AA 2012-2013 SP 2013
Prof. Uberto MOTTA
Corso monografico di letteratura moderna
Le Odi e Il Giorno di Parini
(mercoledí 17-19h, MIS 3028)
Calendario
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
20 febbraio
27 febbraio
6 marzo
13 marzo
GIOVEDÌ 14 marzo, 17-19h (recupero del 24 aprile) MIS 3026
20 marzo
27 marzo
3 aprile: vacanze di Pasqua
8) 10 aprile
9) 17 aprile
24 aprile: lezione sospesa – recupero: 14 marzo
10) 1 maggio
11) GIOVEDÌ 2 maggio, 17-19h (recupero del 15 maggio) MIS 3026
12) 8 maggio
15 maggio: lezione sospesa – recupero: 2 maggio
13) 22 maggio
14) 29 maggio
Bibliografia (1)
Edizione d’uso
G. Parini, Il Giorno. Le Odi, a cura di Giuseppe Nicoletti, Milano, RizzoliBUR, 2011.
Edizioni di consultazione
G. Parini, Poesie e prose, a cura di Lanfranco Caretti, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1951.
G. Parini, Il Giorno, ed. critica a cura di D. Isella, 2 voll., Milano-Napoli,
Ricciardi, 1969.
G. Parini, Le Odi, ed. critica a cura di D. Isella, Milano-Napoli, Ricciardi,
1975.
G. Parini, Il Giorno, edizione critica di Dante Isella, commento di Marco
Tizi, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda Editore, 1996.
G. Parini, Le Odi, a cura di Nadia Ebani, Milano-Parma, Fondazione
Pietro Bembo-Guanda Editore, 2010.
Bibliografia (2)
R. Spongano, Il primo Parini, Bologna, Patron, 1963.
L. Poma, Stile e società nella formazione del Parini, Pisa, Nistri-Lischi, 1967.
D. Isella, L’officina della «Notte» e altri studi pariniani, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1968.
R. Leporatti, Per dar luogo a la notte. Studi sull’elaborazione del «Giorno»
del Parini, Firenze, Le Lettere, 1990.
M. Tizi, La lingua del «Giorno» e altri studi, Lucca, Pacini Fazzi, 1997.
Interpretazioni e letture del «Giorno», Atti del Convegno (2-4 ottobre 1997),
a cura di G. Barbarisi e E. Esposito, Milano, Cisalpino, 1998.
L’amabil rito. Società e cultura nella Milano del Parini, Atti del Convegno (810 novembre e 14-16 dicembre 1999), 2 voll., Milano, Cisalpino, 2000.
Le buone dottrine e le buone lettere, Atti del Convegno (17-19 novembre
1999), a cura di B. Martinelli, C. Annoni e G. Langella, Milano, Vita e
Pensiero, 2001.
Rileggendo Giuseppe Parini. Storia e testi, Atti del Convegno (10-12 maggio
2010), a cura di M. Ballarini e P. Bartesaghi, Milano, Biblioteca Ambrosiana,
2011.
Milano nel Settecento
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1706, il Ducato di Milano è integrato all’Impero Asburgico
1740, sale al trono Maria Teresa d’Austria
1780, morte di Maria Teresa e successione di Giuseppe II
1790, morte di Giuseppe II; gli succede il fratello Leopoldo
II, e alla morte di questi (1792) sale al trono Francesco II
• 1796-97, campagna d’Italia di Napoleone. Costituzione
della Repubblica Cisalpina, di cui Milano è capitale
• Nel 1769 Milano ha 125mila abitanti : il 4% nobili (5160), il
5% ecclesiastici (6670), il 91% (114500) terzo stato (di cui
64800 donne, fanciulli o vecchi, e 49700 individui attivi).
La cultura milanese alla metà del Settecento
• Accademia dei Trasformati, 1743-1768,
fondata dal conte Giuseppe Maria Imbonati
► autori dialettali: Carl’Antonio Tanzi, Domenico
Balestrieri, Giancarlo Passeroni
• Accademia dei Pugni, 1761-1766, fondata da
Pietro e Alessandro Verri
► 1764, Dei delitti e delle pene
► 1764-66, «Il Caffè»
Pietro Verri, Perché mai gli uomini di lettere erano onorati nei
tempi addietro, e lo sono sì poco ai tempi nostri?
“Sorge una disputa fra due o più oscuri scrittori per sapere qual fosse la
patria d’Omero, di Plinio, del Tasso, e che so io: ciascuno vi suda degli
anni, e partorisce un grosso tomo, e lo fa stampare, e poi si lagna perché
nessuno lo legga. Ma che vuole egli, che gli uomini s’annoino a leggere
un ammasso disordinato di rottami d’erudizione per cavarne poi una
notizia la quale non contribuisce in nulla al bene di alcuno? Viene un
altro, e vi scarabocchia egloghe, sonetti, eterne inezie in rima, le quali
partono da un animo vôto d’idee, e non lasciano al lettore che il rimorso
d’avere malamente speso il suo tempo: con quale titolo pretende egli
alla stima de’ suoi contemporanei? Scrivete, o giovani di talento, giovani
animati da un sincero amore del vero e del bello, scrivete cose che
riscuotano dal letargo i vostri cittadini, e gli spingano a leggere, e a
rendersi più colti; sferzate i ridicoli pregiudizi che incatenano gli uomini,
e gli allontanano dal ben fare; comunicate agli uomini le idee chiare, utili
e ben disposte; cercate in somma di rendere migliori e nel cuore e nello
spirito i vostri contemporanei”.
D. Balestrieri, Rime milanesi: Sora l’ignoranza (ed. 1774)
De ignoranza ghe n’è propri a baloch
e par quistalla no ghe va sudor,
e l’è par quest che ’n vedem minga pocch,
che la cobbien col titol de dottor.
La tacca l’ignoranza e sciori e sbiocch,
ma in di sciori la troeuva de impostor,
c’hin marzocch, e no passen par marzocch
mediant i fed fals di adulator.
Gh’è l’ignoranza, che la se po’ dì
de so pè; gh’è poeù l’oltra de chi lassa
mal coltivaa on talent, che ’l pò fruttì.
Ma via d’on cert epitet tutt coss passa;
el mè brusor de stomegh l’è a sentì
quella, che ciammen ignoranza grassa.
Di ignoranza ce n’è proprio a
bizzeffe e non occorre sudare
per acquistarla; per questo ne
vediamo non pochi, che la
accompagnano col titolo di
dottore.
L’ignoranza contagia ricchi e
miserabili, ma fra i ricchi trova
degli impostori, i quali pur
essendo dei babbei non passano
per tali, grazie alle false
attestazioni degli adulatori.
C’è l’ignoranza che su può
definire naturale; c’è poi l’altra di
chi lascia mal coltivato un
talento, che potrebbe dare frutti.
Ma tutto è ammissibile, tranne
un certo epiteto; mi viene il
brucior di stomaco sentendo
quella che chiamano ignoranza
crassa.
Giuseppe Parini (1729-1799)
Tratti fondamentali di una personalità complessa
• l’umile origine
• l’innata vocazione pedagogica
• la fermissima fede nell’utilità sociale della
poesia e della cultura
• la concezione non formale del cristianesimo
J.B. D’Alembert, Essai sur la société
des gens de lettres et des grands
(1753)
Appunti per una biografia (I)
• 1729, nascita
• 1738, trasferimento a Milano
• 1740-52, studi presso la scuola di Sant’Alessandro
dei padri Barnabiti
• 1752, Alcune poesie di Ripano Eupilino
• 1753, ingresso nell’Accademia dei Trasformati
• 1754-62, precettore in casa dei duchi Serbelloni
• 1763-68, precettore in casa dei conti Imbonati
• 1763, Il Mattino
• 1765, Il Mezzogiorno
Appunti per una biografia (II)
• 1768, nomina a poeta del Regio Ducale Teatro
• 1769, redattore della «Gazzetta di Milano» e
professore di eloquenza e belle lettere alle Scuole
Palatine
• 1771, Ascanio in Alba
• 1774, membro della commissione per la riforma
delle scuole
• 1776, membro della Società patriottica
• 1791 sovrintendente alle Scuole pubbliche;
edizione delle Odi (a c. di A. Gambarelli)
• 1799, morte
Voi, che sparsi ascoltate in rozzi accenti
i pregi eccelsi della Donna mia,
non istupite, se tra questi fia
cosa ch'avanzi 'l creder delle genti;
poichè, sebbene per laudarla i' tenti
le penne alzar per ogni alpestre via,
quel che meglio però dir si devria,
riman coperto alle terrene menti.
Nè sia chi dall'esterno mio dolore,
onde in pianti mi struggo a poco a poco,
misuri la pietà dentro al suo core:
perchè, quantunque in ogni tempo e loco
far mostra i' soglia del mio grande ardore,
assai maggior, ch'i' non dispiego, è 'l foco.
Alcune poesie
di Ripano Eupilino, I
Alcune poesie di Ripano Eupilino, LXXIII
O Fortuna, Fortuna crudelaccia,
Allora sì diventerei felice.
che se' fatta per mia disperazione;
Ma perchè osservo la legge cristiana,
Fortuna non più no, ma Fortunaccia,
ognun mi scaccia, ognun mi maladice,
ha a durare un pezzo sta canzone?
e son sempre infelice.
Vogliam finirla, e volger quella faccia
Ma vivrò, sguaiataccia, al tuo dispetto;
un poco ancora alle buone persone?
e se ti grappo un dì per quel ciuffetto,
Che sì, che mi daresti roba a braccia
s'io t'avessi la ciera d'un briccone?
te lo strappo di netto:
sicchè i ragazzi, a vederti sì bella,
S'io fossi, verbigrazia, una puttana,
o un castrato, o una cantatrice,
o un bel marmocchio, ovvero una ruffiana?
t'abbian a gridar dietro: — Vella, vella!
Voi me ne avete fatti tanti e tanti
di questi vostri attacci arcipoltroni,
che se tornate a rompermi i. . . . . . . .
vi tratterò da birbe e da furfanti.
Voi siete una tormaccia di pedanti,
che non volete intender le ragioni;
e perchè fate i saggi e i dottoroni
stimate gli altri goffi ed ignoranti.
Che c'è egli drento in que' vostri libracci
a non volere che sien letti mai
quando voi nol volete, ignorantacci?
Il diavol, credo, che vi salti omai
su que' vostri muffati granellacci,
e vi faccia gridare: — Ahi ahi ahi ahi! —
Alcune poesie
di Ripano Eupilino, LXXXI
Opere di Giuseppe Parini, a cura di F.
Reina, 6 voll., Milano 1801-1804
F. Reina, Vita di Giuseppe Parini
GIUSEPPE PARINI da Bosisio terra del
Milanese situata presso il Lago di
Pusiano nacque il 29 maggio 1729 di
oscuri, ma civili parenti. Il padre suo, che
teneramente l'amava, benchè
possessore di un solo poderetto, recossi
a vivere in Milano, per dare al
vivacissimo ed ingegnoso figliuolo una
diligente. Questi applicò alle Umane
Lettere, ed alla Filosofia nel Ginnasio
Arcimboldi diretto da' Barnabiti, e gli
studj suoi furono, quali da' tempi
volevansi, infelici. Apparve in esso di
buon'ora un genio libero filosofico e
singolarmente dedito alla Poesia; nè vi si
richiese meno della paterna autorità,
per istrascinarlo repugnante alla
Teologia, ed al Sacerdozio. educazione.
G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (I)
Poeta. Questo è un luogo ove tutti riescono pari; e
coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di
noi colassù, una buona fiata [> volta] che sien giunti
qua, trovansi perfettamente appaiati [> agguagliati]
a noi altra canaglia: non ècci [> vi è] altra differenza,
se non che, chi più grasso ci giugne, così anco più
vermi se 'l mangiano. Voi avete in oltre a sapere che
quaggiù solo [> solamente] stassi ricoverata la
verità. Quest'aria malinconica, che qui si respira
fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che
verità, e le parole, ch'escono di bocca, il sono pure.
G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (II)
Poeta. Onde vien egli però che, quando io era colassù tra'
viventi, a me pareva che una così gran parte di voi altri
fosse ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda,
accidiosa, ingrata, vendicativa e simili altre gentilezze?
Forse che talora per qualche impensato avvenimento si è
introdotta qualche parte del nostro sangue eterogeneo
per entro a que' purissimi canali de' vostri antenati? Ed
onde viene ancora, che tra noi altra plebe io ho veduto
tante persone letterate [> scienziate], valorose,
intraprendenti, liberali, gentili, magnanime e dabbene?
Forse che qualche parte del vostro purissimo sangue vien
talora, per qualche impensato avvenimento, ad
introddursi negli oscuri canali di noi altra canaglia?
G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (III)
Poeta. Non vi sembra egli giusto che, se voi avete ereditato i loro meriti, così ancora
dobbiate ereditare i loro demeriti, a quella guisa appunto che chi adisce un'eredità
assume con essa il carico de' debiti che sono annessi a quella? e che per ciò, se
quelli furono onorati, siate onorato ancora voi, e, se quelli furono infami, siate
infamato voi pure?
Nobile. No certo, ché cotesto non mi parrebbe né convenevole né giusto.
Poeta. E perché ciò?
Nobile. Perché io non sono per verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui.
Poeta. Per qual ragione?
Nobile. Perché, non avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la pena.
Poeta. Volpone! voi vorreste adunque godervi l'eredità, lasciando altrui i pesi, che le
appartengono, eh! Voi vorreste adunque lasciare a' vostri avoli la viltà del loro
primo essere, la malvagità delle azioni di molti di loro e la vergogna che ne dee
nascere, serbando per voi lo splendore della loro fortuna, il merito delle loro virtù, e
l'onore ch'eglino si sono acquistati con esse.
Nobile. Tu m'hai così confuso, ch'io non so dove io m'abbia il capo.
G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (I)
Non siete voi letterato? Non siete voi cittadino? Non siete voi cristiano?
Non siete voi Religioso? […] Le scienze vi debbon pure avere insegnato
che tanto vale l’uno quanto l’altr’uomo: gli obblighi del cittadino debbono
avervi ammaestrato a non far veruna distinzione tra i vostri compatriotti,
quando questi, ciascuno per la sua via, tendono alla comune felicità: la
carità del cristiano a portare e mostrare anche nelle menome cose amore
indistintamente ed universalmente a tutti quanti i prossimi vostri: e
l’osservanza religiosa, per fine, a perfezionare in voi tutte queste virtù, che
debbono esser proprie del letterato, del cittadino e del cristiano. Ecco le
riprensioni che vi si potrebbero fare, se voi vi burlaste delle povere
femminelle milanesi contra i doveri del cittadino, e contra il precetto il
qual dice: - Merita pena colui che chiama il suo fratello pazzo o carogna
[cfr. Mt 5,22: “chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a
giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi
gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna”].
G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (II)
Ma via, sia pur vero che voi abbiate biasimato solamente il linguaggio della
plebe nostra, come andate dicendo nel secondo Dialogo. Tenete però voi in
così piccolo conto questa lingua, che meriti d’esser chiamata, anche in
presenza di chi la parla, lingua d’oca, lingua sgraziata, goffa, fetente, unta,
lercia, scipita, disadatta? Questo linguaggio anzi della plebe, che voi nel
secondo Dialogo volete aver solo biasimato, questo anzi è il vero e più puro
linguaggio milanese, e quello per conseguenza che meno dovrebbe
meritarsi le vostre derisioni.
Le lingue, come voi medesimo a me potete insegnare, sono tutte
indifferenti per riguardo alla intrinseca bruttezza o beltà loro. Le voci, onde
ciascuna è composta, sono state somministrate agli uomini dalla necessità
di spiegare e comunicarsi vicendevolmente i pensieri dello animo loro; e la
Natura, a misura che negli uomini sono cresciute le idee, ha dato loro segni
da poterle esprimere al di fuori: onde nasce che ciascuna lingua è
abbastanza perfetta, qualora non manchino ad essa quelle voci che si
richieggono a potere spiegare ciascuna idea di colui che la parla.
G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (III)
Noi Milanesi siamo presso le altre nazioni distinti per la semplicità e per la
schiettezza dello animo; e per quella nuda ed amorevole cordialità che è il
più soave legame della società umana. […] Questa medesima schiettezza e
semplicità, che i forestieri riconoscono come singolarmente propria della
nostra nazione, è paruto di trovar nella nostra lingua milanese a coloro de’
nostri che posti sonosi ad esaminarne la natura. E, o sia che realmente i
Milanesi non abbiano giammai appreso a favellare dall’arte, e non
abbiano vocaboli o maniere di dire proprie a deludere altrui, siccome
quelli che non ne hanno i pensieri; o sia che gli osservatori del nostro
dialetto abbian creduto di vedere in esso ciò ch’eglino stessi desideravano;
certa cosa è che la nostra lingua è sembrata loro spezialmente inchinata
ad esprimer le cose tali e quali sono, senza aver grande bisogno in
qualunque argomento di sostenerla con tropi e traslati ed altre maniere
artifiziose del dire, che nate sono, o dalla mancanza dell’espressioni
proprie e naturali. o dall’arte di sorprendere il cuore ferendo
l’immaginazione.
Due discorsi ai Trasformati
• 1761, Discorso sopra la poesia, BAM = ms con
cancellature e correzioni autografe; Reina, IV,
pp. 49-68
• 1762, Discorso sopra la carità, BAM = ms con
cancellature e correzioni autografe; Reina, IV,
pp. 100-121
G. Parini, Discorso sopra la poesia (1761)
Il poeta, come si può dedurre da quel che di sopra abbiamo detto della
poesia, dee toccare e muovere; e, per ottener ciò, dee prima esser
tócco e mosso egli medesimo. Perciò non ognuno può esser poeta,
come ognuno può esser medico e legista. Non a torto si dice che il
poeta dee nascere. Egli dee aver sortito dalla natura una certa
disposizione degli organi e un certo temperamento che il renda abile a
sentire in una maniera, allo stesso tempo forte e dilicata, le
impressioni degli oggetti esteriori; imperocchè come potrebbe
dilicatamente o fortemente dipingerli ed imitarli chi per un certo modo
grossolano ed ottuso le avesse ricevute? La poesia che consiste nel
puro torno del pensiero, nella eleganza dell'espressione, nell'armonia
del verso, è come un alto e reale palagio che in noi desta la maraviglia
ma non ci penetra al cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è
un grazioso prospetto della campagna, che ci allaga e ci inonda di
dolcezza il seno.
G. Parini, Sopra la carità, 1762
Quanto desiderabile cosa sarebbe mai che tutti coloro che sortito hanno dalla
natura uno ingegno adatto alle Lettere, fossero stimolati allo studio ed allo
scrivere non da una leggiere curiosità o da un vano amore di gloria; ma dalla carità
de’ suoi prossimi, de’ suoi concittadini, del suo paese? Quanti inconvenienti non si
verrebbono a schifare così, e di quanto maggior utile sarebbono le lettere e i
letterati nel mondo! L’uomo che dalla semplice curiosità o dal solo amore della
gloria è condotto alle lettere, non avviene giammai che non sia accompagnato
nella sua carriera da uno stuolo di vizii, che a lui recano danno e notabilmente
ostano all’altrui utilità, la quale ogni uomo dabbene dee proporsi per iscopo
principale del suo operare. […] La nuda ambizione letteraria non solo è
fabbricatrice di strane e pericolose opinioni per amore di singolarità; ma eziandio,
per sua natura e per suo proprio interesse, si ostina pertinacemente in quelle; e,
posciaché non le è permesso di sostenerle colla ragione, almeno tenta di farlo co’
sofismi, e con ciò che per onta della letteratura chiamasi cabala letteraria; e non di
rado ancora colla prepotenza. […] Quell’uomo d’ingegno che sul principio della sua
letteraria carriera è assistito dallo spirito della carità, prima d’ogni altra cosa
riflette seco medesimo che l’uomo dabbene dee consacrare alla utilità de’ suoi
prossimi, o sia della repubblica in cui vive, ciò che, oltre la conservazione di se
medesimo, formar dee l’occupazione principale della sua vita.
Struttura e storia interna del Giorno
• Giorno I = Mattino 1763 (due stampe; vv.
1083) e Mezzogiorno 1765 (vv. 1376)
• Giorno II = Mattino II (8 mss.; vv. 1166),
Meriggio (2 mss.; vv. 1178), Vespro (1 ms.: 349
vv.), Notte (vari mss. per un totale di 673 vv.)
►datazione approssimativa: 1777-1790 (più
precisamente: 1784-88, con riprese tra il 1792
e il 1796)
Lettera di G. Parini a G. Bodoni, 18.X.1791
Nella primavera ventura spero e quasi tengo per certo
d’avere in pronto due poemetti, per séguito e per
termine di quelli altri antichi due, che hanno avuto la
fortuna di non dispiacere. Se mai ella mi facesse l’onore
di meditar nulla anche intorno all’edizione di essi, ella si
compiaccia di farmene cenno. I due primi uscirebbero
corretti, variati in qualche parte e accresciuti. Così tutti
e quattro verrebbero ad essere nuovi e ridotti in un slo
poema, che avrebbe per titolo Il Giorno.
Della vita e degli scritti di G. Parini. Lettere di due amici
[Luigi Bramieri e Pompilio Pozzetti], Milano 1802, p. 47
• Pompilio Pozzetti afferma che Parini, da lui
sollecitato a pubblicare l’opera, avrebbe risposto
che dal 1796 «aveva cominciato a riguardare qual
pretta viltà, niente men turpe che insaevire in
mortuum, l'acconsentir, dopo tanto procrastinare,
all'edizione d'uno scritto, ove si pungono di
sarcasmo quelli singolarmente che nel gran corpo
sociale formavano una classe distinta, di cui i
politici cangiamenti sopraggiunti allora nel
proprio paese facean veder manifesta la totale
decadenza".
D. Isella, Introduzione a Parini, Il Giorno, 1996
Parini non dovette mai avere un disegno generale, sia pure non rifinito nei
dettagli, a cui rapportarsi; gli bastò, o gli parve all’inizio che potesse bastargli,
l’ordine offertogli dal naturale succedersi delle ore del giorno, da un’alba
all’altra: un filo molto semplice lungo il quale distribuire i molteplici «riti» del
Bel Mondo, alcuni vincolati ad ore canoniche, altri più mobili. Ma per molte
cose la collocazione rimaneva incerta, specie crescendo con gli anni il gusto
dell’osservazione dal vero, lo spunto da taccuino. Fermo restando il tema
dell’opera, costante l’idea del poema da compiere, Parini accettava ogni volta
di buon grado i suggerimenti dell’occasione e, senza preoccuparsi più che
tanto di come se ne sarebbe servito, componeva gruppi di versi che al
momento non sapeva dove, e al limite neppure se, gli sarebbero potuti
servire. […] Come pedine di una partita senza regole su una scacchiera senza
caselle, fino a che ciascuno di essi trovi il suo posto immutabile in un
equilibrio compositivo non preventivato. Il fatto però che Parini non sia
arrivato al punto conclusivo del mobilissimo gioco combinatorio servirà a
mettere in evidenza come ormai in lui forze le centrifughe di un’ispirazione
lirica sensibile alle illuminazioni del particolare avessero il sopravvento sulla
forza centripeta dell’ispirazione unitaria.
Fonti e modelli
• Gian Lorenzo Lucchesini, In antimeridianas
improbi iuvenis curas, 1672
• Pier Jacopo Martello, Il segretario Cliternate,
1717
• Alexander Pope, The rape of the Lock, 1712
(edd. trad. it.: 1739, 1750, 1760)
L’endecasillabo sciolto
• Impiegato a partire dal Cinquecento: G. Trissino,
L’Italia liberata dai Goti; L. Alamanni, La
coltivazione; A. Caro, trad. dell’Eneide
→ poesia narrativa e discorsiva
• Dal Settecento comincia a essere impiegato
anche in sede lirica (Carlo Innocenzo Frugoni)
• 1757: ed. del vol. Versi sciolti di tre eccellenti
autori, cioè Algarotti, Frugoni e Bettinelli
• 1763: ed. della trad. in end. Sciolti delle Poesie di
Ossian a c. di M. Cesarotti [orig. ingl. in prosa,
opera di James Macpherson]
La notte, vv. 601-617
Già per l'aula beata a cento intorno
Dispersi tavolier seggon le dive,
Seggon gli eroi, che dell'Esperia sono
Gloria somma o speranza. Ove di quattro
Un drappel si raccoglie: e dove un altro
Di tre soltanto. Ivi di molti e grandi
Fogli dipinti il tavolier si sparge:
Qui di pochi e di brevi. Altri combatte;
Altri sta sopra a contemplar gli eventi
De la instabil fortuna e i tratti egregi
Del sapere o dell'arte. In fronte a tutti
Grave regna il consiglio: e li circonda
Maestoso silenzio. Erran sul campo
Agevoli ventagli, onde le dame
Cercan ristoro all'agitato spirto
Dopo i miseri casi. Erran sul campo
Lucide tabacchiere.
Il vespro, vv. 51-83
Ecco ella sorge; e del partir dà cenno:
Ma non senza sospetti e senza baci
A le vergini ancelle il cane affida
Al par de' giochi al par de' cari figli
Grave sua cura: e il misero dolente
Mal tra le braccia contenuto e i petti
Balza e guaisce in suon che al rude vulgo
Ribrezzo porta di stridente lima;
E con rara celeste melodia
Scende a gli orecchi de la dama e al core.
Mentre così fra i generosi affetti
E le intese blandizie e i sensi arguti
E del cane e di sè la bella oblia
Pochi momenti; tu di lei più saggio
Usa del tempo: e a chiaro speglio innante
I bei membri ondeggiando alquanto libra
Su le gracili gambe; e con la destra
Molle verso il tuo sen piegata e mossa
Scopri la gemma che i bei lini annoda;
E in un di quelle ond'hai sì grave il dito
L'invidiato folgorar cimenta:
Poi le labbra componi; ad arte i guardi
Tempra qual più ti giova; e a te sorridi.
Al fin tu da te sciolto, ella dal cane
Ambo al fin v'appressate. Ella da i lumi
Spande sopra di te quanto a lei lascia
D'eccitata pietà l'amata belva;
E tu sopra di lei da gli occhi versi
Quanto in te di piacer destò il tuo volto.
Tal seguite ad amarvi: e insieme avvinti,
Tu a lei sostegno, ella di te conforto,
Itene omai de' cari nodi vostri
Grato dispetto a provocar nel mondo.
Il mezzogiorno, vv. 715-743
Or d'avi, or di cavalli, ora di Frini
Instancabile parla, or de' Celesti
Le folgori deride. Aurei monili,
E gemme e nastri, gloriose pompe
L'ingombran tutto; e gran titolo suona
Dinanzi a lui. Qual più tra noi risplende
Inclita stirpe, che onorar non voglia
D'un ospite sì degno i lari suoi?
Ei però sederà de la tua Dama
Al fianco ancora: e tu lontan da Giuno
Tra i Silvani capripedi n'andrai
Presso al marito; e pranzerai negletto
Col popol folto degli Dei minori.
Ma negletto non già dagli occhi andrai
De la Dama gentil, che a te rivolti
Incontreranno i tuoi. L'aere a quell'urto
Arderà di faville: e Amor con l'ali
L'agiterà. Nel fortunato incontro
I messaggier pacifici dell'alma
Cambieran lor novelle, e alternamente
Spinti, rifluiranno a voi con dolce
Delizioso tremito sui cori.
Tu le ubbidisci allora, o se t'invita
Le vivande a gustar che a lei vicine
L'ordin dispose, o se a te chiede in vece
Quella che innanzi a te sue voglie punge
Non col soave odor, ma con le nove
Leggiadre forme onde abbellir la seppe
Dell'ammirato cucinier la mano.
Alcune grandi scene
• Mattino: risveglio, vestizione, colazione,
acconciatura
• Mezzogiorno/Meriggio: il rito del pranzo, la
passeggiata in carrozza lungo il corso
• Vespro: la visita all’amica malata la sfilata
notturna delle carrozze
• Notte: i giochi in un salotto aristocratico
G. Parini, Il Giorno I, Alla Moda
A te vezzosissima Dea, che con sì dolci redine oggi temperi, e governi la
nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo Libretto si dedica, e si
consagra. Chi è che te qual sommo Nume oggimai non riverisca, ed onori,
poichè in sì breve tempo se' giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il
pedante Buon Senso, e l'Ordine seccagginoso tuoi capitali nemici, ed hai
sciolto dagli antichissimi lacci questo secolo avventurato? Piacciati
adunque di accogliere sotto alla tua protezione, che forse non n'è
indegno, questo piccolo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari ove le
gentili Dame, e gli amabili Garzoni sagrificano a se medesimi le mattutine
ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento.
Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va
libero in Versi Sciolti, sapendo, che tu di questi specialmente ora godi, e ti
compiaci. Esso non aspira all'immortalità, come altri libri, troppo lusingati
da' loro Autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti
nell'oblìo. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, così fie pago
di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto,
e pensi a cangiarti, e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà
riguardare con placid'occhio questo Mattino forse gli succederanno il
Mezzogiorno, e la Sera; e il loro Autore si studierà di comporli, ed ornarli
in modo, che non men di questo abbiano ad esserti cari.
Il Mattino 1763, vv. 1-15
Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo celeste, o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori
E le adunate in terra o in mar ricchezze
Dal genitor frugale in pochi lustri,
Me Precettor d'amabil Rito ascolta.
Come ingannar questi nojosi e lenti
Giorni di vita, cui sì lungo tedio
E fastidio insoffribile accompagna
Or io t'insegnerò. Quali al Mattino,
Quai dopo il Mezzodì, quali la Sera
Esser debban tue cure apprenderai,
Se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta
Pur di tender gli orecchi a' versi miei.
«Di magnanimi lombi ordine il sangue» (Matt. I v. 2)
Nel secondo verso appare per la prima volta una
situazione ritmica a cui Parini ricorre in misura crescente
nell’elaborazione del Giorno: «l’endecasillabo con sinalefe
in settima sede, in cui figuri, come secondo elemento
[della sinalefe], una parola, piana o sdrucciola, iniziante
per vocale accentata […], dove lo stacco rilevato
dall’accento della vocale (una sorta di dialefe nella
sinalefe) impenna il verso e lo tiene verticalmente
sospeso: un attimo, per poi riprendere con più ampio
respiro o per scendere rapido alla chiusa» (Isella,
L’officina, p. 51). La figura giova qui a mettere il rilievo il
sostantivo ordine, a distanza dall’aggettivo lungo,
impiegato nel senso latino di ‘successione’.
Mattino I, 1-4: la tecnica dell’enjambement + iperbato
Giovin Signore, o a te scenda per lungo
Di magnanimi lombi ordine il sangue
Purissimo celeste, o in te del sangue
Emendino il difetto i compri onori
«Il ritmo è tutto orientato nel senso del movimento, del rapporto tra gli
endecasillabi. Ma la caduta dell’unità-verso non porta con sé anche quella
dello scatto che dà al ritmo la fine del verso. […] Lo sforzo maggiore è però
sopportato da un’istituzione tipicamente pariniana, come l’inversione al
limite, che […] nasce dalla soppressione dell’enjambement dellacasiano, di
nome più aggettivo, troppo logorato dalla tradizione pastorale. In questa sede
l’inversione si attua naturalmente con un movimento di clausola […] dove sia
l’inserzione del verbo che quella dell’aggettivo bloccano il frammento, e
rinnovano, riscattano la sua personalità ritmica» (P. Citati, Per una storia del
Giorno, 1954, pp. 16-17).
Il Mattino 1763, vv. 33-52
Sorge il Mattino in compagnìa dell'Alba
Innanzi al Sol che di poi grande appare
Su l'estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e
l'onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel sposa, e i minori
Suoi figlioletti intepidìr la notte;
Poi sul collo recando i sacri arnesi
Che prima ritrovàr Cerere, e Pale,
Va col bue lento innanzi al campo, e
scuote
Lungo il piccol sentier da' curvi rami
Il rugiadoso umor che, quasi gemma,
I nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il Fabbro, e la sonante
Officina riapre, e all'opre torna
L'altro dì non perfette, o se di chiave
Ardua e ferrati ingegni all'inquieto
Ricco l'arche assecura, o se d'argento
E d'oro incider vuol giojelli e vasi
Per ornamento a nuove spose o a
mense.
Il Mattino 1763, vv. 53-76
Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
Qual istrice pungente, irti i capegli
Al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signore, il tuo mattin. Tu col cadente
Sol non sedesti a parca mensa, e al lume
Dell'incerto crepuscolo non gisti
Ieri a corcarti in male agiate piume,
Come dannato è a far l'umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi concilio
Di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr'arti e leggi
Per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie, e le canore scene,
E il patetico gioco oltre più assai
Producesti la notte; e stanco alfine
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote, e il calpestìo
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il queto aere notturno, e le tenèbre
Con fiaccole superbe intorno apristi,
Siccome allor che il Siculo terreno
Dall'uno all'altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
Le tede de le Furie anguicrinite.
Il Mattino II, vv. 1-20
Sorge il Mattino in compagnìa dell'Alba
Dinanzi al Sol che di poi grande appare
Su l'estremo orizzonte a render lieti
Gli animali e le piante e i campi e
l'onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
Letto cui la fedel moglie, e i minori
Suoi figlioletti intepidìr la notte;
Poi sul dorso portando i sacri arnesi
Che prima ritrovò Cerere o Pale,
Move seguendo i lenti bovi, e scuote
Lungo il piccol sentier da' curvi rami
Il rugiadoso umor che di gemme al paro
La nascente del Sol luce rifrange.
Allora sorge il Fabbro, e la sonante
Officina riapre, e all'opre torna
L'altro dì non perfette, o se di chiave
Ardua e ferrati ingegni all'inquieto
Ricco l'arche assecura, o se d'argento
E d'oro incider vuol giojelli e vasi
Per ornamento a nuove spose o a
mense.
Il Mattino II, vv. 21-44
Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
Qual istrice pungente, irti i capegli
Al suon di mie parole? Ah il tuo mattino
Signor, questo non è. Tu col cadente
Sol non sedesti a parca cena, e al lume
Dell'incerto crepuscolo non gisti
Ieri a posar qual ne’ tuguri suoi
Entro a rigide coltri il vulgo vile.
A voi celeste prole, a voi concilio
Almo di Semidei altro concesse
Giove benigno: e con altr'arti e leggi
Per novo calle a me guidarvi è d’uopo.
Tu tra le veglie, e le canore scene,
E il patetico gioco oltre più assai
Producesti la notte; e stanco alfine
In aureo cocchio, col fragor di calde
Precipitose rote, e il calpestìo
Di volanti corsier, lunge agitasti
Il queto aere notturno, e le tenèbre
Con fiaccole superbe intorno apristi,
Siccome allor che il Siculo terreno
Dall'uno all'altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
Le tede de le Furie anguicrinite.
Mezzogiorno (vv. 1376)
vv. 1-1194: «Ardirò ancor
tra i desinari illustri… che
ancor l’antico strepito
dinota»
Meriggio (vv. 1178)
vv. 1-1178: «Ardirò ancor
fra i desinari illustri… che
ancor l’antico strepito
dinota»
vv. 1195-1219, «Già de le
fere, e degli augelli il
giorno… che da tutti
servito, a nullo serve»
Vespro vv. 1-25, «Ma de
gli augelli e de le fere il
giorno… che da tutti
servito, a nullo serve»
vv. 1220-1376, «Già di
cocchi frequente il corso…
splende… per entro al
tenebroso umido velo»
?
Il Mezzogiorno, vv. 1-6
Ardirò ancor tra i desinari illustri
Sul Meriggio innoltrarmi umil Cantore,
Poichè troppa di te cura mi punge,
Signor, ch'io spero un dì veder maestro
E dittator di graziosi modi
All'alma gioventù che Italia onora.
Purg. XXIV 58-60
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne.
Forse vero non è; ma un giorno è fama,
Che fur gli uomini eguali; e ignoti nomi
Fur Plebe, e Nobiltade. Al cibo, al bere,
All'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonno
Un istinto medesmo, un'egual forza
Sospingeva gli umani: e niun consiglio
Niuna scelta d'obbietti o lochi o tempi
Era lor conceduta. A un rivo stesso,
A un medesimo frutto, a una stess'ombra
Convenivano insieme i primi padri
Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri
De la plebe spregiata. I medesm'antri
Il medesimo suolo offrieno loro
Il riposo, e l'albergo; e a le lor membra
I medesmi animai le irsute vesti.
Sol'una cura a tutti era comune
Di sfuggire il dolore, e ignota cosa
Era il desire agli uman petti ancora.
Il Mezzogiorno, vv. 250-267
Il Mezzogiorno, vv. 517-556
[…] Or le sovviene il giorno,
Ahi fero giorno! allor che la sua bella
Vergine cuccia de le Grazie alunna,
Giovenilmente vezzeggiando, il piede
Villan del servo con l'eburneo dente
Segnò di lieve nota: ed egli audace
Con sacrilego piè lanciolla: e quella
Tre volte rotolò; tre volte scosse
Gli scompigliati peli, e da le molli
Nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando: aita aita
Parea dicesse; e da le aurate volte
A lei l'impietosita Eco rispose:
E dagl'infimi chiostri i mesti servi
Asceser tutti; e da le somme stanze
Le damigelle pallide tremanti
Precipitàro. Accorse ognuno; il volto
Fu spruzzato d'essenze a la tua Dama;
Ella rinvenne alfin: l'ira, il dolore
L'agitavano ancor; fulminei sguardi
Gettò sul servo, e con languida voce
Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
Al sen le corse; in suo tenor vendetta
Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
Vergine cuccia de le grazie alunna.
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo
Udì la sua condanna. A lui non valse
Merito quadrilustre; a lui non valse
Zelo d'arcani uficj: in van per lui
Fu pregato e promesso; ei nudo andonne
Dell'assisa spogliato ond'era un giorno
Venerabile al vulgo. In van novello
Signor sperò; chè le pietose dame
Inorridìro, e del misfatto atroce
Odiàr l'autore. Il misero si giacque
Con la squallida prole, e con la nuda
Consorte a lato su la via spargendo
Al passeggiere inutile lamento:
E tu vergine cuccia, idol placato
Da le vittime umane, isti superba.
Il Mezzogiorno, v. 533: Precipitaro…
«La collocazione enfatica del verbo a inizio verso, staccato in
enjambement dal soggetto, determina un parallelismo
oppositivo con i vv. 530-31 («i mesti servi / asceser tutti») ed è
parte di un effetto cumulativo che coinvolge i sette versi
successivi («Fu spruzzato», «Ella rinvenne», «L’agitavano»,
«Chiamò», «Al sen le corse», «Chieder sembrolle»),
contribuendo alla concitazione narrativa in modo solidale con la
frammentazione metrico-sintattica. Da notare, agli stessi fini, la
polarità metrica che si instaura coi successivi vv. 543-548, dove la
serialità anaforica concerne i secondi emistichi («A lui non
valse», «a lui non valse», «in van per lui», «In van novello»). A
partire dall’episodio della vergine cuccia, Parini si avvarrà sempre
più spesso delle risorse enfatiche connesse alla seriale
frammentazione metrico-sintattica degli endecasillabi» (M. Tizi)
E ¦ tu ¦ ver¦ gi¦ ne ¦ cuc¦cia,^i¦ dol ¦ pla¦ca ¦ to
1 2
3 4 5
6
7
8
9 10 11
Da ¦ le ¦ vit ¦ ti ¦ me^u¦ ma ¦ne,^i¦ sti ¦ su¦per¦ba
1 2 3 4
5
6
7
8 9 10 11
Il Mezzogiorno, vv. 1220-1254
Già di cocchi frequente il Corso splende:
E di mille che là volano rote
Rimbombano le vie. Fiero per nova
Scoperta biga il giovine leggiadro
Che cesse al carpentier gli avìti campi
Là si scorge tra i primi. All'un de' lati
Sdrajasi tutto: e de le stese gambe
La snellezza dispiega. A lui nel seno
La conoscenza del suo merto abbonda;
E con gentil sorriso arde e balena
Su la vetta del labbro; o da le ciglia,
Disdegnando, de' cocchi signoreggia
La turba inferior: soave intanto
Egli alza il mento, e il gomito protende;
E mollemente la man ripiegando,
I merletti finissimi su l'alto
Petto si ricompon con le due dita.
Quinci vien l'altro che pur oggi al cocchio
Dai casali pervenne, e già s'ascrive
Al concilio de' numi. Egli oggi impara
A conoscere il vulgo, e già da quello
Mille miglia lontan sente rapirsi
Per lo spazio de' cieli. A lui davanti
Ossequiosi cadono i cristalli
De' generosi cocchi oltrepassando;
E il lusingano ancor perchè sostegno
Sia de la pompa loro. Altri ne viene
Che di compro pur or titol si vanta;
E pur s'affaccia, e pur gli orecchi porge,
E pur sembragli udir da tutti i labbri
Sonar le glorie sue: Mal abbia il lungo
De le rote stridore, e il calpestìo
De' ferrati cavalli, e l'aura, e il vento
Che il bel tenor de le bramate voci
Scender non lascia a dilettargli 'l core.
Mz 1229: E con gentil sorriso arde e balena
Tasso, GL, XIX 70 1-4: Alza alfin gli occhi Armida,
e pur alquanto / la bella fronte sua torna serena;
/ e repente fra i nuvoli del pianto / un soave
sorriso apre e balena.
Il Mezzogiorno, 1255-1282
Di momento in momento il fragor cresce,
E la folla con esso. Ecco le vaghe
A cui gli amanti per lo dì solenne
Mendicarono i cocchi. Ecco le gravi
Matrone che gran tempo arser di zelo
Contro al bel Mondo, e dell'ignoto Corso
La scelerata polvere dannàro;
Ma poi che la vivace amabil prole
Crebbe, e invitar sembrò con gli occhi Imene,
Cessero alfine; e le tornite braccia,
E del sorgente petto i rugiadosi
Frutti prudentemente al guardo aprìro
Dei nipoti di Giano. Affrettan quindi
Le belle cittadine, ora è più lustri
Note a la Fama, poi che ai tetti loro
Dedussero gli Dei; e sepper meglio,
E in più tragico stil da la toilette
Ai loro amici declamar l'istoria
De' rotti amori; ed agitar repente
Con celebrata convulsion la mensa,
Il teatro, e la danza. Il lor ventaglio
Irrequieto sempre or quinci or quindi
Con variata eloquenza esce e saluta.
Convolgonsi le belle: or su l'un fianco
Or su l'altro si posano tentennano
Volteggiano si rizzan, sul cuscino
Ricadono pesanti, e la lor voce
Acuta scorre d'uno in altro cocchio.
Il Mezzogiorno 1195-1219
Già de le fere, e degli augelli il giorno,
E de' pesci notanti, e de' fior varj,
Degli alberi, e del vulgo al suo fin corre.
Di sotto al guardo dell'immenso Febo
Sfugge l'un Mondo; e a berne i vivi raggi
Cuba s'affretta, e il Messico, e l'altrice
Di molte perle California estrema.
Già da' maggiori colli, e da l'eccelse
Torri il Sol manda gli ultimi saluti
All'Italia, fuggente; e par, che brami
Rivederti, o Signore, anzi che l'Alpe,
O l'Appennino, o il mar curvo ti celi
Agli occhi suoi. Altro finor non vide,
Il Vespro 1-25
Ma de gli augelli e de le fere il giorno
E de' pesci squammosi e de le piante
E dell'umana plebe al suo fin corre.
Già sotto al guardo de la immensa luce
Sfugge l'un mondo: e a berne i vivi raggi
Cuba s'affretta e il Messico e l'altrice
Di molte perle California estrema:
E da' maggiori colli e dall'eccelse
Rocche il sol manda gli ultimi saluti
All'Italia fuggente; e par che brami
Rivederti o Signor prima che l'alpe
O l'appennino o il mar curvo ti celi
A gli occhi suoi. Altro finor non vide
Che di falcato mietitore i fianchi
Su le campagne tue piegati e lassi,
E su le armate mura or fronti or spalle
Carche di ferro, e su le aeree capre
Degli edificj tuoi man scabre e arsicce,
E villan polverosi innanzi ai carri
Gravi del tuo ricolto, e sui canali
E sui fertili laghi irsute braccia
Di remigante che le alterne merci
Al tuo comodo guida ed al tuo lusso,
Tutt'ignobili oggetti. Or colui vegga,
Che da tutti servito, a nullo serve.
Che di falcato mietitore i fianchi
Su le campagne tue piegati e lassi,
E su le armate mura or braccia or spalle
Carche di ferro, e su le aeree capre
De gli edificj tuoi man scabre e arsicce,
E villan polverosi innanzi a i carri
Gravi del tuo ricolto, e su i canali
E su i fertili laghi irsuti petti
Di remigante che le alterne merci
A' tuoi comodi guida ed al tuo lusso;
Tutti ignobili aspetti. Or colui veggia
Che da tutti servito a nullo serve.
G. Carducci, Storia del «Giorno»
«Felicissimo il trasferimento dal Mezzogiorno a
qui della descrizione del tramonto. L’apertura
del poemetto risponde così al principio del
Mattino e al principio della Notte; e sta fra i due
mirabile nella novità e larghezza della
rappresentazione naturale e nella potenza ed
efficacia della rappresentazione morale,
riaffermando a mezzo il poema gli intendimenti
sociali ed umani».
Il Vespro, 270-303
Già le fervide amiche ad incontrarse
Volano impazienti; un petto all'altro
Già premonsi abbracciando; alto le gote
D'alterni baci risonar già fanno;
Già strette per la man co' dotti fianchi
Ad un tempo amendue cadono a piombo
Sopra il sofà. Qui l'una un sottil motto
Vibra al cor dell'amica; e a i casi allude
Che la Fama narrò: quella repente
Con un altro l'assale. Una nel viso
Di bell'ire s'infiamma: e l'altra i vaghi
Labbri un poco si morde: e cresce in tanto
E quinci ognor più violento e quindi
Il trepido agitar de i duo ventagli.
Così, se mai al secol di Turpino
Di ferrate guerriere un paro illustre
Si scontravan per via, ciascuna ambiva
L'altra provar quel che valesse in arme;
E dopo le accoglienze oneste e belle
Abbassavan lor lance e co' cavalli
Urtavansi feroci; indi infocate
Di magnanima stizza i gran tronconi
Gittavan via de lo spezzato cerro,
E correan con le destre a gli elsi enormi.
Ma di lontan per l'alta selva fiera
Un messagger con clamoroso suono
Venir s'udiva galoppando; e l'una
Richiamare a re Carlo, o al campo l'altra
Del giovane Agramante. Osa tu pure
Osa invitto garzone il ciuffo e i ricci
Sì ben finti stamane all'urto esporre
De' ventagli sdegnati: e a nuove imprese
La tua bella invitando, i casi estremi
De la pericolosa ira sospendi.
La notte, vv. 1-60
Nè tu contenderai benigna Notte,
Che il mio Giovane illustre io cerchi e guidi
Con gli estremi precetti entro al tuo regno.
Già di tenebre involta e di perigli,
Sola squallida mesta alto sedevi
Su la timida terra. Il debil raggio
De le stelle remote e de' pianeti,
Che nel silenzio camminando vanno,
Rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopo
A sentirli assai più. Terribil ombra
Giganteggiando si vedea salire
Su per le case e su per l'alte torri
Di teschi antiqui seminate al piede.
E upupe e gufi e mostri avversi al sole
Svolazzavan per essa; e con ferali
Stridi portavan miserandi augurj.
E lievi dal terreno e smorte fiamme
Sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme
Di su di giù vagavano per l'aere
Orribilmente tacito ed opaco;
E al sospettoso adultero, che lento
Col cappel su le ciglia e tutto avvolto
Entro al manto sen gìa con l'armi ascose,
Colpìeno il core, e lo strignean d'affanno.
E fama è ancor che pallide fantasime
Lungo le mura de i deserti tetti
Spargean lungo acutissimo lamento,
Cui di lontano per lo vasto buio
I cani rispondevano ululando.
«La celebre notte ‘medievale’, iniziata su un tono
altissimo, di largo respiro cosmico […], tutta corsa subito
poi da sbattiti d’ombre e da voli sinistri, si chiude, qui, in
accordo al suo avvio, suggerendo nuove lontananze e
profondità di spazi: cinque versi, questi ultimi,
ritmicamente ordinati a chiasmo (accenti principali di 4,
6, 10 nel primo e nel quinto, di 4, 8, 10 nel secondo e nel
quarto: in mezzo, isolato, un endecasillabo di 3, 6, 10,
Spargean lungo acutissimo lamento: centro della
lacerazione fonica che si propaga in vasti cerchi di echi e
silenzi). E già l’orecchio avvertito del Carducci ne rilevava
l’armonia ‘ondulante’, conseguita però pienamente
soltanto con la lezione degli Ambr. IV 15 e 17 che
smorzano il fitto battito di 4, 6, 8, 10 del penultimo verso
(Cui di lontan per entro al vasto buio)» (Isella, L’officina, p.
47).
La notte, vv. 25-29
E ¦ fa¦ma è an¦cor ¦ che ¦ pal¦li¦de ¦ fan¦ta¦si¦me
1 2
3
4
5
6 7 8 9 10 11 (12)
Lun¦go ¦ le ¦ mu¦ra ¦ de i ¦ de¦ ser¦ ti ¦ tet¦ ti
1 2 3 4 5 6
7 8 9 10 11
Spar¦gean ¦ lun¦ go a¦cu¦tis¦si¦mo ¦ la¦men¦to,
1
2
3
4 5 6 7 8
9 10 11
Cui ¦ di ¦ lon¦ta¦no ¦ per ¦ lo ¦ va¦sto ¦ bu¦ io
1 2 3 4 5 6
7 8 9
10 11
I ¦ ca¦ni ¦ ri¦spon¦de¦va¦no u¦lu¦lan¦do.
1 2 3 4 5
6 7 8
9 10 11
Si è udita popolarmente anche
Verg. Georg. I 476-486
una gran voce per i boschi silenti,
sono stati visti fantasmi
stranamente pallidi nell’oscurità
della notte ed hanno parlato —
oh che schifo! — le bestie; si
Vox quoque per lucos vulgo exaudita silentis
fermano i fiumi, si squarciano le
ingens, et simulacra modis pallentia miris
terre, nei templi lacrima
uisa sub obscurum noctis, pecudesque locutae mestamente l’avorio (= delle
statue) ed essudano i bronzi (=
(infandum!); sistunt amnes terraeque
dehiscunt, delle statue). L’Erìdano (= il Po),
re dei fiumi, straripò, travolgendo
et maestum inlacrimat templis ebur aeraque
le selve nel pazzo vortice, e
sudant.
trascinò via per ogni campo gli
armenti con le stalle. In quello
Proluit insano contorquens vertice silvas
stesso tempo, o comparvero fibre
fluviorum rex Eridanus camposque per omnis
infauste negli atri intestini (=
cum stabulis armenta tulit. Nec tempore eodem degli animali sacrificati), o cessò
tristibus aut extis fibrae apparere minaces
il sangue di colare dai pozzetti (=
degli altari) e le città alte (= di
aut puteis manare cruor cessavit, et altae
montagna, o più vicine alla
per noctem resonare lupis ululantibus urbes.
montagna) risuonarono di lupi
ululanti nella notte.
Tal fusti o Notte allor che gl'inclit'avi,
Onde pur sempre il mio garzon si vanta,
Eran duri ed alpestri; e con l'occaso
Cadean dopo lor cene al sonno in preda;
Fin che l'aurora sbadigliante ancora
Li richiamasse a vigilar su l'opre
De i per novo cammin guidati rivi
E su i campi nascenti; onde poi grandi
Furo i nipoti e le cittadi e i regni.
Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,
Ecco del gioco, ecco del fasto i Genj,
Che trionfanti per la notte scorrono,
Per la notte, che sacra è al mio signore.
Tutto davanti a lor tutto s'irradia
Di nova luce. Le inimiche tenebre
Fuggono riversate; e l'ali spandono
Sopra i covili, ove le fere e gli uomini
Da la fatica condannati dormono.
Stupefatta la Notte intorno vedesi
Riverberar più che dinanzi al sole
Auree cornici, e di cristalli e spegli
Pareti adorne, e vesti varie, e bianchi
Omeri e braccia, e pupillette mobili,
E tabacchiere preziose, e fulgide
Fibbie ed anella e mille cose e mille.
Così l'eterno caos, allor che Amore
Sopra posovvi e il fomentò con l'ale,
Sentì il generator moto crearsi,
Sentì schiuder la luce; e sè medesmo
Vide meravigliando e i tanti aprirsi
Tesori di natura entro al suo grembo.
La notte, vv. 39-40
Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,
Ecco del gioco, ecco del fasto i Genj,
Ma^e¦cco^A¦mo¦re,˅¦ ec¦co ¦ la ¦ ma¦ dre ¦ Ve¦ ne ¦re,
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Ec¦co ¦ del ¦ gio¦ co,^ec¦co ¦ del ¦ fa¦ sto^i ¦ Ge¦nj,
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La notte, v. 44
«L’opzione per la forma con –i prostetica, unica
occorrenza nel poema […], è forse ascrivibile alla
sopraggiunta intenzione di generare una sinalefe
in un verso privo di incontri vocalici,
ulteriormente frazionato dalla pausa
interpuntiva forte» (M. Tizi).
Le Odi
• 1791, ed. a cura di Agostino Gambarelli (22
testi)
• 1795, ed. a cura di Giuseppe Bernardoni (25
testi: Per l’inclita Nice, A Silvia, Alla Musa)
• 1802, ed. a cura di Francesco Reina (Opere,
vol. II; esclude Il piacere e la virtù, Piramo e
Tisbe, Alceste)
• 1975, ed. a cura di Dante Isella (25 testi)
Le Odi ed. Isella
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L’innesto del vaiuolo (1765)
La salubrità dell’aria (1759)
La vita rustica (1758)
Il bisogno (1766)
Il brindisi (1777)
La impostura (1761)
Il piacere e la virtù (1771)
La primavera (1765)
La educazione (1764)
La laurea (1777)
La musica (1762)
La recita de’ versi (1783-84)
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La tempesta (1786)
Le nozze (1777)
La caduta (1785)
Il pericolo (1787)
Piramo e Tisbe (?)
Alceste (?)
La magistratura (1788)
In morte del maestro Sacchini (1786)
Il dono (1790)
La gratitudine (1791)
Per l’inclita Nice (1793)
A Silvia (1795)
Alla Musa (1795)
La vita rustica (1757-58), vv. 1-8
Perchè turbarmi l'anima,
O d'oro e d'onor brame,
Se del mio viver Atropo
Presso è a troncar lo stame?
E già per me si piega
Sul remo il nocchier brun
Colà donde si niega
Che più ritorni alcun?
La salubrità dell’aria (1758-59), vv. 1-12
Oh beato terreno
Del vago Eupili mio,
Ecco al fin nel tuo seno
M'accogli; e del natìo
Aere mi circondi;
E il petto avido inondi.
Già nel polmon capace
Urta sè stesso e scende
Quest'etere vivace,
Che gli egri spirti accende,
E le forze rintegra,
E l'animo rallegra.
L’innesto del vaiolo
Giovanni Maria Bicetti de’ Buttinoni (1708-1778),
Osservazioni sopra alcuni innesti di vaiuolo... con
l'aggiunta di varie lettere di uomini illustri e
un'ode dell'ab. Parini sullo stesso argomento,
Milano, Galeazzi, 1765
→ G. Parini, Al signor dottore G. Bicetti de’
Buttinoni che con felice successo eseguisce, e
promulga l’innesto del vaiuolo
Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765
Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765
Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765
Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765
L’innesto del vaiolo (1765), vv. 1-18
O Genovese ove ne vai? qual raggio
Brilla di speme su le audaci antenne?
Non temi oimè le penne
Non anco esperte degli ignoti venti?
Qual ti affida coraggio
All'intentato piano
De lo immenso oceano?
Senti le beffe dell'Europa, senti
Come deride i tuoi sperati eventi.
Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice,
Che natura ponesse all'uom confine
Di vaste acque marine,
Se gli diè mente onde lor freno
imporre:
E dall'alta pendice
Insegnolli a guidare
I gran tronchi sul mare,
E in poderoso canapè raccorre
I venti, onde su l'acque ardito scorre.
19-36
Così l'eroe nocchier pensa, ed abbatte
I paventati d'Ercole pilastri;
Saluta novelli astri;
E di nuove tempeste ode il ruggito.
Veggon le stupefatte
Genti dell'orbe ascoso
Lo stranier portentoso.
Ei riede; e mostra i suoi tesori ardito
All'Europa, che il beffa ancor sul lito.
100-117
O Montegù, qual peregrina nave,
Barbare terre misurando e mari,
E di popoli varj
Diseppellendo antiqui regni e vasti,
E a noi tornando grave
Di strana gemma e d'auro,
Portò sì gran tesauro,
Che a pareggiare non che a vincer basti
Quel, che tu dall'Eussino a noi recasti?
Più dell'oro, BICETTI, all'Uomo è cara
Questa del viver suo lunga speranza:
Più dell'oro possanza
Sopra gli animi umani ha la bellezza.
E pur la turba ignara
Or condanna il cimento,
Or resiste all'evento
Di chi 'l doppio tesor le reca; e sprezza
I novi mondi al prisco mondo avvezza.
Rise l'Anglia la Francia Italia rise
Al rammentar del favoloso Innesto:
E il giudizio molesto
De la falsa ragione incontro alzosse.
In van l'effetto arrise
A le imprese tentate;
Chè la falsa pietate
Contro al suo bene e contro al ver si mosse,
E di lamento femminile armosse.
Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765
L’educazione, vv. 115-138 e 151-162
Altri le altere cune
Lascia o Garzon che pregi.
Le superbe fortune
Del vile anco son fregi.
Chi de la gloria è vago
Sol di virtù sia pago.
Onora o figlio il Nume
Che dall'alto ti guarda:
Ma solo a lui non fume
Incenso e vittim'arda.
È d'uopo Achille alzare
Nell'alma il primo altare.
Perchè sì pronti affetti
Nel core il ciel ti pose?
Questi a Ragion commetti;
E tu vedrai gran cose:
Quindi l'alta rettrice
Somma virtude elice.
[…]
Ma quel più dolce senso,
Onde ad amar ti pieghi,
Tra lo stuol d'armi denso
Venga, e pietà non nieghi
Al debole che cade
E a te grida pietade.
Giustizia entro al tuo seno
Sieda e sul labbro il vero;
E le tue mani sieno
Qual albero straniero,
Onde soavi unguenti
Stillin sopra le genti.
Te questo ognor costante
Schermo renda al mendico;
Fido ti faccia amante
E indomabile amico.
Così, con legge alterna
L'animo si governa.
Il bisogno
• I edizione (anonima): Canzone dedicata
all’illustrissimo sig. don Pierantonio Wirz de
Rudenz del Senato dell’ill.ma e potentissima
Repubblica di Unterwalden, commissario
reggente del contado di Locarno e sue
pertinenze, Milano, Galeazzi, 1766
• II edizione: Odi 1791 (con titolo Il Bisogno)
Il bisogno, vv. 1-36
Oh tiranno Signore
De' miseri mortali,
Oh male oh persuasore
Orribile di mali
Bisogno, e che non spezza
Tua indomita fierezza!
Con le folgori in mano
La legge alto minaccia;
Ma il periglio lontano
Non scolora la faccia
Di chi senza soccorso
Ha il tuo peso sul dorso.
Di valli adamantini
Cinge i cor la virtude;
Ma tu gli urti e rovini;
E tutto a te si schiude.
Entri, e i nobili affetti
O strozzi od assoggetti.
Al misero mortale
Ogni lume s'ammorza:
Ver la scesa del male
Tu lo strascini a forza:
Ei di sé stesso in bando
Va giù precipitando.
Oltre corri, e fremente
Strappi Ragion dal soglio;
E il regno de la mente
Occupi pien d'orgoglio,
E ti poni a sedere
Tiranno del pensiere.
Ahi l'infelice allora
I comun patti rompe;
Ogni confine ignora;
Ne' beni altrui prorompe;
Mangia i rapiti pani
Con sanguinose mani.
Hor. Carmina III, XXIV 5-8 e 42-44
Si figit adamantinos
summis uerticibus dira Necessitas
clauos, non animum metu,
non mortis laqueis expedies caput.
Magnum pauperies obprobrium iubet
quiduis et facere et pati
uirtutisque uiam deserit arduae.
Quando il crudele Bisogno
conficcherà i suoi chiodi d’acciaio
in cima ai muri (con cui ti difendi),
non riuscirai a liberare il cuore
dalla paura e la testa da un laccio
mortale.
La povertà, terribile vergogna,
costringe a fare e a subire qualsiasi
infamia, e lascia la strada ardua
della virtù.
Il bisogno, vv. 37-72
Ma quali odo lamenti
E stridor di catene;
E ingegnosi stromenti
Veggo d'atroci pene
Là per quegli antri oscuri
Cinti d'orridi muri?
O ministri di Temi
Le spade sospendete:
Da i pulpiti supremi
Quà l'orecchio volgete.
Chi è che pietà niega
Al Bisogno che prega?
Colà Temide armata
Tien giudizj funesti
Su la turba affannata,
Che tu persuadesti
A romper gli altrui dritti
O padre di delitti.
Perdon, dic'ei, perdono
Ai miseri cruciati.
Io son l'autore io sono
De' lor primi peccati.
Sia contro a me diretta
La pubblica vendetta.
Meco vieni al cospetto
Del nume che vi siede.
No non avrà dispetto
Che tu v'innoltri il piede.
Da lui con lieto volto
Anco il Bisogno è accolto.
Ma quale a tai parole
Giudice si commove?
Qual dell'umana prole
A pietade si move?
Tu WIRTZ uom saggio e giusto
Ne dai l'esempio augusto:
Il bisogno, vv. 73-84
Tu cui sì spesso vinse
Dolor de gl'infelici,
Che il Bisogno sospinse
A por le rapitrici
Mani nell'altrui parte
O per forza o per arte:
E il carcere temuto
Lor lieto spalancasti:
E dando oro ed aiuto,
Generoso insegnasti
Come senza le pene
Il fallo si previene.
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene
(41) È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d'ogni
buona legislazione, che è l'arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al
minimo d'infelicità possibile, per parlare secondo tutt'i calcoli dei beni e dei
mali della vita. Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo più falsi ed opposti al
fine proposto. […] Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare,
semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e
nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che le leggi favoriscano
meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. […]
(42) Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali
che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i
beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non
volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato.
[…]
(45) Finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di
perfezionare l'educazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi
sono prescritto, oggetto, oso anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla
natura del governo perché non sia sempre fino ai più remoti secoli della
pubblica felicità un campo sterile, e solo coltivato qua e là da pochi saggi. Un
grand'uomo, che illumina l'umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in
dettaglio quali sieno le principali massime di educazione veramente utile agli
uomini, cioè consistere meno in una sterile moltitudine di oggetti che nella
scelta e precisione di essi
Le Odi ed. Isella
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L’innesto del vaiuolo (1765)
La salubrità dell’aria (1759)
La vita rustica (1758)
Il bisogno (1766)
Il brindisi (1777)
La impostura (1761)
Il piacere e la virtù (1771)
La primavera (1765)
La educazione (1764)
La laurea (1777)
La musica (1762)
La recita de’ versi (1783-84)
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La tempesta (1786)
Le nozze (1777)
La caduta (1785)
Il pericolo (1787)
Piramo e Tisbe (?)
Alceste (?)
La magistratura (1788)
In morte del maestro Sacchini (1786)
Il dono (1790)
La gratitudine (1791)
Per l’inclita Nice (1793)
A Silvia (1795)
Alla Musa (1795)
La recita de’ versi, vv. 46-54
Orecchio ama placato
La musa e mente arguta e cor gentile.
Ed io, se a me fia dato
Ordir mai su la cetra opra non vile,
Non toccherò già corda
Ove la turba di sue ciance assorda.
Ben de' numeri miei
Giudice chiedo il buon cantor, che destro
Volse a pungere i rei
Di Tullio i casi; ed or, novo maestro
A far migliori i tempi,
Gli scherzi usa del Frigio e i propri esempj.
O te Paola, che il retto
E il bello atta a sentir formaro i Numi;
Te, che il piacer concetto
Mostri dolce intendendo i duo bei lumi,
Onde spira calore
Soavemente periglioso al core.
La caduta: struttura
• 6 quartine narrative (vv. 1-24) riguardanti un incidente
occorso al poeta e le reazioni dei presenti (il riso, la
commozione, il soccorso);
• 13 quartine (vv. 25-76) contenenti il discorso di un anonimo
e indefinito soccorritore, a sua volta diviso in due parti: la
modesta condizione del poeta (nonostante le lodi alla sua
arte); l’esortazione o invito a una condotta più scaltra e
smaliziata che gli permetta il successo;
• 6 quartine (vv. 77-100) con la risposta di Parini, che
rivendica la propria moralità, ossia il primato della
coscienza;
• 1 quartina conclusiva (vv. 101-104), di tipo nuovamente
narrativo, che indugia sullo stato d’animo dell’autore.
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