VIAGGI | Cina - Tibet
SRI KAILASH ED OLTRE:
MAGIA E REALTÁ DI UN TIBET
IN EVOLUZIONE
Da uno Sri Kailash ed Oltre gruppo Soda
Testo e foto di Pasquale Soda
V
nesi, l’asfissiante controllo delle guardie ed il caldo
umido delle masse umane aggiunto alle innumer‑
evoli candele negli angusti locali che attraversia‑
mo. Eppure, eppure vi dico, la fede e la ritualità
tibetana, incrollabili ed ostinate nel perseguire il
loro mantra, incuranti di tutto ciò, fanno breccia
nelle menti e nei cuori di innumerevoli pellegrini i
quali, del tutto estraniati da ciò che li circonda, si
prostrano in sentita venerazione davanti al proprio
iaggio “illuminato”: qualcuno ci ha mira‑
bilmente guidato attraverso i sentieri della
fede e della spiritualità esplorando un Paese
martoriato nella carne, ma letteralmente esploso
a livello planetario nelle coscienze e nella cultura
dei popoli.
Artefici del primo “miracolo” la nostra guida Kal‑
den, unitamente alla compattezza e maturità di un
gruppo straordinario, sia pur variegato dai 21 ai
63 anni; artefici del secondo i cinesi, la cui ottusa
arroganza gli si è ritorta contro come un boomer‑
ang, laddove la diaspora tibetana ha consentito a
questa civiltà di travalicare gli angusti confini della
Nazione per assumere carattere universale.
Anche il momento che ci è stato dato per vivere
questa esperienza ha un che, oserei dire, di “pre‑
destinato”: dopo anni in cui avevo pensato di real‑
izzare questo sogno, abbiamo colto la congiuntura
che ci ha consentito da un lato di sfruttare a pieno
quanto la “civiltà” ha portato di buono al sistema
di comunicazioni del Paese, mentre dall’altro tutto
ciò è accaduto prima che anche il Kailash venga
trasformato in una giostrina multicolore in stile
sino-disneyano.
Esordiamo con un imbarco surreale a Roma, con
la brunetta del check-in che mi spiega come il mio
bagaglio a mano possa essere ok solo se “smem‑
brato” dell’attrezzatura fotografica, con Francesco
che vorrebbe ritirare il bagaglio ad ogni scalo per
assicurarsi di non averlo perso e Stefano che
rovista furiosamente fra mari di derrate alimen‑
tari che non so quale problema gli abbiano creato.
Come Dio vuole, siamo a bordo del volo Alitalia.
Ritardato, come da copione.
Londra vede il completamento del gruppo; a
scanso di ulteriori complicazioni, mi affretto a
conferire a ciascun partecipante uno degli appositi
cuornicielli antisfiga made in Naples by Ferrigno.
Nominato a furor di gruppo “conte” di cassa En‑
rico, affrontiamo baldanzosi il lungo volo notturno.
La piacevole compagnia attenua efficacemente
la noia del volo e la stizza per le sia pur previste
perquisizioni e sequestri di Lonely Planet a Lhasa.
Prima ancora di uscire dall’aeroporto ci accoglie la
dinoccolata e carismatica figura di Kalden, la nos‑
tra guida. Impatto piacevole; immediato suo gesto
di cortesia il dono di una candida sciarpa (kata) ad
ognuno di noi, da me ricambiato seduta stante con
un corniciello da portare sempre a contatto con il
corpo da proteggere, a sua e nostra tutela ...
Efficienza, pulizia, controlli, strade immacolate of‑
frono il quadro di una galassia che non ha nulla di
quella nepalese lasciataci alle spalle. Percorriamo
il lungo tratto autostradale che ci separa dalla
Capitale in uno sventolio di bandiere multicolori,
di coccarde e pacchianerie assortite, partorite da
menti no limits cui sarebbe antropologicamente
intrigante dare un volto: il tutto inneggiante alla
magnifica coincidenza che ci vede sul posto:
1951-2011, sessanta anni di felicità tibetana nel
paradiso cinese!! Il technicolor multi show raggi‑
unge apici che non conoscono imbarazzo al cen‑
tro della città, dove il continuo viavai dei drappelli
militari fra baldacchini, bandiere e sgargianti sten‑
dardi mi fa tornare alla mente un flipper impazzito.
Ma non è un gioco. E’ la realtà. Le armi sono vere.
Così come i soldati.
Superato il varco militarizzato di accesso al centro
storico e accasatici fulmineamente in hotel dove
sistemiamo i bagagli, consiglio a tutti un adeguato
riposo, prima di scendere per strada, godendoci
profumi e sapori locali del quartiere musulmano
che ci ospita. Inutile nascondersi dietro un dito:
il centro storico, presidiato incessantemente
da esercito e polizia, controllato da cecchini sui
tetti, appare degradato e trasformato in un vero
e proprio ghetto. Ai nostri occhi, tuttavia, mostra
un’autenticità ed una identità che il resto della
città, con il suo insulso luccicore e la soffocante
cementificazione, ha perso completamente.
Trascorreremo la serata fra visioni serali del Barkhor, il kora (giro) intorno al Tempio di Jokhang da
cui abbiamo la prima visione del Potala, ed il ris‑
torante prescelto, dove giungiamo alle 22, come
da prenotazione concordata. Soltanto che nel loro
immaginario erano chiusi. Il nostro parere era un
po’ diverso. Comunicazioni in anglo-napoletano
gestuale dagli esiti decisamente incerti ed imper‑
scrutabili. La situazione ha visto alla fine il gruppo
invadere il terrazzo e cenare con quanto strap‑
pato dalla cucina e quanto razziato (!) dai tavoli
lasciati liberi. Fra lazzi, risate, incazzature e tanta,
ma tanta fame! Serata che ha lasciato un ricordo
vivido nelle nostre menti. Anche i tipi lì credo non
ci abbiano ancora dimenticato.
Di buon ora il mattino successivo, capitanati da
Kalden, ci spostiamo a piedi alla volta del
Tempio di Jokhang. Siamo nel cuore pulsante
della città antica, dove fede, tradizione e commer‑
cio s’intrecciano in un groviglio di umanità che ci
sovrasta e ci travolge.
Conquistiamo l’ingresso del tempio, nutrendo la
fallace convinzione di un attimo di respiro. La
costipazione, invece, stante l’inespandibilità delle
mura, raggiunge livelli parossistici, complice
anche lo scomposto vociare delle orde di turisti ci‑
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Pantheon. Grande!
Il resto è storia, tradizioni, date, arte figurativa
e, se volete, emozione!
Ci mescoliamo al torrente ininterrotto di pellegrini
impegnati nel kora del Barkhor, rientrando con co‑
modo ed indipendentemente gli uni dagli altri in
hotel, dove nel primo pomeriggio il bus ci condurrà
al vicino Monastero di Drepung. Il minimo sforzo
fisico richiesto per la visita evidenzia tutti i nostri
limiti per l’altura. Benedizioni diffuse al Diamox e
ad un programma dall’impegno
fisico graduale. Dedichiamo circa tre ore alla pi‑
acevole visita, senza fretta e nessun affanno fino
alla Tsokchen Chanting Hall, ricca di dipinti murali
e statue, su cui si posa piacevole il corredo di sa‑
pere che Kalden ci dedica.
A sera cena di tutta soddisfazione
al Lhasa Kitchen & fodero.
L’indomani ci muoviamo ad orario signorile, le
8.30 circa, per affrontare le brume e le piogge del
primo mattino, le quali hanno la compiacenza di
sospendere le attività dopo circa due ore di bus,
all’imbarcadero sul Brahmaputra. Questa nota di
diversità connota piacevolmente l’itinerario, che si
completa, sulla riva opposta, con uno shuttle at‑
traverso le brulle alture a preludio dell’impianto
monasteriale di Samye, il primo Monastero bud‑
dista fondato in Tibet.
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02
01 Monaco nel Monastero di Samye
02 Monaco del Monastero di Gyantse
03Potala
Lo sviluppo di quest’ultimo, contrariamente al mio
immaginario, è orizzontale, con una serie di pic‑
coli edifici che circondano la corposa costruzione
centrale, la prima ad essere stata eretta.
Spendiamo circa un paio d’ore con Kalden, il quale
c’introduce ai tesori ed ai riti del luogo, prima di
lasciarci liberi d’inseguire i nostri interessi. Con‑
sumiamo un pasto virtuale nello spaccio locale,
cullati dai profumi e dalle musiche di questo luogo
tanto suggestivo quanto raccolto nel suo misti‑
cismo. I clamori e gli spintoni del Jokhang sono
lontani anni luce.
Rientrati a Lhasa nel pomeriggio, visito un parteci‑
pante del gruppo parallelo affetto da seri problemi
d’altura, per poi goderci le calde luci del tramonto
ed i negozi fino alla corposa cena al New Mandala,
dove incontriamo il resto
dell’altro gruppo.
Dopocena nei riflessi acquatici del Potala, ris‑
ervato esclusivamente ai fotomaniaci (eravamo un
discreto drappello!)
La successiva epica mattinata ci vede fronteg‑
giare le folle, gli splendori, i controlli, i permessi,
i sorveglianti, le file, i gradini del Potala, “The liv‑
ing Place of Compassion Buddha”. Visita scandita
dagli ossessivi ritmi imposti dall’appuntamento
prenotato con largo anticipo e dal breve tempo
di permanenza concesso per la visita, ma anche
dalla palpabile consapevolezza di percorrere un
itinerario straordinario attraverso la storia ed i te‑
sori di questa Nazione. Altrettanto palpabile la sof‑
focante sorveglianza e la spoetizzante scarsa con‑
siderazione di questo scrigno di fede e di ricordi.
Masse vocianti e sguaiate di turisti dall’occhio a
mandorla si alternano in stridente contrasto con
drappelli sommessi e devoti di tibetani vestiti con
l’abito delle circostanze importanti. Merce da con‑
sumare e luogo di meditazione: come può un luogo
essere interpretato nello stesso tempo in maniera
opposta!!
Completato il giro, ci concediamo giusto il tempo
di raggiungere a piedi il bus, per dirigerci rapida‑
mente al Monastero di Sera.
Caldo asfissiante, il ricordo si sofferma essenzial‑
mente sull’affollatissimo tempio in ristrutturazione
dove vengono benedetti i bambini, numerosissimi
e tenerissimi, e sul cortile alberato, dove i vivaci
dibattiti fra monaci animano la scena, del tutto in‑
curanti dello sciame
wdi turisti che li circonda.
A sera cena comune con l’altro gruppo al Lhasa
Kitchen. L’occasione si presta per avere notizie
del loro malato: come facile prevedere, rapido
ricovero ed invio quanto prima a Kathmandu, ad
altezza sopportabile, 2.000m più in basso. La vi‑
cenda, com’è naturale, da’ la stura a tutte le ansie
patofobiche possibili in entrambe le compagini,
cui cerco di dare rasserenanti risposte durante
l’intera serata, ma alla fine la sintesi estrema
dell’animo umano rimane in una frase che ho fatto
finta di non sentire: “Meno male che il medico ce
l’abbiamo noi!”. E fu subito notte …
Lasciamo Lhasa in bus, per la temporanea in‑
disponibilità dei 4x4, peraltro inutili. Prima sosta,
dopo pochi chilometri, al Monastero di Drolma
Lhakang. Dall’aspetto poco appariscente, ci ac‑
coglie con il suo piccolo drappello di monaci im‑
pegnato nella suggestiva puja di prima mattina.
Mi siedo ad ascoltarli e registrarli (a pagamento),
mentre gli intrepidi del gruppo setacciano ogni
angolo alla ricerca di spunti interessanti e/o foto‑
genici. Proseguiamo il nostro percorso, superando
il passo Khamba-la, 4.794m, da cui si ammira
il colorato lago Yamdrok-tso, fino al ghiacciaio
Kharo-la alto 5.560m, dove sostiamo per dare
libero sfogo alle smanie fotografiche. Facciamo
anche un po’ di spesa di frutta e biscotti da tenere
in bus, perdendoci come al solito nelle immagini
di un mercatino sperduto in un villaggio lungo la
strada.
E’ pomeriggio inoltrato quando, alla fine di un
lunghissimo rettilineo, si staglia inconfondibile la
sagoma dello Dzong di Gyantse: siamo arrivati.
Rapida presa di possesso delle lussuose camere
dell’albergo e menti fameliche rivolte alla cena che
ci attende nel ristorante al piano terra.
Tralasciato lo Dzong, in cima ad una salita spac‑
ca-bronchi e di cui sono eventualmente visitabili
solo due sale, dedichiamo la mattinata succes‑
siva al Monastero di Pelkor Chode, la perla di
Gyantse. Mirabilmente incastonato in un’altissima
cinta muraria a ridosso di un’altura, resta una delle
cose più belle che abbia visto in Tibet. Concentrata
la sua attenzione sull’edificio centrale, Kalden ci
lascia un tempo assolutamente insufficiente per il
Kumbum, “100.000 immagini” di nome e di fatto.
Un fugace sguardo, comunque, a questo enorme
stupa ce ne fa apprezzare gli innumerevoli tesori
d’arte racchiusi nella miriade di cappelle che vi si
indovano e le splendide vedute che i cammina‑
menti esterni propongono.
Lasciamo Gyantse a ridosso dell’ora di pranzo per
Tibet
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deviare dalla “Friendship Highway” poco oltre, di‑
retti al villaggio di Shalu, con l’omonimo Monas‑
tero. Il tratto caratteristico, qui, sono i lucidi tetti di
ceramica verde bottiglia, che illuminati dall’intenso
sole, mi ricordano prepotentemente pregresse es‑
perienze thailandesi e cinesi. Il piccolo villaggio
rurale che ruota intorno al Monastero è un piccolo
microcosmo incontaminato, dove gli incontri toc‑
cano il cuore più che l’istinto fotografico.
Alle 15 circa, arrivati a Shigatse, presso il Monastero di Tashilupo, lo scenario si sovverte.
A ridosso di un’altura si propone una miriade di
costruzioni volte a costituire un autentico villag‑
gio monastico. Ai piedi di tutto ciò superparcheggi,
distese di bus e colonne di auto governative
strombazzanti creano una confusione che stride
con un luogo che vorrebbe essere volto alla con‑
templazione religiosa.
Brevi note introduttive di Kalden sulla destinazi‑
one dei diversi edifici ed iniziamo a salire in undici,
lasciando sul terreno i partecipanti mentalmente
o fisicamente indisponibili. Risulta molto piacev‑
ole girare fra i vicoli che separano gli edifici, molti
dei quali sottoposti a pazienti ristrutturazioni con
mezzi assolutamente inadeguati. Lasciati liberi, ci
imbattiamo in un’assemblea di novizi, che prelude
ad una nutritissima e suggestiva puja pomeridi‑
ana, dove ci facciamo un dovere d’intrufolarci.
A sera altra cena abbastanza completa in un
bell’albergo. Non ne vedremo altri fino a Zhangmu,
fatta eccezione per la parentesi di Zanda.
Al mattino dopo, lasciato il bus, ci muoviamo con
quattro sfavillanti Toyota Land Cruiser. Superati i
4.500m d’altezza del Tropu-la con le sue mille
bandierine al sole, deviamo per Sakya. La mat‑
tinata tersa dona colori vividi a tutto ciò che cir‑
conda il Monastero, la cui chanting hall è gremita
da oltre cento monaci, impegnati in una maestosa
puja, corredata di campanelli, piatti, corni e trom‑
boni. Veniamo risucchiati dalla magia della ceri‑
monia, la prima che lo stesso Kalden abbia mai
avuto occasione di vedere qui. Di buon auspicio
asserisce. Ci sarà da credergli. Visitiamo anche la
sorvegliatissima e fornitissima biblioteca, un aut‑
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Tibet
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entico “Muro di scritture”.
Proseguiamo costeggiando il Namring-tso; am‑
mirandone i riflessi colorati facciamo una sosta
per il lunch al sacco, il primo della serie, non certo
il peggiore. Nel tardo pomeriggio raggiungiamo
Saga: rapida sosta per provviste in un emporio
e prima cena con la cucina da campo, cui segue
la prima notte in tenda. Il morale, a parte qualche
piccola crepa, regge bene.
Commovente risveglio, con gli uomini della cucina
che fanno il giro delle tende, offrendo tè o caffè
caldo… Mai ci siamo sentiti tanto coccolati in un
viaggio ANM! Sostiamo per il pranzo nella polver‑
osa Zhongba, di cui visitiamo il piccolo e sugges‑
tivo Monastero, ben più interessante di quanto il
luogo indurrebbe a credere. .
Seguono due giornate di trasferimento senza
storia. Cielo coperto. Pioggia intermittente. Vento
gelido. Sono circa le 17 quando arriviamo al posto
di controllo a Darchen. Il Kailash è oltre le nuvole
basse e scure che ci circondano. Ci sistemiamo
nella guest-house prevista in luogo di un impro‑
ponibile campo: cinque gelide camere, umidità
dovunque, no elettricità, escremento libero: basta
aprire la porticina in fondo al corridoio su cui af‑
facciano le camere; da’ su uno ampio spazio, am‑
piamente frequentato, dove l’imbarazzo è solo la
scelta del luogo.
Kalden va in cerca di yak, cavalli, portatori,
permessi. Noi ci affumichiamo nello stanzone
comune intorno alla stufa-cucina alimentata da
sterco di yak secco. Soffocante il fumo che ne
esce, diventerà la costante dei successivi dieci
giorni. Alle fine quasi ci affezioneremo ad essa.
Ora davvero non ancora.
Una sottile apprensione serpeggia fra noi: il timore
dell’impresa, aumentato dalle condizioni ambien‑
tali avverse, si contrappone al desiderio di finaliz‑
zare il lungo viaggio che ci ha portato fin qui.
A ridosso della cena Kalden mi chiama da parte
e mi sottopone la sua idea: proseguire per Zanda,
contando sui tre giorni necessari al rientro per
organizzare l’occorrente al kora e sperare in un
meteo più clemente. Se avessi avuto un dubbio, i
racconti dei reduci dal trek mi da’ la spinta finale:
convinco tutti che vale la pena tentare. Ci lasciamo
solo la riserva mentale di cambiare programma
laddove l’indomani si presentasse con una radiosa
alba di sole. Non sarà così.
Accatastato il grosso del bagaglio in un ripostiglio,
partiamo alla volta di Zanda in assetto da trek.
Piove. Dopo pochi chilometri uno squarcio fra le
nuvole alla nostra destra ci mostra per qualche at‑
timo la vetta del Kailash: prostrazione degli autisti
ed emozione diffusa nel gruppo.
Dopo circa un’ora le ampie e verdeggianti vallate
cedono il passo ad un ambito desertico. Puntiamo
verso sud, affrontando una catena montuosa.
Le alture presentano colori pastello quasi irreali,
con una predominante del rosso che contrasta
in maniera quasi irreale con il verde intenso dei
laghetti glaciali. Orgia fotografica in vetta al passo,
prima di scendere una ampia valle al centro di un
incredibile sistema di canyons. Sembra di essere
nel West americano, con l’unica differenza che qui
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04 Il gruppo al Campo Base Everest
05Tsaparang
la dominante cromatica è costituita dal giallo ocra
in tutte le sfumature possibili.
“Atterriamo” nell’afosa valle di Sutlej, superiamo
il ponte sull’omonimo fiume (in tibetano Langchen
Tsangpo) ed alle 15 circa siamo nella polvere di
Zanda. Assecondiamo la proposta di Kalden che
ci fa cogliere le ultime ore di sole visitando a piedi
l’interessantissimo Monastero di Tholing, scrig‑
no di dipinti secolari dalle inequivocabili influenze
newari, che incatenano la nostra attenzione per
oltre un’ora.
Resta poi il tempo fotografico per bibita libera
nell’adiacente e suggestivo parco a ridosso del
palazzo. In pratica la topografia di Zanda si rac‑
chiude in uno stradone polveroso, continuamente
e vanamente spazzato da volenterosi netturbini,
con a sud un parco panoramico sull’ampia vallata
del fiume ed a nord una catena di alture in are‑
naria, che s’incendia d’incredibili colori con le luci
del tramonto. Tutt’intorno piccoli stupa e rovine di
antiche costruzioni che si abbarbicano sui pendii
scoscesi e franosi delle alture circostanti.
Davvero uno scenario estremamente suggestivo,
preludio alla serata nel piacevole buco-ristorante
cinese che a stento ci contiene tutti, amorevol‑
mente assistiti dalla coppia che gestisce il luogo.
L’aspetto più ilare della circostanza è l’assoluta
impermeabilità comunicativa, nonostante gli
strenui sforzi di Raffaella che parla cinese (?).
Ne scaturiscono gustosi siparietti e pantomime
con trasferte nei vicini negozi nel tentativo di ga‑
rantirci un minimo di colazione occidentale per
l’indomani, ma sfugge a molti che la nostra è una
pretesa culturalmente improponibile.
Sarò contro tendenza, ma sono certo di essere
stato il più felice della colazione locale, avendo
assaporato due splendidi momo stufati, infarciti di
verdure, aglio e cipolle. Il tutto dopo l’orgia foto‑
grafica mattutina al parco con Ferrucio ed Enrico,
con cui ci siamo succeduti a Francesca e Davide
che erano lì dall’alba.
Come iniziare meglio una giornata? Percorriamo
con i 4x4 pochi km in ambiti selvaggi e surreali,
sostando ad un pianoro a picco su un ampio can‑
yon, di fronte a noi un’altura disseminata di rovine:
Tsaparang, il cuore del regno di Guge. Raggiun‑
tane la base, Kalden c’introduce con un’accorata
ed approfondita narrazione ai fasti di quest’area,
la quale ha visto il culmine del suo splendore in
un’epoca corrispondente al nostro Medio Evo.
Apprezzabili lavori di ripristino in corso al Palazzo
Bianco, veniamo risucchiati dalla fresca ombra
del Palazzo Rosso, le cui pareti sono un tripudio di
splendidi dipinti dai mille colori. La vivida resa dei
dettagli successiva ad un attento restauro ci resti‑
tuisce appieno la magnificenza di questo luogo nei
giorni che furono.
Restano poi tre ore sotto il torrido sole per inerpi‑
carci fino alla sommità, culminante con quel che
resta del Palazzo reale. Sudore e fatica, ma ne vale
la pena!! Panorami mozzafiato e scorci intriganti
si susseguono lungo le strette e ripide scale e
le tortuose gallerie che si alternano fino al colpo
d’occhio finale. Il sole splende e tutta l’area cir‑
costante rifulge in tutta la sua suggestiva bellezza,
per velarsi soltanto al momento di lasciare la cit‑
tadella. Rientriamo a Zanda nel primo pomeriggio,
dividendoci liberamente fra docce, riposo, bibite
al parco e sudore sparso fra le rovine circostanti.
Appuntamento serale al ristorantino, rinfrancati
nello spirito e nel corpo. Un po’ di conforto, dopo
il freddo, i disagi ed il maltempo dei giorni scorsi
davvero ci voleva!
Darchen, raggiunta nel primo pomeriggio
dell’indomani, non sembra lo stesso luogo senza
fango e pioggia. Non per questo, però, assume
caratteri civili. Preso possesso delle camere, fac‑
ciamo un giro per la piccola fiera locale, che ci
riporta indietro a tempi immemorabili. La felicità
anche degli adulti per la vincita di oggetti dal va‑
lore nullo e per di più non funzionanti c’intenerisce
ed imbarazza, dando un fiero colpo alla nostra
supponente opulenza occidentale. Immancabile
acquazzone pomeridiano, ma poi torna il sereno.
Kalden ci conferma la disponibilità di yak, porta‑
tori e cavalli in numero corrispondente alle nostre
richieste. Abbiamo, quindi, la consapevolezza di
aver fatto tutto quanto era nelle nostre possibilità
per favorire il successo dell’impresa che più ci sta
a cuore. E per cui siamo giunti fin qui. In questo
un ringraziamento doveroso va a Kalden, Guida e
Maestro. Il resto sarà volontà di Dio.
Aspettative e timori per il tanto atteso giorno che
verrà accompagneranno la nostra gelida notte
nei sacchi a pelo. Dormiamo tutti, inutile dirlo,
poco e male. L’alba ci troverà in molti a scrutare
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l’orizzonte: cielo terso, il Kailash si mostra in tutta
la sua splendida imponenza e c’invita a raggi‑
ungerlo. Emozione paralizzante e frenesia scalpi‑
tante si fronteggiano: ci siamo!
I 4x4 ci porteranno in ordine sparso al sacro Tarboche, il palo che segna l’inizio del kora, il pe‑
rimetro della Montagna. La folla di pellegrini, di
mezzi e di animali lambisce appena la profonda
suggestione che questo luogo scatena nell’animo.
Siamo appena all’inizio, ma essere qui ha già il
senso della conquista, con il sole, pronti ad affron‑
tare il Sacro Percorso! Foto di rito, mentre emozi‑
oni profonde scuotono la mente.
Ci raggruppiamo poco oltre, nell’ampio spazio che
vede l’assegnazione di portatori ed animali per i
trasporto.Trascorrerò qui quasi tre ore, in attesa
che tutto si compia, con modalità e tempi irreali,
dettati da convenienze, trattative e manovre che di
legale o corretto hanno molto poco, di trasparente
ancor meno. Ma così vanno le cose qui: inutile
protestare, agitarsi, intervenire; siamo parte di un
meccanismo su cui non abbiamo alcun controllo
e che a volte sembra sfuggire di mano anche a
Kalden, il quale pure darà segni d’impazienza. Il
gruppo s’incammina poco per volta: rimasto con
Kalden e Ceciliamoglie, sarò l’ultimo ad intrapren‑
dere il percorso. Com’è giusto che sia.
Impossibile sbagliare strada: un’interminabile
teoria di persone ed animali movimenta il fondo di
ampie vallate che si alternano a tortuosi tratti di
sentiero, con la sempipresente sagoma del Kailash
che, alla nostra destra, veglia su di noi dall’alto.
Si tratta quasi sempre di gente semplice, avvolta
in pesanti panni di lana, cappello a falda larga,
spesso scarpette di tela o di cuoio. Immancabile
la ruota di preghiera in perenne e costante rotazi‑
one. Sono tutti accomunati da un passo che a volte
sembra addirittura frenetico: impossibile solo pen‑
sare di stargli dietro!
Numerosi gli indiani, molti a cavallo. Di tanto in
tanto qualcuno viene in senso opposto: sono i
seguaci della religione Bon, coloro che “vanno in‑
contro a Buddha”. Noi, procedendo in senso orario,
siamo “coloro che seguono Buddha”. C’é poi il
popolo dei portatori, gente umile, che vive con le
proprie bestie una vita dura e senza regole. I veri
derelitti del Kailash, che guizzano da tutte le parti
vociando fra di loro o con gli animali.
Sostiamo in un tendone affollato e fumoso per
un rapido spuntino: qui ritroviamo quasi l’intero
gruppo, una piccola parte si é appena rimessa in
marcia. La confusione, le grida, gli animali danno
la sensazione di una transumanza, eppure c’é
qualcosa di diverso, di speciale. Si percepisce la
sacralità del luogo, che ti trasmette un’emozione
profonda e personale, così intima da travalicare
completamente l’ambito che ti ruota intorno: é la
magia del Kailash!
Sono da poco trascorse le 16 quando attraver‑
siamo il fiume Lha-chu: il
Monastero di Dira Puk é di fronte a noi. Sem‑
bra un passo, occorrerà oltre mezz’ora. Alla fine
ci siamo! Di fronte a noi il Kailash incomincia a
velarsi. Ci scaldiamo con un tè bollente intorno alla
stufa della guesthouse; il cielo si é coperto e piove
copiosamente. Sotto l’acqua battente arriva un
gruppo di russi: sono fradici. Arriveranno poi altre
persone fino all’imbrunire: i corridoi della struttura
si animeranno per l’intera notte con cucine im‑
provvisate, panni stesi a gocciolare, sacchi a pelo
con persone che cercano un minimo di conforto.
I nostri stanzoni, sui quali qualcuno pure aveva
avuto da ridire, ci appaiono confortevoli oasi.
Prima di cena affronto con piglio deciso la salita
al vicinissimo Monastero: ne guadagnerò la soglia
con il cuore che mi scoppia in petto! Caratteriz‑
zato da una fila di piccoli stupa che fronteggiano
il Kailash, sfoggia un’impensabile serie di murales
con il Sacro Monte ed una piccola (e calda!) grotta
illuminata da innumerevoli candele offerte in on‑
ore delle divinità che vi risiedono.
Pensiamo di ripartire all’alba, ovvero presto.
Complice il cielo coperto, invece, dobbiamo rasseg‑
narci al fatto che prima delle 8,30 non c’é luce.Ri‑
attraversato il fiume, iniziamo l’interminabile salita
al passo Dromla-la. E’ il giorno più duro.
Lo sappiamo tutti, ma finalmente é nostro!
Ci muoviamo lentamente, in un ambiente silen‑
zioso, la cui atmosfera appare rarefatta ed ovat‑
tata dalla neve al suolo, sempre più abbondante.
Non c’é fiato per parlare. In tre ricorriamo ai
cavalli. Non che sia tutto riposo, ma almeno hai
la sensazione di respirare. Una serie di alture da’
l’illusoria sensazione di esserci, ma il momento
culminante viene sempre rimandato. Ma nessuna
paura, sarà inequivocabile.
Ci spogliamo di un simulacro che ci rappresenti
nella vita che ci accingiamo a lasciare; una kata
con i nostri nomi verrà deposta da Ferruccio per
tutti noi. Cecilia ed io ne lasceremo due per i nos‑
tri genitori che non sono più parte di questa vita.
Anche noi ci accingiamo a voltare pagina. Il cuore
scoppia, di fatica e di emozione. Superiamo alcuni
membri del gruppo, ansimanti e stravolti, i quali
hanno deciso d’immolarsi per un credo che rispet‑
tiamo. Dopo minuti che ci sembrano un’eternità,
sotto il nevischio, fra piedi seminudi nel fango, re‑
spiri affannosi ed andature sofferte,
siamo in vetta! E’ un ‘esplosione di soddisfazione
e di fede come mai ricordo d’aver vissuto!!
Piccole famiglie che pregano, pellegrini che si
prostrano nella neve, nel fango, sulle pietre, per‑
sone che leggono preghiere prima di lanciarle
in aria, un incerto sole che gioca a nascondino
fra innumerevoli bandierine di preghiera sem‑
isepolte nella neve e le persone a te care che
hanno condiviso questo momento: é il culmine di
un’esperienza umana e di viaggio senza confini!!
Foto ricordo doverosa in un mulinare di emozioni e
di voci, poi Kalden ci incita ad iniziare la discesa;
rimane da solo ad aspettare con l’ossigeno Franc‑
esco e Valter, attardati, ma decisi a continuare.
Ci supereranno tutti, rimarrò ultimo a condividere
con Ceciliamoglie uno dei momenti più intensi dei
trentasette anni che abbiamo vissuto insieme. Con
i poveri, gli storpi, i diseredati, gli indiani, i turisti, in
un pellegrinaggio che ci accomuna tutti in quanto
esseri umani in un grande, fraterno abbraccio. Su
tutti due momenti: l’attraversamento di un tratto
innevato insieme agli yak ed il “passaggio” ricevu‑
to da un gruppo di anziani pellegrini che hanno let‑
teralmente voluto portare in braccio Cecilia lungo
un dirupo ghiaioso. Il resto é solo moto dell’animo.
A ciascuno il suo. Impiegheremo oltre due ore per
raggiungere il punto di ristoro, gli altri quasi si
erano preoccupati. Ma era il “nostro” momento …
Tamponata la colica biliare di un portatore, risuona
presto l’incitamento di Kalden a muoverci, “before
it starts raining”. Nel frattempo scendono portati
a braccia due giovani russi in piena crisi di mal di
montagna acuto …
Percorreremo il lunghissimo tratto che manca alla
meta, oltre tre ore, sotto la grandine e la pioggia
battente. Vissuta quasi come una catarsi, un “bat‑
tesimo” all’inizio della nuova vita, mi vede mira‑
colosamente asciutto, fatta eccezione per il piede
sinistro, all’appuntamento con il Monastero di
Zutul Puk, nove ore dopo la nostra partenza. An‑
cora una volta ultimi, il pallido sole unitamente
agli esperti consigli di Roby Alpino, ci metterà
l’indomani di nuovo in forma e con gli abiti per‑
fettamente asciutti, dopo una notte nelle nostre
umide camerate che riecheggeranno continua‑
mente di colpi di tosse, starnuti e moccoli assortiti.
Dopo cena breve, ma stavolta debitamente cauta,
salita al Monastero insieme ad Evy e Ferruccio. Le
mille candele della sua piccola e suggestiva grotta
, sotto la cui volta spicca l’orma della mano di Mi‑
larepa, ci dona un insperato e gradito tepore.
Il sole dell’alba successiva fende i fumi delle yurte
intorno alle quali gli yak ed i cavalli attendono un
altro giorno di lavoro.
Ci muoviamo con tutto comodo verso le 9, per af‑
frontare le circa tre ore di agevole sentiero che ci
separano dall’appuntamento con i 4x4 a ridosso di
Darchen, dove arriviamo intorno alle 13. Morale
alle stelle, fisici provati, recuperiamo i bagagli in
deposito presso la guesthouse e ci fiondiamo in
direzione del lago Manasarovar.
Giunti sotto un sole incerto, consumiamo un rapido
spuntino sulle rive del lago. Nubi oscure alle nos‑
tre spalle fanno da sfondo a lampi improvvisi ed
al sordo brontolio di tuoni distanti. Affrontiamo la
Tibet
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salita al Monastero di Chiu. Attraversato il tripu‑
dio di bandierine che lo circonda, siamo poi tes‑
timoni di uno splendido pomeriggio di sole, nel
quale il Kailash ed il Gurla Mandata si offrono alla
nostra orgia fotografica in tutto il loro splendore.
Assaporiamo il caldo sole per oltre un’ora, con
l’azzurro lago ai nostri piedi in attesa di un rientro
serale che ci vedrà increduli commentare ancora
una volta intorno alla stufa di yak-sterco di turno il
nostro magico destino in questo viaggio.
I colori dell’alba ci trovano già schierati ai bordi
del lago per coglierne i caldi riflessi sulle acque
e sull’altura del Monastero alle nostre spalle.
Seguirà un’anonima giornata di trasferimento, che
ci riporterà per strade già percorse, fino a Saga,
nella cui polvere ci sistemiamo in quello che pom‑
posamente si definisce un Hotel. Sarà l’ultima
cena con la cucina da campo, che darà fondo a
tutte le residue risorse con il botto finale: addi‑
rittura udite, udite, i panzarotti fritti!
Le roboanti marce patriottiche mattutine delle vi‑
cine caserme cinesi contrappuntano una partenza
che ci vede dare l’addio commosso ai cuochi della
cucina da campo, che rientrano a Lhasa. Sostiamo
all’ampio Palkor-tso, ai piedi del massiccio dello
Sishapalma, per arrivare a Tingri ad ora di pranzo.
Non ha senso andare oltre, visto che il permesso
di cui disponiamo ci obbliga ad essere all’Everest
solo l’indomani.
Pomeriggio di sole, utilizzato per un po’ di bucato e
per tirare il fiato. Tingri, storico snodo di traffici ed
attività, l’avevo immaginata ben diversa dallo stra‑
done sporco e polveroso infestato di cani randagi
quale si è manifestato ai miei occhi. Ben poco da
vedere e da fare oltre un fugace sguardo ad em‑
pori traboccanti di scadente pezzottame cinese.
Puntuale diluvio pomeridiano ed abbondante cena,
alla fine della quale si appalesano tre english
boys, dall’aria scanzonata: viaggiano in un cab
londinese. Partiti all’inizio dell’anno si propongono
di essere a Sydney per Natale, rigorosamente via
terra. La voglia di unirsi a loro ha contagiato più di
qualcuno …A sera il temporale si sposta e com‑
pare la cima dell’Everest!
Salutiamo il cab inglese che si muove con le prime
luci del giorno successivo, per poi partire a nostra
volta. Lasciato rapidamente l’asfalto, percorriamo
ampie vallate e scoscesi passi montani, lungo uno
sterrato sinuoso e sconnesso, nel tiepido sole del
mattino. Il baldo autista della vettura nera, novello
Peter Pan incompreso, disintegra un ammortizza‑
tore in una buca. Assiste poi senza essere d’aiuto
alcuno al frenetico lavoro dei tre colleghi, che in
meno di un’ora ci consente di proseguire. Meno
male che attrezzi e ricambi non sono mancati.
Poco oltre, in un tratto acquitrinoso, scorgiamo un
fuoristrada impantanato nel fango. Gli occupanti
sembrano europei, anzi italiani, anzi
NAPOLETANI!!! Sono Ascanio & c, amici di Gabriel‑
lafiglia, che sapevamo in zona, ma mai avremmo
immaginato d’incontrare! Men che mai in tale
circostanza!! Abbracci, sollievo, sorrisi, foto ed ap‑
puntamento a Kathmandu, prima di proseguire in
direzioni opposte.
Entreremo nel caldo sole di mezzodì nel Parco del
Jomolangma, come chiamano i tibetani l’Everest,
in un crescendo di emozioni mozzafiato, che ve‑
dono il loro culmine al Campo Base, dopo una
ventina di minuti percorsi lungo un polveroso ed
insignificante sterrato a bordo dello shuttle cinese
del posto.
Foto ricordo, entusiasmo alle stelle, tripudio di
sole, sosta contingentata dalle ferree regole e
dall’invadente presenza cinese davanti agli 8848
metri vetta del mondo caratterizzano uno dei mo‑
menti più intensi del viaggio. Ormai è andata! Ve‑
ramente possiamo dire di aver avuto ancora di più
di quello che ci aspettavamo!
Ci concediamo un’abbondante e pigra pausa
dedicata ad un approfondito kora delle bancarelle
poste al capolinea di ritorno dello shuttle, per ar‑
rivare alle 16 circa all’essenziale e gelida guest
nastero di Rong Phu, il più alto del mondo, poco
oltre 5.000m slm .
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Rapido kora del Monastero, con superbi panorami,
cena decente e frenesie fotografiche fino a notte
fonda in uno scenario dove la suggestione dei
luoghi cancella ogni disagio.
Ci leviamo dai nostri gelidi giacigli, pensando che
solo la sera prima si era ipotizzato di dormire in
tenda. La brina sui parabrezza dei nostri mezzi ed
un termometro fisso a -8°C ci tolgono ogni dubbio
sulla saggezza delle nostre scelte, soprattutto visti
i diffusi malanni respiratori.
Il cielo velato si trasforma in una fitta nebbia,
alla quale sfuggiamo una mezz’ora per la visita
ad un’accogliente casa di un villaggio lungo
la strada. Qui la gente vive di pastorizia, sicura‑
mente più dignitosamente di come abbiamo visto
in ambiti urbani, ma con un livello di vita assoluta‑
mente arretrato.
Del resto ci è già capitato in lande desolate come
queste d’incontrare persone afflitte da ogni male,
cui abbiamo potuto offrire un conforto farmacolog‑
ico solo momentaneo. Si tratta di popolazioni ten‑
denzialmente nomadi, il che contravviene a dispo‑
sizioni e tentativi del potere cinese, che ambirebbe
a vederli stanziali, in modo da meglio controllarli.
Dopo aver infierito fotograficamente oltre ogni
giusto limite sulle dolcissime e disponibilissime
madre e figlia che ci hanno ospitato, tacitiamo le
coscienze con un’offerta e fendiamo la piccola fol‑
la di curiosi che si è formata nel frattempo intorno
ad i nostri mezzi.
Ripiegati su Tingri, continuiamo nel sole, attraver‑
so sterminati altipiani e dolci ascese a passi mon‑
tani. Poche parole, poche soste, diffusa nostalgia
per i luoghi che stiamo lasciando alle nostre spalle.
Il passo di Tong-la, 4.950m, segna l’abbandono
dello Tsang, in direzione di Nyalam, dove sostiamo
per il lunch.
Segue una fantastica strada, stretta e sinuosa, ma
dal manto d’asfalto impeccabile, che s’insinua in
rigogliose vallate, attraversando una fitta vegetazi‑
one che trae sostentamento da innumerevoli fiumi
e cascate, attraverso le quali spesso passiamo in
un mare di spruzzi. L’estrema pericolosità del trag‑
itto, molto trafficato, impedisce un’adeguata docu‑
mentazione fotografica di uno dei più suggestivi
percorsi stradali dell’intero viaggio.
Ai margini della strada costruzioni precarie e
sempre più numerose conquistano spazi al bosco
circostante, mentre un’infinita teoria di camion
carica mercanzie di ogni tipo. Sarà così per circa
10km, in una confusione ed un traffico sempre
crescenti, fino al cuore di Zhangmu, a ridosso del
confine nepalese, dove ci fermiamo per la notte.
Caldo umido, pioggia battente, traffici frenetici:
siamo in un altro mondo.
Dalla finestra dell’hotel che ci ospita ammiriamo
la valle in cui si snoda la strada percorsa insieme
alle numerose case che si abbarbicano sui pendii
montani: se non fosse per la rigogliosa vegetazi‑
one, davvero verrebbe da pensare a Positano.
Cena abbondante e di soddisfazione nel ristorante
adiacente, caldo brindisi di commiato da Kalden
che registra per noi il suo arrivederci in napoletano
(!) e fodero con la mente rivolta al domani.
Sveglia prima dell’alba e, con le prime luci del
Tibet
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giorno, ci dirigiamo al confine. Una frana di terra,
pietre ed un albero, figlia dell’insistente pioggia, ci
sbarra la strada. Nulla che possa fermare i nostri
baldi autisti i quali, con il nostro irrilevante aiuto,
liberano la strada in pochi minuti.
Al posto di controllo siamo i primi: vana impresa.
Dopo oltre due ore di attesa per l’apertura del
varco, veniamo bloccati da un errore sul nostro
permesso di soggiorno, che ci avrebbe voluti in
partenza due giorni prima. L’apprensione serpeg‑
gia nel gruppo, ma la cosa non mi agita: abbia‑
mo ben quarantotto ore prima dei nostri voli …
Un Kalden contrariato da quello che ritiene uno
smacco professionale, per quanto non causato da
sua negligenza, risolve telefonicamente il prob‑
lema, ma non senza chiedermi una nota scritta di
protesta da consegnare in agenzia.
Con sollievo unanime ci traghetta in territorio
nepalese, Kodari, dove raccoglie ancora una volta
l’accorato e meritatissimo tripudio del gruppo, per
consegnarci poi nelle mani di quello che individui‑
amo come emissario di Amar. Costui regolamenta
l’assalto dei portatori, cui per opportunità del mo‑
mento sottostiamo docilmente, e ci traghetta at‑
traverso il sorvegliatissimo “ponte dell’amicizia” in
un microcosmo d’inestricabili traffici e di miseria
umana quale raramente mi è capitato di testimoni‑
are. Superiamo la trafila burocratica del confine
nepalese, sempre rigidamente old style, ed ap‑
prodiamo al nostro bus, dove il tipo, intascata la
mazzetta, si dilegua affidandoci al nostro autista.
Mi assicuro che la sua e la nostra destinazione co‑
incidano e via!
L’asmatico e traballante, per quanto affascinante
pulmino Mercedes che ci trasporta impiegherà
quasi sette ore per coprire i poco oltre 100km che
ci separano da Kathmandu, ma non solo per suo
demerito.
Posso comprendere la volontà di contrastare le
palesi mire espansionistiche cinesi, ma non sarà
certo una strada dissestata a fermarli, per cui non
si comprende davvero la logica che vede un’arteria
vitale del Paese come questa tenuta in condizioni
così precarie. Frane, sterrati, ponti che si reggono
per scommessa sono una sfida continua che gen‑
era spesso una tensione che solo la vista del famil‑
iare e puzzolente caos di Kathmandu stempera.
Il passaggio in quarantotto ore dai -8°C di Rong
Phu ai +29°C di smog e casino fanno poi il resto.
Ultima giornata spesa insieme, al di là di ogni
previsione. Sono le 15 circa quando entriamo a
Bodhnath, distanti dai rumori e della confusione
della città. Trascorreremo qui tutto il pomeriggio e
la sera, cullati dalla numerosa comunità tibetana,
che si anima nel pomeriggio in un continuo e sen‑
tito kora intorno all’immenso stupa. E’ la summa
dei profumi, dei suoni e delle emozioni di un viag‑
gio nello spirito e nell’anima di una Nazione e di
ognuno di noi allo stesso tempo.
Avverto una coralità di gesti e di sentimenti con la
gente che mi circonda, che da’ un senso compiuto
ed un valore aggiunto alla nostra esperienza quale
raramente mi è capitato. Vuol dire che davvero sia‑
mo stati bene e che davvero questo nostro viaggio
ci ha regalato quanto ci aspettavamo. Molto di più
ancora, secondo me, donando al nostro animo leg‑
gerezza e consapevolezza nuove.
Ceniamo con gli amici di Gabriella sulla terrazza di
un ristorante del posto, ultima bistecca ed ultimi
momo, per poi perderci negli occhi del Buddha il‑
luminati fino a notte fonda.
Dopo una notte di pioggia, all’alba smette:
nell’incertezza stipiamo il bagaglio nel solito vec‑
chio Mercedes, il quale miracolosamente ci porta
in aeroporto senza cedimenti.Trafile e controlli
paranoidi intervallano voli precisi e bagagli perma‑
nentemente monitorati, fino a ritrovarci puntuali e
soddisfatti agli aeroporti di destinazione. Il favor‑
evole gioco del fuso ci consente di circoscrivere il
ritorno nelle 24 ore. Consapevoli di aver portato a
compimento un viaggio “illuminato”, auguro a chi
partirà dopo di noi altrettanta fortuna!!
VIAGGI | Stati Uniti
DEEP SOUTH
Il Profondo Sud con il gruppo “lost” di Laura Bolognese
Testo e foto di Marina Nardini
01
…non sapevo proprio dove andare, ma sentivo che volevo andare,
così un giorno, per caso, mi sono imbattuta su questa recensione del
New York Times: “Non era questo lo scopo del libro?
Far capire alle donne: siamo semplicemente due persone, e non sono
molte le cose che ci separano. Molte meno di quanto si pensi.”; la
curiosità e la ricerca mi hanno portata verso il profondo sud degli Stati
Uniti, ed è così che comincia la mia formidabile avventura…
A
d essere sincera, stavolta, il proverbiale en‑
tusiasmo che mi accompagna ogni volta che
sono diretta in terra d’America, è stato un po’
guastato dai ritardi con cui mi è stato comunicato
il piano voli e, appunto, dal piano voli stesso! Ma
ormai poco conta: l’importante è che io sia qui ad
aspettare i miei compagni di viaggio…direzione
Atlanta (Georgia), per affrontare questo fantastico
viaggio, appunto, che ci porterà a percorrere in
circa 5000 km il sud degli Stati Uniti, dalla Geor‑
gia al Tennessee, dalla Louisiana al Mississippi,
dall’Alabama alla Florida fino alla mitica Key West,
attraverso i luoghi teatro di eventi storici che
hanno posto le basi della moderna democrazia e
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hanno dato i natali a personaggi e generi musicali,
che il mondo non dimenticherà.
14 agosto
Finalmente, dopo 11 ore di volo ed innumerevoli
pratiche doganali, impronte digitali, fotografie
segnaletiche, controllo dell’iride, toglie le scarpe,
metti le scarpe, controlla il bagaglio, ricontrolla il
bagaglio…usciamo dall’aeroporto Jackson e sfo‑
ciamo nell’afosa realtà di Atlanta, prendiamo pos‑
sesso delle auto e, soprattutto dei navigatori, e…
partiamo alla volta di Nashville: 400 km, tanto per
cominciare, alle sei di sera, dopo un giorno ed una
notte insonni…ma that’s America!!! Auanagana!
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