Le comete
Titolo originale: Chanel solitaire
Traduzione dal francese di Federica Giardini
In copertina: Coco Chanel nel 1937 con i paraventi cinesi di Coromandel
(© Lipnitzki / Roger-Viollet)
Per quanto non coperto dal copyright, l’editore dichiara di aver fatto quanto in suo potere per rintracciare gli aventi diritto e riconosce i diritti di pubblicazione agli eventuali titolari.
© Éditions Gallimard, Paris, 1983
© 2012 Lindau s.r.l.
corso Re Umberto 37 - 10128 Torino
Prima edizione: settembre 2012
ISBN 978-88-7180-981-6
Claude Delay
COCO CHANEL
Genio, passione, solitudine
Nota
La mia amicizia con Chanel è durata dieci anni, gli ultimi della sua
vita. La sua intimità mi parve allora così rivelatrice che pubblicai di getto Chanel solitaire, i miei ricordi.
Oggi torno a lei dopo un distacco di dieci anni. I numerosi libri e documenti pubblicati tracciano altri cammini, diversi dal mio. Nato alla fine della sua vita, il mio unico proposito è stato di ritrovare la sua storia,
quella di una Chanel intima, il cui vissuto mi aveva fatto penetrare il segreto di un creatore al femminile e di un’inalterabile infanzia. Una Chanel gloriosa, ma anche ferita, fragile. Questo libro è la storia di una donna. (c.d.)
Premessa
Ho conosciuto Coco Chanel in Rue Cambon, sul finire della sua vita. Per caso, quel caso di cui lei aveva fatto la propria superstizione. Entrò nel suo negozio, dove stavo scegliendo un foulard stringendo dei libri sotto il braccio. «Lei è fortunata ad avere il tempo di leggere», mi disse. «Io, invece, vivo come una prigioniera. Venga a fare colazione con me
un giorno». Era così intensa, così accattivante sotto la sua paglietta dispotica, al fondo della scala aggrappata agli specchi, che indistintamente sentii su di lei gli effluvi del suo profumo e quelli, più proibiti, di una
inalterabile adolescenza.
Tra i suoi specchi, ogni stagione la vedeva intenta a preparare la sua
«ultima» collezione. Lavorava senza sosta per far nascere la seduzione
da una donna apparentemente anonima. Quella donna era lei stessa. Le
sue modelle in camicia bianca, con il metro annodato intorno alla vita,
lo sapevano bene: Coco faceva in modo che tutte somigliassero a lei.
La frangia, il fisico magro («la noia ingrassa», diceva), i seni leggeri
(«ho un petto che non mi impedisce di correre»), il piccolo jersey ingualcibile e la camelia per sognare: era la sua figura che vestiva. La sua
storia.
Mostro sacro della moda, quando la si credeva relegata alle calende
degli anni folli ritornò sul campo delle sue battaglie. Con le sue armi di
sempre: la magrezza, la semplicità e il vero. Della sua figura, mascolina
e ultra-femminile, aveva fatto un bestseller del lusso e della voluttà. A
settantun anni, sfinita dall’ozio, Coco si era guadagnata la rentrée contro il new look di Christian Dior, tutto costrizioni e guêpiere. Di nuovo,
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COCO CHANEL
il mondo portava i suoi colori: uno «Chanel» era sinonimo di seduzione
per qualsiasi donna, a Parigi, New York e Tokyo. I suoi abiti andavano
a ruba ovunque, dai grandi magazzini Bergdorf Goodman a quelli in
Giappone: quest’ultima «bonheur des dames» stimolava l’appetito tanto quanto una baguette. Coco era tornata in uniforme.
Inchiodata al suo compito, Chanel strappava instancabilmente il gallone o il giromanica del suo piccolo costume, in un rapporto ardente tra
creatore e creatura, scolpendo l’attaccatura con le sue dita assassine che
toglievano sempre di più, fino a scoprire il corpo.
Né disegni né quadri. Chanel sceglieva la sua tavolozza al tocco, giudicava la morbidezza della stoffa con la punta delle dita, aveva i colori
negli occhi e tutti i sensi arruolati, in agguato. Poi lavorava di forbice
sui suoi manichini viventi, vestiti con l’abbozzo di un abito, di un costume. Le giovani donne, mute e docili, sembravano attendere con trepidazione il passaggio appassionato delle sue mani, preghiera o saccheggio di un Pigmalione infaticabile.
«Vedi», diceva mostrandomi il blasone dei Westminster sulle scatole
di vermeil che le aveva regalato il duca all’epoca della loro relazione, «se
dovessi scegliermi uno stemma, vorrei che fossero le mie forbici». Inseparabili compagne. Erano appese a un nastro bianco, intorno al suo collo, abitavano i suoi tavoli Coromandel, quelle cesellate in oro fino o le
piccole Nogent del quotidiano, posate sulla sua coiffeuse e, di notte, sul
suo comodino accanto all’icona regalatale da Stravinskij. Se le sognava.
Tagliare, sempre tagliare… Con che filo si misurava?
Non l’ho mai vista in pace. Misurarsi con la materia natale, ribelle,
fino a non vederci più, ubriaca di fatica, significava dare al suo alter ego
il potere di piacere: puntare sul destino, portare felicità. Sconcertante gemellaggio tra il suo successo e una miseria segreta. Era la sua fragilità
che metteva al bando, in un rituale di cui l’amicizia con Chanel mi
avrebbe rivelato il senso: bisognava sempre ricominciare la guerra alla
sua infanzia abbandonata. Le faceva sfiorare l’abisso. L’abisso della
mancanza d’amore. Immagine straziante di Chanel, che strappava e ricominciava. «Una donna che non è più amata non vale nulla. Non le resta che morire».
PREMESSA
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Le sue difese erano tali da travolgere l’interlocutore. Nessun ricatto
sentimentale la ingannava. Era nei momenti misteriosi in cui il suo inconscio parlava che Chanel si lasciava indovinare, si rivelava.
I ricordi sono belve che divorano il tempo. Era ieri che la raggiungevo in Rue Cambon, alla luce della lampada, quando la maison si era
svuotata delle modelle e delle piccole operaie. Intorno al divano di daino,
dove si rifugiava sempre, i paraventi Coromandel ostentavano la loro
selvatichezza, sobria e raffinata come la loro padrona. Aveva l’età per riconoscere tutto: il lutto della felicità, il sospiro del successo, la gloria
rauca che lascia il gusto delle lacrime al crepuscolo.
La lasciai una domenica pomeriggio, alle sei. «Domani lavoro», mi
disse sul marciapiede del Ritz. Furono le sue ultime parole. La vidi mentre veniva inghiottita dalle porte girevoli, trasparenti, identiche a quelle
di tutti gli hôtel del mondo. Sarebbe morta sola, nella sua stanza, qualche istante dopo. Con le sue forbici di Nogent. E una scia del profumo
che aiutava a non farsi dimenticare. (c.d.)
Desidero ringraziare per le loro testimonianze: Adrienne Chanel,
Tiny Labrunie, Louis Balsan, Boulos Ristelhueber, il duca Antoine de
Gramont, il conte Jean de Gramont e il conte Henri de Gramont.
COCO CHANEL
Genio, passione, solitudine
Gabrielle Chanel nel 1920.
L’infanzia, o lo spossessamento
Nel profondo di noi stessi,
abbiamo sempre la stessa età.
Graham Greene
Sventolare il suo stato civile era un vezzo di Chanel. Nel corso
della sua lunga vita, né il tempo né la gloria seppero trarla in inganno. Sul suo romanzo familiare manteneva il riserbo. «Non abbiamo mai mangiato nello stesso piatto», diceva agli indiscreti. La
sua infanzia – non ne abbiamo che una – apparteneva a lei sola.
«Sono l’ultimo vulcano dell’Alvernia a non essersi ancora
estinto». Memoria smodata. La sua infanzia spuntava con una intensità che niente aveva offuscato. «La ricordo a memoria la mia
infanzia». L’aveva segnata per sempre.
Una parola mandava Coco su tutte le furie se pronunciata in
sua presenza: «l’orfana». La sua collera mal celava un turbamento patetico, lo stesso che aveva provato in tutto il suo essere di
bambina. Era un mezzo per nascondere agli altri, quelli che non
erano stati abbandonati, la ferita ancora aperta dei suoi dodici anni. «Mi hanno portato via tutto e sono morta. È successo quando
avevo dodici anni».
I dodici anni nei racconti di Chanel diventavano sempre sei,
dimezzando la sua età alla morte della madre. Come se quella
morte le avesse trasmesso una fragilità più grande di lei, che non
sapeva affrontare.
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COCO CHANEL
«Mia madre soffriva di…». Rivedo ancora il suo gesto: Coco si
indicava il petto. Jeanne Chanel aveva la tubercolosi. La mano di
Coco puntava verso la piccola prigione della sua cassa toracica,
poi tracciava delle volute. Dava l’impressione di espellere ben altro che i microbi nemici: un male tangibile, un male d’amore. Il
volto si scuriva, ripercorreva un misterioso cammino verso il
soffocamento, verso la tosse di Jeanne. A riemergerne erano la
passione, la sete d’amore.
Chanel rivendicava l’eredità dei fragili polmoni materni, come
se quella vulnerabilità le risalisse in gola. «Vedi questa mussolina
che ho intorno al collo? La gente pensa che sia per bellezza, tanto per indossare qualcosa. Invece no. Serve a proteggermi». Per
tutta la vita Coco sarebbe stata fragile di gola. «È lì che il male mi
prende». La sorella maggiore, Julia, era morta del male materno
quando ancora era molto giovane, per una di quelle fatidiche ripetizioni del destino.
I fazzoletti macchiati di sangue di Jeanne non spegnevano il
fuoco che covava in lei. «Il delirio della provincia… Non puoi
neanche immaginare». Coco ne era ancora sopraffatta. La sensualità di una madre è un abito che una figlia non sa tagliare seguendo un cartamodello.
Da piccola Coco l’aveva vista piangere così spesso il padre assente ma finché Jeanne rimase in vita Albert tornò sempre. Il passo del cavallo che si allontana, il passo del cavallo che ritorna: Coco lo riconosceva meglio del battito del suo cuore. Il fremito dell’appuntamento con il primo uomo: il padre.
Quando Jeanne morì, Albert Chanel era assente. Così come lo
era stato alla nascita di Coco, la figlia scura di capelli che lo avrebbe amato di un amore possessivo.
L’aria era così dolce a Saumur quando nacque, quella tiepida sera del 19 agosto 1883… Saumur? Un caso. Quel caso che predestina, di cui Coco sarebbe stata per sempre la figlia adottiva e mai abbandonata. I cavalli avevano caracollato tutto il giorno durante la
parata del Cadre Noir. Nella capitale equestre non si diventava ca-
L’INFANZIA, O LO SPOSSESSAMENTO
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valieri senza essere caduti almeno settantasette volte. Dietro le velette, le donne sbattevano le ciglia sotto lo sguardo degli ufficiali in
dolman blu, stretti nei loro alamari, le trecce d’oro scintillanti sui
chepì. Una giovane donna di appena vent’anni si era rifugiata nell’ospizio, sentendo avvicinarsi le doglie. Mise al mondo una bambina, figlia del crepuscolo e di un padre assente. L’ora del crepuscolo, in cui era nata, avrebbe sempre angosciato Coco.
La bambina fu chiamata Gabrielle dalle religiose. Il nome non
aveva precedenti nella famiglia Chanel. Forse la suora che la battezzò volle assicurare un angelo custode a questa bambina, sola
con la madre di vent’anni? Coco amava raccontare che l’aveva
chiamata Gabrielle Bonheur.
Di Albert Chanel si è detto molto, anche a sproposito. Con
Jeanne Devolle ebbe due figlie fuori dal matrimonio, Coco e la sorella maggiore Julia. Jeanne, originaria dell’Alvernia e nipote di
vignaioli, aveva perso la madre da piccola. Quale fatalità? Albert
Chanel arrivò a Courpière durante un rigido inverno. Dopo quell’incontro Jeanne iniziò a fremere. Scuro di capelli, lo straniero
aveva dei lineamenti regolari ed era bello da togliere il fiato… Fu
l’idillio. E fu così che concepirono Julia.
La coppia regolarizzò in seguito la nascita delle due figlie sul
certificato di matrimonio. «I miei genitori erano persone normali, in preda a passioni normali».
Chanel avrebbe sempre dato la precedenza al desiderio sulla
ragione. La commiserazione sociale la lasciava indifferente.
Gli amanti divenuti sposi avrebbero avuto altri figli: Alphonse, il primo maschio, Antoinette, Lucien e infine Augustin, morto
in tenera età. Gravidanze misteriose, interrotte o quasi. Coco
sempre in agguato vedeva sua madre portare avanti la gestazione, appesantirsi, soffocare, sparire e tornare un po’ più curva con
un nuovo nato. La fatica materna riempiva la casa. Coco non
avrebbe mai messo al mondo bambini.
Albert Chanel aveva la stessa foga di generare di suo padre,
Henri-Adrien, la foga del vento delle Cevenne, culla del mistral,
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COCO CHANEL
e loro. Tutti belli da morire, gli uomini della famiglia… La piccola Chanel ne fu la degna erede: mise un’identica voluttà nel
produrre, nel riprodurre. Avrebbe dovuto sempre combattere la
cattiva sorte. Quella cattiva sorte aveva cacciato suo nonno da
Ponteils, il paese delle castagne di cui i suoi riccioli avevano il
colore. Dalla terra delle Cevenne, questa figlia dei Causses aveva ereditato un carattere granitico, ben temprato. «Il mio carattere nero come il cuore di un paese che non è mai capitolato».
Nella veste stretta delle sue foreste, catari, ugonotti e camisardi
si erano nascosti per sfuggire alle persecuzioni. Il crisma, simbolo della fede, si era straziato contro la colomba dei protestanti in questo paese di comunità radicate. «Ama solo ciò che ti appartiene»: un temperamento assoluto legava Chanel alla sua
stirpe con la stessa forza con cui i pesanti zoccoli dalla suola
puntellata dei suoi antenati pigiavano, schiacciandole contro
terra, le castagne.
Due nemici si accanivano ai danni del castagneto, il «mal dell’inchiostro» e l’endothia, allorché il savoiardo Henri-Adrien
Chanel lasciò Ponteils. Mentre girovagava, gli offrirono un lavoro alla bachicoltura dei Fournier. Il bozzolo del gelso sapeva di
conosciuto… Il giovane contadino in esilio non trovò niente di
meglio che sedurre la figlia di casa, Virginie-Angélina, all’epoca
sedicenne. I due si sposarono.
Henri-Adrien, statura di colosso e fare da gigante teutonico, si
vantò di poter vendere la merce imperfetta con un amico di Lione che possedeva un setificio. Cominciò così la discesa verso sud,
per vendere scampoli e far perdere la testa alle belle donne che
avrebbe continuato a corteggiare per tutta la vita.
Virginie-Angélina non si era accorciata i capelli di un solo ricciolo e portava le trecce avvolte a corona intorno alla testa. Coco
avrebbe ereditato la sua sontuosa capigliatura e la sua fierezza.
«Mia nonna faceva di testa sua…». Ce n’era bisogno, per non perderla insieme alla prole. Quel gagliardo del marito la mise incinta per ben diciannove volte.
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Quando Nîmes era ancora piena di boschi, la piccola Rue du
Bât-d’Argent aveva servito per molto tempo come luogo d’incontro per i mercanti di bestiame e la casa aveva ancora la sua
stalla e le sue mangiatoie, ormai senza gregge. Là nacque Albert, «le nîmois», il padre di Coco. Virginie-Angélina partorì sola, all’ospizio dell’Humanité. Henri-Adrien fu trattenuto a una
fiera… Gli uomini della famiglia Chanel erano sempre pronti a
svignarsela.
Viandante, Henri-Adrien avrebbe fatto nascere i suoi diciannove figli dove capitava. Louise, la sorella di Albert, la sola che
avrebbe offerto asilo alle nipotine colpite dal lutto, venne alla luce nel bel mezzo delle Cevenne. Adrienne, l’ultima nata del poderoso antenato e sua preferita, aveva due anni più di Coco e sarebbe stata la sua più cara compagna d’infanzia. La sessualità fece da ponte tra le generazioni: il nonno aveva avuto una figlia e
una nipote della stessa età.
Albert Chanel, avido di vino e di donne, aveva negli occhi la
libertà insolente del viaggio, le mansarde a cui approdava per caso. Quel caso, nei viandanti così legato al calendario, alle feste votive e alle stagioni, Coco lo avrebbe amato appassionatamente. Le
sere in cui suo padre rientrava dalla sensuale Jeanne, Coco tremava un po’ di più per paura del buio e lui la prendeva in braccio. «Piccola Coco…»: il suo primo nomignolo affettuoso. La
bambina si rifugiava nell’incavo della spalla paterna e si lamentava: «C’è un uomo lì, sotto il mio letto. E mi butta del grano».
«Ma il grano è buono», le diceva il padre. Il grano non l’avrebbe
mai abbandonata, per tutta la vita. «La cavalleria di San Giorgio»,
era solita chiamarlo… Ne fece il suo feticcio.
Prima infanzia tra gli artigiani del luogo, tessitori, cerai e cardatori, vasai e fabbricanti di chiodi, i primi detentori di un potere che Chanel non avrebbe mai cessato di riconoscere. Fervore artigiano della provincia, anello misterioso di una trasmissione. Il
solo per cui Chanel ebbe rispetto, insieme ai movimenti della terra, le stagioni…
L’INFANZIA, O LO SPOSSESSAMENTO
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Sempre più debole di salute, Jeanne tornò a Courpière. Il padre era sempre di passaggio. Un bacio sui capelli delle piccole:
«Quando hanno lavato la testa?». «Ieri, con il sapone di Marsiglia». Il sapone di Marsiglia, nemmeno lui sarebbe mai mancato
nell’intimità di Coco. «Detestava l’odore dei capelli. Cose d’infanzia che restano…».
«Io e mia sorella avevamo i capelli di tre colori». Le sfumature
dorate, castane e brune si mescolavano alle more nere e rosse dei
sentieri dove sparivano entrambe. La madre ammalata diceva a
Julia: «Stai dietro alla piccola». Ma non appena avevano superato il giardino, le sorelle si separavano. Coco andava verso il cimitero, di cui fece il suo regno. «Ero la regina di quel giardino segreto. Adoravo i suoi abitanti sotterranei. I morti non sono morti
fintanto che pensiamo a loro, mi dicevo». In quel luogo non aveva ancora nessuno da piangere, ma ugualmente andava a raggiungere i defunti con i suoi Margottons, le bambole di pezza che
si faceva da sola, le sue preferite. Alla presenza di quegli unici testimoni, scavava dei buchi per seppellirvi tutto quello che trovava: un cucchiaino, un astuccio per matite la cui sparizione fece
scandalo. «Seguitela», diceva Julia, «e vedrete dove va…». Di ritorno da un viaggio, il padre le aveva portato un portapenne, un
tesoro tra i tesori, che subì la stessa sorte: era fatto d’osso e aveva
una piccola lente nella quale da un lato si vedeva Notre Dame e
dall’altro la torre Eiffel.
Coco è convinta che ci sia del vino, quel vino di cui il padre
parla tanto e che vorrebbe commerciare, nella bottiglia d’acqua
zuccherata, piena di chicchi d’uva, che porta nel paniere con
Juju, sua sorella Julia. Juju canta, insieme dormono nei prati. A
volte Coco si mette in bocca una pesca intera: «Visto che mi dicevano che assomigliavo a una pesca, mi dicevo che mangiavo
me stessa…».
Misteriosa autodifesa dell’infanzia, nell’universo dei suoi fragili limiti. Le crisi respiratorie di Jeanne, quel sangue che macchia, fanno troppa impressione. Quel fratellino morto appena na-
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COCO CHANEL
to… Il rifugio della campagna sta per andare in pezzi. Per raggiungere Albert, che in una lettera annuncia di essersi stabilito a
Brive-la-Gaillarde, Jeanne si rimette in viaggio con le due figlie
maggiori. A Brive, il nonno Henri-Adrien ha una sorella sposata
a un notaio, senza figli.
Jeanne sarebbe morta lì. Trentatré anni appena. La piccola Coco rimase ossessionata dalla sua agonia. Il padre, assente, non
avrebbe più rivisto le lacrime vive di Jeanne. Solo il suo pallore
brillava, già cereo, sulle lenzuola bianche. Quando il vedovo si
alzò in mezzo alle prefiche, prese Coco tra le braccia. La corona
della sposa, sotto la campana di vetro, si era seccata.
Albert mise Coco sul carretto trainato dal cavallo e la portò dai
suoi genitori insieme alla sorella Julia e alla piccola Antoinette.
Henri-Adrien si mise a sbraitare: che cosa ci doveva fare con altri
bambini? Le sue finanze non dovevano essere intaccate. La sorella, moglie del notaio, era in amicizia con la superiora della Congrégation du Saint-Coeur-de-Marie, che dirigeva un orfanotrofio
tra i muri austeri e spogli dell’antico monastero romanico di Obazine, nei pressi di Brive. Virginie-Angélina pianse invano tutte le
sue lacrime… I figli di Albert Chanel furono mandati all’ospizio.
Poi Albert portò Coco e le sue sorelle a Obazine. Le nere braccia
dell’orfanotrofio si richiusero. Coco non avrebbe più rivisto il suo
diletto, suo padre.
Per tutta la vita Coco avrebbe lottato contro questo abbandono. La sua brama di piacere, di essere desiderata, riconosciuta,
copiata, non sarebbe mai bastata a sconfiggerlo. Eppure, mai e
poi mai l’ho sentita biasimare il padre, il bello e focoso Albert
Chanel. Il suo paradiso perduto. Se la prese con la filossera che
aveva attaccato i vigneti… Di suo padre fece sempre ciò che egli
aveva sognato di essere: «Mio padre era di Nîmes e faceva il commerciante di vino». La sua unica vigna, e di gran pregio, fu lei.
Non si era sbagliato nella scelta del vitigno.
«La leggenda resiste più del suo soggetto. Alla triste realtà preferiremo sempre quel bel parassita che è l’immaginazione». Feri-
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ti per sempre, i suoi occhi non mentivano, anche se la sua lingua
continuò a vendicarsi: «Le vostre infanzie mi fanno torcere dalle
risa. Non potete sapere che cosa vuol dire… non avere più nulla,
essere compatita». Tutto era meglio della condanna a morte di
quell’abbandono, la condanna a soffocare di ribellione e per le
menzogne… Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che vedersi appiccicato l’odiato epiteto di orfana. Gabrielle Chanel ormai possedeva solo il proprio nome: «Mademoiselle Chanel». Il nome di
suo padre, che lei avrebbe conservato per tutta la vita. E nessuno
che l’amasse.
Chanel disse che il padre se n’era andato in America… «Mio
padre parlava inglese, il che era considerato diabolico in provincia». Che vendetta, sulla soglia della casa perduta, allontanarlo fino a perderlo, trarre forza da quella lontananza ingigantita. L’orgoglio le impedì di venir meno, di sciogliersi in lacrime. Si attaccò
disperatamente ai ricordi, come quello di un abito bianco, l’abito
della sua prima comunione. Quante volte mi ha raccontato di
quell’abito che le aveva mandato il padre. L’ultimo segno che diede di sé. A dodici anni, per la cerimonia solenne della sua prima
comunione tra le mura grigie di Obazine, Coco indossò l’abito
scelto dal padre, l’abito delle comunicande.
Coco non si stancava di rievocare la sua organza, le sue ruche,
i suoi pizzi, il velo che scendeva fino a terra, la corona di perle
nella scarsella, le calze di seta e, suprema elegia, la corona di rose: tutte cose che la distinguevano dalle compagne, piccole contadinelle con la cuffia in testa. Già allora si vedeva diversa, l’unica della sua specie, irresistibile. Alla fine della sua vita, mi parlava ancora di quell’abito troppo vistoso, «chiaramente scelto da
una puttana». La puttana che le aveva portato via suo padre,
strappandole la metà vivente del suo essere. Se lo sarebbero conteso per sempre.
America chimerica ma feconda: fu la sua America, quella
che più tardi avrebbe conquistato, l’altrove definitivo della
scomparsa del padre. Questa scomparsa è la spaventosa verità
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che Coco doveva aggirare, rifuggire, negare. Sì, lui l’aveva abbandonata. Da quel momento in poi l’abbandono fu sepolto nel
suo inconscio, sigillato con la morte della madre. Quando moriranno i suoi amanti e gli altri uomini a lei cari, prenderà le distanze dal dolore con il suo inconscio di allora: «Lui mi ha abbandonata». Morendo. Mi diceva: «Quando muore qualcuno
che mi ha amata, subito mi dico che mi ha abbandonata». Era
necessario insorgere contro questo abbandono-morte, le sue difese dovevano soffocare il singhiozzo di allora che l’aveva quasi sommersa.
Non si sarebbe mai rivolta a nessuna delle suore chiamandola
«Madre». Il suo dolore di bambina apparteneva a lei sola. Coco lo
aveva chiuso con un chiavistello pesante quanto la sua disillusione. «L’orgoglio mi ha salvato», mi ripeteva sempre.
Il suo cuore è incarcerato, all’ombra di Obazine. La bambina
ritrosa avrebbe voluto abbandonarsi alla tenerezza. «Volevo essere sicura di essere amata e vivevo con persone spietate…». No,
non vuole le braccia delle serve, uniche laiche tra le suore inflessibili. «Sono stata allevata da donne». Questa rivendicazione
sgorgava sempre. Coco sedurrà l’altro sesso senza tregua. Sarà
una provocatrice.
L’orfanotrofio di Obazine le impresse a fuoco il marchio dell’abbandono. In uniforme. Non importa quale: persino a Obazine, le ragazze di buona famiglia avevano i loro diritti. Sono allieve «paganti». Tra di loro c’è Adrienne, figlia di Henri-Adrien
Chanel nonché zia di Coco e sua coetanea dalla carnagione fresca
e luminosa. Anche Louise Chanel, la sorella di Adrienne e di Albert, che ha sposato un certo Costier, ha messo la figlia Marthe in
convitto a Obazine, con Coco e le sue sorelle. Queste ultime, però,
sono state ammesse per spirito di carità e hanno diritto solo a vestiti confezionati in serie. Antoinette e Julia non se ne curano, ma
Coco si ribella…
Già all’epoca lottava contro la sua uniforme anonima e non si
sarebbe fermata fino ad averla avuta vinta: entità inseparabile dal
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COCO CHANEL
pensionato, dal «come si deve», ma anche da un «non so che» che
entra nella vita e non nei ranghi, riconoscibile come un talismano. Quell’uniforme avrebbe segnato Coco per sempre: era la sua
identità, qualcosa di inseparabile da lei, il suo quotidiano. Ne
avrebbe fatto il suo trionfo. Un certo modo di portarla, di domarla, la rendeva unica, vi apponeva una firma. Si sarebbe riconosciuta tra tutte, quella convittrice. Non c’era uomo che non sognasse di averla al suo braccio. Né clandestina né spigliata, ma
commovente. Della solita lavallière, del colletto bianco, dei polsini e della gonna sobria, Coco avrebbe fatto la sua tenuta, in cui si
sarebbe ritrovata nel suo giovane avvenire per averla indossata
nel suo giovane passato: i due rivali tra i quali non doveva perdersi… La piccola Coco era piena di rabbia per il suo amore tradito, piena di vendetta. Le giovani allieve bisognose erano diverse da quelle paganti. Umiliazione suprema di cui Coco si vendicherà: non avrà pace finché non avrà inventato la «sua» uniforme, finche non sarà uscita dall’anonimato di Obazine. Ne farà il
suo più intimo alleato: uno Chanel.
Doveva amarlo, suo padre, per riprodurne instancabilmente il
nome, il solo bene che avesse ricevuto da lui e di cui avrebbe fatto il proprio marchio inimitabile? Un corredo vendicatore, che lei
avrebbe continuato a restituire a una bambina orgogliosa e testarda, privata di tutto, sulla quale si erano chiusi i cancelli di
Obazine. Un corredo vendicatore, un corredo tardivo, che Chanel
avrebbe ostinatamente firmato con le sue due C intrecciate. Molto più che sui suoi abiti e i suoi tailleur, lo avrebbe riprodotto sulla mussola, la garza e la seta dei suoi foulard, sul corozo dei suoi
bottoni, sul pelo d’agnello delle sue borse, sulla seta pongée delle sue fodere, sulla fibbia delle sue cinture, sulle etichette dei suoi
profumi, sui suoi saponi. Il suo nome, sempre il suo nome. Ma
niente, no, niente avrebbe cancellato il feroce abbandono che aveva marchiato il suo passato.
«Nella mia più tenera infanzia… Queste parole accostate per
abitudine mi fanno rabbrividire. Nessuna infanzia è mai stata te-
L’INFANZIA, O LO SPOSSESSAMENTO
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nera». È a Obazine che Coco scoprì il freddo dell’abbandono. Il silenzio era sempre più sfocato intorno a suo padre. Ma il sogno si
arrampica come il gelsomino nel chiostro. Tornerà? A volte, nel
dormitorio, la notte glielo restituisce. Lui fischia, lei canta. I capelli disfatti sulla camicia rigida, in mezzo alle compagne addormentate, Coco si alza per raggiungerlo: è sonnambula. Solo la sua
paura del buio si presenta all’appuntamento. Il bacio no.
Le suore erano le testimoni inconfutabili del suo abbandono:
Coco chiuderà su di loro la lastra del ricordo. L’orfanotrofio, l’origine della solitudine, verrà nascosto a tutti gli spettatori della sua
vita, inventandosi altre educatrici: due vecchie zitelle arcigne, cugine della madre morta, che si sarebbero occupate di lei. Due zie
con fattorie e pascoli. La cappa del loro camino era piena di vivande conservate sotto sale e di carne affumicata, le loro credenze di
burro salato, i loro armadi di belle lenzuola di tela di Issoire…
«Ah! quegli armadi! Le ragazze tiravano le lenzuola, si ripassava con il ferro solo quella di sopra e gli orli a giorno». Nel suo
racconto, la biancheria della provincia, l’odore dello stiro e la
manciata d’amido, le cuffie con pieghettatura a cannoncino delle
serve cedevano il posto solo all’assenza degli uomini. «C’era stata una guerra e poi si sarebbe dovuto dividere il patrimonio…».
Sembrava che Chanel volesse demistificare l’illusione di un’infanzia malnutrita, per soffermarsi sulla sola povertà che l’aveva
piegata: la mancanza dell’amore. «Le mie zie? Non so se avevano
i denti, non mi interessavano». Il plurale uccide il singolare. Loro
avevano passato il fiore degli anni. Coco, lei, era passata oltre.
Coco non avrebbe conosciuto altre vacanze al di fuori di quelle intra-muros del convento che la sosta a Varennes, dalla zia
Louise Costier, la sorella di Albert. Durante le vacanze Louise riportava a casa la figlia Marthe e ospitava le piccole orfane. «Se
mandava il biglietto del treno, è solo perché aveva sposato un dipendente delle ferrovie…», diceva Coco, la ribelle. La donna non
può amare queste bambine che nessuno vuole. La zia non godrà
delle sue simpatie.
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COCO CHANEL
Tutto il suo essere insorge contro questa gente che l’ha relegata
nell’orfanotrofio dei senza famiglia. Il colpo di ferro della zia Louise, che le bambine chiamavano però zia Julia, il fischio stridente del
treno della piccola stazione le fanno venire voglia di darsela a gambe. Dove sono i giorni di un tempo? La devozione di Jeanne, i gloriosi fischi di Albert quando rientrava a casa e Coco affondava i riccioli nella sua spalla? Rabbrividì sentendosi un’intrusa. A testa bassa, ricama a punto croce le sue camicie da notte perché abbiano
un’aria russa, ma sbaglia l’orlo e il sopraggitto. Per quanto Louise
si sforzi, Coco detesta cucire. Il suo rifugio è il granaio: là sono conservati i giornali, i feuilleton cuciti insieme e le copie di «Illustrations» legate con lo spago. Instancabile, Coco scopre il romanzo a
puntate e si getta sui feuilleton. Questi gareggiano con «Les Veillées des Chaumières» nel rivelarle la vita… Infine, incontra il suo
doppio romanzesco. Fame di sognare… «Ho avuto un educatore,
un sentimentale scialbo di nome Pierre Decourcelle». Per tutta la
vita gli sarebbe stata grata per le sue eroine. L’adolescente si commuove per la dama in bianco: quella che si toglie la lunga giacca
sul campo da corsa perché accaldata, scoprendo così la sua raffinata camicia, oppure quella che è vestita di astrakan contro la neve
dell’inverno e in testa porta un toque ornato di violette di Parma.
Sono loro che per la prima volta la prendono per mano, all’ombra
del tiglio di Varennes-sur-Allier.
Miracolo delle iniziazioni. Il cuore in tumulto di Coco le rivela che i cattivi sono i buoni e le insegna a odiare i borghesi. Nell’angustia della sua solitudine, ha già cominciato a difendere
un’esistenza trincerata, inespugnabile. Sembra di sentire Colette,
l’altra provinciale: «Così ho fatto da bambina, abbandonata in
una biblioteca dove tutto è diventato nutrimento, e dove non si
sarebbe trovato nulla di conveniente per i miei sei, i miei dieci, i
miei quattordici anni… Libri proibiti, libri troppo seri, anche libri
troppo leggeri, libri abbastanza noiosi, libri meravigliosi che si illuminano per caso e richiudono sul bambino incantato le loro
porte di tempio… Il disordine della lettura è nobile. Ogni libro,
L’INFANZIA, O LO SPOSSESSAMENTO
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dapprima mal annesso, è una conquista. Un giorno la sua giungla di idee e di parole si aprirà su un calmo paesaggio amico».
La giungla di Coco era il romanzesco. Qui niente Sido, che attende nell’ombra di veder fiorire il cactus rosa né scaffali con libri veri. «Da noi», mi diceva, «non si compravano mai libri…».
Anche di questi dovrà impadronirsi, per farne i suoi compagni di
vita. Tuttavia, il suo viaggio è cominciato nel paese del romanzesco… A questo romanzesco era affezionata come alla montatura
dei suoi occhiali. «Non avete idea dei danni che possono fare all’immaginazione i granai di provincia…». Coco la scontrosa era
decisa a vivere i romanzi che divorava.
I ruggiti dell’incrollabile nonno non scoraggiano la sua smania
di evadere. È a Vichy che lo raggiunge, nei brevi intermezzi estivi, insieme a Virginie-Angélina, di cui lui è sempre geloso. Il suo
temibile appetito suona la campana e nemmeno un bicchiere di
arquebuse allevia il suo dispotismo. «Mia nonna», affermava Coco, «faceva di testa sua, ma di se stessa diceva: “Sono la signora
tre M: marito, magione, marmocchi”». Il giogo pesa. Un giorno
Henri-Adrien vede Virginie-Angélina che si asciuga la splendida
capigliatura al sole e rinfaccia alla sposa di mettere in mostra le
sue bellezze. La nonna si chiuse in camera sua e ne uscì per tendere al marito, con un gesto molto tenero, la lunga e spessa treccia di capelli che si era tagliata!
A partire da quel giorno indossò una cuffia di pizzo. Coco, inconsolabile, non l’avrebbe mai dimenticato. «Se è geloso, vuol dire che mi ama ancora. E questo val bene una treccia…». VirginieAngélina non poteva sapere che la nipote nonché sua sosia – Coco era il suo ritratto – avrebbe liberato le donne dalla schiavitù
dei capelli, offrendo l’esempio di un taglio leggero. Del mio chignon annodato sulla nuca non faceva che ripetere: «Ho visto sempre e solo questo, capelli sparsi sulle camicie da notte. Fino a dove arrivano i tuoi? Sono così fuori moda…». Coco avrebbe tenuto solo una pettinatura a casco, con testa piccola e frangia sensuale per addolcire lo sguardo.
L’INFANZIA, O LO SPOSSESSAMENTO
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La bellezza palese di Coco ha il dono di intenerire HenriAdrien, tra una partita e l’altra di écarté e di picchetto, quando
rientra dai suoi viaggi e fa onore alla buona tavola. Coco canta
e lui la chiama Fifi. «Vedi, mia piccola Fifi, bisogna tenere le cose in ordine e pensare al futuro», le diceva mostrandole i taccuini e le buste nel borsello che chiude a chiave. La chiave la tiene in tasca. I soldi dell’infanzia è il nonno a darglieli: «Ogni anno una moneta da cinque franchi. In quelli buoni, dal mio salvadanaio potevo tirare fuori dieci franchi. E dovevo darli ai piccoli cinesi…».
I soldi del nonno sono quelli della libertà: il denaro proveniente dalla vendita dei tessuti e il denaro degli svaghi… Il denaro delle sue scappatelle. «Questi sono per il salvadanaio e per i
miei investimenti, ma non con i russi! Non ho alcuna fiducia in
gente che ha voluto rovinare il mio Imperatore».
Henri-Adrien aveva un culto per Napoleone. Coco caricava
l’antico fonografo dal grande padiglione: appena cominciava a risuonare La marsigliese, cantata da una voce nasale e stridente, correva in cucina con Virginie-Angélina per nascondere la ridarella,
mentre fra il patriarca e il giovane figlio monarchico scoppiavano
delle lotte epiche.
A distanza di anni, Coco aveva ancora nelle orecchie le espressioni colorite di Henri-Adrien: «Sembra che tu abbia messo dei
manichetti a una trota». Di Pierre Chanel, un loro antenato marista divenuto il primo martire d’Oceania in quanto divorato dagli
indigeni, il vecchio chiudeva così l’epitaffio: «Non doveva far altro che starsene a casa…».
Nel suo colletto inamidato della domenica, Coco lo vede trangugiare il brodo e il suo midollo di bue quotidiano senza che per
questo si plachi il suo furore: un certo capitano Dreyfus lo agita e
Henri-Adrien lancia il cosciotto fumante fuori dalla finestra, sopra la testa dell’adolescente. Un rumore secco sul prato e «molto
tempo dopo», mi diceva Coco, «ogni volta che in Scozia sentivo
cadere un fagiano…».
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COCO CHANEL
Specchio incancellabile dell’infanzia: nell’ora in cui le immagini si fissano, Coco non ne perde una briciola. Il governo patriarcale di Henri-Adrien ha rifornito la sua suddita.
Vichy è la prima fuga verso l’altrove. Gli inglesi venivano a fare
i gargarismi e le piccole li chiamavano gli angliches. «Mi ricorderò
sempre le inglesi di quell’epoca, vestite con abiti di tessuto scozzese…». Sembrano delle eccentriche, ma Coco le contempla. Quel tessuto tornerà al galoppo, nelle future collezioni. «A Vichy potevo
soddisfare i miei desideri. Ero nel cuore della cittadella della stravaganza. In una società cosmopolita puoi viaggiare senza spostarti:
Vichy fu il mio primo viaggio. Tutto mi incantava, persino i bicchieri incisi con cui bere l’acqua di fonte. Ovunque si parlava “straniero”; le altre lingue mi affascinavano; sembravano la parola d’ordine di una grande società segreta». Durante la stagione termale l’operetta fa furore: dive e sciantose, boiardi e maragià si affollano nei
chioschi delle orchestre. L’orfana morde il freno mentre VirginieAngélina le racconta il romanzo della sua amica Madame Boucicaut, il cui famoso sposo ha inaugurato il Bon Marché, il regno dei
grandi magazzini. Il paradiso delle signore… Virginie si spegnerà
senza averne risalito la rampa, ma sua nipote, lei…
«Dietro ogni nostra opera importante c’è una casa, una lampada, una zuppa, del fuoco, del vino, delle sigarette», scrive Jean
Cocteau in Il gallo e l’arlecchino. Chanel, l’«inestirpabile dalle sue
radici», non può essere compresa senza il borsello del nonno, la
sua Marsigliese, il mazzetto di erbe per la salamoia del suo prosciutto. Nessuno le ruberebbe il suo luogo d’origine. La resistenza di Monsieur Homais, verità dell’antenato, neutralizzerà la chimera e l’idillio. Ma il suo male, grande quanto Obazine, Coco lo
ritroverà a ogni ritorno fra le mura cieche dell’orfanotrofio.
Tesoro nascosto dei ricordi, sepolto nel suo cuore come nel cimitero dove depositava i suoi segreti di bambina, nella terra, una
terra di casa nostra, di cui non dimenticherà mai né la forma né
la sostanza. Né il vestito, quel vestito di terra… della morte, dove si perde il respiro, e che le ha strappato per sempre la madre.
L’INFANZIA, O LO SPOSSESSAMENTO
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Un’intimità segreta la legherà sempre a quelle tenebre.
La zia moglie del notaio, la sorella accorta di Henri-Adrien,
aveva scelto un marito per Adrienne, e Adrienne, l’incantevole
zia quasi sorella di Coco, lo aveva accettato a malincuore. Che fare contro la povertà delle senza-dote? Avrebbero pensato poi alla
sognatrice Gabrielle che cominciava a prendere forma… Voleva
dire non fare i conti con la sua ribellione. Adrienne non si rassegna al suo destino e Coco complotta per difendere la compagna.
Decidono di scappare e se ne vanno senza permesso.
Dove andare? A Vichy la collera di Henri-Adrien farà fuoco e
fiamme. Alla fine vanno a Varennes, con grande turbamento della zia Julia. Coco e le sue sorelle non torneranno più a Obazine,
dove non ne vogliono sapere dell’irruente, dell’irriverente che semina la rivolta. Raggiungono un istituto religioso di Moulins, vicino a Varennes. Le monache sistemeranno poi le ragazze. L’ingiustizia, la vecchia nemica di Coco, le farà restituire il maltolto.
No, non avrebbe mai dimenticato il cachemire granata delle
«signorine» in toque e cappello di paglia da battelliera durante le
rare uscite domenicali, le loro pellegrine e i loro stivaletti di pelle
non conciata, mentre i suoi, usati e forniti dalla congregazione,
sono pieni di grinze. Gli occhi profondi di Adrienne cercano i
suoi, tutto ciò di cui palpita la città le unisce ancora, le rende inseparabili. Il decimo reggimento cacciatori a cavallo è di stanza a
Moulins. L’incenso delle cerimonie celebrate all’aria aperta da
monsignor Dreux-Brézé, davanti alle famiglie prostrate, i ceri infilati nella canna degli chassepot e delle pistole, non è meno intenso del denso profumo dei tigli. La sensualità aleggia nell’aria.
Le uniformi con i passamani guarniti con bottoni d’oro, i mantelli dei cavalieri foderati di pelliccia azzurro cielo, gli sguardi che
trafiggono il cuore fanno tremare le ragazze. 1900… Coco odierà
sempre questa «belle époque» dei suoi diciotto anni. Bella per
chi? Il suo cuore si chiude.
La soglia da varcare, la soglia del destino è vicina. Coco non
esiterà. La vita è là, che aspetta. L’altro sesso entra in scena.
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Coco Chanel. Genio, passione, solitudine