Comunicazione e ricerca della verità. Un cuore intelligente Intervista esclusiva a Giuseppe Braga, di Costanza Cavalli - Lei è Direttore di Volare. E su Volare WFR Magazine del 28 novembre leggo un articolo di Francesco Giaculli intitolato “Le tasse dell’obbligo”: il Fisco calcola la congruità del reddito dichiarato anche in base alle ore di volo effettuate dai proprietari di un aereo privato e dagli iscritti ad un aeroclub o a una scuola di volo. Insomma, le spese che il pilota affronta sono considerate indici di benessere dallo Stato italiano. Quale parabola L’ha portata da giornali aggressivi e schierati come Libero e L’Indipendente, dai reportage sull’attentato alle torri gemelle ad una rivista di settore che ritiene interessanti anche le questioni fiscali? Libero, L’Indipendente, Il Borghese mi hanno chiamato e mi hanno dato da lavorare. Al contrario di quello che si pensa, non mi hanno mai chiesto niente. Poi è evidente che non ti metti di traverso rispetto alla linea del giornale, ma basta rimanere onesti. Accetti dei compromessi, ma è possibile trovare un equilibrio. E io sono passato ad una rivista di settore nello stesso modo: non imparavo più niente dov’ero e ho avuto la fortuna che mi chiamassero a Volare. Sono sempre lo stesso giornalista, mi sono semplicemente adattato a un mensile. Leggo la realtà attraverso gli aeroplani. Faccio lo stesso mestiere di prima, ma filtrato attraverso l’aviazione. - Il 30 dicembre, NHK, una delle maggiori emittenti televisive giapponesi, riportava una ricerca condotta da The Research Institute of Publication riguardo alle vendite di libri e riviste in Giappone: sono al livello più basso degli ultimi 26 anni. Emergono due aspetti: i giovani usano internet per le news e le informazioni e gli editori sono in perdita perché non riescono ad attrarre i giovani lettori. Si aggiunge però che la generazione dei baby boomers (ovvero coloro che rientrano in quel grande incremento di nascite del secondo dopoguerra) continua a comprare libri e riviste. Le vendite delle riviste di moda che hanno come target questa generazione sono addirittura in crescita; quindi c’è una precisa area di mercato che punta su una specifica classe d’età prevista in ulteriore crescita. La Sua rivista fa proprio parte di questo scenario: non è comprata dai teenager e tratta di un argomento di nicchia. Stiamo attraversando un momento di grandissimo cambiamento. Secondo me la carta stampata non scomparirà, ma subirà un processo come quello del vinile nel mercato discografico: un deflusso e poi un riflusso, a rischio di scomparsa ma con una rinascita di nicchia (nel 2012 i vinili hanno avuto un aumento del 16% solo in Italia). Bisogna riprogettare il modo di fare i giornali in maniera profonda, ma ci vuole molto tempo. I volumi sono diversi e i ricavi dell’editoria saranno molto più frastagliati: da internet alle iniziative ai servizi specializzati all’IPad. Siamo ancora alla fase in cui si cerca una soluzione unica per tornare a guadagnare come prima, ma è necessario attuare soluzioni ramificate per tornare a fare fatturato. Poi non sono un indovino, non so che cosa succederà. - La figura del giornalista, tralasciando i pochi che si dedicano alle inchieste, è spesso quella di un divulgatore che non raccoglie le notizie personalmente ma le riceve mediate da un altro professionista (l’Ansa, un addetto stampa, dei giornali stranieri), le rielabora o addirittura le copia. Esattamente il contrario di quello che Lei pretende, cioè andare a piedi e indagare. Ma è ormai una dinamica consolidata. Come si fa a evitarlo? Andando a piedi e indagando. Non c’è un bene e un male. Ma niente si può sostituire alle parsone che raccontano. È sempre stato così, dai trovatori medievali e ancor prima i raccontatori atzechi. Nella rete è tutto di seconda mano. Il crowd sourcing è molto utile se lo usi come una lavatrice. Non puoi pensare di scrivere su un fatto senza parlare con il barista o andare per la strada di notte. Non è da demonizzare il crowd sourcing, perché sicuramente ha un’utilità. È uno strumento in più, ma da solo è inerte. Non bisogna indulgere al narcisismo dell’opinione, non importa a nessuno della tua opinione. Quello che è interessante è ciò che trovi e che s’innalza a valore collettivo. E nello stesso tempo non sei un microfono. C’è un filo rosso sottilissimo tra “non essere un microfono” e “non indulgere all’opinione personale”. La vera grande difficoltà è lo spirito di finezza con cui riesci a maneggiare le cose. Perché chi leggerà vedrà quello che tu stai scrivendo e c’è il rischio che ti creda. È per questo che dico: non imbrogliate. Perché chi ti legge può crederti o meno, ma se ti crede penserà qualcosa che è falso. Se non ti crede… A che cosa ti è servito? Il filo rosso tra l’essere secchi, brutali e nello stesso tempo non dimenticare di essere persone, è quello che secondo me potrebbe aiutare a formare una generazione di giornalisti un po’ meno domati e dominati. Non ho ancora trovato nessuno che abbia detto “Guarda con i tuoi occhi e pensa con la tua testa, dopodichè cancella tutto perché scrivi per gli altri e non per te stesso”. È un mestiere semplice, ma non facile. È un mestiere operaio. Superare il moralismo non è antietico, se obbedisci all’etica superiore di dover riportare una storia. Devi essere “lasco” rispetto al sentire comune perché in realtà ti aggiri costantemente tra i bassifondi, anche dell’animo umano. Devi renderti conto di essere un privilegiato e devi rispondere del privilegio che hai. - Durante il Workshop è stata posta una domanda che è rimasta inevasa. La ripropongo: il giornalista, Lei ha detto, deve saper affrontare e contestualizzare una notizia. Il giornalismo deve avere una funzione educativa? Dove per educativa non intendo propagandistica, ma che sia in grado di formare una coscienza critica nell’utente. Si può dire educativa in questo senso? No. Il nostro compito è raccontare, spiegare, se possibile. Il compito educativo è quanto di più pernicioso ci sia, anche dal punto di vista etico. È come se s’instaurasse una sorta di dittatura della notizia e ti ergessi a giudice del bene e del male. La pietas è questo: bisogna guardare con dolcezza chi legge. Perché le persone che leggono fanno parte della varietà del formicaio sociale in cui viviamo. Bisogna stare bassi. - Il giornalismo ha un grande potere e una grande responsabilità di cui talvolta sembra non rendersi conto. Gli è facilissimo entrare nelle menti e dominarle, eppure spesso propone titoli ambigui, superficiali, pericolosi, pur avendo nella teoria un metodo che si prefigge di osservare, ascoltare, paragonare, pensare prima di parlare o scrivere. Ma come scriveva Manzoni: “Parlare è talmente più facile di tutte quelle altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire”. Ecco, secondo Lei è un errore da far rientrare nei difetti umani o la mancanza di chiarezza è talvolta una voluta distorsione delle notizie? È possibile affidarsi totalmente all’informazione di un’unica testata? L’uno e l’altro. Il Quoziente Intellettivo medio di un giornalista è il Q.I. medio delle persone. E spesso i giornalisti hanno la presunzione di scrivere cose corrette perché c’è il loro nome in fondo all’articolo. Di sicuro rientra nei difetti umani. Ma è anche una distorsione voluta delle notizie. Soprattutto ora, in campagna elettorale, si leggono articoli che non dicono cose false ma che ti attirano da una parte piuttosto che dall’altra. Quindi, sì, c’è mala fede e sì, ci sono errori umani. - Sempre durante il Workshop, Lei ha insistito su due temi: la libertà e la tecnica. Il problema vero non è la tecnica per sé stessa, quanto il rapporto tra l’uomo e la tecnica, cioè la sua capacità di continuare a pensare al di là delle tecnologie che utilizziamo quotidianamente. Però se definiamo questa “crisi” solo tecnica, e non anche culturale e spirituale, cercheremo risposte solo tecniche. Le risposte dipendono sempre da ciò che cerchiamo. Qual è quindi la domanda giusta? Il discorso del giornalismo digitale è un falso. Tutto quello che cambia è il modo, che è poco rispetto al mestiere in sé. Questo nuovo scalino che dobbiamo fare non cambia la sostanza del giornalismo. Il problema rimane l’avere qualcosa da dire, e questo riguarda sia la carta sia il digitale. Ed è per questo che bisogna stare attenti al crowd sourcing, perché la domanda da porsi è: da chi arrivano le notizie? Questo non vuol dire che il sospetto deve diventare un valore e che bisogna ignorare le notizie che arrivano da Twitter, ma è necessario tener presente che sono notizie di seconda mano. Bisogna fidarsi delle notizie che vengono documentate, con statistiche e numeri, acriticamente. Il cattivo e il buono come si possono distinguere nelle guerre? Come sai chi è giusto e chi no? Come fai a fidarti del crowd sourcing? Si deve utilizzare, non bisogna demonizzare nulla, ma devi fare lo sforzo della ricerca. Devi essere un uomo che cerca di capire altri uomini. È qui che diventa interessante il nostro mestiere. Bisogna capire chi si vuole essere, gli strumenti vengono di conseguenza. Possono aiutarci a fare meno fatica, ma esattamente come l’invenzione della ruota. - Oggi noi viviamo sempre connessi (si parla appunto di perpetual contact) e il nostro campo visivo e uditivo è costantemente mediatizzato, i media sono letteralmente “sciolti” nell’ambiente proponendoci stimoli che ci “massaggiano” (per McLuhan, il medium, oltre che il messaggio è anche il “massaggio”) e trasformano la nostra relazione con la realtà. Quando quantità crescenti d’informazione vengono distribuite a velocità crescente, diventa sempre più difficile creare narrazioni e rischiamo di perdere l’orientamento. Più che chiedersi e scegliere dove si sta andando, si fa l’esperienza di essere portati. C’è un modo per “mettersi in salvo”? Data la verità drammatica della cosa, anch’io inizialmente sono rimasto travolto. Ma finita questa fase ti rendi conto che non sei in grado di gestire tutto ciò che hai accumulato. Tu puoi essere digitale quanto ti pare, ma alla fine hai due mani. È cambiato il fatto che c’è un accesso improvvisamente e quantitativamente più ampio, ma ingestibile. L’unico modo è quello di prendere la quantità di cose che si è in grado di gestire quotidianamente. Il lato oscuro di questo fenomeno è che vieni destituito della tua individualità, entri a far parte di un formicaio che continua a dirti “Tu sei unico”. E ti credi più potente perché hai più cose, ma proprio quello ti rende impotente perché non sai come immagazzinarle. Bisogna ridurre le cose alla quantità e alla qualità che ti si addice. - Appellandosi al diritto di libertà di espressione, chiunque può far circolare qualsiasi comunicazione, senza alcun vincolo di “verità”. E i lettori spesso tendono a considerare “vero” ciò che viene efficacemente comunicato o istrionicamente espresso, come se si attribuisse al sentire (e non al ragionamento) il criterio di verità. E nel momento in cui si esercita la critica ad un’adesione puramente emozionale, si viene facilmente bollati come moralisti. Qual è la sua opinione? Lei nel suo intervento ha affrontato il tema della verità distinta dalla realtà… Sicuramente c’è un problema di rapidità. Guarda una trasmissione tv: dura mezz’ora, un’ora… Arrivi al sentire, non al ragionamento. E nell’esporsi, si oscilla sempre tra l’essere moralista trombone oppure nemico dell’etica. Il tema della realtà distinta dalla verità non è una distinzione, è che sono tangenti, ma non sono necessariamente la stessa cosa. Ci sono eventi che rappresentano qualcosa di più dell’evento in sé. Per esempio, Daniel Pearl era un giornalista che si trovava in Pakistan dopo l’11 settembre ed è stato il primo a morire sgozzato. Nello stesso tempo io vidi un video che si riferiva alla guerra tra i russi agli afgani dove un afgano sbudellava un russo. Io rimasi colpito dalla cosa. E immediatamente scrissi un pezzo: “Io ho visto com’è stato ucciso Daniel Pearl…”. E poi ho raccontato la storia dell’afgano e del russo, chirurgicamente. Perché altrimenti sarebbe sembrata una morte come un’altra. E invece non era sparare a un nemico, ma era una morte eseguita con sprezzo. Stava cambiando qualche cosa e doveva essere raccontata. Ho raccontato la storia di Pearl togliendo il pudore, che non ci deve essere perché c’è un orrore più grande. Bisogna farsi amico l’orrore perché è lo specchio della verità. Una realtà è quella di Daniel Pearl che è stato ucciso. Una realtà è la guerra degli afgani contro i russi. Avevano qualcosa in comune che andava raccontato. Ma va fatto con la responsabilità e la coscienza che stai dando un servizio. Hai notato che nei tg dicono “Il servizio è di…”? Si chiama servizio non per caso: tu sei al servizio di quello che stai facendo. Sei un filo attraverso a cui passa corrente e bisogna essere attenti ad essere un filo con una buona conduzione. Costanza Cavalli