RASSEGNA STAMPA
Mercoledì 15 aprile 2015
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Da Askanews del 15/04/15
Festa Liberazione, feste anche con canti e
balli in 50 città
Roma, 15 apr. (askanews) - Festa della Liberazione nel segno anche della festa, con balli,
canti e musica in una cinquantina di località di tutta Italia ma che vedrà coivolta anche la
città tedesca di Amburgo.Festeggiamenti che si svilupperanno nella giornata del 24 aprile
per accompagnare, dopo la mezzanotte, alla celebrazione del 25 Aprile con la tradizionale
manifestazione di Milano, quest'anno alla presenza del presidente della Repubblica,
Sergio Mattarella. In attesa di altre adezioni, il ricco programma va da una jam-session ad
Artena, paesino alle porte di Roma, alla festa di Genova che metterà a disposizione il
Palazzo Ducale, dalla "pastasciutta antifascista" di Novi di Modena e Rovereto alle
iniziative romane in piazza Vittorio.
"Abbiamo voluto organizzare un 25 Aprile non retorico chiedendoci anchese oggi c'è
davvero qualcosa da festeggiare in Italia", ha detto il presidente dell'Anpi, Carlo Smuraglia
nel corso di una conferenza stampa alla Camera. "Ci siamo voluti ispirare alla Festa della
Fraternità che il primo sindaco di Milano liberata dal nazi-fascismo organizzò nel luglio del
1945 perché la Liberazione fu anche un grandioso momento di gioia e festa". Il presidente
del'Anpi ha poi invitato a sentire il 25 aprile come la festa "di tutti gli italiani.
Una data da ricordare e rilanciare in una Italia che non deve mai dimenticare le sue radici
più profonde".
"La festa prima delle celebrazioni ufficiali servirà - gli ha fatto eco la presidente dell'Arci,
Francesca Chiavacci - a completare la dimensione popolare della ricorrenza.Vogliamo
dare anche attenzione ai giovani e ripuntare i fari sulla dimensione sociale e a quelle sane
relazioni socialihe forse si stanno perdendo nell'Italia di oggi".
Da il Velino del 15/04/15
In piazza per i 70 anni della Liberazione,
cantando e ballando
Iniziativa di Anpi, Arci, Insmli e Radio Popolare per la sera del 24 aprile
Una grande festa “corale” per festeggiare insieme, in tutto il Paese, il 70esimo
anniversario della Liberazione, con lo slogan “ 25 aprile 2015: liberi anche di cantare e
ballare”. L’iniziativa, presentata alla Camera, è stata voluta da Anpi, Arci, Insmli e Radio
popolare ispirandosi alla Festa della Fraternità che il primo sindaco della Milano liberata
dal nazifascismo organizzò nel luglio del 1945. Si tratta di celebrare i valori della
Resistenza e della Costituzione con modalità non rituali – ossia ballando e cantando – “ma
che intendono ricordare che la Liberazione è stata anche un grande momento di gioia del
Paese, chiunque dovrebbe rimpiangere di non averla vissuta” spiega a margine della
conferenza stampa il presidente Anpi Carlo Smuraglia che pensa a “un momento corale
che dia un senso di fratellanza e vicinanza, che attraversi il Paese da Milano a Palermo
con unità” e che commemori lo spirito di quei tempi: il desiderio di tornare alla pienezza
della vita dopo gli anni della dittatura e della guerra. L’invito è di farlo la sera del 24 aprile
per dare nelle piazze d’Italia, nei cicoli, negli istituti, nelle associazioni culturali il benvenuto
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alla Festa della Liberazione. A mezzanotte come momento unificante, verrà suonata la
stessa, significativa canzone: Bella Ciao nella versione di Paolo Fresu che sarà il filo
comune che unirà la Penisola.
“In un momento storico di crisi e in cui si rischia di perdere il senso e il sentimento di unità
noi proponiamo un modo forse insolito ma che riteniamo utile per dare un messaggio che
unisce. L’iniziativa può sembrare all’apparenza ludica, invece ha un grande peso e
significato” aggiunge Smuraglia che guarda con particolare attenzione alle nuove
generazioni affinché conoscano la storia e ne conservino gli insegnamenti. “Per
raggiungere i giovani proviamo a parlare il loro stesso linguaggio, a proporre un’iniziativa
che li coinvolga e che trasmetta loro dei valori. Quando facciamo discorsi e
commemorazioni nelle piazze non sappiamo quanto siano interessati e quanto rimanga
loro. Quest’anno la sera del 24 parleremo di valori sentendoci liberi, anche di cantare e
ballare”.
http://www.ilvelino.it/it/article/2015/04/15/in-piazza-per-i-70-anni-della-liberazionecantando-e-ballando/fbf6ea44-7c69-459b-bb0f-633c08f9e98c/
Da Radio Popolare del 14/04/15
Intervista ad Andrea La Malfa, referente per la Presidenza Arci su Memoria e antifascismo,
sulle iniziative promosse dai comitati e i circoli per il 24 aprile, in occasione dell’iniziativa
“Liberi anche di cantare e ballare”
Da Ansa del 14/04/15
Tunisia-Italia:società civili chiedono sostegno
a democrazia
Delegazione a Roma, stabilizzazione Paese è vostro interesse
(ANSAmed) - ROMA, 14 APR - Costruire un canale permanente e stabile tra società civili
tunisina e italiana; mettere in piedi un gruppo di riflessione in grado di tenere
costantemente accesa l'attenzione sul processo di stabilizzazione del Paese maghrebino
che passa, soprattutto, dal conseguimento di una piena giustizia sociale. Una giustizia
sociale che l'Accordo di Libero Scambio Completo e Approfondito (Aleca) che la Tunisia e
l'Unione europea si accingono a firmare non sembra - così come è strutturato - potere
garantire: ma anzi, potrebbe peggiorare.
Obiettivi e messaggio chiari, quelli lanciati stamani da una delegazione di esponenti della
società civile tunisina che da oggi e fino al 17 aprile prossimo è in Italia per incontrare
istituzioni e componenti delle organizzazioni civili italiane e "chiedere a Parlamento,
Governo e Unione Europea impegni politici di sostegno al consolidamento della
transizione democratica" nel Paese maghrebino.
La visita, coordinata dalla Rete Euromediterranea dei Diritti Umani (REMDH), intende
sensibilizzare anche i media e l'opinione pubblica. Lo ha ricordato stamane in una
conferenza stampa alla Camera dei Deputati Raffaella Bolini, dell'Arci - che fa parte della
Rete Euromed e che ha accolto la delegazione - una missione che si tiene nell'ambito del
progetto di rafforzamento della società civile che la Rete sta realizzando in Tunisia con
l'appoggio dell'Ue e che si fonda su quattro aree tematiche prioritarie: riforma della
giustizia, diritti dei migranti e dei rifugiati, uguaglianza uomo-donna, diritti economici e
sociali, come ha ricordato il direttore dell'ufficio Maghreb della Rete Euromediterranea dei
Diritti Umani, Ramy Salhi.
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"Il nostro primo obiettivo - ha detto - è creare una comunicazione costante e mettere in
piedi un gruppo di riflessione tra società civili tunisina e italiana". Le relazioni tra Stati, ha
aggiunto, "sono basate sull'interesse ma noi contiamo sulla solidarietà delle società dei
Paesi europei e italiana. Per questo siamo qui".
Dopo l'attentato al Museo del Bardo l'attenzione nei confronti della Tunisia è salita molto,
ricordano i componenti della delegazione, ed è su questa attenzione che è necessario
mantenere viva. "La Tunisia sta affrontando sfide enormi: sicurezza, minacce interne e
esterne sia con la crisi libica alle porte e la sfida economica e migratoria", prosegue Salhi.
E oggi più che mai serve un appoggio serio. Tutto ha avuto inizio dalla crisi economica e
sociale e dalla richiesta di giustizia sociale. La rivoluzione del 2011 fu questo, ha voluto
sottolineare Lilia Rebai, responsabile del progetto Ue-Tunisia nell'ambito della Rete
Euromediterranea. Esprime preoccupazione sull'accordo di libero scambio con l'Ue che il
suo Paese dovrebbe firmare. "Non è la soluzione - dice - e ci chiediamo in che modo una
simile intesa possa davvero migliorare la situazione". Unanime dunque il parere della
delegazione tunisina a Roma: "serve una risposta alla povertà e una maggiore giustizia
sociale". Il terrorismo, sottolinea, si combatte anche così. Si tratta di un interesse
strategico per l'Italia e per i suoi Paesi vicini. All'Italia infine, gli esponenti tunisini, con in
prima linea l'Unione Generale Tunisina del Lavoro (Ugtt), chiedono "di non chiudere le
proprie frontiere e migliorare le condizione di Cie e centri di detenzione". "Oggi in Tunisia
ci sono 1 milione 100 mila libici accolti durante la crisi libica", ha concluso Sadok Belhaj
Hsine, del sindacato maghrebino. "Noi non abbiamo chiuso le nostre frontiere ed è così
che percepiamo una politica di solidarietà". (ANSAmed).
Da Corriere.it - Corriere Sociale del 14/04/15
La Rete Euromediterranea con l’UE per
sostenere la democrazia tunisina
di Davide Gambardella
ROMA – Un sostegno concreto, per ripartire da quel cortocircuito istituzionale che
allontanò l’Italia dalla Tunisia del post rivoluzione del 2011. Pochi anni dopo la primavera
araba, l’unico Paese democratico del Maghreb è stato attraversato da una crisi che ha
portato ad una spirale di violenze e instabilità politica culminata con l’attentato terroristico
al museo del Bardo. È da quello strappo diplomatico che intendono ripartire la delegazione
della società civile tunisina e la Rete Euromediterranea per i Diritti Umani, in una visita di
tre giorni organizzata in partenariato con l’Unione Europea. Diritti economici e sociali,
giustizia, diritti delle donne e mobilità sul territorio europeo sono le quattro tematiche al
centro del dialogo promosso dal gruppo di lavoro che fino a giovedì sarà impegnato in una
serie di incontri organizzati anche con i dicasteri dell’Interno e degli Esteri.
«L’interesse comune è che la Tunisia continui ad essere un Paese democratico – afferma
Raffaella Bollini, responsabile Arci e della Rete Euromediterranea per i Diritti Umani –
Proporremo al Parlamento di costituire un comitato unico con la società civile italiana e
quella tunisina per un confronto continuo. È nei nostri interessi avere una relazione diretta,
per scongiurare che un territorio confinate con la Libia possa finire nelle mire degli
estremisti».
Le liberalizzazioni che minacciano l’agricoltura tunisina e gli accordi europei che rischiano
di chiudere definitivamente le frontiere a migliaia di di nordafricani richiedenti asilo politico
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sono alcuni degli argomenti di un confronto che intende ripartire da quella Primavera
araba che in Tunisia fece tornare a germogliare il seme della speranza.
«Dopo la rivoluzione non ci fu alcun accordo tra Italia e Tunisia, nonostante le
dichiarazioni di intenti – ricorda il rappresentante dell’Unione Generale Tunisina del
Lavoro, Sadok Belhaj Hsine – Il nostro Paese non ha mai chiuso le proprie frontiere,
nonostante il flusso migratorio con più di un milione di profughi. Dobbiamo essere contro le
politiche della criminalizzazione dell’immigrazione, proseguendo con gli accordi già stretti
con le sigle sindacali italiane per il rispetto degli stranieri».
http://sociale.corriere.it/la-rete-euromediterranea-con-lue-per-sostenere-la-democraziatunisina/
Da Redattore Sociale del 14/04/15
Immigrati, delegazione tunisina: “Troppi
espulsi dall’Italia, accordi poco trasparenti”
Rappresentanti della società civile in missione in Italia per quattro
giorni: chiedono la chiusura dei Cie, riportano all’attenzione la
questione dei “desaperacidos” del Mediterraneo e si oppongono
all'accordo di libero scambio con l’Europa: “Così si impoverisce di più il
paese”
ROMA – Opporsi all’applicazione degli accordi tra Italia e Tunisia in materia di
immigrazione, che hanno comportato circa settemila espulsioni verso il paese africano dal
2011 a oggi. Chiedere la chiusura dei Cie e una commissione di inchiesta congiunta sulla
sorte di circa 300 tunisini scomparsi mentre tentavano di raggiungere il nostro paese. E,
infine, portare all’attenzione la poca trasparenza dell’accordo Aleca di libero scambio tra
Tunisia ed Europa. Sono questi gli obiettivi della missione di una delegazione della società
civile democratica tunisina in Italia. Un viaggio di quattro giorni (iniziato oggi e che si
concluderà il 17 aprile) durante i quali la delegazione composta da Messaoud Romdhani,
vicepresidente del Forum tunisino per i diritti economici e sociale; Sadok Belhaj Hsine,
rappresentante dell’Unione generale tunisina del lavor (Ugtt), Ramy Salhi, direttore
dell’Ufficio Maghreb e Lilia Rebai, responsabile del progetto Ue-Tunisia, incontrerà alcuni
responsabili del governo italiano, come il prefetto Mario Morcone e il senatore Luigi
Manconi, ma anche esponenti della società civile italiana, tra cui i rappresentanti dell’Arci
nazionale e di varie associazioni.
“Troppi tunisini espulsi, l’accordo con l’Italia non è trasparente”. Al centro del dialogo c’è
innanzitutto il tema dell’immigrazione, sul quale la delegazione intende proporre alcune
raccomandazioni al governo italiano. “Ci preoccupa in particolare l’accordo tra Italia e
Tunisia, siglato all’indomani della rivoluzione – sottolinea Hsine -. Ne abbiamo chiesto la
pubblicazione ma il governo tunisino ci ha risposto che trattandosi di una ‘dichiarazione’, e
non di un vero accordo, non poteva esser reso noto. Ma i fatti ci dicono che dal 2011 sono
stati 7000 i tunisini espulsi dall’ Italia verso la Tunisia. Persone che sono state rimpatriate
da aeroporti secondari per essere meno visibili all’opinione pubblica. Su questo abbiamo
chiesto maggiore trasparenza”. L’altro tema caldo è quello dei centri di identificazione ed
espulsione. “Ci preoccupa anche il tipo di detenzione che subiscono i migranti in Italia –
aggiunge – chiediamo la chiusura dei Cie, la verificare del rispetto dei diritti umani nei
centri dove soggiornano i migranti e la possibilità che le famiglie possano andare a far loro
visita”. Infine Hsine tuona contro l’atteggiamento securitario dell’Europa che continua
nell’obiettivo di voler chiudere le frontiere. “In Tunisia abbiamo accolto un milione e
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centomila libici dopo la guera, non abbiamo gridato né chiuso le frontiere come l’Europa
sta cercando di fare - aggiunge - . Serve adottare un principio di responsabilità condivisa.
In questo momento, invece, i paesi europei stanno cercando di accelerare
l’esternalizzazione del controllo delle frontiere, ma questa non è una gestione che si basa
sul rispetto dei diritti come chiediamo noi”.
“Abbiamo consegnato all’Italia la lista di 300 tunisini scomparsi senza ottenere risposta”.
Tra i temi degli incontri istituzionali anche il caso dei cosiddetti “desaparecidos” del
Mediterraneo. “Nel 2011 e poi di nuovo nel 2013 siamo venuti in Italia per portare voce
delle famiglie dei tanti dispersi nel Mediterraneo – sottolinea Romdhani – La voce di tante
madri che chiedono solo una cosa: sapere la verità sulla sorte dei propri figli. Abbiamo
dato una lista di trecento persone scomparse ma il governo italiano ad oggi non ha dato
nessuna risposta. Questo non è solo un problema umanitario ma è un problema diritti
umani che riguarda tutti”. In particolare, si cercano i dispersi di due naufragi avvenuti nei
mesi di settembre e novembre del 2012. Casi rispetto ai quali il governo tunisino non ha
mai dato la piena disponibilità a collaborare. “Il governo italiano ci ha detto di volerci
aiutare, ma ad oggi non abbiamo risposta – aggiunge – Chiediamo quindi la costituzione di
una commissione mista del governo italiano e tunisino, di cui facciano parte anche i
parenti dei dispersi e rappresentanti della società civile, per poter arrivare finalmente alla
verità”.
Il “miracolo economico tunisino” ha solo impoverito il paese, no all’accordo Aleca. “Nel
1995 il regime di Ben Ali ha scelto una liberalizzazione totale dell’economia. Tutti hanno
parlato del un miracolo economico tunisino, in realtà questo miracolo ha impoverito
popolazione, creato disoccupazione e un divario fortissimo tra gruppi sociali differenti –
sottolinea Lilia Rebai – la liberalizzazione ha creato solo problemi, e dato vita alla
rivoluzione del 2011. Oggi questa povertà crea ancora frustrazione, facilitando lo sviluppo
del terrorismo, per questo noi ci opponiamo alla firma dell’ accordo Aleca tra Tunisia ed
Europa. Un accordo che esaspera ulteriormente le liberalizzazioni. Quello che chiediamo è
che siano esclusi almeno i settori più deboli come l’agricoltura e i servizi. L’agricoltura,
infatti, non potrebbe reggere alla concorrenza delle multinazionali”. A coadiuvare la
delegazione tunisina negli incontri istituzionali, i rappresentanti dell’Arci nazionale e della
Cgil. “Abbiamo bisogno di un piano strategico sulla Tunisia. Vogliamo costruire un canale
permanente e stabile perché queste questioni riguardano anche noi – spiega Raffaella
Bolini dell’Arci -.La relazione diretta e forte con la società civile tunisina è infatti importante
per questioni di pace e diritti umani che sono anche nostre”.
Da Radio Vaticana del 14/04/15
Interviste e servizio sulla visita in Italia, promossa dalla Rete Euromediterranea dei Diritti
Umani, della delegazione tunisina
Da Gr Rai del 14/04/15
Interviste e servizio sulla visita in Italia, promossa dalla Rete Euromediterranea dei Diritti
Umani, della delegazione tunisina
Da Vita.it del 14/04/15
Arci Lombardia: in tre anni quasi dimezzate le
slot
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Di Lorenzo Maria Alvaro
Parla il presidente Massimo Cortesi: «Erano 80 i circoli con macchinette
sui 535 totali. Oggi ne sono rimasti 50. Abbiamo tre province già free
slot e in quattro anni dovremmo essere completamente liberi. Quello
economico è un bluff. Spesso togliere le slot aumenta gli incassi dei
circoli perché allontanare le macchine avvicina tanti nuovi soci. A fare
la differenza è il senso associativo»
Continua il dibattito interno all'Arci scaturito dall'intervista della presidente nazionale
Francesca Chiavacci su Vita.it. Il primo a rompere gli indugi per parlare di quanto i comitati
si stiano impegnando per combattere le slot machine è stato Emanuele Patti, che ieri ha
raccontato la sua idea di Arci no slot. Oggi è Massimo Cortesi, presidente Arci Lombardia,
che ha voluto condividere il percorso che lo ha portato ha quasi dimezzare il numero di
circoli con macchinette della Regione.
Come e quando vi siete posti il problema delle slot?
Per quanto mi riguarda è successo durante la presentazione di un libro. Mentre sedevo al
tavolo dei relatori ho notato un anziano che è entrato e si è attaccato alla macchinetta.
Poco dopo è arrivata la badante che ha cercato in tutti i modi di portarlo a casa. Ma non
c'è stato nulla da fare. Lì mi è scattato qualcosa. Ho capito che dovevamo intervenire.
E per quanto riguarda invece Arci Lombardia?
Il tema dell'azzardo è cominciato a diventare un tema per noi nel 2011. I circoli avevano
cominciato a mettere le macchinette in autonomia e noi non avevamo una cultura sul
tema. Abbiamo cominciato a porci il problema quando all'interno del nostro gruppo
dirigente sono cominciati ad emergere problemi sempre più diffusi legati all'azzardo. Il
nostro punto di riferimento è stato il gruppo di Empoli che è stato il primo in Italia ad
affrontare la cosa. Così pian piano abbiamo cominciato a monitorare e studiare il
problema. Con uno studio abbiamo verificato che su oltre 200mila soci ad usare le
macchine erano in 3500. La presenza di slot era di due in media per circolo. Abbiamo
notato fenomeni particolari, ad esempio che il pubblico era dai 45 anni in sù, e in
particolare colpiva gli anziani. Mentre adolescenti e giovani per lo più non giocavano.
Abbiamo poi indagato i motivi per cui le slot erano state messe e ci siamo accorti che
servivano far fronte alle difficoltà economiche. Ma abbiamo anche scoperto che il risultato
non era apprezzabile. Le slot cioè non aiutavano a pagare i conti. Infatti anche circoli con
slot hanno chiuso. A mancare era la motivazione di essere ancora circolo.
Una volta monitorato e studiato il fenomeno come vi siete mossi?
Inizialmente tutto era lasciato agli individui e ai circoli. Ci si limitava a fare pressione e
moral suasion. Il passo successivo invece ci ha visto protagonisti con diverse azioni. La
prima è stato un fondo di sviluppo aperto con Banca Etica di 200 mila euro. Denaro messo
a disposizione dei circoli per creare attività alternative ai proventi delle slot machine.
Risorse a disposizione per progetti e programmi di missioni. Poi abbiamo affiancato i
circoli nella costruzione di percorsi per la dismissione, nei tempi e modi dovuti, delle slot.
In modo da affrontare insieme i problemi contrattuali e organizzarci dal punto di vista
economico. In questi giorni ad esempio stiamo seguendo una realtà di Bergamo, l'Arci
Sputnik, in cui stiamo gestendo il passaggio e a breve andremo alla dismissione proprio
grazie a queste azioni di accompagnamento. Un intervento che ci permette anche di
provare a ricostruire il tessuto sociale che è andato perso. Infine stiamo lavorando ad un
Manifesto.
In cosa consiste?
È un manifesto No Slot che ogni comitato lombardo sottoscriverà. Con una doppia
missione: ogni nuovo circolo dovrà sottoscrivere un patto in cui si impegna a non installare
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mai slot, pena la non adesione. I comitati lombardi invece si impegnano nel dismettere
tutte le slot. L'8 maggio lo presenteremo e verrà formalizzato.
Quanto tempo pensa ci vorrà per arrivare ad avere Arci Lombardia free slot?
Pensiamo che in quattro anni riusciremo ad essere completamente no slot. In alcuni
territori l'obbiettivo è facilmente raggiungibile in molto meno tempo. Ma ci sono situazioni
più complicate che richiederanno più tempo. Però vorrei sottolineare che, pur nella
drammaticità, quello che è successo ha un lato positivo: ci obbliga a metterci in
discussione.
In che senso?
Questo percorso è una riscoperta delle origine. Ci obbliga a guardare da dove veniamo.
Dobbiamo tornare al valore per cui sono nati i circoli Arci. Se riusciremo a riportare i valori
distintivi della nostra esperienza al cuore del gruppo associativo del circolo riusciremo a
superare le slot ma anche ad essere più moderni. Si tratta di recuperare la tradizione per
poter rispondere alle esigenze di oggi. Non è solo teoria, ha ricadute concrete e misurabili.
Può fare un esempio?
Quando il gruppo dirigente di un circolo si convince che può superare le macchinette, in
molti casi, anche solo lavorando sul senso associativo si scopre che il danno economico
non c'è. È il caso del circolo Il Progresso, che una volta dismesse autonomamente le
macchinette, si è visto aumentare gli incassi. Non solo perché chi non metteva soldi nella
macchina li spendeva nell'economia del circolo. Ma soprattutto perché allontanare le
macchine avvicina tanti nuovi soci.
http://www.vita.it/it/article/2015/04/14/arci-lombardia-in-tre-anni-quasi-dimezzate-leslot/132788/
Da Vita.it del 14/04/15
Miraglia (Arci): «L'accoglienza va
programmata»
Di Lorenzo Maria Alvaro
Parla Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale Arci già responsabile
immigrazione. «Sono anni che chiediamo al ministero di programmare
l’accoglienza. La risposta è sempre che mancano soldi e tempo. Poi
però teniamo per anni i migranti nei centri»
Negli ultimi quattro giorni sono già 7mila gli arrivi, solo ieri dieci morti, con altre migliaia di
migranti attesi nei prossimi giorni. Questa è la situazione dell'emergenza profughi che è
tornata ad aggravarsi. Il Ministero degli Interni ha chiesto ai prefetti di trovare 6500 posti
ma intanto il sistema di accoglienza è al collasso. Per capire cosa stia succedendo e come
uscirne abbiamo chiesto a Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale Arci già responsabile
immigrazione.
Siamo di nuovo allo stremo, servono 6500 posti che non sembrano esserci Cosa sta
succedendo?
Sono ormai anni che sosteniamo, anche nelle sedi istituzionali come il tavolo di
coordinamento nazionale, che senza una programmazione fatta per tempo ci si troverà ad
inseguire sempre le emergenze. È del tutto evidente che se c'è una pausa di due
settimane del flusso di migranti non vuol dire che sia finito il problema. Abbiamo bisogno di
una programmazione che non sia basata, come oggi, sulla gestione dell'emergenza.
Dobbiamo cominciare a pensare che ci troveremo sempre più a dover gestire un
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consistente numero di richiedenti asilo. Queste programmazione non c'è stata. Così oggi il
Ministero si trova a far fronte ad alcune migliaia di persone.
Dunque è solo organizzativo il problema?
L'anno scorso c’erano stati 17mila arrivi i questi primi mesi dell'anno. Oggi siamo a metà
aprile e già al collasso. Quindi è evidente che dal punto di vista organizzativo ci sia
qualcosa che non va. Poi c'è il fatto che si tratta di un sistema, quello dell’accoglienza,
frammentato, che risponde in maniera inadeguata agli arrivi. Ci sono poi le commissioni
che ci impiegano più di un anno per ricontattare i richiedenti asilo e valutarne la situazione
lasciandoli tutto il tempo nei centri. Questi evidentemente intasa il sistema e non li aiuta a
integrarsi. Infine i grandi centri producono marginalità sociale e reazioni negative sia del
territorio che dei migranti.
Comunque era una situazione prevedibile?
Era ampiamente prevedibile. Sono anni che diciamo le stese cose. Ci danno ragione ogni
volta e poi ci dicono che non possono fare nulla, per mancanza di fondi o di tempo. Ma lo
spreco di tenere tutta questa gente congelata nei centri nessuna la calcola. Basterebbe
gestire meglio il sistema e le risorse.
Cosa state facendo come Arci?
Siamo dentro la rete di accoglienza dello Sprar. Gestiamo molti progetti comunali. Il nostro
obbiettivo è quello di promuovere il modello dell'accoglienza diffusa sul territorio di piccoli
gruppi. Modalità che ha un impatto minore sul territorio e premette più facilmente la
promozione di percorsi di integrazione. Per piccoli gruppi intendiamo una o due famiglie.
Al massimo una decina di persona, anche meno.
Soluzioni possibile per sbloccare l'empasse?
Alla fine la soluzione sarà la solita. Chiameranno i prefetti e obbligheranno regioni e
prefetture a prendersi una quota di persone. Il problema è che così si genererà un impatto
disastroso. Saltano a piè pari gli enti locali senza coinvolgerli. In più verranno
evidentemente chiamati a gestire queste situazioni anche enti senza nessuna esperienza.
Immagino nasceranno tantissimi problemi. Si produrranno, come spesso accade, sprechi
e allarme sociale,. Possiamo solo ribadire che il Ministero deve cominciare ad organizzarsi
e programmare una risposta al problema.
http://www.vita.it/it/article/2015/04/14/miraglia-arci-laccoglienza-va-programmata/132795/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da il FattoQuotidiano.it del 14/04/15
Investimenti azionari, ai parlamentari italiani
le banche piacciono proprio
Di ogni genere e dimensione. Etiche e locali, piccole e grandi. Ecco i
titoli presenti nei portafogli dei deputati e senatori passati in rassegna
nella seconda puntata della nostra inchiesta. Da Casini e Franceschini,
da Galan a Della Vedova. Ma nella lista ci sono anche le azioni Easyjet
della grillina Spadoni
di Lea Vendramel
Ai parlamentari del M5S la banca piace etica, mentre è bipartisan la tendenza di chi a
Unicredit e Intesa Sanpaolo, titoli che tra deputati e senatori vanno per la maggiore,
preferisce le banche locali e di credito cooperativo. E’ il caso del ministro dei Beni
Ambientali e culturali, Dario Franceschini, che investe in un piccolo istituto della sua
Ferrara. Mentre l’ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini (nella foto), dalle
azioni della Banca di credito cooperativo Alto Reno, che ha sede in provincia di Bologna,
sua città natale, spicca il volo investendo nei settori più disparati anche all’estero. Ecco
quello che emerge dalla seconda puntata dell’analisi (leggi la prima) degli investimenti
azionari (148 in tutto) dichiarati nella documentazione patrimoniale dei deputati e senatori
depositata in Parlamento e che ilfattoquotidiano.it ha passato in rassegna.
AZIONI ETICHE Dei cinque parlamentari pentastellati che dichiarano partecipazioni
azionarie, sono tre quelli che possiedono azioni della Banca popolare etica. La deputata
Federica Daga ne detiene 5, il senatore Giovanni Endrizzi 3, mentre il senatore Gianni
Pietro Girotto, nella dichiarazione 2014, attesta un «aumento di 1.000 euro delle azioni di
Banca popolare etica» detenute. Si tratta di un istituto di credito cooperativo nato nel 1999,
che tra i soci fondatori annovera le Acli, l’Agesci, l’Arci, l’Associazione Botteghe del
Commercio Equo Solidale, l’Associazione italiana agricoltura biologica, Emmaus Italia e il
Gruppo Abele. Ispirato alla Finanza etica, come si legge sul sito, con il risparmio raccolto
finanzia «organizzazioni che operano in quattro settori specifici: cooperazione sociale,
cooperazione internazionale, cultura e tutela ambientale». E proprio come nel M5S, anche
nella Banca etica “uno vale uno”, infatti «la gestione democratica è assicurata dalla libera
partecipazione dei soci secondo il principio di “una testa, un voto”». Oltre ai tre
pentastellati, in Parlamento siedono altri tre azionisti della Banca popolare etica, tutti del
Partito democratico. Si tratta dei deputati, Paolo Beni e Luigi Lacquaniti, ciascuno
detentore di 5 azioni, il cui valore unitario, secondo quanto riportato da Lacquaniti nella
dichiarazione 2013, ammonta a 52,50 euro, e del senatore Bachisio Silvio Lai, possessore
di una sola azione.
Pubblicità
CASA E BOTTEGA Tra i parlamentari che detengono azioni di istituti di credito, molti
come dicevamo hanno scelto di investire in titoli di banche locali e di credito cooperativo,
optando per quelle delle zone d’origine. Così, spulciando gli elenchi balza all’occhio che il
ministro dei Beni e delle Attività culturali Dario Franceschini possiede 300 azioni della
Cassa di Risparmio di Ferrara, sua città natale, mentre il suo collega del Pd, il senatore
Maurizio Migliavacca, negli anni Novanta presidente della provincia di Piacenza, oltre a
29.160 azioni Telecom Italia Risparmio, ne detiene 300 della Banca di Piacenza. Si
concentrano in Emilia Romagna anche gli investimenti del deputato democratico Tiziano
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Arlotti, originario di Rimini e titolare di 100 azioni della Bcc Valmarecchia e di 40 della
Banca malatestiana, entrambe della zona; quelli del deputato di Sel Giovanni Paglia, che
dichiara 5 azioni della Cassa risparmio di Ravenna, città dove è nato ed è stato consigliere
comunale fino al 2001; del senatore del Pd Giancarlo Sangalli, aretino di nascita ma
bolognese d’adozione, che oltre a pacchetti di Eni, Enel, Enel Gren Power e Unicredit
detiene 13 azioni della Banca di Bologna; e della senatrice del Pd Mara Valdinosi che,
nata e residente a Cesena, possiede 10 azioni della Banca Romagna Centro Credito
Cooperativo a Forlimpopoli. Ancora: anche se risiede a Milano, il deputato democratico
Ernesto Preziosi dichiara 6.095 azioni della Banca delle Marche, sua regione di nascita,
mentre l’esponente di Ncd Paolo Tancredi ne sottoscrive 600, per un valore di 21mila
euro, della Bcc di Teramo.
DA NORD A SUD Gli investimenti “locali” si confermano anche spostandosi più a nord.
Spiccano su tutte le 100mila azioni di Banca Carige, istituto ligure, del senatore
democratico Federico Fornaro, residente in Piemonte, ma nato a Genova. Al consistente
pacchetto si aggiungono anche 4.430 azioni della Banca di Milano. Sono, invece, 7.254 le
azioni del Credito valtellinese possedute dal sottosegretario per gli Affari esteri Benedetto
Della Vedova, nato proprio a Sondrio, città sede della banca, dove si trova anche la
popolare di Sondrio, di cui detiene 40 azioni il senatore del Pd Mauro Del Barba. Stessa
scelta per il forzista Giancarlo Galan, il democratico Federico Ginato, l’ex leghista Patrizia
Bisinella e l’esponente di Ncd Mario Dalla Tor, tutti veneti. Galan dichiara 3mila azioni di
Veneto Banca, Ginato un pacchetto del valore di 1.032 euro della Banca di credito
cooperativo vicentino, Bisinella 102 azioni della Banca popolare di Vicenza e Dalla Tor,
oltre a 27mila azioni della Banca popolare Etruria e 3mila di Mediobanca, 1.701 della
Banca popolare di Vicenza, 1.000 di Veneto Banca e 100 di Autovie venete.
CONFLITTO PALESE Scendendo verso sud il sottosegretario alla Difesa Gioacchino
Alfano, napoletano, dichiara 10 azioni del valore di 5mila euro della Bcc di Napoli.
Restando in Campania, 10 azioni della Bcc irpina per il senatore forzista Cosimo Sibilia,
avellinese. Doppio investimento poi per l’esponente di Ncd Antonino Minardo, siciliano,
titolare di 100 azioni della Banca agricola popolare di Ragusa e 100 della Bcc della contea
di Modica. In Puglia, invece, il deputato forzista Rocco Palese dichiara 2.358 azioni della
Banca popolare pugliese, mentre il suo collega di partito, il senatore Luigi Perrone, 200
della Banca popolare di Puglia e Basilicata e 723 della Banca popolare di Bari. Proprio
quest’ultima era stata oggetto di un emendamento di Palese, poi bocciato, che aveva
proposto di sottrarla alla riforma delle banche popolari voluta dal governo Renzi.
SENZA FRONTIERE Decisamente meno patriottico il presidente della commissione Esteri
del Senato e leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. Anche per lui una partecipazione di
400 azioni nella Banca di credito cooperativo Alto Reno, naturalmente, che ha sede in
provincia di Bologna, sua città natale. Ma a questa, che dichiarava già nel 2013, l’anno
successivo si sono aggiunti altri dodici pacchetti azionari di diversissima natura, nove dei
quali in società con sede all’estero. Accanto alle italiane Enel, Eni e Finecobank, troviamo
azioni delle assicurazioni Allianz e Axa, rispettivamente tedesca e francese, delle
tedesche Basf e Sap, delle francesi Danone e Société générale, delle spagnole Telefonica
e Banco Santander Centrale Hispanico e dell’olandese Koninklijke Philips. La Basf figura
anche tra le partecipazioni azionarie del deputato di Scelta civica Giuseppe Quintarelli.
Anche per lui la maggior parte degli investimenti si riversa in società estere, da Avon a
Bayer, passando per McDonald’s, Microsoft e Total. A queste si aggiungono le azioni di
Telecom, Fondiaria Sai, Banca popolare di Milano e Banco popolare. Di quest’ultimo
possiede 3mila azioni anche il senatore del M5S Carlo Martelli, che dichiara poi 200 azioni
Eni e 100 Enel.
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GRILLINI VOLANTI C’è anche, infine, chi le azioni le ha ricevute in eredità, come il
deputato democratico Maino Marchi, oppure in regalo, come la deputata del M5S Maria
Edera Spadoni. Il primo, nella dichiarazione 2014, attesta di aver «ereditato titoli e
gestione patrimoniale per valore pari a euro 74.576,88», mentre la seconda ci racconta
che le sue 135 azioni di Easyjet Airlines le sono state date quando nel 2008 ha iniziato a
lavorare per la compagnia aerea britannica a basso costo. «Sono dipendente Easyjet in
aspettativa non retribuita per tutta la durata del mandato», spiega la Spadoni: «E proprio in
qualità di dipendente, Easyjet nel 2008 mi ha regalato queste azioni, il corrispettivo di due
settimane di paga, che continuo a mantenere».
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/15/investimenti-azionari-parlamentari-italianibanche-piacciono-proprio/1590592/
Del 15/04/2015, pag. 14
Nel nome di Ilaria Alpi
Ri-Mediamo. La rubrica settimanale di Vincenzo Vita
Vincenzo Vita
Rai, per una volta. Lo scorso sabato 11 aprile è stato messo in onda un documentario di
rara efficacia, «Ilaria Alpi. L’ultimo viaggio». Sul tragico agguato alla brava e coraggiosa
giornalista, caduta per mani assassine il 20 marzo 1994, insieme all’operatore Miran Hrovatin. Curata con rigore ed efficacia da Lisa Iotti, Claudio Canepari e Massimo Fiocchi,
strutturata su di bandolo narrativo forte e credibile, la trasmissione ha dato un contributo
rilevante alla ricerca della verità su una vicenda tuttora irrisolta. E, dopo la visione di materiali inediti, ecco un finale mozzafiato, augurabile premessa di un rapido aggiornamento
dell’inchiesta giudiziaria. laddove, come già fu chiaramente anticipato da una recente puntata di «Chi l’ha visto», si fa riferimento al doppio depistaggio avvenuto: è in carcere un
probabile innocente (Omar Hashi Hassan); è stata ritrattata la «supertestimonianza» da
colui (Ali Rage Ahmed detto «Gelle») che aveva reso l’atto di accusa. Non solo. Il movente
non pare proprio una rapina improvvisa e violenta, bensì un gioco estremamente pericoloso, con al centro il traffico d’armi: verso la Croazia, attraverso la Lituania e con la longa
manus della Cia. Giornalismo di precisione, non supposizioni urlate e generiche. Al contrario, una costruzione ricca di elementi ricognitivi, tracce di storia recente purtroppo rimossa.
Perché la Rai non fa il bis, magari in un giorno e in un orario più confacenti? Il sabato sera,
dominato dalla febbre degli ascolti e dai colpi di coda del duopolio con la gara tra le due
signore del palinsesto –Clerici e De Filippi– lascia poco spazio ad un programma duro
e riflessivo. Comunque, in quelle condizioni così impervie, il 4,03% di share (poco meno di
un milione di spettatori) mostra che c’è il potenziale per ricostruire un servizio pubblico di
qualità. Tra l’altro, lo speciale è iniziato con uno sforamento di ben 33 minuti rispetto alla
cadenza prevista: grave sempre, ma persino sgradevole per un appuntamento seguito da
un pubblico specificamente interessato. Simile brutta pratica è, del resto, stigmatizzata
dalla «Carta dei diritti e dei doveri», ma nella televisione italiana le regole sono spesso un
optional. Per aggiungere qualche ulteriore considerazione amara, pur a fronte di una esperienza positiva, va sottolineato il curioso affidamento a una società esterna di un lavoro
dedicato a una giornalista della Rai uccisa mentre svolgeva il suo impegno di reporter in
una zona di guerra. Non «embedded», bensì libera e fuori dagli schemi. Inoltre, sono comparse davvero troppe interruzioni pubblicitarie, persino nell’apice drammatico e toccante
che chiudeva l’inchiesta: spezzato da uno spot sull’Expo. Certamente i fini dicitori diranno
che non si trattava di news, ma di «docufiction», cui sono permesse le inserzioni commer12
ciali. Tuttavia, oltre al diritto (poniamo) esiste lo stile. Ed è spiacevole che in una circostanza simile i dirigenti della Rai non abbiano sentito l’esigenza di rispettare la memoria di
una professionista che ha reso onore al servizio pubblico e all’informazione.
Ilaria Alpi entrò alla Rai per concorso, aveva una passione smisurata per il racconto della
realtà, conosceva diverse lingue – compreso l’Arabo — per poter capire il villaggio globale.
Piena di intuizioni, ancora giovanissima scriveva –nel 1986– dei «Fratelli Musulmani» su
una testata indimenticabile come Paese sera.
Ora abbiamo l’obbligo della verità, per lei, per Miran Hrovatin, per il compianto padre Giorgio Alpi. E per una madre d’oro, Luciana.
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ESTERI
Del 15/04/2015, pag. 20
Sentenza in Egitto “No ai gay stranieri è
giusto cacciarli dal nostro paese”
I giudici bocciano il ricorso di un libico contro la polizia. “Corrompono
la morale” Retate e arresti di omosessuali al Cairo
FABIO SCUTO
La polizia egiziana potrà espellere gli stranieri omosessuali e vietare il loro ingresso nel
Paese. Lo ha stabilito ieri la Corte amministrativa egiziana, respingendo un ricorso
riguardante una decisione del ministero dell’Interno in merito all’espulsione di un cittadino
libico omosessuale. Il Tribunale ha riconosciuto legittimo il diritto del ministero di espellere
stranieri omosessuali e di impedire il loro ingresso in Egitto. Una decisione senza
precedenti subito riportata ieri pomeriggio dal sito di Al Ahram . «La Corte amministrativa
dell’Egitto », precisa il quotidiano più antico del Medio Oriente «ha confermato ciò che ha
definito essere il diritto del ministero ad espellere stranieri omosessuali e ad interdire il loro
ingresso in Egitto». Il tribunale ha confermato la decisione che nel caso specifico venne
presa nel 2008, stabilendo che è stata assunta per preservare l’interesse pubblico e
religioso e i valori sociali. L’omosessualità non è ufficialmente fuorilegge in Egitto, ma le
persone accusate di essere gay vengono spesso incriminate in base alle leggi che
puniscono la “dissolutezza” o la “corruzione della morale pubblica”, in pratica le leggi antiprostituzione. La decisione della Corte cairota rischia di dare un serio colpo anche
all’industria turistica, già in difficoltà per il terrorismo islamico. I resort per stranieri lungo le
rive del Mar Rosso sono (erano) tra le mete più ambite per coppie gay e rischiano adesso
di perdere una importante quota di clientela. I difensori dei diritti umani in Egitto
denunciano una vera e propria campagna governativa contro i gay, arresti e persecuzioni
contro gli uomini accusati di omosessualità sono aumentati drammaticamente negli ultimi
mesi. Così come la gogna mediatica a cui vengono talvolta sottoposti gli arrestati. Ha
destato scalpore lo scorso dicembre la puntata del programma tv “El Mestakhabi”
(“Nascosto”) sulla retata anti gay della polizia in un hammam del Cairo, dove sono state
arrestate 33 persone con l’accusa di “dissolutezza”. Le troupe della rete Al Qahira wal Nas
hanno accompagnato il blitz della polizia e gli arrestati sono stati trascinati fuori dal bagno
turco in manette e seminudi sotto i riflettori delle telecamere. Ne è nata una forte polemica
ma la polizia ha continuato in questi mesi a tenere sotto stretto controllo quel quadrilatero
di strade fra la celebre Piazza Tahrir e Piazza Talaat Harb, dove tradizionalmente si ritrova
la comunità gay.
Del 15/04/2015, pag. 16
Monica, che osava mettere i pantaloni
Una delle 219 ragazze rapite in Nigeria. Boko Haram: «Non voleva
convertirsi, lapidata»
Il padre la voce, la madre le lacrime: Enoch e Martha Mark sono i genitori di due
studentesse rapite a Chibok un anno fa, due delle 219 che non sono più tornate. Lui,
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bracciante agricolo e pastore protestante, è stato per tutti questi mesi il rappresentante
delle famiglie, l’animatore del dolore di cui lei mostra il volto silenzioso, impietrito in
un’immagine rilanciata da internet e dai giornali: una mamma che tiene in mano la foto di
una figlia scomparsa. C’è tutta Monica in quella fotina sbiadita: vent’anni, la voglia di
diventare medico, l’orgoglio pacato della propria fede e i pantaloni proibiti (Boko Haram
gambizza le donne che osano indossarli). La sera del 14 aprile 2014 Monica era nel
dormitorio della Scuola Secondaria con la sorella adottiva Samuel Sarah, anche lei
aspirante dottoressa. La vigilia dell’esame di fisica. Dall’altra parte del paese, Enoch e
Martha dormivano con i quattro figli piccoli quando poco prima di mezzanotte è arrivata la
telefonata di un amico da un villaggio vicino: «Ho visto i camioncini passare, arriva Boko
Haram». Il tempo di fuggire nella boscaglia, e trovarci i soldati incaricati di difendere la
scuola. Quando Mark è andato a vedere, nelle aule bruciate non c’era traccia di vivi e di
morti. Quell’assenza, all’inizio quasi un sollievo, dopo 365 giorni è un macigno: «Sarebbe
stato meglio vedere i cadaveri delle mie figlie piuttosto che saperle prigioniere, svanite nel
nulla — racconta il reverendo Enoch a Time — Certi giorni mi alzo e vorrei saperle morte».
Come altri abitanti, i Mark hanno dovuto lasciare Chibok. Sfollati in una casa con quattro
famiglie, forse dalle parti della capitale Abuja. In questi mesi il portavoce dei parenti è stato
molto duro con il governo di Goodluck Jonathan, sconfitto al voto del 28 marzo,
accusandolo di inerzia e ipocrisia. «Abbiamo fiducia nel nuovo presidente Buhari — ha
detto il reverendo Enoch ieri davanti alla Fontana dell’Unità, dove sono accampati gli
attivisti di «Bring back our girls» — Buhari è musulmano. E anch’io lo sono. Cosa vuol dire
infatti essere musulmano, se non temere Dio e perseguire la giustizia?».
Buhari promette che farà di tutto per «riportare a casa le nostre ragazze», ma ammette
che potrebbe fallire. Boko Haram ha perso uomini e territorio, è a corto di soldi tanto da
rilasciare decine di ostaggi non potendo più mantenerli. Ha liberato soprattutto donne
anziane, le giovani no. E’ passato un anno e 219 ragazze non sono tornate. A casa Mark
hanno avuto notizia che Monica è stata uccisa. L’ha raccontato l’ex premier britannico
Gordon Brown, dopo un colloquio con il pastore Enoch, in un articolo pubblicato dal
Guardian : «Boko Haram ha messo in giro la voce che la ragazza ha rifiutato di convertirsi
all’Islam. Ed è stata lapidata, bruciata viva».
Il padre di Monica continua a fare il portavoce delle famiglie di Chibok. Spera un giorno di
rivederla, la sua prima figlia, quella con i pantaloni, di poterla abbracciare o seppellire. Il
volto di Martha, la madre, a guardarlo ora nella foto di un anno fa sembra ancora più
impietrito, morto.
Del 15/04/2015, pag. 19
«Colpevoli della strage in Iraq»
Pesanti condanne ai mercenari Usa
Nel massacro del 2007 a Bagdad restarono uccise 17 persone, tra cui 14
civili
WASHINGTON La sentenza è arrivata alla vigilia della visita alla Casa Bianca del premier
iracheno Abadi. Una coincidenza. Ma anche un segno del destino in una storia terribile:
l’uccisione di 14 civili a Bagdad nel 2007. Eccidio compiuto da un gruppo di guardie private
della Blackwater condannate lunedì da un tribunale statunitense. Un epilogo che
accompagna il ricordo dell’invasione . Le testimonianze non hanno lasciato attenuanti ai
killer. Hanno sparato senza alcuna giustificazione sui passanti e hanno detto il falso:
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nessuno aveva aperto il fuoco contro di loro. Per questo il tribunale ha emesso un verdetto
duro: l’ergastolo per l’ex cecchino dell’esercito Nicholas Slatten, 30 anni ai suoi tre
compagni. Il quartetto faceva parte del convoglio Raven 23, un corteo di veicoli blindati
che rientrava nella zona verde, la più protetta della capitale. Raggiunta la piazza Mansour,
gli elementi della Blackwater hanno sparato con granate e fucili d’assalto contro tutto ciò
che si muoveva, sostenendo che si trattava di una reazione a tiri dei ribelli. Pagano
uomini, donne, bambini. La strage è un episodio di atrocità gratuita. Ma anche la prova di
come i «contractors», le migliaia di guardie usate dagli Usa su molti fronti di guerra, siano
fuori controllo. Un esercito nell’esercito, pagato con milioni di dollari, che prende spesso il
posto dei soldati per dare protezione a diplomatici, ambasciate, installazioni. Un grande
affare dove pescano molte imprese, tra queste la Blackwater di Eric Prince.
È l’epoca dell’outsourcing, i servizi di sicurezza e molte attività sono cedute ai privati. Un
fenomeno cresciuto a dismisura. Che, se giustificabile per molti aspetti, si porta dietro
conseguenze a volte drammatiche. Come la carneficina del 16 settembre del 2007 a
Piazza Mansour, una delle tante ferite nel complicato rapporto Usa-Iraq. Ecco perché il
governo statunitense ha cercato una risposta ferma, da qui la sentenza arrivata dopo
un’indagine non facile, a volte zoppicante . Con i quattro imputati, appoggiati da molti,
determinati nella loro versione. «Dio mi è testimone», ha giurato Evan Liberty quando
spiegava di aver sparato solo per difendersi. «So che sarò scagionato in questa vita e
nella prossima», ha aggiunto Paul Slough. «Il verdetto è sbagliato», è stato il commento di
Nicholas Slatten. Contro la loro parola, oltre a quella dei tanti iracheni che erano in strada
quel giorno, si è pronunciato il loro collega, Jeremy Ridgeway. Ha patteggiato, ha evitato
la condanna però ha deposto mettendo nei guai le altre guardie.
Gli accusati si sono difesi sostenendo che nessuno poteva capire cosa fosse operare nelle
vie di Bagdad, tra agguati ed attentati dei qaedisti. Il giudice, un ex ufficiale, pur
riconoscendo quel «clima» ha risposto: «La corte non può ignorare un comportamento
ingiustificato». È rimasto molto lontano dall’aula il fondatore della Blackwater. Prince l’ha
venduta da anni, ma lui continua a vendere sicurezza. I clienti non mancano .
Guido Olimpio
Del 15/04/2015, pag. 17
Candidati Usa: senza soldi niente campagna
REPUBBLICANI FAVORITI DALLE DONAZIONI ILLIMITATE DEI GRANDI GRUPPI,
MA LA DEMOCRATICA HILLARY HA DALLA SUA LA POPOLARITÀ
Di Giampiero Gramaglia
Trovare i voti. Ma, prima, trovare i soldi per cercare i voti. Le campagne elettorali negli
Stati Uniti sono idee, slogan, promesse, primarie, dibattiti, famiglie sul palco, convention
spettacolari, tonfi e ascese. Con un punto fermo: senza soldi, in fondo non ci arrivi. E
quella 2016 s’annuncia fin d’ora come la campagna più costosa della storia. Mitt Romney,
candidato dei repubblicani nel 2012, s’è fatto da parte prima ancora che cominciasse la
conta dei suffragi: ha rinunciato dopo avere saputo che molti donatori che lo avevano
sostenuto quattro anni or sono avrebbero foraggiato questa volta Jeb Bush. Le campagne
dei democratici e dei repubblicani sono diverse sotto molti punti di vista: i messaggi e il
modo di veicolarli. Ma l’obiettivo di raccogliere quanto più fondi possibile è comune. Nel
tempo, i democratici hanno scoperto prima dei repubblicani la tv e internet e i social
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media, ma oggi si sta ad armi pari. Per Usa 2016, Hillary, ha un problema opposto ai suoi
potenziali avversari: lei, che è arcinota, deve evitare di strafare. Così, nel suo primo video,
non è lei la protagonista, ma l’America degli ordinary people, della gente qualsiasi: lei si
propone come il campione di quell’America. I candidati repubblicani, quelli già dichiaratisi
e quelli che s’apprestano a farlo, hanno invece il problema di farsi conoscere e
riconoscere, ancora prima che di farsi apprezzare. E, inoltre, impegnati nelle primarie in
una battaglia fratricida, spenderanno lì molti soldi, mentre Hillary potrebbe attraversare le
primarie relativamente indisturbata e, quindi, senza svenarsi troppo. LE ATTUALI
REGOLE del finanziamento elettorale, che non limitano drasticamente, come in passato,
le donazioni dei grandi gruppi, favoriscono i repubblicani sui democratici: il ‘me - todo
Obama’, raccogliere somme enormi via internet con piccole donazioni individuali potrebbe
non bastare, davanti alla libertà d’azione dei Pac (Political action committee, con limiti di
spesa) e Super-Pac (senza limiti di spesa, ma che non finanziano direttamente una
campagna). Ma Pac e Super-Pac c’erano già nel 2012 e non bastarono a Romney per
vincere. Certo, Hillary e i democratici non possono lasciare i grandi finanziatori ai rivali
repubblicani. Così, Po l i t i co.co m ha recentemente seguito le ‘primarie di Goldman
Sachs’ che Hillary e Jeb, i due battistrada dei rispettivi schieramenti, avrebbero
discretamente – ma neppure troppo - disputato nelle ultime settimane: obiettivo,
accaparrarsi i favori (e, quindi, i finanziamenti) della più potente banca di Wall Street.
Hillary, che mira a raccogliere più fondi di quanti non riuscì a metterne insieme Obama, ha
– lei personalmente e il marito Bill - un rapporto di lunga data con i responsabili di
Goldman Sachs. E Jeb li sta corteggiando con una serie di visite a New York. Il mese
scorso, nello stesso giorno Bush ha partecipato a un evento al Ritz Carlton organizzato da
Dina Powell - che guida la Goldman Sachs Foundation e che lavorò alla Casa Bianca con
George W. Bush, fratello dell’ex governatore della Florida - ed è intervenuto a un evento
curato da Jim Donovan, un dirigente della banca, nel 2012 fra i principali sostenitori di Mitt
Romney. Charles Geisst, storico di Wall Street al Manhattan College, commenta: “A
Goldman Sachs piace giocare sui due i fronti, in particolar modo in questo caso, perché
entrambi i candidati, Bush e Clinton, potrebbero in definitiva rivelarsi utili”. La banca,
dunque, foraggerà entrambi, come spesso fanno, a conti fatti, le grandi corporations:
avere un presidente amico è fantastico, ma rischiare d’averne uno nemico è terribile.
Del 15/04/2015, pag. 30
GRAMSCI E L’ARMENIA
NADIA URBINATI
«AVVIENE sempre così. Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della
nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui
abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità».
Cominciava così l’articolo che Antonio Gramsci dedicava al massacro degli armeni, uscito
su Il Grido del Popolo l’11 marzo 1916 (e tradotto ora in inglese da Ara H. Merjian). Ci
commuoviamo per ciò che succede vicino a noi e siamo indifferenti a tutto il resto. Per
questo, il ruolo del giornalismo è importante: per rendere pubblico e noto a tutti quel che
avviene in ogni angolo della terra e non lasciare, come scriveva Kant, che nessuna offesa
alla vita di un essere umano passi senza eco. L’indifferenza, scriveva Gramsci, è figlia
dell’ignoranza. «È un gran torto non essere conosciuti. Vuol dire rimanere isolati, chiusi nel
proprio dolore, senza possibilità di aiuti, di conforto. Per un popolo, per una razza, significa
il lento dissolvimento, l’annientarsi progressivo di ogni vincolo internazionale, l’abbandono
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a se stessi, inermi e miseri di fronte a chi non ha altra ragione che la spada e la coscienza
di obbedire a un obbligo religioso distruggendo gli infedeli».
Il torto di non essere conosciuti aveva decretato la sorte degli armeni, una premonizione di
altri massacri coperti dall’oblio. «Così l’Armenia non ebbe mai, nei suoi peggiori momenti,
che qualche affermazione platonica di pietà per sé o di sdegno per i suoi carnefici; “le
stragi armene” divennero proverbiali, ma erano parole che suonavano solo, che non
riuscivano a creare dei fantasmi, delle immagini vive di uomini di carne e ossa». Si era
all’inizio della Prima guerra mondiale. E la guerra aveva tolto il velo al massacro del
popolo armeno; prima di allora, «niente mai fu fatto» anche se i Paesi europei avrebbero
potuto «costringere la Turchia, legata da tanti interessi a tutte le nazioni europee, a non
straziare in tal modo chi non domandava altro, in fondo, che di essere lasciato in pace». Il
genocidio degli armeni ha messo a nudo diverse responsabilità, quelle dirette di chi li
massacrò e quelle indirette di chi non fece nulla per fermare il massacro e farlo conoscere.
Pochi anni dopo, con la Lega delle Nazioni fallita miseramente, l’umanità avrebbe
assistito, inerme, al genocidio degli etiopi per opera dell’esercito italiano. Il genocidio degli
armeni era un segno di quel che la Prima guerra avrebbe portato con sé. Gramsci toccava
un nervo sensibilissimo della politica europea, quello delle responsabilità della comunità
internazionale nella violazioni dei diritti umani. «La guerra europea ha messo di nuovo sul
tappeto la questione armena. Ma senza molta convinzione. Alla caduta di Erzurum in
mano ai russi, alla probabile ritirata dei turchi in tutto il paese armeno non è stato dato nei
giornali neppure lo stesso spazio che all’atterramento di uno “Zeppelin” in Francia».
Gramsci si rivolgeva ai membri della comunità armena disseminati nei Paesi europei
affinché facessero, loro per primi, conoscere «la loro patria, la loro storia, la loro
letteratura», confidando nel fatto che la conoscenza li facesse diventare un oggetto di
simpatetica solidarietà. Rendere conto con vivide descrizioni e parole per muovere le
emozioni e far nascere un giudizio di condanna. Sapere e fare conoscere, non mettere
sotto silenzio o censurare (come ancora oggi pare chiedere il governo turco con le sue
rimostranze per le parole pronunciate domenica da Papa Francesco).
Quando Gramsci scriveva il suo articolo, l’Italia era da alcuni mesi entrata in guerra contro
gli ex-alleati austro-tedeschi. Era prevedibile che contro i nuovi nemici tedeschi, e gli
imperi alleati a loro come quello turco-ottomano, gli italiani venissero invitati a simpatizzare
con le sofferenze armene. Ma Gramsci non si prestò a questo uso strumentale della
simpatia per le vittime. La sua “attiva e operante” azione giornalistica voleva avere la
funzione di denunciare le atrocità turche senza usarle per aizzare sentimenti anti-tedeschi.
Ciò che lo interessava prima di tutto era la “solidarietà disinteressata” internazionale verso
gli armeni e altre potenziali vittime di massacri collettivi. E infatti, la carneficina degli
armeni per opera dell’esercito guidato dal Sultano Abdul Hamid aveva destato
l’ammirazione del re Leopoldo II del Belgio, impegnato nell’eliminazione di milioni di
congolesi. La tragedia del popolo armeno era dunque, come Gramsci aveva ben
compreso, premonizione e rappresentazione al tempo stesso dell’epilogo tragico di quel
che, vista da dentro l’Europa, era apparsa come una lunga età di pace, e che aveva
invece approntato le condizioni per i massacri e i genocidi del ventesimo secolo, a
cominciare da quelli che con un eufemismo i nostri libri di scuola chiamano ancora oggi
“guerre coloniali”. La costellazione di implicazioni che il massacro armeno portava con sé
rendeva ancora più necessario che se ne parlasse, dunque. «Gli armeni dovrebbero far
conoscere l’Armenia — concludeva Gramsci — renderla viva nella coscienza di chi ignora,
non sa, non sente».
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Del 15/04/2015, pag. 5
“Negli stadi del Qatar condizioni da schiavi”
Edili. Protesta dei sindacati davanti alla Figc: "La Fifa e i governi si
interessino degli operai che lavorano ai Mondiali 2022". Fino a 16 ore in
cantiere, nessun diritto né tutela, privati del loro passaporto: ne sono
morti già 1200
Antonio Sciotto
Fino a 16 ore di lavoro al giorno per paghe da fame, nessun diritto di associazione sindacale, 1200 morti tra incidenti e infarti: è il quadro tracciato dai sindacati edili mondiali sulla
condizione degli operai che stanno costruendo stadi e infrastrutture in Qatar, in vista del
mondiale di calcio 2022. La gran parte sono immigrati, da Paesi asiatici come India, Filippine, Nepal o Bangladesh, e a moltissimi di loro viene applicato il cosiddetto sistema della
Kafala, ovvero il ritiro del passaporto da parte dell’impresa utilizzatrice. In questo modo
non possono protestare, restano perennemente prigionieri e sono costretti a dire di sì
a qualsiasi richiesta dei caporali.
Per dire basta a questo sfruttamento la federazione dei sindacati mondiali degli edili, la
Bwi, con la sua struttura europea (la Efbww), ha lanciato una campagna dal titolo “Cartellino rosso alla Fifa”, per sensibilizzare prima di tutto il committente dei Giochi. E ieri,
a Roma, Fillea Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil hanno manifestato davanti alla Figc, ramo italiano della Fifa. I tre segretari generali, che hanno scritto anche al premier Matteo Renzi,
sono stati ricevuti dal responsabile rapporti istituzionali della Figc, che ha preso l’impegno
di studiare il materiale presentato dal sindacato e parlarne con la Fifa.
E dire che il Qatar ha il Pil pro capite più alto del mondo, ma come spiegano Fillea, Filca
e Feneal, la sua popolazione è formata da due milioni di persone, dei quali solo il 10%
è originario di quel Paese. C’è una grandissima quantità di lavoratori migranti, si stima che
siano oggi 1,2 milioni addetti alla costruzione di Qatar 2022, e che potrebbero raddoppiare
entro la data dei mondiali. “Per l’organizzazione della Coppa del Mondo sono stati stanziati
diversi milioni di dollari – dicono i sindacati – ma gli operai edili guadagnano soltanto tra
i 96 e i 300 dollari al mese, lavorando più di 12 ore, spesso anche fino a 16, per 6 giorni
alla settimana”. “Per molte ore della giornata gli edili sono costretti a lavorare sotto il sole
cocente, con temperature fino a 50 gradi – spiega il segretario della Fillea Cgil, Walter
Schiavella – E dire che per i calciatori e gli spettatori si stanno mettendo in piedi le migliori
condizioni di accoglienza, con tanto di condizionatori e altri servizi”. Altissimo il numero
delle morti per malore o infarto, i sindacati stimano fino a 900 dei 1200 operai che hanno
perso la vita finora: e entro il 2022 si potrebbe arrivare a 4 mila vittime totali. Non esistono
stime ufficiali, perché questi lavoratori sono come “fantasmi” sia per le imprese che li utilizzano, sia per lo stesso Qatar: i dati vengono da alcune organizzazioni non governative che
riescono a operare sul posto e da una ispezione svolta dal sindacato nei cantieri.
I sindacati chiedono al governo del Qatar di abolire il sistema del Kafala e il visto di uscita
richiesto a chi lascia il Paese: venendo sequestrati i passaporti di chi lavora, è praticamente impossibile per tutti questi operai lasciare lo Stato del Golfo. Inoltre, alle imprese
utilizzatrici – che spesso si appoggiano ad agenzie interinali che fanno base nei paesi di
origine dei migranti – si chiede di assumere direttamente gli edili, di retribuirli con contratti
regolari, inclusa anche un’assicurazione medica. Tutela di cui sono sprovvisti, come non
esistono ispettori del lavoro: praticamente gli stadi e le infrastrutture vengono costruiti da
personale in stato di schiavitù. La stessa campagna i sindacati degli edili la stanno mettendo in campo anche per i mondiali del 2018, che si giocheranno in Russia: anche in que19
sto caso, ci sono denunce di condizioni di lavoro molto pesanti, con pochi diritti e tutele per
gli operai impegnati. “Le campagne di sensibilizzazione e sindacalizzazione possono cambiare le cose – spiegano Fillea, Filca e Feneal – In Sud Africa più di 30 mila lavoratori si
sono iscritti ai sindacati prima della Coppa del Mondo Fifa 2010, e prima dei mondiali
2014, in Brasile, i sindacati sono stati in grado di mobilitare circa 130 mila lavoratori in 26
scioperi, che hanno portato a un aumento dei salari e a condizioni di lavoro più sicure”.
Non solo lavoro: anche le condizioni di vita degli operai del Qatar sono più che precarie,
visto che vengono alloggiati in baracche senza luce, gas, elettricità, acqua corrente e servizi igienici, piene di topi, con il rischio di contrarre malattie. “Speriamo davvero che la Figc
si faccia portavoce della nostra protesta alla Fifa – dice Domenico Pesenti, segretario della
Filca Cisl – Noi continuiamo a stare in piazza, e il 29 maggio faremo un presidio a Zurigo,
proprio nel giorno in cui la Fifa eleggerà i suoi vertici”. “I social e i mezzi di informazione ci
possono aiutare molto in questa battaglia – conclude Vito Panzarella, segretario Feneal Uil
– Abbiamo scritto anche a Renzi, perché non può mancare l’interessamento dei singoli
governi dei Paesi che parteciperanno ai giochi”.
Del 15/04/2015, pag. 6
Baghdad chiede armi, Obama manda aiuti
umanitari
Iraq. Il premier al-Abadi "minaccia" gli Usa: o mandate armi o le
chiediamo all'Iran. Il Pentagono festeggia: il 25% del territorio liberato
dall'Isis. Ma il merito è soprattutto di Teheran
Chiara Cruciati
Lo Stato Islamico in Iraq sta arretrando. Parola del Pentagono. Lunedì il portavoce Steve
Warren ha snocciolato dati che dovrebbero rassicurare: il califfato avrebbe perso il 25–
30% dei territori occupati nel paese da giugno. I miliziani si spostano verso sud e ovest.
Baghdad prosegue nella controffensiva: ieri le truppe governative hanno lanciato un nuovo
attacco all’Isis nella calda provincia di Anbar, fonte di destabilizzazione già ai tempi
dell’invasione Usa per la rabbia della comunità sunnita esclusa dal nuovo potere centrale.
L’operazione ha permesso di riprendere il 40% della città di Ramadi, quasi del tutto occupata da uno Stato Islamico di fretta: dopo le perdite subite, l’Isis ha ripreso di mira la raffineria di Baiji, la più grande del paese, attaccata domenica con attentatori suicidi.
Ma se il califfo arretra a chi va il merito? Secondo Washington ai raid della coalizione.
Diversa è l’opinione del governo iracheno che da tempo accusa la coalizione anti-Isis di
estrema lentezza e inefficacia: a segnare le vittorie concrete contro il califfato sono stati
i peshmerga, i pasdaran, i miliziani sciiti. Probabile che il premier al-Abadi lo faccia notare
al presidente Obama, nella prima visita ufficiale alla Casa Bianca da quando ha assunto
l’incarico lo scorso autunno. Al-Abadi si è fatto precedere dai commenti sferzanti dei suoi
consiglieri: «Se non otterremo l’aiuto chiesto a Washington – ha detto lunedì un funzionario iracheno – chiederemo all’Iran».
Ciò che serve, ha fatto sapere al-Abadi prima dell’incontro di ieri alla Casa Bianca, sono
munizioni, Apache e droni. Ma senza pagare, o almeno non subito: le casse di Baghdad
sono a secco, nel 2015 il deficit sfiorerà i 21 miliardi di dollari. Agli Usa spetta mandare gli
aiuti e fare credito. La Casa Bianca risponde, però, con aiuti umanitari: durante l’incontro
nell’Ufficio Ovale di ieri, Obama ha promesso ad Al-Abadi 200 milioni di dollari per sostenere le famiglie irachene profughe. Sul piatto statunitense restano ad aspettare 1,6 miliardi
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di dollari di aiuti in armi e addestramento, secondo la richiesta presentata del Pentagono al
Congresso a novembre. Ha già provveduto invece Teheran che ha inviato da tempo artiglieria pesante, missili e uomini. Che la presenza dell’Iran si sia dimostrata ad oggi fondamentale alla liberazione di Tikrit e delle comunità della provincia di Salah-a-din è difficile
da confutare: le guardie rivoluzionarie si sono poste a capo di 20mila miliziani sciiti e circa
3mila soldati governativi, ben prima che la Casa Bianca cedesse e accettasse di prendere
parte alla controffensiva contro la città. La radicata influenza iraniana su Baghdad si rafforza ogni giorno di più e, nel più vasto contesto mediorientale (dall’attacco saudita ai
ribelli sciiti Houthi in Yemen all’accordo sul nucleare) fa dormire sonni poco tranquilli ai
regnanti sauditi. Che potrebbero correre ai ripari. Secondo l’Huffington Post, che cita fonti
interne anonime, Arabia Saudita e Turchia starebbero discutendo da un paio di mesi la
possibilità di un intervento militare congiunto in Siria. Un’eventualità poco probabile, ma
che rientrerebbe nelle più recenti interferenze saudite e turche nella regione, a partire
dallo Yemen. Ankara metterebbe a disposizione le truppe di terra e Riyadh l’aviazione.
Dietro, a supervisionare, il Qatar che con il presidente turco Erdogan ha siglato pochi mesi
fa un accordo di cooperazione militare. Il tutto, aggiungono le fonti, per sostenere i gruppi
di opposizione moderati, far cadere definitivamente Assad e, indirettamente, indebolire
Teheran.
Del 15/04/2015, pag. 1-8
A Gaza i bambini trovano l’asilo Arrigoni
Reportage. Quattro anni dopo l’assassinio di Vittorio Arrigoni, Gaza non dimentica.
Ad al Bureij decine di bambini palestinesi studiano e giocano nell’asilo dedicato a
Vik. Un progetto gestito dalle associazioni «Ghassan Kanafani» e «Dima» che
promuove una eduzione progressista in una delle aree più povere della Striscia
Michele Giorgio, INVIATO AD AL BUREIJ (GAZA)
<<Da questa parte, forza, spostatevi, non bloccate la strada». Un giovane si improvvisa
vigile urbano e prova mettere un po’ d’ordine nel traffico caotico all’incrocio tra la Salah
Edin, l’«autostrada» di Gaza, e il campo profughi di Bureji dove ci aspettano all’asilo “Vittorio Arrigoni”. Quando arrivi in queste zone ti rendi conto delle tante Gaza che esistono
all’interno della Striscia. I livelli di drammaticità sono diversi. L’offensiva israeliana «Margine Protettivo» della scorsa estate ha colpito ogni punto di Gaza, nessuno è stato risparmiato. Ma la fascia orientale della Striscia è l’area più destavata, più segnata da bombardamenti e cannoneggiamenti. A Beit Hanoun, Shujayea, Khuzaa e Rafah, povertà, caos
e macerie formano un mix micidiale. La ricostruzione nel frattempo resta un concetto
astratto. Gli appelli ad aprire subito i cantieri si accavallano — l’ultimo è quello lanciato da
45 ong e associazioni del coordinamento «Aida» – e si scontrano con le promesse internazionali non mantenute di aiuti per miliardi di dollari e con le forti limitazioni che Israele
pone all’ingresso dei materiali per l’edilizia.
La «verità» processuale
Delle tre offensive israeliane contro Gaza, Vittorio Arrigoni ci aveva riferito di quella nota
con il nome di «Piombo fuso», tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009. Racconti quotidiani
di distruzioni, di esistenze spezzate ma anche di speranza, di bambini che chiedevano (e
chiedono) di giocare sereni, di adulti che non vogliono vivere in una Gaza-prigione.
Vittorio voleva restarci per anni a Gaza, per continuare ad informare gli italiani su quanto
accadeva (e accade) in questo lembo di terra martoriato dove aveva stretto legami e rapporti indissolubili con persone e luoghi. Non ha potuto farlo.
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Quattro anni fa, proprio in queste ore, i palestinesi e gli italiani che lo seguivano e stimavano, appresero del suo brutale assassinio compiuto da alcuni giovani di Gaza e dal loro
capo giordano, che si proclamavano membri di una cellula del gruppo salafita Tawhid
wal Jihad. Durante il processo gli assassini affermarono di aver sequestrato Vittorio per
usarlo in uno scambio di prigionieri volto ad ottenere la liberazione del loro capo, arrestato
e incarcerato dalla polizia di Hamas. Dopo la condanna all’ergastolo, in appello i condannati hanno ottenuto una sentenza più mite. Ora alternano a periodi di detenzione altri di
libertà vigilata. A Gaza si sussurra che presto saranno liberi. La famiglia di Vittorio, la
madre Egidia e la sorella Alessandra, ancora oggi non sanno quanto la verità processuale
coincida con ciò che accadde in quei giorni di metà aprile del 2011. Egidia e Alessandra
Arrigoni attraverso la fondazione che porta il nome di Vittorio, hanno avviato progetti
e iniziative , per dare continuità al percorso di “Vik”. E come loro hanno fatto altri italiani
e anche palestinesi.
Quella che ha lasciato Vittorio non è solo una eredità politica ma anche un’idea di mondo,
di vita, di giustizia, di relazioni tra i popoli.
Tra le vittime di Margine protettivo
Abbandonato il taxi ci avviamo verso l’asilo di al Bureji. «Ha aperto lo scorso settembre
e tra non molto ne avremo un altro anche a Khan Yunis, sempre con il nome di Vittorio», ci
spiega Saad Ziada, uno dei principali promotori del progetto educativo. Che forza d’animo
ha Ziada. Ne avrebbe di motivi per essere depresso, devastato. “Margine Protettivo” gli ha
ucciso gran parte della famiglia. «A mia madre e agli altri avevo detto di abbandonare
casa perchè in quella zona gli israeliani sparavano contro tutto. Non mi hanno ascoltato.
Sai, noi palestinesi dopo la Nakba (1948) preferiamo non lasciare le nostre abitazioni,
anche quando rischiamo la morte. Dobbiamo resistere e rimanere nella nostra terra», ci
dice Ziada davanti all’ingresso dell’asilo gestito dall’associazione socioculturale “Ghassan
Kanafani”, dal nome del grande scrittore palestinese nonchè dirigente del Fronte popolare
per la liberazione della Palestina, l’espressione più importante della sinistra palestinese.
Partner del progetto è l’associazione italiana “Dima”, dal nome della piccola Dima al Zahal,
l’ultima vittima di «Piombo fuso». Dima, oggi avrebbe 11 anni, fu ferita gravemente alla
testa, all’addome e alle gambe il 7 gennaio 2009 da un bombardamento aereo sulla sua
città, Beit Lahiya. Trasferita all’ospedale “Palestine” al Cairo, spirò la mattina del 2 marzo
2009, poche ore dopo la visita di una delegazione italiana diretta a Gaza.
«Signora Egidia, l’aspettiamo»
Con somme diverse donate all’associazione “Dima”, i 99 Posse, il manifesto, Egidia
e Alessandra Arrigoni, Fulvio Renzi con il suo «The Reading Movie» e numerosi italiani
hanno contribuito all’apertura dell’asilo «Vittorio Arrigoni».
Ci accoglie uno stormo di piccoli che corrono in classe. A guidarci nella visita all’asilo
è Safaa Rajudi, una delle cinque insegnanti che, assieme a due assistenti, si occupano di
85 bambini tra i quattro e i sei anni. Safaa manda subito un saluto alla mamma di Vittorio.
«Signora Egidia, speriamo di potere accogliere presto lei e sua figlia – ci chiede di scrivere
l’insegnante -, l’impegno di Vittorio per Gaza fa parte dei racconti inseriti nel programma di
apprendimento dei nostri bambini».
L’asilo ha tre aule, colorate, ben arredate. Il cortile in parte è ricoperto di sabbia, dove
sono state sistemate le giostre. Intorno il muretto è decorato con personaggi dei cartoon
e dei fumetti. Alle spalle domina un disegno con l’immagine di Vittorio.
«Il nostro asilo è un po’ diverso dagli altri – aggiunge Safaa – se da un lato seguiamo il
programma del ministero (dell’istruzione, ndr), dall’altro cerchiamo di favorire la creatività
dei bambini, di affrontare temi che non sono trattati nelle altre strutture scolastiche di
Gaza. E non manchiamo di dare sostegno psicologico ai bambini che più di altri hanno
subìto il trauma della guerra, dell’attacco militare israeliano, che hanno perduto membri
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della loro famiglia o la loro abitazione. E se prima a motivarci c’era solo la memoria di
Ghassan Kanafani ora c’è anche quella di Vittorio».
Un modo di educare e di lavorare che ha convinto i responsabili di “Dima”. «Durante la
nostra visita a Gaza, un paio di anni fa — spiega Francesco Giordano — abbiamo potuto
verificare l’importanza della presenza dell’Associazione Ghassan Kanafani all’interno della
società palestinese, soprattutto tra le fasce più povere ed abbandonate per farle crescere
in autonomia e libertà e non soggiogate dalla loro condizione di bisogno». L’impegno
rivolto ai bambini più poveri ed emarginati di Gaza, fondato sulla cultura nazionale democratica e l’impiego del lavoro delle donne, sono i punti che hanno avvicinato “Dima” e
“Ghassan Kanafani”. «Siamo convinti che per rafforzare la resistenza del nostro popolo —
spiega Saad Zaida – e per affrontare l’occupazione israeliana si dovrebbero rafforzare gli
indirizzi democratici e il progresso nella società palestinese. Siamo convinti della centralità
e dell’importanza dell’educazione, della democrazia e del progresso».
Giordano sottolinea la centralità che Vittorio Arrigoni assegnava ai princìpi e ai programmi
fondanti dell’asilo di al Bureij che ora porta il suo nome. «Vittorio non si disperava mai –
ricorda — aveva capito fin dall’inizio dove stavano i torti e dove le ragioni e scelse da che
parte stare, senza tentennamenti. Il sentirsi costantemente dentro una grande, percepita
e visibile ingiustizia non lo ha mai fiaccato. I bombardamenti, gli omicidi mirati, le perquisizioni, i sequestri dei palestinesi, che fossero uomini, donne o bambini non modificavano
mai il suo stile, ed il contenuto dello scrivere: sempre attento, preciso, direi minuzioso
e miracolosamente quando leggevamo tutto scorreva come un ruscello, capivamo tutto,
sentivamo l’occupazione, l’umiliazione di essere oppressi sulla propria terra».
La morte di Vittorio, prosegue Giordano, «sul momento ci fece perdere la speranza, ci
colpì violentemente da farci quasi svenire, il mondo s’era capovolto. Trovammo lucidità coi
giorni, quando andammo a rileggere le sue testimonianze, a guardare le foto ed i filmati,
quando chi ne aveva rovistava nei ricordi. Vittorio – conclude Giordano a nome di “Dima”
— scriveva sempre di restare umani, di non cedere a quelli che ci vorrebbero disumanizzare. Restare umani significa seguire l’esempio di donne e uomini come Rachel Corrie,
Tom Hundall e, appunto, Vittorio Arrigoni che hanno scelto di mettere da parte un pochino
della propria ragionevolezza per non sacrificare la propria umanità». I bambini di al Bureji
lo imparano ogni giorno, nel ricordo di Vik.
Del 15/04/2015, pag. 16
Fmi alza stime sul Pil italiano ma solo Cipro
va peggio di noi Torna l’incubo della Grecia
Renzi insiste: “Cresceremo più degli altri Paesi” Il Fondo non esclude
l’uscita di Atene dall’euro
ELENA POLIDORI
Dopo la grande crisi, il Fondo monetario internazionale rialza le stime di crescita per
l’Europa e per l’Italia, riduce quelle per gli Usa e i paesi emergenti. Quest’anno, secondo le
previsioni del Fmi, l’economia nazionale crescerà dello 0,5%, meno dello 0,7% previsto dal
governo, per poi balzare all’1,1% nel 2016 (1,4 secondo il Def). Ma nonostante il ritocco,
l’Italia è penultima nell’eurozona: solo Cipro con un più 0,2% fa peggio; brilla invece la
Spagna (più 2,5%). Nel 2016 la crescita nazionale sarà comunque la più bassa di
Eurolandia. A queste stime pare rispondere indirettamente Matteo Renzi: «Bisogna
smetterla di piangerci addosso. Il paese è in condizione di crescere più degli altri ed ha le
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carte in regola per essere protagonista ». Per spiegare la sua convinzione, il premier cita il
fenomeno del risparmio privato, cresciuto di 350 miliardi fra il 2012 e il 2014. «Più del
denaro che servirebbe per il piano Juncker» nota. Quindi la conclusione: «Chi si lamenta
continui a farlo. Noi salveremo l’Italia anche per loro». Renzi vedrà il presidente Usa,
Barack Obama, venerdì. Come Renzi, anche Carlo Cottarelli, ex responsabile alla
spending review e oggi direttore esecutivo Fmi per l’Italia, pensa che «la crescita sarà più
alta» del previsto. Reduce da una contrazione del Pil enorme, stimata dal Fmi nello 0,4%
lo scorso anno e addirittura nell’1,7% nel 2013, l’economia italiana si sta riprendendo
piano piano. La lentezza, secondo l’economista Oliver Blanchard ha anche a che fare con
«la capacità delle banche di fornire credito» che è «peggiore rispetto ad altri» e in
particolare a Francia, Germania e Spagna. E “probabilmente” il sistema è più vulnerabile
per via delle tante “sofferenze”, cioè l’alta quota di crediti deteriorati nel portafoglio degli
istituti che finisce per rallentare la trasmissione all’economia reale degli effetti benefici del
quantitative easing che è stato comunque “un successo”. La Bce, in una analisi condotta
su tutto il sistema del credito dell’area euro sostiene che la ripresa del credito è lenta, ma
in Italia la concessione di prestiti è ora più facile. Sempre sull’Italia, la disoccupazione
scenderà quest’anno al 12,6%: è sopra la media Ue (11,1%), più del doppio di quella
tedesca (4,9%) quasi la metà di quella spagnola (22,6%). Il deficit-Pil è atteso a fine anno
al 2,6%, in linea con le previsioni del governo. Il debito invece al 133,8% quest’anno e al
132,9 nel 2016. A febbraio, secondo la Banca d’Italia il debito è aumentato fino a quota
2.169,2 miliardi, il nuovo massimo storico.
L’Italia, ma anche il caso Grecia. Per la prima volta Blanchard non esclude una uscita del
paese dall’euro che sarebbe “costosa e dolorosa”, ma chiarisce che “il resto dell’eurozona
si trova ora in una posizione migliore per gestire «un’eventuale Grexit. Concetto
quest’ultimo che ha subito avuto i suoi effetti in Borsa, con cali generalizzati anche di
Milano (-1%). Il ministro Varoufakis, a Washington per gli incontri Fmi, vedrà Obama
giovedì. Se la trattativa in corso per salvare il paese fallisse — e vi sono molti timori —
secondo Blachard, «il modo per rassicurare i mercati è andare avanti sul fronte dell’unione
fiscale e politica». Più in generale all’interno di Eurolandia «le priorità sono meno tasse
che disincentivino l’occupazione, fra cui un cuneo fiscale più basso e politiche attive per il
mercato del lavoro». Le probabilità di una deflazione sono ora scese sotto il 30%.
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INTERNI
Del 15/04/2015, pag. 2
LA GIORNATA
Italicum, resa dei conti nel Pd
80 della minoranza dicono no
Renzi: questo non è il Monopoli
Oggi l’assemblea dei deputati con il leader decide la linea in aula I dissidenti
insistono: meno capolista nominati e troveremo l’intesa
La resa dei conti nel Pd sull’Italicum è prevista stasera nell’assemblea dei deputatati con
Renzi, in cui si voterà. E “Area riformista”, la corrente guidata dal capogruppo Roberto
Speranza, dopo un lungo confronto in mattinata, fa sapere che non ci sta. «Non possiamo
votare a favore in assemblea se la legge elettorale è “blindata”», annuncia Cesare
Damiano. Quindi già stasera i dissidenti batteranno un colpo. Dovrebbero essere
un’ottantina. Ma ciascuno si regolerà se votare “no” alla relazione di Renzi o
semplicemente astenersi. In aula poi si vedrà. Le minoranze sono una galassia frastagliata
e su quelle divisioni il premier cerca di far leva per portare a casa la nuova legge elettorale
così com’è, senza altre «perdite di tempo». Non vuole concedere nulla, Renzi, neppure
modifiche minimaliste come quella di cui i “trattativisti” della sinistra dem si
accontenterebbero: meno nominati per i partiti che non prendano il premio di
maggioranza. Semplicemente l’Italicum non deve più passare al Senato, dove con facilità,
vista la maggioranza ristretta, potrebbe essere bocciato. Il premier va dritto per la sua
strada: «L’iter delle riforme costituzionali e dell’Italicum non è il Monopoli, non si può
ricominciare e tornare a Vicolo corto». Ma la battaglia sarà senza esclusione di colpi. Già
in commissione i dem dissidenti chiederanno di essere sostituiti. Pier Luigi Bersani, l’ex
segretario, lo ha già annunciato e lo ripeterà stasera nell’assemblea del gruppo.
«Interverrò, aspettiamo e vedremo», si limita a dire . Dovrebbero comunque seguirlo nella
richiesta di farsi sostituire Alfredo D’Attorre, Roberta Agostini. Gianni Cuperlo, l’altro leader
della sinistra, non scopre le carte e afferma di non avere ancora deciso: «Non lo so,
aspetto di sentire Renzi e deciderò». Speranza tenterà l’ultima mediazione in un incontro
con il premier-segretario. Ma se il braccio di ferro dovesse continuare e il capogruppo
Speranza si trovasse su una linea bocciata dai due terzi del gruppo, sarebbe quasi
obbligato a rimettere il mandato. Anche se il vice segretario Lorenzo Guerini ha smentito:
«Il suo ruolo non è in discussione». Bersani parla di possibili “novità” dell’ultima ora.
Tuttavia l’offerta di una modifica sola e in cambio la fiducia al Senato per assicurarsi un
okay rapido e senza trucchi - una delle ipotesi di cui si parla - sembra non avere alcuna
presa sui renziani. D’altra parte l’apertura che Renzi potrebbe fare è sulla riforma
costituzionale al Senato. Poca cosa per la minoranza. Certamente da non prendere in
nessuna considerazione per i più “duri” della sinistra dem, come Rosy Bindi, Stefano
Fassina, Alfredo D’Attorre, Cuperlo stesso, Barbara Pollastrini. Oltre a Pippo Civati che ha
già fatto sapere che voterebbe “no” anche alla fiducia se Renzi la mettesse. L’ipotesi
fiducia creerebbe una tensione fortissima ampliando il fronte del dissenso. Nell’assemblea
dei deputati le sinistre, e non solo, chiederanno assicurazioni al premier perché assicuri
che non ci sarà la fiducia. Il M5S tenta la sinistra dem, insistendo perché ribalti il testo
subito, in commissione. FI è convinta che con i voti segreti il risultato è del tutto incerto.
Brunetta ribadisce: «No a a un Italicum blindato».
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Del 15/04/2015, pag. 6
Berlusconi è tornato libero scontata la pena
Mediaset. Forza Italia: cambiare la Severino
Cadono tutti i vincoli, restituito anche il passaporto ma l’ex premier non
potrà ricandidarsi fino al 2019
EMILIO RANDACIO
Il destino giudiziario di Silvio Berlusconi è contenuto in una pagina prestampata. A penna i
suoi dati anagrafici, in fondo il succo del provvedimento: pena estinta. In soldoni, da ieri
mattina, l’ex Cavaliere Berlusconi è un uomo libero.
Così ha deciso il Tribunale di Sorveglianza di Milano, riunito in camera di consiglio lunedì
pomeriggio sotto la direzione del presidente, Pasquale Nobili De Santis, che ha accolto le
conclusioni a cui era arrivato il giudice Beatrice Crosti. I dieci mesi e mezzo di affidamento
ai servizi sociali nel centro riservato a pazienti affetti da patologie degenerative di Cesano
Boscone, si sono conclusi positivamente. Lo ha accertato il funzionario dei servizi sociali
che ha seguito direttamente l’affidamento, lo hanno confermato i responsabili del centro
medico vicino alla Curia milanese. Da questa mattina, Berlusconi potrà riottenere il
passaporto che era stato ritirato poco dopo la condanna Mediaset nell’agosto del 2013.
Quattro anni di carcere — tre coperti da indulto — più due di interdizione dai pubblici uffici,
vengono cancellati con il provvedimento reso noto ieri. Notificato nel pomeriggio
all’avvocato Angela Maria Odescalchi, esperta in materia di pene alternative, che ha
affiancato con il suo studio gli storici difensori dell’ex premier, Niccolò Ghedini e Piero
Longo. Fino all’8 marzo scorso, ultimo giorno del periodo di servizio sociale a Cesano
Boscone, Berlusconi era costretto a frequentare il centro ogni venerdì, per quattro ore.
Non poteva espatriare, e i suoi spostamenti fuori Arcore erano piuttosto limitati. La Crosti
gli aveva concesso di trasferirsi per due giorni alla settimana — dal martedì sera fino al
giovedì — a Roma, «per impegni politico istituzionali», ma ogni giorno, per dieci mesi e
mezzo, Berlusconi non è potuto uscire dopo le 23 di sera da casa, non ha potuto
frequentare pregiudicati e ogni altro spostamento era soggetto a un via libera preventivo
del giudice. Non è stato un percorso rieducativo privo di incidenti. Durante i dieci mesi e
mezzo da condannato, Berlusconi ha ricevuto un avvertimento per un duro attacco ai
giudici durante un’udienza a Napoli del processo a carico dell’ex senatore De Gregorio. Un
incidente che avrebbe potuto prolungare il periodo «in prova».
La condanna è il risultato del residuo di pena per la condanna per frode fiscale per i diritti
televisivi gonfiati in Mediaset. La sentenza di estinzione della pena annulla anche la pena
accessoria dei due anni di interdizione dai pubblici uffici. Ma Berlusconi non potrà
comunque candidarsi fino al 2019, a causa della legge Severino, approvata nel 2012.
In Forza Italia, sono in molti ad esultare per il provvedimento del Tribunale. L’ex ministro,
Gianfranco Rotondi, chiede — come tanti altri del partito azzurro — di «cambiare
immediatamente la Severino». Mentre per Maria Stella Gelmini, «gli italiani che amano la
libertà oggi possono esultare per le sorti di Berlusconi».
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Del 15/04/2015, pag. 6
E Silvio si gioca la leadership “Nuovo partito
con le regionali”
Ma Salvini e Meloni lo sfidano
CARMELO LOPAPA
ROMA .
«La nuova Forza Italia nascerà dalle liste di queste regionali, sarà quella la prima
selezione, il vivaio del partito che verrà». Silvio Berlusconi è più che amareggiato, quasi
inferocito per le faide che stanno dilaniando tutto il centrodestra per colpa di «alcuni
irresponsabili ». Oggi conta di chiudere con la scelta del candidato in Toscana, poi si parte
con la compilazione delle liste che — spiegano dalla cerchia ristretta — sarà curata dal
capo in persona, assieme a Giovanni Toti (per la Liguria), Mariarosaria Rossi, Deborah
Bergamini e davvero pochi altri. E il rinnovamento, promette ai suoi, partirà proprio da lì,
dai volti giovani inseriti in squadra, in attesa del restyling già in cantiere per giugno.
Il fatto è che l’ex Cavaliere si gioca non solo una grossa partita interna, ma anche quella
per la sua leadership nella coalizione. Matteo Salvini la sua sfida l’ha ormai lanciata. «Se
Berlusconi è ancora leader del centrodestra lo decideranno gli elettori il 31 maggio, lo
decidono sempre gli elettori, tranne che per Renzi che decide per sé stesso. Io mi
accontento di triplicare i voti della Lega», ha mandato a dire il capo del Carroccio in
perenne campagna elettorale, ieri in visita a Terni. Più che un avvertimento, il suo: «Dopo
le elezioni cambierà tutto, su tutti i fronti».
Silvio Berlusconi incassa la scontata sentenza di estinzione della pena e dell’interdizione,
unica nota positiva di una giornata iniziata al centro di Cesano Boscone (da volontario) e
conclusa a Palazzo Grazioli, a Roma, dove rientra nel pomeriggio dopo due settimane. Fra
15 giorni gli sarà restituito il passaporto. Intanto, la prima uscita in un appuntamento
internazionale è in programma tuttavia in Italia, giovedì 23 a Milano per il bureau del Ppe
alla vigilia dell’inaugurazione dell’Expo. La Liguria, il Veneto, la Campania (e forse anche
la Puglia) saranno battute in campagna elettorale solo a maggio. Il leader forzista avrebbe
voluto presentarsi col partito compatto e con alleati meno riottosi. Ma tutto ormai è saltato.
Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), scaduto l’ultimatum di 24 ore, conferma che in Puglia non
sosterranno la “loro” Adriana Poli Bortone, scelta come propria candidata da Forza Italia.
Restano «per il momento» su Francesco Schittulli, l’aspirante governatore iniziale, quello
sul quale convergono Raffaele Fitto e l’Ncd di Alfano. «Non si può pensare che se
Berlusconi litiga con Fitto noi lo seguiamo — afferma la presidente di Fdi — e la Poli
Bortone non si presti a un’operazione strumentale, così rischia di arrivare terza». Sembra
lo abbia intimato alla loro ex dirigente anche al telefono, in una tempestosa chiamata
mattutina: «Adriana, ma te ne rendi conto o no che arrivi terza?» Io terza? Si inalbera la
candidata scelta da Forza Italia, su Twitter: «Spiace che abbia così poca fiducia in un
esponente dell’ufficio di presidenza del suo partito». Per poi rincarare: «Se la Meloni è
così brava da unire il centrodestra, in Puglia si candidi lei». Volano stracci, tra le due. La
leader di Fdi a Montecitorio mette in dubbio anche il sostegno a Giovanni Toti in Liguria
(«Un po’ estraneo alle dinamiche locali»), ma lì la trattativa in realtà è più avviata. Il
consigliere di Berlusconi, già in campagna elettorale, resta fiducioso perché «non c’è nulla
che ci divide». È la Puglia a restare un campo di battaglia, soprattutto dentro Forza Italia.
Ancora fino a ieri sembra che un tentativo di far rientrare in quella regione la pesante
fronda dei “fittiani” sia stato portato avanti dai due «ambasciatori » berlusconiani, Paolo
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Romani e Altero Matteoli, con loro colleghi al Senato. Ma la trattativa — avrebbero
verificato i due — è impraticabile. Anche perché la posizione ribadita da Raffaele Fitto ai
suoi non cambia: «Forza Italia e il centrodestra possono tornare uniti, certo, a condizione
che venga ritirata la Poli Bortone e che tutti sostengano Schittulli». Intanto l’ex governatore
affila le armi per la battaglia legale interna. Resta in riva al fiume l’altro grande dissidente,
Denis Verdini. Se nella “sua” Toscana sarà scelto un candidato non gradito, lui e i suoi
potrebbero votare in clamoroso dissenso con Fi sulle riforme, a cominciare dall’Italicum
alla Camera.
Del 15/04/2015, pag. 17
Pensioni, Palazzo Chigi frena Boeri “Per le
modifiche manca la copertura e non
riapriamo la partita con la Ue”
ROBERTO MANIA
«La proposta di Boeri per una maggiore flessibilità di uscita dal lavoro non è sbagliata ma
per ora non è fattibile perché mancano le coperture finanziarie». È così che una fonte
autorevole di Palazzo Chigi frena sull’idea del presidente dell’Inps di modificare la legge
Fornero e rendere più flessibile il pensionamento. Nulla di formale ma un’indicazione
piuttosto netta di quale sarà anche in vista della stesura della prossima legge di Stabilità la
linea del governo. D’altra parte il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, si è tenuto
costantemente alla larga dal tema socialmente esplosivo delle pensioni. Quando l’ha fatto
— ormai quasi un anno fa — l’ha fatto per sgombrare il campo dall’ipotesi (sostenuta
allora dall’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli) di un prelievo forzoso
sulle pensioni medie, intorno ai 2-3 mila euro al mese.
Certo, solo la settimana scorsa, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, nel corso di un
question time al Senato, ha detto che il dossier pensioni sarebbe stato riaperto in autunno.
Ma fin dall’inizio Renzi e Poletti hanno sostenuto, senza scontri, due linee distinte sulla
politica pensionistica e lo schema sembra destinato a ripetersi anche questa volta. A
prevalere è sempre stato il premier. È chiaro a tutti che la rigidità della riforma Fornero,
con la cancellazione dell’istituto delle pensioni di anzianità, e la fissazione di un’età per
l’accesso alla pensione di vecchiaia sempre più alta (ora siamo a 66 anni e sette mesi) ha
provocato uno sconquasso sociale: il fenomeno degli esodati che ha richiesto ben sei
provvedimenti di salvaguardia per un costo totale di 12 miliardi di euro sottratti ai potenziali
risparmi della Fornero; il sostanziale blocco del turn over nel mercato del lavoro con un
aumento della quota di occupati over 55 e l’impennata della disoccupazione giovanile oltre
il 40 per cento; il crescente fenomeno dei poveri di età compresa tra i 55 e i 65 anni che
una volta persa l’occupazione ed esauriti i previsti periodi con il sostegno al reddito con gli
ammortizzatori sociali (cassa integrazione e mobilità) non riescono a trovare, se non uno
su dieci, un altro lavoro e sono spesso ancora lontani dalla quiescenza. Queste sono le
ragioni di Poletti (e Boeri) a favore di un intervento. Di fronte alle quali, però, Palazzo Chigi
pone il problema della copertura finanziaria. Perché rendendo più flessibile l’uscita dal
lavoro si verificherebbe per il bilancio dello Stato un’impennata dei costi, con un
incremento del deficit che verrebbe compensato, solo nel tempo, grazie alle penalizzazioni
sugli assegni dei nuovi prepensionati. Dal punto di vista attuariale si presenterebbe come
un’operazione neutra, la spesa previdenziale rimarrebbe sotto controllo nei tempi medio28
lunghi, ma dal punto di vista delle regole contabili europee genererebbe nel breve periodo
un deficit che andrebbe coperto. A meno di non aprire una vertenza con Bruxelles.
«Richiederebbe molto tempo e questa discussione non è all’ordine del giorno», spiegano a
Palazzo Chigi. Nello schieramento con Boeri e Poletti ci sono, oltre che i sindacati, anche
tutte le forze politiche. Questa settimana la Commissione Lavoro della Camera riprenderà
l’esame delle proposte per una maggiore flessibilità in uscita. Alla base della discussione
c’è la proposta del presidente della Commissione Cesare Damiano (minoranza Pd): età
flessibile dai 62 ai 70 anni, 35 anni di contributi, penalizzazioni dell’importo pensionistico
del 2 per cento per ogni anno di distanza dai 66. Proposta molto costosa, già secondo il
precedente governo Letta. Per finanziarla servono, soprattutto all’inizio, diversi miliardi.
Replica di Damiano: «C’è una montagna di risorse dove attingere per introdurre criteri di
flessibilità in uscita per le pensioni». Risorse che, secondo il deputato pd, arrivano dal
blocco delle indicizzazioni dei trattamenti pensionistici, e dai significativi risparmi che
permette la Fornero fino al 2060. «Da questa montagna di risorse — ha domandato
Damiano — si può ricavare quello che serve per correggere le più macroscopiche
ingiustizie del sistema pensionistico senza mettere in discussione l’impianto e senza
allarmare l’Europa?». La risposta di Palazzo Chigi per ora è no.
Del 15/04/2015, pag. 10
LA GIORNATA
“Quella sera ero alla Diaz lo rifarei altre mille
volte” bufera sul poliziotto del G8
Su Facebook insulti a Giuliani. Alfano: interverremo con rigore Renzi:
chiarezza sul blitz. Le vittime: basta con l’impunità
MARCO PREVE
«Semplicemente impuniti» ha sentenziato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a
proposito dei poliziotti responsabili delle torture alla Diaz.
L’agente del reparto mobile di Roma Fabio Tortosa, è uno di quelli che c’erano alla Diaz,
ma che non ha fatto né visto nulla proprio come i suoi capi e colleghi, e quattordici anni
dopo sul suo profilo Facebook si lascia andare alle nostalgie e scrive: «Io sono uno degli
80 del VII nucleo. Io ero quella notte alla Diaz. Io ci rientrerei mille e mille volte».
E poi a seguire virili proclami sui servitori dello Stato incompresi, fregati ma tutto sommato
sempre pronti a rischiare la vita anche per chi li odia. Poche ore dopo il suo profilo è stato
sommerso da commenti, la maggior parte di sostenitori ma anche molti critici.
Il premier Renzi che ieri era a Genova ha dichiarato che «verrà fatta chiarezza» anche se
ha poi confermato la sua fiducia all’ex capo della polizia del G8 Gianni De Gennaro oggi
presidente di Finmeccanica. Una nota del Dipartimento della Ps ha annunciato
accertamenti ed eventuali provvedimenti disciplinari e il ministro dell’Interno Alfano parla di
«fatti gravi che verranno valutati con il dovuto rigore».
Tortosa nel 2001 era stato inizialmente indagato come tutti i poliziotti entrati nella Diaz e
poi archiviato perché l’omertà del corpo e l’assenza di numeri di riconoscimento avevano
garantito l’anonimato dei “torturatori”. Però viene fotografato all’uscita mentre scorta verso
il cellulare che lo porterà a Bozlaneto uno degli arrestati. Si chiama Moritz Von Unger e
oggi è un avvocato che guarda caso si occupa di diritti civili presso la Corte di Giustizia in
Lussemburgo. «Penso che Tortosa potrebbe anche essere uno di quelli che mi ha pestato
e oggi si permette di scrivere queste cose perché nessuno in questi anni gli ha mai detto
29
niente» commenta Lorenzo Guadagnucci, uno dei torturati della Diaz. «Spero che lui non
sia rappresentativo della categoria — continua — . Io ce l’ho con chi gli ha permesso in
questi anni di dire le stesse cose, con quelli, i capi della polizia e del ministero che hanno
scelto di non fare nulla. Con una legge sulla tortura che ha come unico fine quello di non
disturbare troppo». Nel suo post il poliziotto Tortosa insulta Carlo Giuliani («Spero che
sotto terra faccia schifo ai vermi») e la «verità processuale delineata da tale Zucca e dai
suoi sgherri». Enrico Zucca è il pm che ha ottenuto le condanne per l’inchiesta Diaz. «Il
veleno è in circolo — dice il magistrato — . Il ventre del corpo dice brutalmente cosa ha
detto la testa: la polizia si è difesa come ha potuto, ma per servire la democrazia. No, lo
stato democratico è la legge e la costituzione, non il governo sovrano. Nella scuola della
polizia si deve imparare la costituzione per prima, poi a mettere le manette al mafioso.
Non viceversa».
Del 15/04/2015, pag. 12
“Alt al proliferare di armi” Renzi prepara la
stretta più controlli sui proiettili e anche test
psicologici
Protesta dei produttori: in Italia meno pistole che ovunque Oggi a
Milano i funerali di Stato delle vittime in tribunale
ALBERTO CUSTODERO
«Quello che è accaduto al tribunale di Milano ci chiama ad un impegno contro la
proliferazione delle armi». Lo ha detto, ieri, Matteo Renzi, intervenuto all’inaugurazione
dell’anno accademico della scuola per 007. All’appello del presidente del Consiglio sensibilizzato dalla madre dell’avvocato Appiani che in un’intervista su Repubblica di
domenica ha chiesto di cambiare le leggi - hanno risposto alcuni parlamentari del Pd. Il
capogruppo dem in commissione Affari costituzionale della Camera, Emanuele Fiano, ha
annunciato che entro qualche giorno sarà presentato un disegno di legge che prenderà in
considerazione anche l’introduzione di test psicologici al fine di accertare eventuali
patologie incompatibili con l’uso di armi. Le senatrici del Pd Manuela Granaiola e Silvana
Amati hanno invece ricordato come da tempo giaccia a Palazzo Madama «un loro disegno
di legge che limita fortemente la concessione del porto e della detenzione di armi, anche
per uso sportivo». «Obiettivo principale del ddl — sottolineano le senatrici — è quello di
evitare il ripetersi di incidenti, anche mortali, dovuti alla non corretta custodia e alla
mancanza di regole per il trasporto e l’impiego delle armi anche possedute
legittimamente». Il consiglio dei ministri, intanto, ha deliberato le esequie di Stato per due
delle tre vittime di Claudio Giardiello, il giudice Fernando Ciampi e l’avvocato Lorenzo
Claris Appiani, che si terranno nel Duomo di Milano oggi alle 16. La vedova di Giorgio
Erba, invece, ha rifiutato i funerali pubblici per il marito, ritenendo così di rispondere al suo
desiderio di essere ricordato dagli amici stamattina nel duomo di Monza. Ieri il premier s’è
recato alla camera ardente allestita nel Palazzo di Giustizia.
Ecco i punti su cui sta lavorando il governo che, recentemente, ha già proposto alcune
misure di orientamento restrittivo in materia di armi anche in relazione alle minacce legate
al terrorismo. In sede di conversione del decreto legge numero 7, ad esempio, è stato
proposta dal governo e approvata dal Parlamento una norma che impone la tracciabilità di
tutte le armi e munizioni, con la previsione di un obbligo di comunicazione agli uffici di
30
Polizia. Nello stesso decreto, c’è anche un’altra disposizione che introduce l’obbligo di
denuncia per i caricatori in grado di contenere un numero superiore a 5 colpi per le armi
lunghe e un numero superiore a 15 colpi per le armi corte. La stessa norma prevede pure
l’esclusione dall’attività venatoria di armi simil-militari, ovvero armi da fuoco
semiautomatiche somiglianti a un’arma da fuoco automatica. Non appena sarà approvata
la legge di conversione, non sarà più possibile vendere armi in tutto simili ad armi da
guerra, con il potenziale rischio di modifiche del meccanismo di sparo per la reintroduzione della raffica, utilizzate per la caccia. Per i possessori legittimi di armi, le
norme che disciplinano il porto d’armi già consentono ai prefetti valutazioni ampiamente
discrezionali sulla concessione o il diniego delle licenze. Più delicato, in quanto chiama in
caso le restrizioni della legge sulla privacy, un intervento su in merito all’accertamento
medico psicologico, al fine di accertare la presenza di patologie che potrebbero influire
sull’uso delle armi. C’è chi pensa di creare un data base per incrociare i dati sulle diagnosi
di patologie mentali con i possessori di licenze di armi. In attesa della nuova normativa
voluta da Renzi, vale attualmente il decreto legislativo 121 del 2013 che impone, per i
possessori di armi che non lo abbiano fatto negli ultimi 6 anni, l’obbligo di portare un
certificato medico all’autorità di Pubblica Sicurezza entro il prossimo 4 maggio. La
dichiarazione del capo di Palazzo Chigi ha sollevato una polemica con i produttori di armi
che temono, con l’introduzione di una normativa restrittiva, una contrazione del mercato.
«L’Italia — sostiene l’Anpam, l’Associazione produttori armi — è il primo produttore di armi
sportive e civili in Europa ma, grazie ad un export del 90%, è anche il Paese dove ci sono
meno armi in circolazione: 11,9 ogni 100 abitanti mentre in Finlandia sono 45,3, Francia
31,2, Svezia 31,6 e Germania 30,3». L’Anpam, tuttavia, declina ogni responsabilità della
categoria sui fatti di Milano. E punta l’indice di quanto accaduto a Milano «sulla grave
carenza da parte di chi doveva controllare l’uso e la detenzione delle armi di Giardiello ».
«Per la sua storia personale — aggiunge l’Associazione — e a causa della condanna per
un reato contro la persona, bisognava impedirgli di detenere armi. Per farlo non serviva
l’aggiunta nemmeno di una riga ai codici, sarebbe bastato un controllo effettivo e far
rispettare la legge da parte delle istituzioni competenti».
Del 15/04/2015, pag. 23
L’allarme
Dal Padiglione Italia, lievitato da 63 milioni a 92, alla “Piastra”, passata
da 165 a 224. Le strutture sono ridimensionate, ma le aziende chiedono
più soldi
Progetti tagliati e opere più care di 180 milioni
Expo presenta il conto
ALESSIA GALLIONE
La storia tormentata di Padiglione Italia è lì, in quel palazzo di cinque piani che, con le altre
strutture che lo accompagnano, sta provando a scrollarsi di dosso le impalcature dei
cantieri per l’apertura del Primo maggio. Una strada in salita scolpita anche nel prezzo che
verrà pagato per costruirlo: 92 milioni, quasi 30 in più (coperti da sponsor, assicura il
commissario Giuseppe Sala) rispetto ai 63 iniziali. Ma non ci sono soltanto i costi impazziti
dello spazio simbolo dell’Italia a Expo. È stata tutta l’Esposizione a dover superare gli
ostacoli, a recuperare i ritardi di un avvio affannoso, i contraccolpi delle risse della politica
31
e delle inchieste. Alla fine, sono arrivate le varianti, il carico delle riverse - come si
chiamano tecnicamente le contestazione delle aziende che pretendono soldi extra - gli
operai e i mezzi necessari per accelerare i lavori. Ed è adesso che viene presentato il
conto. Un conto ancora aperto e non definito perché sono ancora aperte le quattro grosse
partite che corrispondono agli appalti più complessi che dovranno passare al vaglio del
presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone e dell’Avvocatura dello Stato. Già
ora, però, considerando anche i lavori aggiuntivi, si potrebbe arrivare a quasi 180 milioni in
più rispetto alle basi d’asta iniziali. E l’escalation potrebbe continuare con l’incognita
maggiore: quanto costerà la cosiddetta piastra, l’ossatura di tutto il sito.
È il fronte più delicato: gli importi dei lavori che crescono annullano gli sconti di gara e
vanno tenuti sotto controllo. Perché, ha ribadito anche Cantone, le richieste di pagamenti
presentate da chi ha vinto gli appalti «sono molto, molto più alte» rispetto al principio. Sala
continua a ripeterlo: «Expo in ogni caso costerà meno del budget iniziale». Si rimarrà
comunque sotto il miliardo 200 milioni di fondi pubblici (già tagliato di 300 milioni), ma il
pareggio sarà possibile perché alcuni progetti come le Vie d’acqua erano già state ridotte, i
disegni di diversi spazi semplificati, si era risparmiato su altri (18 milioni in meno) come il
padiglione Arte e cibo, ad esempio, realizzato alla Triennale e non costruito ex novo sul
sito. Ma partiamo dai primi lavori aggiudicati nel 2011 e terminati solo in questi giorni dopo
28 proroghe per «forza maggiore» e 302 per varianti riconosciute. Si chiamano “rimozione
delle interferenze” e sono le opere per preparare l’area all’arrivo dei padiglioni. A vincere la
commessa è stato il colosso delle cooperative Cmc con un ribasso record: 42,8%, da 92,7
milioni a 58,5. Nel tempo, però, l’impresa ha ottenuto due diverse “aggiunte” salendo a 96
milioni. Adesso il terzo tempo: ci sarebbe un ulteriore accordo per chiudere la partita
legale (l’impresa aveva chiesto 140 milioni) e concedere all’incirca altri 40 milioni. Saranno
Avvocatura e Anac a esprimersi, ma il rischio sarebbe quello: più che raddoppiare il
prezzo, salendo a 136 milioni totali, 77,5 in più. Molti appalti, anche minori, sono gravati da
varianti per lavori aggiuntivi o cambi di marcia: dalle due passerelle di collegamento alla
riqualificazione della Darsena. Ma i problemi sono altri. A cominciare dalla piastra: è
l’appalto fondamentale (i lavori sono in dirittura d’arrivo) che unisce anche tutti i guai di
Expo, dall’attenzione della magistratura all’esigenza di fare in fretta. Se lo è aggiudicato,
tra le polemiche per il ribasso (quasi 100 milioni in meno) la Mantovani, una delle aziende
del Mose. Si è partiti da 165 milioni e in un primo momento si è arrivati a 200: 34,5 milioni
che in realtà sono «lavori complementari». Non sono veri e propri extracosti, ma Expo per
esigenze di tempo li ha affidati direttamente a Mantovani senza fare un’altra gara e per
l’impresa l’importo è comunque salito. E salirà ancora. Il cda di Expo ha appena spedito
all’Anac una proposta di variante: altri 25 milioni. I costruttori però nel tempo avrebbero
presentato riserve per l’astronomico importo di 200 milioni. Non verranno mai riconosciute
interamente, ma una transazione andrà chiusa. Sala ha sempre assicurato che non si
supereranno i 20 milioni extra. Per altri, l’importo potrebbe essere maggiore. A quanto ci si
fermerà? È questo il dubbio: 245? 260? Bisognerà chiarirlo, ma la base originaria di 272
milioni è sempre più vicina. Anche la pratica di Palazzo Italia dovrà passare l’esame. La
maggior parte dei 30 milioni in più è rappresentata dai fondi per Italiana costruzioni,
impresa “sotto sorveglianza speciale”: 24 milioni di cui 16 per cambi di progetto e 8 per lo
sforzo di operai e mezzi. Tutta da sciogliere, invece, la matassa ancora più ingarbugliata
delle Vie d’acqua Sud. L’azienda (la Maltauro) è stata commissariata e, ragionano in Expo,
da un lato sarà più semplice chiudere. Quest’opera verrà realizzata in minima parte.
Doveva costare 42,5 milioni, ma i lavori effettivi potrebbero aggirarsi attorno ai 10 milioni.
Anche qui, però, ci sono 35 milioni di richieste aggiuntive dell’impresa: non verranno mai
concessi, giurano tutti i tecnici. Bisognerà trovare un equilibrio, magari pagando a
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Maltauro solo l’opera realmente fatta e con il “risparmio” riconoscere qualcosa per la
rinuncia al resto dell’appalto. Un altro capitolo da chiudere.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 15/04/2015, pag. 14
Mafia, Strasburgo su Contrada “Condannarlo
fu un errore all’epoca quel reato non c’era”
La Corte europea dei diritti umani dà ragione all’ex numero tre del Sisde che ha già
scontato dieci anni per concorso esterno. Scoppia la polemica
PALERMO
È stato il primo grande processo antimafia dopo le stragi Falcone e Borsellino. Il processo
a Bruno Contrada, l’ex capo della squadra mobile di Palermo diventato negli anni Novanta
il numero tre del servizio segreto civile. Ora, è un processo sotto accusa: la Corte europea
per i diritti dell’uomo censura l’Italia, sostiene che il super-poliziotto di Palermo non doveva
essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. I giudici di Strasburgo
ritengono che «il reato non era sufficientemente chiaro e prevedibile» negli anni in cui
Contrada avrebbe commesso i fatti che gli sono stati contestati. Ovvero, la stagione delle
complicità fra i vertici di Cosa nostra e uomini delle istituzioni, 1979-1988. Contrada ha
finito di scontare nel 2012 una condanna a dieci anni, ribadita in tutti i gradi di giudizio,
tranne una volta. Ma adesso, la Corte europea rileva la violazione dell’articolo 7 della
convenzione per i diritti dell’uomo, secondo cui non ci può essere condanna senza che il
reato sia chiaramente identificato dai codici di giustizia. L’Italia è stata anche condannata a
pagare a Contrada un risarcimento di 10mila euro, per «danni morali».
Decisione all’unanimità dei sette giudici, tra cui l’italiano Guido Raimondi. Così, il reato di
concorso esterno, non previsto dal codice penale ma frutto di un’elaborazione
giurisprudenziale, è finito sotto accusa. E la decisione di Strasburgo infiamma il dibattito
politico. Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia, invoca addirittura la
scarcerazione di Marcello Dell’Utri, anche lui condannato per concorso esterno in
associazione mafiosa. Il senatore Carlo Giovanardi chiede che venga fatto un disegno di
legge per definire il concorso esterno. Ma la corte di Strasburgo non ha messo in dubbio il
reato, ricorda Laura Garavini, deputata Pd in commissione Antimafia: «L’impianto
dell’accusa resta intatto». Nel dibattito interviene anche il procuratore di Palermo Franco
Lo Voi: «Fa riflettere che a Contrada sia stato riconosciuto, e pure in quantità inferiore
rispetto alla sua richiesta, soltanto il risarcimento dei danni morali, mentre è stata rigettata
la richiesta di risarcimento dei danni materiali legati alla sua vicenda giudiziaria».
Il governo italiano ha tre mesi per impugnare la sentenza. «Ma Strasburgo ha già emesso
due sentenze a favore di Contrada — insiste la professoressa Andreana Esposito, che ha
patrocinato il ricorso con gli avvocati Enrico Tagle e Giuseppe Lipera — la prima
riguardava le condizioni in cui si è svolta la detenzione». Contrada punta alla revisione
della sentenza di condanna. E il figlio del suo avvocato storico, Basilio Milio, oggi difensore
del generale Mario Mori, lancia un appello a Strasburgo: «Anche il reato di trattativa non
esiste». È l’ultima polemica nell’antimafia.
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Del 15/04/2015, pag. 15
Rapido 904, Riina assolto “Non fu lui il
mandante della strage di Natale”
Il 23 dicembre 1984 sul treno sventrato dalla bomba morirono 16
persone L’accusa aveva chiesto l’ergastolo. L’ira dei sopravvissuti:
“Presi in giro”
FRANCA SELVATICI
Salvatore Riina, il sanguinario capo dei capi di Cosa Nostra, il boss condannato a oltre 15
ergastoli e accusato di aver inaugurato la stagione del terrorismo mafioso scatenando uno
spaventoso attacco al cuore dello Stato con le autobombe del ‘92 e del ‘93, è stato assolto
ieri dall’accusa di essere stato il «mandante, determinatore e istigatore » della strage sul
rapido 904 Napoli- Milano. Il 23 dicembre 1984, mentre percorreva la Grande Galleria
dell’Appennino, il treno con 600 passeggeri a bordo fu squarciato da un ordigno.
Nell’inferno di fuoco, fumo e lamiere persero la vita 16 persone, fra cui tre bambini; 267
rimasero ferite. Ieri la Corte di assise di Firenze ha ritenuto insufficienti le prove raccolte
contro Riina dalla procura di Napoli, che nel 2009 riaprì le indagini sulla strage, e dalla
procura di Firenze, che le ha ereditate per competenza territoriale.
Riina è stato assolto con formula dubitativa «per non aver commesso il fatto ». «Mi sento
presa in giro», ha commentato sconsolata la signora Loretta Pappagallo, che rimase ferita
nell’attentato e per quasi 30 anni non ne ha voluto più parlare, ma poi si è decisa a
costituirsi parte civile contro Riina e ad assistere al processo fiorentino.
Che l’attentato al rapido 904 fosse una strage di mafia lo aveva già stabilito la sentenza,
divenuta definitiva nel ‘92, con cui venne condannato all’ergastolo Pippo Calò, il cassiere
di Cosa Nostra, capo-mandamento di Porta Nuova, vicinissimo a Riina. Pochi mesi dopo
la strage Calò fu arrestato a Roma nell’ambito delle indagini per l’omicidio di Domenico
Balducci e gli furono sequestrate apparecchiature elettroniche per il comando a distanza e
del Semtex H, l’esplosivo di fabbricazione cecoslovacca usato per fabbricare l’ordigno
esploso sul treno. Calò si è sempre dichiarato «innocentissimo» ma le prove nei suoi
confronti sono state ritenute schiaccianti. I pentiti, concordi, sostengono che mai avrebbe
potuto compiere una azione tanto devastante senza l’autorizzazione di Riina, che — dopo
la guerra di mafia dell’81-’82, anzi dopo lo sterminio, l’ecatombe di mafia (come l’ha
definita l’avvocato di parte civile Danilo Ammannato ricordando che ci furono mille morti,
tutti fra i “perdenti”) — «in Cosa Nostra era tutto». Per il pm Angela Pietroiusti, che aveva
chiesto l’ergastolo, l’attentato fu il primo gravissimo episodio della «strategia terroristica e
stragista di Cosa Nostra, con un unico filo conduttore, un’unica mente ispiratrice, la
corrente corleonese», responsabile di «un attacco frontale al cuore dello Stato, con il
metodo di creare indiscriminatamente pericolo e gravissimi danni all’incolumità delle
persone e al patrimonio dello Stato». Strategia, secondo l’accusa, avviata in risposta alle
rivelazioni di Tommaso Buscetta, che stava causando “danni incalcolabili”
all’organizzazione, e ai 366 mandati di cattura emessi dal giudice Giovanni Falcone il 29
settembre ‘85, e ripresa al termine del maxiprocesso, che la mafia non era riuscita ad
aggiustare, con gli attentati a Falcone e Borsellino nel 1992 e le stragi di Roma, Firenze e
Milano del 1993. Il pm e l’avvocato Ammannato hanno sottolineato, fra gli elementi di
prova contro Riina, le dichiarazioni di Giovanni Brusca circa una grossa partita di armi ed
esplosivi spartita due anni prima della strage, su ordine di Riina, fra alcuni mandamenti, fra
cui quello di Porta Nuova, nonché il ritrovamento nel ‘96 di esplosivi e mine identiche a
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quelle sequestrate 11 anni prima a Calò e la preoccupazione di Calò di far sparire quel
materiale. Ma l’avvocato di Riina, Luca Cianferoni — che definisce il processo sulla
trattativa Stato-mafia «una boiata pazzesca » e il boss dei boss «il parafulmine di tutti i
mali d’Italia» e che ne ha già ottenuto l’assoluzione per gli omicidi De Mauro e Scopelliti e
per il fallito attentato a Totuccio Contorno — sottolinea che nessun collaboratore di
giustizia, neppure Brusca, ha mai sentito parlare in Cosa Nostra dell’attentato al rapido
904, e nessuno ha accusato Riina. Un argomento che forse ha fatto breccia, come la
lettura alternativa della richiesta di Calò a Riina, tramite Brusca, di far sparire mine ed
esplosivo. Riina disse che non c’era motivo di preoccuparsi. Forse perché — ha suggerito
il legale — era convinto di poter aggiustare il processo di Calò per l’attentato al treno.
Cianferoni sostiene che la verità sulla strage la conoscono i servizi segreti. E conclude:
«Bisogna aprire gli armadi con gli scheletri».
Del 15/04/2015, pag. 1-23
Woodcock perde l’indagine sulla coop
Il Tribunale di Napoli conferma le accuse. Ma trasferisce gli atti
all’Antimafia di Bologna
di Fulvio Bufi
L’inchiesta sugli appalti truccati alla Cpl Concordia lascia Napoli e approda a Bologna, per
competenza territoriale. Lo ha deciso il Tribunale del riesame del capoluogo campano.
Confermati gli arresti in carcere per i due manager Francesco Simone e Maurizio Rinaldi.
Restano le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, corruzione
internazionale e riciclaggio.
Con una sentenza che in procura ha colto tutti di sorpresa, il tribunale del Riesame ha
disposto ieri sera il trasferimento alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna degli atti
riguardanti l’inchiesta sulla Cpl Concordia, la cooperativa modenese vincitrice dell’appalto
per la metanizzazione dei principali comuni di Ischia.
Il provvedimento è stato emesso al termine dell’udienza relativa al ricorso di due degli
undici indagati, il responsabile delle relazioni istituzionali della Cpl, Francesco Simone, e il
responsabile di area Maurizio Rinaldi. Per entrambi il giudice ha respinto le istanze,
confermando le ordinanze di custodia cautelare — emesse dal gip Amelia Primavera su
richiesta dei pubblici ministeri Woodcock, Carrano e Loreto — in cui sono contestati i reati
di associazione per delinquere, corruzione, corruzione internazionale, riciclaggio e false
fatturazioni. Contestualmente, però, il tribunale ha disposto il trasferimento degli atti a
Bologna. Perché il giudice abbia ritenuto che sia della procura antimafia emiliana la
competenza territoriale su una inchiesta imperniata intorno a un appalto assegnato dal
comune di Ischia, lo si capirà quando oltre al dispositivo saranno depositate le motivazioni
della sentenza. Ed è questo che aspettano in procura, dove oltre alla sorpresa c’è anche
la certezza di aver operato correttamente.
Per ora si può solo ipotizzare che il giudice abbia ritenuto che la «sede» dei reati
contestati agli indagati non sia Ischia ma Modena, dove la Cpl Concordia ha i suoi uffici
centrali. E poiché tra le accuse c’è anche il riciclaggio, che è sempre di competenza dei
magistrati antimafia, ecco l’assegnazione della competenza territoriale a Bologna, dove, a
differenza di Modena, c’è la Dda. Resta da chiedersi che succederà a partire da oggi per
le altre udienze già fissate davanti al Riesame di Napoli, dove stamattina dovrebbe
comparire Nicola Verrini, il responsabile commerciale per l’area Tirreno della Cpl. Come si
regolerà il giudice che dovrà esaminarne il ricorso? La sentenza di ieri non comporta
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automaticamente che tutti gli atti vadano a Bologna, ma l’eventualità che si prospetti
questo scenario non si può escludere. E non si può escludere nemmeno che, alla luce
della sentenza, i collegi difensivi adottino nuove strategie e sollevino da subito la
questione della competenza territoriale. Che l’inchiesta sulla Cpl fosse destinata a
coinvolgere altre procure era prevedibile. Perché, soprattutto se la disponibilità a
collaborare espressa da Simone e Verrini sarà confermata con i fatti, è più che probabile
che verranno alla luce presunti illeciti avvenuti ben lontano da Napoli e dalla Campania,
visto che la Concordia opera su tutto il territorio nazionale. In quel caso sarebbe (o
sarebbe stata), la stessa procura di Napoli a trasmettere gli atti agli uffici competenti. Ma
non era previsto — né prevedibile — che tutto avvenisse così presto. C’è però anche
un’altra eventualità, pur in presenza della sentenza di ieri: e cioè che sia la magistratura di
Bologna a dichiararsi non competente. A quel punto a dirimere la questione
interverrebbero le sezioni unite della Cassazione.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 15/04/2015, pag. 21
“Morti in 400”. La Lega contro il governo
Tragedia in mare, il racconto dei sopravvissuti. Scafisti libici sparano
per riprendersi l’imbarcazione Regioni in rivolta sull’accoglienza.
Salvini: “Occupiamo gli alberghi”. Maroni e Zaia: da noi non c’è posto
FRANCESCO VIVIANO
LAMPEDUSA
Erano in 550, ma vivi, a Reggio Calabria, ne sono arrivati solo 150. Gli altri 400 sono
morti, annegati tra la Libia e la Sicilia, e tra loro tante donne e bambini. È la strage
raccontata dai superstiti soccorsi dalla nave della Marina Militare italiana “Orione”, sbarcati
ieri nel porto di Reggio Calabria. Il Mediterraneo con l’estate alle porte è già un inferno. I
migranti arrivano a migliaia (più di 8 mila negli ultimi tre giorni), le sale operative di Marina
militare e Capitanerie di Porto non hanno tregua. Il ministero dell’Interno chiede alle
prefetture di tutta Italia di trovare posti nuovi per ospitare questa nazione senza confini che
si sposta dalle coste nord africane verso l’Europa, il centro di accoglienza dell’isola di
Lampedusa che può accogliere 250 persone sta scoppiando, con i suoi 1.400 disperati
arrivati nelle ultime ore. Ma la richiesta scatena la polemica della Lega Nord. Matteo
Salvini invita gli amministratori «a dire no, con ogni mezzo, a ogni nuovo arrivo, siamo
pronti a occupare ogni albergo, ostello, scuola o caserma destinati a presunti profughi.
Alfano fa l’affittacamere per i clandestini». Gli fanno eco i governatori di Veneto e
Lombardia. «Leggo che il Veneto dovrebbe mettere a disposizione altri 700 posti —
afferma Luca Zaia — e rispondo che i posti a disposizione sono zero». Per Roberto
Maroni, «il governo deve convocare le Regioni». Renzi replica e attacca «l’industria della
superficialità e del pressapochismo che parla di immigrazione per vincere le elezioni». Il
commissario Ue Avramopoulos, atteso in Sicilia nei prossimi giorni, dichiara: «L’Italia è
sotto pressione, dobbiamo sostenerla». Save the children denuncia: «Sempre più minori
rischiano di morire nel canale di Sicilia». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella
ha convocato per il 21 aprile il Consiglio Supremo di Difesa, anche per affrontare il tema
sull’impennata dei flussi migratori. I trafficanti di esseri umani non esitano a sparare colpi
di mitragliatrice per recuperare i barconi appena soccorsi dalle nostre navi e riportarli in
Libia, per riempirli nuovamente di uomini, donne, bambini. Come è accaduto l’altro ieri,
subito dopo che il rimorchiatore italiano “Asso 21” che aveva appena soccorso oltre 250
migranti a bordo di un barcone che stava per affondare, è stato preso di mira da un
barchino di trafficanti, armati di mitragliatrici, che hanno sparato diverse raffiche per
recuperare il barcone vuoto. Sono stati momenti carichi di paura. Il rimorchiatore italiano
“Asso 21” che era stato inviato sul posto dalla centrale operativa della Guardia Costiera
Italiana coordinata dall’ammiraglio Giovanni Pettorino, aveva appena recuperato 250
persone ed era stata affiancato per supporto dalla motovedetta “Tyr” della Guardia
Costiera islandese (che fa parte dell’Operazione Triton) che aveva a bordo già 350
naufraghi. A quel punto sono cominciati gli spari. Perché quel barcone, che in tempi
normali vale pochissimo, in questo momento vale tanto oro quanto pesa: i trafficanti libici
ed egiziani hanno ormai pochissimi mezzi per continuare il loro business sulla pelle dei
disperati. La motovedetta islandese non ha risposto al fuoco anche per evitare di mettere
a repentaglio la vita di quelle centinaia di migranti, e tra questi tante donne e bambini, che
avevano appena soccorso, molti dei quali erano in acqua e rischiavano di annegare. E
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mentre era in corso questa ennesima emergenza, da un’altra parte del Mediterraneo,
vicino alle coste ragusane, sbarcavano altri sopravvissuti soccorsi a bordo di un
gommone. Quello che hanno raccontato è agghiacciante: un loro compagno di viaggio,
morto durante il viaggio, è stato buttato in mare dallo scafista e sbranato dagli squali
appena finito in mare. Lo scafista poi è stato arrestato dagli uomini della squadra mobile di
Ragusa.
Del 15/04/2015, pag. 3
«400 migranti morti in un naufragio»
Immigrazione. La testimonianza dei sopravvissuti. La Lega minaccia in
rivolta: «Basta migranti»
Carlo Lania
S la notizia dovesse essere confermata sarebbe uno dei più gravi naufragi mai avvenuti
nel Mediterraneo. 400 migranti, tra i quali moltissimi giovani, sarebbero morti 24 ore dopo
essere partiti dalla Libia e dopo che uno dei due gommone sui quali si trovavano è affondato. A raccontarlo ai volontari di Save the Children sono stati ieri compagni di viaggio
sopravvissuti alla tragedia, 150 migranti sbarcati a Reggio Calabria dalla nave Orione
insieme ad altre centinaia di profughi. Il racconto, sul quale si stanno cercando ulteriori
conferme, testimonia ancora una volta le drammatiche condizioni di viaggio in cui migliaia
di uomini, donne e bambini sono costrette ogni giorno ad attraversare il canale di Sicilia.
Sì perché comunque non saranno purtroppo la tragedie come quella di ieri a fermarli,
spinti come sono dalla necessità di fuggire dalla guerra cercando salvezza in Europa.
I dati forniti dalla Guardia costiera parlano di 8.480 migranti tratti in salvo negli ultimi quattro giorni, 2.851 solo lunedì. E accanto ai numeri non mancano purtroppo neanche testimonianze terribili su quanto accade durante le traversate. Come quelle fatto da altri
migranti, sbarcati nei giorni scorsi a Pozzallo, che hanno raccontato di una ro compagno di
viaggio morto il cui corpo, gettato in mare, sarebbe stato mangiato da un branco di squali
che seguiva la loro imbarcazione. Intanto sull’isola di Lampedusa è di nuovo emergenza.
Delle migliaia di migranti arrivati in questi giorni, molti sono infatti finiti sull’isola siciliana,
mandando in tilt il centro d’accoglienza pieno fino all’inverosimile: 1400 migranti — tra
i quali figurerebbero almeno 4 donne incinta e una quarantina di bambini, su una disponibilità di appena 250 posti. Nel tentativo di alleggerire la pressione, ieri 300 tra uomini,
donne e bambini sono stati trasferiti a Porto Empedocle con un’imbarcazione della Guardia di finanza, ma la situazione sull’isola resta difficile.
Di fronte a questo susseguirsi di tragedie ed emergenze, la Lega minaccia la rivolta contro
il piano messo a punto dal Viminale per la distribuzione dei profughi tra le varie regioni,
con Matteo Salini che è arrivato a minacciare l’occupazione di tutte le strutture che potrebbero ospitare i migranti. «Alfano e Renzi cercano altri 6.500 posti letto per gi immigrati»,
ha detto il leader del Carroccio. «Chiedo ai governatori, ai sindaci, agli assessori e ai consiglieri della Lega di dire no con ogni mezzo a ogni nuovo arrivo». La circolare firmata dal
prefetto Mario Morcone, direttore del Dipartimento immigrazione, prevede 700 posti a testa
per Lombardia, Piemonte, campania Veneto, Toscana ed Emilia, 250 per il Lazio e marche, 300 per la Puglia e 1500 per il resto d’Italia. «Più di un terzo degli oltre 80 mila
migranti assistiti dal Viminale sono ospitai in due regioni, Sicilia e lazio rispettivamente con
il 22% e il 12% del totale» ha fatto sapere ieri il Viminale in risposta alle proteste leghiste.
Decisamente inferiori le percentuali delle regioni del nord: 9% del totale in Lombardia,
addirittura il 4% in Veneto, contro l’8% della Puglia, il 7% di Calabria e Campania e il 6%
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dell’Emilia. Ma non bastano certo i numeri per far ragionare i leghisti. «Ci opporremo con
la forza all’arrivo di ogni singolo nuovo immigrato sul nostri territorio», ha promesso il
deputato piemontese Stefano Allasia., mentre il governatore del Veneto Luca Zaia, in
piebna campagna elettorale, parla di «un’operazione di sostanziale fiancheggiamento dei
trafficanti di uomini» da parte del governo. A Salvini e ai leghisti ha risposto Laura Boldrini:
«Trovo terrificante che ci sia chi specula sulle tragedie dell’immigrazione», ha detto la presidente della Camera, che ha anche definito «una richiesta assolutamente sensata» quella
fatta alle Regioni di valutare la disponibilità di accoglienza.
Del 15/04/2015, pag. 3
Le Regioni: stop ai migranti “Non reggiamo
un urto così”
No da Veneto e Lombardia. Il Piemonte apre “ma non c’è posto”
Massimo Numa
La prima ondata sarà di 6. 500 centro-africani, nel breve periodo ne sono attesi almeno
10mila. Poi, per l’immediato futuro, ormai si fanno le più fosche previsioni. Le cifre che
circolano sono spaventose: in Libia ci sarebbero tra cinquecentomila e un milione gli
uomini, le donne e i bambini in fuga da guerre, scontri etnico-religiosi e da varie
emergenze sanitarie ed economiche, pronti a partire per le coste italiane.
Al Piemonte sono stati destinati, per ora, 700 profughi e 300 in Liguria, nel 2014 sono stati
7 mila, di cui 2 mila 500 a Torino, precisa Monica Cerutti, assessore regionale
all’immigrazione. La collega ligure Lorena Rambaudi, che è anche coordinatrice della
commissione politiche sociali della Conferenza delle Regioni è sulla stessa linea: «Sarà
fatto il possibile, anche se gestiamo già 700 migranti, nelle ultime gare d’appalto abbiamo
fatto fatica a trovare associazioni ancora disponibili ad accogliere altri profughi. Potrebbero
intervenire le Prefetture, magari dichiarando lo stato d’emergenza».
Zaia: «Zero posti»
Luca Zaia, candidato alle prossime regionali, è deciso: «Basta a un’operazione di
sostanziale fiancheggiamento dei trafficanti di uomini e delle loro reti criminali; basta ai
morti gettati in pasto ai pesci; basta all’ipocrisia di un’Europa solidale solo a parole ma
granitica nel negare la disponibilità a farsi carico per quota parte dei migranti».
Poi l’attacco ai palazzi romani: «Basta ai pasticci del governo italiano, incapace di
prevedere prima e di affrontare ora l’emergenza che ha contribuito a creare. Leggo che il
Veneto dovrebbe mettere a disposizione altri 700 posti e che il Viminale non esclude
soluzioni drastiche e rispondo che i posti a disposizione sono zero». Critico Bobo Maroni:
«In questi casi il governo per fare una cosa seria, deve convocare le Regioni, perché ci
troviamo a dover ricevere clandestini che vengono messi dalle prefetture in giro, senza
essere coinvolti e costringendo i sindaci a fare quello che non vogliono». L’assessore
lombardo Bordonali (leghista) invita i prefetti a non rispettare gli ordini del Viminale. E
Matteo Salvini: «Siamo pronti ad occupare qualunque albergo, ostello, scuola o caserma
destinato ai profughi».
La Cri: «È un dramma»
Francesca Basile, della Croce Rossa, è la coordinatrice dell’accoglienza nel compound di
Settimo Torinese, il più importante del Piemonte, palazzine, tende, ambulatori, cucine,
uffici con interpreti e altri servizi, come i corsi di formazione e di lingua italiana. «E’ un
momento difficile - spiega - intanto perchè gli sbarchi, a differenza del passato, sono
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avvenuti anche in inverno. Noi non ci siamo mai fermati, Torino ha già accolto migliaia di
profughi, in transito e anche oggetto del programma Sprar (sistema di protezione
richiedenti asilo e rifugiati, ndr) e le strutture saranno esaurite per mesi. Tanti tra i ragazzi
sbarcati hanno bisogno di cure mediche per ferite da tortura o da arma da fuoco, il
problema vero è come agire in prospettiva». Rispetto all’anno scorso, in Piemonte, c’è un
aumento pari al 25 per cento in più di arrivi, denuncia l’opposizione, Lega Nord e Fratelli
d’Italia.
Chi propone i campi
Comunità-alloggio, ex alberghi, il campo Cri, strutture religiose che oggi garantiscono la
gestione ordinaria, saranno in grado di sopportare ulteriori arrivi? Tra chi si occupa ogni
giorno di questa emergenza, si fa strada l’idea di promuovere l’istituzione di grandi campi
profughi anche nel Nord Ovest: «Non c’è altra soluzione - spiega un operatore,
consapevole di affrontare un tema scabroso -, vanno create strutture in grado di ospitare
migliaia di persone, di dare loro tutta l’assistenza necessaria e prevista dai protocolli
internazionali».
Insomma, un Cie numero due? «Di certo no. Loro, i rifugiati, sono liberi di fare, più o
meno, cosa vogliono. Non possono essere trattenuti in stato di semi-detenzione. Ma
disperderli, come fatto sinora, in alloggi, parrochie e altro, vuol dire perdere ogni tipo di
controllo, vuol dire negare loro una speranza di integrazione. E’ un modello che può andar
bene solo con numeri ridotti».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 15/04/2015, pag. 1-15
Grandi opere, due indizi aspettano una prova
Paesaggio. Il presidente della Toscana, Rossi, e il nuovo ministro delle
Infrastrutture cambiano verso e scoprono che gli ambientalisti a volte
hanno ragione. Ma alle parole dovrebbero seguire i fatti. Prima delle
elezioni regionali
Alberto Asor Rosa
L’Italia è un paese dove non si smette mai di stupirsi. In bene, in male. Oppure, più semplicemente, per la sorpresa di accorgerci all’improvviso di quanto fino a quel momento non
avevamo neanche sospettato.Faccio due esempi concreti, che riguardano da vicino il
mondo dell’ambiente e del territorio, di cui da qualche anno ci occupiamo.
Si tratta di Enrico Rossi, presidente della regione Toscana; e di Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del consiglio, e ora, da pochi giorni, ministro delle Infrastrutture, al
posto di quel Lupi, defenestrato da una (tutto sommato) modesta intercettazione.
L’uno, si dice, esponente della vecchia guardia postcomunista; l’altro, si dice, esponente
dell’ala del Pd più vicina a Renzi. Ma queste differenze, ora, ai fini del nostro discorso,
contano poco (mi pare). Poco tempo fa, il manifesto ha pubblicato (il 2 aprile) un articolo, “I
nazareni della Toscana”, in cui riassumevo le vicende relative all’approvazione in quella
regione di un fondamentale Piano paesaggistico, considerandola (ad onta di qualche attenuazione in corso d’opera) «una grande vittoria». Appena qualche giorno dopo (5 aprile),
interviene sul manifesto Enrico Rossi, appositamente (si direbbe) per condividere questo
punto decisivo: «Anch’io sono d’accordo che la sua adozione sia stata una grande
vittoria…». Rossi sorvola (non a caso, purtroppo) sul fatto che quell’adozione sia il frutto
del lavoro lungimirante e prezioso della sua assessora all’Urbanistica, Anna Marson, e che
in seno al Consiglio le opposizioni più feroci a quell’approvazione siano venute da esponenti del suo partito, il Pd, spesso coalizzati con le forze di opposizione al suo governo
regionale. Ma riconosce che una parte non irrilevante del merito sia di quelle forze
ambientaliste, che hanno posto «al centro del dibattito e della ‘questione democratica’
i temi della partecipazione, della rappresentanza e \[addirittura\] dei beni comuni».
Veniamo al secondo caso. Graziano Delrio è ministro delle Infrastrutture da un paio di
giorni. Acquisto in edicola la Repubblica. In prima pagina uno strillo di notevoli dimensioni:
«Delrio: basta Grandi opere. Solo lavori utili». Sospetto che si tratti di una di quelle amplificazioni giornalistiche, che servono solo a lanciare improvvidamente un caso. No:
nell’intervista il concetto è ripetuto più volte, quasi a volerlo sottolineare, e in maniera inequivoca. Per fare un solo esempio: «…la nostra strada [rispetto al passato] è un’altra, con
noi finisce l’era delle grandi opere e si torna a una concezione moderna. Dove le opere
[non necessariamente grandi, come si vede] sono anche la lotta al dissesto idrogeologico,
la mobilità urbana, le scuole». Ohibò, che il ministro Delrio si sia iscritto nottetempo alla
Rete dei comitati per la difesa del territorio, e io non ne abbia saputo nulla?
Il discorso sarebbe lungo, — mi piacerebbe, ad esempio, sapere quale senso attribuire
alla definizione di «concezione moderna», cui Delrio si richiama, — ma io mi propongo qui
di tracciarne solo alcuni lineamenti fondamentali. La mia prima reazione, sulla base di una
lunga esperienza, sarebbe: chiacchiere. Tanto più che in Toscana pendono sulla testa
degli attori politici le imminenti elezioni regionali (31 maggio), e si sa che per qualche voto
in più si è disposti a fare le affermazioni più sfrenate. Propongo per questa volta di seguire
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la strada opposta. Pesano sul destino della Toscana (mi limito a questo ambito, che conosco meglio, ma non sarebbe difficile allargare la rassegna a una dimensione nazionale)
almeno due “grandi opere”, da intendersi nel senso più classico ed esecrando del termine,
esattamente quello che il ministro Delrio sembrerebbe aver esorcizzato in due parole nel
corso della sua intervista: e cioè il Sottoattraversamento ferroviario di Firenze e la seconda
pista dell’aereoporto fiorentino di Peretola. Ambedue distruttive, inutili, dispendiose, fonte
(come già si è dimostrato, e meglio si potrebbe dimostrare) di corruzione e persino di
pesanti affarismi politici. La Rete dei comitati per la difesa del territorio possiede le competenze per dimostrare inequivocabilmente tutto questo, e persino per indicare, — e in molti
casi ci sono, — soluzioni alternative. E non ho alcun dubbio che le altre Associazioni
ambientaliste, a fianco delle quali è stata condotta la battaglia a sostegno del Piano paesaggistico, sarebbero ben liete di apportare il loro contributo a un’ipotesi del genere.
Invito il ministro Delrio, il presidente Rossi e, of course, il ministro Franceschini e il sottosegretario ai Beni Culturali Borletti Buitoni, ad un confronto faccia a faccia su queste tematiche e, più in generale, su questo indirizzo di governo: naturalmente pre-elettorale, perché
questo gli conferisce un’importanza e un’autorevolezza, che in caso contrario si
perderebbero. In Toscana (come ovunque, del resto) le tematiche alternative sono altrettanto rilevanti di quelle due oppositive, su cui in precedenza mi sono soffermato: per
esempio, il dissesto idrogeologico (appunto); una diversa impostazione della questione
geotermica; le condizioni del trasporto ferroviario locale, che sono penose, e che il Sottoattraversamento di Firenze peggiorerebbe ancora.
C’è materia non solo per evitare errori clamorosi, anzi catastrofici. Ma anche per ridisegnare le caratteristiche di un diverso sviluppo regionale con “opere” (non necessariamente
“grandi”) avvedute, sensate e lungimiranti.
Se è vero, come scrive Rossi, che «al centro della questione democratica ci sono i temi
della partecipazione e dei beni comuni», è qui ed ora che lo si prova.
Del 15/04/2015, pag. 15
Lettera aperta a Delrio, venga ad ascoltare la
Valsusa
Livio Pepino, Controsservatorio Valsusa
Gentile ministro,
le scrivo per conto del Controsservatorio Valsusa, da tempo impegnato in una attività di
documentazione, analisi e studio della progettata Nuova linea ferroviaria Torino-Lione,
della sua utilità economica, dei suoi effetti sulla situazione dei trasporti, dei rischi che essa
comporta per la salute delle popolazioni locali.
Nell’assumere l’incarico di ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Lei ha rilasciato
numerose dichiarazioni e interviste all’insegna della discontinuità con il recente passato.
Da ultimo, in una intervista a la Repubblica del 12 aprile, ha affermato testualmente:
«Focalizzarsi sulle Grandi opere ci ha portato in 14 anni di Legge obiettivo a stanziare 285
miliardi per vederne impiegati appena 23. La montagna ha partorito il topolino e ha anche
generato meccanismi opachi.
Le uniche Grandi opere sono quelle utili, che possono essere anche riparare una scuola
o mettere in sicurezza il costone di una montagna». E ha continuato assumendo un impegno preciso: «Faremo tutto ascoltando prima i cittadini e informandoli passo passo». Sia
pure con scarse speranze – dato l’atteggiamento sino ad oggi tenuto dalle autorità di
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governo – vogliamo prenderla sul serio e credere a quanto ha affermato, in particolare, in
punto volontà di confronto con le popolazioni coinvolte e di impegno a realizzare solo le
opere effettivamente utili. Noi – e con noi un numero crescente di tecnici delle diverse
discipline interessate – siamo convinti, e lo abbiamo più volte documentato, che la nuova
linea ferroviaria sia inutile, dannosa per l’ambiente e per la salute degli abitanti (di un’area
ben più vasta di quella prevista per i cantieri). Altri – seppur non molti nel mondo scientifico – sostengono tesi opposte. Non le chiediamo di crederci sulla parola e neppure di
dare risposta alle decine di documenti che il Movimento No Tav e i suoi tecnici hanno prodotto nel corso degli anni. Le chiediamo una cosa molto più semplice: fare quello che ha
detto, cioè ascoltare i cittadini e valutare se l’opera è effettivamente utile ovvero se costituisce solo un pericoloso spreco di denaro pubblico. Si tratta – crediamo – di una questione che interessa l’intera collettività e non solo gli abitanti della Valsusa (cosa che, in
ogni caso, non sarebbe irrilevante). La cosa si può fare in modo agevole e senza dispendio di denaro pubblico. Cominci col ricevere gli amministratori locali e con l’ascoltare le
loro ragioni senza riserve mentali e, poi, convochi, subito, un tavolo pubblico chiamando
esperti nazionali e internazionali di riconosciuta autorevolezza e di comune fiducia (del
governo e degli enti locali) per capire e per decidere di conseguenza, confermando
o modificando scelte effettuate in condizioni del tutto diverse da quelle attuali..
La decisione di costruire la nuova linea è stata presa oltre vent’anni fa. In questo periodo
tutto è cambiato: sul piano delle conoscenze dei danni ambientali, nella situazione economica, nelle politiche dei trasporti, nelle prospettive dello sviluppo. Dunque aprire un tavolo
di confronto reale su opportunità, praticabilità e costi dell’opera e sulle eventuali alternative
sarebbe un atto di responsabilità e di intelligenza politica. Nell’interesse di tutti.
Non le nascondiamo – lo ripeto – di avere scarsa fiducia nell’accoglimento di questo ennesimo appello. Ma speriamo di essere smentiti dai fatti. Se sarà così gliene daremo atto
volentieri.
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INFORMAZIONE
Del 15/04/2015, pag. 7
Rai, pubblicità senza limiti
Dietro l’angolo l’addio al canone
Tra le pieghe del ddl, l’abolizione del tetto massimo di spot
Francesco Maesano
«La nuova Rai», recita l’intestazione del disegno di legge pubblicato dal governo sul suo
sito. Per ora si tratta ancora di un ddl in attesa della bollinatura del ministero
dell’economia, ma tra le pieghe già si intravede un articolo che, almeno nell’enunciazione
attuale, sembra rappresentare un terremoto nel sistema radiotelevisivo.
Il punto sembra tutto tecnico, ma dietro c’è la sostanza vitale della raccolta pubblicitaria e
quella politico-culturale del duopolio Rai-Mediaset. Squadrando il documento ci si accorge
infatti che alla lettera A dell’articolo 5 si decide l’abolizione degli articoli 17 e 20 della legge
Gasparri. Il primo, in particolare, prevede al comma 2 lettera O «il rispetto dei limiti di
affollamento pubblicitario previsti dall’articolo 8, comma 6, della legge 6 agosto 1990, n.
223». È la legge Mammì, che sul punto prescrive: «La trasmissione di messaggi
pubblicitari da parte della concessionaria pubblica non può eccedere il 4% dell’orario
settimanale di programmazione ed il 12 per cento di ogni ora; un’eventuale eccedenza,
comunque non superiore al 2 per cento nel corso di un’ora, deve essere recuperata
nell’ora antecedente o successiva».
Le risorse
Dunque, se il ddl di iniziativa governativa dovesse essere approvato così com’è, questi
limiti di affollamento sparirebbero. Certo, resterebbero in piedi quelli previsti dal Tusmar, il
testo unico dei servizi di media audiovisivi e radio, ma sarebbe il primo passo di una
deregolamentazione per la quale, solo da Rai Uno, si stimano maggiori introiti per mezzo
miliardo di euro l’anno. Risorse che, inevitabilmente, affluirebbero verso viale Mazzini
modificando gli attuali equilibri del sistema.
L’idea che sembra tentare palazzo Chigi è quella di arrivare a un’abolizione del canone.
Per centrare l’obiettivo ci sarebbe la strada dell’inserimento nella fiscalità generale, che
renderebbe meno iniquo un contributo che registra un tasso di evasione intorno al 30% a
livello nazionale con punte in alcuni grandi città e nelle regioni del sud. E poi c’è quella
dell’aumento degli introiti pubblicitari, percorso che il Ddl che verrà presentato nei prossimi
giorni, forse già in settimana, in commissione trasporti al Senato sembra voler perseguire
con decisione.
E se passando al microscopio legislativo il Ddl salta fuori questa abrogazione dei limiti
dell’affollamento pubblicitario, occorre utilizzare il grandangolo della politica per inquadrare
la scelta del governo in una partita più complessa, nella quale entra in gioco anche l’offerta
di Ei Towers, controllata del gruppo Mediaset, per l’acquisto delle torri di RaiWay. Offerta
peraltro bloccata lunedì dalla Consob dopo che l’Ei Towers aveva abbassato il tiro dal
66,7% al 40%, nel tentativo di tenere in vita un’offerta che sin dall’inizio era parsa
illegittima, comportando l’acquisto di una quota eccedente il 49%, limite fissato dal
ministero dell’Economia e dalla Rai nella vendita delle sue antenne.
Il confronto
Lì per lì quell’offerta era sembrata a molti un tentativo di “inchiodare” il premier all’intesa
con Berlusconi, a quella sintonia che sul metodo per l’elezione del presidente della
Repubblica s’era appena smarrita. Ora il governo presenta un disegno di legge che
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potrebbe deviare verso la Rai parte del flusso di ricavi derivanti dalla raccolta pubblicitaria
finora appannaggio della concorrenza, Mediaset in testa. Quasi a smentire con un articolo
di legge che la «clausola televisiva» del patto del Nazareno sia mai esistita.
Del 15/04/2015, pag. 7
Rai Way, anche l’Antitrust verso il no
Mediaset cerca segnali per un accordo
Tra le opzioni il ricorso al Tar. De Benedetti: Berlusconi cerca di
vendere
Francesco Spini
Ora, per decidere il da farsi, Mediaset attende segnali da Rai e governo. Dopo l’altolà con
cui Consob ha affossato - dichiarandola «non più procedibile» - la prima offerta di acquisto
e scambio su Rai Way e pure in vista di un altro probabile no che, oggi, potrebbe giungere
dall’Antitrust (sebbene ancora in via informale, visto che per l’ufficializzazione bisognerà
attendere il parere non vincolante dell’Agcom, che ha tempo un mese), l’operatore delle
torri di trasmissione controllato da Cologno Monzese, studia le contromosse. La decisione
dipenderà molto dall’atteggiamento degli interlocutori.
Se arriveranno per lo meno segnali di non ostilità, che evitino che anche un secondo
tentativo, più morbido e che in prima battuta non implicherebbe la fusione, finisca nel
pantano, Ei Towers potrebbe seguire i dettami Consob e ripresentare una proposta
condizionata al 40% (e non al 66,67%), dettagliandone i nuovi profili industriali. O, anche
più semplicemente avviare una collaborazione industriale. In caso contrario, di totale
chiusura, le alternative non mancano. E sono sostanzialmente due: uno scontro a muso
duro, con un ricorso al Tar, per dimostrare come il no fosse del tutto «politico». Oppure un
colpo di spugna, dichiarando la fine del progetto di valorizzazione delle torri, ma gridando
ai quattro venti lo sdegno per l’ingiustizia subita.
Nel frattempo l’ad di Ei Towers, Guido Barbieri, ieri ha partecipato, come da programma,
all’udienza dell’Antitrust. E alla domanda iniziale del presidente, Giovanni Pitruzzella, se ci
fossero «particolari richieste» da inoltrare all’authority, nessuno ha fiatato. Si è continuato
a parlare, come nulla fosse, dell’Opas del 24 febbraio perché «non era materia di oggi
parlare della riformulazione dell’offerta», ha detto Barbieri, rivendicando «l’importanza e la
solidità del progetto industriale». Morale: l’orientamento dell’Antitrust sarebbe di un «no»
alla concentrazione prospettata per gli effetti anticoncorrenziali già evidenziati
dall’authority sia nel mercato delle torri sia in quello televisivo e della relativa raccolta
pubblicitaria.
A Piazza Affari nel frattempo si continua però a scommettere sull’accordo e sulla
creazione di un operatore unico con i due broadcaster (Rai e Mediaset) in minoranza e a
controllo pubblico o quasi (la Cdp o il fondo F2i che, però, non ha ancora aperto il dossier).
Così ieri Ei Towers ha guadagnato in Borsa lo 0,47% con Rai Way ha contenuto la perdita
allo 0,89%. Anche l’arcinemico di Berlusconi, Carlo De Benedetti, sostiene che l’ipotesi di
un operatore unico delle torri «è assolutamente logica» e «crea valore». «Il problema - ha
detto - è che non si è capito che Berlusconi vuole vendere e non comprare; lui ha fatto
un’offerta irricevibile» perché «vorrebbe avere una fusione con Rai Way per poi avere una
quota minima, facilmente vendibile». Il succo, per De Benedetti, è questo: «Berlusconi sta
cercando di vendere tutto, non di comprare».
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
Del 15/04/2015, pag. 4
Scuole, il governo piange ma i soldi restano
fermi
IL SOTTOSEGRETARIO FARAONE: “PER METTERLE IN SICUREZZA CI
VOGLIONO ALMENO 12 MILIARDI, NE ABBIAMO MESSI 3,9”. LESIONI
STRUTTURALI IN 3 EDIFICI SU 4
La scuola Pessina di Ostuni ha un soffitto in frantumi, ma anche la vulgata renziana dei
miliardi all’edilizia scolastica non se la passa tanto bene. Che qualcosa stia scricchiolando
nel racconto al miele lo ha certificato ieri il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone:
“Per quella vicenda, qualche testa salterà. Noi però abbiamo messo 3,9 miliardi, e una
serie di azioni che sburocratizzano le attività che devono svolgere le scuole e i Comuni
proprio per accelerare i lavori”. Sui soldi, invece: “Sono una boccata di ossigeno, ma non
sono sufficienti”. A precisa domanda, ha poi ammesso che la cifra di 12 miliardi – tre volte
il contributo stanziato – “è una stima plausibile”. Vera la seconda. Premessa: secondo
Cittadinanzattiva, il 41 per cento delle scuole ha uno stato di manutenzione mediocre o
pessimo, e tre su quattro presentano lesioni strutturali. Di fronte alle piccole manutenzioni,
nel 15 per cento dei casi l’ente proprietario non è mai intervenuto e nel 23 per cento lo ha
fatto con molto ritardo. Stando al Censis, dei 41 mila edifici scolastici esistenti, 24 mila
hanno impianti non funzionanti, novemila intonaci che cadono a pezzi, 7.200 devono fare i
conti con coperture e tetti da rifare; 3.600 con interventi sulle strutture portanti. PER FAR
FRONTE a questo panorama disastrato, da almeno cinque anni le stime parlano di cifre
superiori ai 10 miliardi. In questo senso, non ci sono novità. Diverso il discorso sulle cifre
annunciate. Matteo Renzi ha intuito che il tema tocca non poco le corde dell’elettorato e ha
promesso investimenti corposi. Come ha ricostruito il Fatto a febbraio, però, buona parte
di questi è ferma al palo, ed è stata stanziata dal governo precedente, quello di Enrico
Letta. Iemente sbandierato. Soldi destinati a 137 opere, ma solo 37 milioni finiranno alle
scuole, e solo quando l’iter sarà concluso. Funziona così: la delibera va registrata, poi
vidimata dalla Corte dei Conti, seguirà il decreto operativo, infine i bonifici. Ci vorrà tempo.
Fermo, per ora è anche il “decreto mutui”, predisposto dal Miur all’epoca di Letta: 940
milioni che le Regioni potranno erogare grazie a mutui quarantennali sottoscritti con la
Banca europea degli investimenti. A che punto siamo? Varato a gennaio, doveva partire il
15 febbraio, ma è stato posticipato perché le Regioni sono in ritardo con i piani (c’è tempo
fino ad aprile). In sintesi: il testo c’è, ma mancano i decreti attuativi, uno dei quali non ha
ancora ottenuto la bollinatura della Corte dei conti. In tutto questo, il Miur ha però
pubblicato il riparto dei fondi alle Regioni che compare sul sito del governo, così sembra
che le risorse siano arrivate. Discorso analogo per i 350 milioni destinati a “scuole ri il Sole
24 Oreha calcolato in 1,6 miliardi le risorse ancora bloccate. Tradotto: ci sono “stanzia menti”, ma decolla ben poco. L’ultima cifra uscita di recente, per dire, riguarda i 200 milioni
assegnati dal Cipe venerdì scorso, che il governo ha prontasostenibili”, cioè all’efficienta mento energetico. Nell’ottobre scorso, il ministero aveva reso nota una bozza del decreto
attuativo, e solo ieri è stato trasmesso alla Corte dei Conti. Ancora da programmare invece
i fondi europei del Pon 2014-2020 (380 milioni). Di questi, c’è il rischio di perderne una
parte cospicua, come sta già accadendo per i 240 milioni della vecchia programmazione
47
(ne è stato speso solo 11%). R E STA N O dispersi invece i 300 milioni del “piano Inail”,
parte del “decreto del Fare” del giugno 2013. Dulcis in fundo, i soldi del piano annunciato
dal premier ad Agosto scorso: scuole belle (450 milioni), scuole sicure (400 milioni) e
scuole nuove (244 milioni). Al 31 marzo, secondo i dati pubblicati dall'unità tecnica di
Palazzo Chigi, coordinata da Laura Galimberti, delle prime (piccole manutenzioni) è stato
completato il 94 per cento del 2014 (altri 5.290 interventi sono previsti entro giugno) con i
soldi del Decreto del Fare; delle seconde 1.951 cantieri risultano conclusi, 227 avviati, 47
non partiti e 103 neanche aggiudicati. Infine scuole nuove (finanziate dai Comuni con lo
sblocco del patto di stabilità): a gennaio, su 454 opere, 198 erano state concluse, 187
avviate (30 da pochi mesi), 69 ancora in progettazione, 157 “in cantiere” e 30 “allo start”.
Un po’ come tutto il piano.
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ECONOMIA E LAVORO
Del 15/04/2015, pag. 15
Agroindustria. La commissione Agricoltura del Parlamento Ue approva
a larga maggioranza le raccomandazioni per il settore
Ttip, Bruxelles chiede più tutele
De Castro: passaggio fondamentale, l’esecutivo Ue sia più aggressivo sul dossier agricolo
Se l’export è l’unica strada per crescere, per l’agroalimentare italiano è vitale superare gli
ostacoli che ancora frenano la «conquista» del grande mercato americano. Un primo
passo in questa direzione è stato fatto ieri a Bruxelles. Con una maggioranza più ampia
del previsto (27 sì contro 18 no) la commissione Agricoltura dell’Europarlamento ha dato il
via libera a una serie di «raccomandazioni» relative al capitolo agricolo del negoziato per
un accordo commerciale di vasta portata tra Ue e Usa, il cosiddetto Ttip (Transatlantic
Trade and Investment Partnership).
Il voto di ieri rappresenta la prima tappa di un percorso che dovrebbe portare alla
decisione finale di giugno quando sul negoziato si esprimerà la plenaria. La commissione
competente è quella per gli affari commerciali, il parere votato ieri ha quindi solo valore
consultivo ma è particolarmente importante perché fissa i paletti delle trattative per un
settore sensibile come l’agroalimentare. «Si tratta di un passaggio fondamentale – spiega
a caldo il relatore del parere, l’ex ministro delle Politiche agricole Paolo De Castro –
perché, al di là dei principi stabiliti nelle raccomandazioni, abbiamo chiesto alla
Commissione di tenere con la controparte un atteggiamento più aggressivo sui dossier
agricoli che per l’Italia sono particolarmente importanti».
L’Italia è infatti importatore netto di materie prime agricole, come soia e grano, ma
soprattutto è un grande esportatore di prodotti finiti: gli Stati Uniti sono il primo mercato per
vino e pasta, il saldo netto commerciale lo scorso anno è stato positivo per oltre 2 miliardi
di euro; inoltre, le esportazioni agroalimentari sono cresciute complessivamente, negli
ultimi 10 anni, del 54% contro un aumento del 10% dell’import.
A livello europeo, nonostante si tratti dei due maggiori player dell’agroalimentare mondiale,
come sottolinea un rapporto dello stesso Parlamento Ue, solo l’8% delle importazioni
agroalimentari europee proviene dagli Stati Uniti, mentre le esportazioni Ue oltreoceano
pesano per il 13% del totale. La costante crescita delle esportazioni europee sul mercato
Usa però potrebbe essere messa in pericolo dall’altro negoziato che gli Usa stanno
portando avanti con i paesi dell’area del Pacifico; per questo un fallimento del Ttip (che
sconta a Bruxelles una forte opposizione) avrebbe l’effetto di accelerare il trasferimento
dei flussi commerciali tra i due oceani. Ma per l’Italia il negoziato rappresenta soprattutto
l’occasione per riconquistare gli spazi di mercato sottratti da agropirateria e Italian
sounding, con il mutuo riconoscimento delle rispettive denominazioni. «La battaglia per la
tutela dei nostri marchi e delle nostre produzioni a denominazione d’origine deve
procedere però su un doppio binario – avverte De Castro –: sul piano giuridico, dove
possiamo migliorare la situazione chiedendo il mutuo riconoscimento delle indicazioni
geografiche ma senza poter impedire la registrazione di marchi che fanno il verso alle
grandi produzioni italiane; poi su quello dell’informazione al consumatore: in questo i
consumatori americani sono i nostri primi alleati. Negli Usa c’è una grande sensibilità sul
tema e dobbiamo arrivare a definire chiaramente l’origine di un prodotto sugli scaffali
americani: chi acquista una confezione che magari ha un nome italiano deve sapere se è
fatta negli Sati Uniti. Questo obiettivo può essere raggiunto migliorando il sistema di
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etichettatura americano». Nonostante i problemi il saldo della bilancia agroalimentare è nel
complesso positivo per l’Europa per oltre 6 miliardi di euro, e caratterizzato da una
continua crescita (+36% negli ultimi 10 anni). Il volume complessivo delle esportazioni
europee sfiora i 17 miliardi di euro. Il maggior esportatore di prodotti agroalimentari negli
Usa è la Francia, seguita da Paesi Bassi e Germania, con l’Italia in quarta posizione con
una quota di circa il 20% del totale dell’export agroalimentare europeo verso gli Stati Uniti.
I timori maggiori riguardano le cosiddette barriere non tariffarie che spesso si traducono in
protezionismo mascherato, «ma anche in questo caso i potenziali vantaggi superano di
gran lunga i pericoli – spiega De Castro –, basti pensare al caso della “Listeria” che sta
bloccando il nostro export di salumi negli Usa. Inoltre siamo riusciti a reinserire la richiesta
di istituire un meccanismo di risoluzione delle controversie investitore–Stato».
Del 15/04/2015, pag. 4
Uno statuto per tutti i lavoratori
La Cgil e i Freelance. Camusso a confronto con le associazioni delle
partite Iva: «Diritti universali». «Il Jobs act ci avvicina: per la
controparte siamo solo un conto». «Servono tutele uguali, declinate
diversamente»
Massimo Franchi
L’obiettivo è qualcosa più che ambizioso. Un nuovo statuto di tutti i lavoratori che superi la
storica divisione fra dipendenti e autonomi riconquistando i diritti cancellati dal Jobs act.
Mentre i giuristi della Cgil sono al lavoro per fissare i principi che riunifichino il mondo del
lavoro, Susanna Camusso incontra i tanti rappresentanti di un universo sfaccettato e in
espansione. Un universo che il sindacato fino a pochi anni fa vedeva come concorrente
nella lotta per l’equità sociale e che veniva considerato dai professionisti con grande diffidenza. L’instancabile lavoro di Davide Imola — il sindacalista scomparso a dicembre
responsabile della Consulta delle professioni — è riuscito a metterli in comunicazione.
Appena dopo pranzo, il parlamentino di Corso Italia — la sala Santi — è piena di giovani
e 40enni: alcuni sono spaesati, molti altri si conoscono. Tutti vogliono dire la loro. Ad unirli
al sindacato c’è anche la parola più usata dopo «diritti». Si tratta di «controparte», perché
sebbene siano quasi tutti autonomi, anche loro hanno «uno o più padroni a cui
sottostare». Potere di Renzi, ora i due mondi si sono avvicinati nella comune richiesta di
diritti basilari. «Il danno peggiore del Jobs act è aver trasformato tutto in un conto. Anche
a noi ora capita di sentir dire: “Non mi servi più, quanto vali?” per togliere una commessa»,
racconta Emiliana Alessandrucci del Colap, il coordinamento delle associazioni
professionali. Un’ora di discussione, un inizio di confronto schietto. Con un merito che va
subito riconosciuto a rappresentanti delle associazioni: in pochi minuti di intervento hanno
fatto richieste dirette e pragmatiche, una lezione per chi della verbosità fa la regola di vita.
Nella sua replica Susanna Camusso è ugualmente pratica: «Ci sono diritti che collegano
tutte le forme di lavoro? Noi crediamo di sì: malattia, diritto al riposo, alla maternità, alla
paternità, assicurazione sugli infortuni, ammortizzatori. E se il nuovo statuto deve essere
universale il tema centrale deve essere la persona che deve avere diritti indipendentemente dalla modalità del lavoro che svolge. Uno statuto che sarà, come il vecchio, una
legge di principi che poi la contrattazione inclusiva dovrà declinare», conclude sorridendo.
Il confronto era partito parafrasando «la coalizione sociale» — «noi qui la facciamo in Cgil
da anni», attacca Andrea Dili di Alta partecipazione (vicina al Pd) — e si parla subito di
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«mettere le persone al cento perché la frammentazione del mondo del lavoro sta nelle
regole, ma non nella realtà», specifica l’elegantissimo Angelo Deiana di ConfAssociazioni.
Le richiesta partono con l’intervento di Emiliana: «Per noi “ammortizzatori sociali” vuol dire
poter scaricare la formazione che per noi è fondamentale».
Susanna Botta di Acta Roma spiega che «le tutele devono essere universali ma vanno
declinate in modo diverso», per una sorta di «eguaglianza nella diversità». E fa esempi
precisi di come declinarli: «La maternità non può essere rinuncia al lavoro, la malattia
grave non può coprire solo 61 giorni l’anno come ora». È presente anche un sindacato
vero e proprio: è Strade, sindacato dei traduttori che si è pure inventata una Cassa mutualistica. Ma che «ha bisogno di più sindacato per sedersi al tavolo con la contraparte»,
spiega Daniele Petruccioli. “Iva sei partita” è una delle associazioni più longeve, nata per
denunciare «gli architetti sfruttati, ora è passata a rappresentare le partite Iva povere, gli
ingegneri che fanno i collaudi o i direttori dei cantieri: la loro debolezza ha conseguenze su
tutta la società», racconta Francesca Lupo. Le guide turistiche invece chiedono aiuto contro «la pressione dei grandi tour operator che chiedono ai governi europei di cancellare
l’esame di abilitazione mettendo a rischio 21mila posti di lavoro in Italia», denuncia Francesca Duimich. Si chiude poi coi rappresentanti degli ordini professionali. C’è Cosimo Matteucci di Mga — associazione forense — che testimonia «dei 40-50enni cacciati dagli studi
di avvocato che non hanno ammortizzatori e pensione» e chiede «contributi legati alla
capacità reddituale e un aggregazione delle 21 casse autonome esistenti, assorbite
dall’Inps». Walter Grossi dell’associazione archeologi rivendica invece «l’equo
compenso». «Il prossimo appuntamento — annuncia Salvatore Barone, responsabile contrattazione Cgil — è fra qualche settimana. Noi raccoglieremo idee e sollecitazioni per fare
poi una sintesi». «Se son rose, fioriranno. Ma di sicuro abbiamo trovato qualcuno che ci
ascolta», sintetizza più di un freelance, uscendo soddisfatto.
Del 15/04/2015, pag. 4
Vita da professionisti, poveri a partita Iva:
«Vogliamo la riforma del Welfare e della
previdenza»
Quinto stato. La ricerca Cgil “Vita da professionisti”. Un ritratto della condizione del
lavoro autonomo esclusivo in Italia: su un campione di 2210 persone il 57,8% guadagna fino a 15 mila euro lordi all’anno. Cresce l’impegno associativo e la richiesta
di nuovi diritti.
Roberto Ciccarelli
La ricerca «Vita da professionisti» — dedicata al sindacalista Davide Imola, coordinata da
Daniele Di Nunzio per l’associazione Trentin e Filcams-Cgil, realizzata con Emanuele
Toscano — è un’istantanea della condizione del lavoro autonomo in Italia. Presentata ieri
a Roma nella sede della Cgil, la ricerca descrive la condizione dei nuovi poveri a partita
Iva: il 57,8% di un campione di 2210 autonomi guadagna fino a 15 mila euro all’anno; il
13,2% tra i 15 e i 20 mila euro, il restante 28,9% più di 20 mila euro. Tutte cifre lorde.
Redditi che non trovano riscontro nella formazione e nelle competenze accumulate a partire da una laurea, o un diploma, e in costante aggiornamento. Quasi sempre a proprie
spese. Questa è la condizione in cui si trovano oggi tutti gli studenti o i laureati e, più in
generale, il lavoro qualificato di chi ha tra i 30 e i 45 anni.
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Il contrasto tra l’alta concentrazione dei saperi e la realtà quotidiana di un lavoro impoverito e senza tutele, ma perseguitato dalle tasse e dai contributi previdenziali, è caratteristico di un segmento importante del quinto stato: i lavoratori della conoscenza. Gli autori
della ricerca , coerentemente con l’impostazione data da Sergio Bologna e Andrea Fumagalli nel libro Il lavoro autonomo di seconda generazione(1997, Feltrinelli), descrivono tale
lavoro nell’ambito del settore terziario in crisi, dei servizi, delle relazioni e della cura, dello
spettacolo, delle consulenze per la pubblica amministrazione o per le imprese.
Questo lavoro autonomo svolge le sue attività in una delle 27 professioni regolamentate
attraverso ordini o collegi professionali, ma anche nell’ambito del lavoro freelance non
ordinistico. Secondo i dati Isfol, i professionisti autonomi e freelance che non sono imprenditori ne hanno dipendenti sono circa 3 milioni e mezzo. Nel loro insieme contribuiscono
per oltre il 18% al Pil. Questo è il primo dato che rovescia il pregiudizio dominante, in particolare quello legato alle letture ispirate alla nozione di «popolo delle partite Iva». Gli autonomi e i freelance sarebbero imprenditori e, in quanto tali, producono valore e ricchezza.
Non è vero: sono lavoratori che operano in autonomia e per conto terzi. Non sono evasori
fiscali, come a lungo hanno creduto la sinistra e in particolare i sindacati (Cgil compresa).
Per chi lavora per la P.A. (il 5,3%) o in maggioranza per i privati (65%), e ancora in un
ambito non prevalente (il 23,2%) o il terzo settore (il 6,7%), evadere è molto difficile.
Tale autonomia viene invece distinta in tre modi: una condizione di autonomia completa (il
49,4% del campione ha più committenti alla pari); una di autonomia prevalente (il 33,3%
ha più committenti, di cui uno principale); un’altra di monocommittenza (il 17,3%). Questa
descrizione smentisce un’altro pregiudizio, diventato popolarissimo dopo l’approvazione
della riforma Fornero: le partite Iva sarebbero tutte false. In realtà sono dipendenti
mascherati. Non è vero: nell’ambito del lavoro professionale la platea degli autonomi
è molto più ampia di quella dei parasubordinati, come attesta l’indagine. Parliamo di working poors che lavorano con una pluralità di committenze. Più datori di lavoro ci sono, più il
magro reddito può sperare di crescere. Questa relazione forte e lineare rivela un’altra
realtà: le professioni che soffrono di una «povertà estrema», con redditi inferiori ai 5 mila
euro lordi annui, sono quelle della cultura e dello spettacolo, i giornalisti e chi lavora
nell’editoria. Ci sono anche gli archivisti e i bibliotecari e chi opera nell’area tecnicoscientifica. Chi invece percepisce un reddito superiore ai 25 mila euro lordi lavora nei settori finanziari e assicurativi, nella consulenza, nella salute, nella sicurezza del lavoro o fa il
commercialista. La ricerca attesta inoltre una forte consapevolezza dei diritti sociali,
un’idea del Welfare e una disponibilità all’impegno associativo. Il 45% del campione partecipa alle attività di movimenti e gruppi auto-organizzati, la vera novità culturale e politica
registrata in questo segmento del quinto stato. Il 60,6% ritiene utile la creazione di spazi di
coworking e il 72% è disponibile a creare una società con i propri colleghi. La maggioranza
sarebbe anche disponibile all’aumento dei contributi previdenziali, ma alle seguenti condizioni: aumento del reddito netto, maggiori detrazioni, nuove regolamentazioni collettive
e una riforma previdenziale. Ai sindacati il campione della ricerca chiede di essere consultato in maniera permanente e di aprire sportelli per servizi e tutele. Ma resta forte la
distanza dalla loro cultura. Impegno associativo, auto-organizzazione, sviluppo di
un’autonoma capacità negoziale: sono queste le premesse per creare una nuova cultura
del lavoro indipendente senza schiacciarlo nella pur legittima identità da «dipendente non
regolarizzato».
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