AA 2012-2013 SP 2013 Prof. Uberto MOTTA Corso monografico di letteratura moderna Le Odi e Il Giorno di Parini (mercoledí 17-19h, MIS 3028) Calendario 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 20 febbraio 27 febbraio 6 marzo 13 marzo GIOVEDÌ 14 marzo, 17-19h (recupero del 24 aprile) MIS 3026 20 marzo 27 marzo 3 aprile: vacanze di Pasqua 8) 10 aprile 9) 17 aprile 24 aprile: lezione sospesa – recupero: 14 marzo 10) 1 maggio 11) GIOVEDÌ 2 maggio, 17-19h (recupero del 15 maggio) MIS 3026 12) 8 maggio 15 maggio: lezione sospesa – recupero: 2 maggio 13) 22 maggio 14) 29 maggio Bibliografia (1) Edizione d’uso G. Parini, Il Giorno. Le Odi, a cura di Giuseppe Nicoletti, Milano, RizzoliBUR, 2011. Edizioni di consultazione G. Parini, Poesie e prose, a cura di Lanfranco Caretti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951. G. Parini, Il Giorno, ed. critica a cura di D. Isella, 2 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 1969. G. Parini, Le Odi, ed. critica a cura di D. Isella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975. G. Parini, Il Giorno, edizione critica di Dante Isella, commento di Marco Tizi, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda Editore, 1996. G. Parini, Le Odi, a cura di Nadia Ebani, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda Editore, 2010. Bibliografia (2) R. Spongano, Il primo Parini, Bologna, Patron, 1963. L. Poma, Stile e società nella formazione del Parini, Pisa, Nistri-Lischi, 1967. D. Isella, L’officina della «Notte» e altri studi pariniani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968. R. Leporatti, Per dar luogo a la notte. Studi sull’elaborazione del «Giorno» del Parini, Firenze, Le Lettere, 1990. M. Tizi, La lingua del «Giorno» e altri studi, Lucca, Pacini Fazzi, 1997. Interpretazioni e letture del «Giorno», Atti del Convegno (2-4 ottobre 1997), a cura di G. Barbarisi e E. Esposito, Milano, Cisalpino, 1998. L’amabil rito. Società e cultura nella Milano del Parini, Atti del Convegno (810 novembre e 14-16 dicembre 1999), 2 voll., Milano, Cisalpino, 2000. Le buone dottrine e le buone lettere, Atti del Convegno (17-19 novembre 1999), a cura di B. Martinelli, C. Annoni e G. Langella, Milano, Vita e Pensiero, 2001. Rileggendo Giuseppe Parini. Storia e testi, Atti del Convegno (10-12 maggio 2010), a cura di M. Ballarini e P. Bartesaghi, Milano, Biblioteca Ambrosiana, 2011. Milano nel Settecento • • • • 1706, il Ducato di Milano è integrato all’Impero Asburgico 1740, sale al trono Maria Teresa d’Austria 1780, morte di Maria Teresa e successione di Giuseppe II 1790, morte di Giuseppe II; gli succede il fratello Leopoldo II, e alla morte di questi (1792) sale al trono Francesco II • 1796-97, campagna d’Italia di Napoleone. Costituzione della Repubblica Cisalpina, di cui Milano è capitale • Nel 1769 Milano ha 125mila abitanti : il 4% nobili (5160), il 5% ecclesiastici (6670), il 91% (114500) terzo stato (di cui 64800 donne, fanciulli o vecchi, e 49700 individui attivi). La cultura milanese alla metà del Settecento • Accademia dei Trasformati, 1743-1768, fondata dal conte Giuseppe Maria Imbonati ► autori dialettali: Carl’Antonio Tanzi, Domenico Balestrieri, Giancarlo Passeroni • Accademia dei Pugni, 1761-1766, fondata da Pietro e Alessandro Verri ► 1764, Dei delitti e delle pene ► 1764-66, «Il Caffè» Pietro Verri, Perché mai gli uomini di lettere erano onorati nei tempi addietro, e lo sono sì poco ai tempi nostri? “Sorge una disputa fra due o più oscuri scrittori per sapere qual fosse la patria d’Omero, di Plinio, del Tasso, e che so io: ciascuno vi suda degli anni, e partorisce un grosso tomo, e lo fa stampare, e poi si lagna perché nessuno lo legga. Ma che vuole egli, che gli uomini s’annoino a leggere un ammasso disordinato di rottami d’erudizione per cavarne poi una notizia la quale non contribuisce in nulla al bene di alcuno? Viene un altro, e vi scarabocchia egloghe, sonetti, eterne inezie in rima, le quali partono da un animo vôto d’idee, e non lasciano al lettore che il rimorso d’avere malamente speso il suo tempo: con quale titolo pretende egli alla stima de’ suoi contemporanei? Scrivete, o giovani di talento, giovani animati da un sincero amore del vero e del bello, scrivete cose che riscuotano dal letargo i vostri cittadini, e gli spingano a leggere, e a rendersi più colti; sferzate i ridicoli pregiudizi che incatenano gli uomini, e gli allontanano dal ben fare; comunicate agli uomini le idee chiare, utili e ben disposte; cercate in somma di rendere migliori e nel cuore e nello spirito i vostri contemporanei”. D. Balestrieri, Rime milanesi: Sora l’ignoranza (ed. 1774) De ignoranza ghe n’è propri a baloch e par quistalla no ghe va sudor, e l’è par quest che ’n vedem minga pocch, che la cobbien col titol de dottor. La tacca l’ignoranza e sciori e sbiocch, ma in di sciori la troeuva de impostor, c’hin marzocch, e no passen par marzocch mediant i fed fals di adulator. Gh’è l’ignoranza, che la se po’ dì de so pè; gh’è poeù l’oltra de chi lassa mal coltivaa on talent, che ’l pò fruttì. Ma via d’on cert epitet tutt coss passa; el mè brusor de stomegh l’è a sentì quella, che ciammen ignoranza grassa. Di ignoranza ce n’è proprio a bizzeffe e non occorre sudare per acquistarla; per questo ne vediamo non pochi, che la accompagnano col titolo di dottore. L’ignoranza contagia ricchi e miserabili, ma fra i ricchi trova degli impostori, i quali pur essendo dei babbei non passano per tali, grazie alle false attestazioni degli adulatori. C’è l’ignoranza che su può definire naturale; c’è poi l’altra di chi lascia mal coltivato un talento, che potrebbe dare frutti. Ma tutto è ammissibile, tranne un certo epiteto; mi viene il brucior di stomaco sentendo quella che chiamano ignoranza crassa. Giuseppe Parini (1729-1799) Tratti fondamentali di una personalità complessa • l’umile origine • l’innata vocazione pedagogica • la fermissima fede nell’utilità sociale della poesia e della cultura • la concezione non formale del cristianesimo J.B. D’Alembert, Essai sur la société des gens de lettres et des grands (1753) Appunti per una biografia (I) • 1729, nascita • 1738, trasferimento a Milano • 1740-52, studi presso la scuola di Sant’Alessandro dei padri Barnabiti • 1752, Alcune poesie di Ripano Eupilino • 1753, ingresso nell’Accademia dei Trasformati • 1754-62, precettore in casa dei duchi Serbelloni • 1763-68, precettore in casa dei conti Imbonati • 1763, Il Mattino • 1765, Il Mezzogiorno Appunti per una biografia (II) • 1768, nomina a poeta del Regio Ducale Teatro • 1769, redattore della «Gazzetta di Milano» e professore di eloquenza e belle lettere alle Scuole Palatine • 1771, Ascanio in Alba • 1774, membro della commissione per la riforma delle scuole • 1776, membro della Società patriottica • 1791 sovrintendente alle Scuole pubbliche; edizione delle Odi (a c. di A. Gambarelli) • 1799, morte Voi, che sparsi ascoltate in rozzi accenti i pregi eccelsi della Donna mia, non istupite, se tra questi fia cosa ch'avanzi 'l creder delle genti; poichè, sebbene per laudarla i' tenti le penne alzar per ogni alpestre via, quel che meglio però dir si devria, riman coperto alle terrene menti. Nè sia chi dall'esterno mio dolore, onde in pianti mi struggo a poco a poco, misuri la pietà dentro al suo core: perchè, quantunque in ogni tempo e loco far mostra i' soglia del mio grande ardore, assai maggior, ch'i' non dispiego, è 'l foco. Alcune poesie di Ripano Eupilino, I Alcune poesie di Ripano Eupilino, LXXIII O Fortuna, Fortuna crudelaccia, Allora sì diventerei felice. che se' fatta per mia disperazione; Ma perchè osservo la legge cristiana, Fortuna non più no, ma Fortunaccia, ognun mi scaccia, ognun mi maladice, ha a durare un pezzo sta canzone? e son sempre infelice. Vogliam finirla, e volger quella faccia Ma vivrò, sguaiataccia, al tuo dispetto; un poco ancora alle buone persone? e se ti grappo un dì per quel ciuffetto, Che sì, che mi daresti roba a braccia s'io t'avessi la ciera d'un briccone? te lo strappo di netto: sicchè i ragazzi, a vederti sì bella, S'io fossi, verbigrazia, una puttana, o un castrato, o una cantatrice, o un bel marmocchio, ovvero una ruffiana? t'abbian a gridar dietro: — Vella, vella! Voi me ne avete fatti tanti e tanti di questi vostri attacci arcipoltroni, che se tornate a rompermi i. . . . . . . . vi tratterò da birbe e da furfanti. Voi siete una tormaccia di pedanti, che non volete intender le ragioni; e perchè fate i saggi e i dottoroni stimate gli altri goffi ed ignoranti. Che c'è egli drento in que' vostri libracci a non volere che sien letti mai quando voi nol volete, ignorantacci? Il diavol, credo, che vi salti omai su que' vostri muffati granellacci, e vi faccia gridare: — Ahi ahi ahi ahi! — Alcune poesie di Ripano Eupilino, LXXXI Opere di Giuseppe Parini, a cura di F. Reina, 6 voll., Milano 1801-1804 F. Reina, Vita di Giuseppe Parini GIUSEPPE PARINI da Bosisio terra del Milanese situata presso il Lago di Pusiano nacque il 29 maggio 1729 di oscuri, ma civili parenti. Il padre suo, che teneramente l'amava, benchè possessore di un solo poderetto, recossi a vivere in Milano, per dare al vivacissimo ed ingegnoso figliuolo una diligente. Questi applicò alle Umane Lettere, ed alla Filosofia nel Ginnasio Arcimboldi diretto da' Barnabiti, e gli studj suoi furono, quali da' tempi volevansi, infelici. Apparve in esso di buon'ora un genio libero filosofico e singolarmente dedito alla Poesia; nè vi si richiese meno della paterna autorità, per istrascinarlo repugnante alla Teologia, ed al Sacerdozio. educazione. G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (I) Poeta. Questo è un luogo ove tutti riescono pari; e coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassù, una buona fiata [> volta] che sien giunti qua, trovansi perfettamente appaiati [> agguagliati] a noi altra canaglia: non ècci [> vi è] altra differenza, se non che, chi più grasso ci giugne, così anco più vermi se 'l mangiano. Voi avete in oltre a sapere che quaggiù solo [> solamente] stassi ricoverata la verità. Quest'aria malinconica, che qui si respira fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che verità, e le parole, ch'escono di bocca, il sono pure. G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (II) Poeta. Onde vien egli però che, quando io era colassù tra' viventi, a me pareva che una così gran parte di voi altri fosse ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda, accidiosa, ingrata, vendicativa e simili altre gentilezze? Forse che talora per qualche impensato avvenimento si è introdotta qualche parte del nostro sangue eterogeneo per entro a que' purissimi canali de' vostri antenati? Ed onde viene ancora, che tra noi altra plebe io ho veduto tante persone letterate [> scienziate], valorose, intraprendenti, liberali, gentili, magnanime e dabbene? Forse che qualche parte del vostro purissimo sangue vien talora, per qualche impensato avvenimento, ad introddursi negli oscuri canali di noi altra canaglia? G. Parini, Dialogo sopra la nobiltà (III) Poeta. Non vi sembra egli giusto che, se voi avete ereditato i loro meriti, così ancora dobbiate ereditare i loro demeriti, a quella guisa appunto che chi adisce un'eredità assume con essa il carico de' debiti che sono annessi a quella? e che per ciò, se quelli furono onorati, siate onorato ancora voi, e, se quelli furono infami, siate infamato voi pure? Nobile. No certo, ché cotesto non mi parrebbe né convenevole né giusto. Poeta. E perché ciò? Nobile. Perché io non sono per verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui. Poeta. Per qual ragione? Nobile. Perché, non avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la pena. Poeta. Volpone! voi vorreste adunque godervi l'eredità, lasciando altrui i pesi, che le appartengono, eh! Voi vorreste adunque lasciare a' vostri avoli la viltà del loro primo essere, la malvagità delle azioni di molti di loro e la vergogna che ne dee nascere, serbando per voi lo splendore della loro fortuna, il merito delle loro virtù, e l'onore ch'eglino si sono acquistati con esse. Nobile. Tu m'hai così confuso, ch'io non so dove io m'abbia il capo. G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (I) Non siete voi letterato? Non siete voi cittadino? Non siete voi cristiano? Non siete voi Religioso? […] Le scienze vi debbon pure avere insegnato che tanto vale l’uno quanto l’altr’uomo: gli obblighi del cittadino debbono avervi ammaestrato a non far veruna distinzione tra i vostri compatriotti, quando questi, ciascuno per la sua via, tendono alla comune felicità: la carità del cristiano a portare e mostrare anche nelle menome cose amore indistintamente ed universalmente a tutti quanti i prossimi vostri: e l’osservanza religiosa, per fine, a perfezionare in voi tutte queste virtù, che debbono esser proprie del letterato, del cittadino e del cristiano. Ecco le riprensioni che vi si potrebbero fare, se voi vi burlaste delle povere femminelle milanesi contra i doveri del cittadino, e contra il precetto il qual dice: - Merita pena colui che chiama il suo fratello pazzo o carogna [cfr. Mt 5,22: “chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna”]. G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (II) Ma via, sia pur vero che voi abbiate biasimato solamente il linguaggio della plebe nostra, come andate dicendo nel secondo Dialogo. Tenete però voi in così piccolo conto questa lingua, che meriti d’esser chiamata, anche in presenza di chi la parla, lingua d’oca, lingua sgraziata, goffa, fetente, unta, lercia, scipita, disadatta? Questo linguaggio anzi della plebe, che voi nel secondo Dialogo volete aver solo biasimato, questo anzi è il vero e più puro linguaggio milanese, e quello per conseguenza che meno dovrebbe meritarsi le vostre derisioni. Le lingue, come voi medesimo a me potete insegnare, sono tutte indifferenti per riguardo alla intrinseca bruttezza o beltà loro. Le voci, onde ciascuna è composta, sono state somministrate agli uomini dalla necessità di spiegare e comunicarsi vicendevolmente i pensieri dello animo loro; e la Natura, a misura che negli uomini sono cresciute le idee, ha dato loro segni da poterle esprimere al di fuori: onde nasce che ciascuna lingua è abbastanza perfetta, qualora non manchino ad essa quelle voci che si richieggono a potere spiegare ciascuna idea di colui che la parla. G. Parini, Al Padre D. Paolo Branda, 1760 (III) Noi Milanesi siamo presso le altre nazioni distinti per la semplicità e per la schiettezza dello animo; e per quella nuda ed amorevole cordialità che è il più soave legame della società umana. […] Questa medesima schiettezza e semplicità, che i forestieri riconoscono come singolarmente propria della nostra nazione, è paruto di trovar nella nostra lingua milanese a coloro de’ nostri che posti sonosi ad esaminarne la natura. E, o sia che realmente i Milanesi non abbiano giammai appreso a favellare dall’arte, e non abbiano vocaboli o maniere di dire proprie a deludere altrui, siccome quelli che non ne hanno i pensieri; o sia che gli osservatori del nostro dialetto abbian creduto di vedere in esso ciò ch’eglino stessi desideravano; certa cosa è che la nostra lingua è sembrata loro spezialmente inchinata ad esprimer le cose tali e quali sono, senza aver grande bisogno in qualunque argomento di sostenerla con tropi e traslati ed altre maniere artifiziose del dire, che nate sono, o dalla mancanza dell’espressioni proprie e naturali. o dall’arte di sorprendere il cuore ferendo l’immaginazione. Due discorsi ai Trasformati • 1761, Discorso sopra la poesia, BAM = ms con cancellature e correzioni autografe; Reina, IV, pp. 49-68 • 1762, Discorso sopra la carità, BAM = ms con cancellature e correzioni autografe; Reina, IV, pp. 100-121 G. Parini, Discorso sopra la poesia (1761) Il poeta, come si può dedurre da quel che di sopra abbiamo detto della poesia, dee toccare e muovere; e, per ottener ciò, dee prima esser tócco e mosso egli medesimo. Perciò non ognuno può esser poeta, come ognuno può esser medico e legista. Non a torto si dice che il poeta dee nascere. Egli dee aver sortito dalla natura una certa disposizione degli organi e un certo temperamento che il renda abile a sentire in una maniera, allo stesso tempo forte e dilicata, le impressioni degli oggetti esteriori; imperocchè come potrebbe dilicatamente o fortemente dipingerli ed imitarli chi per un certo modo grossolano ed ottuso le avesse ricevute? La poesia che consiste nel puro torno del pensiero, nella eleganza dell'espressione, nell'armonia del verso, è come un alto e reale palagio che in noi desta la maraviglia ma non ci penetra al cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è un grazioso prospetto della campagna, che ci allaga e ci inonda di dolcezza il seno. G. Parini, Sopra la carità, 1762 Quanto desiderabile cosa sarebbe mai che tutti coloro che sortito hanno dalla natura uno ingegno adatto alle Lettere, fossero stimolati allo studio ed allo scrivere non da una leggiere curiosità o da un vano amore di gloria; ma dalla carità de’ suoi prossimi, de’ suoi concittadini, del suo paese? Quanti inconvenienti non si verrebbono a schifare così, e di quanto maggior utile sarebbono le lettere e i letterati nel mondo! L’uomo che dalla semplice curiosità o dal solo amore della gloria è condotto alle lettere, non avviene giammai che non sia accompagnato nella sua carriera da uno stuolo di vizii, che a lui recano danno e notabilmente ostano all’altrui utilità, la quale ogni uomo dabbene dee proporsi per iscopo principale del suo operare. […] La nuda ambizione letteraria non solo è fabbricatrice di strane e pericolose opinioni per amore di singolarità; ma eziandio, per sua natura e per suo proprio interesse, si ostina pertinacemente in quelle; e, posciaché non le è permesso di sostenerle colla ragione, almeno tenta di farlo co’ sofismi, e con ciò che per onta della letteratura chiamasi cabala letteraria; e non di rado ancora colla prepotenza. […] Quell’uomo d’ingegno che sul principio della sua letteraria carriera è assistito dallo spirito della carità, prima d’ogni altra cosa riflette seco medesimo che l’uomo dabbene dee consacrare alla utilità de’ suoi prossimi, o sia della repubblica in cui vive, ciò che, oltre la conservazione di se medesimo, formar dee l’occupazione principale della sua vita. Struttura e storia interna del Giorno • Giorno I = Mattino 1763 (due stampe; vv. 1083) e Mezzogiorno 1765 (vv. 1376) • Giorno II = Mattino II (8 mss.; vv. 1166), Meriggio (2 mss.; vv. 1178), Vespro (1 ms.: 349 vv.), Notte (vari mss. per un totale di 673 vv.) ►datazione approssimativa: 1777-1790 (più precisamente: 1784-88, con riprese tra il 1792 e il 1796) Lettera di G. Parini a G. Bodoni, 18.X.1791 Nella primavera ventura spero e quasi tengo per certo d’avere in pronto due poemetti, per séguito e per termine di quelli altri antichi due, che hanno avuto la fortuna di non dispiacere. Se mai ella mi facesse l’onore di meditar nulla anche intorno all’edizione di essi, ella si compiaccia di farmene cenno. I due primi uscirebbero corretti, variati in qualche parte e accresciuti. Così tutti e quattro verrebbero ad essere nuovi e ridotti in un slo poema, che avrebbe per titolo Il Giorno. Della vita e degli scritti di G. Parini. Lettere di due amici [Luigi Bramieri e Pompilio Pozzetti], Milano 1802, p. 47 • Pompilio Pozzetti afferma che Parini, da lui sollecitato a pubblicare l’opera, avrebbe risposto che dal 1796 «aveva cominciato a riguardare qual pretta viltà, niente men turpe che insaevire in mortuum, l'acconsentir, dopo tanto procrastinare, all'edizione d'uno scritto, ove si pungono di sarcasmo quelli singolarmente che nel gran corpo sociale formavano una classe distinta, di cui i politici cangiamenti sopraggiunti allora nel proprio paese facean veder manifesta la totale decadenza". D. Isella, Introduzione a Parini, Il Giorno, 1996 Parini non dovette mai avere un disegno generale, sia pure non rifinito nei dettagli, a cui rapportarsi; gli bastò, o gli parve all’inizio che potesse bastargli, l’ordine offertogli dal naturale succedersi delle ore del giorno, da un’alba all’altra: un filo molto semplice lungo il quale distribuire i molteplici «riti» del Bel Mondo, alcuni vincolati ad ore canoniche, altri più mobili. Ma per molte cose la collocazione rimaneva incerta, specie crescendo con gli anni il gusto dell’osservazione dal vero, lo spunto da taccuino. Fermo restando il tema dell’opera, costante l’idea del poema da compiere, Parini accettava ogni volta di buon grado i suggerimenti dell’occasione e, senza preoccuparsi più che tanto di come se ne sarebbe servito, componeva gruppi di versi che al momento non sapeva dove, e al limite neppure se, gli sarebbero potuti servire. […] Come pedine di una partita senza regole su una scacchiera senza caselle, fino a che ciascuno di essi trovi il suo posto immutabile in un equilibrio compositivo non preventivato. Il fatto però che Parini non sia arrivato al punto conclusivo del mobilissimo gioco combinatorio servirà a mettere in evidenza come ormai in lui forze le centrifughe di un’ispirazione lirica sensibile alle illuminazioni del particolare avessero il sopravvento sulla forza centripeta dell’ispirazione unitaria. Fonti e modelli • Gian Lorenzo Lucchesini, In antimeridianas improbi iuvenis curas, 1672 • Pier Jacopo Martello, Il segretario Cliternate, 1717 • Alexander Pope, The rape of the Lock, 1712 (edd. trad. it.: 1739, 1750, 1760) L’endecasillabo sciolto • Impiegato a partire dal Cinquecento: G. Trissino, L’Italia liberata dai Goti; L. Alamanni, La coltivazione; A. Caro, trad. dell’Eneide → poesia narrativa e discorsiva • Dal Settecento comincia a essere impiegato anche in sede lirica (Carlo Innocenzo Frugoni) • 1757: ed. del vol. Versi sciolti di tre eccellenti autori, cioè Algarotti, Frugoni e Bettinelli • 1763: ed. della trad. in end. Sciolti delle Poesie di Ossian a c. di M. Cesarotti [orig. ingl. in prosa, opera di James Macpherson] La notte, vv. 601-617 Già per l'aula beata a cento intorno Dispersi tavolier seggon le dive, Seggon gli eroi, che dell'Esperia sono Gloria somma o speranza. Ove di quattro Un drappel si raccoglie: e dove un altro Di tre soltanto. Ivi di molti e grandi Fogli dipinti il tavolier si sparge: Qui di pochi e di brevi. Altri combatte; Altri sta sopra a contemplar gli eventi De la instabil fortuna e i tratti egregi Del sapere o dell'arte. In fronte a tutti Grave regna il consiglio: e li circonda Maestoso silenzio. Erran sul campo Agevoli ventagli, onde le dame Cercan ristoro all'agitato spirto Dopo i miseri casi. Erran sul campo Lucide tabacchiere. Il vespro, vv. 51-83 Ecco ella sorge; e del partir dà cenno: Ma non senza sospetti e senza baci A le vergini ancelle il cane affida Al par de' giochi al par de' cari figli Grave sua cura: e il misero dolente Mal tra le braccia contenuto e i petti Balza e guaisce in suon che al rude vulgo Ribrezzo porta di stridente lima; E con rara celeste melodia Scende a gli orecchi de la dama e al core. Mentre così fra i generosi affetti E le intese blandizie e i sensi arguti E del cane e di sè la bella oblia Pochi momenti; tu di lei più saggio Usa del tempo: e a chiaro speglio innante I bei membri ondeggiando alquanto libra Su le gracili gambe; e con la destra Molle verso il tuo sen piegata e mossa Scopri la gemma che i bei lini annoda; E in un di quelle ond'hai sì grave il dito L'invidiato folgorar cimenta: Poi le labbra componi; ad arte i guardi Tempra qual più ti giova; e a te sorridi. Al fin tu da te sciolto, ella dal cane Ambo al fin v'appressate. Ella da i lumi Spande sopra di te quanto a lei lascia D'eccitata pietà l'amata belva; E tu sopra di lei da gli occhi versi Quanto in te di piacer destò il tuo volto. Tal seguite ad amarvi: e insieme avvinti, Tu a lei sostegno, ella di te conforto, Itene omai de' cari nodi vostri Grato dispetto a provocar nel mondo. Il mezzogiorno, vv. 715-743 Or d'avi, or di cavalli, ora di Frini Instancabile parla, or de' Celesti Le folgori deride. Aurei monili, E gemme e nastri, gloriose pompe L'ingombran tutto; e gran titolo suona Dinanzi a lui. Qual più tra noi risplende Inclita stirpe, che onorar non voglia D'un ospite sì degno i lari suoi? Ei però sederà de la tua Dama Al fianco ancora: e tu lontan da Giuno Tra i Silvani capripedi n'andrai Presso al marito; e pranzerai negletto Col popol folto degli Dei minori. Ma negletto non già dagli occhi andrai De la Dama gentil, che a te rivolti Incontreranno i tuoi. L'aere a quell'urto Arderà di faville: e Amor con l'ali L'agiterà. Nel fortunato incontro I messaggier pacifici dell'alma Cambieran lor novelle, e alternamente Spinti, rifluiranno a voi con dolce Delizioso tremito sui cori. Tu le ubbidisci allora, o se t'invita Le vivande a gustar che a lei vicine L'ordin dispose, o se a te chiede in vece Quella che innanzi a te sue voglie punge Non col soave odor, ma con le nove Leggiadre forme onde abbellir la seppe Dell'ammirato cucinier la mano. Alcune grandi scene • Mattino: risveglio, vestizione, colazione, acconciatura • Mezzogiorno/Meriggio: il rito del pranzo, la passeggiata in carrozza lungo il corso • Vespro: la visita all’amica malata la sfilata notturna delle carrozze • Notte: i giochi in un salotto aristocratico G. Parini, Il Giorno I, Alla Moda A te vezzosissima Dea, che con sì dolci redine oggi temperi, e governi la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo Libretto si dedica, e si consagra. Chi è che te qual sommo Nume oggimai non riverisca, ed onori, poichè in sì breve tempo se' giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso, e l'Ordine seccagginoso tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo secolo avventurato? Piacciati adunque di accogliere sotto alla tua protezione, che forse non n'è indegno, questo piccolo Poemetto. Tu il reca su i pacifici altari ove le gentili Dame, e gli amabili Garzoni sagrificano a se medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in Versi Sciolti, sapendo, che tu di questi specialmente ora godi, e ti compiaci. Esso non aspira all'immortalità, come altri libri, troppo lusingati da' loro Autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti nell'oblìo. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, così fie pago di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti, e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà riguardare con placid'occhio questo Mattino forse gli succederanno il Mezzogiorno, e la Sera; e il loro Autore si studierà di comporli, ed ornarli in modo, che non men di questo abbiano ad esserti cari. Il Mattino 1763, vv. 1-15 Giovin Signore, o a te scenda per lungo Di magnanimi lombi ordine il sangue Purissimo celeste, o in te del sangue Emendino il difetto i compri onori E le adunate in terra o in mar ricchezze Dal genitor frugale in pochi lustri, Me Precettor d'amabil Rito ascolta. Come ingannar questi nojosi e lenti Giorni di vita, cui sì lungo tedio E fastidio insoffribile accompagna Or io t'insegnerò. Quali al Mattino, Quai dopo il Mezzodì, quali la Sera Esser debban tue cure apprenderai, Se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta Pur di tender gli orecchi a' versi miei. «Di magnanimi lombi ordine il sangue» (Matt. I v. 2) Nel secondo verso appare per la prima volta una situazione ritmica a cui Parini ricorre in misura crescente nell’elaborazione del Giorno: «l’endecasillabo con sinalefe in settima sede, in cui figuri, come secondo elemento [della sinalefe], una parola, piana o sdrucciola, iniziante per vocale accentata […], dove lo stacco rilevato dall’accento della vocale (una sorta di dialefe nella sinalefe) impenna il verso e lo tiene verticalmente sospeso: un attimo, per poi riprendere con più ampio respiro o per scendere rapido alla chiusa» (Isella, L’officina, p. 51). La figura giova qui a mettere il rilievo il sostantivo ordine, a distanza dall’aggettivo lungo, impiegato nel senso latino di ‘successione’. Mattino I, 1-4: la tecnica dell’enjambement + iperbato Giovin Signore, o a te scenda per lungo Di magnanimi lombi ordine il sangue Purissimo celeste, o in te del sangue Emendino il difetto i compri onori «Il ritmo è tutto orientato nel senso del movimento, del rapporto tra gli endecasillabi. Ma la caduta dell’unità-verso non porta con sé anche quella dello scatto che dà al ritmo la fine del verso. […] Lo sforzo maggiore è però sopportato da un’istituzione tipicamente pariniana, come l’inversione al limite, che […] nasce dalla soppressione dell’enjambement dellacasiano, di nome più aggettivo, troppo logorato dalla tradizione pastorale. In questa sede l’inversione si attua naturalmente con un movimento di clausola […] dove sia l’inserzione del verbo che quella dell’aggettivo bloccano il frammento, e rinnovano, riscattano la sua personalità ritmica» (P. Citati, Per una storia del Giorno, 1954, pp. 16-17). Il Mattino 1763, vv. 33-52 Sorge il Mattino in compagnìa dell'Alba Innanzi al Sol che di poi grande appare Su l'estremo orizzonte a render lieti Gli animali e le piante e i campi e l'onde. Allora il buon villan sorge dal caro Letto cui la fedel sposa, e i minori Suoi figlioletti intepidìr la notte; Poi sul collo recando i sacri arnesi Che prima ritrovàr Cerere, e Pale, Va col bue lento innanzi al campo, e scuote Lungo il piccol sentier da' curvi rami Il rugiadoso umor che, quasi gemma, I nascenti del Sol raggi rifrange. Allora sorge il Fabbro, e la sonante Officina riapre, e all'opre torna L'altro dì non perfette, o se di chiave Ardua e ferrati ingegni all'inquieto Ricco l'arche assecura, o se d'argento E d'oro incider vuol giojelli e vasi Per ornamento a nuove spose o a mense. Il Mattino 1763, vv. 53-76 Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo, Qual istrice pungente, irti i capegli Al suon di mie parole? Ah non è questo, Signore, il tuo mattin. Tu col cadente Sol non sedesti a parca mensa, e al lume Dell'incerto crepuscolo non gisti Ieri a corcarti in male agiate piume, Come dannato è a far l'umile vulgo. A voi celeste prole, a voi concilio Di Semidei terreni altro concesse Giove benigno: e con altr'arti e leggi Per novo calle a me convien guidarvi. Tu tra le veglie, e le canore scene, E il patetico gioco oltre più assai Producesti la notte; e stanco alfine In aureo cocchio, col fragor di calde Precipitose rote, e il calpestìo Di volanti corsier, lunge agitasti Il queto aere notturno, e le tenèbre Con fiaccole superbe intorno apristi, Siccome allor che il Siculo terreno Dall'uno all'altro mar rimbombar feo Pluto col carro a cui splendeano innanzi Le tede de le Furie anguicrinite. Il Mattino II, vv. 1-20 Sorge il Mattino in compagnìa dell'Alba Dinanzi al Sol che di poi grande appare Su l'estremo orizzonte a render lieti Gli animali e le piante e i campi e l'onde. Allora il buon villan sorge dal caro Letto cui la fedel moglie, e i minori Suoi figlioletti intepidìr la notte; Poi sul dorso portando i sacri arnesi Che prima ritrovò Cerere o Pale, Move seguendo i lenti bovi, e scuote Lungo il piccol sentier da' curvi rami Il rugiadoso umor che di gemme al paro La nascente del Sol luce rifrange. Allora sorge il Fabbro, e la sonante Officina riapre, e all'opre torna L'altro dì non perfette, o se di chiave Ardua e ferrati ingegni all'inquieto Ricco l'arche assecura, o se d'argento E d'oro incider vuol giojelli e vasi Per ornamento a nuove spose o a mense. Il Mattino II, vv. 21-44 Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo, Qual istrice pungente, irti i capegli Al suon di mie parole? Ah il tuo mattino Signor, questo non è. Tu col cadente Sol non sedesti a parca cena, e al lume Dell'incerto crepuscolo non gisti Ieri a posar qual ne’ tuguri suoi Entro a rigide coltri il vulgo vile. A voi celeste prole, a voi concilio Almo di Semidei altro concesse Giove benigno: e con altr'arti e leggi Per novo calle a me guidarvi è d’uopo. Tu tra le veglie, e le canore scene, E il patetico gioco oltre più assai Producesti la notte; e stanco alfine In aureo cocchio, col fragor di calde Precipitose rote, e il calpestìo Di volanti corsier, lunge agitasti Il queto aere notturno, e le tenèbre Con fiaccole superbe intorno apristi, Siccome allor che il Siculo terreno Dall'uno all'altro mar rimbombar feo Pluto col carro a cui splendeano innanzi Le tede de le Furie anguicrinite. Mezzogiorno (vv. 1376) vv. 1-1194: «Ardirò ancor tra i desinari illustri… che ancor l’antico strepito dinota» Meriggio (vv. 1178) vv. 1-1178: «Ardirò ancor fra i desinari illustri… che ancor l’antico strepito dinota» vv. 1195-1219, «Già de le fere, e degli augelli il giorno… che da tutti servito, a nullo serve» Vespro vv. 1-25, «Ma de gli augelli e de le fere il giorno… che da tutti servito, a nullo serve» vv. 1220-1376, «Già di cocchi frequente il corso… splende… per entro al tenebroso umido velo» ? Il Mezzogiorno, vv. 1-6 Ardirò ancor tra i desinari illustri Sul Meriggio innoltrarmi umil Cantore, Poichè troppa di te cura mi punge, Signor, ch'io spero un dì veder maestro E dittator di graziosi modi All'alma gioventù che Italia onora. Purg. XXIV 58-60 Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne. Forse vero non è; ma un giorno è fama, Che fur gli uomini eguali; e ignoti nomi Fur Plebe, e Nobiltade. Al cibo, al bere, All'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonno Un istinto medesmo, un'egual forza Sospingeva gli umani: e niun consiglio Niuna scelta d'obbietti o lochi o tempi Era lor conceduta. A un rivo stesso, A un medesimo frutto, a una stess'ombra Convenivano insieme i primi padri Del tuo sangue, o Signore, e i primi padri De la plebe spregiata. I medesm'antri Il medesimo suolo offrieno loro Il riposo, e l'albergo; e a le lor membra I medesmi animai le irsute vesti. Sol'una cura a tutti era comune Di sfuggire il dolore, e ignota cosa Era il desire agli uman petti ancora. Il Mezzogiorno, vv. 250-267 Il Mezzogiorno, vv. 517-556 […] Or le sovviene il giorno, Ahi fero giorno! allor che la sua bella Vergine cuccia de le Grazie alunna, Giovenilmente vezzeggiando, il piede Villan del servo con l'eburneo dente Segnò di lieve nota: ed egli audace Con sacrilego piè lanciolla: e quella Tre volte rotolò; tre volte scosse Gli scompigliati peli, e da le molli Nari soffiò la polvere rodente. Indi i gemiti alzando: aita aita Parea dicesse; e da le aurate volte A lei l'impietosita Eco rispose: E dagl'infimi chiostri i mesti servi Asceser tutti; e da le somme stanze Le damigelle pallide tremanti Precipitàro. Accorse ognuno; il volto Fu spruzzato d'essenze a la tua Dama; Ella rinvenne alfin: l'ira, il dolore L'agitavano ancor; fulminei sguardi Gettò sul servo, e con languida voce Chiamò tre volte la sua cuccia: e questa Al sen le corse; in suo tenor vendetta Chieder sembrolle: e tu vendetta avesti Vergine cuccia de le grazie alunna. L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo Udì la sua condanna. A lui non valse Merito quadrilustre; a lui non valse Zelo d'arcani uficj: in van per lui Fu pregato e promesso; ei nudo andonne Dell'assisa spogliato ond'era un giorno Venerabile al vulgo. In van novello Signor sperò; chè le pietose dame Inorridìro, e del misfatto atroce Odiàr l'autore. Il misero si giacque Con la squallida prole, e con la nuda Consorte a lato su la via spargendo Al passeggiere inutile lamento: E tu vergine cuccia, idol placato Da le vittime umane, isti superba. Il Mezzogiorno, v. 533: Precipitaro… «La collocazione enfatica del verbo a inizio verso, staccato in enjambement dal soggetto, determina un parallelismo oppositivo con i vv. 530-31 («i mesti servi / asceser tutti») ed è parte di un effetto cumulativo che coinvolge i sette versi successivi («Fu spruzzato», «Ella rinvenne», «L’agitavano», «Chiamò», «Al sen le corse», «Chieder sembrolle»), contribuendo alla concitazione narrativa in modo solidale con la frammentazione metrico-sintattica. Da notare, agli stessi fini, la polarità metrica che si instaura coi successivi vv. 543-548, dove la serialità anaforica concerne i secondi emistichi («A lui non valse», «a lui non valse», «in van per lui», «In van novello»). A partire dall’episodio della vergine cuccia, Parini si avvarrà sempre più spesso delle risorse enfatiche connesse alla seriale frammentazione metrico-sintattica degli endecasillabi» (M. Tizi) E ¦ tu ¦ ver¦ gi¦ ne ¦ cuc¦cia,^i¦ dol ¦ pla¦ca ¦ to 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Da ¦ le ¦ vit ¦ ti ¦ me^u¦ ma ¦ne,^i¦ sti ¦ su¦per¦ba 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Il Mezzogiorno, vv. 1220-1254 Già di cocchi frequente il Corso splende: E di mille che là volano rote Rimbombano le vie. Fiero per nova Scoperta biga il giovine leggiadro Che cesse al carpentier gli avìti campi Là si scorge tra i primi. All'un de' lati Sdrajasi tutto: e de le stese gambe La snellezza dispiega. A lui nel seno La conoscenza del suo merto abbonda; E con gentil sorriso arde e balena Su la vetta del labbro; o da le ciglia, Disdegnando, de' cocchi signoreggia La turba inferior: soave intanto Egli alza il mento, e il gomito protende; E mollemente la man ripiegando, I merletti finissimi su l'alto Petto si ricompon con le due dita. Quinci vien l'altro che pur oggi al cocchio Dai casali pervenne, e già s'ascrive Al concilio de' numi. Egli oggi impara A conoscere il vulgo, e già da quello Mille miglia lontan sente rapirsi Per lo spazio de' cieli. A lui davanti Ossequiosi cadono i cristalli De' generosi cocchi oltrepassando; E il lusingano ancor perchè sostegno Sia de la pompa loro. Altri ne viene Che di compro pur or titol si vanta; E pur s'affaccia, e pur gli orecchi porge, E pur sembragli udir da tutti i labbri Sonar le glorie sue: Mal abbia il lungo De le rote stridore, e il calpestìo De' ferrati cavalli, e l'aura, e il vento Che il bel tenor de le bramate voci Scender non lascia a dilettargli 'l core. Mz 1229: E con gentil sorriso arde e balena Tasso, GL, XIX 70 1-4: Alza alfin gli occhi Armida, e pur alquanto / la bella fronte sua torna serena; / e repente fra i nuvoli del pianto / un soave sorriso apre e balena. Il Mezzogiorno, 1255-1282 Di momento in momento il fragor cresce, E la folla con esso. Ecco le vaghe A cui gli amanti per lo dì solenne Mendicarono i cocchi. Ecco le gravi Matrone che gran tempo arser di zelo Contro al bel Mondo, e dell'ignoto Corso La scelerata polvere dannàro; Ma poi che la vivace amabil prole Crebbe, e invitar sembrò con gli occhi Imene, Cessero alfine; e le tornite braccia, E del sorgente petto i rugiadosi Frutti prudentemente al guardo aprìro Dei nipoti di Giano. Affrettan quindi Le belle cittadine, ora è più lustri Note a la Fama, poi che ai tetti loro Dedussero gli Dei; e sepper meglio, E in più tragico stil da la toilette Ai loro amici declamar l'istoria De' rotti amori; ed agitar repente Con celebrata convulsion la mensa, Il teatro, e la danza. Il lor ventaglio Irrequieto sempre or quinci or quindi Con variata eloquenza esce e saluta. Convolgonsi le belle: or su l'un fianco Or su l'altro si posano tentennano Volteggiano si rizzan, sul cuscino Ricadono pesanti, e la lor voce Acuta scorre d'uno in altro cocchio. Il Mezzogiorno 1195-1219 Già de le fere, e degli augelli il giorno, E de' pesci notanti, e de' fior varj, Degli alberi, e del vulgo al suo fin corre. Di sotto al guardo dell'immenso Febo Sfugge l'un Mondo; e a berne i vivi raggi Cuba s'affretta, e il Messico, e l'altrice Di molte perle California estrema. Già da' maggiori colli, e da l'eccelse Torri il Sol manda gli ultimi saluti All'Italia, fuggente; e par, che brami Rivederti, o Signore, anzi che l'Alpe, O l'Appennino, o il mar curvo ti celi Agli occhi suoi. Altro finor non vide, Il Vespro 1-25 Ma de gli augelli e de le fere il giorno E de' pesci squammosi e de le piante E dell'umana plebe al suo fin corre. Già sotto al guardo de la immensa luce Sfugge l'un mondo: e a berne i vivi raggi Cuba s'affretta e il Messico e l'altrice Di molte perle California estrema: E da' maggiori colli e dall'eccelse Rocche il sol manda gli ultimi saluti All'Italia fuggente; e par che brami Rivederti o Signor prima che l'alpe O l'appennino o il mar curvo ti celi A gli occhi suoi. Altro finor non vide Che di falcato mietitore i fianchi Su le campagne tue piegati e lassi, E su le armate mura or fronti or spalle Carche di ferro, e su le aeree capre Degli edificj tuoi man scabre e arsicce, E villan polverosi innanzi ai carri Gravi del tuo ricolto, e sui canali E sui fertili laghi irsute braccia Di remigante che le alterne merci Al tuo comodo guida ed al tuo lusso, Tutt'ignobili oggetti. Or colui vegga, Che da tutti servito, a nullo serve. Che di falcato mietitore i fianchi Su le campagne tue piegati e lassi, E su le armate mura or braccia or spalle Carche di ferro, e su le aeree capre De gli edificj tuoi man scabre e arsicce, E villan polverosi innanzi a i carri Gravi del tuo ricolto, e su i canali E su i fertili laghi irsuti petti Di remigante che le alterne merci A' tuoi comodi guida ed al tuo lusso; Tutti ignobili aspetti. Or colui veggia Che da tutti servito a nullo serve. G. Carducci, Storia del «Giorno» «Felicissimo il trasferimento dal Mezzogiorno a qui della descrizione del tramonto. L’apertura del poemetto risponde così al principio del Mattino e al principio della Notte; e sta fra i due mirabile nella novità e larghezza della rappresentazione naturale e nella potenza ed efficacia della rappresentazione morale, riaffermando a mezzo il poema gli intendimenti sociali ed umani». Il Vespro, 270-303 Già le fervide amiche ad incontrarse Volano impazienti; un petto all'altro Già premonsi abbracciando; alto le gote D'alterni baci risonar già fanno; Già strette per la man co' dotti fianchi Ad un tempo amendue cadono a piombo Sopra il sofà. Qui l'una un sottil motto Vibra al cor dell'amica; e a i casi allude Che la Fama narrò: quella repente Con un altro l'assale. Una nel viso Di bell'ire s'infiamma: e l'altra i vaghi Labbri un poco si morde: e cresce in tanto E quinci ognor più violento e quindi Il trepido agitar de i duo ventagli. Così, se mai al secol di Turpino Di ferrate guerriere un paro illustre Si scontravan per via, ciascuna ambiva L'altra provar quel che valesse in arme; E dopo le accoglienze oneste e belle Abbassavan lor lance e co' cavalli Urtavansi feroci; indi infocate Di magnanima stizza i gran tronconi Gittavan via de lo spezzato cerro, E correan con le destre a gli elsi enormi. Ma di lontan per l'alta selva fiera Un messagger con clamoroso suono Venir s'udiva galoppando; e l'una Richiamare a re Carlo, o al campo l'altra Del giovane Agramante. Osa tu pure Osa invitto garzone il ciuffo e i ricci Sì ben finti stamane all'urto esporre De' ventagli sdegnati: e a nuove imprese La tua bella invitando, i casi estremi De la pericolosa ira sospendi. La notte, vv. 1-60 Nè tu contenderai benigna Notte, Che il mio Giovane illustre io cerchi e guidi Con gli estremi precetti entro al tuo regno. Già di tenebre involta e di perigli, Sola squallida mesta alto sedevi Su la timida terra. Il debil raggio De le stelle remote e de' pianeti, Che nel silenzio camminando vanno, Rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopo A sentirli assai più. Terribil ombra Giganteggiando si vedea salire Su per le case e su per l'alte torri Di teschi antiqui seminate al piede. E upupe e gufi e mostri avversi al sole Svolazzavan per essa; e con ferali Stridi portavan miserandi augurj. E lievi dal terreno e smorte fiamme Sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme Di su di giù vagavano per l'aere Orribilmente tacito ed opaco; E al sospettoso adultero, che lento Col cappel su le ciglia e tutto avvolto Entro al manto sen gìa con l'armi ascose, Colpìeno il core, e lo strignean d'affanno. E fama è ancor che pallide fantasime Lungo le mura de i deserti tetti Spargean lungo acutissimo lamento, Cui di lontano per lo vasto buio I cani rispondevano ululando. «La celebre notte ‘medievale’, iniziata su un tono altissimo, di largo respiro cosmico […], tutta corsa subito poi da sbattiti d’ombre e da voli sinistri, si chiude, qui, in accordo al suo avvio, suggerendo nuove lontananze e profondità di spazi: cinque versi, questi ultimi, ritmicamente ordinati a chiasmo (accenti principali di 4, 6, 10 nel primo e nel quinto, di 4, 8, 10 nel secondo e nel quarto: in mezzo, isolato, un endecasillabo di 3, 6, 10, Spargean lungo acutissimo lamento: centro della lacerazione fonica che si propaga in vasti cerchi di echi e silenzi). E già l’orecchio avvertito del Carducci ne rilevava l’armonia ‘ondulante’, conseguita però pienamente soltanto con la lezione degli Ambr. IV 15 e 17 che smorzano il fitto battito di 4, 6, 8, 10 del penultimo verso (Cui di lontan per entro al vasto buio)» (Isella, L’officina, p. 47). La notte, vv. 25-29 E ¦ fa¦ma è an¦cor ¦ che ¦ pal¦li¦de ¦ fan¦ta¦si¦me 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 (12) Lun¦go ¦ le ¦ mu¦ra ¦ de i ¦ de¦ ser¦ ti ¦ tet¦ ti 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Spar¦gean ¦ lun¦ go a¦cu¦tis¦si¦mo ¦ la¦men¦to, 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Cui ¦ di ¦ lon¦ta¦no ¦ per ¦ lo ¦ va¦sto ¦ bu¦ io 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 I ¦ ca¦ni ¦ ri¦spon¦de¦va¦no u¦lu¦lan¦do. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 Si è udita popolarmente anche Verg. Georg. I 476-486 una gran voce per i boschi silenti, sono stati visti fantasmi stranamente pallidi nell’oscurità della notte ed hanno parlato — oh che schifo! — le bestie; si Vox quoque per lucos vulgo exaudita silentis fermano i fiumi, si squarciano le ingens, et simulacra modis pallentia miris terre, nei templi lacrima uisa sub obscurum noctis, pecudesque locutae mestamente l’avorio (= delle statue) ed essudano i bronzi (= (infandum!); sistunt amnes terraeque dehiscunt, delle statue). L’Erìdano (= il Po), re dei fiumi, straripò, travolgendo et maestum inlacrimat templis ebur aeraque le selve nel pazzo vortice, e sudant. trascinò via per ogni campo gli armenti con le stalle. In quello Proluit insano contorquens vertice silvas stesso tempo, o comparvero fibre fluviorum rex Eridanus camposque per omnis infauste negli atri intestini (= cum stabulis armenta tulit. Nec tempore eodem degli animali sacrificati), o cessò tristibus aut extis fibrae apparere minaces il sangue di colare dai pozzetti (= degli altari) e le città alte (= di aut puteis manare cruor cessavit, et altae montagna, o più vicine alla per noctem resonare lupis ululantibus urbes. montagna) risuonarono di lupi ululanti nella notte. Tal fusti o Notte allor che gl'inclit'avi, Onde pur sempre il mio garzon si vanta, Eran duri ed alpestri; e con l'occaso Cadean dopo lor cene al sonno in preda; Fin che l'aurora sbadigliante ancora Li richiamasse a vigilar su l'opre De i per novo cammin guidati rivi E su i campi nascenti; onde poi grandi Furo i nipoti e le cittadi e i regni. Ma ecco Amore, ecco la madre Venere, Ecco del gioco, ecco del fasto i Genj, Che trionfanti per la notte scorrono, Per la notte, che sacra è al mio signore. Tutto davanti a lor tutto s'irradia Di nova luce. Le inimiche tenebre Fuggono riversate; e l'ali spandono Sopra i covili, ove le fere e gli uomini Da la fatica condannati dormono. Stupefatta la Notte intorno vedesi Riverberar più che dinanzi al sole Auree cornici, e di cristalli e spegli Pareti adorne, e vesti varie, e bianchi Omeri e braccia, e pupillette mobili, E tabacchiere preziose, e fulgide Fibbie ed anella e mille cose e mille. Così l'eterno caos, allor che Amore Sopra posovvi e il fomentò con l'ale, Sentì il generator moto crearsi, Sentì schiuder la luce; e sè medesmo Vide meravigliando e i tanti aprirsi Tesori di natura entro al suo grembo. La notte, vv. 39-40 Ma ecco Amore, ecco la madre Venere, Ecco del gioco, ecco del fasto i Genj, Ma^e¦cco^A¦mo¦re,˅¦ ec¦co ¦ la ¦ ma¦ dre ¦ Ve¦ ne ¦re, 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 Ec¦co ¦ del ¦ gio¦ co,^ec¦co ¦ del ¦ fa¦ sto^i ¦ Ge¦nj, 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 La notte, v. 44 «L’opzione per la forma con –i prostetica, unica occorrenza nel poema […], è forse ascrivibile alla sopraggiunta intenzione di generare una sinalefe in un verso privo di incontri vocalici, ulteriormente frazionato dalla pausa interpuntiva forte» (M. Tizi). Le Odi • 1791, ed. a cura di Agostino Gambarelli (22 testi) • 1795, ed. a cura di Giuseppe Bernardoni (25 testi: Per l’inclita Nice, A Silvia, Alla Musa) • 1802, ed. a cura di Francesco Reina (Opere, vol. II; esclude Il piacere e la virtù, Piramo e Tisbe, Alceste) • 1975, ed. a cura di Dante Isella (25 testi) Le Odi ed. Isella • • • • • • • • • • • • L’innesto del vaiuolo (1765) La salubrità dell’aria (1759) La vita rustica (1758) Il bisogno (1766) Il brindisi (1777) La impostura (1761) Il piacere e la virtù (1771) La primavera (1765) La educazione (1764) La laurea (1777) La musica (1762) La recita de’ versi (1783-84) • • • • • • • • • • • • • La tempesta (1786) Le nozze (1777) La caduta (1785) Il pericolo (1787) Piramo e Tisbe (?) Alceste (?) La magistratura (1788) In morte del maestro Sacchini (1786) Il dono (1790) La gratitudine (1791) Per l’inclita Nice (1793) A Silvia (1795) Alla Musa (1795) La vita rustica (1757-58), vv. 1-8 Perchè turbarmi l'anima, O d'oro e d'onor brame, Se del mio viver Atropo Presso è a troncar lo stame? E già per me si piega Sul remo il nocchier brun Colà donde si niega Che più ritorni alcun? La salubrità dell’aria (1758-59), vv. 1-12 Oh beato terreno Del vago Eupili mio, Ecco al fin nel tuo seno M'accogli; e del natìo Aere mi circondi; E il petto avido inondi. Già nel polmon capace Urta sè stesso e scende Quest'etere vivace, Che gli egri spirti accende, E le forze rintegra, E l'animo rallegra. L’innesto del vaiolo Giovanni Maria Bicetti de’ Buttinoni (1708-1778), Osservazioni sopra alcuni innesti di vaiuolo... con l'aggiunta di varie lettere di uomini illustri e un'ode dell'ab. Parini sullo stesso argomento, Milano, Galeazzi, 1765 → G. Parini, Al signor dottore G. Bicetti de’ Buttinoni che con felice successo eseguisce, e promulga l’innesto del vaiuolo Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765 Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765 Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765 Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765 L’innesto del vaiolo (1765), vv. 1-18 O Genovese ove ne vai? qual raggio Brilla di speme su le audaci antenne? Non temi oimè le penne Non anco esperte degli ignoti venti? Qual ti affida coraggio All'intentato piano De lo immenso oceano? Senti le beffe dell'Europa, senti Come deride i tuoi sperati eventi. Ma tu il vulgo dispregia. Erra chi dice, Che natura ponesse all'uom confine Di vaste acque marine, Se gli diè mente onde lor freno imporre: E dall'alta pendice Insegnolli a guidare I gran tronchi sul mare, E in poderoso canapè raccorre I venti, onde su l'acque ardito scorre. 19-36 Così l'eroe nocchier pensa, ed abbatte I paventati d'Ercole pilastri; Saluta novelli astri; E di nuove tempeste ode il ruggito. Veggon le stupefatte Genti dell'orbe ascoso Lo stranier portentoso. Ei riede; e mostra i suoi tesori ardito All'Europa, che il beffa ancor sul lito. 100-117 O Montegù, qual peregrina nave, Barbare terre misurando e mari, E di popoli varj Diseppellendo antiqui regni e vasti, E a noi tornando grave Di strana gemma e d'auro, Portò sì gran tesauro, Che a pareggiare non che a vincer basti Quel, che tu dall'Eussino a noi recasti? Più dell'oro, BICETTI, all'Uomo è cara Questa del viver suo lunga speranza: Più dell'oro possanza Sopra gli animi umani ha la bellezza. E pur la turba ignara Or condanna il cimento, Or resiste all'evento Di chi 'l doppio tesor le reca; e sprezza I novi mondi al prisco mondo avvezza. Rise l'Anglia la Francia Italia rise Al rammentar del favoloso Innesto: E il giudizio molesto De la falsa ragione incontro alzosse. In van l'effetto arrise A le imprese tentate; Chè la falsa pietate Contro al suo bene e contro al ver si mosse, E di lamento femminile armosse. Pietro Verri, Sull’innesto del vaiuolo, «Il Caffè» 1765 Le Odi ed. Isella • • • • • • • • • • • • L’innesto del vaiuolo (1765) La salubrità dell’aria (1759) La vita rustica (1758) Il bisogno (1766) Il brindisi (1777) La impostura (1761) Il piacere e la virtù (1771) La primavera (1765) La educazione (1764) La laurea (1777) La musica (1762) La recita de’ versi (1783-84) • • • • • • • • • • • • • La tempesta (1786) Le nozze (1777) La caduta (1785) Il pericolo (1787) Piramo e Tisbe (?) Alceste (?) La magistratura (1788) In morte del maestro Sacchini (1786) Il dono (1790) La gratitudine (1791) Per l’inclita Nice (1793) A Silvia (1795) Alla Musa (1795) L’educazione, vv. 115-138 e 151-162 Altri le altere cune Lascia o Garzon che pregi. Le superbe fortune Del vile anco son fregi. Chi de la gloria è vago Sol di virtù sia pago. Onora o figlio il Nume Che dall'alto ti guarda: Ma solo a lui non fume Incenso e vittim'arda. È d'uopo Achille alzare Nell'alma il primo altare. Perchè sì pronti affetti Nel core il ciel ti pose? Questi a Ragion commetti; E tu vedrai gran cose: Quindi l'alta rettrice Somma virtude elice. […] Ma quel più dolce senso, Onde ad amar ti pieghi, Tra lo stuol d'armi denso Venga, e pietà non nieghi Al debole che cade E a te grida pietade. Giustizia entro al tuo seno Sieda e sul labbro il vero; E le tue mani sieno Qual albero straniero, Onde soavi unguenti Stillin sopra le genti. Te questo ognor costante Schermo renda al mendico; Fido ti faccia amante E indomabile amico. Così, con legge alterna L'animo si governa. Canticum Canticorum 5,5 Surrexi, ut aperirem dilecto meo; manus meae stillaverunt myrrham, et digiti mei pleni myrrha probatissima super ansam pessuli. Mi sono alzata per aprire al mio diletto e le mie mani stillavano mirra, fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello. Il bisogno • I edizione (anonima): Canzone dedicata all’illustrissimo sig. don Pierantonio Wirz de Rudenz del Senato dell’ill.ma e potentissima Repubblica di Unterwalden, commissario reggente del contado di Locarno e sue pertinenze, Milano, Galeazzi, 1766 • II edizione: Odi 1791 (con titolo Il Bisogno) • Struttura: I parte (1-36), i delitti e i crimini II parte (37-72), le pene atroci e inique conclusione (73-84) Il bisogno, vv. 1-36 Oh tiranno Signore De' miseri mortali, Oh male oh persuasore Orribile di mali Bisogno, e che non spezza Tua indomita fierezza! Con le folgori in mano La legge alto minaccia; Ma il periglio lontano Non scolora la faccia Di chi senza soccorso Ha il tuo peso sul dorso. Di valli adamantini Cinge i cor la virtude; Ma tu gli urti e rovini; E tutto a te si schiude. Entri, e i nobili affetti O strozzi od assoggetti. Al misero mortale Ogni lume s'ammorza: Ver la scesa del male Tu lo strascini a forza: Ei di sé stesso in bando Va giù precipitando. Oltre corri, e fremente Strappi Ragion dal soglio; E il regno de la mente Occupi pien d'orgoglio, E ti poni a sedere Tiranno del pensiere. Ahi l'infelice allora I comun patti rompe; Ogni confine ignora; Ne' beni altrui prorompe; Mangia i rapiti pani Con sanguinose mani. Hor. Carmina III, XXIV 5-8 e 42-44 Si figit adamantinos summis uerticibus dira Necessitas clauos, non animum metu, non mortis laqueis expedies caput. Magnum pauperies obprobrium iubet quiduis et facere et pati uirtutisque uiam deserit arduae. Quando il crudele Bisogno conficcherà i suoi chiodi d’acciaio in cima ai muri (con cui ti difendi), non riuscirai a liberare il cuore dalla paura e la testa da un laccio mortale. La povertà, terribile vergogna, costringe a fare e a subire qualsiasi infamia, e lascia la strada ardua della virtù. Il bisogno, vv. 37-72 Ma quali odo lamenti E stridor di catene; E ingegnosi stromenti Veggo d'atroci pene Là per quegli antri oscuri Cinti d'orridi muri? O ministri di Temi Le spade sospendete: Da i pulpiti supremi Quà l'orecchio volgete. Chi è che pietà niega Al Bisogno che prega? Colà Temide armata Tien giudizj funesti Su la turba affannata, Che tu persuadesti A romper gli altrui dritti O padre di delitti. Perdon, dic'ei, perdono Ai miseri cruciati. Io son l'autore io sono De' lor primi peccati. Sia contro a me diretta La pubblica vendetta. Meco vieni al cospetto Del nume che vi siede. No non avrà dispetto Che tu v'innoltri il piede. Da lui con lieto volto Anco il Bisogno è accolto. Ma quale a tai parole Giudice si commove? Qual dell'umana prole A pietade si move? Tu WIRTZ uom saggio e giusto Ne dai l'esempio augusto: Il bisogno, vv. 73-84 Tu cui sì spesso vinse Dolor de gl'infelici, Che il Bisogno sospinse A por le rapitrici Mani nell'altrui parte O per forza o per arte: E il carcere temuto Lor lieto spalancasti: E dando oro ed aiuto, Generoso insegnasti Come senza le pene Il fallo si previene. Libro del Siracide, cap. IV [1] Figlio, non rifiutare il sostentamento al povero, non essere insensibile allo sguardo dei bisognosi. [2] Non rattristare un affamato, non esasperare un uomo già in difficoltà. [3] Non turbare un cuore esasperato, non negare un dono al bisognoso. [4] Non respingere la supplica di un povero, non distogliere lo sguardo dall'indigente. [5] Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo, non offrire a nessuno l'occasione di maledirti, [6] perché se uno ti maledice con amarezza, il suo creatore esaudirà la sua preghiera. [7] Fatti amare dalla comunità, davanti a un grande abbassa il capo. Porgi l'orecchio al povero e rispondigli al saluto con affabilità. [9] Strappa l'oppresso dal potere dell'oppressore, non esser pusillanime quando giudichi. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (41) È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d'ogni buona legislazione, che è l'arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d'infelicità possibile, per parlare secondo tutt'i calcoli dei beni e dei mali della vita. Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo più falsi ed opposti al fine proposto. […] Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. […] (42) Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato. […] (45) Finalmente il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l'educazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi sono prescritto, oggetto, oso anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla natura del governo perché non sia sempre fino ai più remoti secoli della pubblica felicità un campo sterile, e solo coltivato qua e là da pochi saggi. Un grand'uomo, che illumina l'umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cioè consistere meno in una sterile moltitudine di oggetti che nella scelta e precisione di essi Le Odi ed. Isella • • • • • • • • • • • • L’innesto del vaiuolo (1765) La salubrità dell’aria (1759) La vita rustica (1758) Il bisogno (1766) Il brindisi (1777) La impostura (1761) Il piacere e la virtù (1771) La primavera (1765) La educazione (1764) La laurea (1777) La musica (1762) La recita de’ versi (1783-84) • • • • • • • • • • • • • La tempesta (1786) Le nozze (1777) La caduta (1785) Il pericolo (1787) Piramo e Tisbe (?) Alceste (?) La magistratura (1788) In morte del maestro Sacchini (1786) Il dono (1790) La gratitudine (1791) Per l’inclita Nice (1793) A Silvia (1795) Alla Musa (1795) G. Parini, La recita de’ versi, vv. 1-12 Qual fra le mense loco Versi otterranno, che da nobil vena Scendano; e all'acre foco Dell'arte imponga la sottil Camena, Meditante lavoro, Che sia di nostra età pregio e decoro? Non odi alto di voci I convitati sollevar tumulto, Che i Centauri feroci Fa rammentar, quando con empio insulto All'ospite di liti Sparsero e guerra i nuziali riti? La recita de’ versi, vv. 46-54 Orecchio ama placato La musa e mente arguta e cor gentile. Ed io, se a me fia dato Ordir mai su la cetra opra non vile, Non toccherò già corda Ove la turba di sue ciance assorda. Hor., Ep., II 2, 79-80: «Tu me inter strepitus nocturnos atque diurnos / vis canere et contracta sequi vestigua vatum?» Di Tullio i casi; ed or, novo maestro A far migliori i tempi, Gli scherzi usa del Frigio e i propri esempj. Hor., Ep., II 2, 109 ss: « At qui legitimum cupiet fecisse poema, / cum tabulis animum censoris sumet honesti: / audebit, quaecumque parum splendoris, habebunt / et sine pondere erunt et honore indigna ferentur, / verba movere loco…» O te Paola, che il retto E il bello atta a sentir formaro i Numi; Ben de' numeri miei Te, che il piacer concetto Giudice chiedo il buon cantor, che destro Mostri dolce intendendo i duo bei lumi, Volse a pungere i rei Onde spira calore Soavemente periglioso al core. La caduta: struttura • 6 quartine narrative (vv. 1-24) riguardanti un incidente occorso al poeta e le reazioni dei presenti (il riso, la commozione, il soccorso); • 13 quartine (vv. 25-76) contenenti il discorso di un anonimo e indefinito soccorritore, a sua volta diviso in due parti: la modesta condizione del poeta (nonostante le lodi alla sua arte); l’esortazione o invito a una condotta più scaltra e smaliziata che gli permetta il successo; • 6 quartine (vv. 77-100) con la risposta di Parini, che rivendica la propria moralità, ossia il primato della coscienza; • 1 quartina conclusiva (vv. 101-104), di tipo nuovamente narrativo, che indugia sullo stato d’animo dell’autore. Parini, La caduta Quando Orïon dal cielo Declinando imperversa; E pioggia e nevi e gelo Sopra la terra ottenebrata versa, Me spinto ne la iniqua Stagione, infermo il piede, Tra il fango e tra l’obliqua Furia de’ carri la città gir vede; E per avverso sasso Mal fra gli altri sorgente, O per lubrico passo Lungo il cammino stramazzar sovente. Ride il fanciullo; e gli occhi Tosto gonfia commosso, Che il cubito o i ginocchi Me scorge o il mento dal cader percosso. Altri accorre; e: oh infelice E di men crudo fato Degno vate! mi dice; E seguendo il parlar, cinge il mio lato Con la pietosa mano; E di terra mi toglie; E il cappel lordo e il vano Baston dispersi ne la via raccoglie: Te ricca di comune Censo la patria loda; Te sublime, te immune Cigno da tempo che il tuo nome roda Chiama gridando intorno; E te molesta incìta Di poner fine al Giorno, Per cui cercato a lo stranier ti addita. Ed ecco il debil fianco Per anni e per natura Vai nel suolo pur anco Fra il danno strascinando e la paura: Dunque per l’erte scale Arrampica qual puoi; E fa gli atrj e le sale Ogni giorno ulular de’ pianti tuoi. Nè il sì lodato verso Vile cocchio ti appresta, Che te salvi a traverso De’ trivii dal furor de la tempesta. O non cessar di porte Fra lo stuol de’ clienti, Abbracciando le porte De gl’imi, che comandano ai potenti; Sdegnosa anima! prendi Prendi novo consiglio, Se il già canuto intendi Capo sottrarre a più fatal periglio. E lor mercè penètra Ne’ recessi de’ grandi; E sopra la lor tetra Noja le facezie e le novelle spandi. Congiunti tu non hai, Non amiche, non ville, Che te far possan mai Nell’urna del favor preporre a mille. O, se tu sai, più astuto I cupi sentier trova Colà dove nel muto Aere il destin de’ popoli si cova; G. Parini, Lettera a Giuseppe Bernardoni 11 novembre 1795 Circa il verso: «Noia le facezie», ecc., Ella potrà dire che nelle altre edizioni, dopo la prima di Milano, vi si sono fatti de’ cangiamenti, per non essersi dagli editori avvertito alla pronunciazione toscana e agli esempii de’ buoni scrittori di versi nell’uso delle parole che hanno dittongo o trittongo, come accade della parola «noia», ecc. Ella potrà ciò dire e più brevemente e meglio che ora non ho fatto io; del che Le lascio ogni libertà. Giacomo da Lentini, XIX 9: «Pe¦rò ¦ gran ¦ noia ¦ mi ¦ fan¦no ¦ men¦zo¦nie¦ri»; IV 21: «O¦gni ¦ gioia ¦ ch'è ¦ più ¦ ra¦ra». E fingendo nova esca Al pubblico guadagno, L’onda sommovi, e pesca Insidioso nel turbato stagno. Mia bile, al fin costretta, Già troppo, dal profondo Petto rompendo, getta Impetuosa gli argini; e rispondo: Ma chi giammai potrìa Guarir tua mente illusa, O trar per altra via Te ostinato amator de la tua Musa? Chi sei tu, che sostenti A me questo vetusto Pondo, e l’animo tenti Prostrarmi a terra? Umano sei, non giusto. Lasciala: o, pari a vile Mima, il pudore insulti, Dilettando scurrile I bassi genj dietro al fasto occulti. Buon cittadino, al segno Dove natura e i primi Casi ordinàr, lo ingegno Guida così, che lui la patria estimi. Matteo cap. IV [1] Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. [2] E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. [3] Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: "Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane". [4] Ma egli rispose: "Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio". [5] Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio [6] e gli disse: "Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede". [7] Gesù gli rispose: "Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo". [8] Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: [9] "Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai". [10] Ma Gesù gli rispose: "Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto". Quando poi d’età carco Il bisogno lo stringe, Chiede opportuno e parco Con fronte liberal, che l’alma pinge. Nè si abbassa per duolo, Nè s’alza per orgoglio. E ciò dicendo, solo Lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio. E se i duri mortali A lui voltano il tergo, Ei si fa, contro ai mali, Della costanza sua scudo ed usbergo. Così, grato ai soccorsi, Ho il consiglio a dispetto; E privo di rimorsi, Col dubitante piè torno al mio tetto. Alla Musa Te il mercadante, che con ciglio asciutto Fugge i figli e la moglie ovunque il chiama Dura avarizia, nel remoto flutto, Musa, non ama. Nè quei, cui l’alma ambizïosa rode Fulgida cura; onde salir più agogna; E la molto fra il dì temuta frode Torbido sogna. Nè giovane, che pari a tauro irrompa Ove a la cieca più Venere piace: Nè donna, che d’amanti osi gran pompa Spiegar procace. Sai tu, vergine dea, chi la parola Modulata da te gusta od imita; Onde ingenuo piacer sgorga, e consola L’umana vita? Colui, cui diede il ciel placido senso E puri affetti e semplice costume; Che di sè pago e dell’avito censo Più non presume. Che spesso al faticoso ozio de’ grandi E all’urbano clamor s’invola, e vive Ove spande natura influssi blandi O in colli o in rive. E in stuol d’amici numerato e casto, Tra parco e delicato al desco asside; E la splendida turba e il vano fasto Lieto deride. Che a i buoni, ovunque sia, dona favore; E cerca il vero; e il bello ama innocente; E passa l’età sua tranquilla, il core Sano e la mente. Dunque perchè quella sì grata un giorno Del Giovin, cui diè nome il dio di Delo, Cetra si tace; e le fa lenta intorno 35 Polvere velo? Musa, mentr’ella il vago crine annoda A lei t’appressa; e con vezzoso dito A lei premi l’orecchio; e dille: e t’oda. Anco il marito. Ben mi sovvien quando, modesto il ciglio, Ei già scendendo a me giudice fea Me de’ suoi carmi: e a me chiedea consiglio: E lode avea. Giovinetta crudel, perchè mi togli Tutto il mio d’Adda, e di mie cure il pregio, E la speme concetta, e i dolci orgogli D’alunno egregio? Ma or non più. Chi sa? Simile a rosa Tutta fresca e vermiglia al sol, che nasce, Tutto forse di lui l’eletta Sposa L’animo pasce. Costui di me, de’ genj miei si accese Pria che di te. Codeste forme infanti Erano ancor, quando vaghezza il prese De’ nostri canti. E di bellezza, di virtù, di raro Amor, di grazie, di pudor natìo L’occupa sì, ch’ei cede ogni già caro Studio all’oblìo. Ei t’era ignoto ancor quando a me piacque. Io di mia man per l’ombra, e per la lieve Aura de’ lauri l’avviai ver l’acque, Che al par di neve Ecco già l’ale il nono mese or scioglie Da che sua fosti, e già, deh ti sia salvo, Te chiaramente in fra le madri accoglie Il giovin alvo. Bianche le spume, scaturir dall’alto Fece Aganippe il bel destrier, che ha l’ale: Onde chi beve io tra i celesti esalto E fo immortale. Lascia che a me solo un momento ei torni; E novo entro al tuo cor sorgere affetto, E novo sentirai da i versi adorni Piover diletto. Io con le nostre il volsi arti divine Al decente, al gentile, al raro, al bello: Fin che tu stessa gli apparisti al fine Caro modello. E, se nobil per lui fiamma fu desta Nel tuo petto non conscio: e s’ei nodrìa Nobil fiamma per te, sol opra è questa Del cielo e mia. Però ch’io stessa, il gomito posando Di tua seggiola al dorso, a lui col suono De la soave andrò tibia spirando Facile tono. Onde rapito, ei canterà che sposo Già felice il rendesti, e amante amato; E tosto il renderai dal grembo ascoso Padre beato. Scenderà in tanto dall’eterea mole Giuno, che i preghi de le incinte ascolta. E vergin io de la Memoria prole Nel velo avvolta Uscirò co’ bei carmi; e andrò gentile Dono a farne al Parini, Italo cigno, Che a i buoni amico, alto disdegna il vile Volgo maligno.