanes?
Una possibile etimologia l’abbiamo da un’immagine mitologica. Se si tratta di un popolo di
gente illuminata perché non scegliere, (anche
in tempi molto antichi, dove sicuramente conoscenze mitologiche dovevano circolare) un nome
mitico molto importane. Fanes, il luminoso. Il
Protogonos, Ericopeo, il primo nato della mitologia greca. Tempo-senza-vecchiaia e Ananke
generarono Etere, Caos e la Notte e l’uovo d’argento che si spaccò e diede origine a Fanes e le
cose entrarono nell’apparire.
Primo re del mondo, narra la mitologia, Fanes non
voleva regnare e passò lo scettro a Notte.
Una seconda lettura, forse la più semplice e corrente è quella che vede Fanes come derivante da
“fana” la grande conca, dove risiedeva il cuore
del regno. La terza immagine, assai meschina
a mio parere, è quella di chiamare “Fanes”quei
guerrieri che portavano in testa una specie di elmo
come una padella, una Pfanne, appunto.
Ma chi furono questi Fanes?
Furono solo una comunità di pastori? Non si
direbbe. Attraverso la leggenda abbiamo indicazioni come quella del loro animale totemico: la
marmotta. La marmotta che vive nel profondo
e i nani che vivono nelle Fopes- caverne (vedi
le Foppes d’Arjent presso Canazei) non sono
creature legate ad un mondo di cacciatori prima, di pastori poi, ma piuttosto ad un mondo di
minatori.
Dunque doveva esserci in antico, una miniera
che dava argento e piombo. Con il piombo, unito
ad altri metalli, si otteneva lo stagno, una lega
più tenera per gli oggetti d’uso. La miniera della
quale rimangono i segni nel racconto (le marmotte, i nani, il Morin de Selvans), ma che presto si
esaurì. Di qui le mire espansionistiche ed il sogno
dell’Aurona, il mitico regno dell’oro.
Il Regno dei Fanes è circondato da altri regni e
da altre popolazioni:
Nel poema si nomina:
Il Regno dei Bedayores
I popoli delle betulle situati in val Pusteria Assieme ai Sillivena e ai Spaneides.
Il Regno dei Landrines
I Landrines, amanti del canto, vivevano in val
Polena, le loro terre si estendevano attorno al lago
di Landro fin sopra le Tre Cime di Lavaredo e il
lago di Misurina
Il Regno dei Catubrenes
Facilmente riconducibile al nome di cadorini, il
nome deriva dall’unione dei due termini celtici
catu che significa battaglia e briga, monte, cioè
luogo alto e fortificato o forse luogo dove sorgeva
un castelliere ora scomparso.
Il Regno dei Peleghetes
Forse la media alta val Zoldana da Longarone a
Forni di Zoldo
Il nome deriva probabilmente dal monte Pelmo.
Se ne hanno brevi notizie in un racconto, raccolto dal Wolff, dal titolo Gli stregoni del bosco
Delamis.
Il Regno dei Lastojeres
Situato fra la valle di Cortina e la val Fiorentinapasso Giau. Il nome deriva da “Lastroni di pietra” zona di Colle Santa Lucia, Mondeval con il
95
storiae
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Nel solco di questo torrente, dalla parte della Pala
di Merjan, si trova, dicono, in un punto non ben
definito, una massiccia porta d’oro l’ingresso al
regno dell’Aurona., che i locali chiamano “el pais
de or e de lúmos.”
Il poema dei Fanes racconta dell’incontro del re
dei Fanes con il magico regno dell’Aurona:
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ricovero e i ritrovamenti (Spina de Mul) e luogo
di miniere l’Aurona – il Monte Pore
Il regno dei Cajutes
Gravitavano attorno alla Marmolada (dall’antico
nome di Rosalya) verso il gran Vernel, i bastioni
di Serrauta eil Monte Migogn regno di Tcicuta,
la maga, sorella dello stregone Spina de Mul.
Il Regno dei Duranni
Da questo regno viene Ey de Net, l’eroe dell’epopea dei Fanes. Si può collocare nella valle agordina- forse deriva da doura, acqua, ma potrebbe
essere una corruzione di Tyrrehnoi, il popolo
dell’allume, che però non si trova nel bacino
minerario agordino.
Un giorno il re passeggiava per il grande
castello. Arrivato alla prima cinta, quella dei
narratori, udì un vecchio cantastorie che raccontava: Buona gente io sono vecchio e molto
e molto ho conosciuto, ma mai nulla di più
splendido del regno sotterraneo dell’Aurona
chiuso da una porta d’oro. Le sue caverne
sono così piene di oro e di pietre preziose
che persino l’acqua che le bagna esce colore
dell’oro e le pecore che devono a quelle acqua
hanno i denti d’oro. Il regno dell’Aurona è
una immensa caverna, illuminata da piccole
lampade. La sua gente è condannata a scavare
e scavare senza fermarsi mai. Perché questo è
il patto con le divinità delle tenebre. Scavare e
scavare, trovare e accumulare, ma mai vedere
la luce del sole. Un giorno però una lampada
cadde dal soffitto e dove era la lampada rimase
un buchino dal quale entrò un raggio di sole.
Uno degli abitanti dell’Aurona guardò fuori
e vide prati e valli ed erbe ed animali, vide
il sole che scaldava il giorno e la luna che
illuminava la notte e le stelle che brillavano
come mille lampade sulla volta del mondo. E
questo raccontò alla sua gente, ma quando
tolse gli occhi dalla fessura tutti si accorsero
che era diventato cieco.
Così ancora una volta gli abitanti dell’Aurona
tornarono nel buio delle loro caverne. Passarono
anni ed anni e di quell’esperienza rimase solo il
racconto.
Il Regno dell’Aurona?
La testimonianza è quella di un racconto del
Wolff
Chi giunga al passo del Pordoi venendo da
Canazei ha alla sua destra la catena del Padon. È un massiccio informe di lava: la sua
nera pietra tufacea, a grossi strati sovrapposti, offre un forte contrasto con le chiare e
lisce formazioni rocciose delle Dolomiti, che
da ogni parte lo sovrastano… Non c’è da meravigliarsi che la leggenda abbia posto sotto
queste fosche montagne l’Aurona, il paese
delle miniere e dei misteriosi tesori. Dal passo
di Pordoi ha inizio una valle, verde di prati,
che si apre verso Oriente nella piccola piana
di Reba. In quel luogo che viene giù dal Padon
il torrente ha il nome di “ru Aurona”.
96. Il territorio dell’antico regno dei Landrines.
97. Il territorio dell’antico regno dei Peleghetes.
84 storiae
97
98
Il racconto dei Fanes
Questi Fanes erano gente pacifica. Loro
alleate erano le Marmotte che nel pericolo si rifugiano nel profondo. I popoli
limitrofi raccontano che i Fanes erano
diventati grandi per questa alleanza che
tutti conoscevano, perché conoscere le
proprie radici è segno di saggezza. Questo un tempo, poiché anche la conoscenza era andata perduta e l’alleanza con le
marmotte era diventata un segreto che i
custodi rivelavano alla regina come dono
nel suo giorno di nozze.
Ora accadde che la principessa ultima
erede dei Fanes andasse sposa ad un
principe straniero. Il giorno delle nozze
i custodi le rivelarono il segreto delle
alleate marmotte, ma la principessa non
ne fece cenno allo sposo.
Le nozze furono celebrare, la principessa
non volle regnare e il re straniero fu eletto re dei Fanes per volere della regina.
Ma cosa vogliono raccontare le pacifiche donne dei Fanes, legate ad elementi della terra e del profondo, come
le marmotte? Queste donne ci vengono
presentate come curatrici, conservatrici
e raccoglitrici dei prodotti della terra, ma
anche sibille in lotta per il possesso della
conoscenza e del corretto rapporto con
Segue il racconto di Sommavida la principessa dell’Aurona che esce dal regno sotterraneo
perché un re, Odolghes, Sabya de Fec (Spada di
fuoco, spada luminosa perché tale è diventata
la sua spada dopo aver a lungo colpito il grande
portone d’oro degli Aurona), ne abbatte le porte
d’oro e porta Sommavida come sposa a Contrin,
ma decreta la fine del regno degli Aurona.
È la storia del regno dell’Aurona, del regno dell’oro che scatena la follia espansionistica del re
dei Fanes e con essa la distruzione del regno.
La nascita e la distruzione del Regno dei Fanes
costituisce l’epica più alta delle leggende Dolomitiche. L’epica minore, quella dei Selvans, delle
Aguane e delle Bregostane, riporta alla memoria
dell’incontro fra gli antichi abitanti di questa terra, i Selvans, di preesistenza retica e preretica che
conoscevano i segreti del bosco e della natura.
La nascita del Regno dei Fanes è un momento
di grande poesia e malinconia- è il ricordo di
un’epoca felice di pace fra gli uomini e la natura.
Ma veniamo al racconto.
99
98. Il territorio dell’antico regno dei Catubrènes.
99. Il territorio dell’antico regno dei Duranni.
100. Lavorazione del ferro, stampa tedesca del XVI secolo.
101. Miniera di ferro in una stampa tedesca del XVI secolo.
102. Notturno.
storiae
85
le forse segrete della natura. È un regno felice,
un età dell’oro, un tempo mitico del quale si può
solo raccontare, perché l’inizio del racconto è,
come sempre una catastrofe. La catastrofe è la
fine del regno di queste donne, sagge, conservatrici, raccoglitrici, narratrici e l’inizio del nuovo,
di un’epoca nuova, l’epoca delle conquiste.
Il Regno dei Fanes è rappresentato come quello
delle api.
Esseri di fuoco come il fulmine divino, al quale
molte tradizioni le accomunano, all’essere tramite dal profondo delle divinità ctonie, le api
rappresentano le sacerdotesse del tempio, le
Pitonesse, le anime pure degli iniziati, lo spirito
purificato dal fuoco e nutrito dal miele, tramite fra
il mondo di sopra e il profondo. Una regina che
possiede un regno nel quale l’interno, il centro,
si irradia verso l’esterno, e che, all’inizio della
storia, decide di abdicare alla sua missione in
favore di un re straniero che al potere della conoscenza, al regno della pace del cuore (leggi cuore
come rosa mistica, antica Atlantide, castello dei
Fanes), preferisce il possesso ed il potere sulle
terre e sulle genti vicine.
Ma torniamo al racconto:
Un giorno il re andando a caccia sulle pendici dell’Alto Nuvolau, riuscì a prendere
vivo un aquilotto. Lo stava riponendo in un
cesto che aveva appeso alla sella quando dal
cielo piombò su di lui un’aquila con il becco
di fuoco e gli artigli d’oro. La lotta fu dura
ed alterna, anche perché il re straniero era
un guerriero valoroso. Ad un tratto l’aquila
parlò:” Ridammi mio figlio e farò di te il più
potente re delle montagne”.
Il re acconsentì e l’aquila propose un patto
100
86 storiae
di alleanza che si sarebbe consolidato con lo
scambio di uno dei due gemelli. Il re straniero non conosceva questa usanza e rimase
sorpreso dalle parole dell’aquila. Ma l’aquila
gli disse:”Tu sei straniero, ma fra la gente dei
Fanes questo è un uso da sempre praticato.
Se nascono figli gemelli, uno viene dato all’alleato i quale farà lo stesso. Così il figlio
dell’uno sarà il figlio dell’altro Ma il patto
deve rimanere segreto
Dopo qualche tempo nel castello delle Conturines nacquero due gemelle: una era bella come
il Sole e fu chiamata Dolasilla, l’altra luminosa come la Luna e fu chiamata Lujanta.
La mattina dopo la nascita le balie si accorsero
che al posto di Lujanta nella culla c’era una
bianca marmottina.
Qualche giorno dopo la nascita delle gemelle
il re disse alla regina che, secondo l’usanza del
suo paese, le voleva portare su un’alta montagna per presentarle al Sole, che è il signore
di tutte le vite. La regina acconsentì.
Il re fece chiamare uno scudiero e gli disse:
“domani porterai le mie gemelle fino alle
pendici dell’auto Nuvolau. Lì verrà un’aquila dal becco di fiamma e dagli artigli d’oro e
sceglierà una delle gemelle. Non temere. Non
raccontare a nessuno quanto ti ho detto. Al
tuo ritorno dirai che uno dei Latrones ti ha
assalito ed ucciso una delle gemelle…
L’aquila venne. Osservò le bambine e scelse..
la più strana.
Dunque, all’origine di questa storia c’è un regno,
con un re straniero, una regina, due gemelle e due
patti mitici con animali totemici: le marmotte per
le donne, le aquile per gli uomini.
C’è un regno sulle montagne ed un regno sottoterra dove un grande mulino, il “Morin de
Selvans”macina pace ed abbondanza. Ma se il
patto con le alleate marmotte verrà meno il mulino macinerà prima sale e poi le rocce stesse fino
alla distruzione.
Ma l’inizio del racconto ci traccia ancora le linee
di un regno di pace, con una regina, un re e due
figlie gemelle.
Più tardi nascerà anche un figlio, il principe da
un braccio solo, simbolo di una disperata univoca
volontà di potenza, che l’aquila rapirà nell’ultima
sfortunata battaglia dei Fanes portandolo nell’isola lontana, o forse nel paradiso degli eroi.
Il tema delle origine è diverso a seconda delle
varie culture delle quali ci si affaccenda. Abbiamo
sempre e comunque una divinità o alcune divinità
che hanno creato il visibile, molto spesso con il
sacrificio di se stesse.
Nella tradizione celtica si parla di antenati mitici
che si presentano sotto forma di animale e che
sono, come vedremo nel poema dei Fanes, riferimento per tutto un popolo.
Il poema dei Fanes è dunque un racconto mitologico riferito ad una gente antica che è scomparsa
e nello stesso tempo la narrazione-spiegazione di
questa scomparsa.
un tratto nelle sue espressioni e nei suoi sguardi e
conferisce a tutto ciò che lo riguardava l’autorità
che anche l’ultimo poveretto possiede, morendo,
per i vivi che lo circondano. La morte è l autorità
e l’origine del narrato. (W. Benjamin)
101
Il Mutterrecht
Il mito dei Fanes
Il mito cerca di spiegare l’inespiegabile; dal
momento che esso viene dal fondo di verità, deve
nuovamente finire nell’inesplicabile. (Kafka)
Ci si potrebbe chiedere se sono veramente esistiti questi Fanes. Il mito proviene da un fondo
di verità, ma questo è inesplicabile, dunque il
mito stesso non può avere spiegazioni. Questa
asserzione coinvolge non solo l’interpretazione
del mito, ma della narrazione stessa.
Ricerca di ciò che non si vede ed è assente, ma
arcaicamente insito nell’uomo, e allo stesso tempo ricerca di un ordine. La paura del crollo di un
ordine cosmico e delle gerarchie dei regni della
natura si esprime come paura che ciò che vive appaia come morto e che l’immobile acquisti
improvvisamente un soffio di vita.
Il linguaggio, che è spia e contenitore di
antichi miti e consapevolezze, ripete la terminologia animale e arborea per gli esseri
umani. Ciò non deve stupire, perché, se è
vero che immaginario e ragione si integrano
reciprocamente, è altrettanto vero che l’immaginario e i suoi modi archetipi, simbolici
e mitici, hanno l’antecedenza sul senso del
linguaggio e sulla sua sintassi.
Sta di fatto che non solo il sapere o la saggezza dell’uomo, ma soprattutto la sua vita
vissuta che è la materia da cui nascono le
storie - assume forma tramandabile solo nel
morente.
Come, allo spirare della vita, si mette in
moto, all’interno dell’uomo, una serie di
immagini, così l’indimenticabile affiora ad
Che cosa sono in fondo i “Fanes” se non un’immensa e tristissima allegoria della morte dove la
dissoluzione celebra il suo trionfo?
I Fanes sono un personaggio-popolo che scaturisce da un luogo, ne è la fisica concrezione, ne
costituisce la natura e la rispondenza. Un popolo
dove, a somiglianza dell’antico regno delle Amazzoni, vige un principio matristico, come in tutti
i popoli antichi del bacino mediterraneo che veneravano un’antica Dea Madre. Ci si riferisce ad
un tempo che va dai quattromila ai diecimila anni
prima di Cristo e si tratta di società a conduzione
matristica come è documentato in Tracia, in Macedonia, in Anatolia, nelle isole di Cipro e Creta,
a Gerico, nelle valli del Nilo e nelle isole Cicladi.
Parlo di società a conduzione matristica, non di
matriarcato, parola ormai trita e mal definita.
Si tratta del “Mutterecht” il “dovere diritto delle donne” come il matriarcato si dice in lingua
tedesca, letto come valenza positiva e benefica,
dovere di supportare la comunità e diritto ad essere delle sibille, delle visionarie, delle curatrici,
delle donne insomma, è destinata alla fine perché
contrapposta ad un nascente patriarcato.
Di questo mutamento si narra nel poema dei
Fanes.
Al regno delle donne si sostituisce il potere degli
uomini, all’animale totemico del profondo, la
marmotta, quello dell’aria, l’aquila.
Oltre a ciò il poema si fonda sul principio della
specularità: ogni discendente è doppio, in base
alla teoria dello scambio fra regno animale e regno umano. Già prima di nascere uno dei gemelli
è destinato a scomparire nel profondo, a rigenerarsi in una specie di magico antropomorfismo.
102
storiae
87
103
e l’incontro fra il giovane Duranno e Spina de
Mul
E Spina de Mul venne. Allora il giovane Duranno raccolse una pietra e si nascose dietro
ad una roccia. Quando Spina de Mul arrivò
gli lanciò la pietra contro il cranio e l’osso si
ruppe come un fuscello….
E Spina chiese hi sei tu guerriero che sai
che solo le mie ossa, le pietre, possono essere armi contro di me? E il giovane rispose:
Sono un Duranno e secondo l’uso della mia
gente vado per terre sconosciute in cerca di
avventura. Il mio nome nascerà con la mia
fama di guerriero.
E Spina gli rispose Ecco io ti darò un nome:
Sarei Ey de Net, l’occhio della Notte perché
sai vedere l’oscuro….
Ey de Net esercitò subito il suo nome perché
raccolse da terra la Rajeta, la gemma dei Fanes
che Spina aveva perduto nel combattimento
Vista la fanciulla Dolosillal che dormiva in
pace le regalò la pietra Rajeta con le parole:
Se sei la principessa dei Fanes la pietra è tua
ed io te la restituisco.
Avevamo lasciato la narrazione nel momento dell’incontro dello scudiero con l’aquila dal becco
di fuoco e dagli artigli d’oro e alla presentazione
dei due eroi: il negativo ed il positivo.
Dopo che l’aquila ebbe preso la “marmottina”
e che questa, divincolatasi dalle fasce si rifugiò
nel profondo..
Lo scudiero con la cesta sulle spalle si dirigeva
verso il castello quando udì l’urlo di Spina de
Mul. Scappò così in fretta fino al posto dove
sapeva di trovare gli Splutes, i custodi dei
confini. Lo scudiero aveva anche il terrore di
aver perduto la seconda bambina, che era ben
legata nel cesto, ma gli Splutes lo rassicurarono: Dolasilla dormiva….
Lo scudiero chiese di chi era quell’urlo bestiale
e gli Splutes risposero che era di Spina de Mul
il maestro stregone della stirpe dei Lastojeres.” L’aspetto ha di mulo mezzo putrefatto
con la testa e le spalle ancora fiorite di pelle.
Il resto sono ossa che risuonano nella notte
assieme all’urlo selvaggio che fa impazzire
chi lo ascolta...
A questo punto del racconto ci si presenta l’eroe,
l’antagonista:
Ad un tratto si udirono dei passi. Si avvicino
un giovane di circa quindici anni, veniva dal
paese dei Duranni a guadagnarsi con le sue
avventure il nome di guerriero.
88 storiae
Lo spirito del male è una variante alpina del
leggendario centauro cantato dai greci (Spina
de Mul, mostro-stregone, inalbera una testa di
mulo su un corpo mezzo putrefatto) le forze del
bene sono parafrasate in un guerriero Ey de Net
Occhio della Notte, perché è in grado di scorgere
attraverso le tenebre la luce della conoscenza. Il
feticcio della conoscenza, il cosiddetto albero del
bene e del male, è nel poema epico dei Fanes la
Rajeta, la pietra raggiante, lo sguardo luminoso
dei Fanes, sepolto sotto la terra. Nel regno delle
Marmotte?
E quello che spinge il re straniero a tante sanguinose lotte contro i popoli confinanti e l’ambizione
di assoggettare il popolo degli Aurona, altro non
è che l’idea immanente del Fato che giace, con i
suoi immensi tesori, prigionieri dei segreti inaccessibili della pietra delle rocce e del silenzio. È
l’aspirazione a penetrare i segreti della Natura,
segreti del regno delle donne che si negano alla
speculazione maschile che farà del re un capro
espiatorio del mito, ad abiurare la sua dignità di
padre.
Il racconto prosegue con la descrizione del Lago
d’Argento (dove secondo la leggenda si troverebbe l’ingresso del regno infero) sarà il luogo dell’incontro fra l’adolescente Dolasilla (immagine
della gestazione dallo stadio di inerzia a quello
della natura trionfante) e i nani del racconto, che
con il loro dono, la pelle delle marmotte per la corazza, l’argento per l’elmo e l’arco, le frecce fatte
dalle canne del lago d’argento e le dodici trombe
che segnano l’arrivo di Dolasilla, la guerriera,
dischiudendo, fra realtà e magia un tragico processo di osmosi, una eterna virtualità di guerra,
la nascita della ideologia di sopraffazione.
E Dolasilla, il cui nome altro non è che una sequenza musicale –”Do La Si La” sequenza musi-
cale, suono capace di aprire le rocce, di schiudere
i cuori, come l’apriti Sesamo di Aladino, (almeno
secondo lo studio dello studioso di etimologia
Fritz Herzmanovsky-Orlando) diventerà una
Guerriera Invincibile, una Tjeduya, la mano armata dello spirito del re dei Fanes
La fine del regno dei Fanes è quindi la guerra,
ma è nel segno della guerra e della figura della
grande guerriera che il racconto recupera la figura
dell’eroe, di Ey de Net.
La guerra
Per la battaglia fu scelta la pianura di Fiammes,
ai limiti delle alte pareti del Pomagagnon in terra
ampezzana…
Accanto ad Ey de Net apparve Spina de Mul
nel suo travestimento da guerriero. Portava
fra le mani un piccolo arco i metallo fatato…Ad un tratto si udirono gli squilli delle
trombe d’argento dei Fanes. Tra gli alberi,
alla testa dei suoi guerrieri, apparve Dolasilla dalla bianca armatura. Tra i capelli neri
come le ali delle aquile splendeva la Rajeta in
un fosco bagliore. Ey de Net rimase fermo a
guardarla mentre l’intrepida guerriera sbaragliava prima i Pelaghetes, poi i Lastojeres:
Dolasilla si dirigeva fulgida come il sole verso
i Duranni, mentre Ey de Net, come svegliato
104
da un lungo sonno, fissava abbagliato la principessa che con mano abile scagliava freccia
dopo freccia.Si racconta che i due giovani si
fronteggiarono immobili, con le armi abbassate, perduti uno nello sguardo dell’altro.
I motivi reali della guerra sono, da sempre, questioni di proprietà, di produzioni fondamentali,
a partire dalla terra. La guerra è un problema di
appropriazione e fino a quando il desiderio di
appropriazione durerà sarà possibile la guerra.
Ecco il passaggio, la catastrofe, l’inizio della
fine del regno dei Fanes, un regno felice, un età
dell’oro, un tempo mitico del quale si può solo
raccontare. La catastrofe è la fine del regno di
queste donne, sagge, conservatrici, raccoglitrici,
narratrici e l’inizio del nuovo, di un’epoca nuova,
l’epoca delle conquiste.
Ed è anche qui che la narrazione si avvicina alla
verità: perché i racconti come vasi contengono
realtà anche storiche ed immaginazione mescolati fra loro.
Fu una questione di necessità, visto che la fortuna
dei Fanes, le sue miniere andavano esaurendosi,
l’espansione sulle fertili terre dei vicini?
Per poter raggiungere questo potere il re straniero
si servirà anche della sua stessa figlia, Dolasilla, e
ne farà una Tjeduya, una guerriera, mutando così
la vera natura delle donna in arma da guerra. Il
poema epico di Fanes mescola e confonde, in un
gioco che risulta alle volte misterioso
ed estraniante, alle volte trasparente
e particolarmente vicino, tutti gli
elementi della tragedia.
E la tragedia ha inizio con l’incontro
di Dolasilla e di Ey de Net, la ferita
di Dolasilla causata da una freccia di
Spina de Mul e la “vocazione” di Ey
de Net di divenire custode e scudiero
della sua principessa.
Si precisano riferimenti significativi:
i nani che emergono a tratti come
presenze allucinanti, artefici e fabbri,
sono le controfigure di Alberico e
di Mime nella tetralogia wagneriana mentre la Vergine Guerriera che
cavalca accanto al padre fasciata
nella bianca armatura oltre che Santa
Giovanna è Brunhilde, mentre il re
ricalca la minaccia e la violenza di
Wotan.
103. I resti della civiltà dei Monti Pallidi: Contrín, alta Val Cordevole.
104. I resti della civiltà dei Monti Pallidi: tabià a
Coi, alta Val Zoldana.
storiae
89
O ancora la storia dello scudo che deve salvare
Dolasilla e che altro non è se non la raffigurazione
dello scudo di Achille:
Erano cinque le zone dello scudo e in esso
fece molti ornamenti coi suoi sapienti pensieri.
Vi fece la terra, il cielo e il mare,
l’infaticabile sole e la luna piena
e tutti quanti i segni che incoronano il cielo,
le Pleiadi, l’Iadi e la forza di Orione
e l’Orsa che chiamano col nome di Carro:
ella gira sopra se stessa e guarda Orione,
e sola non ha parte dei lavacri d’Oceano.
E vi fece poi due città di mortali
belle. In una erano nozze e banchetti;
spose e talami, sotto torce fiammanti....
Vi pose anche un novale molle
e un campo grasso,
largo, da tre arature; e qui molti aratori...
vi pose anche una vigna, stracarica di grappoli,
... e vi fece una mandria di vacche corna diritte
... Infine vi fece la grande possanza
del fiume Oceano
lungo l’ultimo giro del solido scudo.
(Iliade, XVIII, 480-605)
Bello era lo scudo ed ornato di borchie d’oro
e d’argent, come d’oro e d’argento sono il
Sole e la Luna. Al centro il castello come un
azzurro zircone, attorno le mura e il regno
dalle montagne al mare. E i campi e la gente
e le feste ed i banchetti..Solo un guerriero lo
poteva portare. Ey de Net era il suo nome e
Dolasilla avrebbe potuto salvare.
Ai margini dell’arazzo la cui trama è la storia che
si va narrando entrano in scena i personaggi dell’immaginario alpino: le Aguane che conoscono il
105
passato ed il futuro, ma che ignorano il presente
o le Mjanines, che evocano dal profondo i visi
degli esseri amati. E che sono tanto sensibili che,
se si emozionano, fanno piovere.
Ma la natura stessa, impervia di rocce protese
a sfidare lo spazio vuoto dei cieli, ha in serbo
armi segrete. L’ombra incombente di una Lilith,
piuttosto che di una Madre Terra è riconoscibile
in Tcicuta, la maga sorella di Spina de Mul, che
si annuncia, nel rapido alternarsi del riflesso del
lampo che precede la tempesta, sul Megon de Megojes, che significa “papavero dei papaveri”.
Tcicuta svolge e placa la sua potenza in una oscillazione continua fra veglia e sonno: papavero e
memoria sono i suoi simboli. È lei che scatena
la potenza devastante dei sogni: il principe dei
Cajutes, sacrificato sul campo dell’onore, appare
nel sogno di Dolasilla fanciulla-guerriera che subisce la fascinazione erotica di un fantasma.
Dicono che il Megon de Megojes si trovi sulla
parte meridionale del Padon. Qui, come dice
il nome, appare alle volte un grande campo
di papaveri che crescono sulle sporgenze di
una roccia nera che è l’ingresso del regno di
sotto.. Sette giorni e sette notti attese Ey de
Net che apparisse il Megon de Megojes sul
monte Migoin. Ogni mattina gli appariva
la splendida Marmolada con il suo vestito
di ghiaccio e la sera il Civetta si illuminava
di rosso nella luce del tramonto. Sette giorni
fu alba sui ghiaccia della Marmolada e sette
giorni fu sera sulle rosse rocce del Civetta.
Finalmente il cielo si oscurò e sulla val Pettorina scese una fitta nebbia. Dalla nebbia
spuntava il Piz Guda come un drago di fuoco.
L’aria era immobile e pesante come piombo.
Ad un tratto il piombo si fece liquido e caddero le prime gocce. Subito l’aria fu pregna
di un profumo dolce di memorie lontane che
diventano terra. La roccia si era coperta di
papaveri scuri come il sangue. Ey de Net
corse verso il prato di papaveri e vi trovò la
Tcicuta. La Tcicuta era bellissima e sorrideva
ad Ey de Net. Quando però ebbe saputo il
perché della sua visita, il viso della Tcicuta
divenne oscuro come il temporale “Non conosco questa fanciulla- disse – ma conosco
suo padre. Non lasciarti ingannare, nobile
Duranno, il re dei Fanes è condannato e tu
niente potrai fare per salvarlo. Le parole sono
state pronunciate… La Tcicuta interruppe il
suo discorso, guardò con ironia il Duranno
e disse: Anche mio fratello Spina de Mul sta
diventando vecchio. Ti ha chiamato Ey de
Net, Occhio della Notte perché vedi l’oscuro. Mi accorgo che alle donne dei Fanes non
capita miglior fortuna che a me. Amano dei
codardi, dei principi che si accontentano di
poco…. La tua Dolasilla ha avuto più volte
105. Autunno nelle Dolomiti.
106. Inverno nelle Dolomiti (Valle Campo di Dentro).
90 storiae
106
E ancora le parole di Tcicuta
Che guerriero sei tu mai. Diventerai quello
che desideri. Solo un portatore di scudo e
servirai la tua dea fino alla sua morte.
Ey de Net divenne un “portatore di scudo”, compagno fedele in mille battaglie vittoriose fino a
quando, allontanato dalle mire del re e dai consigli di Spina de Mul, non abbandona Dolasilla
al suo destino.
Si delinea anche il ruolo negativo di Spina de
Mul, orrida larva delll’Ade che abita dovunque
ed in nessun luogo ed invia, per la perdizione di
Dolasilla, tredici fantasmi deformi, tredici bambini sottoposti al suo potere che si faranno donare
le frecce magiche:
Regalaci qualche cosa regalaci qualche cosa,
dicevano i bambini e le si avvicinavano e le
toccavano le vesti e le mani ed i capelli. Dolasilla non aveva con sé che l’arco e le frecce
del Lago d’Argento. I bambini gridavano e
pregavano e le campanelle legate alle loro
caviglie suonavano disperatamente. Dolasilla
voleva liberarsi dall’incubo di quei tredici
esseri demoniaci e regalò loro le tredici frecce
fatate.
È così che Ey de Net, lo scudiero, l’amante,
mandato temporaneamente lontano da Dolasilla
lontano dal regno, non potrà più congiungersi
con la sua amata che sola, indifesa, cadrà vittima
delle sue stesse frecce.
degli ammonimenti, ma non pare farci caso.
Lei inciamperà sulla via del potere, invece
di scegliere la via dell’amore. E tu principe,
ti farai servo…. Ad un tratto ad Ey de Net
parve che tutti i papaveri intonassero con
voce guerriera una mesta canzone:
Che guerriero sei tu mai/diventerai quello che
desideri/solo un portatore di scudo e servirai
la tua dea fino alla morte.
Tcicuta rideva selvaggiamente: Hai capito
cosa ti dicono i papaveri? Sali sul monte Latemar e chiedi ai nani di fabbricarti uno scudo
pesante che nessun altro potrà parlare. Con
lo scudo difenderai Dolasilla…
Subito si fece notte, sulla vetta di Guda sfolgorava il baleno, la Serata crepitava come un
fuoco. Addio- disse la Tcicuta- non pensarci
troppo, l’etrnità è appena cominciata. Subito
dopo scomparve. I papaveri divennero neri, si
ripiegarono su loro stessi e altro non furono
che un mucchietto di cenere”..
I papaveri diventano cenere, la Tcicuta scompare e al suo posto rimane un corvo.
Tutti i personaggi, in qualche modo, abiurano
alla natura umana per divenire incarnazione di
forze primogenie, sepolte negli oscuri recessi
del profondo.Lo stesso re straniero, il traditore
della sua gente e di sua figlia, dopo la sconfitta
diventerà pietra, il Falzarego (falsorege)
Pallide luci del mattino illuminate le livide
crode. L’armata dei Fanes esce dal castello.
Davanti sta Dolasilal con un grande mantello
a nascondere l’armatura che è diventata scura. Dietro di lei il Principe Aquila. Brillano
gli occhi scuri della figlia delle marmotte.
Brilla la lama oscura della morte.
E Dolasilla canta il suo canto di morte
I sun na èra der sfortünada
vire da él, kel tokel a me
te vera vay cun nost armad
mess kopè impé de daydè.
(sono fra le donne la più sfortunata. Vivo da
uomo, questo è il mio destino/ vado in guerra con
le nostre armate e porto morte anziché aiuto).
Dolasilla è colpita ed alto si alza l’urlo dei
Fanes
Dolasilla ferida è nyun ü ten yadè, fortuna
müda.
(Dolasilla è ferita nessuno ci aiuta. La fortuna
muta).
A questo punto del racconto ci imbattiamo in un
altro riferimento assai interessante. Il popolo dei
Fanes, sconfitto e decimato, con a capo la vecchia
regina e Lujanta, la gemella lunare, si rifugia nelle
caverne delle marmotte, le antiche alleate.
La regina li riunì ed intonò un canto che non
sapeva di conoscere.
storiae
91
107
Casa in pericolo gente in pericolo, regno in
pericolo
Io la regina dei Fanes ora vi chiamo
Per le antiche parole, per l’antico patto, per
l’antica fedeltà
Ora ascoltatemi. Voi nei cunicoli, voi nelle
grotte, voi nel cuore della montagna. Raccogliete il mio grido d’angoscia.
Sorelle marmotte salvate le sorelle. Per l’antico patto salvate il regno dei Fanes.
E il luogo dove chi è rimasto del popolo dei Fanes si nasconde ha un nome, si chiama Morin de
Selvans, il mulino dei Silvani dove le marmotte
dormono il loro sonno invernale per tornare in
primavera, ma anche dove, secondo le antiche
leggende scorrono le acque che fanno muovere
il mulino del tempo..
I Fanes, al crocevia fra mitologia ed invenzione
narrativa, promuovono il conubbio fra sacralità e
rotazione universale, cioè l’eterno ritorno.
Quale riferimento si può trarre in questa specie
di viaggio fra la mitologia ed il racconto dolomitico o ancora nel viaggio fra mytos e logos che
dall’inizio di questa ricerca mi sono proposta? Il
108
mytos è, anche se non pare, una
scienza esatta, dietro la quale
si estende l’ombra di Ananke,
la Necessità e del Tempo-Senza Vecchiaia, i progenitori di
Fanes, il primo nato. Ancora
un riferimento mitologico che
accomuna il Murin de Salvans
al Mulino di Amleto come nel
saggio di Giorgio di Santillana ed Herta von Dechend con
il titolo: Il mulino di Amleto,
saggio sul mito e la struttura
del tempo.
Sono il Tempo e la Necessità che muovono il “mulino
d’Amleto” e gli fanno macinare, di èra in èra, prima “pace
ed abbondanza, poi “sale” ed
infine “rocce e sabbia”, mentre
sotto di esso ribollono le acque
dell’immane Maelstrom.
L’eterno ritorno
dei Fanes
Come termina il poema dei Fanes?
Termina con il mito dell’eterno avvicendarsi delle
stagioni che riproduce, nello schema della crisi
sacrificale e della violenza, lo stereotipo della
invariata circolarità, l’eterno ritorno.
Una volta all’anno, in una notte di luna
crescente una barca nera fa il giro del lago
di Braies.
Esce da una porta di roccia e si spinge sulle
acque immobili del lago. Le ali del vento notturno abbracciano le cime degli alberi. Sulla
barca siedono la vecchia regina dei Fanes
e Lujanta, la gemella lunare. Attendono il
suono delle trombe d’argento, come è scritto
nelle antiche leggende. Attendono il suono e
guardano la vetta dove brilla la sacra fiamma
nel cespuglio di ginepro.
Attendono la grande ora, quando tornerà il
tempo promesso: Il tempo dove il regno dei
Fanes tornerà dove una volta era.
Naturalmente un seguito, anche in Wolff, oltre che
nella mia ricerca, si impone perché molte sono le
domande alle quali non si è data risposta.
Dove è finito il Principe Aquila rapito dall’Aquila
dal Becco di Fiamma e dagli Artigli d’Oro? Nell’isola lontana, l’isola dagli uomini da un braccio
solo. Furono questi i guerrieri raffigurati con un
gran mantello che nascondeva un braccio? Forse.
E chi fu l’erede dei Fanes se non quel Lidsanel
citato in molte leggende?
Ma questa è un’altra storia.
107. Latemar.
108. La Marmolada, l’antica Rosàlya.
109. Il lago di Braies.
92 storiae
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Il poema dei Fanes STORIA E ANTROPOLOGIA