LA PIRATERIA INTESA COME FORMA DI GUERRA P e r iPoe dr i oc doi cao cau cruar ad edle lC Ce ennt trroo SSttuu d i - AAnnnnoo XXX XnI . n1.5 17 5/72 /0 1220 1 2 157 Anno XXI - 2012 ������������ DELL’ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI SOMMARIO DIREZIONE E REDAZIONE ISTITUTO DI STUDI MILITARI MARITTIMI LA BUSSOLA CENTRO STUDI Castello, 2409 - 30122 VENEZIA Tel. Fax 041/2441730 - Mil.40730 e-mail: [email protected] 4 LA PIRATERIA INTESA COME FORMA DI GUERRA DIRETTORE RESPONSABILE C.V. Giuliano BIGGI Tel. 041/2441322 - Mil. 40322 GESTIONE TESTI E IMMAGINI 18 LA PRESENZA DELLA REGIA MARINA A SUPPORTO DEGLI INTERESSI NAZIONALI IN SUD AMERICA ALLA FINE DELL’800 C° 1^ cl. Andrea TONIOLO 38 PRIVATE MILITARY STAMPA E FOTORIPRODUZIONE AUS. Marco BUCELLA AUS Giovanna VIAN Registrazione al tribunale Civile di Venezia n. 1353. La riproduzione, totale o parziale degli scritti e delle illustrazioni è subordinata all’autorizzazione della Direzione dell’ Osservatorio. Pubblicazione non in commercio COMPANIES-CONTRACTORS, CHI SONO? La BUSSOLA Di pirateria negli ultimi anni si è molto parlato e tutt’oggi la discussione su questa articolata materia è viva. A dire tutta la verità se ne parla e molto soprattutto nei consessi specialistici, quelli, per intenderci, più sensibili al fenomeno perché inclini alla riflessione sui riverberi dello stesso nei settori economico e commerciale. Se ne parla anche molto nei consessi avvezzi a ragionare di sicurezza e stabilità regionali, prendendo in esame tutte le prospettive e dunque cercando di valutare quale impatto il fenomeno della pirateria possa avere anche in questi termini. Ma, mentre in linea di massima è più facile valutare il fenomeno pirateria da un punto di vista economico entrando nel merito dei danni provocati ai traffici via mare e all’incidenza sui mercati delle singole nazioni verso i cui porti erano dirette le unità oggetto di atti di pirateria, ben più articolato è lo studio della pirateria come strumento di destabilizzazione della sicurezza regionale e quindi come oggettiva arma in mano a gruppi criminali con finalità terroristiche. L’azione predatoria in mare, soprattutto quando connotata da caratteristiche di guerra di corsa, si è rivelata nel passato un concreto strumento politico nelle mani di sovrani dalla vista lunga e dai pochi scrupoli abili da un lato a mettere in campo un sistema che dalle scorribande in mare dei corsari era in grado di trarre enormi profitti e, dall’altro rendendo “scientificamente” insicure le rotte marittime, a guadagnare un indiretto dominio del mare. Ed oggi, è immaginabile una pirateria come forma di guerra? E, in particolare, è ipotizzabile la pirateria come quota parte di un confronto asimmetrico condotto da gruppi terroristici e, nello specifico, da quelli che agiscono fra Mediterraneo Allargato e Grande Medio Oriente, aree di primario interesse strategico per il nostro Paese? Su questi temi si sono cimentati il C.C. (CP) Angelo MAGGIO, il C.C. (GN) Gianluca M. MARCILLI, il C.C. (CM) Tommaso MARIOTTI, il T.V. (AN) Paolo TRESCA e il T.V. Angelo BANCALE, Frequentatori del 60° Corso Normale, con un interessante excursus su pirateria e affini declinate come forme di guerra. Il secondo lavoro, a cura del C.C. (CP) Antonio FRIGO, del T.V. (GN) Emiliano CIAMARONE, del T.V. (CM) Alfonso D’ABBIERO, del T.V. Francesco ADAMO, e del T.V. (AN) Andrea VIRGILI per quanto apparentemente distante, soprattutto nel tempo, ha invece in sé elementi di affinità con quanto finora detto. Si tratta di un elaborato su vicende sicuramente meno note di storia della Marina Italiana relative alla presenza della Regia Marina in Sud America nel corso degli anni che vanno dal 1861 al 1900. Vicende che raccontano di una presenza significativa delle navi da guerra italiane in un ruolo che oggi diremmo expeditionary in attività di gunboat diplomacy da manuale di strategia marittima, a difesa delle comunità nazionali nel continente sudamericano e dei relativi interessi economici. Vicende lontane nel tempo ma non nella sostanza. Si trattava di difesa di interessi nazionali: in questo senso oggi come allora le marine continuano a giocare un ruolo cruciale e per certi versi insostituibile. Completa il numero un breve saggio a cura del C.C. (CP) Giovanni CAVALLO, del C.C. (CP) Pietro CIERI, del C.C. (GN) Giacomo PETRUZZI, del T.V. (AN) Davide AMODEO e del T.V. Emanuele BISCINI che fa il punto di situazione sulle PMC (Private Military Companies) quale realtà sempre più presente nei moderni teatri operativi. Il Direttore del Centro Studi ������������ LA PIRATERIA INTESA COME FORMA DI GUERRA C.C. (CP) Angelo MAGGIO C.C. (GN) Gianluca M. MARCILLI C.C. (CM) Tommaso MARIOTTI T.V. (AN) Paolo TRESCA T.V. Angelo BANCALE La pirateria marittima affonda le sue origini in un passato lontanissimo apparendo contestualmente alla nascita e allo sviluppo della navigazione. Dell’arte di predare per mare si sono sviluppati, nel corso dei secoli, diversi modelli alternativi che presentano un autonomo rilievo giuridico. La lettura critica dei dati storiografici permette infatti di identificare, all’interno dell’ampio genus della pirateria marittima, tre diversi fenomeni così descrivibili: - attività privata, da parte di individui più o meno organizzati che, approfittando dell’assenza o della debolezza di centri di potere in grado di garantire la sicurezza dei traffici commerciali e delle coste, integrano il modello primordiale di pirateria marittima assaltando e saccheggiando le città costiere e le navi mercantili; - attività pubblica, da parte di centri di potere che si servono dei pirati assoldandoli come strumento di guerra marittima contro il naviglio militare e mercantile di potenze nemiche; 1 2 3 4 - politica di stato, da parte di centri di potere che elevano il brigantaggio sul mare ad attività formalizzata e giuridicamente riconosciuta praticando violenze e ruberie come fonte di pubblica e privata ricchezza1. Il presente lavoro si propone di analizzare lo strumento della pirateria come forma di guerra, prendendo le mosse da alcuni episodi significativi del passato per approdare alla sua attuale evoluzione nel mondo globalizzato. LA PIRATERIA NEL PASSATO Molti autori come D. J. Puchala2, hanno individuato nella storia un andamento ciclico del fenomeno della pirateria che vede l’alternanza di periodi in cui il fenomeno si riduce ad una forma latente più fastidiosa che problematica, a periodi in cui si espande fino ad assumere una rilevanza tale da indurre la potenza marittima del tempo (o la coalizione) ad affrontare una campagna militare per debellare il problema. Ai fini della nostra indagine è però interessante notare come, fin dall’antichità, in coincidenza con l’affermarsi di saldi centri di governo, la pirateria venga ad essere anche controllata dalle autorità interessate a gestirne l’esercizio e a farne un vero e proprio strumento di guerra asimmetrica3. In epoca greca e ancora in quella romana i predoni del mare reclutati dal potere pubblico non cessano di essere considerati pirati anche se, essendo autorizzati ad infestare i mari e ad attentare ai trasporti marittimi delle potenze nemiche, risultano, di fatto, legittimati alle pratiche piratesche. Anche in epoca medievale la pirateria si in- Si differenzia dal modello precedente perché, qui, la concessione a correre per mare in nome e per conto di uno Stato non è un fenomeno contingente ma strutturale, permanente e organicamente disciplinato come accadde, ad esempio, per i cosiddetti Stati Barbareschi nordafricani. D. J. PUCHALA, Of Pirates and Terrorists: What Experience and History Teach, Contemporary Security Policy, Vol.26, No.1, April 2005 Secondo il National Strategy Forum, gli strateghi definiscono come guerra asimmetrica un conflitto che devia dalla norma o un metodo indiretto per bilanciare la disparità di forze e mezzi. ������������ terseca con la corsa, praticata ed ampiamente ammessa da tutti gli Stati. Le misure antipirateria apprestate da questi ultimi sono concepite solamente a tutela del naviglio nazionale, pubblico e privato, contro gli atti di depredazione e violenza perpetrati da navi straniere cosicché le autorità contemplano le ruberie commesse dai propri cittadini a danno delle potenze avversarie e, anzi, non esitano ad assoldare corsari ed avventurieri come vero e proprio strumento di guerra, al fine di ostacolare il traffico marittimo delle marine antagoniste e assicurarsi così il controllo delle rotte commerciali. DALLA PIRATERIA ALLA GUERRA DI CORSA Anche se la pratica della corsa ha contrassegnato tutte le epoche storiche, tuttavia, essa viene compiutamente disciplinata soltanto a partire dal XV secolo quando i Governi prendono definitiva coscienza dei vantaggi che l’impiego dei navigli privati può procurare loro e che sono, sostanzialmente, di due tipi: - militari, perché il ricorso ad individui privati consente di sopperire alla cronica esiguità delle forze navali regolari. Emblematico è il caso dei corsari americani che svolsero un grande ruolo nella rivoluzione del 4 5 1775 e nelle successive guerre tra gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra. La Marina statunitense, che ufficialmente possedeva soltanto 34 navi, potendo contare su una flotta corsara di oltre 400 unità, sfiancò gli inglesi attaccandone i mercantili, ostacolandone il commercio e ingaggiando battaglie contro la Royal Navy al punto che un corsaro come John Paul Jones divenne eroe nazionale e venne definito “Father of the American Navy”4; - economici, perché le azioni predatorie in mare fruttano cospicui guadagni tali da risollevare, in alcuni casi, i bilanci nazionali. Si pensi, ad esempio, al fatto che la circumnavigazione del globo da parte del corsaro Sir Francis Drake fruttò alle casse della corona inglese, in soli due anni (dal 1578 al 1580), un bottino stimato di oltre 200.000 sterline del tempo5. Inoltre, un intero sistema produttivo che partecipa in varia misura alle imprese corsare beneficia delle ricchezze derivanti dalla corsa: proprietari di navi, armatori, finanziatori, procuratori, assicuratori, banchieri e, in generale, larghi strati della popolazione. Ciò detto, si assiste, accanto al puro e semplice atto piratesco condotto da banditi del mare che, da fuorilegge, compiono atti di M. A NNATI – F. CAFFIO, Pirati di ieri e di oggi, Supplemento alla Rivista Marittima – Dic. 2009, 30. F. GRAZIANI, Il contrasto alla pirateria marittima nel Diritto Internazionale, Ed. 2010, 32. 5 ������������ te dei governi è contenuta nelle cosiddette “patenti di corsa” (dette anche “lettere di marca” o “lettere di corsa”), rilasciate in forma di decreto o altro atto amministrativo, attraverso le quali gli Stati conferiscono ad individui privati il potere di depredare il naviglio mercantile e militare di potenze antagoniste, nell’interesse primario dello Stato oltre che di quello proprio dell’intestatario della concessione. Le “patenti di corsa” hanno il duplice obiettivo di limitare, circoscrivendola, la responsabilità dello Stato per le azioni dei propri corsari e di individuare con certezza il corsaro che agisce sotto la bandiera dello Stato, al fine di potersi rivalere su quest’ultimo qualora costui avesse perpetrato arbitrariamente eventuali azioni illegali in seguito alle quali lo Stato fosse stato obbligato al relativo risarcimento dei danni. I CASI Esempi storici emblematici di come, nel passato, la pirateria e la guerra di corsa abbiano concretizzato forme di guerra asimmetrica sono rappresentati dalle vicende dei corsari uscocchi nel Mar Adriatico e dei corsari di varie nazionalità (specialmente inglesi e francesi) nel Mar dei Caraibi, tra i quali un significato paradigmatico ai fini del nostro studio assume l’epopea di Francis Drake. Pirata Uscocco depredazione e violenza a fini di lucro personale, all’affiancamento di una sorta di pirateria legalizzata in cui è lo Stato che controlla le scorrerie governandole con norme e prescrizioni. Si giunge quindi, lentamente, alla distinzione fra pirati e corsari, spesso soltanto teorica. Distinzione che, sotto il profilo giuridico, ha, quale prima ed immediata conseguenza, quella di considerare illecita la sola pirateria di tipo privato; il corsaro beneficia di uno speciale trattamento perché, pur traendo, come il pirata, un vantaggio personale dalle scorrerie sul mare, assolve funzioni pubbliche ed è legittimato dai governi, per il solo fatto di operare sotto la bandiera di uno Stato. L’autorizzazione a correre il mare da par- 6 6 I corsari uscocchi nel Mar Adriatico La storia delle imprese degli uscocchi inizia dall’invasione della Bosnia (1462) e dell’Erzegovina (1482) ad opera dell’impero ottomano e dalla fuga, da quei territori, di decine di migliaia di serbi e croati, ortodossi e cattolici, verso i territori costieri della Dalmazia per sfuggire alla dominazione turca e conservare la fede dei loro avi. Le autorità austriache e veneziane accolsero i più valorosi fra quei fuggiaschi nelle file delle milizie confinarie chiamandoli uskoci, da cui l’italiano uscocchi6. Il Governo austriaco, accortosi immediatamente del potenziale militare rappresentato dagli uscocchi, iniziò a stipendiarli allo scopo di contrastare l’espansione dei turchi. Venezia, pur subendo al pari degli ottomani i loro attacchi, aiutava dal mare gli uscocchi quando era in guerra con i turchi e li contrastava, scontrandosi con loro per terra e per mare, quando viveva in pace con la Sublime Porta. Dal verbo serbo-croato uskoaiti che significa “passare il confine”, nel significato di profughi anche se, ben presto, il significato peggiorò: da profughi a banditi e pirati. ������������ La nutrita e temuta flottiglia uscocca era formata da imbarcazioni leggere e veloci con equipaggi da 35 a 50 uomini ben armati e spuntava, immancabilmente di sorpresa, dai posti più impensabili, quasi sempre di notte, nei giorni di pioggia, di gran freddo e di bora. Stabilita la loro base principale nella città di Segna, le prime azioni corsare uscocche sul mare ai danni di alcune navi mercantili turche risalgono già al 1524. Dopo il trattato di pace del 1542 tra la Serenissima e la Sublime Porta, con cui Venezia si impegnava a garantire ai turchi7 la navigazione indisturbata nel Mare Adriatico e la protezione del loro commercio da ogni molestia, gli uscocchi, non vincolati da alcun trattato, iniziarono ad assalire anche le navi veneziane. Per circa sessant’anni dunque, ad eccezione della parentesi della “guerra di Cipro” fra la Serenissima e la Turchia dal 1570 al 1573 che vide i segnani combattere per e con i veneziani, gli uscocchi continuarono a depredare per mare e per terra i veneziani fino a quando l’Austria, già impegnata nella guerra con i turchi e per evitare un conflitto aperto anche con Venezia, decise finalmente di cacciarli da Segna nel 1601. I gruppi dispersi, però, vi tornarono e ripresero le ostilità nei confronti della Serenissima, fino a quando, a partire dal 1613, Venezia iniziò una vera e propria guerra contro questi corsari armati, colpendo anche i territori colpevoli di fornir loro mezzi e assistenza. Ciò provocò la reazione dall’Austria che condusse alla “guerra di Gradisca” (16151617); questa si concluse con il trattato di Madrid che, tra l’altro, obbligò gli austriaci a disperdere gli uscocchi nell’interno della Croazia e a bruciarne le navi. Terminò, così, l’epopea dei più terribili corsari che l’Adriatico abbia mai conosciuto dopo gli illiri, domati dai romani. 7 I corsari del Mar dei Caraibi: la leggenda di Francis Drake L’oro e l’argento degli Aztechi e degli Incas furono gli elementi propulsori del fenomeno che prende il nome di “età d’oro della pirateria” quando, tra il 1650 e il 1725, ben duemila predoni degli oceani imperversavano lungo entrambe le coste atlantiche . Gli spagnoli, infatti, che controllavano gran parte del Sudamerica e dell’America centrale, trasportavano via mare in patria le enormi ricchezze azteche ed incas cosicché, ben presto, i nemici e i rivali della Spagna si accorsero di questa “fortuna galleggiante”. Nel Mar dei Caraibi e nel Golfo del Messico si fronteggiavano capitani di ventura al soldo delle diverse potenze marittime occidentali. In particolare, le vicende del pirata, avventuriero ed esploratore Francis Drake risultano esemplificative di quali fossero le tipiche strategie belliche asimmetriche utilizzate, all’epoca, dalle Marine occidentali dominanti nei confronti dei loro antagonisti. Francis Drake nacque nel Devon intorno al 1540 e, iniziato in giovanissima età il mestiere di marinaio, a ventidue anni assunse già il comando di una nave. Per anni imperversò come pirata nei Carabi, attaccando le colonie spagnole e costituendo una costante minaccia per le imbarcazioni che incontrava fino a quando, a partire dal 1570, iniziò ad operare ufficialmente sotto mandato della Regina Elisabetta I d’Inghilterra che finanziò le sue spedizioni contro gli spagnoli. La Spagna, a quell’epoca, era padrona di un immenso impero e, tramite la sua potente flotta, teneva sotto controllo gli oceani che considerava come suo dominio; l’Inghilterra, dal canto suo, rivendicava il diritto di solcare liberamente qualsiasi mare e di poter liberamente commerciare con le sue colonie; l’attrito tra i due Paesi era, quindi, inevitabile. Gli ottomani, al contempo, si impegnavano a non tenere navi da guerra in Adriatico. 7 ������������ Nel 1577, ricevuto dalla Regina il compito di attaccare le colonie spagnole sulla costa americana del Pacifico, Drake salpò con 150 uomini e 5 navi e iniziò l’avventura che lo avrebbe portato ad essere il primo inglese a circumnavigare la Terra. Dopo aver perso quattro navi, con quella restante rinominata Golden Hind cominciò la risalita verso nord della costa pacifica; catturò alcune navi spagnole e assalì le città di Lima, Valparaiso e Arica. Gli spagnoli non si aspettavano un’azione così temeraria e, quindi, molte città erano indifese. Nel suo ritorno verso l’Inghilterra, pianificato per eludere la flotta iberica, Francis Drake fondò la prima colonia inglese nel Nuovo Mondo, chiamandola “Nuova Albione”8. Attraversato il Pacifico, toccò l’arcipelago indonesiano, l’isola di Giava e delle Molucche e fece quindi rientro in Inghilterra, nel Settembre del 1580, dopo quasi 3 anni dalla partenza e dopo aver percorso circa 36.000 miglia. 8 8 Gli spagnoli chiesero ad Elisabetta I di trattarlo alla pari dei fuorilegge, ma la Regina, invece, accolse Drake e i suoi uomini con grandi onori e, addirittura, nominò il corsaro cavaliere, conferendogli così la possibilità di sedere in parlamento. L’avventura di Drake aveva altresì dimostrato la vulnerabilità dell’Impero spagnolo e della sua flotta, che non era riuscita ad avere la meglio su quell’unica nave che, guidata da uno dei migliori marinai che l’Inghilterra abbia mai avuto, attaccò colonie e catturò vascelli senza poter essere fermata. Nel 1582 Sir Francis Drake divenne sindaco di Plymouth e, anche se non ufficialmente, consigliere del Governo per gli affari navali. Tre anni più tardi, allo scoppio della guerra aperta tra Spagna ed Inghilterra, Drake riprese i viaggi nel Nuovo Mondo attaccando colonie spagnole come San Augustin in Florida, Cartagena e Santo Domingo. La Spagna mostrava chiaramente l’intenzione di invadere il suolo inglese. Il Governo Galeone Inglese La localizzazione di questo porto rimane tuttora un mistero anche se si ritiene che si trovasse in un punto tra l’attuale San Francisco, l’Oregon e lo stato di Washington. ������������ allora chiese a Drake di attaccare direttamente i porti spagnoli al fine di affondare il maggior numero di imbarcazioni. Famosa fu la presa della città di Cadice dove riuscì nell’impresa di affondare circa 30 navi nemiche, fatto che comportò un ritardo dell’invasione di almeno un anno. Comunque Filippo II era deciso a compiere l’impresa e il piano prevedeva l’invio di una imponente flotta a Dunkirk9 per permettere all’esercito guidato dal Duca di Parma Alessandro Farnese, che avrebbe dovuto compiere l’invasione, di attraversare il Canale della Manica. L’”Armada”, composta da 130 vascelli, era guidata da Alonso de Guzman. Dall’altra parte la flotta inglese, meno numerosa, era, nominalmente, guidata da Lord Howard di Effingham, ma il vero comando era esercitato dal Vice Ammiraglio Sir Francis Drake che, nella battaglia di Gravelines, inflisse un duro colpo all’“Invincibile Armada”. Dopo aver efficacemente contribuito a salvare il suo paese dall’invasione spagnola, la stella di Sir Francis Drake cominciò la sua fase calante. Riprese ad effettuare scorrerie nei Carabi ma la fortuna ormai gli aveva voltato le spalle. Gli insuccessi si susse- guirono e, nella sua ultima spedizione, nel 1596, morì di dissenteria di fronte a Puerto Bello e venne sepolto in mare. Terminò così l’avventura di uno dei più famosi uomini di mare di tutti i tempi10 che ha incarnato uno degli esempi più significativi di esercizio della pirateria come forma di guerra asimmetrica, con un impatto determinante sugli equilibri strategici globali del conflitto anglo-spagnolo del XVI secolo. LA PIRATERIA COME FORMA DI GUERRA ASIMMETRICA NEL PASSATO Dall’analisi fin qui condotta, si può dunque affermare che, nelle epoche passate, la pirateria, nelle sue varie e multiformi declinazioni, si è configurata anche come una forma di guerra asimmetrica, inserendosi perfettamente all’interno di una logica di guerra totale.11 Prescindendo, quindi, dalle oggettive difficoltà nel distinguere in maniera rigorosa tra pirateria e guerra di corsa, vista la continua sovrapposizione dei due fenomeni i cui elementi costitutivi coincidono di fatto, emerge chiaramente che i centri di potere dell’epoca impiegarono sistematicamente i L’invincibile Armada L’attuale Dunkerke. Un pirata, ma anche un grande esploratore e un accorto uomo politico e militare. La stampa patriottica inglese, negli anni e nei decenni successivi, lo esaltò come salvatore della Patria e la sua figura rimase così impressa nell’immaginario collettivo inglese da alimentare la leggenda secondo la quale ogni volta che l’Inghilterra sarà in pericolo, se si suonaerà il tamburo di Sir Francis Drake, egli tornerà per salvare il paese. 11 F. ZAMPIERI, Alcuni esempi storici di lotta alla pirateria, saggio – 2012, 61 9 10 9 ������������ corsari quali veri e propri strumenti di guerra utilizzando, così, strategie asimmetriche al fine di compensare le proprie debolezze o conseguire speciali vantaggi nei confronti delle potenze antagoniste. LA PIRATERIA IN ETÀ CONTEMPORANEA L’indomabile sfrenatezza dei corsari ne decretò la loro fine. Le proteste contro quei Governi che, legittimando la corsa, finirono per conferire ad individui privati una vera e propria licenza di depredazione a fini istituzionali, portò dapprima alla limitazione, con il Trattato di Utrecht del 1713, e poi alla definitiva abolizione della stessa con la Dichiarazione di Parigi del 16 aprile 1856.12 L’abolizione della guerra di corsa non ha rappresentato, come noto, la fine della pirateria che è stata una pratica ampiamente diffusa anche in epoca moderna. Si stima che, negli anni tra il 1984 ed il 1999, siano stati 1587 gli attacchi al naviglio mercantile configurabili quali azioni di pirateria13 in tutti i mari del mondo; solo nel periodo ottobre – dicembre 2007 sono stati rilevati circa 70 incidenti14. La pirateria odierna è un fenomeno molto frastagliato. La presenza di gruppi dediti all’attività di pirateria è accertata in quasi tutti i mari del mondo15, benché il fenomeno abbia assunto di norma forma tanto limitata e sporadica da non destare di fatto particolare interesse a livello internazionale, venendo spesso relegato al massimo ad un problema di natura interna o al più regionale. Fino al 2004, infatti, la quasi totalità degli attacchi era concentrata nel Sud Est Asiatico e solo una parte distribuita nelle altre aree più sensibili quali il Mar dei Caraibi, l’Oceano Indiano ed il Golfo di Guinea. Dal 2005, la pirateria nel Corno d’Africa ha visto, invece, un incremento vertiginoso in termini sia statistici, rappresentando mediamente oltre la metà della totalità degli attacchi in tutto il mondo, sia geografici, estendendosi dal Golfo di Aden a tutto l’Oceano Indiano.16 17 In considerazione di quanto sopra detto, analizzeremo la pirateria nelle aree in cui essa presenta la massima intensità, estese zone di mare asiatiche e dell’Africa orientale18, allo scopo di comprendere se sia configurabile o meno come forma di guerra. La pirateria somala presentando una rilevanza strategica per l’economia nazionale19, operando in un’area ove la presenza di gruppi fondamentalisti è conclamata20 e dichiarando rivendicazioni territoriali, sarà oggetto di trattazione più approfondita. Definizione di pirateria Approcciando ad un’analisi del fenomeno, non si può prescindere dal riferimento ad una definizione. Molte sono le definizioni che è possibile trovare in letteratura, ma, ai fini della successiva trattazione, si è prefe- Si noti, peraltro, che la Costituzione statunitense (art. 1, sez. 8) prevede, ancora oggi, la possibilità di conferire al Congresso il potere di concedere patenti di corsa. 13 Focus on IMO, Piracy and armed robbery at sea, Londra, 2000 14 IMO, Reports on acts of piracy and armed robbery at sea, Londra, 2008 15 http://www.icc-ccs.org/piracy-reporting-centre/live-piracy-map 16 M. A NNATI – Statistiche IMB - Pirati di ieri e di oggi, Supplemento alla Rivista Marittima – Dic. 2009, Appendice 2. 17 Cit. Course on Comprehensive Approach to Counter Piracy Maritime Operations – Venezia 22-26 ottobre 2012. 18 Il fenomeno nel Golfo di Guinea, che giuridicamente non può considerarsi come pirateria, in quanto limitato in acque costiere, sta assumendo preoccupanti proporzioni, sia in termini statistici, come numero di attacchi, e sia di espansione geografica, da non potere, forse, essere più trascurato. 19 Si stima che nel Golfo di Aden transiti il 20% delle spedizioni commerciali mondiali. 20 Si pensi, tra gli altri, all’attacco suicida all’USS Cole del 12 ottobre 2000 nella rada di Aden. 12 10 ������������ Pirati Somali rito impiegare la nozione “ufficiale” convenuta in seno alle Nazioni Unite e formalizzata nella convenzione di Montego Bay del 1982.21/22 Questa definizione mette in evidenza alcuni aspetti caratterizzanti la pirateria, che permettono di distinguerla nettamente da altre attività criminose in mare: - è un fenomeno proprio dell’alto mare o, comunque, degli spazi non sottoposti alla giurisdizione di alcuno Stato. In caso contrario, si configura quale crimine che rientra nella sfera di competenza del diritto interno dello Stato che esercita la relativa giurisdizione; - è un’attività perpetrata da soggetti privati: non costituisce pirateria un atto di violenza commesso da una nave militare contro una nave privata, tranne nel caso in cui l’equipaggio della nave da guerra si sia ammutinato e s’impadronisca della nave per commettere atti di pirateria;23 - è condotta per fini privati: il fine ipotizzato è ovviamente quello di lucro. E’, quindi, escluso il movente politico.24 La pirateria nell’area asiatica Il Mar della Cina ha storicamente sempre rappresentato un ambiente ideale per la proliferazione del fenomeno della pirateria sia per il contesto geopolitico sia per l’elevato traffico commerciale, necessario oggi più che mai ad un’economia in forte crescita. Si stima che negli ultimi venticinque anni siano state più di 17.000 le unità attaccate nell’area tanto da indurre, nel 2005, i Lloyd’s di Londra ad inserire gli Stretti di Malacca nella lista delle zone a maggior rischio di pirateria, elevando l’ammontare dei premi assicurativi all’1% del valore di ogni cargo che vi transitava25. La fitta rete di informazioni e la compiacenza delle autorità locali corrotte consentono alle organizzazioni che fanno capo ai pirati26 di ricevere informazioni sui beni trasportati, puntando su quelli di maggior valore, mentre collegamenti in Indonesia e India favoriscono la vendita dei bottini sequestrati. Gli attacchi, portati generalmente a general cargo, bulk carrier, tanker, vanno dalla semplice rapina al sequestro, cui segue appunto la Importante sottolineare in merito come le norme riguardanti la pirateria contenute all’interno della Convenzione hanno assunto il rango di norme consuetudinarie e sono quindi vincolanti anche per i Paesi che non hanno sottoscritto il trattato. 22 Nella United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), 1982, l’art 101 definisce la pirateria come: “(a) any illegal acts of violence or detention, or any act of depredation, committed for private ends by the crew or the passengers of a private ship or a private aircraft, and directed: (i) on the high seas, against another ship or aircraft, or against persons or property on board such ship or aircraft; (ii) against a ship, aircraft, persons or property in a place outside the jurisdiction of any State; (b) any act of voluntary participation in the operation of a ship or of an aircraft with knowledge of facts making it a pirate ship or aircraft ; (c) any act of inciting or of intentionally facilitating an act described in subparagraph (a) or (b).” 23 F. CAFFIO e N. RONZITTI, La pirateria: che fare per sconfiggerla?, Osservatorio di politica internazionale n. 44, aprile 2012. 24 Idem. 25 Il decremento nell’anno successivo portò subito alla riduzione dei premi. 21 11 ������������ vendita del carico e la conversione della nave in ghost ship, dopo averla camuffata e rimessa in circolazione con nome e documenti falsi.27 Per i pirati e le organizzazioni criminali che li controllano, quindi, una duplice fonte di guadagno. Tale è la violenza dei pirati che tanti sono i casi in cui, al tentativo di resistenza all’abbordaggio, i membri dell’equipaggio vengono feriti o uccisi. Pochi sono i casi in cui tocca loro miglior sorte, ovvero il rilascio.28 La pirateria somala Per ragioni di sinteticità, l’analisi di seguito proposta prescinde da una completa e puntuale descrizione del fenomeno, tanto nella sua evoluzione storica, quanto nella sua conformazione attuale, e si focalizza su alcune caratteristiche rilevanti. La natura dei bersagli Nei diversi anni di attività, i pirati somali hanno attaccato e catturato navi di bandiera differente, non dimostrando alcun interesse “particolare” nei confronti di uno specifico bersaglio29, come evidenziato sia in passato sia recentemente. Allo stesso modo non hanno risparmiato nessuno, catturando anche navi battenti bandiera di paesi islamici30. La scelta dei bersagli è dettata dalla semplicità dell’operazione e dai rischi connessi: lo confermano i numerosi casi in cui la reazione dei gruppi armati a bordo di mercantili e navi da crociera ha fatto desistere i pirati dalle loro azioni31. 26 27 28 29 30 31 12 La natura delle azioni Tutte le navi sono state attaccate a scopo di cattura e per la successiva richiesta di riscatto; non si annoverano casi in cui siano stati condotti assalti per finalità differenti. Anche nei confronti degli equipaggi non sembra che sia stata usata violenza se non quella necessaria al conseguimento della cattura o per accelerare le pratiche di paga- Detti “i sindacati”, organizzazioni criminali che si sono spartiti il controllo dei tratti di mare, proprio come una forza navale. N. CARNIMEO – Nei mari dei pirati – Milano 2009. Nell’ottobre 1999 il M/V Aloandra Rainbow, partito dal porto di Kuala Tanjung diretto in Giappone, fu catturato dai pirati che si impossessarono di nave e carico, lasciando i 17 membri dell’equipaggio su canotti alla deriva. Dati tratti da IMO, Reports on acts of piracy and armed robbery against ships – monthly issued, gennaio - giugno 2012. A titolo di esempio si ricordano il M/V Al Nisr al Saudi, un tanker battente bandiera dell’Arabia Saudita e catturato nel marzo del 2010 ed il tanker Qana battente bandiera dello Yemen che è stato liberato dalle Forze Speciali dello stesso paese dopo essere stato abbordato dai pirati somali nell’aprile del 2009. Si pensi all’attacco respinto dalle guardie armate presenti a bordo della MSC Melody il 25 aprile 2009. ������������ mento dei riscatti. Lo dimostra il fatto che la maggior parte delle vittime tra gli equipaggi delle navi catturate si sia avuta durante tentativi di fuga o di liberazione (nel 2011 dei 35 marinai morti, 8 sono stati uccisi dai pirati durante o in seguito agli attacchi, 8 sono deceduti per malattia o malnutrizione e 19 sono deceduti in seguito a tentativi di liberazione o fuga32). Il flusso di denaro Secondo una stima condotta per l’anno 2011 dalla One Hearth Foundation33, sebbene gli introiti derivanti dall’esercizio dell’arte predatoria in Golfo di Aden e in Oceano Indiano rappresentino solo una minima parte dei costi economici sostenuti dalla comunità internazionale, non sono una cifra irrilevante. Notevoli sforzi sono stati profusi nel tentativo di ricostruire i collegamenti e le connessioni che un’organizzazione su vasta scala come quella degli attuali pirati somali ha dimostrato di avere. Ricomporre la rete dei contatti, il flusso del danaro proveniente dai riscatti pagati e così via potrebbe consentire di stabilire con chiarezza chi sono i finanziatori del fenomeno34 e, quindi, di stabilire chi eventualmente sia nella posizione di “controllare” i pirati stessi. E tale analisi po- trebbe essere alla base di una delle linee di azioni nel contrasto al fenomeno nel prossimo futuro.35 Ad oggi la scarsità di informazioni su chi finanzia direttamente o è, a qualsiasi titolo, coinvolto nel global business dei pirati è la maggiore lacuna informativa da colmare per una efficace lotta al fenomeno. Sebbene non sia da escludere che vi siano stati degli investitori che hanno volutamente finanziato i pirati per scopi ancora non noti, allo stato attuale si ritiene che il finanziamento alla pirateria sia strutturato come una “borsa”, ove i finanziatori acquistano e vendono “azioni” sui futuri attacchi36. In un contesto del genere, il finanziamento stesso alla pirateria si configura come un mero investimento finanziario in un mercato illegale. L’influenza islamica La Somalia è uno dei pochi paesi nel Corno d’Africa quasi totalmente islamico: secondo dati pubblicati dal World Trade Press nel 2010 circa il 99% della popolazione somala è musulmano, per la maggior parte di estrazione sunnita. Sarebbe poco ragionevole affermare che non esistano dei rapporti tra i pirati ed i movimenti terroristici di matrice islamica IMB AND OCEANS BEYOND PIRACY, The human cost of somali piracy (http://oceansbeyondpiracy.org), 2012 OCEANS BEYOND PIRACY, The economic cost of somali piracy, (http://oceansbeyondpiracy.org), 2011 Il fatto che non sia esclusivamente autofinanziato pare un’ipotesi più che probabile. 35 Cit. Course on Comprehensive Approach to Counter Piracy Maritime Operations – Venezia 22-26 ottobre 2012. 36 R. ATALLAH, Pirate Financing: Understanding and Combating a Complex System, Civil-Military Fusion Center (https:// www.cimicweb.org), 2012 32 33 34 13 ������������ operanti in territorio somalo, Al Shabaab su tutti, ma la natura di tali relazioni non è al momento chiara. Degna di nota però è la descrizione degli eventi susseguenti la cattura da parte dei pirati del M/V Sirius Star, battente bandiera saudita, il 15 novembre del 2008. Tale atto provocò una forte reazione da parte del mondo islamico e la Islamic Court Union identificò l’evento come un major crime. Il leader di Al Shabaab, d’altro canto, si spinse oltre affermando che, qualora la nave non fosse stata immediatamente rilasciata, sarebbe stata condotta un’azione di forza per la sua liberazione, cosa che sarà poi effettivamente tentata.37 In risposta alle pressioni ricevute, i pirati giustificarono l’azione condotta contro una nave battente bandiera di uno stato islamico per eccellenza come just business. Ciò a riprova delle motivazioni squisitamente economiche alla base delle loro azioni. LA PIRATERIA COME FORMA DI GUERRA OGGI Sulla base dei dati in possesso, non emergono indicatori che possano far presupporre un possibile impiego della pirateria come forma di guerra, né da parte di stati, né da parte di altri soggetti internazionali. La mancanza di specificità nella selezione degli obiettivi (non indirizzati verso una specifica “bandiera”) e, più in generale, la rispondenza delle azioni perpetrate esclusivamente ad una logica di guadagno economico, escludono la possibilità di interpretare il fenomeno in questa chiave. Considerazioni analoghe permettono, inoltre, di confutare la tesi, peraltro proposta da parte dei pirati stessi, secondo cui le azioni perpetrate al largo del Corno d’Africa sono da intendersi come la volontà di esercitare una forma di protezione degli “interessi marittimi nazionali” della Somalia. Al di là della volontà di fornire una sorta di giustificazione morale alle azioni perpetrate tramite il richiamo a nobili ideali38, nonostante le accuse mosse nei confronti di numerosi Paesi di aver sfruttato l’assenza di controllo conseguente la caduta del governo in Somalia per effettuare impunemente attività illecita a suo danno39, interpretare gli atti di pirateria commessi come forme di esercizio improprie di diritti funzionali riconosciuti agli Stati costieri dal diritto del mare è quanto meno opinabile. PIRATERIA, NON TERRORISMO Dall’analisi effettuata si evince, inoltre, che, sulla base dei dati attuali, non esiste una correlazione diretta tra la pirateria moderna ed il terrorismo. Gli atti di pirateria, oggi come in passato, mancano totalmente di quella connotazione politico/ ideologica propria del terrorismo. La scelta “casuale” del bersaglio non evidenzia la volontà di colpire un ben definito “nemico”40. Allo stesso modo la condotta di attacchi K. H AMILTON, The Piracy and Terrorism Nexus: Real or Imagined?, Australian Counter Terrorism Conference Edith Cowan University, 2010 38 Non è casuale la scelta di nomi quali la National Volunteer Coast Guard, organizzazione pirata operante nell’area di Chisimaio. 39 Ad esempio, la motivazione fornita a giustificazione del sequestro del rimorchiatore italiano Buccaneer, ovvero l’ipotetico rilascio di rifiuti tossici di fronte alle coste somale, resta tuttora infondata. 40 Gli effetti economicamente negativi derivanti dalla pirateria si riverberano tanto sulle economie dei Paesi occidentali, quanto su quelle dei Paesi esportatori, come confermato dallo sforzo multilaterale profuso nel combatterla. 37 14 ������������ Guerrieri Al Shabaab tramite l’impiego della quantità minima di violenza necessaria alla cattura mal si concilia con il perseguimento di una politica del terrore. Una delle maggiori preoccupazioni destate dalla recrudescenza del fenomeno della pirateria è tuttavia la possibilità che gruppi terroristici di matrice islamica, quali Al Shabaab, possano pensare di impiegare le capacità sviluppate dai pirati per incrementare la propria capacità di effettuare azioni sul mare. Sono state ventilate numerose ipotesi sulla possibilità di impiegare (pagando) i pirati per catturare navi da usare successivamente a fini terroristici: una gasiera può essere utilizzata come nave-bomba all’interno di un porto, si può affondare una petroliera in prossimità di una determinata costa per ottenere un danno ambientale non indifferente; la lista delle possibilità è lunga. Ancora una volta, come d’altronde evidenziato da numerose analisi in materia, la sostanziale differenza di obiettivi tra i due movimenti rende altamente improbabile una congiuntura di intenti tra loro. I pirati somali hanno piena consapevolezza che un qualsiasi accordo, più o meno palese, anche di natura puramente economica, che li colle- 41 ghi ad organizzazioni terroristiche attirerebbe su di loro reazioni da parte della comunità internazionale ben più dure delle attuali misure. Un rischio inutile in un momento in cui i guadagni comunque non mancano. TERRORISMO MARITTIMO E PIRATERIA Sulla base delle informazioni disponibili, abbiamo osservato come, al momento, nei teatri in cui la pirateria è statisticamente più sviluppata, essa abbia mantenuto il solo carattere di attività privata condotta da parte di individui organizzati a fini di lucro e non possa configurarsi come forma di guerra. Dall’analisi di un caso particolare però, osserveremo come sebbene il terrorismo marittimo e la pirateria siano due fenomeni assolutamente disgiunti da un punto di vista giuridico e motivazionale, possano essere legati da uno speciale rapporto (per esempio di strumentalità). Il caso: Liberation Tigers of Tamil Eelam (LTTE) Fondata nel 1976, dall’unione di gruppi armati di ispirazione marxista41, allo scopo di promuovere una campagna secessionista e Di Etnia indoasiatica. 15 ������������ mento) assunsero rapidamente la connotazione di una vera e propria squadra navale43, in quanto l’esperienza e la vocazione del leader fecero intuire l’alta valenza strategica che una flottiglia avrebbe rappresentato in supporto alle operazioni terrestri. La spina dorsale della flotta era rappresentata da imbarcazioni leggere in vetroresina, realizzate in loco con placche di rinforzo in acciaio e dotate di motori ad alte prestazioni, armate a seconda dell’impiego con mitragliere, fondare uno stato indipendente42 nell’isola di Ceylon, la LTTE ha rappresentato una delle massime espressioni nelle tecniche di guerriglia e guerra asimmetrica, nonché di gestione di tutta la catena logistica di supporto. La solidarietà di alcuni Paesi simpatizzanti, la possibilità di finanziarsi con il traffico di droga e il sostegno della diaspora tamil contribuirono alla nascita e allo sviluppo del movimento. Sotto la guida di Vellupillai Prabhakaran, nato e cresciuto in un villaggio sul mare con tradizioni di traffici illeciti, le Tigri riuscirono per circa 25 anni a tenere in scacco le Forze Regolari cingalesi. Noti per la loro elevata motivazione e l’enfatizzazione della morte, non basata su ideologie religiose, i guerriglieri di tamil introdussero varie innovazioni nelle tecniche della guerriglia e degli attacchi terroristici, quali l’inquadramento delle donne, la cintura esplosiva e gli attacchi suicidi con militanti di sesso femminile, allargando il loro campo di azione sia allo spazio aereo sia all’ambiente marittimo. Costituite inizialmente per garantire i rifornimenti via mare, le Sea Tigers (questo il nome della componente navale del movi42 43 16 Unità Navali dello Sri Lanka lanciagranate, artiglieria antiaerea e perfino missili terra-aria. L’impiego principale fu quello contro le unità della Sri Lankan Navy (SLN) ma furono utilizzate anche come piattaforme per tiri contro bersagli costieri. Numerose altre unità, dalle prestazioni inferiori, condotte da due o tre uomini per assicurare la necessaria “ridondanza” operativa furono impiegate per attacchi suicidi. Alcune di queste, realizzate con design stealth, erano dotate di un rostro per ottimizzare l’azionamento della carica esplosiva. La catena di comando assicurava ampia autonomia per adattare la propria tattica alla situazione contingente. Questo modus operandi, che pone il raggiungimento dell’obiettivo come prioritario a fronte delle perdite, consentì alle Sea Tigers di ottenere Rodolfo Tani, Le Tigri Tamil – Panorama Difesa n.254 giugno 2007, 42-47. Nel loro momento di massima espansione la forza navale era composta da un mini-sottomarino, undici navi da carico, tre pattugliatori veloci classe Dvora, quattro Fast Attack Craft (FAC), sei pattugliatori classe Mirage, otto battelli stealth, cinquecento imbarcazioni veloci in vetroresina, cinque scooter subaquei, due siluri guidati Human Torpedo Unit, con un organico di 3000 tra uomini, donne ed un gruppo di incursori subacquei. ������������ un gran numero di successi causando danni ad oltre un terzo della forza navale opponente. Riguardo all’aspetto logistico, le Sea Tigers garantivano, con unità da trasporto ad hoc, la movimentazione di vario materiale e di personale. Non ultimo, condussero atti di pirateria ai danni di navi di tutte le stazze e di diverse nazionalità, con lo scopo di finanziare la lotta armata. CONCLUSIONI La pirateria nella storia moderna, finora, è stata sempre un’attività privata condotta da gruppi più o meno organizzati e, sulla base degli elementi in possesso, non emerge alcuna evidenza che faccia pensare ad un suo impiego come strumento di guerra da parte di stati od organizzazioni. Il terrorismo, senza eccezione per quello marittimo, rappresenta invece la massima espressione ad oggi nota, di guerra asimmetrica. Le azioni condotte dall’LTTE ne sono una prova. Ciò detto, la storia ha insegnato 44 45 46 che i terroristi possono svilupparsi ed operare in contesti geopolitici similari e adottare il modus operandi della pirateria, sfruttando quello che da molti è stato definito un grey environment come quello marittimo44 ma solo per il perseguimento dei propri scopi, diversi da quelli dei pirati. Quindi, in estrema sintesi, possiamo affermare che un pirata non è un terrorista. Viceversa, un terrorista può diventare un pirata per necessità. La congettura poco rosea che la pirateria in Somalia possa essere uno strumento per piegare l’economia del Mediterraneo in favore dello sviluppo delle nazioni del nord Europa45 resta, al momento, tale. L’ipotesi romantica che la pirateria, in Africa, sia un sorta di contrappasso al colonialismo necessita di essere opportunamente suffragata. Concordando con quanto già affermato da fonti autorevoli46, la pirateria in Somalia potrebbe essere soltanto una nuova dimensione di criminalità organizzata o, piuttosto, una forma di guerra di sopravvivenza. Cit. Amm. Sq. (R) F. SANFELICE DI MONTEFORTE - conferenza BEYOND ATALANTA – Course on Comprehensive Approach to Counter Piracy Maritime Operations – Venezia 22 ottobre 2012. Cit. On. R. MIGLIORI – Lectio Magistralis: L’autunno arabo, risvolti incerti di una primavera promettente Venezia 27 settembre 2012, inaugurazione A.A. 2012-2013 UE, Relazione sulla attuazione della strategia europea in materia di sicurezza, Bruxelles, 2008, 8 17 ������������ LA PRESENZA DELLA REGIA MARINA A SUPPORTO DEGLI INTERESSI NAZIONALI IN SUD AMERICA ALLA FINE DELL’800 C.C. (CP) Antonio FRIGO T.V. (GN) Emiliano CIAMARONE T.V. (CM) Alfonso D’ABBIERO T.V. Francesco ADAMO T.V. (AN) Andrea VIRGILI La presenza della Regia Marina in Sud America, nel corso degli anni che vanno dal 1861 al 1900, non è, generalmente, argomento tra i più ricordati o studiati della storia navale, se non fra i più rigorosi ricercatori della materia. Tuttavia, tale attività, prolungatasi per un arco temporale assai ampio ed in ambito geografico così lontano dalla Madrepatria, costituì senz’altro un esempio di quella diplomazia “delle cannoniere”1, così comune tra gli Stati europei nella seconda metà dell’ ‘800. La dislocazione di alcune unità navali nei sorgitori più importanti dell’America meridionale - perlopiù a rotazione - permise al giovane stato postunitario di inserirsi nel novero delle Potenze marittime “globali” dell’epoca, non in modo sterile e velleitario ma, anzi, svolgendo un’importante attività di tutela degli interessi nazionali in un’area del globo pesantemente interessata dall’immigrazione e dagli investimenti di connazionali. Non solo, la presenza degli assetti navali nazionali in Sud America rappresentò anche un importante elemento di stabilizzazione, 1 18 per quanto interessata, dei conflitti, sia interni che internazionali, che affliggevano quella - allora turbolenta - parte del globo, costituendo un antecedente alle operazioni di “pacificazione” che hanno caratterizzato il consesso internazionale successivamente alla caduta del Muro. Vale la pena di rammentare, inoltre, che, come anche in occasione delle rivolte dei Boxer in Cina, alcune delle operazioni in Sud America possono essere prese quali primitivi esempi di attività combined con le Marine di altri stati europei. Per quanto sopra delineato, l’esperienza della Regia Marina in Sud America può costituire un interessante case study e fornire spunti per l’impiego dello strumento militare in un’ottica di smart power. LO SCENARIO GEO-POLITICO Le linee di tendenza generali dello scenario geo-politico nel Sud America, nella seconda metà del XIX secolo, si possono ricondurre ad una generale instabilità degli stati sorti dal disfacimento dei senescenti imperi coloniali spagnolo e portoghese. Tale instabilità aveva una duplice connotazione: esterna ed interna. Dal punto di vista esterno, in quanto le nuove entità statuali, lungi dal sentirsi affratellate dalla comune impronta “bolivariana”, avevano preso a confrontarsi, non solo diplomaticamente, in merito alla determinazione dei rispettivi confini. Per quanto concerneva, invece, gli affari interni, tale instabilità era causata dalla difficile amalgama di diversi gruppi etnici, dal protagonismo di personalità del mondo militare nel campo politico, dalla difficile riconversione dell’agricoltura dal modello coloniale ad uno più moderno e dalle resi- Vedi J. CABLE, Gunboat diplomacy, Londra, 1971, p. 9 e ss. In linea generale, si intende per diplomazia delle cannoniere “The application of limited naval force as one of the instruments of foreign policy…nor is the gunboat diplomacy normally exercised only by warships at sea: the landing of sailors, marines, soldiers and supplies is a common attribute”. ������������ stenze che l’industrializzazione embrionale, spinta dalle fasce maggiormente dinamiche della popolazione urbana e dagli investimenti stranieri, trovava presso il ceto latifondista, politicamente egemone. Inoltre, i nuovi stati, già alla nascita, si trovavano aggravati da pesanti debiti pubblici, che i successivi conflitti interni ed esterni portarono ad appesantire. Tale situazione di endemica debolezza, pur non portando ad interventi politico-militari volti ad una ri-colonizzazione da parte delle potenze europee, come ipotizzato dal concerto della Santa Alleanza negli anni ’20 del XIX secolo, anche in virtù del valore di “deterrenza” della dottrina Monroe, tuttavia, agevolò un pesante intervento nella vita economico-finanziaria da parte delle potenze europee e, successivamente, degli Stati Uniti. Si pensi, a solo titolo d’esempio, che i dividendi percepiti dalla Corona britannica per gli investimenti effettuati sulla rete ferroviaria sudamericana, nell’ultimo quarto del XIX secolo, erano superiori alle entrate percepite dalla tassazione dell’Impero indiano2. Peraltro, la presenza europea in Sud America non si estrinsecava solamente negli investimenti industriali o finanziari. Essa era caratterizzata anche da una progressiva e massiccia immigrazione, in particolare dalla Germania e dall’Italia, di manodopera qualificata nei campi agrario ed industriale. La disponibilità di forza lavoro di livello professionalmente superiore comportava, tra l’altro, forti frizioni sociali causate dalla presenza, nell’area sudamericana, di larghi strati di sottoproletariato bracciantile, generatosi, per esempio, anche a seguito dell’affrancamento prima, e dell’abrogazione poi, della schiavitù in Brasile: tale forza lavoro, infatti, era inadatta alle nuove esigenze produttive imposte dalla modernità. La presenza di investimenti e nutrite colonie di nationals in quelle terre lontane indusse, nella seconda metà dell’800, le potenze europee a svolgere una funzione di patronage degli interessi nazionali in modo sempre più pervasivo, fino a prevedere lo stazionamento, in modo più o meno stabile, di assetti navali. Per gli stati europei, infatti, l’acquisizione di influenza sulle vicende politico-economiche del continente, andava di pari in passo con una maggiore esposizione degli assets nazionali al rischio-paese. La presenza na2 vale, pertanto, veniva vista come garanzia e tutela di tali assets, finanziari ed umani, in caso di guerre e disordini, nonché come garanzia di un pronto ristoro risarcitorio in caso di danni conseguenti. Tale attività, che, alla sensibilità politically correct del giorno d’oggi, può sembrare intromissiva nella vita politica di Stati sovrani ed, in qualche modo, coercitiva, all’epoca era pratica comune e va contestualizzata. Si pensi, infatti, a quanto le distanze rendessero intempestivo qualsivoglia intervento direttamente dalla madrepatria. Non esistevano, inoltre, organismi internazionali che, in via politica o giudiziale, fungessero da “ammortizzatori” delle controversie tra Stati o tra uno Stato e sudditi di altri Stati. I collegamenti telegrafici e postali erano fallaci e le rappresentanze diplomatiche spesso non avevano carattere di stabilità. Il veloce avvicendarsi di regimi - spesso autoritari nell’area, inoltre, esponeva gli “stranieri” al frequente rischio di spoliazioni e violenze. I Comandanti degli assetti navali, pertanto, una volta dislocati oltreoceano, giocoforza, erano chiamati non solo ad adempiere alle direttive ricevute in madrepatria ma a compiere tutte quelle ulteriori attività politico-diplomatiche che, nella contingenza, si fossero rese necessarie, assumendo in pieno l’iniziativa e la responsabilità degli atti compiuti per conto del proprio Governo. In tale quadro di situazione, si inserì, pertanto, la presenza, già negli anni successivi all’Unità, di assetti navali della Regia Marina in Sudamerica. I PRECEDENTI PRE-UNITARI La presenza di immigrati ed investitori italiani nel Sud America, quale fenomeno numericamente consistente, anticipa sicuramente la grande stagione dell’immigrazione nel continente nordamericano, sviluppatasi a partire dall’ultimo quarto del XIX secolo. In effetti, la vicinanza climatica e linguistica e l’idoneità dei luoghi allo svolgimento di un’agricoltura simile a quella praticata nelle pianure italiane favorirono insediamenti di liguri, piemontesi e lombardi già agli inizi del 1800 nell’area platense, compresa tra Brasile meridionale, Uruguay, Argentina e Paraguay. Nella prima metà dell’800, pertanto, la situazione era tale per cui già il Regno sardopiemontese si dovette preoccupare di pianificare qualche forma di protezione a vantag- Vedi M. TORRI, Storia dell’India, Bari, 2002. 19 ������������ gio dei connazionali colà stabiliti. In quella fase storica, mentre, come detto, la presenza italiana in nord e centro America risultava ancora minimale, numerose colonie esistevano in Perù ed in Cile, e, tuttavia, la relativa stabilità dei due stati e l’agiatezza ed influenza politica dei nostri connazionali nel paese degli Inca non rendevano particolarmente urgente il rafforzamento della tutela che le locali residenze diplomatiche erano in grado di offrire. Più complessa era la situazione nella citata area del Rio della Plata, dove l’immigrazione risultava massiccia e lo spirito di iniziativa degli italiani aveva fatto sì che connazionali fossero divenuti imprenditori agricoli, titolari di compagnie di navigazione marittime e fluviali e di commerci e di professioni chiave. Ciò accadeva, in particolare, nell’area di Buenos Aires e di Montevideo. Come contrappasso, i connazionali presenti nel Brasile meridionale subivano le condizioni meno favorevoli dovute alla persistenza di un latifondismo semifeudale ed ancora legato a tecniche produttive labour-intensive, rese convenienti dalla presenza dell’istituto della schiavitù, abrogato solo alla fine dell’’800. Fin a partire dagli anni ’20, pertanto, la Marina sardo-piemontese cominciò a mantenere in modo stazionario propri assetti nell’America Latina. In particolare, a partire dal 1825 e fino al 1852 si alternarono lungo il Rio della Plata, le coste del Brasile e, più limitatamente, quelle del Pacifico, la fregata Haute Combe, le corvette Euridice ed Aquila, i brigantini Daino ed Eridano. DAL 1861 AL 1882 – LA DIVISIONE DELL’AMERICA MERIDIONALE Negli anni immediatamente successivi alla creazione del Regno d’Italia, la presenza di cittadini italiani distribuiti tra Argentina, Uruguay e Paraguay assommava a più di 200.000 unità. In particolare, per l’Uruguay si ritiene che la popolazione avente titolo a reclamare la cittadinanza del neonato Stato assommasse a circa un quinto della popolazione totale. Si trattava di demografie di assoluto rilievo3. 3 20 Il conflitto tra Paraguay e Triplice Alleanza L’occasione per ripensare e rinverdire l’esperienza sardo-piemontese, terminata nel 1852, si presentò allorquando, nel 1864, proprio nell’area platense, scoppiò la lunga guerra tra la “Triplice Alleanza” (Brasile, Argentina ed Uruguay) ed il Paraguay del Maresciallo Francisco Solano López. L’evento bellico si protrasse fino al 1870 e fu condotto con particolare ferocia, in particolare proprio dal López, senza alcuna considerazione per gli aspetti di umanitarismo che si erano già cominciati ad affermare nel consesso internazionale. Conflitto al contempo moderno e primitivo, si concluse con la catastrofe demografica per il Paraguay, che, a fronte di più di mezzo milione di abitanti, si ritrovò nel 1870 con una popolazione dimezzata e soli 29.000 maschi adulti. Le conseguenze che il conflitto comportò per la nostra comunità motivarono il Governo a costituire, nel settembre del 1865, pur nell’approssimarsi della Terza guerra d’indipendenza, la Divisione Navale dell’America Meridionale, al cui comando fu posto il Contrammiraglio Vincenzo Riccardi di Netro. Le navi che costituivano inizialmente la Divisione, la quale subì in seguito variazioni e scioglimenti, furono: la fregata ad elica Regina II (nave Ammiraglia), le cannoniere Ercole, Veloce, Ardita, il piroscafo armato Principe Oddone (noleggiato sul posto) e la fregata Principe Umberto. La missione del Contrammiraglio Riccardi di Netro consistette nell’accrescere l’influenza italiana in tutta l’America Latina (dalle Repubbliche equatoriali a quelle pacifiche, dall’Argentina all’Uruguay ed al Brasile), proteggere i connazionali ed i loro commerci, rendere più “pronta ed efficace” l’azione delle rappresentanze diplomatiche. Tale attività si svolse, secondo le raccomandazioni del Governo, nel rispetto della più assoluta neutralità, fatte salve le esigenze di protezione dei connazionali e gli interventi umanitari volti a mitigare le conseguenze del conflitto. Ulteriori istruzioni prescrivevano che fosse particolarmente curato il lavoro idrografico, allo scopo di migliorare le carte esistenti e di perfezionare le norme Vedi E. FALLENI e S. GUERRINI, L’ emigrazione italiana come espansione della nazione italiana. L’esempio della migrazione friulana in Argentina alla fine del XIX secolo, Rivista “Altrove” della Fondazione Paolo Cresci, n. 5 Gennaio-Giugno 2011, in particolare per l’individuazione delle quantità e qualità delle attività economiche intraprese dai nostri emigrati in Sud America. ������������ ed i suggerimenti per la condotta della navigazione. I documenti dell’epoca danno atto della diuturna attività della Divisione, che si spendette nell’assistenza e soccorso alle unità sia da guerra che mercantili che solcavano il Rio della Plata ed i fiumi navigabili che verso la Plata si congiungevano. La sede della Divisione, Montevideo, non offriva tra l’altro un ormeggio a banchina ma le unità permanevano all’ancora in rada, spesso battute da burrasche causate dai venti Pamperi. L’unico supporto logistico era dato dall’utilizzo a titolo oneroso, concesso dal governo uruguayano, dell’Isola della Libertà, dove erano presenti un deposito di carbone, un magazzino di rifornimento, un’officina di riparazioni ed una casermetta. Peraltro, la sostenibilità logistico-finanziaria della Divisione si presentò subito come di non facile soluzione, anche in considerazione del pesante debito pubblico che gravava il neonato Regno (la cd politica della “lesina”), tant’è che il Governo invitava il capo missione a prevedere (anche nella navigazione fluviale!) di privilegiare la navigazione a vela per le unità a propulsione mista e di provvedere a far rifornire le caldaie dei piroscafi non acquistando carbone, ma provvedendo al disbosco nelle aree dell’interno dove le cannoniere avessero occasione di fare sosta. Lo sviluppo degli eventi bellici, che videro frequentissimi episodi di guerra fluviale, costrinse le unità della Divisione ad una continua opera di vigilanza e difesa dei connazionali dai soprusi dei combattenti, nonché di supporto all’azione diplomatica volta all’ottenimento dei risarcimenti dovuti ai commerci italiani danneggiati, con largo impiego delle cannoniere lungo i corsi d’acqua dolce. Tra l’altro, la Divisione non poté quasi mai mantenere le proprie forze concentrate, per due ragioni fondamentali: da un lato in quanto le attività dovettero estendersi anche al Pacifico, a causa del conflitto tra Cile, Perù e Spagna, e, dall’altro per la necessità di vigilare sul traffico mercantile italiano in Argentina, a seguito della cessazione dell’accordo commerciale tra tale stato ed il Regno di Sardegna e che prevedeva un trattamento di “favore commerciale” per le unità dell’Italia, succeduta nell’accordo. Ed ancora, nel 1868, si innestarono frizioni diplomatiche con uno dei componenti della Triplice alleanza, l’Uruguay, host nation delle nostre forze. 21 ������������ La situazione a Montevideo era diventata pessima ed i rapporti dell’Italia coll’Uruguay si erano incrinati. Dopo aver conquistato il potere, il Generale Flores aveva respinto i reclami di parecchi residenti stranieri, tra cui molti Italiani, che chiedevano di essere risarciti dei danni subiti durante la guerra civile del 1861. Le richieste erano state sostenute dai rappresentanti diplomatici, ma senza esito. La diatriba continuava e certo non poté essere resa meno aspra dalla revoca del contratto d’affitto dell’isola della Libertà, fatta dal Governo uruguayano e motivata dal timore che l’occupazione di una parte del territorio nazionale da parte di una Marina estera potesse divenire stabile. Nel frattempo, sia per rimpiazzare la Regina e l’Ercole destinate al rimpatrio ed alla radiazione, sia per appoggiare le richieste di risarcimento, sia infine per rimediare in parte alla mancanza di una base, dall’Italia vennero mandate in rinforzo alla Divisione Navale la corvetta Etna ed il trasporto Des Geneys che poi era la ex-fregata sarda Haute Combe che arrivava per finire i suoi giorni ormeggiata a Montevideo come deposito e caserma della Divisione Navale. Al principio del 1868 Montevideo fu teatro di scontri di crescente gravità. Le Potenze estere inviarono navi e ben presto davanti alla città si trovarono concentrate, oltre ai legni italiani, una fregata e tre cannoniere inglesi, tre fregate spagnole, una fregata ed una cannoniera francese, tre cannoniere americane e quattro brasiliane. Tra la fine di gennaio e i primissimi giorni di febbraio del 1868 i disordini aumentarono e culminarono nell’uccisione del Presidente Flores. La squadra internazionale, per decisione concorde dei comandanti delle varie divisioni navali, mise a terra reparti di fanteria di marina e batterie da sbarco una prima volta dal 6 al 9 febbraio e una seconda dal 19 al 27, facendo loro occupare le dogane in via cautelativa, ma con l’ordine di non intervenire, se non provocati od assaliti, a meno che non fosse necessario difendere la vita e gli averi dei connazionali residenti a Montevideo. Preoccupato dall’atteggiamento insurrezionale della popolazione, il Governo uruguayano chiese l’intervento della squadra internazionale. 22 In qualità di Ufficiale più anziano il Contrammiraglio Anguissola ne assunse il Comando e fece eseguire lo sbarco il 30 maggio, mantenendo i reparti a terra fino al 10 giugno, quando il rinvio della manovra finanziaria tranquillizzò la città. Intanto l’8 giugno, erano arrivate le tre navi provenienti dall’Italia e, insieme a loro, il nuovo Comandante della Divisione, il Contrammiraglio Evaristo Del Carretto. Le trattative in sospeso coll’Uruguay ripresero e vennero portate a felice compimento poco tempo dopo, cosicché intorno alla metà d’agosto la Regina e l’Ercole poterono partire alla volta dell’Italia. Nello stesso anno (1868), le forze della Regia Marina, nell’ambito al conflitto paraguayano, fu richiesto di svolgere una missione a cui il governo nazionale assegnava un valore diplomatico di primo rilievo. Si trattava di proteggere, su esplicita richiesta del Regno di Prussia, le popolazioni germaniche presenti nei territori tra Argentina e Paraguay, particolarmente numerose. Alla luce dell’alleanza del 1866, portatrice della vittoria nella II Guerra d’Indipendenza, le pressioni politico-diplomatiche furono tali da far mantenere alla Divisione l’impegno anche allorquando le unità destinate a tale servizio sarebbero dovute andare ai lavori e gli equipaggi cominciarono ad assottigliarsi a causa della malaria che imperversava nell’area. Con il 1° marzo 1870, data termine del conflitto, non si concluse l’attività della Divisione. Disordini non sopiti in Uruguay e Paraguay mantennero la situazione fluida e meritevole di monitoraggio continuo. Tuttavia, alla fine del 1871, con il rientro in patria di nave Etna, unità comando, venne sciolta la divisione ed il comando della Stazione Navale della Regia Marina venne affidato al Capitano di Fregata Angelo Sardo, sulla corvetta Caracciolo giunta da poco dall’Italia. Le altre attività e lo scioglimento della Divisione Dal 1873 al 1877 una serie di insurrezioni, rivoluzioni, guerriglie di confine, epidemie di febbre gialla e di colera provarono lungamente l’efficienza e la prontezza operative delle unità rimaste, le cannoniere Ardita, ������������ Quanto sopra anche in considerazione che il lustro 18781882 fu caratterizzato da maggior stabilità nell’area, a parte alcune sommosse nel 1880 in Argentina ed Uruguay. A partire dal 1877 la Stazione Navale aveva avuto ordine, inoltre, di non seguire più troppo da vicino gli avvenimenti delle tre Repubbliche del bacino del Plata, ma di estendere il proAmmiraglio Enrico ACCINNI prio raggio d’azione anche alle coste Veloce e Confienza, tutte dell’epoca sardobrasiliane, per mostrarvi la bandiera naziopiemontese, tant’è che, al termine del quinnale e rinsaldare i legami fra la Madrepatria quennio, il Comandante, Ammiraglio Enrico e le colonie italiane. Accinni propose al Governo di rinnovare le Le Regie navi presenti erano: Confienza, unità della Stazione, con altre maggiormenGovernolo, Ardita e Veloce, vecchie e di te efficienti e moderne, anche per salvaguarpoco peso militare, che servivano solo a dare il prestigio nazionale agli occhi della mostrar bandiera, certo non a ingaggiare dei nascente Marina argentina e poter allargare confronti armati con le Marine locali: occoril raggio d’azione ad aree esterne all’ambito re, a tal proposito, sottolineare l’inadeguadel Rio della Plata. tezza delle cannoniere stazionarie, sia per la L’operazione di pacificazione di maggior luloro vetustà, sia per la loro inutilità, tanto stro consistette, nell’autunno del 1874, nelche nel settembre del 1879 il Ministero del’esfiltrazione da Buenos Aires del Generale cise la loro radiazione. Le bandiere vennero Mitre, che gruppi insurrezionali intendevaammainate definitivamente e i tre equipagno portare alla presidenza. Al fallimento del gi passarono sul Governolo. E solo l’arrivo golpe, il Mitre si recò a bordo della Veloce, dell’Archimede consentì d’evitare che la dichiarando di volersi ritirare a vita privata Stazione restasse su una sola nave. e richiedendo di poter recarsi all’estero sotMa le necessità di presenza ed eventuato protezione italiana. le interposizione sulla costa del Pacifico, Successivamente, la Stazione Navale, fino nate dalla guerra fra Perù, Bolivia e Cile, al 1879, non fece altro che sostenere l’atrestavano, anzi, aumentavano. Per questo tività diplomatica dei rappresentanti del Re il Ministero aveva spedito a Montevideo e mostrar bandiera qui e là lungo tutto il siun’altra unità, la Regia cannoniera Scilla, stema fluviale sfociante nel Rio della Plata che, benché abbastanza nuova, risultò tale - ma con molta minor frequenza - lungo le mente inadatta che toccò all’Archimede coste del Brasile fino a Rio de Janeiro. La spostarsi nel Pacifico. formazione, da parte delle nazioni sudameCosì fu la Scilla a dover intervenire nel Plata, ricane, di marine militari di una certa consiquando si acuirono i dissapori interni incostenza suggeriva l’opportunità di mantenere minciati ai primi del 1880 in Argentina, dove una postura non presenzialista e di limitare le dispute erano incentrate sul rinnovamengli interventi di diplomazia navale allo stretto della Presidenza e la contesa elettorale si to necessario. trasformò in una lotta della Confederazione 23 ������������ Incrociatore Cristofero Colombo Incrociatore Flavio Gioia contro la Capitale. Il 10 giugno la situazione sembrava tanto prossima al limite di rottura da indurre la Scilla a spostarsi davanti a Buenos Aires, che era bloccata da terra dall’Esercito e dal mare dalla Marina argentina. In quel frangente, il Comandante Grandville manifestò tutta l’inadeguatezza dell’apparato navale italiano, scrivendo direttamente al Ministero4. È interessante notare che la presenza veniva intesa come una manifestazione della potenza nazionale, certamente a tutela dei propri interessi, ma soprattutto a sostegno del diritto internazionale, cioè dei principi di giustizia, libertà ed equità che sono alla base della concezione occidentale della civiltà. Per quanto riguardava le navi, era evidente che i Regi Legni non potevano essere considerati una manifestazione di potenza, almeno non quelli in così cattive condizioni di fasciame e di macchine che erano al momento sul Plata, ma certo, fino a quel momento, erano serviti assai bene a ricordare ai poteri locali che oltre un certo limite di illegalità potevano andare incontro a gravi conseguenze. L’altra esigenza molto ben fronteggiata era stata quella del soccorso ai connazionali, di solito esteso anche a tutti quelli che ne abbisognavano. Restava 4 24 Incrociatore Amerigo Vespucci Pirocorvetta Caracciolo semmai da decidere se e quanto a lungo uno strumento così vecchio avrebbe potuto mantenere credibilità e capacità di rappresentanza e trattativa. Era evidente che una simile decisione competeva al Ministero, ma essa era consequenziale ad un’altra decisione, quella degli obbiettivi della politica estera; ed era il Governo del Re a doverla prenderla, non il Ministero della Marina. Il Governo del Re doveva decidere i risultati da perseguire, stabilire i mezzi ed erogare i fondi necessari. Il Governo, in quel periodo, però, non riteneva d’avere obbiettivi prioritari in America Meridionale, perché di lì a pochissimo, coll’inaugurazione della “politica delle mani nette” fatta dal presidente del Consiglio Cairoli al Congresso di Berlino, si sarebbe scelta la facile strada del profilo più basso possibile in politica estera, strada che avrebbe portato a gravi danni nella prima metà del secolo successivo. Nel 1879, tuttavia, a seguito della guerra tra Cile e Bolivia, alla quale si era alleato il Perù, il Governo valutò l’opportunità di tutelare gli interessi nazionali inviando alcune unità lungo le coste cilene e peruviane, costituendo per due anni circa la Divisione del Pacifico, formata dalla fregata Garibaldi che stava compiendo il giro del “Mi convinco sempre di più delle necessità di avere delle piccole cannoniere sulle rive del Plata se si vuole aiutare moralmente la preponderanza italiana in questi paesi. Alcuni non credono all’influenza della bandiera se non è al bisogno appoggiata efficacementee subito dalla forza. Io credo che l’influenza d’una nazione nei paesi di governo poco stabile si esercita moltissimo col mostrare la propria bandiera ovunque ed in ogni piccolo incidente giacché in tal modo questa nazione ricorda a tutti che essa intende invigilare gli interessi e la vita dei suoi cittadini all’estero. Non è certo la presenza momentanea di alcuni stazionari che può intimorire un governo che transiga colle leggi ma essa serve di monito onde si rifletta sulle conseguenze dannose che possono derivare da sistemi riprovevoli verso i forestieri. L’effetto morale della bandiera per chi è fuori del proprio paese consiste nel convincere chi la vede che essa sosterrà tutto quanto è riconosciuto come diritto nelle nazioni.” ������������ mondo, dall’incrociatore Colombo anch’esso in circumnavigazione del mondo e dalla corvetta Archimede trasferita dalla Plata al Cile. Peraltro, è da sottolineare che, in tale occasione, il Regno agì anche come Potenza tutelare per i cittadini di altri Stati che non avevano assetti nell’area del Pacifico americano. In effetti, l’area del Pacifico risultò essere, per il primo lustro degli anni ’80, quella di maggior attività per la Regia Marina, con continue crociere lungo le coste del Cile settentrionale, Perù ed Ecuador ed avvicendamenti di unità. La degenerazione, verificatasi nel 1883, con l’insurrezione contro il Presidente Veintimilla, in Ecuador, comportò la necessità di tutelare la colonia di 600 italiani presenti a Guayaquil, città nella quale i lealisti si erano asserragliati dopo la cacciata del presidente da Quito. La situazione risultava particolarmente complicata a causa della formale mancanza di relazioni diplomatiche tra Ecuador ed Italia, in conseguenza dell’occupazione di Roma del 1870. Privo di un interlocutore diplomatico nazionale, con cui concordare una linea d’azione, il Comandante del Caracciolo, De Amezaga dovette assumere su di sé le funzioni consolari, censendo i connazionali ed i loro beni presenti nella città e preparando un piano di esfiltrazione degli stessi, con l’ausilio dei mercantili nazionali presenti in rada. L’abilità diplomatica del De Amezaga e, successivamente, del Comandante Palumbo del Vettor Pisani, che negoziarono con entrambe le parti in lotta per la salvaguardia degli interessi italiani, fecero sì che al momento dell’assalto finale alla città da parte degli insorti non si registrassero danni o vittime tra i connazionali. Dal lato atlantico, invece, nel 1882, anno di crisi italo-francese a seguito dell’occupazione della Tunisia da parte di Parigi nell’anno precedente, il Governo dispose di richiamare in patria le unità presenti. Vale la pena ricordare, quale prodromo della futura crisi italo-brasiliana, di seguito ricostruita, come già nel 1878, il Comandante Giustino Gonzales, a bordo del Governolo, segnalasse al Governo italiano, successivamente all’effettuazione di una crociera lungo le coste brasiliane, le angherie patite dai nostri nazionali per mano delle locali autorità. 5 DAL 1883 AL 1906 – LA RICOSTITUZIONE DELLA DIVISIONE, LA CRISI BRASILIANA E LE ULTIME ATTIVITÀ Gli interventi in Colombia e Argentina Nonostante la decisione di richiamare gli assetti navali a seguito della crisi italo-francese, nel biennio 1883-84 rimase comunque nella zona del Rio della Plata lo Staffetta, in alternanza iniziale con lo Scilla. Tuttavia, già nel 1885, anno dello sbarco a Massaua, si registrò un rinnovato interesse a far operare la Regia Marina su di uno scacchiere globale. Si trattava dell’epoca del binomio De Pretis - Brin, rispettivamente al governo del Regno e della Marina, e si ritenne opportuno, tra l’altro, ricostituire la Divisione dell’America Meridionale, agli ordini del Contrammiraglio Giuseppe Mantese. Gli assetti iniziali ivi destinati erano i nuovi incrociatori/navi-scuola Vespucci, nave ammiraglia, e Flavio Gioia, già ridislocato in Perù e Cile dal 1884, l’incrociatore Colombo e la cannoniera Sebastiano Veniero (di 650 tonnellate, con 4 cannoni da 120 mm e progettata proprio per l’impiego fluviale). La Divisione fu chiamata ad operare lungo le coste di tutto il continente sudamericano, dei Caraibi e del Centroamerica. La prima missione qualificante consistette nella protezione degli interessi nazionali in Colombia, dove le pesanti intromissioni di alcuni nostri concittadini nella turbolenta vita politica locale, in particolare tramite l’appoggio finanziario fornito a talune fazioni politiche mediante istituti bancari da essi fondati, portarono al deterioramento delle relazioni diplomatiche, alla necessaria presenza di unità navali nell’area per due anni e, finalmente, all’effettuazione di un’operazione di liberazione dalla prigionia ed esfiltrazione di connazionali5, mediante l’incrociatore Flavio Gioia e lo sbarco di truppe a Buenaventura il 6 luglio 1885. L’episodio, tra l’altro, causò la definitiva rottura delle relazioni, un ulteriore lungo negoziato per il risarcimento dei nostri connazionali e, dopo il fallimento delle trattative, il bombardamento di Cartagena nel 1895, ad opera dell’Ammiraglio Candiani, al comando di una task force di cinque incrociatori. L’episodio comportò anche l’intervento diplomatico degli Stati Uniti, lato- Tra di essi, l’ex garibaldino Ernesto Cerruti, titolare di una società di esportazione di chinino ed altri prodotti coloniali dalla Colombia e principale artefice dei finanziamenti contestati alla fazione radicale, tramite il Banco del Cauca. Vedi per un’approfondita ricostruzione del caso F. TAMBURINI, Le operazioni di gunboat diplomacy della Regia Marina contro la Colombia nel 1885 e nel 1898, “Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare”, a. XX, giugno 2006 25 ������������ tuazione argentina; le presidenze conservatrici susseguitesi dal 1880 erano state brevemente insidiate nel biennio 1888-1890 dal tentativo rivoluzionario di Leandro N. Alem. Gli immigrati italiani, in tale frangente, già nascente élite economica del Paese, vedevano i loro interessi minacciati. L’invio del Vespucci coincise con la fine dei lavori per la costruzione del nuovo porto di Buenos Aires e le fonti riferiscono come l’atri di interessi contrapposti a quelli italiani, e che tentarono, con il cosiddetto “Lodo Cleveland”, di conciliare le posizioni. La definitiva chiusura del contenzioso si ebbe solo nel 1899. Le campagne caraibiche del periodo 188586, mediante l’impiego del Vespucci e del Flavio Gioia, videro la presenza della Regia Marina anche nei porti delle Grandi e Piccole Antille, dove le turbolenze dovute all’abrogazione della schiavitù avevano portato i connazionali ad essere vessati ed a subire inadempienze contrattuali. Nel 1888, il deteriorarsi ulteriore delle relazioni con la Francia e l’accendersi della guerra dei dazi, a seguito della denuncia del Trattato doganale italo-francese che comportò conseguenze disastrose all’agricoltura del Regno, nonché l’impegno coloniale in Eritrea, con il confronto militare apertosi con l’Abissinia, indussero il Governo ad azzerare la presenza della Regia Marina in Sudamerica. Ancora, tuttavia, il corpo diplomatico di stanza in America meridionale ritenne voler richiedere la presenza della Regia Marina, tant’è che il Brin, sul finire del 1889, si determinò a ripristinare una stazione navale, inviando prima il Vespucci (al comando del Capitano di Fregata Emilio di Falicon) e, successivamente, anche le cannoniere Sebastiano Veniero ed Andrea Provana6. In tale momento, particolare attenzione era riservata dalla diplomazia italiana alla si- 6 26 Ammiraglio Camillo Candiani tracco dell’unità fu salutato, nel febbraio 1890, da folle acclamanti, radunate dalle Associazioni italiane di Mutuo Soccorso. Dopo una successiva visita a Montevideo, il Vespucci si recò lungo le coste di Perù e Cile, nel 1890, sempre in funzione protettiva degli interessi dei concittadini coinvolti nei disordini locali, per poi rimpatriare l’anno successivo. Le cannoniere, invece, dispiegarono la loro attività esclusivamente nella regione platense e lungo le coste brasiliane, come vedremo in seguito. Vedi M. VERNASSA, All’origine dell’interessamento italiano per l’America latina. Modernizzazione e colonialismo nell’epoca Crispina, Pisa, 1996. ������������ Il 1892, anno di celebrazioni colombiane, vide la costituzione della Divisione Navale d’America, comandata dal Contrammiraglio Magnaghi e composta dagli incrociatori Etna, Bausan e Dogali, e dalle cannoniere Veniero e Provana. Mentre la prima fase delle celebrazioni si svolse a New York, le cannoniere, invece, rimasero nell’America del Sud, sempre in duplice veste militar-diplomatica e celebrativa. Dal punto di vista della rappresentanza, la presenza della Regia Marina a New York, nell’ottobre 1892, si risolse in un pieno successo, con straordinarie accoglienze da parte delle autorità statunitensi e della comunità italiana e la partecipazione del Bausan e dell’Etna alla parata navale di 36 navi da guerra da Hampton Roads a Norfolk e poi a New York. L’eco dell’accoglienza e della considerazione si riverberò positivamente anche presso i connazionali presenti in Sud America. La crisi brasiliana Oltre alla crisi argentina, di rapida risoluzione, l’altro motivo che indusse il Governo a ricostruire la Divisione Navale alla fine del 1889 fu la spirale distruttiva in cui era cominciato ad essere inviluppato il panorama politico brasiliano. Tale situazione era dovuta al travagliato passaggio dal popolare regime imperiale di Don Pedro di Braganza a quello repubblicano federale, con sanguinose repressioni delle molte manifestazioni filo-monarchiche e la paralisi istituzionale del nuovo assetto (la Costituzione entrerà in vigore solo dopo 14 mesi di transizione, il 24 febbraio 1891), nonché ai tentativi del governo, in mano ai latifondisti, di modificare le demografie a favore dei terrieri, in modo da sostituire, a parità di salario, gli schiavi recentemente affrancati con manodopera agricola maggiormente qualificata, alimentando l’immigrazione di europei, cosa che spesso sfociava in frizioni di tipo etnico, di cui molto spesso facevano le spese proprio gli italiani. Dal punto di vista economico, lo stato era pesantemente indebitato nei confronti degli investitori franco-britannici e, più in generale, delle potenze europee e nordamericana, in quanto sistematicamente queste ultime richiedevano pesanti risarcimenti in occasione di disordini che avessero colpito gli assets economici dei propri concittadini. Il tentativo di limitare l’incidenza del debito pubblico e, particolarmente, degli interessi su di esso (similmente alle odierne politiche monetarie dell’Unione Europea!) con azioni deflattive, tra l’altro, portò, dopo una prima fase di contenimento dei prezzi, ad un rallentamento generale dell’economia e, di conseguenza, all’aumento dell’insoddisfazione e dei disordini. 27 ������������ Incrociatore Dogali Nel novembre nel 1891, la situazione sembrò precipitare, con il Presidente de Fonseca, appoggiato dalla Marina, che sciolse le camere dopo mesi di contrasti e che, successivamente, fu costretto a dimettersi. La popolazione reagì con una sollevazione che sfociò in guerra civile, con epicentri negli stati meridionali di Santa Catarina e Rio Grande do Sul, dove la presenza italiana era molto forte. Ad una prima fase intensamente diplomatica, che culminò, nel luglio del 1892, in un accordo con il Governo legittimo per la tutela degli interessi italiani, il permesso per le cannoniere della Regia Marina di operare lungo il fiume Paraguay e l’effettuazione di attività congiunte tra il Veniero e la corazzata costiera brasiliana Riachuelo, a bordo della quale imbarcava il Ministro della Marina, seguì un rafforzamento della presenza nazionale, con il ridislocamento del resto della Divisione, al comando dell’Ammiraglio Magnaghi, accorso con la sua nave ammiraglia, l’Etna, più il Bausan, il Dogali ed il Provana. Il 1893, tuttavia, vide un ulteriore peggioramento della crisi: il 6 settembre la Marina brasiliana si rivolse contro il Governo e lo stesso Ministro, Ammiraglio Custodio de Mello, guidò una ribellione, che nel porto di Rio de Janeiro portò alla cattura della corazzata costiera Aquidaba. L’Esercito, invece, rimase fedele al Governo. A quel punto, le principali Marine mondiali concentrarono su Rio de Janeiro proprie unità, costituendo una forza combined a protezione del naviglio mercantile di bandiera e dei rispettivi interessi e cittadini. Quale primo presidente del consiglio delle Marine fu 28 designato proprio l’Ammiraglio Magnaghi. La presenza contemporanea a Rio delle forze di terra lealiste e delle unità navali ribelli, che continuavano a bombardarsi a vicenda, e delle Marine euro-nordamericane non poteva non innescare incidenti e, difatti, la notte del 7 novembre 1893, un marinaio del Bausan rimase vittima del fuoco. Alla fine del 1893 le contingenze politiche italiane, tuttavia, ed in particolare il perdurante conflitto economico con la Francia, la riduzione dei bilanci militari, il riavvicinamento franco-russo e la caduta del primo Incrociatore Etna governo Giolitti, imposero all’Ammiraglio Morin, succeduto all’Ammiraglio Racchia come Ministro della Marina nel secondo governo Crispi, di far rientrare Etna e Bausan. A quel punto, il pallino del gioco diplomatico-militare ricadde in mano statunitense. Forti dell’arrivo di un robusto assetto formato da cinque incrociatori agli ordini del Contrammiraglio Andrew E.K. Benham, gli U.S.A. assunsero il ruolo di coordinare le forze di questa coalition of the willings ante litteram ed avviarono una trattativa negoziale segreta con le parti in conflitto. Peraltro, il conflitto, tra il 1893 ed il 1894, si aggravò ulteriormente, estendendosi anche all’interno del Brasile e vedendo la nascita di una terza fazione in lotta. Il 1894 risultò essere l’annus horribilis della guerra civile brasiliana e della presenza della Regia Marina nel Sud America, non tanto per il coinvolgimento in sanguinosi episodi d’arme, che non avvenne, quanto per l’imperversare del morbo della febbre gialla, che fece numerose vittime tra gli equipaggi, oltre che tra i militari e civili brasiliani, tant’è che, prima il Dorgali, poi le due cannoniere ������������ dovettero far rientro in Italia, non prima di aver effettuato una deviazione verso Buenos Aires, dove dovettero dar man forte alle autorità diplomatiche, impegnate a negoziare altri risarcimenti ai connazionali, a seguito della guerra civile argentina del 1892-93. Contrariamente alla percezione del Governo, la situazione brasiliana non accennava a migliorare. Le violenze continuarono nei confronti dei connazionali ed anzi, gli attriti diplomatici tra Italia e Brasile si acuirono poiché, a fronte di una formale disponibilità dei brasiliani a riconoscere i risarcimenti dovuti ai nostri connazionali a seguito delle distruzioni subite nel corso della guerra civile, nessuna misura concreta fu mai posta in essere ed anzi le violenze presero ad essere indirizzate specificamente verso gli italiani, in particolare nello stato del Nordeste, tanto che anche l’equipaggio dell’ariete torpediniere Liguria, giunto all’inizio del 1895 in Brasile, venne coinvolto. Tale delicata situazione veniva resa ancor più difficile per gli equipaggi della Regia Marina dal riacutizzarsi della febbre gial- Fregata Regina II Italia il gabinetto Crispi, in seduta segreta, determinò di preparare una dimostrazione navale contro il Brasile, per indurlo con la forza ad adempiere alle obbligazioni assunte, a similitudine di quanto avvenuto con la Colombia, ma, tenendo conto delle dimensioni, del rilievo economico e della forza militare dell’avversario, con assetti molto maggiori. Pertanto, nell’agosto stesso re Umberto I firmò il decreto costitutivo della Squadra dell’Atlantico, con voluta enfasi giornalistica data alla notizia, sia in patria che nel Sud America, per tentare un’ultima operazione di suasion. Vi è da dire che l’intransigenza dilatoria del governo brasiliano era motivata, oltre che dal comprensibile desiderio di non appesantire con ulteriori esborsi i conti pubblici, anche dalla necessità di non scontentare le turbolente masse popolari, cui la comunità italiana era stata lasciata, in qualche modo, “in pasto” per far sfogare le frustrazioni dovute alla crisi economica. Ad ulteriore complicazione di un intervento massivo vi era la presenza di unità navali argentine in porto a Rio de Janeiro, per non tacere del rischio che i nostri connazionali in Brasile avrebbero potuto correre in caso di deflagrazione del conflitto. Il 23 settembre, a bordo dell’ariete torpediniere Piemonte giunse a Rio il nuovo plenipotenziario De Martino. L’arrivo dell’Unità, per la programmazione della campagna, era considerato di vitale importanza, poiché da essa dipendeva la raccolta informativa circa gli apprestamenti difensivi, la flotta e le forze mobilitabili in Brasile. Peraltro, anche la presenza argentina, nel frattempo, era venuta meno. Cannoniera Veniero la, che costrinse al rientro in patria del Lombardia, venuto a sostituire il Liguria. Si pensi che 138 marinai e 5 ufficiali su 11, tra cui il Comandante, il Capitano di Fregata Antonio Olivari, ne rimasero vittima. Infine, nell’agosto 1896, a Sao Paulo, Santos e Pernambuco scoppiò una sorta di insurrezione contro gli italiani, al grido di “viva Menelik!”. Nonostante il plenipotenziario Magliano caparbiamente continuasse le trattative con il governo brasiliano per ottenere un onorevole accordo in merito ai risarcimenti, in 29 ������������ A quel punto, il Vice Ammiraglio Accinni (Comandante in Capo della Squadra Navale) venne incaricato dal Ministro Brin di redigere una relazione da sottoporre al decisore politico7. Emerse come fosse sconsigliabile, in considerazione del comunque perdurante stato di tensione con la Francia e della necessità di garantire i collegamenti con la colonia eritrea, sguarnire il Mediterraneo di un numero di unità navali che un’operazione massiva, sia in termini di potenza di fuoco che di supporto logistico, avrebbe comportato. Quest’ultima considerazione comportava come ulteriore conseguenza la ricerca di un accordo con una potenza regionale per lo stabilimento di una base di supporto logistico, in modo da poter accorciare significativamente la relativa catena dello stesso supporto. Sebbene Argentina ed Uruguay fossero, in linea di tendenza, in rapporti non amichevoli con il Brasile, appariva dubbio che gli stessi si sarebbero prestati ad interpretare il ruolo di host nation, in particolare ove le operazioni si fossero protratte. Altri tre fattori analizzati risultarono particolarmente critici: - l’impegno finanziario che sarebbe risultato avrebbe portato le non floride casse del Regno, già provate dai negativi risvolti dell’impresa coloniale, ad una situazione ancor più difficile, tanto più che il rapporto tra la somma dei costi preventivati ed i risarcimenti per i danni subiti dai connazionali durante la guerra civile brasiliana, da una parte, e le entrate presunte che sarebbero derivate dall’amministrazione forzosa della dogana del porto di Rio de Janeiro (modalità tipica di ristoro dei diritti vantati dalle potenze europee dell’epoca, ove non soddisfatte per via diplomatica nelle richieste di risarcimento, come già avvenuto nel’operazione di Cartagena) non garantiva il raggiungimento del pareggio; - le risorse economiche del Brasile, le sue dimensioni e la sua catena di supporto logistico breve, unitamente all’impossibilità italiana di effettuare operazioni di power projection in profondità e non limitate all’occupazione di qualche porto avrebbero 7 8 30 Ministro Benedetto Brin comportato la possibilità per l’opponente di poter resistere a tempo indeterminato, attendendo il logoramento della forza di spedizione; - non si poteva escludere che Argentina e/o Uruguay, in caso di prolungamento delle ostilità, decidessero di intervenire a favore del Brasile o che, addirittura, in applicazione della dottrina Monroe, gli Stati Uniti ritenessero di sostenere il nostro opponente. In base al rapporto presentato dal Piemonte, e da altre esperienze maturate, l’Accinni ritenne inoltre di escludere l’eventuale supporto da parte dei nostri connazionali in Brasile8. I nostri rivali non avevano da temere la “quinta colonna”. Al contrario, ci si sarebbe potuti aspettare una recrudescenza nei confronti dei nostri connazionali. Dal punto di vista classicamente navale, l’analisi ritenne squilibrato a nostro favore il confronto. Vedi M. GABRIELE, Su un progetto di spedizione navale italiana contro il Brasile nell’anno 1896, in “Storie e politica”, anno II, fasc. II, aprile-giugno 1967. “… Le nostre colonie libere si assimilano facilmente al Paese dove si stabiliscono, ne abbracciano costumi, abitudini e finanche l’idioma, dimenticando quello della loro nazionalità. Esse non riconoscono la Patria se non per i sentimentali entusiasmi e, mi rincresce dirlo, ben poco quando, per compiere verso di essa forti doveri, debbasi provare virilità d’animo”. ������������ La flotta brasiliana risultava obsoleta e carente nelle manutenzioni, sebbene gli ufficiali fossero ben formati ed agguerriti. Chiaramente, il vantaggio logistico era fortemente dalla parte dei brasiliani. Le problematiche logistiche, la necessità di portare a termine un’azione veloce e non prolungata nel tempo, senza allontanarsi troppo dalle eventuali basi del Mar della Plata, nonché le cautele da adottare per non collidere con gli interessi franco-britannici nella zona di Pernambuco indussero i pianificatori ad immaginare un’operazione limitata ai porti del sud del Brasile, in particolare Santos, evitando di ingaggiare la flotta brasiliana nei porti ma facendolo in mare aperto, sfruttando così la superiorità dello strumento navale, per poi procedere all’occupazione della dogana di Rio, senza ingaggiare i muniti forti. Gli assetti che si ipotizzò dovessero essere impiegati erano due corazzate rapide della classe Italia, 8 arieti torpedinieri, 4 incrociatori ausiliari, 6 torpediniere d’alto mare e 4 torpediniere costiere (tipo Schichau), oltre al naviglio minore ausiliario per i rifornimenti di carbone, munizioni e acqua. Lo studio dell’Ammiraglio Accinni, intitolato “Considerazioni generali”9, appare eccezionalmente preciso e rigoroso nell’individuare vulnerabilità, capacità e requisiti sia dello schieramento italiano che di quello brasiliano e nell’evidenziare i rischi della missione. Lo stesso appare, inoltre, chiaro nel distinguere i livelli strategico, operativo e tattico della campagna e prende in considerazione elementi dell’ambiente naturale e geografico, delle relazioni politiche, sociali, economiche ed infrastrutturali dell’area di operazioni tali da rendere l’analisi dell’interrelazione tra tali elementi e la missione molto vicina all’odierno comprehensive approach. Gli aspetti logistico/finanziari furono, poi, ulteriormente sviscerati dal Contrammiraglio Palumbo, comandante della Divisione Volante di stanza ad Augusta. Lo studio previde una durata massima dell’operazione di 5 mesi (inclusi i tempi di proiezione ed uscita dal teatro) ed un fabbisogno di 40.000 tonnellate di carbone, oltre a lubrificanti, mu- 9 nizionamenti e viveri. I rifornimenti erano previsti dover essere convogliati su Santos ogni settimana per quattro mesi. Ciò costituiva una sfida non indifferente, poiché presupponeva lo stabile mantenimento del controllo del porto brasiliano già dalla fase iniziale dell’operazione e la capacità finanziaria di pagare i noli per i mercantili impegnati nell’attività di rifornimento. Ulteriori criticità erano dovute all’alea circa la disponibilità di mine negli arsenali brasiliani, impiegate durante la guerra civile, e lo stato di avanzamento delle nuove costruzioni brasiliane (in particolare 2 corazzate costiere, 1 incrociatore protetto e naviglio silurante). Prima che la decisione finale potesse venir presa, alla fine del 1896, il plenipotenzario De Martino raggiunse un accordo con il governo di Rio de Janeiro, tramite il quale parte delle richieste risarcitorie vennero soddisfatte e la sicurezza delle nostre comunità venne maggiormente garantita. Pertanto, la pianificazione della campagna brasiliana fu abbandonata. Va sottolineato come le controindicazioni di ordine finanziario e logistico, la mancanza di chiarezza da parte del decisore politico circa i limiti e la natura della campagna nonché il rischio, non adeguatamente minimizzabile, di escalation del conflitto ad altre potenze regionali o financo europee erano tutti elementi sufficienti a fa ritenere non ipotizzabile e velleitario un intervento militare. Tanto più che il Brasile era dotato di una “massa critica” geografica, logistica, di risorse e popolazione sufficientemente grande da potersi permettere di attendere passivamente l’esaurimento dello sforzo della Regia Marina, magari ponendo in essere mere azioni di logoramento. Il fallimento dell’operazione, evento tutt’altro che improbabile, viste le premesse evidenziate, sarebbe stato un ulteriore durissimo colpo alla credibilità del Regno ed al suo prestigio internazionale dopo il coevo disastro di Adua. Probabilmente, conseguenze perniciose si sarebbero, inoltre, riverberate anche a livello interno, già scosso dal malcontento sociale. Per l’intero documento vedi M. GABRIELE e G. FRIZ, La politica navale italiana dal 1885 al 1915, Roma, 1982, p. 78 e ss. 31 ������������ Le ultime campagne A partire dal dicembre del 1896, le attività della Regia Marina nel Sud America furono focalizzate sulla protezione dei concittadini in Uruguay, piagato da insurrezioni, repressioni e lotte tra fazioni politiche che si succedevano rapidamente, modificando in modo imprevedibile il quadro politico locale. L’incrociatore Umbria fu l’unità maggiormente presente nell’area della Plata, fino al novembre 1898. Tra l’altro, la politica di presenza della Regia Marina agevolò l’acquisto da parte dell’Argentina, in preparazione della guerra con il Cile, di quattro incrociatori costruiti presso i Cantieri Ansaldo di Genova (il primo dei quali fu, significativamente, il General Garibaldi) e già in corso di allestimento per conto della Regia Marina. Il conflitto ispano-statunitense a Cuba ed alcune controversie con stati del Centro America spostarono il focus della politica nazionale nell’America Latina. A tal uopo, l’Ammiraglio Brin, poco prima di morire, costituì la nuova Divisione Navale Oceanica, al comando dell’Ammiraglio Candiani. Essa comprese gli incrociatori Carlo Alberto, Bausan, Umbria, Calabria, Etna, Piemonte e Dogali, unitamente al piroscafo Bisagno, impiegato quale piattaforma di supporto logistico. La presenza della Divisione nei porti colombiani di Cartagena e Buenaventura, nel luglio del 1898 concluse l’annosa controversia con la Colombia e fu prodromica alla riapertura delle relazioni diplomatiche nell’anno successivo. Ulteriori attività, di rappresentanza, ebbero luogo nelle Antille olandesi ed in Brasile, nonché in Venezuela, nel 1899, a difesa degli interessi dei 12.000 connazionali, nel corso del cinquantatreesimo colpo di stato. Dal 1901 alla fine del 1906, quando fu sciolta la Divisione Navale, le nostre unità continuarono ad operare in America Latina, distinguendosi nel blocco del Venezuela del 1903, senza partecipare ai bombardamenti anglo-tedeschi contro fortificazioni costiere ed all’affondamento delle unità navali venezuelane, ed a Panama nel 1905, per tutelare i 3.500 lavoratori italiani impiegati nello scavo del Canale. Il momento storico era, tuttavia, mutato, gli ordinamenti degli stati 32 sudamericani ormai tutelavano ampiamente i lavoratori stranieri, i nostri connazionali erano divenuti soggetti economicamente vitali e politicamente rilevanti in quelle nazioni, approfondendo ancora di più il fenomeno di spinta integrazione, già evidenziato nella relazione dell’Ammiraglio Accinni. I governi sudamericani erano, inoltre, sempre più infastiditi dall’idea di una stabile “tutela” militare straniera sul proprio territorio e, mano a mano che Argentina, Uruguay e Brasile divennero elementi pivotali dell’economia internazionale, quali produttori di commodities indispensabili alle industrie euro-statunitensi, venne loro naturale rivendicare la piena sovranità nella gestione delle questioni interne. Nel generale contesto di politica internazionale, poi, l’intervento statunitense a Cuba, saldamente motivato dall’apparato dottrinario formulato dal Monroe, e l’impulso dato dal Presidente Theodore Roosevelt, sulla scorta delle teorie del Mahan, alla più piena affermazione degli Stati Uniti quale potenza marittima globale, avevano posto la definitiva parola finale all’interventismo europeo nel continente sudamericano. Sul piano interno italiano, poi, altre erano le sfide a tenere impegnato il Governo: le varie crisi politico-militari nello scacchiere europeo, i problemi generali di bilancio, l’affermarsi in modo sempre più convincente del socialismo massimalista. Non apparve, così, più opportuno mantenere una stabile presenza navale nel Sud America. Si chiuse così, anche per l’Italia, la stagione della politica delle cannoniere e della tutela diplomatico-militare degli interessi dei connazionali in terra straniera. CONCLUSIONI Il filo rosso della politica delle campagne navali sudamericane non può essere compreso a fondo se non si tiene presente quale fosse la delicata situazione del nuovo Regno d’Italia, all’indomani dell’unificazione. Sorto alla vigilia della fase di maturazione, in Europa, dell’età dell’imperialismo economico, coloniale e politico e della seconda rivoluzione industriale, il Regno si trovò da subito a dover giocare, per necessità, ambizione, oggettiva collocazione geo-politica ������������ e dimensioni demografiche il ruolo della potenza di medie dimensioni, senza che, però, fossero maturi gli strumenti industriali, culturali e finanziari necessari a sostenere tale ruolo, anche militarmente. Stretta tra alleanze utili a garantire il completamento del processo risorgimentale (quella con la Prussia nel 1866) e, successivamente, la sicurezza nei confronti di vicini ingombranti (la Triplice con gli Imperi centrali in funzione antifrancese), l’Italia, proprio per le limitazioni che tali alleanze comportavano, non poté seguire la naturale vocazione d’espansione lungo il corridoio adriatico e verso i Balcani né contrapporsi all’espansionismo francese in Tunisia, altra naturale zona d’influenza geopolitica, in considerazione della vicinanza alla Sicilia, dei vantaggi strategici e della robusta presenza di investimenti italiani e di connazionali presenti10. D’altra parte, la preoccupazione della difesa delle coste da un’eventuale azione francese, timore mai venuto meno sin quasi alla vigilia del primo conflitto mondiale, aveva orientato i Governi, particolarmente quelli della Destra storica, a potenziare lo strumento navale, puntando ad una decisa modernizzazione dello stesso, parallelamente allo sviluppo del settore siderurgico, avvenuto con il concorso dei capitali tedeschi. Prendendo in considerazione un altro fatto- re chiave, di natura economica, si deve porre l’attenzione sul fatto che l’Italia, in ragione delle proprie peculiarità geografiche (baricentro delle linee di traffico passanti per il Mediterraneo) e storiche (presenza di una portualità diversificata e diffusa lungo il territorio, anche a causa dell’insistenza di diversi stati lungo la penisola fino al 1861), si trovava ad avere, negli anni successivi all’Unità, una flotta mercantile oscillante tra la terza e la quinta posizione a livello mondiale11, con un controvalore di circa 200 milioni di lire dell’epoca12. Tale flotta, già prima del 1861, operava ben al di là del Mediterraneo, spingendosi fino a Singapore ed Hong Kong ad Est e lungo le coste atlantiche e pacifiche delle Americhe ad Ovest. Di più, in considerazione della scarsità, sul territorio nazionale, delle risorse naturali necessarie a far compiere il balzo in avanti nell’industrializzazione, i Governi post-unitari capirono presto che il mantenimento e potenziamento dei traffici mercantili era un elemento chiave per poter garantire il flusso di materie prime necessarie e l’esportazione delle manifatture nazionali. Per fare ciò furono, tra l’altro, approvate leggi di sussidio alla produzione ed acquisto di mercantili in acciaio13, oltre che erogati i cosiddetti premi di navigazione in base alle miglia percorse ed ai carichi trasportati14. Appare chiaro che i due paralleli potenziamenti marittimi, Vedi M. GABRIELE e G. FRIZ, La politica navale italiana dal 1885 al 1915, Roma, 1982, p. 23 e ss. Vedi E. CORBINO, Statistica marittima, Napoli, 1944, p. 64. 12 Vedi G. RONCAGLI, L’industria dei trasporti marittimi in Cinquant’anni di storia italiana, Roma, 1911, p. 27. 13 Leggi 3547 del 1885, 6230 del 1889 e 318 del 1896. 14 Vedi E. CORBINO, Il protezionismo marittimo in Italia, in Economia dei trasporti marittimi, Città di Castello, 1926, p. 319 10 11 33 ������������ navale e mercantile, unitamente alle esigenze di approvvigionamento ed alla volontà politica di affermare il ruolo dell’Italia nel consesso internazionale, avrebbero portato la nazione ad esprimere una propria peculiare forma di “potere marittimo” e di naval diplomacy in particolare. Perché la naval diplomacy sia stata esercitata per così lungo tempo – circa sessant’anni – e con dispiegamento di assetti così consistenti nei confronti degli stati del Sud America può essere compreso solamente mettendo in correlazione i vincoli all’agire in Adriatico, Balcani e Levante, che il sistema di alleanze, di cui l’Italia era sodale già a partire dal 1866, comportava, 34 con un fattore demografico chiave, vale a dire l’immigrazione massiccia di elementi nazionali italiani in America Latina già ben prima dell’Unità e, pertanto, la presenza in quei territori di una comunità nazionale, incrementatasi massicciamente anche negli anni a seguire, estremamente consolidata, economicamente forte e, sostanzialmente, compartecipe nel garantire il flusso di materie prime necessarie alla madrepatria. Al di là di alcuni atteggiamenti ondivaghi, dovuti principalmente alla necessità di concentrare gli assetti navali in ragione delle controversie con la Francia, dell’apertura dell’opportunità coloniale in Eritrea, del successivo collasso in Abissinia e di alcune ������������ crisi minori nei Balcani e nel Levante, per sessant’anni l’Italia manterrà ferma la propria politica interventista in Sud America. Si tratta di una costante di politica estera, che perdurò addirittura più a lungo dell’alleanza con Berlino. Di primo acchito, la naval diplomacy italiana in Sud America può ben essere inquadrata all’interno della tradizionale gunboat diplomacy, comune all’età degli imperialismi del XIX secolo, dove la presenza degli assetti navali a fianco della diplomazia costituiva il più tipico strumento di suasion, nel corso di trattative particolarmente spinose con controparti resilienti. Tale coincidenza si dimostrò particolarmente vera durante l’affaire Cerruti ed il conseguente bombardamento di Cartagena, in Colombia, e tuttavia è necessario fare dei distinguo, poiché, a ben vedere, la presenza navale in Sud America costituì anche qualcosa di più e di diverso da una serie sessantennale di operazioni di diplomazia delle cannoniere. La peculiarità viene compresa, in realtà, proprio dalla lettura dell’elemento demografico più volte evidenziato nel corso della tesi. Diversamente dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dalla Germania o dagli Stati Uniti, l’Italia si trovò ad esercitare la naval diplomacy in un contesto spaziale profondamente caratterizzato dalla presenza di concittadini che, a loro volta, erano diventati cerniera e ponte tra l’Italia stessa e gli stati sudamericani. La loro presenza massiccia condizionò in modo decisivo i metodi con cui fu esercitata la diplomazia navale. Infatti, volendo esaminare le operazioni svolte dalla Regia Marina in Sud America alla luce delle categorie dell’applicazione politica del potere marittimo, come individuate dal Luttwak, si comprende come la quasi totalità delle stesse rientrino nell’ambito della cosiddetta naval suasion in supportive mode. Appare significativo, pertanto, che in Colombia, dove si verificò l’episodio più macroscopico di azione coercitiva con l’uso della forza da parte della Regia Marina, la presenza di immigrati italiani fosse del tutto residuale se paragonata ai flussi che investirono gli altri stati presso i quali i nostri assetti erano soliti operare. Altrettanto peculiare è il fatto che l’agire della Regia Marina abbia cagionato, nel sessantennio preso in considerazione, la rottura di relazioni diplomatiche solamente con la Colombia. Tale peculiare situazione, tutta italiana, comportò la necessità di dover dosare in modo clinico l’impiego della forza, per non compromettere la situazione delle masse di connazionali, limitandola soltanto ai casi veramente indispensabili. Appare, a tal fine, paradigmatico l’indirizzo dato dal Governo, nel 1865, al momento di aprire l’esperienza della Divisione, all’Ammiraglio Riccardi di Netro. Le istruzioni, cui si è già fatto rapido cenno, possono riassumersi nei seguenti concetti: - presenza militare finalizzata a far acquisire maggior prestigio all’Italia in quelle terre, sia agli occhi dei nostri emigrati che del ceto politico locale; - supporto all’azione diplomatica dei plenipotenziari operanti nel Sud America, in modo da favorirne l’azione volta alla stipulazione di accordi commerciali, all’ottenimento di migliori condizioni di vita per i nostri emigrati e di risarcimenti per i danni di guerra; - mantenimento della più stretta neutralità nelle contese tra gli stati sudamericani o tra le fazioni in lotta tra di loro, in modo da non inficiare il lavoro diplomatico, o rischiare di esporre ad inutili minacce i nostri assetti umani ed economici presenti nelle aree a rischio; - difesa delle vite umane e dei beni dei nostri connazionali, ove in pericolo a causa di guerre o lotte intestine; - intervento umanitario a favore degli altri assetti “stranieri” ed anche delle popolazioni civili locali; - arricchimento del patrimonio informativo idrografico, geografico, politico e militare. Alla luce degli eventi, possiamo considerare la missione affidata alla Regia Marina in Sud America come un successo. Le campagne, infatti, contribuirono ad accrescere il prestigio del giovane Regno non solo agli occhi dei nostri concittadini emigrati, ma anche a quelli della classe politica, diplomatica e militare sudamericana e, finanche, agli occhi delle potenze europee e di quella nordamericana. A tale proposito, vanno citati i seguenti casi: la frequenza con cui 35 ������������ gli assetti navali delle potenze europee venivano coordinati da Ammiragli della Regia Marina; le richieste di protezione richieste dalla diplomazia prussiana a favore delle popolazioni germaniche coinvolte nel conflitto paraguayano; le richieste di garantire la cornice di sicurezza avanzate dai Governi sudamericani, in più occasioni, durante moti insurrezionali. Il prestigio dei nostri Comandanti, inoltre, era tale che, in più di un’occasione, essi furono richiesti di farsi garanti e negoziatori di tregue e cessate il fuoco, nel corso di moti insurrezionali e guerre civili. La difesa degli interessi dei connazionali in Sud America fu, parimenti, raggiunta, nella maggior parte dei casi, con un uso estremamente limitato della forza e la diplomazia italiana, coadiuvata dalla Regia Marina, poté portare a buon fine svariati accordi commerciali. La Marina, in sostanza, fu veramente garanzia della prosperità delle nostre comunità. Peraltro, i risultati furono ottenuti in situazioni di perenne complessità logistica, di ristrettezze nel finanziamento delle missioni e di mancata sostituzione delle piattaforme obsolete. Dal punto di vista strettamente navale, le campagne furono un utile campo di prova per i nostri equipaggi, in preparazione delle campagne coloniali che si svilupparono a partire dagli anni ’80. Inoltre, permisero 36 agli ufficiali ed agli equipaggi di potersi confrontare e collaborare con alcune delle migliori marine mondiali dell’epoca, accrescendo così il patrimonio di conoscenze marittime, tecnologiche e militari, giungendo fino all’esecuzione di missioni combined. Si trattò, tra l’altro, di una necessaria attività di rigenerazione e riconquista della fiducia e coscienza di sé dopo l’annichilente esperienza di Lissa. Limitare, infatti, l’impiego della Regia Marina al solo presidio della costa tirrenica in attesa del sempre paventato attacco francese, posto che altre missioni in Adriatico o nel Levante non erano ipotizzabili, per le considerazioni fatte ad inizio capitolo, avrebbe grandemente nuociuto alle capacità operative delle nostre unità. Le esperienze sudamericane, invece, permisero di temprare gli uomini, rendere coesi ed “italiani” gli equipaggi confluiti dalle marine preunitarie e mettere alla prova i mezzi, particolarmente quelli varati a seguito delle leggi navali propugnate dal Brin. Applicando le categorie dottrinarie attualmente utilizzate per l’analisi degli strumenti del potere nazionale, si può comprendere come gli assetti navali della Regia Marina furono l’elemento cardine dello strumento militare al servizio dell’espressione degli interessi nazionali nel Sud America, nel corso del XIX secolo. Tale strumento seppe essere credibile ed efficace sia quando ������������ impiegato in chiave dissuasiva che di neutralizzazione. La Regia Marina, tuttavia, seppe fare di più: i Comandanti presenti nel teatro, in più di un’occasione, dovettero assumere su di sé anche la funzione dello strumento diplomatico, intraprendendo negoziazioni delicate, il cui fallimento avrebbe compromesso la credibilità nazionale. Proprio la credibilità accumulata dal punto di vista militare e l’atteggiamento neutrale nelle questioni locali fecero sì che i Comandanti italiani fossero particolarmente richiesti ed apprezzati come negoziatori. In conclusione, nello scacchiere sudamericano, la Regia Marina fu un credibile strumento di potere di una media potenza con interessi globali, quale già l’Italia poteva essere considerata negli anni successivi all’unità. La flessibilità e gradualità con cui lo strumento fu impiegato dal decisore politico rappresentano, senza alcun dubbio, un significativo esempio di smart power prima dell’avvento delle teorizzazioni dottrinarie che ne hanno sistematizzato le declinazioni. Le campagne sudamericane della Regia Marina, pertanto, sono meritevoli di più approfonditi studi, alla luce delle moderne concezioni dell’impiego dello strumento militare, in generale, e di quello navale in particolare, nonché delle indicazioni che la rilevante manualistica NATO fornisce in merito alla pianificazione operativa. Esse, infatti, possono fornire spunti di riflessione rilevanti in materia di gradualità nell’impiego degli strumenti di potere dello stato in senso smart e di dimensione diplomatica della Marina e, su di un piano più strettamente operativo, sono interessanti case studies in materia di comprehensive approach, e sostenibilità logistica degli assetti expeditionary 37 ������������ PRIVATE MILITARY COMPANIES - CONTRACTORS CHI SONO? C.C. (CP) Giovanni CAVALLO T.V. (CP) Pietro CIERI C.C. (GN) Giacomo PETRUZZI T.V. (AN) Davide AMODEO T.V. Emanuele BISCINI L’offerta privata di servizi militari ha subito nel corso degli ultimi anni una radicale trasformazione: essa è passata da un modello ben conosciuto a livello internazionale, che si potrebbe definire tradizionale, rappresentato dalla figura del soldato mercenario, al più moderno esempio delle società militari private, i cui leader non sono più gli spietati capitani di ventura che hanno proliferato durante gli anni Sessanta e Settanta (anche se alcuni di questi personaggi calcano ancora la scena internazionale), ma vestono i panni di veri e propri businessmen, attori di un mercato, quello della sicurezza, sempre più globalizzato ed integrato. Molteplici sono stati i motivi che hanno consentito nel recente passato una crescita esponenziale sia del fatturato che delle capacità d’impiego delle Private Military Company (PMC): - la fine del sistema dei blocchi contrapposti, che ha costretto molti degli stati satelliti, non potendo più ottenere aiuti militari, addestramento e armi dai due schieramenti, a ricorrere al mercato privato; - la gravità di una crisi finanziaria mondia- 38 le, la quale da un lato ha costretto a tagliare i bilanci pubblici, tra cui quello della difesa, e dall’altro ha reso sempre più importante la salvaguardia della stabilità dei Paesi e dei siti nei quali vengono estratti gli idrocarburi e le risorse primarie più in generale; - la possibilità di non disperdere proprie risorse umane in caso di sforzo bellico, grazie all’esternalizzazione di servizi di supporto e logistici immediatamente disponibili sul mercato; - la possibilità per gli Stati di utilizzare, in alcuni casi anche per azioni di combattimento, risorse non direttamente inquadrate nelle proprie Forze Armate. L’ATTIVITA’ OPERATIVA DELLE PRIVATE MILITARY COMPANY Le PMC, realtà aziendali le cui attività sono di carattere strettamente militare, sono in grado di assicurare la partecipazione diretta a conflitti armati interni ed internazionali, formare l’addestramento e l’equipaggiamento ai membri delle Forze Armate e offrire servizi logistici agli apparati militari di uno Stato. La confusione e le contraddizioni generate dall’idea che un’azienda privata porti avanti incarichi militari, ritenuti prerogativa dello Stato, è rispecchiata anche dalla mancanza di una definizione consensuale su cosa costituisca una società militare o anche una società di sicurezza privata (PSC - Private Security Company). Le PMC e le PSC (definite anche collettivamente con l’acronimo PMSC) sono architettate con una chiara struttura gerarchica aziendale, hanno titoli quotati in borsa, producono strategie di marketing e promozionali e seguono le leggi commerciali degli Stati dove sono radicate. Nelle sedi ope- ������������ rative il consiglio d’amministrazione della società, con un ridotto numero di personale fisso, gestisce i contratti e le pratiche d’ufficio mentre per ogni nuova missione sul campo vengono reclutate task force ad hoc di esperti militari attraverso contratti temporanei personalizzati. Si tratta di organizzazioni fisse e flessibili allo stesso tempo, il cui scopo principale è il profitto aziendale, molto differente dall’immediata paga in contanti richiesta dai mercenari. A differenza di questi ultimi che operano nell’anonimato e al di fuori della legge, le organizzazioni private fanno pubblicità delle loro operazioni e delle loro capacità. Questo si traduce in un punto di forza e di credibilità per le compagnie operanti nel settore che, attraverso una costante operazione di lobbying, cercano di ottenere una migliore posizione giuridica nelle legislazioni nazionali e nel diritto internazionale al fine di uscire dalla posizione incerta in cui si trovano. Le categorie dei servizi disponibili offerti con maggior frequenza da tali compagnie private risultano essere le seguenti: - Consulenza: il personale civile ingaggiato per fini di consulenza militare è scelto tra i più grandi esperti di strategia militare e di Intelligence. Rientrano in questa categoria di servizi l’analisi della minaccia, lo sviluppo di strategie e di progetti di riforma dei Ministeri della Difesa e delle Forze Armate, nonché i servizi riguardanti l’addestramento, solitamente in favore di militari e Forze Speciali, relativamente ad armi, linguaggi, informazione & disinformazione di guerra (INFOOPS), operazioni psicologiche (PSYOPS); - Supporto: il supporto alle Forze Armate è l’insieme di tutte le funzioni non letali e di assistenza; data la natura non strettamente militare dei servizi, quello del supporto rappresenta un settore in cui la presenza del privato ha giocato sempre un ruolo fondamentale. Rientrano in questa categoria di servizi anche quelli riguardanti la manutenzione e la riparazione degli armamenti, così come servizi tecnici, controllo aereo e Intelligence; la ragione principale risiede nel fatto che le operazioni belliche portate avanti dagli Stati militarmente più capaci fanno affidamento su strumenti tecnologicamente molto avanzati che richiedono la costante presenza di specialisti; - Combattimento: in questo settore, dove spesso sconfinano i servizi di consulenza, il quadro si complica notevolmente sia a causa della molteplicità e diversificazione dei compiti portati avanti sia a causa della natura dinamica e camaleontica dei soggetti privati in esame. Schierando personale armato, le PMC diventano potenziale bersaglio di attacco e si trovano spesso nelle condizioni di operare in maniera del 39 ������������ tutto analoga ai soldati in uniforme; alcuni contratti, infatti, prevedono di svolgere compiti estremamente importanti essendo inseriti nel quadro generale delle operazioni: disarmo, sminamento, smaltimento di esplosivi, raccolta e distruzione di armi, protezione di convogli, profughi, organizzazioni di aiuto umanitario e personalità importanti. QUADRO GIURIDICO Le definizioni di Private Military Company e di Private Security Company non derivano da alcun testo normativo internazionale, tanto meno da qualche ordinamento interno statuale, e tra l’altro non sono neanche utili in senso assoluto ad individuare senza ombra di dubbio la tipologia di servizi a cui si sta facendo riferimento1. La figura del private contractor, affermatasi negli ultimi venti anni, non ha assunto ancora una sua precisa veste giuridica che va intanto ricercata distinguendola certamente da quella del mercenario, viceversa ben definita e oggetto di numerose norme internazionali, utilissime per meglio chiarire a contrario le caratteristiche delle ben più moderne società di servizi militari. Nel panorama normativo internazionale la figura del mercenario è stata ben definita grazie all’art. 47 del I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra (1949 – 1977) con cui si è sancito in modo inequivocabile la sua non riconducibilità allo status di combattente legittimo, con l’esclusione, in caso di cattura, dal diritto al trattamento di prigioniero di guerra. Tale articolo però non sanziona le azioni dei mercenari, né disciplina le loro responsabilità e i crimini che possono commettere; non li condanna moral1 2 3 4 40 mente, si limita a discriminarli dagli altri combattenti. E’ singolare osservare che in tale Protocollo è presente una norma che in teoria prevede un caso in cui anche i dipendenti di una PMC possono essere equiparati ai legittimi combattenti: l’art. 43, 3° comma, il quale prevede una definizione di combattente omnicomprensiva2, in quanto considera combattenti appartenenti alle Forze Armate del belligerante le forze, i gruppi e le unità armate e organizzate, quando siano poste sotto il comando responsabile della condotta dei propri subordinati ed il cui impiego sia stato notificato alle altre parti in conflitto. È questa una norma di rilievo che potrebbe essere utilizzata, qualora sia interesse dello Stato belligerante, solo in caso di conflitto internazionale3. La successiva Convenzione internazionale contro il reclutamento, l’uso, il finanziamento e l’addestramento dei mercenari, adottata nel 1989 ma entrata in vigore il 29 ottobre 2001, non impone il bando totale dell’attività mercenaria, ma la condanna nelle sue forme non legali4. Un primo passo verso una determinazione chiara dell’ambito giuridico internazionale in cui si trovano ad operare le PMC è il Il private contractor, non avendo una sua precisa veste giuridica tipica, a seconda di quale prestazione si impegni a fornire o per le peculiari e contingenti modalità di esecuzione, integra una o più caratteristiche del mercenario, del membro di una organizzazione paramilitare, del membro di un servizio armato incaricato di far rispettare l’ordine (quando incorporato legittimamente, ovvero previa notifica, nelle Forze Armate di una delle parti in conflitto), del personale civile al seguito delle forze armate o più banalmente della guardia giurata o dell’ addetto di vigilanza privata. Cfr. Faraone, Cenni di Diritto Internazionale Pubblico, Marittimo ed Umanitario. I.S.M.M. 2008, pag. 158. Art. 43 co. 3 I Prot.: “La parte in conflitto che incorpora nelle Forze Armate un’organizzazione paramilitare o un servizio armato incaricato di fare rispettare l’ordine, dovrà notificarlo alle altre parti in conflitto”. Per l’individuazione della figura del mercenario, l’art. 1 della Convenzione riproduce i criteri dell’art. 47 del I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra (con tutti i suoi limiti di applicazione); tuttavia la novità ed il quid pluris rispetto al I Protocollo è la previsione di alcuni reati internazionali quali il compimento di atti mercenari, il reclutamento, l’uso, il finanziamento e l’addestramento di mercenari e l’essere complice di una persona che commette o tenta di commettere un’attività mercenaria. ������������ Documento di Montreaux , redatto in versione definitiva il 17 settembre 20085. Sebbene non stabilisca nuovi obblighi e non sia giuridicamente rilevante, il Documento richiama alcune consolidate norme internazionali che si applicano agli Stati nelle loro relazioni sia con le Private Military Company che con le Private Security Company. E’ interessante, nell’ambito della definizione di una disciplina internazionale dell’attività delle PMC (e PSC), analizzare il lavoro svolto dal Working Group (WG) presso l’ONU, costituito nel luglio del 2005 a seguito della Risoluzione 2005/2 della Commissione sui Diritti Umani. Il 2 luglio 2010 il WG presentò all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite un documento sull’impiego dei mercenari con allegato un progetto di convenzione sulle PMSC; in particolare, il progetto in questione presuppone che debbano essere di natura prettamente statale: la partecipazione diretta alle ostilità, la conduzione di guerre e/o operazioni di combattimento, la cattura 5 Attualmente sono 42 gli stati firmatari del Documento tra cui l’Italia che ha aderito il 15 giugno 2009. 41 ������������ di prigionieri, lo spionaggio, l’intelligence, l’utilizzo di armi di distruzione di massa ed altre attività collegate, i poteri di polizia, in particolare i poteri di arresto o di detenzione, compresi gli interrogatori dei detenuti. Il progetto di convenzione comprende anche una serie di disposizioni che obbligano gli Stati a regolare con legislazione nazionale le attività delle PMSC. Questi obblighi si estendono non solo agli Stati sul territorio dei quali operano queste ultime, ma anche agli Stati di nazionalità delle stesse. Per quanto attiene il quadro giuridico italiano, va citato l’art. 288 del Codice Penale, il quale rende evidente come siano vietate in Italia non solo la costituzione di società che abbiano come scopo l’ingaggio di cittadini italiani per fini militari e per utilizzarli per servizi di carattere strettamente militare, ma anche le attività in territorio nazionale di compagnie straniere aventi lo stesso fine. Nonostante tale chiusura alle PMC da parte del nostro legislatore, recentemente si è aperta una breccia a favore dell’impiego di contractor privati (rectius guardie giurate) limitatamente all’ambito della protezione del naviglio mercantile dal fenomeno della pirateria. Con il D.L. n. 107/2011, è stato 42 consentito, in via sussidiaria all’impiego di Nuclei di Protezione Militari, l’utilizzo di Guardie Giurate, autorizzate ai sensi del testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, a bordo delle navi mercantili battenti bandiera italiana che transitano in acque internazionali a rischio di pirateria, a protezione delle stesse. CONCLUSIONI La rapida e radicale evoluzione dell’offerta dei servizi militari privati non è stata evidentemente seguita dallo sviluppo di un’adeguata regolamentazione in ambito internazionale capace di disciplinare l’attività e l’impiego delle PMC; approfittando di questo vuoto giuridico, esse hanno avuto modo di proliferare e agire, secondo logiche e comportamenti non ben identificabili e trasparenti, conquistando il mercato involontariamente offerto dai vari teatri bellici e dai conflitti andati in scena negli ultimi anni. Nell’analizzare i pro e i contro del fenomeno nonché i limiti e i vincoli, risulta evidente come, al di là di ogni fattore, è determinante la considerazione che le PMC sono delle società commerciali, animate da un ������������ interesse prevalentemente economico, volto al perseguimento del massimo profitto per i loro soci ed azionisti, contrastante, in genere, con gli interessi nazionali tesi a garantire la sicurezza e il benessere dei cittadini; da ciò deriva che tale interesse profit oriented potrebbe paradossalmente coincidere con l’intento di mantenere una situazione di conflittualità piuttosto che di risolverla. Da un lato, dunque, il ricorso all’outsourcing nasconde potenziali insidie o subdole finalità che gli Stati e le organizzazioni che intendono optare per questa scelta devono tenere in debito conto (anche per non trascurare l’opinione pubblica spesso attenta a queste problematiche); dall’altro è indubbio che denazionalizzare funzioni non sensibili, come sicuramente il supporto logistico o la security, generalmente considerate prerogativa dello Stato, può comportare vantaggi sia in termini di economia delle risorse umane che di accessibilità a tecnologie moderne di cui non tutti i Paesi dispongono. In conclusione, si ritiene auspicabile e, data la dimensione attualmente raggiunta dal fenomeno delle PMC, improcrastinabile l’adozione di una adeguata regolamentazione internazionale che, partendo dalle già citate indicazioni fornite dal WG delle Nazioni Unite, disciplini in modo completo ed adeguato l’attività di tali compagnie; del resto, essendo oggi a conoscenza delle tendenze e delle dinamiche ormai di lungo periodo, diviene verosimile poter pensare all’elaborazione di interventi realmente efficaci ad affrontare opportunamente questo fenomeno dirompente, sempre che l’alto interesse palesato nei vari forum di discussione arrivi in primis nelle agende dei governanti. Il fine non è quello di sopprimere in toto l’impiego delle PMSC, ma evitare di snaturare il ruolo peculiare riservato agli Stati e alle Organizzazioni Internazionali nella risoluzione dei conflitti, laddove sia necessario anche l’uso della forza e delle armi. 43