LADOMENICA
DOMENICA 4 MARZO2012
NUMERO 366
DIREPUBBLICA
CULT
Nel giorno
del suo
compleanno
All’interno
La copertina
La nuova vita
della poesia
tra boom di vendite
e social network
intervista
esclusiva
a una
leggenda
del rock
MAGRELLI E SIMIC
“Sono
fortunato,
mi reggo
ancora
sulle
mie gambe”
La recensione
Il racconto di Nesi:
speranza e umiltà
della letteratura
al tempo della crisi
FILIPPO CECCARELLI
LOU
REED
Anni Settanta
Il reportage
Qui si parla yiddish,
viaggio a caccia
della lingua perduta
MAREK HALTER
La storia
Zen, scienza e Lsd,
la fisica quantistica
salvata dagli hippy
FEDERICO RAMPINI
ANGELO AQUARO
I
NEW YORK
l divo del rock che camminava sul lato selvaggio della vita
a settant’anni ha ancora gli incubi di un debuttante qualsiasi. «Mi trovo nel deserto: e ho dimenticato le scarpe.
Faccio per prendere l’autobus: e non riesco più a trovare il
biglietto. Sono sull’autobus: e ho dimenticato la chitarra. Finalmente arrivo al concerto: ed è già tutto finito. Ecco, questo è il più
ricorrente». Ecco, questo è Lou Reed. L’ex ragazzo che a quattordici anni visse l’orrore dell’electroshock, per superare quelle che
allora chiamavano “turbe omosessuali”, il 2 marzo ha compiuto
settant’anni, ma la moglie Laurie Anderson («L’artista più geniale che conosca: ma forse sono un po’ di parte») ha dovuto organizzargli una festa a sorpresa per superare la ritrosia a festeggiare il Big Birthday. Una carriera lunga e provocatoria come il vero
rock: dai Velvet Underground fondati da Andy Warhol ai Metallica snobbati dai critici, che lui solo poteva portare a reinterpretare insieme Lulu, il capolavoro espressionista di Frank Wedekind.
«E i loro fan ora mi odiano» dice nell’ufficio-studio nel cuore del
West Village, muri a vista e parquet («Niente scarpe, please»), le
chitarre in un angolo e il mega-iMac da 22 pollici nell’altro. «Pazzesco: mi odiano — devono avere il quoziente intellettuale di una
sedia».
Lou Reed ha settant’anni: e come si sente?
«Fortunato. Non mi muovo con la sedia a rotelle e posso alzarmi da solo sulle mie gambe».
Woody Allen dice che quando si guarda allo specchio rivede
lo stesso ventenne.
«Abbastanza vero: anche per me. Del resto l’Oscar per la sceneggiatura l’ha preso lui: lasciamogli la battuta».
Segue il cinema? La sua prima e ultima volta in un film è stato
Blue in the Face di Paul Auster: diciotto anni fa.
«Veramente io volevo fare l’attore».
E perché ha cambiato idea?
«Perché ho sempre avuto una cattiva memoria. E non pensavo di
essere bravo abbastanza. Così ho cominciato a scrivermi i miei monologhi in musica: piccole commedie con me come protagonista».
(segue nelle pagine successive)
FOTO TIMOTHY GREENFIELD SANDERS
L’intervista
Sem-Sandberg
“Quei dimenticati
del ghetto di Lodz
fuori dalla storia”
SUSANNA NIRENSTEIN
Teatro
Non c’è Brando
nel Tennessee
Williams
di Antonio Latella
RODOLFO DI GIAMMARCO
Il libro
Una certa idea
di mondo:
“Goldman e la fiaba
della principessa”
ALESSANDRO BARICCO
Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 MARZO 2012
LA DOMENICA
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La copertina
Anni Settanta
Il peso della celebrità: “Andatelo a dire ai minatori”. Il peso dell’età:
“Non sto su una sedia a rotelle”. Obama: “Già, dove è finito?”.
Israele: “Trasferiamolo nello Utah”. New York: “Troppo cara”
Soddisfatto? “Mai”. Intervista alla rockstar
che amava passeggiare sul lato selvaggio della vita
ANGELO AQUARO
Velvet Underground
sembrano il frutto del
matrimonio segreto tra
Bob Dylan e il marchese
de Sade”.
«Chi l’ha detto?».
Richard Goldstein, lo storico reporter dei diritti gay, New York Magazine,
1967. Ma senta quest’altra: “Tre mesi
prima di Sgt. Pepper’s, i Velvet Underground hanno chiuso il gap tra il rock e
l’avanguardia”. E questo è Alex Ross,
2010, l’acclamatissimo critico del New
Yorker. Quale definizione sceglie.
«Non ci penso proprio. Paragoni e
confronti non mi piacciono. Solo i giornalisti lo fanno. Ti danno i voti: come a
scuola».
Questa fama di non sopportare i
giornalisti: ma non ha studiato giornalismo? Lo scrivono tutte le biografie...
«Ho studiato scrittura. Regia».
Niente giornalismo.
«Appena un semestre: e ne ho avuto
abbastanza. Ti insegnavano come
esporre tutte le informazioni all’inizio
dell’articolo. Dicevano: le opinioni tenetele per voi. Mollato subito. Ma non
credo che la categoria abbia sentito la
mia mancanza».
Però lei col giornalismo, una volta
famoso, ci ha comunque provato: è vero che una celebre rivista le rifiutò un
articolo?
«Come no: Rolling Stone. Volevano
fare qualche correzione. E io: voi volete
fare qualche correzione a me?».
Magari qualche suggerimento.
«Qualche suggerimento, certo: ma io
non voglio suggerimenti. Dicono che ti
correggono la grammatica e tutt’a un
tratto suoni come chiunque altro.
Quando Andy Warhol fondò Interview
le interviste erano tutte piene di “Oh!”,
“Uh!”, “Ah!”. Lui voleva che si scrivesse
come la gente parla davvero».
‘‘I
Andy Warhol è il suo eroe.
«Io non ho eroi. Detto questo: un uomo incredibilmente grande. E che fortuna averlo incontrato. Terribile non
avere intorno, oggi, uno del suo genio».
Oggi abbiamo il digitale, internet,
YouTube: tutto un altro mondo.
«Mi devo ricordare di ripulire il mio
profilo su Google: in questi giorni scattano le nuove regole della privacy. Ma
non è incredibile? Voglio dire: io sono il
primo a passare lì sopra tutto il tempo
— ma che diritto hanno di conservare i
miei dati? Oppure YouTube: ormai tutto è su YouTube. Interviste di cinquant’anni fa, che avresti voluto bruciare, dove sei al peggio di te: Dio mio!».
Le fa paura?
«Guardate Amy Winehouse: così gio-
RITRATTI
Per i suoi 70 anni
Lou Reed ha posato
per Repubblica
davanti all’obiettivo
di Timothy GreenfieldSanders (a sinistra),
il grande fotografo
e premio Grammy
per il documentario
Lou Reed: Rock
and Roll Hearth
vane e perseguitata fino alla morte dalla stampa. Senza scampo».
Accusa i media della sua morte.
«Oh yes. Voglio dire: non aveva scampo. Tutta quella attenzione su di sé. Sei
lì che vomiti, e c’è subito una bella foto
in rete di te che vomiti. Buona fortuna».
Ma non è piuttosto il frutto dell’ideologia del rock maledetto? “Forse
sono destinato a morire giovane: in
fondo tutti i grandi cantanti di blues
sono morti giovani”. Lo scriveva Lou
Reed: nel 1970.
«L’ho scritto io? Ah sì, dopo la morte
di Brian Jones dei Rolling Stones. Ma
che dicevo? Non lo ricordo più».
Che viene un momento nella vita di
ogni rocker in cui la pressione del pubblico ti costringe a rispondere alle
aspettative create dalla maschera.
«Nessuno dovrebbe rispondere alle
aspettative di nessuno. E poi: ma quali
pressioni? E allora chi lavora in miniera? Respiri tutta quella merda, paga orribile. Altro che aspettative: riempito di
botte a morte — come un cane. Mentre
i signori di Wall Street vengono salvati
dal governo e ti fottono tutto quello che
possono. A proposito: dov’è finito il nostro uomo? Barack Obama...».
Deluso?
«Mi piace pensare che si tenga le ali
ben strette per ottenere un secondo
mandato. Ma avete visto l’opposizione? Rick Santooooorum? Oh my God:
that’s fantastic. Se fossi uno di quei paranoici direi che Obama ha organizzato il tutto per farsi rieleggere. Però finora dov’è stato? Un giorno dà un discorso davanti alla statua di Martin Luther
King: ma Martin Luther King quel giorno sarebbe stato con i ragazzi di Occupy
Wall Street. È per quello che l’abbiamo
eletto. E invece no: Obama missing in
action. Disperso in battaglia».
Quando gli chiedono della rivoluzione anni ’60, Ralph Metzer, il professore che con Timothy Leary diede il là
alla cultura psichedelica, oggi dice:
“Ma quale rivoluzione. Gli anni ’60 sono stati solo un pallido assaggio di
quello a cui stiamo assistendo adesso”.
«Per forza. Oggi è l’intero mondo a
bruciare. Guardate in Siria. In Egitto è
ancora tutto all’aria. E che succederà
con l’Iran? Ha diritto ad avere l’atomica? Ok, saranno dei pazzi fottuti — e
probabilmente davvero pensano che
sia una bellezza mandare all’aria il
mondo intero. Io non lo so: spetta a
menti più eccelse della mia. E la Siria?
Perché questo tizio non prende e se ne
va? Ecco, questi sono tutti i soldi che
vuoi, ma prendi la tua bella moglie-trofeo e sparisci. Ma spetta poi a noi continuare a fare i poliziotti del mondo? Lasceremo fare agli israeliani?».
Lei che ne pensa?
«Dice un mio amico che dovremmo
prendere Israele e trasferirlo nello
Lou Reed
“Ero uno che dormiva sui treni
ora faccio rock dentro un ufficio”
Repubblica Nazionale
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COPERTINE
The Velvet Underground & Nico (1967);White Light/White Heat (1967); The Velvet Underground (1968); Loaded
(1970); Live at Max’s Kansas City (1972); Lou Reed (1972); Transformer (1972); Berlin (1973); Live 1969 Vol. 1 e
Vol. 2 (1974); Rock’n’Roll Animal (1974); Sally Can’t Dance (1974); Lou Reed Live (1975); Metal Machine Music
(1975); Coney Island Baby (1976); Rock’n’Roll Heart (1976); Take No Prisoners (1978); Street Hassle (1978);
The Bells (1979); Growing Up In Public (1980); The Blue Mask (1982); Legendary Hearts (1983); New
Sensations (1984); Live In Italy (1985); Mistrial (1986); New York (1989); Songs for Drella (1990); Magic and Loss
(1992); Live MCMXCIII (1993); Set The Twilight Reeling (1996); Perfect Night In London (1998); Ecstasy (2000);
American Poet (2001); The Raven (2003); Animal Serenade (2004); Le Bataclan ’72 (2004); Hudson River Wind
Meditation (2007); Metal Machine Music Live (2007); The Creation Of The Universe (2009); Lulu (2011)
FOTO TIMOTHY GREENFIELD SANDERS
Utah: adesso basta, ragazzi, fuori da
qui. Insomma: è terribile quello che
succede con i palestinesi».
Sta dicendo cose molto discutibili e
politicamente scorrette: Israele è un
paese sotto minaccia. E poi, scusi, lei
non è ebreo?
«Ebreo di origine russo-polacca. Mi
considero democratico senza confini».
Ha detto: “Vorrei realizzare nella
mia musica il Grande Romanzo Americano”.
«Ogni disco è un capitolo».
Molti ambientati a New York.
«Non sono mica Gore Vidal, seduto
nella sua bella villa italiana a scrivere
dell’Italia».
E com’è cambiata la sua New York
dai tempi in cui cominciò?
«Dovremmo andare avanti a parlarne per cinque giorni... Molto gentrificata, tutti giovani professionisti. Gli artisti
non possono viverci più. Molto molto
molto molto molto molto molto molto
più cara. La gente si sposta a Brooklyn e
anche Brooklyn è ormai cara».
Lei è nato a Brooklyn: le manca?
«Mi mancano così tante cose».
“Penso che la vita sia troppo breve
per concentrarsi sul passato. Io guardo piuttosto al futuro”: Lou Reed,
1988. Che cosa vede nel futuro ?
«È vero: non mi interessa rivangare il
passato. Preferisco il presente».
Sì, ma il futuro?
«Vivo nel presente: o almeno cerco
di. E poi: quale futuro? Per carità: adesso non voglio fare filosofia spiccia. Sono
solo un musicista di rock’n’roll».
Forse qualcosa in più.
«Diciamo che ho mandato avanti anche un altro paio di cosette».
Soddisfatto?
«Mai saputo cosa voglia dire».
“Sarebbe divertente avere un bambino da portare in giro”: così cantava in
New York, 1989. Le manca un figlio?
«Sarebbe davvero divertente: ma
‘‘
non ne ho. Lì mi divertivo a immaginarlo. La parola chiave è: sarebbe».
Solo fantasie.
«Ma chi l’avrebbe detto, per esempio, che uno come me avrebbe dovuto
avere un ufficio? Ho fatto di tutto nella
mia vita per non finire in un ufficio: poi
alla fine hai bisogno di un posto dove
portare avanti tutte le tue cose ed eccomi qua. In un ufficio. Naturalmente è in
un palazzone di artisti: e non mi ci trovo poi così male».
Una rockstar in ufficio.
«Ma io dormivo sui treni, nelle lobby
degli hotel, c’erano le sale dei cinema
che restavano aperte tutta la notte: tanti non avevano dove andare a dormire».
“La celebrità esige ogni tipo di eccesso”. È l’inizio di Great Jones Street, il
romanzo del rock di Don DeLillo. Ed è
il 1973: un anno dopo la sua Walk on
the Wild Side, la canzone-simbolo di
una vita tutta sesso, droga e rock’n’roll.
«La celebrità non richiede un bel
niente. E ciò che fai della tua vita e del
tuo corpo dipende solo da te. Nessuno
ti ha chiesto nulla. E non c’è nessuna
clausola da rispettare nel contratto».
Mai sentito schiacciato dalla celebrità?
«Ripeto: la vera pressione la senti in
miniera. Avere a che fare con queste
stronzate della celebrità non è pressione: è un gioco».
Rimpianti?
«Nessuno».
Niente da recriminare?
«C’è questo bellissimo rotolo giapponese di quattro secoli fa. Mostra uno
scheletro seduto nella posizione del fior
di loto che cerca di ottenere un buon
karma: dopo una vita vissuta pericolosamente. L’ho mostrato a Laurie che
me ne ha fatto una copia: bellissima. Ma
avete presente? Uno scheletro che cerca la posizione per avere un buon karma: forse un po’ troppo tardi, no?».
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Vivere pericolosamente
Su un antico rotolo giapponese c’è uno scheletro
seduto nella posizione del fior di loto, cerca di ottenere
un buon karma dopo una vita vissuta pericolosamente
Forse un po’ troppo tardi, no?
Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 MARZO 2012
LA DOMENICA
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Il reportage
Train de vie
Fondata da Stalin ottant’anni fa, celebrata
come “l’Israele siberiana” e poi dimenticata,
la prima repubblica ebraica ancora oggi
è uno sperduto baluardo della cultura e della lingua yiddish
A riscoprirla ci ha pensato uno scrittore che qui racconta
il suo viaggio felice ai confini della memoria
A Birobidzhan!A Birobidzhan!
MAREK HALTER
C
hi conosce il Birobidzhan, la repubblica autonoma ebraica
creata nel 1932 da Stalin, in Siberia, sul fiume Amur, di fronte alla Cina? Nella mia cerchia di conoscenze, nessuno. Io stesso, che
pure ne avevo sentito parlare, la credevo scomparsa da tempo.
E invece una sera, a Mosca, con mio grande stupore, vedo un telegiornale che racconta della visita ufficiale del presidente della
Federazione russa Dmitrij Medvedev a… Birobidzhan. Non
credo ai miei occhi: c’è una delegazione, di cui fanno parte anche due rabbini, ad accoglierlo. Insieme visitano la sinagoga e
assistono a un matrimonio ebraico. In questo inizio di XXI secolo, il Birobidzhan esiste ancora e la sua lingua ufficiale è lo yiddish, la mia lingua madre!
Sono nato in un mondo che pensavo ormai risucchiato dalle
acque, come Atlantide. Ho sempre sognato di mostrare quel
mondo al mondo e di apostrofare i miei contemporanei: «Guardate! Guardate quelle persone, ascoltatele. La lingua che sentite, lo yiddish, oggi non la parla quasi più nessuno. Quando ero
bambino era parlata da più di undici milioni di persone». Ed ecco che vengo a sapere che esiste un posto dove lo yiddish è ancora parlato, dove è addirittura insegnato.
Come avrei potuto non precipitarmi laggiù?
Ci sono andato in treno, novemila chilometri da Mosca, come gli ebrei degli Anni ’30. Novemila chilometri sono tanti, ma
a differenza di quelli che li percorsero a bordo di vagoni merci
appena riadattati, equipaggiati con grandi stufe centrali che bisognava alimentare con ciocchi di legno ammassati nelle stazioni, io viaggio sul Transiberiano, con quattro cuccette per
scompartimento coperte da vecchi materassi a righe.
«Dove va?» mi domanda con curiosità il controllore capo vedendo che sono accompagnato da un fotografo e da un’équipe
televisiva. «A Birobidzhan». «Ah, gli ebrei!», fa lui. E aggiunge,
non molto fiero: «Da noi perfino gli ebrei hanno la loro repubblica». Due minuti più tardi ritorna con una divisa nuova di zecca sperando di farsi fotografare. La stazione di Birobidzhan è un
casermone in mattoni rossi, con un’insegna, bene in vista, in
russo e in yiddish. Speravo di incontrare qualche ebreo sul binario. Ne intravedo tre nell’atrio, con la kippahsulla testa. Mi avvicino. Mi presento e chiedo di cosa stanno parlando. Stanno discutendo del nuovo rabbino, troppo giovane secondo loro.
Scoppio in una risata tinta di infinita nostalgia, tanto quanto
questi ebrei di Birobidzhan assomigliano agli attori del teatro
yiddish della mia infanzia.
Quanti ebrei sono rimasti a Birobidzhan, in questa città di settantasettemila abitanti? Non lo sa nessuno. Ufficialmente ottomila, ma un abitante su due ha una bisnonna o un prozio ebrei,
compresi i numerosi coreani e cinesi.
Allo scoppio della rivoluzione bolscevica, gli ebrei nell’impero dello zar erano quasi cinque milioni. Cinque milioni confinati
in zone di residenza, banditi dall’amministrazione pubblica e
dalle scuole. Eppure si organizzarono, crearono le loro scuole e
i loro sindacati, ma restavano i più poveri dei poveri, i più sfruttati degli sfruttati. Il giorno in cui i commissari bolscevichi li chiamarono «compagni», in yiddish, si sentirono finalmente riconosciuti e aderirono in massa alla Rivoluzione. A partire dagli
Anni ’20 e ’30 li si ritrovava in tutte le istituzioni della nuova Russia: la politica, i giornali, la letteratura e il cinema, il teatro e le arti plastiche. I più grandi si chiamano Sergej Ejzenstein, Isaac Babel, Boris Pasternak, Marc Chagall, El Lissitzky, Ossip Mandel’stam, Vasilij Grossman, Mark Donskoj, David Ojstrach, Emil Gilels, Alexis Granowsky, Solomon Michoels…Perfino la sorella
maggiore di Lenin, Anna Uljanova, raccontava a chi voleva saperlo che il loro nonno materno, figlio di Moise Blank, di Zhitomir, era ebreo. Stalin si affrettò a far scomparire questa informazione. Cominciava a trovare i suoi amici ebrei troppo vistosi. E troppo irrequieti. Il presidente del Soviet supremo, il vecchio Michail Kalinin, ebbe un’idea. Perché non regalare agli
ebrei una repubblica, una regione autonoma come tutti gli altri
popoli dell’Unione Sovietica? In questo modo i loro diritti sarebbero stati garantiti e le autorità, senza essere tacciate di antisemitismo, avrebbero avuto la possibilità di rimuoverli dai numerosi posti di responsabilità che occupavano nelle varie repubbliche.
Gli ebrei si rallegrarono del progetto. Speravano nel Caucaso
e invece ricevettero un pezzo di Siberia, una regione alla frontiera con la Cina, sul fiume Amur, che si chiamava Birobidzhan.
Le autorità ci spedirono migliaia di famiglie ebree: Stalin prevedeva centomila persone. Molti partirono volontariamente. Uno
Stato ebraico, e per di più socialista! Mancavano ancora quindici anni alla proclamazione dello Stato di Israele. Per opporsi all’ebraico raccomandato dai sionisti, che i comunisti all’epoca
consideravano la lingua della sinagoga, il governo dichiarò lo
yiddish, la lingua del proletariato ebraico, idioma ufficiale del
Birobidzhan. La guerra e le persecuzioni degli ebrei in Europa e
nella parte di Russia occupata dai nazisti spingono migliaia di
ebrei verso il Birobidzhan, l’Israele siberiana, come alcuni la
chiamano all’epoca. La vita culturale si sviluppa. L’agricoltura
anche. Il kolchoz Waldheim (“La casa della foresta”) diventa uno
dei più esemplari di tutta l’Unione Sovietica. Nasce addirittura,
negli Stati Uniti, un’associazione per aiutare gli ebrei del Birobidzhan. La diaspora acquista con entusiasmo macchine agricole e medicinali che spedisce ai suoi fratelli in Siberia. Centinaia di ebrei americani, francesi, argentini, in maggioranza comunisti, raggiunsero il Birobidzhan per partecipare a questa
prima avventura nazionale ebraica.
Ben presto le purghe staliniane frenarono questo slancio generoso. Diciassette anni dopo, nel 1953, la morte del padrone del
Cremlino aprì le porte del Birobidzhan. Gli ebrei sovietici partono in massa verso Israele, svuotando progressivamente la regione autonoma della sua sostanza ebraica. La lenta agonia del
Birobidzhan, sommata alla scomparsa delle comunità ebraiche
dell’Europa centrale, segnò la fine della cultura e della lingua
yiddish. Mi sembrava di essere il testimone della sparizione definitiva di quel mondo di cui anch’io, con la mia memoria, la mia
tradizione e il mio accento, faccio parte.
Appena usciti dalla stazione, capiamo subito dove ci troviamo: c’è un monumento che domina la piazza, una menorah, il
candelabro a sette braccia che è anche l’emblema della regione,
appollaiata in cima a una sorta di torre. Qualche metro più in là,
un’imponente scultura in bronzo che rappresenta l’eroe popolare ebraico inventato da Sholem Aleichem: Tewje il lattivendolo. In città ci sono due sinagoghe. La prima, quella grande, è affiancata da un altro edificio che ospita un centro culturale e
un’associazione di beneficenza. Nella biblioteca trovo, con
emozione, i libri di poesie di mia madre. Al primo piano una dozzina di donne si riuniscono tre volte la settimana per cantare delle melodie tradizionali yiddish. La seconda sinagoga è un’isba
(tipica casa di campagna russa, ndr) degli anni ’40. Ce n’era anche una terza, più antica, ma è stata distrutta da un incendio.
«Era all’epoca di Krusciov», mi dice il rabbino Andrej Lukatski.
«Non è da escludere che si sia trattato di un incendio doloso». Il
rabbino mi racconta che suo padre riuscì a salvare dalle fiamme
i rotoli della Torah, rotoli che lui è riuscito a far restaurare grazie
all’aiuto della vicinissima comunità ebraica giapponese. «Li
vuole vedere?».
Siamo nella sua sinagoga, la sua isba, ornata di un’enorme
stella di David intagliata nel legno. All’interno, su una panca, addossata al muro, la moglie del rabbino e tre vecchie signore che
in inverno vengono qui a riscaldarsi. Il rabbino prende un mazzo di chiavi e apre non l’armadio che tradizionalmente ospita i
rotoli della Torah, ma una cassaforte. Commosso, lo aiuto a togliere la mantellina di velluto elegantemente ricamata che protegge i rotoli. Il rabbino ha due figli adulti in Israele. Gli chiedo:
«E lei, perché non ci va?». Il rabbino si meraviglia della domanda: «E chi custodirà la sinagoga?». «E quando lei sarà morto?».
Andrej Lukatski mi racconta che ha un terzo figlio di sei anni, e
che l’ha concepito, insieme a sua moglie, perché si faccia carico
della tradizione quando lui non ci sarà più. «Il ricambio è assicurato», dice soddisfatto.
L’ex attrice Polina Moissenevna Kleinerman ci tiene a cantare per me Mein yiddische Mame, “La mia mamma ebrea”. Non
ha più voce, ma le restano i gesti e la mimica. La ascolto e pian-
L’AUTORE
Scrittore, ma anche pittore
e fondatore con Bernard-Henri Lévy
del movimento SOS Racisme,
Marek Halter nasce nel 1936
in Polonia, la madre poetessa
in lingua yiddish, il padre tipografo
A cinque anni fugge con i genitori
dal ghetto di Varsavia. La famiglia
si rifugia in Russia e poi in Francia
dove Halter ancora vive
Collabora con numerose testate
tra cui Libération, Paris Match,
El Pais e Repubblica. Il suo ultimo
libro uscito in Italia è Il cabalista
di Praga (Newton Compton)
go. È in compagnia di questa piccola comitiva che visito il vecchio cimitero di Birobidzhan. Polina Kleinerman non ha dimenticato di portarsi dietro una busta riempita di sassolini, in
modo che ognuno di noi, secondo la tradizione ebraica, possa
lasciarne uno sulle tombe a testimonianza del suo passaggio.
Birobidzhan non è soltanto una città. È una vasta regione,
grande il doppio del Belgio, annunciata al suo ingresso da un
edificio monumentale con un’iscrizione in caratteri cirillici ed
ebraici. I kolchoz ormai sono chiusi, come in tutta l’Unione Sovietica, ma alcuni ebrei hanno acquistato dei pezzetti di terra
che continuano a coltivare. Ziama Michailovic Geffen ha novantadue anni. Sta appoggiato a un bastone mentre ci mostra il
suo cortile e le sue capre. «Capiscono lo yiddish!», dice ridendo.
Il suo occhio azzurro si anima quando rievoca il suo arrivo nella
regione. Era proprio all’inizio, negli Anni ’30. Aveva undici anni.
«Non c’era niente qui, nient’altro che la taiga. Abbiamo fatto tutto noi. Abbiamo dissodato i campi, costruito la città, la stazione,
le scuole. Abbiamo perfino lanciato un giornale…». Il Birobidzhaner Stern, “La stella di Birobidzhan”, esiste ancora. Originariamente era un quotidiano, pubblicato integralmente in
yiddish. Oggi è un settimanale in russo, con soltanto quattro pagine in yiddish. La direttrice non è ebrea. Elena Ivanovna Sarashevskaja, che ha appena trent’anni, ha sposato un ebreo e ha
imparato lo yiddish all’università. Quanti lettori ha il giornale?
Non sa rispondere. La tiratura è di cinquemila esemplari venduti nelle edicole. Ne compro due copie come ricordo. Dopo
aver scelto due riviste in russo un uomo, piuttosto giovane e
biondo, ne prende una copia anche lui. Gli chiedo se è ebreo.
«No. Lo pensa perché ho comprato il Birobidzhaner Stern? Lo
compro tutte le settimane. Mi piace sapere che succede tra gli
ebrei. Con loro c’è sempre da imparare…». La sua risposta mi ricorda quell’altro abitante del Birobidzhan che cercava della
vodka kasher al mercato. Quando gli ho chiesto il motivo, mi ha
risposto: «Se è una vodka ebraica, sicuramente dev’essere più
buona». È forse questo il motivo del successo della trasmissione
Yiddishkeit (“Ebraicità”), che va in onda sulla televisione locale
e che offre un’introduzione alla cultura e alle tradizioni ebraiche? «Prima», mi dice Tatjana Kandinskaja, la presentatrice, «facevamo la trasmissione in yiddish. Oggi non ci sono più molti
che lo capiscono. Ma da quando siamo passati al russo, questa
trasmissione è diventata una delle più popolari della nostra rete e viene mandata anche alla radio». Nella macchina coreana
che ci porta in giro per la città, cerco di sintonizzarmi sulla sua
trasmissione. A Birobidzhan tutti girano a bordo di macchine
coreane, con il volante a destra. Qui la Corea è vicinissima e l’Europa, distante diecimila chilometri, è qualcosa di vago e indistinto. Finalmente sento la voce di Tatjana Kandinskaja. Annuncia una puntata sul significato dello shabbat e le tradizioni
culinarie che accompagnano questo giorno di riposo. Tra qualche minuto tutti sapranno come si prepara il Gefilte fish, la carpa farcita. Nell’attesa si sente la voce profonda di un uomo che
canta: «Ho traversato oceani e continenti e non ho trovato nessun paese bello come il mio Birobidzhan».
Arriviamo davanti al Teatro nazionale ebraico, inaugurato
nel 1936 dal numero due del regime di Stalin, Lazar Kaganovic
in persona. Quando entro nella sala, gli attori stanno provando
una commedia musicale, I cercatori di felicità, da un film di propaganda realizzato nel 1936. Rimango turbato a vedere questi
giovani che ballano e cantano sul ritmo della musica di Isaac
Dunajevskij: «Addio America, addio Europa, buongiorno patria
nostra, nostro Birobidzhan». Eppure siamo nel XXI secolo e lo
Stato di Israele esiste da quasi sessantacinque anni. Ma qui, contrariamente a Israele, si studia lo yiddish. In una classe che visito, una giovane maestra insegna l’alfabeto ai bambini. Sconvolto dal fatto di ritrovarmi a casa, sì, a casa, a più di undicimila chilometri da Parigi, incrocio uscendo una cinese, madre di uno degli alunni, e le domando: «Perché fa imparare lo yiddish a suo figlio?». Lei mi risponde: «Può servire…». Scoppio a ridere. I cinesi sono un miliardo e duecento milioni e gli ebrei appena
quattordici milioni. E tra di loro, solo una manciata ormai parla
ancora lo yiddish!
Ho sempre pensato che Hitler avesse perso le sue due scommesse: cancellare gli ebrei dalla faccia della Terra e trasformarli in qualcosa di diverso dagli esseri umani. Credevo però che su
un punto avesse avuto successo: distruggere una civiltà ebraica,
la civiltà dello yiddish. Credevo che il nazismo avesse annientato completamente quel mondo. E ora quaggiù, nel Birobidzhan,
quel mondo è ancora vivo e pulsante, come l’eco lontana di una
civiltà ferita. Seppellire la memoria, e in particolare la memoria
di una lingua, è più difficile che seppellire i corpi.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 MARZO 2012
FOTO THIERRY ESCH
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LA STAZIONE. Tre amici con la kippah davanti alla stazione di Birobidzhan, un casermone in mattoni rossi, con l’insegna bene in vista in russo e in yiddish: vivono qui da quando erano piccoli
LA SINAGOGA. La più vecchia delle due sinagoghe della città
è ospitata in una isba degli anni Quaranta
IL CIMITERO. I fedeli rendono omaggio a un amico scomparso
A TAVOLA. La colazione dentro la sinagoga: la donna seduta
LA SCUOLA. Una giovane maestra insegna l’alfabeto yiddish
al centro è una ex attrice, Polina Kleinerman
ai bambini: la maggior parte di loro non sono ebrei
nel vecchio cimitero ebraico di Birobidzhan
IL GIORNALE. Halter davanti alla sede del Birobidzhaner Stern:
nato in yiddish, ora è un settimanale scritto in russo
IL PASTORE. Ziama Michailovic Geffon è il più vecchio
lavoratore dell’antico kolchoz: parla in yiddish alle sue capre
Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 MARZO 2012
LA DOMENICA
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La storia
Illuminazioni
Ritiri zen sulle spiagge della California, esperimenti di telepatia,
lezioni di yoga e di buddismo, spinelli e l’Lsd. Ma anche rigore
e preparazione. Ecco il libro che racconta l’avventura
di un gruppo di studiosi “scontenti, squattrinati
e sottoccupati” che rivoluzionò la teoria quantistica
Fisica
Hippy
FEDERICO RAMPINI
n un prossimo futuro i nostri dati personali più preziosi, dal conto bancario alla carta di credito, forse saranno
finalmente al sicuro dai furti degli
hacker informatici. Se questo accadrà, sarà
una delle applicazioni della crittografia
quantistica. La stessa tecnologia, secondo
l’astronomo John Gribbin della University
of Sussex, consentirà il tele-trasporto di particelle che sarà alla base di una nuova generazione di “quantum computer”: la loro potenza sarà tale che «i nostri pc attuali ci sembreranno dei pallottolieri». La teoria quantistica è un ramo della fisica delle particelle e
oggi attira migliaia di ricercatori nel mondo
intero. Riceve finanziamenti per miliardi di
dollari dalle grandi università e fondazioni
scientifiche in America e non solo. Ma appena quarant’anni fa gli studi di fisica erano in
uno stato di profonda crisi: la guerra del Vietnam concentrava i fondi nel Pentagono; lo
stesso conflitto del sudest asiatico aveva
spinto Washington a inviare al fronte anche
molti giovani dottorandi (abrogando il privilegio del rinvio del servizio militare per gli
universitari); i campus delle facoltà americane erano paralizzati dalla contestazione
pacifista; una grave crisi economica provocata da shock petrolifero e stagflazione inaridiva le spese per la ricerca pura. Quelli che
continuavano a occuparsi di fisica erano per
lo più degli “integrati” al servizio del complesso militar-industriale.
A rilanciare gli studi di fisica quantistica ci
pensarono gli hippy californiani. Per la precisione, un gruppo di giovani studiosi «scontenti, squattrinati, sotto occupati e sempre
curiosi», si riunì all’università di Berkeley,
sulla baia di San Francisco, per «liberarsi dal
conformismo accademico e avventurarsi
nell’esplorazione del lato selvaggio della
scienza». Fondarono un club esoterico, il
Fundamental Fysiks Group, i cui metodi di
ricerca erano a dir poco eterodossi. Si riunivano come congiurati in luoghi di ritiro zen
sulle spiagge californiane. Passavano ore
immersi in vasche di idromassaggio. Fumavano marijuana e qualcuno sperimentava
l’Lsd. Si appassionavano di religioni orientali e trasmissione del pensiero. La loro storia
viene ricostruita da un altro scienziato, David Kaiser del Massachusetts Institute of Technology (Mit), autorevole esponente della
stessa disciplina: è stato eletto Fellow dell’American Physical Society. Come gli hippy
salvarono la fisicaè la sua opera. Sottotitolo:
Scienza, contro-cultura e il revival dei quantum. Questo libro è anche un gesto di gratitudine. Kaiser, che era un liceale quando «gli
hippy salvarono la fisica», confessa di avere
subìto «un’attrazione e un fascino per le opere di quel gruppo di giovani scienziati»: per
lui fu la nascita di una vocazione.
PER GENTILE CONCESSIONE FRED ALAN WOLF
I
SAN FRANCISCO
Scienza, droga e rock’n’roll
ANTICONFORMISTI
Il Fundamental
Fysiks Group
nel 1975:
da sinistra,
Jack Sarfatti,
Saul-Paul Sirag,
Nick Herbert,
Fred Alan Wolf
Nella foto grande
al centro, terapia
di gruppo durante
un incontro
all’Esalen Institute,
a Big Sur,
in California,
nel 1968
I personaggi al centro di quell’epopea sono pittoreschi. Fred Alan Wolf, socio fondatore del Fundamental Fysiks Group, è descritto come un «attore di vaudeville della
New Age», seguace del guru delle droghe psichedeliche Timothy Leary, convinto di poter
raggiungere poteri paranormali di comunicazione extrasensoriale. L’italo-americano
Jack Sarfatti, un altro membro dello stesso
club, riceveva i finanziatori a cui chiedeva
fondi per le ricerche in una saletta privata al
Caffè Trieste, mitico ritrovo nel quartiere italiano North Beach di San Francisco. Fritjof
Capra divenne il più celebre nel 1975 grazie
a un best-seller rimasto un classico di quell’èra: Il Tao della fisica. Quasi altrettanto successo ebbe Gary Zukav con il libro I maestri
danzanti Wu Li. Una volta all’anno, la riunione del gruppo avveniva sulla costa di Big
Sur, presso l’Esalen Institute, fra sessioni di
yoga, lezioni di buddismo, e happening collettivi di autocoscienza. Erano a tutti gli ef-
fetti “figli dei fiori”, tipici rappresentanti di
un’epoca in cui la California era attraversata
dalla corrente della New Age, quando i giovani si riunivano a vivere in campagna nelle
comuni egualitarie e ambientaliste, contestavano al grido di «fate l’amore non la guerra», ascoltavano Jimi Hendrix e Janis Joplin,
i Grateful Dead e Jefferson Airplane.
Il fenomeno degli scienziati hippy non
passò inosservato neppure in quegli anni.
Tra i più acuti nell’avvistarlo ci fu un certo
Francis Ford Coppola, la cui carriera di regista spiccava il volo proprio allora. Con i soldi
guadagnati grazie a Il Padrino e alla produzione di American Graffiti, l’italo-californiano Coppola si comprò il magazine City of San
Francisco. Uno dei primi numeri della rivista
sotto la sua direzione fu dedicato ai «nuovi fisici che lavorano con la telepatia e s’immergono nel subconscio per sperimentare la
mobilità psichica». Dalla lettura del pensiero alla reincarnazione, dalla comunicazione
con gli extraterrestri al misticismo induista,
la confusione dei generi era totale. Eppure,
come spiega Kaiser, «quel gruppo di outsider, di emarginati e di reietti riuscì a ravvivare la fiamma della scienza». Perché dietro le
apparenze hippy c’erano «veri scienziati,
con solide basi di preparazione, metodi anticonformisti eppure rigorosi». Del resto c’era una sottile continuità tra loro e il gruppo di
pionieri della meccanica quantistica, cioè
Albert Einstein, Niels Bohr, Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Erwin Schroedinger:
anche loro erano tutt’altro che “aridi” scienziati, adoravano discutere di filosofia, politica, massimi sistemi. Le implicazioni delle loro scoperte li portavano a spaziare in campi
molto diversi dello scibile umano. Anche i
“padri”, come dimostra il pacifismo di Einstein, avevano perseguito strade anticonformiste e contestatrici. Che i fisici hippy non
fossero degli sprovveduti, lo dimostra il fatto
che uno dei loro saggi, Quantum Reality di
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PER GENTILE CONCESSIONE DI FRED ALAN WOLF
PER GENTILE CONCESSIONE DI ROMAN JACKIW
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IL LIBRO
Nick Herbert, è tuttora usato come manuale
nelle facoltà di fisica americane.
Scavando sotto la superficie tutta “sesso
droga e rock’n’roll”, Kaiser individua in due
contributi decisivi l’eredità rivoluzionaria
del gruppo riunito a Berkeley negli anni Settanta. I ragazzi del Fundamental Fysiks
Group si misero in testa di poter trasmettere
dei segnali a una velocità superiore a quella
della luce. Un obiettivo impossibile, in base
alla teoria della relatività di Einstein. La ricerca sui “segnali superluminali” fu contestata da altri fisici, i quali però furono costretti a dimostrare l’errore, approfondendo
le conoscenze sui quantum. Due dei fisici
hippy, Herbert e John Clauser, fecero esperimenti sul cosiddetto teorema di Bell, secondo cui due particelle subatomiche una
volta entrate in contatto resteranno allacciate anche dopo essere state allontanate: un
principio da cui altri arrivarono alla possibilità di criptare i messaggi per renderne impossibile l’intercettazione. È in questo processo di “refutazione” che alla fine si arrivò
allo sviluppo della crittografia quantica, le
cui potenziali applicazioni cominciano solo
ora a essere comprese. Kaiser traccia un parallelo con quel che era accaduto nell’Otto-
FOTO ROGER RESSMEYER, PER GENTILE CONCESSIONE CORBIS
PER GENTILE CONCESSIONE DI ROBERT L. JONES E JACK SARFATTI
Come gli hippie hanno
salvato la fisica di David
Kaiser (Castelvecchi,
380 pagine, 22 euro)
è ora in libreria. A destra,
la bozza di un articolo
del 1973 di Jack Sarfatti
e Fred Alan Wolf. Sopra,
i partecipanti a una
conferenza di fisica teorica
della fondazione est nel ’78:
al centro Stephen Hawking
ECCENTRICO
MISTICO
L’italo-americano Jack Sarfatti nel 1979:
riceveva i suoi finanziatori al Caffè Trieste
di North Beach, a San Francisco
Fritjof Capra presenta Il Tao della fisica
nel 1977: teorizza l’avvento di un nuovo
paradigma ispirato al misticismo orientale
cento quando alcuni scienziati si erano messi in testa di mettere a punto le macchine del
moto perpetuo: lo sforzo dei loro colleghiavversari di dimostrarne l’impossibilità fece
compiere dei progressi decisivi nella comprensione delle leggi termodinamiche.
L’altro lascito dei fisici hippy fu perfino più
importante nel lungo periodo. Grazie al successo di libri come Spazio-Tempo e oltre di
Sarfatti, oltre al Tao della fisicadi Capra, una
generazione di giovani cominciò a sentirsi
attratta dagli studi di fisica nucleare. Improvvisamente quell’orientamento di studi
non fu più associato con l’asservimento alle
strategie militari della Guerra fredda. Nei
campus delle accademie scientifiche si moltiplicarono i corsi con titoli come “The Zen of
Physics”. Fu l’inizio di un lungo boom nelle
iscrizioni a quelle facoltà. Se Bill Gates e Steve Jobs resero sexy l’informatica negli anni
Ottanta, nel decennio precedente i giovani
scienziati cultori dell’Lsd e della New Age
erano riusciti a rendere cool una delle scienze più complesse e raffinate. E questo fu uno
dei fiori sbocciati davvero, nel clima caotico
e trasgressivo dei movimenti che ribollivano
nella baia di San Francisco quarant’anni fa.
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LA DOMENICA
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Spettacoli
Jeanne Moreau
col fiatone portata
in braccio da Jules e Jim
dopo aver girato
la sequenza simbolo
della Nouvelle Vague
Rivoluzioni
È uno degli scatti
di Raymond
Cauchetier,
fotografo di scena
Ora, novantenne,
viene celebrato
a Parigi e Los Angeles
“E pensare
che ci pagavano
come manovali”
ANAIS GINORI
L
PARIGI
a scena dura trenta secondi. Jeanne Moreau corre a perdifiato sopra un cavalcaferrovia con i suoi spasimanti, Henri
Serre e Oscar Werner, che la inseguono. Sembrano spiccare il volo. Di quello slancio di libertà è rimasta un’immagine, l’icona del film, Jules e Jim, ma anche di un movimento
che ha segnato per sempre il cinema. Raymond Cauchetier era accanto a François Truffaut con la sua Rolleiflex,
macchina fotografica solitamente usata nei reportage di
guerra e che lui aveva preso in Indocina, arruolato nell’aviazione militare. Nello scatto successivo si vede Moreau, esausta,
portata in braccio dai due uomini dopo le riprese. In un altro
momento inedito l’attrice gioca a fare la maglia.
L’uomo
che inventò
il
Backstage
“Prima e dopo
c’era un altro film”
IMMAGINI
In alto, in senso
orario: Jeanne
Moreau
fa la maglia
con Sabine
Haudepin
sul set di Jules
e Jim (1961)
di François
Truffaut;
Anouk Aimée
in Lola (1960)
di Jacques
Demy; Jean-Luc
Godard e Raoul
Coutard (dietro
la telecamera)
mentre girano
La donna
è donna (1961)
Nella pagina
accanto,
Jeanne Moreau
corre sul
cavalcaferrovia
inseguita
da Oscar Werner
e Henri Serre
in Jules e Jim
Cauchetier è l’occhio nascosto. Dietro la telecamera, e dietro
i registi. Per dieci anni spettatore di alcuni dei più grandi set della Nouvelle Vague, ha catturato tutto ciò che ruota intorno a
quella strana umanità di celluloide. Mentre Truffaut, Jean-Luc
Godard, Agnès Varda, Claude Chabrol e tanti altri reinventavano il modo di girare, lui trasformava lo sguardo del backstage.
«Quando ho capito cosa stava accadendo, mi sono detto che
dovevo comportarmi come un giornalista davanti a una rivoluzione» racconta lui, novantaduenne, celebrato in questi giorni da due mostre, alla galleria Polka di Parigi e all’Academy of
Motion Pictures Arts and Science di Los Angeles. All’inizio degli anni Sessanta, il fotografo di scena era ancora considerato
dalla troupe come un fastidioso intruso. Poteva scattare solo un
attimo dopo che il regista urlava «Coupez!». Gli attori restavano
in posa, lui doveva limitarsi a ricalcare la stessa inquadratura,
fornire un prodotto immediato per la promozione. «Prima di
me non veniva riconosciuto un valore artistico al nostro mestiere. Eravamo pagati come i manovali. Alcuni registi ci consideravano delle spie del produttore che spesso scrutava le nostre immagini per sorvegliare le riprese, vigilare sull’opera in divenire». Tutto parte da un’intuizione, racconta Cauchetier:
«Ogni set racchiude una storia che integra e completa il vero
film». Quell’avanguardia un po’ folle diventa così un album da
sfogliare. Nel 1959 Godard sta parlando in un café con Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo prima delle riprese di A bout de souffle. Lo guardano perplessi. Gli attori iniziano la giornata senza
copione. Il regista scarabocchia qualche foglio, spiega frettolosamente. Sul tavolo, una tazza di caffé, il mensile Positif. Ciak,
si gira. E Cauchetier è il primo testimone di quest’improvvisazione permanente. Mostra la telecamera nascosta in un carrello della posta che segue Seberg e Belmondo sugli Champs-Elysées. Riprende la stanza 12 dell’Hotel de Suéde, rive gauche, dove in pochi metri quadrati si gira la scena d’amore. Senza luce
artificiale, né fonico. Il regista sussurra le battute agli attori
mentre stanno recitando. Seberg, che ha già lavorato con il dispotico Otto Preminger, minaccia di andarsene. «Godard aveva un disprezzo totale delle regole cinematografiche, non face-
SUL SET
Godard spinge
l’operatore seduto
in carrozzella durante
le riprese di A bout
de souffle (1960)
A destra, i protagonisti
Jean Seberg
e Jean-Paul Belmondo
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Così il pubblico scoprì
che a fare il cinema sono i registi
EMILIANO MORREALE
ai tempi dello studio system, le fotografie di scena hanno avuto sempre
una funzione fondamentale per
propagandare il mito del cinema, e in particolare il cuore di
questo mito: i divi, con la loro
prossimità e abissale lontananza. Ma negli anni della Nouvelle Vague, in tutto il mondo cambia qualcosa. Intanto, in questi
film girati con apparecchiature più leggere, con troupe ridotte, da
giovani, si ha un rapporto
meno rigido, meno ufficiale,
con la macchina-cinema. Fare
un film è un’avventura, una scoperta, o come aveva scritto Truffaut «un atto d’amore». E il fotografo di scena coglie momenti
che non sono più quelli, sempre
un po’ artificiali, del cinema fatto negli studios.
Ma c’è anche un altro dato. In
quegli anni è sempre più il regista stesso a diventare nome, divo quasi. E la foto di scena, oltre
che ritratto di volti famosi, diventa anche ritratto d’artista, di
uomini che fanno il cinema. Nel
cinema italiano, se Rossellini
era soprattutto soggetto da rotocalchi per le sue turbinose storie d’amore, il primo vero regista-divo è Federico Fellini. La
dolce vitaè un crocevia anche in
questo, e porta oltretutto allo
scoperto il connubio con un altro genere di foto “di cinema”,
meno nobili: quelle dei paparazzi, che proprio esso battezzava.
I film francesi immortalati da Cauchetier hanno
in più un tono di gio-
D
ventù all’arrembaggio, di scampagnata tra coetanei, ma anche
di sfida assai seria. Ma negli anni successivi, anche i cosiddetti
movie brats (la generazione di
Spielberg, Coppola, Scorsese)
vanno all’assalto di Hollywood,
e anche lì restano famose foto di
questi trentenni, talvolta barbuti, alle prese con macchine
produttive a volte colossali. Le
immagini più toccanti, però, rimangono forse quelle di un outsider come John Cassavetes, attorniato da un gruppo di attoriamici, impegnati a concepire i
film come un happening o uno
scavo crudele. Mentre nel frattempo le foto dei divi in scena e
fuori si fanno assai meno glamour, con le facce umanissime
di De Niro o Dustin Hoffman.
Oggi, in Italia, le foto di scena
sono un ambito che ha visto
emergere talenti notevoli (basti citare tra i tanti, Angelo Turetta o Philippe Antonello), anzi forse è uno dei generi che
consentono una creatività particolare, tra realtà e finzione.
Specie quando lo sguardo sui
film è anche sguardo sui luoghi
che le troupe attraversano, sugli angoli di una penisola che i
registi riscoprono (talvolta) di
saper guardare. E nell’incrocio
tra set, fotografo e regista va ricordato anche un exploit paradossale: il viaggio di Ferdinando Scianna sul set di Baarìa, in
Tunisia, ma a film finito, a visitare i fantasmi del cinema e della memoria.
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va neanche i raccordi per il montaggio». Cauchetier si adatta, riscrive anche lui i canoni della sua professione, inventa una narrazione propria. Incomincia a muoversi intorno al set, rubando momenti di ansia, discussioni, esplosioni di felicità.
Oggi è anche grazie al suo archivio che si può capire come lavoravano quei giovani artisti con pochi mezzi e tanta fantasia.
Godard che spinge l’operatore seduto in carrozzella, come una
macchina bionica. Claude Chabrol che fa il pagliaccio. «Amava
fare le smorfie, sapeva che non avrei resistito alla tentazione di
scattare». Truffaut a bordo di una Citroen 2Cv riadattata per le
riprese di Adieu Philippine. «Era un talento puro, un inquieto,
aveva bisogno di essere costantemente rassicurato».
Nella sua casa parigina, Cauchetier conserva migliaia di scatti, la memoria di un’epoca, ha fatto la cronaca della genesi di
tanti capolavori. Per molto tempo, non ha avuto neppure il
copyright delle sue immagini. Solo nel 1992, grazie a una legge
sul diritto d’autore, si è rimpossessato dei suoi archivi, conquistandosi la stima di molti cultori di quel cinema. Mezzo secolo
dopo, gli resta un po’ di nostalgia. È convinto che il suo sia un
mestiere finito. Molte produzioni tagliano i costi del fotografo
di scena. Con le riprese in digitale è possibile avere un’instantanea direttamente dal girato. Il dietro le quinte si è spettacolarizzato con video, interviste, director’s cut. Lo chiamano “bonus”. Forse non è più tempo di bizzarre utopie.
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Next
Passaparola
MOCKINGJAY
di Suzanne Collins
CATCHING FIRE
di Suzanne Collins
Si compra un testo elettronico su Amazon,
lo si scorre e lo si sottolinea su Kindle. Le note
finiscono in un sito insieme a quelle degli altri lettori
“Perché a volte le cose
accadono alle persone
e queste non sono
in grado di affrontarle”
Così si condividono frasi, passaggi,
pensieri. Così nasce il meta-libro
e così cambierà il nostro modo di leggere
frase sottolineata
13.983 volte
“Ci vuole dieci volte
più tempo per rimettere
insieme che per fare
a pezzi”
frase sottolineata
8.482 volte
ORGOGLIO E PREGIUDIZIO
di Jane Austen
“È verità universalmente
riconosciuta che uno
scapolo con un solido
patrimonio debba essere
in cerca di una moglie”
‘‘
frase sottolineata 8.340 volte
Questo è probabilmente il mio ultimo libro
cartaceo perché l’attenzione ormai è altrove
La gente trascorre sempre più tempo
su cose che succedono sugli schermi
Non è mancanza di amore per i libri,
è che il centro della cultura si è spostato
Kevin Kelly fondatore di Wired
20mila
I titoli di ebook in Italia nel 2011:
nel 2009 erano 1.600
35mila
I titoli elettronici in Gran Bretagna nel 2011:
hanno sorpassato le nuove uscite in brossura (28mila)
RICCARDO STAGLIANÒ
rimaviene la Bibbia. Seconda la biografia del profeta Steve Jobs. Al sesto
posto le tavole delle legge di Timothy
Ferris, il guru di 4 ore alla settimana
per il tuo corpo («Regola numero 1:
evitate i carboidrati “bianchi”»). Sono tra i libri più sottolineati di Amazon, riduzione digitale della biblioteca di Babele. La classifica è affidabilissima perché siamo noi a compilarla quando, leggendo un ebook, evidenziamo
con un dito un passaggio che ci piace. A quel
punto l’algoritmo calcola quante altre persone
hanno segnato lo stesso titolo o apprezzato la
stessa frase e compila la graduatoria sul sito. Così la lettura diventa statistica. I libri degli altri diventano i nostri. Non necessariamente dall’inizio alla fine, magari solo alcune righe rimarche-
P
WIKI
Il romanzo a più mani
scritto coi nostri touch
voli. Tra qualche anno, alla domanda «l’hai letto?», si potrà rispondere senza mentire «sì, ma
solo le dieci frasi più annotate». Probabilmente
Borges non sarebbe contento. Bauman, invece,
potrebbe intenderlo come l’ennesimo inveramento della «modernità liquida», con tutta la
frammentarietà che l’accompagna.
Filosofie a parte, il salto è davvero forte. E di recente sempre più persone si sono convinte a far-
lo. L’inglese Penguin ha appena annunciato che
i suoi introiti da ebook sono raddoppiati in un
anno e costituiscono il 12 per cento del fatturato. Sempre in Gran Bretagna è avvenuto il sorpasso dei titoli elettronici rispetto alle nuove
uscite in brossura, 35mila contro 28mila nel
2011. Accelerazione fortissima anche in Italia:
1.600 titoli nel 2009, 7.000 un anno dopo e quasi
20mila all’ultimo Natale. Il problema, da noi, è
che tanta offerta partorisce per ora lo 0,1 per cento del fatturato. Ma a giudicare dall’attivismo
editoriale sembra chiaro a tutti che il conto economico cambierà in fretta. Chi supera l’ostacolo culturale difficilmente torna indietro. L’argomento dei tradizionalisti è quello cui Luciano De
Crescenzo aveva appiccicato un’etichetta fortunata: «libridine», ovvero il godimento di avere
tra le mani l’oggetto di carta. L’esperienza tattile si perde, e non è perdita da poco, ma quella cognitiva viene aumentata in così tanti modi che
nel complesso la compensa con gli interessi.
Riassumendo, una volta comprato un titolo,
con un risparmio minimo di un terzo rispetto al
prezzo cartaceo, si può leggere su Kindle, il lettore della casa, o sulle app gratuite per visualizzarlo su smartphone, tablet o computer. A quel
punto si possono sottolineare delle parti e anche
aggiungere commenti propri. Gli uni e gli altri
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Ebook
Epub
Kindle
Il libro elettronico
è un file di testo
che può essere
visualizzato
su un apposito
lettore digitale
Abbreviazione
di electronic
publication, in Italia
è uno dei formati
di ebook
più diffusi
In America
di gran lunga
prevalente
è il formato .mobi,
ovvero quello
leggibile su Kindle
Daily Review
Flash card
La funzione
che Amazon offre
ai suoi utenti
per archiviare
i libri online
e “ripassare”
le annotazioni
Si vedono le frasi
sottolineate
in schede singole,
versione digitale
delle flash card
cartacee usate
dagli studenti
LA BIBBIA
“Credi in Dio con tutto
il tuo cuore, e non peccare
di presunzione
Cerca in tutti modi
di conoscerlo, e Lui
ti indicherà la strada”
frase sottolineata
1.100 volte
STEVE JOBS
di Walter Isaacson
“Fingi di avere
tutto completamente
sotto controllo
e le persone penseranno
che ce l’hai”
frase sottolineata
3.748 volte
Piccole chiose
sui margini dell’amore
STEFANO BARTEZZAGHI
rai motivi per preferire il libro all’ebook, gli appunti a margine
arrivano normalmente per secondi, subito dopo l’odore della
rilegatura. In realtà ora annotare libri elettronici si può anche
ma siamo molto lontani da quello che Roland Barthes chiamava «il
piacere di costellare (étoiler) il testo». La procedura è tuttora troppo
farraginosa e tocca agire con tastiere progettate da qualcuno che
odia la scrittura più di quanto ne diffidasse il dio Thamus di Platone.
Il grado zero della chiosa è la sottolineatura semplice, a mano libera o con righello, quest’ultimo tratto distintivo di tipi assai precisi o così parsimoniosi da prevedere la rivendita del volume sotto la
specie merceologica: «in buono stato». Attorno: esclamativi, frecce,
note, lampadine, interrogativi, irrisioni, insulti. Si proclama così il
testo come geniale, confutabile, stupido o anche trascurabile,
quando nulla lo costella o addirittura sui suoi margini vi appaiano
appunti relativi ad altro o scarabocchi insensati. Altre scelte che
compongono l’identikit del chiosatore: matita, penna, pennarello
o evidenziatore? Sottolineare quasi tutto (gente ansiosa, portata a
imparare a memoria anziché assimilare) o quasi nulla (per lettori
che si sentono superiori al libro)? Si è anche visto usare, in funzione
di «controevidenziatore» un raccapricciante pennarello nero, con
cui cancellare le parti del testo non utili per l’esame (secondo l’uso
dell’artista Emilio Isgrò).
A parte l’ultimo caso, chiosare i libri non implica mancanza di rispetto. C’è differenza (e ce lo insegna proprio l’ebook) tra amare il libro e amare il testo. Ma anche l’amore per il libro se esclude il desiderio di compenetrare il testo diventa devozione sterile. Per chi rispetta così tanto la carta dei libri da non volerci scrivere sopra c’è una
soluzione riguardosissima: l’ebook.
F
EBOOK
© RIPRODUZIONE RISERVATA
verranno “salvati” sui server di Amazon e lì resteranno per consultazione. Ed è qui che il valore aggiunto si manifesta. Di ogni volume appare
la lista delle sottolineature. Potete vederle una di
seguito all’altra e, in colore diverso, anche quelle altrui. Per una banale considerazione di “intelligenza collettiva”, se centinaia di persone
hanno sottolineato un passaggio che a voi è sfuggito, può valere la pena dargli un’occhiata. Per
favorire il ripasso Amazon si è inventata la funzione “Daily Review”. Cliccandoci sopra vedrete le sottolineature una scheda per volta, come
le flashcard mnemoniche che usano gli studenti americani di ogni ordine e grado. Ed è provato
scientificamente che ripercorrere i propri appunti aumenta in maniera significativa la ritenzione delle informazioni. Ideale per la saggistica, ma anche per la narrativa non dispiace.
La prospettiva più entusiasmante si apprezza
nel lungo periodo. Perché se cominciate a leggere tutto in formato elettronico vi costruite un
archivio personale cercabile per parole chiave.
Sorprendentemente per il momento non si può
fare dal sito, ma è solo questione di tempo (e comunque esistono vari stratagemmi per esportare le note in formato testo e ricercarle liberamente). Mentre è già possibile all’interno del lettore o dalle app. Vi ricordate solo un pezzo di
quella bella citazione che inizia con «solum certum» in quello strepitoso libro sulla vita di Montaigne? Basta digitare anche solo un termine e la
trovate tutta («l’unica cosa certa è che niente è
certo»), compresa la rivelazione della paternità
di Plinio il Vecchio. Provate a farlo sfogliando
quel malloppo da 450 pagine e ne riparliamo. La
somma delle vostre letture diventa conoscenza
attivabile on demand, anche quando i neuroni
fanno le bizze e le sinapsi si incantano. Lo stesso
Borges, che ha scritto della memoria totale di Funes, stavolta apprezzerebbe.
Ma non è che l’inizio delle cose in più che l’ebook di Amazon consente rispetto alla concorrenza digitale e a quella analogica. Una volta registrato al sito, per dire, Kindle vi assegna un indirizzo di posta elettronica dedicato. Basterà
spedirgli un qualsiasi file pdf personale, un articolo lungo da leggere con calma, un rapporto,
tutto ciò che non volete stampare, perché il sistema lo renda leggibile e ben impaginato.
Niente cavi. Niente complicate sincronizzazioni. Giusto un’email. Questi ebook possono
anche essere prestati a chi volete: basterà autorizzare un nominativo e, nel tempo che l’avrà
lui, non potrete leggerlo voi. Per non dire del dizionario incorporato che traduce e spiega ogni
parola evidenziata.
Fosse ancora vivo Roland Barthes, forse ri-
spolvererebbe per l’occasione la sua dicotomia
tra «testi leggibili» e «testi scrivibili». I primi, semplificando molto, sono quelli che non chiedono
un grande sforzo al lettore, offrendogli immagini pronte al consumo. I secondi pretendono
un’interazione più forte, che completa il lavoro
dello scrittore. In qualche modo è ciò che succede qui, con le glosse della comunità dei lettori
che si moltiplicano e si stratificano, aggiungendo livelli di senso. Ma non è per questo che l’altra sera ho annullato l’ordine della versione tascabile di The Big Shortdi Michael Lewis — il miglior libro in circolazione sulla crisi — per sostituirlo con quella Kindle. Per quanto sia scritto
benissimo, la materia — tra derivati, credit default swaps e altre tecnicalità finanziarie — è ermetica. Il ripasso elettronico sarà indipensabile.
E tanto, tanto più comodo.
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LA DOMENICA
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I sapori
Verde & bianco
Vengono prodotti con l’arrivo della bella stagione,
il loro nome varia da regione a regione, si adeguano
ai paesi e ai dialetti. Ma il concetto non cambia
Perché, dalle malghe valdostane al Lazio
e alla Gallura, il latte sano si sposa
con le essenze finissime dell’erba nuova
Primo sale
Raviggiolo
La più immediata espressione
del latte fresco, per il formaggio
salato una volta sola
— da cui il nome — che si gusta
pochi giorni dopo la produzione
Dolce, cremoso fino a squagliarsi
(come il fratellino squacquerone,
appena più acidulo),
si prepara con latte crudo
e dura pochissimi giorni
LICIA GRANELLO
giardini di marzo si vestono
di nuovi colori», cantava Lucio Battisti. E insieme ai
giardini, gli orti, i prati, la
campagna intera, pronta a
scrollarsi di dosso il gelo dell’inverno. Dal verde che fa capolino tra le zolle bruciate dal freddo alle primule con cui rallegrare il terrazzino di casa, la voglia di primavera ci assale, anche a tavola. Marzolini, li
chiamano. Sono i formaggi figli della nuova
stagione. Da regione a regione, il nome viene
scomposto e ricomposto, perde il vezzeggiativo, si adegua ai dialetti, stiracchiando accenti e consonanti come si tira una pasta filata. Ma il concetto non cambia, idealmente
rappresentato dall’immagine bucolica degli
animali al pascolo, felici di brucare l’erba te-
«I
re la qualità del latte in arrivo da produttori diversi. Una pratica che dilaga grazie al potere
delle lobby legate alle industrie alimentari.
Una volta pastorizzato il latte, basta aggiungere dei fermenti esterni per realizzare le diverse tipologie. Ma nel frattempo si è del tutto smarrito l’unicum che caratterizza i latticini prodotti in queste settimane, con i loro finissimi odori di erba nuova e l’energia intatta
di un latte sano, vigoroso, artigiano, lo stesso
che le femmine danno ai loro piccoli (nelle cascine, questo è il tempo dei parti e degli allattamenti).
Se l’erba e buona e gli animali sono trattati
bene, al latte riesce davvero un piccolo miracolo di bontà. Lo sanno bene due grandi
scienziati del formaggio come Roberto Rubino e Giuseppe Licitra, che da anni portano
Se un formaggio
fa primavera
nera. Se pensiamo ai latticini primaverili, il
collegamento a pecore e capre, bufale e mucche suona necessario, perché grazie alle ultime briciole del nostro Dna contadino sappiamo quanto il sapore del latte passi nei suoi derivati, a maggior ragione quando si parla dei
formaggi freschi, freschissimi, finalmente
svincolati dall’alimentazione invernale.
Purtroppo non funziona sempre così. Al
contrario, le produzioni industriali che tutto
standardizzano, hanno azzerato il piacere
delle differenze. Principale imputata, la pastorizzazione, che in nome della “sanificazione” del formaggio, uccide insieme ai batteri
cattivi quelli responsabili dei sapori originali.
La bollitura a temperature più o meno elevate è la strada più facile per evitare i guai connessi alle stalle non in ordine (con animali affetti da brucellosi, per esempio) e per livella-
avanti la battaglia culturale ed economica per
diffondere le produzioni a latte crudo con
animali tenuti al pascolo, l’uno con l’Anfosc
(associazione di valorizzazione dei formaggi
“sotto il cielo”), l’altro con il Corfilac, il consorzio siciliano di filiera casearia che ha appena lanciato il progetto del “Latte vero a
Km0”, connesso alla Cacioteca regionale, il
primo centro dedicato allo studio e alla riproduzione dei sistemi storici di stagionatura dei
formaggi. Assistiti dalle temperature miti, organizzate una gita nei luoghi dei formaggi a
latte crudo, dalle malghe aostane alla Gallura. Annusate per inebriarvi dei profumi timidi e suadenti del latte di primavera. Assaggiate un tomino così, nudo e crudo come casaro
l’ha fatto, e beatevi di tanta odorosa tenerezza. Per l’estate c’è tempo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Marzolini
Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 MARZO 2012
DOVE DORMIRE
DOVE MANGIARE
DOVE COMPRARE
LA TERRAZZA DEL CHIOSTRO
Corso Rossellino 26
Pienza (Siena)
Tel. 0578-748183
Camera doppia da 100 euro,
colazione inclusa
OSTERIA LA PORTA
Via del Piano 1
Monticchiello di Pienza (Siena)
Tel. 0578-755163
Chiuso mercoledì, menù 30 euro
FATTORIA BUCA NUOVA
Via Primo Maggio 4
Pienza (Siena)
Tel. 0578-748350
PODERE POGGIO ANTICO
Via Tresanti 2
Montespertoli (Firenze)
Tel. 0571-659063
LA TENDA ROSSA
Piazza del Monumento 9
Loc. Cerbaia, Montespertoli (Firenze)
Tel. 055-826132
Chiuso lunedì a pranzo e domenica,
menù 60 euro
PODERE DELL’ANSELMO
Via Anselmo 12
Montespertoli (Firenze)
Tel. 0571-671951
Camera doppia da 70 euro,
colazione inclusa
L’OASI DEL GRILLO
Località Colonna del Grillo
Castelnuovo Berardenga (Siena)
Tel. 0577-355762
Monolocale da 60 euro
CASEIFICIO LA FONTE
Località Asciano
Castelnuovo Berardenga (Siena)
Tel. 0577-700031
LA BOTTEGA DEL 30
Via S. Caterina 2
Località Villa a Sesta,
Castelnuovo Berardenga (Siena)
Tel. 0577-359226
Chiuso martedì e mercoledì, menù 55 euro
IL CACIO DI VOLTERRA
Località Pallesse 68
Volterra (Pisa)
Tel. 0588-81516
Marzolino
Marzotica
Marzirolo
Case ’e marzo
Latte di pecora al cento per cento
per il cacio millenario nato
nelle campagne del Chianti
e soggetto a diversi gradi
di stagionatura, da dolce a piccante
Evoluzione della ricotta tipica
della campagna leccese:
sgrondata del siero, viene salata
a secco e, una volta asciugata,
rotolata nei cereali selvatici
Dalla tradizione contadina
valtellinese, il nome che battezza
il primo gorgonzola dell’anno:
latte di doppia mungitura e spore
di Penicillium Roqueforti
La marzellina casertana si prepara
con latte di pecora e capra,
cagliato grazie alle foglie
di cardo. Dopo la salatura,
si cosparge di timo selvatico
Sulla strada
Odor di Pienza,
da città dell’arte
a città del cacio
STEFANO MALATESTA
ienza, che si gloria dell’altisonante titolo di Città d’Arte, negli ultimi tempi è diventata Città del Cacio Pecorino. Basta salire su per le rampe che portano
alla nobile piazza per venire avvolti da un
acre odore di formaggio che esce da un numero inverosimile di spacci. Questi cambiamenti nelle percezioni olfattive non sono una esclusiva di Pienza e della Val D’Orcia. A pochi chilometri di distanza, nella Val
di Chiana, celebre per le carni dei suoi manzi, un profumo di tagliata al rosmarino sale
dalla valle su per le meravigliose colline dietro Trequanda, così forte che sembra connaturato a quei luoghi come l’odore del
sandalo è connaturato allo Yemen o quello
del cumino a Marrakesh.
Quello che attrae oggi i visitatori della toscana è una attività essenzialmente manducatoria e gastronomica. Appena sbarcati nei paesi, le truppe cammellate dei turisti di massa, dopo rapide incursioni nelle
chiese e nei musei, compiute per evitare
sensi di colpa, peraltro altamente improbabili, si precipitano alla frenetica compera non sola di cacetti, ma di marmellatine,
di prosciuttini, di finocchione. L’intento
del guadagno pronto e subito sembra non
avere più limiti, con conseguenze dannose
per lo stesso prodotto primario, il cacio. La
Val d’Orcia, per quanto vasta, può contenere un numero limitato di pecore, con
una produzione di latte molto inferiore a
quella che consumano da soli le due o tre
grandi industrie casearie del posto. Così
una parte cospicua delle caciotte è lavorata con latte importato e senza quella passione e cura che facevano del pecorino locale un vertice tra i formaggi della regione.
Naturalmente rimangono delle eccezioni
e ne vorrei citare almeno un paio di piccole
aziende a conduzione familiare che resistono al degrado. La prima, l’azienda agricola Bagnolo, si trova sulla strada per
Sant’Anna in Camprena ed è gestita da un
abile sperimentatore caseario, Ernello, che
ha creato qualcosa di simile al Reblochon
francese chiamato Centomuffe. La seconda appartiene alla famiglia Cugusi, si trova
alle porte di Montepulciano e produce l’intera gamma del pecorino pientino: dieci
qualità tra cui il pecorino trattato con le foglie di noce e anche una sorta di gorgonzola più delicato. In Val d’Orcia è una assoluta novità. E anche una meraviglia.
ILLUSTRAZIONE DI CARLO STANGA
P
Ricotta
Il non-formaggio (da siero)
è protagonista delle ricette
di primavera, dalle insalate ai dolci
Nota di merito per quella di pecora,
più grassa e saporita
LA RICETTA
Insalata di puntarelle
con alici e ricotta
Tedesco di nascita
e mediterraneo per scelta,
Oliver Glowig gestisce
il ristorante che porta
il suo nome all’interno
dell’hotel Aldrovandi di Roma
A firmare la sua cucina,
ricette morbide e rigore zen,
come nel piatto creato
per i lettori di Repubblica
Ingredienti per 4 persone
200 gr. di alici fresche
2 cucchiai di colatura di alici
200 gr. di ricotta vaccina
3 mazzi di puntarelle
olio extra vergine,
aceto di Barolo,
sale e pepe
Pulire e spinare le alici
Lasciarle in acqua e ghiaccio
per dieci minuti per togliere il sangue
Asciugarle con carta assorbente
e condirle con colatura
e olio extravergine. Pulire le puntarelle
e tagliarle in quarti, immergerle
per dieci minuti in acqua e ghiaccio
per renderle croccanti e condirle
con olio extravergine, aceto di Barolo, sale e pepe
Setacciare la ricotta e stenderla sul piatto
con un sac à poche. Sopra, appoggiare le puntarelle
e le alici. Infine decorare con fiori commestibili
✃
GLI INDIRIZZI
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© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 4 MARZO 2012
LA DOMENICA
■ 42
L’incontro
Rinati
In principio fu l’alieno Mork,
un successo planetario. Poi vennero
l’alcol e la cocaina, la morte
di Belushi, i matrimonifalliti
e un infarto. E poi ancora grandissimi
film e, ora, una nuova
moglie: “Mi hanno
salvato i figli, grazie
a loro ho imparato
a vivere alla giornata
Robin Williams
Mi resta un sogno:
interpretare Einstein, seduto
su una spiaggia con le ciabatte
da donna ai piedi”
a sua biografia parla chiaro: Robin Williams è un
uomo che ha vissuto tre
volte. La prima esistenza
— a base di genio, sregolatezza, dipendenze da alcol e droga — lo ha portato,
negli anni Ottanta, sull’orlo del baratro.
La seconda, decisamente più sobria, è
stata spezzata dal terribile attacco cardiaco che gli ha fatto rischiare la morte,
nel marzo 2009. Così la terza, quella attuale, è segnata dalla consapevolezza di
essere, in qualche modo, un miracolato. Caduto e risorto, in almeno due occasioni. Da qui la sua filosofia un po’
new age: «Considero ciò che ho un
grande regalo», spiega, «i miei figli, la
mia terza e spero ultima moglie, il mio
lavoro. Un mestiere che mi permette di
fare la cosa più bella del mondo, e cioè
calarmi in ruoli completamente diversi
da me. Persone buone e cattive, animali (grazie ai doppiaggi nei cartoon), perfino geni della lampada come quando
ho prestato la voce nel disneyano Aladdin. Cosa si può volere di più?».
L’incontro con l’attore sessantenne,
in una stanza al secondo piano dell’hotel Ritz di Londra, è il trionfo dell’imprevedibilità. Un one-man-show Tra
scherzi, imitazioni (da Silvio Berlusconi a Mike Tyson) e facce strane. «Il primo essere umano che ho imitato», ricorda, «è stata mia nonna: viveva lontana da noi, non l’avevo mai vista. La
conoscevo solo per telefono. Così, per
‘‘
sieme a Kevin Kline e Christopher Reeve, Williams vede la sua carriera cambiare quando appare, nei panni del
buffo alieno Mork, in una puntata del
cult televisivo degli anni Settanta,
Happy Days: «Tutto nacque perché il figlio dell’autore e regista Garry Marshall, influenzato da Star Wars, chiese
al papà di mettere un extraterrestre accanto alla famiglia Cunningham.
Quando me lo dissero, mi sembrò una
follia: cosa c’entra una specie di marziano in una storia all-american anni
Cinquanta? Ma alla fine ebbero ragione loro: non era Shakespeare, ma era
divertente». Infatti il successo è clamoroso, da lì (siamo nel 1978) nasce la sitcom Mork e Mindy. Da allora un boom
inarrestabile: partecipazioni tv, show
dal vivo. E film. Alcuni non banalmente commerciali: Popeye di Robert Altman, Il mondo secondo Garp, Good
Morning Vietnam.
Intanto però nella sua vita ci sono al-
Ho avuto
così tanti
giorni bui
che nemmeno
li ricordo
So solo che quando
mi svegliavo
non sapevo dov’ero
FOTO AP
L
LONDRA
passare il tempo nelle ore di noia casalinghe, ho cominciato a rifare le sue frasi tipiche: “Allora che fai, stai guardando il wrestling? Stai mangiando la pizza?”. E cose simili. Sono stato molto solo nella mia infanzia: sono nato a Chicago, ma poi abbiamo girato tanto negli States. Mi facevano compagnia i
soldatini, ne collezionavo migliaia. Da
lì ho sviluppato l’immaginazione. E così, dopo mia nonna, nel mio mirino da
imitatore sono finiti tutti quelli che conoscevo: amici, parenti, compagni di
scuola. Il mio cavallo di battaglia, però,
è e resta Stephen Hawking». Segue dimostrazione pratica. Terminata questa ennesima performance, Williams
— pantaloni e polo blu, occhi chiari che
spesso si restringono fino a diventare
una indecifrabile fessura — torna se
stesso. Ma sempre all’insegna dell’ironia. Come quando commenta la nuova ondata di popolarità che lo ha investito qualche mese fa, quando le sue
nozze con la graphic designer quarantasettenne Susan Schneider hanno imperversato su cronache rosa e siti di
gossip: «Che imbarazzo, tutti quegli articoli e quelle foto con me perfetto sposo. Sembrava che i tabloid non dovessero occuparsi altro che della mia luna
di miele. L’amore lo consiglio, è una
pillola della felicità più economica del
Prozac. Quanto a mia moglie, che posso dire? La sua caratteristica più notevole è che è una donna davvero alta...
Sono grato di questa nuova opportunità. Certo, lei è più giovane di me: ma
la mia non è la classica crisi di mezza
età, quella l’ho avuta almeno due decenni fa. Adesso invece sono sicuro che
non ripeterò più i soliti errori. Donne
comprese».
Il riferimento è ai suoi due precedenti matrimoni — il primo con Valerie Velardi, il secondo con Martha Garces — finiti con divorzi dolorosi e onerosi (accordi per oltre 20 milioni di dollari). Che però gli hanno lasciato un bene prezioso: tre figli, che ora hanno 28,
22 e 19 anni. Sono stati loro a spingerlo, dopo ogni ricaduta, a uscire dalla
dipendenza: «I bambini non è che li
puoi lasciare lì e andarti a ubriacare,
dicendo ripasso più tardi. Ti fanno riflettere, inevitabilmente, sulla vita che
stai conducendo».
Il problema, a sentire lui, ha origine
nella repentinità dell’exploit planetario che lo vede protagonista, quando
ha meno di trent’anni. Già studente di
teatro alla celebre Juilliard School, in-
col e droga: «La cocaina è lo strumento
che Dio ti manda per farti capire che stai
guadagnando troppo», ha ripetuto
spesso, riferendosi a quel periodo. Uno
stile di vita che lo coinvolge anche in
episodi di cui lui, tuttora, rifiuta di parlare. Come quel maledetto 5 marzo
1982 all’hotel Chateau-Marmont, sull’hollywoodiano Sunset Boulevard in
cui, nel corso di una festa ad alto tasso di
stupefacenti, John Belushi muore di
overdose. Secondo le tante ricostruzioni giornalistiche lì c’era anche Williams,
almeno nelle prime ore. «Ho avuto tanti giorni bui, molti così bui che nemmeno li ricordo», si limita a commentare,
«ricordo solo la sensazione di svegliarsi
senza sapere dove si è. Ora però sono
molto più saggio: del resto, si arriva a
sessant’anni anche per questo. Ho conosciuto grandi personaggi, nella mia
vita. Alcuni di loro se ne sono andati. Ma
bisogna comunque tenere duro».
La sbornia degli anni Settanta-Ottanta, per fortuna, finisce. Anche per
Williams, che ci offre, nel decennio
successivo, interpretazioni memorabili: Risvegli, La leggenda del Re Pescatore, Hook, Mrs Doubtfire, Will Hunting - Genio ribelle(che gli fa vincere un
Oscar), Patch Adams. Altrettanto interessanti sono i ruoli dark che recita all’inizio del nuovo millennio, in pellicole come Insomnia o One-hour photo.
Quelle in cui emerge il suo lato oscuro:
«Ho amato tanto recitare questi personaggi così inquietanti, così pieni di disturbi. Antieroi di storie cupe, strane,
borderline. Spero che mi offrano ancora ruoli del genere». Sul fronte opposto,
quasi a compensare il suo versante
buio, si collocano le partecipazioni a
film per famiglie e a cartoon. Da Aladdin fino ai due recenti Happy Feet, in cui
ha doppiato dei pinguini: «Mi piace il
lavoro sull’animazione, perché lì l’improvvisazione è bene accetta. Sono
bravo a improvvisare, posso fare quaranta variazioni sul tema su un unico
personaggio. Poi adoro avere a che fare con gli animali: non solo sul set, anche nella vita privata. Il mio animale
preferito è il gorilla. Una volta ne ho anche incontrato uno: era una femmina e
si è subito innamorata, voleva appartarsi con me nel retro della stanza. Ho
partecipato a diverse iniziative benefiche per la salvaguardia di questa specie. Hanno un’aria così incredibilmente umana, sono commoventi. Pure le
scimmie sono forti: per risolvere i loro
conflitti usano il sesso, il che è meravi-
glioso». E a proposito di animali, tra i
suoi prossimi impegni c’è il doppiaggio di un cane parlante nel film Absolutely Anything, che segna il ritorno del
gruppo comico dei Monty Python. Prima, però, lo rivedremo sullo schermo
vestito da prete in The Big Wedding, accanto a Robert De Niro e Diane Keaton:
«È la storia di una notte di mezza estate
che si svolge in Connecticut, un posto
pieno di signore tutte rifatte col botox».
E fra tanti impegni, un unico rimpianto: «Non ho ancora realizzato il mio sogno di interpretare Albert Einstein. Sono ossessionato da una sua foto in cui è
sulla spiaggia, con pantofole da donna
ai piedi. Straordinario. Forse un giorno
riuscirò a entrare nei suoi panni».
Dunque un nuovo matrimonio,
nuovi film, nuove sfide. Forse per reagire a quel terribile marzo 2009, quando
ha avuto una brutta crisi cardiaca, con
intervento chirurgico per rimpiazzare
la valvola aortica: «La nuova proviene
da una mucca, quando mangio carne
bovina devo alzarmi in piedi per rispetto». Poi conclude, quasi serio: «Fisicamente mi sento bene, il matrimonio è
fantastico, i miei figli pure. L’unica cosa
che odio davvero è ballare la discomusic: come fobia non è così grave. La
realtà è che ho accettato l’idea di prendere tutto con un po’ più di leggerezza.
Di apprezzare le piccole cose — perfino
il mio respiro. Insomma, da tutta questa vicenda ho imparato qualcosa di
importante: saper vivere alla giornata».
Cogliere L’attimo fuggente, come recita
il titolo del suo film più famoso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
CLAUDIA MORGOGLIONE
Repubblica Nazionale
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