Lupus in Tabula
Il primo menù di motti e proverbi latini
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Il latino non è poi così lontano:
lo utilizziamo ancora, talvolta meccanicamente, nel nostro
linguaggio quotidiano.
Questo lavoro è servito ad accorciare le distanze tra il mondo
antico e il mondo attuale e a darci la consapevolezza che
l’italiano, in fondo in fondo, non è altro che
“il latino moderno”.
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Antipasti
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DE GUSTIBUS NON EST DISPUTANDUM
De gustibus non est disputandum - talvolta reso anche con De gustibus non
disputandum est o anche nella forma abbreviata De gustibus non disputandum - è una
locuzione latina molto diffusa di origine non classica. Intende sottolineare come non
sia altro che tempo perso discutere sui gusti delle persone o comunque degli animali
essendo assolutamente tensioni individuali riferibili perciò alla sensibilità propria di
ciascun essere. Letteralmente si traduce con "Non si può discutere sui gusti".
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il detto non proviene dai classici
latini (in passato era stato attribuito a Cicerone) i quali non avrebbero usato il
pleonastico est, ma si sarebbero verosimilmente limitati a un più semplice de gustibus
non disputandum. In ragione di ciò, si considera che la frase possa trarre la sua
origine dalla parlata aulica e ridondante, appunto, in voga presso i dotti medievali.
La locuzione è rimasta nel repertorio del latino parlato, fino a consolidarsi nell'uso
moderno, a tal punto da essere persino richiamata a volte pronunciando un semplice:
de gustibus... sottintendendo il resto dell'adagio e il suo significato.
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CURSUS HONORUM
Rappresentava, nella Roma antica, la carriera politica le cui cariche potevano essere
rivestite seguendo un determinato ordine di successione. Fu progettato per gli uomini
di rango senatoriale. Il cursus honorum conteneva una serie di incarichi militari e
politici. Ogni ufficio aveva un'età minima per l'elezione.
Dopo dieci anni di servizio militare nella cavalleria romana (gli equites), i candidati
potevano avere accesso alle varie cariche politiche.
Il primo passo si compiva attorno all'età di vent'anni, ricoprendo il tribunato militare
per almeno due o tre anni di carica (tribunus laticlavius). In seguito si diventava
Questore (quaestor), con il compito di amministrare la giustizia penale e controllare il
tesoro pubblico (erario). I candidati dovevano avere almeno 30 anni (con la riforma
di Augusto almeno 25 anni). A 36 anni gli ex questori si potevano candidare per
l'elezione ad una delle quattro cariche di Edile (aedilis). Gli edili avevano la
responsabilità delle opere pubbliche e si occupavano dei rifornimenti idrici e
alimentari della capitale. Sei Pretori (Praetor) erano eletti tra uomini di almeno 39
anni (con la riforma di Augusto almeno 30 anni), con il compito di amministrare la
giustizia civile. La carica di Console (consul) era la più prestigiosa di tutte e
rappresentava il vertice di una carriera riuscita. L'età minima era 42 anni (con la
riforma di Augusto fu ridotta a 33 anni). I nomi dei due consoli eletti identificavano
l'anno. I consoli potevano imporre tributi per esigenze belliche, stipulare accordi con
altri Paesi e avanzare proposte di legge. Duravano in carica un anno e potevano
essere rieletti solo dopo dieci anni. Al consolato poteva seguire la censura, i cui
membri erano responsabili dello stato morale della città, avviavano grandi lavori
pubblici e, selezionavano i membri del Senato e potevano decretarne l'espulsione.
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CAVE CANEM
Cave canem (lat. “Fai attenzione al cane”), viene usato spiritosamente al giorno
d’oggi come cartello d’avviso all’ingresso delle abitazioni per dire appunto “attenti al
cane”.
La scritta deriva da un famoso mosaico richiamante il cave canem che si trova negli
scavi archeologici di Pompei, sul pavimento d’ingresso della casa del Poeta Tragico;
in un altro mosaico, privo di iscrizione, dove il cane è rappresentato alla catena
presso una porta semi aperta e visibile, sempre a Pompei, all’ingresso della casa di
Paquio Proculo.
DO UT DES
“Io do affinchè tu dia” è uno dei quattro famosi contratti del diritto romano ( gli altri
tre sono : “do ut facias” , “facio ut des” e “facio ut facias” ) si riferisce precisamente a
una permuta, cioè a uno scambio di due cose diverse, indica un contratto stipulato tra
due persone. Nel linguaggio comunque invece è tipica di quei contesti in cui si agisce
solo e soltanto se si ha un proprio tornaconto. In tempi antichi quando non esisteva la
moneta tutto il commercio si svolgeva secondo questo principio di scambio. Questa
frase è stata citata nel Digesto di Giustiniano nella parte che si riferisce alle norme
giuridiche per stabilire il rapporto di scambio tra due soggetti giuridici.
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QUOT HOMINES TOT SENTENTIAE
Frase attribuita a Terenzio (quot capita tot sententiae):
«Ego sedulo hunc dixisse credo; verum itast.
Quot capita tot sententiae suo quoique mos».
(Phormio, vv 453-454)
Il senso della massima evidenzia che ciascun individuo possiede la propria personale
opinione ed il proprio gusto personale, i quali difficilmente riescono a collimare con
quelli altrui.
MELIUS EST ABUNDARE QUAM DEFICERE
Melius est abundare quam deficere (lat. «è meglio abbondare che scarseggiare»).
Sentenza latina, di epoca ignota, frequentemente ripetuta nel linguaggio corrente
(anche nella forma ellittica MELIUS ABUNDARE), con sfumature di significato
che variano secondo le circostanze, e comunque applicata a casi concreti in cui si
ritiene più conveniente peccare per eccesso che per difetto.
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MEMINISSE IUVABIT
Virgilio, Eneide, Libro I (lat. farà piacere ricordare)
Enea rincuora i compagni dopo la tempesta che li ha gettati sulle spiagge libiche; la
frase si ripete talora con senso generico, come previsione che un giorno sarà
piacevole, oppure utile, opportuno, ricordare gli avvenimenti attuali.
NOMEN EST OMEN
La locuzione latina Nomen est omen ( lat. "il nome è un presagio"), deriva dalla
credenza dei Romani che nel nome della persona fosse indicato il suo destino. Oggi la
locuzione è usata quando nel nome o nel cognome di una persona si ravvisano parole
e significati che possono ricollegarsi alla sua professione, alla sua personalità, alla
sua condotta o, più in generale, ad altri aspetti della sua vita. Viene usata anche con
accezione sarcastica quando nel nome, o nel cognome, della persona è ravvisabile un
significato dispregiativo o comunque ingiurioso, specie se inserita in un contesto di
critica o denigratorio, o in cui tali accezioni risultano calzanti alla personalità
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VOX POPULI, VOX DEI
Questo antico proverbio stabilisce la verità d'una cosa, quando il popolo è concorde
nell'affermarla: per questo si attribuisce comunemente il marchio della verità ai
proverbi coniati dall'esperienza e dalla logica popolare. Si ripete in adunanze, quando
la maggior parte dei convenuti è d'accordo su un dato argomento.
Lo stesso Alessandro Manzoni usa molto spesso questa locuzione nei Promessi Sposi,
come nel caso della folla che mette a ferro e fuoco Milano.
PANEM ET CIRCENSES
Duas tantum res anxius optat panem et
circenses
"Due sole cose ansiosamente desidera
il pane e i giochi circensi"
Questa frase è da attribuirsi al poeta latino Giovenale, un grande autore satirico della
Roma augustea, che si dedicò alla satira in quanto amava descrivere l'ambiente in cui
viveva, in un’ epoca in cui, molto spesso, chi governava si guadagnava il consenso
del popolo grazie a giochi circensi ed elargizioni sia di denaro sia di frumento
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Primi
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CARPE DIEM
«Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quid erit, pati.
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero».
Non chiedere tu mai quando si chiuderà la tua vita, la mia vita, non tentare gli
oroscopi d’oriente: male è sapere, Leuconoe. Meglio è accettare quello che verrà,
gli altri inverni che Giove donerà, o se è l’ultimo, questo che stanca il mare etrusco
e gli scogli di pomice leggera.
Ma sii saggia: e filtra il vino, e recidi la speranza lontana, perché breve è il nostro
cammino, e ora, mentre si parla, il tempo è già in fuga, come se ci odiasse!
Così cogli la giornata, non credere al domani.
“”CARPE DIEM” è una delle odi più famose del poeta latino Orazio e costituisce,
nella sua brevità, una profonda riflessione sul senso della vita. Il poeta si rivolge alla
donna amata, Leuconoe, invitandola a non chiedere quale sia il destino che gli dei
hanno riservato per lei e a non confidare sugli oroscopi, perché a nessuno è dato
conoscere il futuro. La parte iniziale dell’ode istituisce un’atmosfera colloquiale e
dialogica, presentando il discorso come se fosse un frammento di una conversazione
avvenuta in un’occasione simposiale. L’introduzione della figura femminile allude ad
un’atmosfera sentimentale; si intuisce, infatti, che Leuconoe è innamorata del poeta e
ha interrogato gli indovini caldei per conoscere il suo destino e quello della persona
amata, ma Orazio, con parole di ammonimento (nec Babylonios temptaris), risponde
alle preoccupate indagini di Leuconoe (quem mihi, quem tibi finem), rappresentate
con frasi costituite da enjambement che danno vita ad una certa ansietà ritmica
mirante a rispecchiare le preoccupazioni della ragazza. Il termine “finem” non ha
solamente il significato di “termine della vita”, ma è in qualche modo collegato alla
richiesta di un oroscopo che indaghi il tempo dell’amore, oltre a quello della vita, ed
è proprio qui che il poeta invita la donna a godere del presente e ad affrontare gli
eventi man mano che si susseguono, senza fare troppo affidamento sul futuro: l’unico
a conoscere la durata della nostra vita è Giove e a lui spetta deciderne il corso. Il
poeta, infatti, è consapevole del fatto che non convenga andare oltre nella conoscenza
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del futuro (scire nefas), altrimenti l’uomo sarà punito, non tanto dagli dei, quanto
dall’impossibilità di vivere l’oggi, una volta che sia disvelato il domani. Si tratta di
una filosofia che, sebbene male interpretata e identificata con un gretto edonismo,
pone in primo piano la libertà dell’uomo nel gestire la propria vita e nell’essere
responsabile del proprio tempo, perché, come dice il poeta stesso “Dum loquimur,
fugerit invida aetas” (mentre parliamo fugge l’invido tempo). L’ode risulta, quindi,
essere influenzata da un fondo di filosofia epicurea, riconoscibile nell’esortazione a
saper sopportare quel che sarà (quidquid erit pati!) e a godere i piaceri immediati
della vita, accettando qualunque cosa senza subirla passivamente. La nostra, dunque,
è la condizione di chi vive nel tempo, ma da esso dobbiamo in un certo senso
prescindere, se non vogliamo farci troppo condizionare dal confronto con il passato e
dall’attesa del futuro. Il messaggio della poesia è certamente un messaggio etico,
costituito in questo caso da un invito a non sciupare la breve vita umana inutilmente,
ma a viverla fino in fondo, intensamente e giorno dopo giorno. L’ode si apre con il
pronome personale “tu” che funge da soggetto ed è collocato in posizione di rilievo,
anche per l’implicita antitesi che sembra contenere “tu non farlo, lascia che a farlo
siano gli altri…” ed è seguito dal verbo ne quesieris (non indagare) usato
correntemente per la consultazione degli indovini. L’abilità del poeta si riscontra
anche nel linguaggio, infatti l’esortazione a Leuconoe è contenuta soprattutto nei
congiuntivisapias, liques, reseces, e da numerose figure retoriche come
la sineddoche nel verso 4 in cui la parola “hiemes” (inverni) viene utilizzata per
esprimere gli anni a noi concessi dagli dei, e nei versi successivi si trova un’antitesi
che mette in contrapposizione l’eventuale brevità di una vita vissuta fino all’ultimo
respiro, rispetto ad una vita passiva e piatta. L’immagine dell’inverno e del mare
“fiaccato” dalla tempesta simboleggia, invece, i contrasti della vita e si oppone alla
serenità del convito stesso, in quanto si crede che la poesia abbia come scenario
esterno del simposio una giornata d’inverno. Attraverso una metafora Orazio ci invita
a non sperare troppo nel domani, bisogna “resecere” (tagliare) pertanto quelle
speranze che, come i rami da potare, sono troppo lunghe se confrontate con la brevità
della vita; le attese devono essere limitate a quel poco che è a portata di mano. La
poesia esprime, dunque, sia una forza positiva dovuta al messaggio del “Carpe
Diem”, sia un tono elegiaco e malinconico dovuto al tema della rassegnazione e della
fugacità del tempo.
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Il Carpe diem nel cinema e nella cultura
Il tema del carpe diem è stato riproposto (con poesia e vigore) in anni recenti nel
film L'attimo fuggente. In questa pellicola la massima oraziana è esemplificata dal
comportamento di Neil Perry (l'attore Robert Sean Leonard) che, senza lasciarsi
condizionare dai timori di un prevedibile rimprovero del padre, ha seguito il suo
sogno di recitare nell'unica occasione che gli si è presentata. In modo analogo, ma
con conseguenze più positive, aderisce al messaggio oraziano l'amico Knox
Overstreet (Josh Charles) quando bacia la ragazza della quale è innamorato.
Nel Rinascimento, il tema del Carpe Diem sarà distorto in un invito al godimento
effimero finché dura la giovinezza, concezione mirabilmente esemplificata nella
prima strofa della Canzona di Bacco composta da Lorenzo de' Medici e inclusa
nei Canti Carnascialeschi
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TU QUOQUE BRUTE FILI MI
Tu quoque, Brute, fili mi! (lett.: Anche tu, Bruto, figlio mio!) è un'espressione latina
attribuita a Giulio Cesare. Si narra che queste siano state le ultime parole da lui
pronunciate, quando, in punto di morte (Idi di marzo del 44 a.C.), subendo le
coltellate dei congiurati, riconobbe fra i volti dei suoi assassini quello di Marco
Giunio Bruto. Svetonio afferma che Giulio Cesare pronunciò questa frase in greco.
Occorre sottolineare che il termine filius non è da prendersi alla lettera. Bruto infatti
non era figlio naturale di Cesare, né risulta che da lui fosse stato adottato. Il termine,
piuttosto, dà l’idea della sorpresa provata da Cesare nel vedere fra i congiurati un suo
prediletto, che tante volte aveva salvato da alcune pesanti accuse e presumibili
condanne, non soltanto per una stima profonda nei suoi confronti ma anche per
l’amore verso la madre di lui Servilia.
LE VITE DEI DODICI CESARI
Le Vite dei dodici Cesari in otto libri, sono a noi giunte pressoché complete (manca
solo una breve parte iniziale). Comprendono, in ordine cronologico, i ritratti di dodici
Imperatori romani, tra cui lo stesso Cesare, a cui seguono Augusto, Tiberio, Caligola,
Claudio, Nerone, Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano, Tito, Domiziano. A differenza
di una genealogia introduttiva e di un breve riassunto della vita e della morte del
personaggio, queste biografie non seguono un modello cronologico, bensì uno
schema non rigido, modificabile a seconda delle esigenze dell'autore
«Cascis aversum vulnerat paulum infra
iugulum. Caesar Cascae brachium
arreptum graphio traiecit conatusque
prosilire alio vulnere tardatus est;
utque animadvertit undique se strictis
pugionibus peti, toga caput obvolvit,
simul sinistra manu sinum ad ima
crura deduxit, quo honestius caderet
etiam inferiore corporis parte velata.
Atque ita tribus et viginti plagis
confossus est uno modo ad primum
ictum gemitu sine voce edito, etsi
tradiderunt quidam Marco Bruto
irruenti dixisse: tu quoque fili mihi. »
« Casca lo ferì dal di dietro, poco sotto
la gola. Cesare, afferrato il braccio di
Casca, lo colpì con il suo stilo, poi
tentò di buttarsi in avanti, ma fu
fermato da un'altra ferita. Quando si
accorse che lo aggredivano da tutte le
parti con i pugnali nelle mani, si
avvolse la toga attorno al capo e con la
sinistra ne fece scivolare l'orlo fino alle
ginocchia, per morire più
decorosamente, coperta anche la parte
inferiore del corpo. Così fu trafitto da
ventitré pugnalate, con un solo gemito,
emesso sussurrando dopo il primo
colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a
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di lui: “Anche tu, figlio”. »
Marco Bruto, che si precipitava contro
ODI ET AMO
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
Traduzione - Ti odio e ti amo. Come possa fare ciò, forse ti chiedi .Non lo so, ma
sento che così avviene e me ne tormento.
Odi et amo è il nome ed inizio del carme 85 del poeta latino Catullo; è forse
l’epigramma più noto di tutto il suo Liber, rappresenta il contrasto di sentimenti che
l’amore provoca (ti odio e contemporaneamente ti amo).
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O TEMPORA O MORES
Celebre esclamazione di Cicerone, da lui ripetuta in varie orazioni e divenuta
proverbiale per rimpiangere le virtù passate e deplorare la corruzione imperversante
nella propria epoca: oggi è spesso ripetuta in tono scherzoso o bonariamente
polemico per criticare usi e costumi del presente.
«O tempora, o mores! Senatus haec
intellegit. Consul videt; hic tamen
vivit. Vivit? immo vero etiam in
senatum venit, fit publici consilii
particeps, notat et designat oculis ad
caedem unum quemque nostrum. Nos
autem fortes viri satis facere rei
publicae videmur, si istius furorem ac
tela vitemus. Ad mortem te, Catilina,
duci iussu consulis iam pridem
oportebat, in te conferri pestem, quam
tu in nos [omnes iam diu]
machinaris».
«Che tempi, che costumi! Il Senato
comprende tutto ciò. Il Console vede,
e tuttavia costui vive. Vive? Anzi, è
venuto anche in Senato, diventa
partecipe delle pubbliche decisioni,
nota e, con gli occhi, designa ciascuno
di noi alla strage. Noi, uomini forti,
riteniamo di aver fatto abbastanza per
la salvezza della Repubblica, se
eviteremo la furia e le armi di costui.
Era necessario, o Catilina, che tu fossi
già da tempo condotto a morte per
ordine del Console, e che contro di te
fosse portata quella peste che tu
ordisci quotidianamente contro noi
tutti».
La frase è contenuta nelle Catilinarie, cioè quattro discorsi tenuti
da Cicerone contro Catilina. Vengono collocati idealmente tra la composizione
delle Verrinae (70 a.C.) e delle Filippiche (44-43 a.C.).
Le quattro orazioni deliberative furono pronunciate tra il novembre e il
dicembre del 63 a.C. in seguito alla scoperta e alla repressione della congiura che
voleva minare gli ordinamenti repubblicani, che faceva capo a Catilina.
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NON OMNIS MORIAR
«Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius, quod
non imber edax, non Aquilo inpotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar multaque pars mei
vitabit Libitinam; usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus et
qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene,
comam».
«Ho innalzato un monumento più
duraturo del bronzo e più alto della
mole regale delle piramidi, non la
pioggia che corrode, non l’aquilone
sfrenato o l’infinita serie degli anni e il
susseguirsi delle stagioni potranno
distruggere. Non morirò del tutto, anzi
molta parte di me stesso eviterà l’Ade,
io crescerò continuamente nella lode
dei posteri, finché il pontefice salirà,
con la vergine silenziosa il
Campidoglio. Dove l’Ofanto
rumoreggia violento e dove Dauno
regnò, povero d’acqua su popoli
agresti, si dirà che io, da umile
divenuto famoso, ho tratto per primo in
ritmi italici la poesia Eolica. Cingiti, o
Melpomene, dell’orgoglio ottenuto con
i tuoi meriti e a me cingi di buon grado
con l’alloro Delfico la chioma».
L’ode 30 è una delle più celebri odi di Orazio, che conclude il libro III e quindi la
raccolta poetica pubblicata nel 23 a. C., ha come tema centrale il potere della poesia
di conferire l’immortalità: essa infatti è in grado di resistere al trascorrere del tempo e
di conservare il ricordo dell’autore e mantenerlo quindi in vita attraverso la lode dei
posteri. Il verso utilizzato è l’asclepiadeo minore, introdotto dal poeta Asclepiade di
Samo: come Orazio afferma in questo stesso componimento, egli è stato un
innovatore, un vate ed un maestro per i suoi contemporanei per quanto riguarda il
modo di far poesia, poiché ha introdotto temi nuovi e quotidiani trattandoli con la sua
consueta cura formale e servendosi di metri greci, che i poeti lirici antichi usarono per
trattare temi più aulici. É un intento che Orazio si era proposto fin dall’inizio, dalla
poesia giambica, e che costituisce una sorta di ossimoro tra forma e contenuto.
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MENS SANA IN CORPORE SANO
Mens sana in corpore sano (lat. «mente sana in corpo sano») è una nota sentenza,
tratta da un verso di Giovenale (Sat. X, 356):
«Orandum est ut sit mens sana in
corpore sano»
«Bisogna chiedere agli dèi che la mente
sia sana nel corpo sano»
Nella X satira, quella in cui è contenuta la citazione, Giovenale attacca in particolare
l'ingorda tendenza degli uomini a desiderare tutto ciò che è vano ed effimero,
dimenticando quello che è veramente necessario a costruire lentamente l'umana
felicità. Il poeta sferza coi suoi versi l'umanità intera, che sa riempire le preghiere agli
dei solo del desiderio malato e smodato di ricchezza e potere. Proprio in questo
contesto Giovenale grida sulla carta il nostro motto, per scuotere forse le coscienze
silenziose dei corrotti:
«Allora, se qualcosa vuoi chiedere ai numi...devi pregarli che ti diano una mente
sana in un corpo sano! ».
(Sat. X, vv. 355-356)
La salute fisica e la sanità di pensiero: la sola preghiera che l'uomo deve rivolgere
agli dei. Il benessere psicofisico dell'uomo è dunque l'unico, vero desiderio che è
giusto augurarsi di veder realizzato dalle divinità, per lasciarsi dietro tutti quei beni
che sembrano soltanto tali, ma che in realtà non lo sono affatto.
Questo il pensiero di Giovenale, profondo e molto vero ancora oggi.
Per vivere bene bisogna avere un corpo sano: l'interpretazione errata dell'uomo
moderno: è necessario avere un corpo sano, ovvero stare bene fisicamente, per poter
stare bene anche psicologicamente, cioè nell'anima.
Una singola frase, estrapolata dal suo contesto d'origine, può prendere un significato
anche molto diverso da quello autentico, a causa della "visione deformata" che la
realtà in cui viviamo ci induce ad usare come metro di giudizio e pensiero.
La ricerca smodata della perfezione del corpo: il male del nostro tempo. Nel tempo le
parole di Giovenale hanno assunto un significato che è perfettamente in linea con il
mondo d'oggi, preoccupato – o forse per meglio dire ossessionato - prima di tutto
della "fisicità" delle persone. Ecco il motivo per cui la frase latina ci appare
immediatamente come un invito a curare il corpo: la perfetta forma fisica e la
bellezza estetica rappresentano il tarlo del nostro tempo.
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Peccato che proprio a causa di ciò ci sfugga il significato più vero e certo più sacro
della citazione, spiegato chiaramente dal poeta nei versi successivi della satira:
«Chiedi un animo forte,
che non tema la morte,
che ponga la lunghezza della vita
come l'ultimo dono di natura,
che sappia tollerare qualunque fatica,
che ignori collera, non abbia desideri,
e preferisca le dure fatiche di Ercole,
i suoi travagli, agli amori lascivi,
alle cene e alle piume di Sardanapalo».
(Sat. X. VV 357-365)
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Secondi
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AB UNO DISCE OMNES
Undique visendi studio Troiana iuventus
circumfusa ruit certantque inludere capto.
Accipe nunc Danaum insidias et crimine ab uno disce omnes.
Namque ut conspectu in medio turbatus, inermis constitit atque oculis Phrygia
agmina circumspexit,spondaico
'heu, quae nunc tellus,' inquit, 'quae me aequora possunt accipere?
Da ogni parte per la voglia di vedere la gioventù troiana
sparsa attorno corre e gareggiano a schernire il catturato.
Senti ora le insidie dei Danai e da un misfatto solo conoscili tutti.
Infatti come si fermò in mezzo alle occhiate turbato, inerme e con gli occhi vide
attorno le schiere frige,
"Ahi, disse, che terra ora, quali mari possono accettarmi?
L'espressione latina ab uno disces omnes (lat. da un solo li conoscerai tutti) è l'amara
constatazione di Enea nell'Eneide di Virgilio (Eneide 2, 65-66).
Il secondo libro del poema si apre con il racconto dell'esule Enea sulla caduta della
città di Troia.
Egli narra che i Troiani, dopo aver visto allontanarsi le navi greche, aprirono le porte
della città e trovarono sul lido un enorme cavallo di legno, dono dei Greci a Pallade
Atena. Entusiasti, decisero di portarlo dentro le mura, senza ascoltare i prudenti pareri
dei saggi che sconsigliavano una simile azione. A confermare i Troiani nella loro
scelta, contribuirono poi anche le false parole di Sinone, un prigioniero di origine
greca, che, fingendosi un perseguitato dai suoi stessi compagni, dichiarò che se
qualcuno avesse compiuto una qualsiasi azione sacrilega ai danni del cavallo avrebbe
provocato la rovina di tutti i Troiani.
L'affermazione di Enea, ben consapevole di come le cose siano andate diversamente e
di come l'astuzia dei nemici e l'inganno di Sinone abbiano portato alla rovina di
Troia, è di certo condivisibile da un punto di vista emotivo e artistico, ma non da uno
razionale. Si tratta infatti di una generalizzazione induttiva (dal caso particolare alla
legge universale) molto comune ai nostri giorni, ma che resta un processo arbitrario
non raccomandabile.
Ab uno disce omnes è ormai proverbiale e usata perciò anche in altri contesti. Nella
logica formale, si denomina così il sofisma consistente nel dedurre, da alcuni
particolari forniti dall’esperienza, proposizioni universali (per es.: «alcuni uomini
sono cattivi, dunque gli uomini sono cattivi»).
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ALEA IACTA EST
Alea iacta est (lat. “Il dado è stato lanciato”)- Motto proverbiale già presso gli antichi,
che si ripete tuttora nell’intraprendere un’azione irevocabile.
Secondo Svetonio l’avrebbe pronunciato Cesare al passaggio del Rubicone, ma in
alcune edezioni si legge nella forma imperativa iacta alea esto (si lanci il dado).
Svetonio la riprende probabilmente da Asinio Pollione nel suo De Vita Caesarum.
Divus Iulius la attribuisce a Giulio Cesare che l’avrebbe preferita dopo aver varcato,
nella notte del 10 gennaio del 49 a.C., il fiume Rubicone alla testa di un esercito,
violando apertamente la legge che proibiva l’ingresso armato dentro i confini
dell’Italia e dando il via alla seconda guerra civile.
La traduzione italiana “Il dado è tratto”, pur generalmente divulgata in ogni contesto,
in realtà è frutto di errori e non lascia intuire immediatamente il senso della
locuzione; la traduzione corretta, fedele alla lingua greca sarebbe “sia lanciato il
dado”, ovvero “cominci l’azione, l’impresa”. La frase, probabilmente come citazione
di una commedia di Menandro, fu proferita in greco come tramanda Plutarco nelle
vite
paralele.
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AUDENTES FORTUNA IUVAT
Audentes fortuna iuvat - di Virgilio - è l'esortazione che Turno rivolge ai suoi uomini
per attaccare Enea.
Nel testo si trova letteralmente scritto "Audentis Fortuna iuvat", dove Audentis è
participio presente plurale del verbo audere, forma arcaica di Audentes (accusativo).
Simili frasi sono state pronunciate da diversi autori. Fortuna fortes metuit, ignavos
premit, Fortes fortuna adiuvat, Fortes fortuna iuvat.
Il detto invita ad essere volitivi e coraggiosi davanti a qualsiasi tipo di evento, anche
il più terribile ed imprevisto, poiché la sorte - il "fato" - è dalla parte di coloro che
osano e sanno prendere gli opportuni rischi.
Questa locuzione - assunta come vero e proprio proverbio - è molto diffusa nella
cultura popolare di ogni tempo. Ad essa è in qualche modo riconducibile il motto
dannunziano Memento audere semper.
Sotto questo aspetto, inoltre, un riscontro - in termini di fantasia - è identificabile
nell'eroe coraggioso e senza paura che popola il mondo della narrazione,
tanto filmica quanto letteraria.
La variante popolare audaces fortuna iuvat non è accettabile dato il valore negativo
di audax che richiama l'idea di sfrontatezza, assente invece nell'originale audens che,
al contrario, ha valore positivo.
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FABER EST SUAE QUISQUE FORTUNAE
La locuzione latina Faber est suae quisque fortunae, tradotta letteralmente, significa
"Ciascuno è artefice della propria sorte" (in luogo di "quisque" si trova talvolta
"unusquisque").
La locuzione è presente nella seconda delle due Epistulae ad Caesarem senem de re
pubblica (De rep., 1, 1, 2) attribuite a Sallustio, ma di autenticità molto discussa (non
è improbabile vederle citate come opere dello Pseudo Sallustio).
La frase, che nel tempo ha avuto molto successo e molte rielaborazioni, è attribuita,
nell'opera di Sallustio al console Appio Claudio Cieco: in carminibus Appius ait,
fabrum esse suae quemque fortunae (la forma diversa è soltanto dovuta alla
costruzione della proposizione oggettiva in latino).
L'espressione è caratteristica della teoria dell'homo faber, secondo cui l'unico artefice
del proprio destino è l'uomo stesso; viene talvolta vista come un iniziale contrapporsi
dell'uomo romano all'idea del fato (dominante nel mondo classico), per essere
responsabile protagonista delle sue azioni o nella lotta contro il bisogno e la miseria.
Questa teoria verrà in seguito sviluppata soprattutto durante l'Umanesimo e il
Rinascimento, specialmente alla luce della riconsiderazione del rapporto tra virtù e
fortuna intesa come destino e dell'uomo in genere. Se, infatti, nel Medioevo l'uomo è
considerato succube del destino, nell'Umanesimo e nel Rinascimento esso è visto
come intelligente, astuto ed energico, e perciò capace di utilizzare al meglio ciò che
la natura gli offre ed essere dunque artefice del proprio destino.
24
ERRARE HUMANUM EST, PERSEVERARE AUTEM
DIABOLICUM
La locuzione «errare humanum est, perseverare autem diabolicum» dal latino
«commettere errori è umano, ma perseverare [nell'errore] è diabolico» è una frase
entrata nel linguaggio comune, come aforisma con il quale si cerca d'attenuare una
colpa, un errore, purché sporadico e non ripetuto.
Sostanzialmente essa si rifà (anche se non letteralmente) ad un'espressione
di sant'Agostino, anche se esistono diversi antecedenti in latino precristiano.
Quello che più si avvicina risale a Cicerone (Filippiche XII. 5) «Cuiusvis hominis est
errare: nullius nisi insipientis, in errore perseverare» (è cosa comune l'errare; è solo
dell'ignorante perseverare nell'errore).
Più sfumato Livio (Storie, VIII, 35) «Venia dignus est humanus error» ("ogni errore
umano merita perdono").
La prima fonte cristiana che contenga una frase analoga è San Gerolamo «errasse
humanum est» (Epist. 57.12). In seguito, Sant'Agostino nei suoi Sermones (164, 14)
afferma « Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere»
(cadere nell'errore è stato proprio dell'uomo, ma è diabolico insistere nell'errore per
superbia).
Il significato è chiaro: l'errare è parte della natura umana. Questo, però, non può
essere un'attenuante per reiterare uno sbaglio, quanto piuttosto un mezzo per imparare
dall'esperienza.
25
HOMO HOMINI LUPUS
L'espressione latina Homo homini lupus (lat. "l' uomo è un lupo per l' uomo"), il cui
precedente si legge nel commediografo latino Plauto, riassume efficacemente una
antica e amara concezione della condizione umana che si è tramandata e diffusa nei
secoli, lasciando tracce di sé sia nel pensiero colto sia in alcuni detti popolari e motti
di spirito. Tale concetto dell'uomo nello stato di natura è stato ripreso e discusso
nel XVII secolo dal filosofo inglese Thomas Hobbes. Secondo Hobbes, la natura
umana è fondamentalmente egoistica, e a determinare le azioni dell'uomo sono
soltanto l'istinto di sopravvivenza e di sopraffazione. Egli nega che l'uomo possa
sentirsi spinto ad avvicinarsi al suo simile in virtù di un amore naturale. Se gli uomini
si legano tra loro in amicizie o società, regolando i loro rapporti con le leggi, ciò è
dovuto soltanto al timore reciproco. Nello stato di natura, cioè uno stato in cui non
esista alcuna legge, ciascun individuo, mosso dal suo più intimo istinto, cerca di
danneggiare gli altri e di eliminare chiunque sia di ostacolo al soddisfacimento dei
suoi desideri. Ognuno vede nel prossimo un nemico. Fuori dall'ambito strettamente
filosofico, l'espressione è ancora utilizzata per sottolineare, in tono ora ironico ora
sconsolato, la malvagità e la malizia dell'uomo.
26
LABOR OMNIA VINCIT
Frase latina, dal significato letterale: «la fatica vince ogni cosa» e senso traslato «con
uno sforzo sufficiente si può ottenere qualsiasi risultato».
La frase appare nelle Georgiche di Virgilio (I, 145-146), nella forma
«Labor omnia vicit improbus, et duris
urgens in rebus egestas»
«Ogni difficoltà è vinta dal pesante
lavoro, e dal bisogno che preme nelle
dure vicende»
La frase è contenuta nelle Georgiche composte a Napoli in sette anni (tra il 37 a.C. ed
il 30 a.C.) e suddivise in quattro libri. È un poema didascalico sul lavoro dei campi,
sull’arboricoltura (in particolare della vite e dell’olivo), sull’allevamento e
sull'apicoltura come metafora di un’ideale società umana. Ciascun libro presenta una
digressione: il primo le guerre civili, il secondo la lode della vita agrestre, il terzo la
peste degli animali a Norico, il quarto libro si conclude con la storia di Aristeo e delle
sue api (questa digressione è anche un mito eziologico). In realtà, nella prima stesura
delle Georgiche, la conclusione del IV libro era dedicata a Cornelio Gallo ma, caduto
questi in disgrazia presso Augusto, gli venne ordinato di concludere l’opera in modo
diverso. L’opera fu dedicata a Mecenate. Si tratta sicuramente di uno dei più grandi
capolavori della letteratura latina e l’espressione più alta dell’autentica e vera poesia
virgiliana. I modelli qui seguiti sono Esiodo e Varrone.
27
LUPUS IN FABULA
Locuzione attestata da Terenzio ( Adelphoe, IV, 1,21), ma l’espressione si riscontra
in vari autori, compreso Cicerone.
Si riferisce alle frequenti presenze del lupo nelle favole di Esopo.
Essa viene usata con allusione al fatto che quando appare improvvisamente la
persona di cui stiamo parlando, tutti ammutoliscono, come nelle favole quando arriva
il lupo. La frase però ha anche un significato scherzoso e si usa per dire: stiamo
parlando proprio di te.
ADELPHOE
Gli “ Adelphoe”, è l’ultima commedia composta da Terenzio, che fu rappresentata a
Roma per la prima volta durante i giochi funebri in onore di Lucio Emilio Paolo nel
160 a.C.
La commedia pone al centro della drammatizzazione il tema dell’educazione dei figli.
Protagonisti sono due coppie contrapposte di fratelli: Demea e Micione/ Ctesifonte ed
Eschino.
Demea è un lavoratore, risparmiatore, misantropo, che vive in campagna; Micione è
un uomo aperto e generoso, capace di godere della vita e di farla godere. Eschino
invece è stato affidato alo zio scapolo e senza figli Micione ed è stato educato in
maniera permissiva. Sembra che apparentemente Micione abbia fallito perché
Eschino si è macchiato di gravissime colpe picchiando e portando via da un bordello
una giovane cortigiana. Solo alla fine si scoprirà che egli ha agito per aiutare suo
fratello innamorato della donna. La colpa vera di Eschino è invece quella di non aver
confidato a suo padre adottivo di aver reso incinta una ragazza seria e senza dote, per
vergogna e per timore di non ottenere il permesso alle nozze. La commedia si
conclude come sempre con un lieto fine, che normalizza le situazioni anche se la
posizione di Terenzio nei confronti della giusta educazione risulta non chiara. Infatti
vengono messi a confronto due diversi modelli educativi : uno fondato
sull’autoritarismo paterno che vede nel figlio una persona da trattare con rigidità e
durezza in nome dei valori tradizionali, l’altro che riprende i valori del mondo
ellenistico che è fondato su un rapporto di amichevole confidenza e di
responsabilizzazione, entrambi forse eccessivi.
28
QUIS CUSTODIET IPSOS CUSTODES
« Pone seram, cohibe, sed quis custodiet
ipsos custodes? Cauta est et ab illis
incipit uxor ».
« Spranga la porta, impedisci di uscire,
ma chi controlla i controllori? La moglie
è astuta e comincerà da quelli ».
“Quis custodiet ipsos custodes?” è una locuzione latina tratta dalla
VI Satira di Giovenale, che letteralmente significa: “chi controlla i controllori
stessi?”.
Tra le sedici satire che compongono l'opera di Giovenale, la VI è forse la più nota per
l'argomento: rappresenta un feroce attacco ai vizi delle donne romane e non, ricche e
povere, nobili e plebee, tutte corrotte e Messalina era una di queste.
In un passo del dialogo La Repubblica del filosofo greco Platone (lib. III, cap. XIII)
si asserisce che i custodi dello Stato devono guardarsi dalla ubriachezza, per non
avere essi stessi bisogno di essere sorvegliati. La frase, in latino, recita: Nempe
ridiculum esset, custode indigere custodem. Il significato è: "È naturalmente ridicolo
che un custode debba essere custodito".
Oggi l'espressione latina è ripetuta, seriamente o scherzosamente, per esprimere
sfiducia sulla capacità o sull'onestà di chi ha compiti di custodia o sorveglianza.
29
SI PARVA LICET COMPONERE MAGNIS
Virgilio, Georgica IV, 176 (lat. «se è lecito confrontare le cose piccole con le
grandi»).
Il lavoro visto non più come una condanna, ma come dono divino, viene rivalutato
dal punto di vista etico e culturale. Da questo punto di vista assume una particolare
importanza la figura delle api nella digressione del IV libro. L'autore mostra le api
riprendendo la metafora sociale di Cicerone: esse hanno un’organizzazione
comunitaria, caratterizzata dalla fedeltà alla casa e alle leggi, dalla condivisione delle
risorse e dalla dedizione al lavoro, in una tipica visione stoica della società.
Le api, inoltre, sono disposte anche al sacrificio personale per il bene comune e
mantengono l’assoluta dedizione al capo: tutti elementi del più puro idealismo
augusteo. Con le Georgiche, Virgilio abbandonò la dolcezza consolatoria della natura
presente nelle Bucoliche per trasformare la natura in cultura, grazie al lavoro
dell'uomo.
L’espressione è usata da Virgilio a proposito del paragone che egli istituisce tra il
lavoro delle api e le fatiche dei Ciclopi che fabbricano i fulmini nella fucina
dell’Etna. La usa in tono scherzoso per scusarsi di aver accostato due elementi
differenti per valore o importanza.
30
VENI, VIDI, VICI
« Subito marciò contro di lui con tre legioni e dopo una gran battaglia presso Zela lo
fece fuggire dal Ponto e distrusse totalmente il suo esercito. Nell'annunziare a Roma
la straordinaria rapidità di questa spedizione, scrisse al suo amico Mazio tre sole
parole: "Veni, vidi, vici". »
(Plutarco, Vite Parallele: Alessandro e Cesare)
«Veni, vidi, vici» (lat. Venni, vidi, vinsi) è la frase con la quale, secondo la tradizione,
Gaio Giulio Cesare annunciò la straordinaria vittoria riportata il 2 agosto del 47 a.C.
contro l'esercito di Farnace II a Zela nel Ponto. Lapidaria, sintetica, linguisticamente
"bella", gli ha permesso di raccontare una straordinaria vittoria in tre parole e
significa che per lui è stato facilissimo vincere.
Le parole vengono citate nella Vita di Cesare (50, 6), una delle famose Vite del
biografo greco Plutarco.
« …inter pompae fercula trium
verborum praetulit titulum "Veni, vidi,
vici" non acta belli significantem sicut
ceteris, sed celeriter confecti notam. »
« ...tra le barelle del corteo fece portare
avanti un'iscrizione di tre parole,
"Venni, vidi, vinsi" che evidenziava
non le azioni di guerra, come negli altri
casi, ma la caratteristica della rapida
conclusione. »
(Svetonio, Vita dei Cesari, I, 37)
Ancora oggi tale locuzione è utilizzata, spesso ironicamente, per indicare un'impresa
compiuta con un successo rapido, totale e senza grosse difficoltà.
31
OMNIA MUNDA MUNDIS
Promessi Sposi, capitolo VIII
«Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il padre da una parte, gli
andava sussurrando all'orecchio: - ma padre, padre! di notte... in chiesa... con
donne... chiudere... la regola... ma padre! - E tentennava la testa. Mentre diceva
stentatamente quelle parole, «vedete un poco!» pensava il padre Cristoforo, «se fosse
un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una
povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo...» - Omnia munda mundis, disse poi, voltandosi tutt'a un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non
intendeva il latino. Ma una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l'effetto. Se
il padre si fosse messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebbero mancate
altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al
sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli
parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e
disse: - basta! lei ne sa più di me.
Tutto è puro per quelli che sono puri- cioè quelli che sono di cuore retto, non si
scandalizzano facilmente, ma vedono sempre il lato buono in tutte le cose. Quando
Fra Cristoforo, per far fuggire Lucia e Agnese, le introdusse in chiesa chiudendone
poi la porta, il sagrestano se ne scandalizzò e protestò. Ma Fra Cristoforo gli chiuse la
bocca con questa sentenza che, non essendo capita (perché fra Fazio, il sagrestano,
non sapeva il latino) fece ancor più effetto, come argutamente osserva il Manzoni.
32
Dolci
33
DURA LEX, SED LEX
Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino, significa "La legge è dura, ma è sempre
la legge".
È un invito a rispettare la legge in tutti i casi, anche in quelli in cui è più rigida e
rigorosa, in quanto avendo come prospettiva il risanamento di gravi abusi lesivi del
diritto, privato o pubblico, invita all'osservanza di leggi anche gravose in
considerazione del beneficio della comunità.
Questo motto va riferito al periodo di introduzione delle leggi scritte nell'antica
Roma.
Fino ad allora le leggi venivano tramandate per via orale e quindi si prestavano molto
alla modifica da parte dei giudici, che si rifacevano a tradizioni orali e quindi
introducevano una sorta di arbitrio, perché erano loro i detentori del potere di riferire
la tradizione orale. Così il motto significa: sebbene la legge sia dura, è una legge
scritta, cioè uguale per tutti.
34
EXEMPLIS DISCIMUS
Fedro, Libro 2- Favola 2 (lat. «impariamo dagli esempi»).
«A feminis utcumque spoliari viros,
ament, amentur, nempe exemplis
discimus. Aetatis mediae quendam
mulier non rudis tenebat, annos celans
elegantia, animosque eiusdem pulchra
iuvenis ceperat. Ambae, videri dum
volunt illi pares, capillos homini legere
coepere invicem. qui se putaret fingi
cura mulierum, calvus repente factus
est; nam funditus canos puella, nigros
anus evellerat».
«Impariamo naturalmente da esempi
che gli uomini sono spogliati dalle
femmine, comunque amino, siano
amati. Una donna non rozza teneva un
tale di mezza età, celando gli anni con
eleganza, ma una bella giovane aveva
catturato i sentimenti dello stesso.
Ambedue, mentre volevano sembrare
pari a lui, a vicenda cominciarono a
strappare all’uomo i capelli. E lui che
avrebbe creduto esser acconciato dalla
cura delle donne improvvisamente
divenne calvo; infatti totalmente la
ragazza aveva strappato i bianchi, la
vecchia i neri».
35
GUTTA CAVAT LAPIDEM
Dal IV libro, De Rerum Natura
«Nonne vides etiam guttas in saxa
cadentis
umoris longo in spatio pertundere
saxa? ».
«Non vedi che anche le gocce che
cadono
in lungo spazio di tempo trapassano la
pietra? ».
La locuzione latina gutta cavat lapidem, tradotta letteralmente, significa la goccia
perfora la pietra. Vale come esortazione pedagogica per ricordare che con una ferrea
volontà si possono conseguire obiettivi altrimenti impossibili. Una prima definizione
la troviamo ne IV libro del poema di Lucrezio anche se poi essa viene ripresa e
abbreviata dal poeta Ovidio molte volte nelle sue opere.
36
IN MEDIAS RES
La locuzione latina in medias res significa nel mezzo delle cose (Orazio, Ars poetica,
v. 148).
L'espressione si riferisce allo stile epico di Omero, la cui arte narrativa fa cominciare
il racconto ad avvenimenti già in corso, a differenza di altri poeti che iniziano ab ovo,
cioè da molto lontano, ed è usata infatti per indicare che si desidera entrare nei fatti
narrati cominciando direttamente nel vivo della vicenda, nel mezzo dell'azione, senza
alcun preambolo.
«Nec reditum Diomedis ab interitu Meleagri,
nec gemino bellum Troianum orditur ab ovo;
semper ad eventum festinat et in medias res
non secus ac notas auditorem rapit».
«Né è il ritorno del Diomede dalla morte di Meleagro,
Né la guerra di Troia è iniziata da tempi antichissimi;
sempre è desideroso di arrivare alla fine e allo scopo,
e nel mezzo delle cose cattura chi ascolta».
37
IN VINO VERITAS
In vino veritas è un proverbio latino, dal significato letterale «nel vino è la verità».
Il significato di questo proverbio è che il vino toglie i freni inibitori e, quindi, si
possono facilmente rivelare fatti e pensieri che altrimenti non si direbbero mai. Come
scrive Orazio, «che cosa non rivela l'ebbrezza? Essa mostra le cose nascoste», e
altrove scrive che i re “torturano con il vino colui che essi non sanno se sia degno di
amicizia”.
D'altra parte, il proverbio è contraddetto dal fatto che l'eccesso di vino può fare
concepire false opinioni. A questo proposito, Erasmo da Rotterdam, nell'inserire
questo antico detto nei suoi Adagia, commenta che «non sempre la verità si
contrappone alla menzogna, ma talvolta si contrappone alla simulazione», e perciò
accade che si dicano in buona fede cose false, e anche che si dicano verità pur
parlando in modo insincero. Pertanto, occorrerebbe distinguere un'ubriachezza
sfrenata, che generalmente falsifica la corretta visione della realtà, da una moderata
ebbrezza che «elimina la simulazione e l'ipocrisia».
38
MORS TUA VITA MEA
La locuzione latina Mors tua vita mea, di origine medioevale, significa morte tua, vita
mia (o: la tua morte è la mia vita).
Al di là del tono drammatico del senso letterale, tale espressione si usa quando
all'interno di una competizione o nel tentativo di raggiungere un traguardo ci può
essere un solo vincitore: il detto indica come il fallimento di una persona è spesso il
requisito fondamentale per il successo di un’altra, o enunciata in senso più ampio,
con allusione alle dure leggi della vita e alla lotta per l’esistenza. Non a caso, era la
frase dei gladiatori nell’arena.
Questo detto viene usato anche come esortazione, un po’ cinica, a bandire eventuali
scrupoli e ad approfittare dell’occasione favorevole.
Viene comunemente usata anche per descrivere efficacemente un comportamento
connotato da caratteri opportunistici.
39
ROMA CAPUT MUNDI
L'espressione caput mundi venne utilizzata dal poeta latino Marco Anneo
Lucano nella sua Pharsalia:
L'espressione latina caput mundi, riferita alla città di Roma, significa capitale
del mondo noto, e si ricollega alla grande estensione raggiunta dall'impero romano
tale da fare - secondo il punto di vista degli storiografi imperiali - della città
capitolina il crocevia di ogni attività politica, economica e culturale mondiale.
« Ipsa, caput mundi, bellorum maxima
merces,
Roma capi facilis [...] »
« La stessa Roma, capitale del mondo, la
più importante preda di guerra,
agevole a soggiogarsi [...] »
(Marco Anneo Lucano, Pharsalia, II, 655-656)
40
SEMEL IN ANNO LICET INSANIRE
La locuzione latina «Semel in anno licet insanire» tradotta letteralmente, significa:
«Una volta all'anno è lecito impazzire» (uscire da se stessi).
Il concetto fu espresso, con leggere varianti, da vari autori: Seneca, Sant’Agostino,
ecc.
Orazio la fece propria nella sostanza cambiandone la forma: « Dulce est desipere in
loco» (Carm., IV, 13, 28) «È cosa dolce impazzire a tempo opportuno».
L'espressione nella forma "semel in anno licet insanire" divenne proverbiale
nel Medioevo. Nota sentenza che si cita per giustificare follie passeggere,
generalmente innocue e soprattutto le mascherate e le baldorie.
Questa locuzione è legata ad una sorta di rito collettivo che ricorre in molte culture,
soprattutto occidentali. In un ben definito periodo di ogni anno tutti sono autorizzati a
non rispettare le convenzioni religiose e sociali, a comportarsi quasi come se fossero
altre persone. Questa tradizione è spesso legata alla celebrazione del carnevale.
Si tratta di un rito liberatorio che permette ad una comunità di prepararsi in modo
gioioso all'adempimento dei propri normali doveri sociali.
41
SPES ULTIMA DEA
Spes ultima dea (lat. «la Speranza ultima dea»). – Frase latina spesso usata per
significare che la speranza non viene mai meno o che si può sperare fino all’ultimo,
con riferimento al mito greco della dea Speranza che resta tra gli uomini, a consolarli,
anche quando tutti gli altri dei abbandonano la terra per l’Olimpo. Il detto popolare la
speranza è l’ultima a morire, e anche il verso dei Sepolcri citato nella voce speme.
In questa formulazione il motto appartiene al latino tardo, ma deriva da una
traduzione già richiamata dalle Opere e i giorni di Esiodo, secondo la quale Pandora
avrebbe scoperchiato per curiosità un vaso che le era stato affidato da Zeus,
disperdendo così i beni e riversando sugli uomini tutti i mali; nel vaso sarebbe
rimasta disponibile per l’uomo soltanto la speranza. La speranza è definita dea già in
Euripide. In latino l’analogo concetto di ultima dea per l’uomo si trova in Tibullo e
Ovidio il quale, nelle Epistulae ex Ponto (1,6,27 e segg.) dice: “Haec dea, cum
fugerunt sceleratas numina terras/in dis invisa sola remansit homo” (Questa dea,
quando i numi fuggirono dall’empio mondo, sola rimase sulla terra odiosa agli dei).
Nella letteratura italiana troviamo il detto di Leonardo (Scritti scelti), in Foscolo
(Sepolcri), nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
42
Chef
43
CATULLO
Nacque a Verona nel 87 a.C. da una famiglia benestante e morì tra il 58 e il 54 a.C.
Non ancora ventenne si recò a Roma per perfezionare la propria istruzione ,qui iniziò
a frequentare i Poetae Novi, ovvero una cerchia esclusiva ,aristocratica ,raffinata e
anticonformista di amici che vivevano di poesia e amori liberi.. Durante la sua vita
decise di non partecipare alla vita politica. L’evento più significativo della sua vita fu
l’incontro con Lesbia ,una donna di facili costumi il cui vero nome era Clodia. Il
Liber catulliano è una raccolta di 116 carmi divise per tipologie: la prima definita
“nugae” , la seconda “carmina docta” (“poesie dotte”) e la terza “epigrammi” .Una
parte importante del Liber Catulliano è costituita dai componimenti a sfondo amoroso
dedicati a Lesbia dai quali si evince che la relazione ebbe un principio facile, ma che
nel tempo fu oscurata dai numerosi tradimenti della donna, così da provocare
momenti di gioia e momenti di infelicità per il poeta; odio e amore vengono così a
convivere in una ‘coincidentia oppositorum’ (coincidenza degli opposti) che genera
disorientamento, follia e disperazione. Lo stile catulliano è caratterizzato da una
fusione di linguaggio famigliare e letterario alto poiché nei suoi testi troviamo sia
parole di origine volgare, parlata sia parole contenenti dei grecismi. Numerose sono
le figure retoriche che troviamo, come il chiasmo, allitterazioni, enjambement,
ossimori, climax e metafore.
44
CICERONE
Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. in territorio di Arpino, da famiglia
equestre, e sempre si considerò un puro Arpinate, quasi continuatore del grande
conterraneo Mario.
E nel momento del suo esilio indica alla moglie Terenzia, quale rifugio sicuro, la villa
di Arpino e al suo unico figlio egli darà la toga virile non in Roma, ma nel foro
dell'antica città volsca. Cicerone ben presto fu inviato a Roma dove studiò Retorica e
Diritto, ma anche Filosofia e Lettere e completò la sua preparazione ad Atene e a
Rodi. Il suo cursus honorum iniziò nel 76 a.C. con una rapida e inarrestabile ascesa:
fu questore nella Sicilia orientale, poi edile curule, pretore nel 66 a.C. e console nel
63. La sua oratoria gli aveva aperto la strada alle affermazioni politiche. Nel periodo
turbolento che viveva la Repubblica dei suoi tempi, Cicerone fu personaggio
controverso: ora acclamato pater patriae dopo aver sventato la congiura di Catilina,
ora esiliato per la vendetta di Clodio. In bilico fra il vecchio ed il nuovo fu incerto
nello schierarsi, ma se la sua fede politica sembra mutare, sempre costante fu la sua
fedeltà ai valori morali e alla Repubblica.
Nella lotta fra Cesare e Pompeo si schiera con Pompeo, ma dopo Farsalo si riavvicina
a Cesare. Le Idi di Marzo lo trovano dalla parte dei tirranicidi e con le Filippiche si
scaglia contro Antonio.
Quando questi si accorda con Ottaviano, Cicerone capisce che la sua fine è vicina. E
allora tutto, indecisione, incertezza, opportunismo, fu riscattato dalla sua morte
affrontata consapevolmente, anzi cercata, e alte suonano le parole della seconda
Filippica: "Ed ora per me, o Senatori, la morte rappresenta un desiderio ... Una sola
cosa desidero: di lasciare libero morendo il popolo romano. Niente di più bello può
essermi concesso dagli dei immortali". Infatti raggiunto a Formia dai sicari di
Antonio, gli fu troncata la testa che egli aveva sporto dalla lettiga.
Era il 7 dicembre del 43 a.C. Le Verrine, le Catilinarie, le Filippiche furono i
momenti più alti della sua oratoria; il De legibus, il De Officiis, il De Republica,
le Tuscolanae Disputationes sono l'espressione del Cicerone pensatore, studioso,
interprete dell'anima latina. Le Epistolae, infine, sono il documento che ci rivela
l'umanità, l'inquietudine, i dubbi e le angosce dell'uomo Cicerone.
45
FEDRO
Fedro (15 ca. a.C. - 50 ca. d.C.) fu un favolista latino che sotto Tiberio pubblicò
nell'arco di alcuni anni, una raccolta di cinque libri, che gli valsero anche un processo
nel 31 d.C., per avere disturbato Seiano e i potenti di allora. Trovò in seguito
protezione presso altri liberti. I libri di Fedro, in senari giambici, sono per lo più
apologhi di animali secondo il modello greco. Le raccolte di favole in prosa assegnate
a Esopo, al quale Fedro dichiarò di ispirarsi, sono più tarde (risalgono al II-V secolo
d.C.); in ogni caso, raccolte di favole in versi non esistevano prima di Fedro. A lui,
che nei prologhi dimostra una crescente autonomia dal modello, spetta il merito di
aver elevato la favola alla dignità di genere letterario autonomo: prima di lui la favola
esopica era rimasta al margine della cultura ufficiale, perché esprimeva il mondo
degli schiavi e dei poveri, di quelli che non contano. Fedro ripropose, attraverso
l'apologo animale, il quadro di una società in cui dominano, in modo crudo, i rapporti
di forza tra gli uomini.
46
GIOVENALE
Poeta latino vissuto nel I secolo d.C. a Roma, noto per la sua satira "indignata", che
prende cioè ispirazione direttamente dalla degenerazione dell'umanità che il poeta
osserva intorno a sé giorno dopo giorno. Corruzione degli animi, accumulo senza
scrupoli di potere e denaro, conseguente decadenza dei costumi: queste le tematiche
affrontate dal poeta satirico nei suoi scritti sferzanti.
Biografia
Le notizie sulla sua vita sono poche e incerte, ricavabili dai rari cenni autobiografici
presenti nelle sue sedici Satire scritte in esametri giunte fino ad oggi e da alcuni
epigrammi a lui dedicati dall'amico Marziale. Giovenale nacque ad Aquino, nel Lazio
meridionale, da una famiglia benestante che gli permise di ricevere una buona
educazione retorica poiché nella prima satira, databile poco dopo il 100 d.C., si
definisce non più iuvenis (v.25) —il che implica che avesse almeno quarantacinque
anni— la data di nascita si può indicare approssimativamente fra il 50 e il 60. Intorno
ai trent'anni cominciò forse ad esercitare la professione di avvocato, dalla quale però
non ebbe i guadagni sperati e ciò lo convinse a dedicarsi alla scrittura, alla quale
arrivò in età matura, circa a quarant'anni. Visse soprattutto all'ombra di uomini
potenti, nella scomoda posizione di cliens, privo di libertà politica e di autonomia
economica: è probabilmente questa la causa del pessimismo che pervade le sue satire
e dell'eterno rimpianto dei tempi antichi. Scrisse fino all'avvento
dell'imperatore Adriano e non si sa con certezza la data della sua morte, sicuramente
posteriore al 127, ultimo termine cronologico ricavabile dai suoi componimenti.
Ideologia e pensiero
Giovenale considerò la letteratura mitologica ridicola in quanto troppo lontana dal
clima morale corrotto in cui viveva la società romana del suo tempo: egli considerò la
satira indignata non soltanto la sua musa, ma anche l'unica forma letteraria in grado di
denunciare al meglio l'abiezione dell'umanità a lui contemporanea. In quanto scrittore
di satire, Giovenale è stato spesso accostato a Persio ma tra i due vi è una profonda
differenza: Giovenale non crede che la sua poesia possa influire sul comportamento
degli uomini perché, a suo dire, l'immoralità e la corruzione sono insite nell'animo
umano. L'intento moralistico (cosi come in Persio) è una delle componenti più
importanti della poetica di Giovenale, così come l'astio sociale: a suo dire, non ci
sono più le condizioni sociali che possano portare alla ribalta grandi letterati
come Mecenate, Virgilio ed Orazio nel periodo augusteo perché il poeta, nella Roma
dei suoi tempi, è bistrattato e spesso vive in condizioni di estrema povertà tanto che
spesso è la miseria che lo ispira. Questa radicale avversione contro le iniquità e le
ingiustizie, è stata interpretata da alcuni come segnale di un atteggiamento
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democratico di Giovenale. Più che un democratico, Giovenale fu un idealizzatore del
passato, ovvero quel buon tempo in cui il governo era caratterizzato da una sana
moralità "agricola". Questa utopica fuga dal presente rappresenta l'implicita
ammissione della frustrante impotenza di Giovenale, dato che nemmeno lui era in
grado di "muovere le coscienze". Negli ultimi anni della sua vita il poeta rinunciò
espressamente alla violenta ripulsa dell'indignazione ed assunse un atteggiamento più
distaccato, mirante all'apatia, all'indifferenza, forse allo stoicismo, riavvicinandosi a
quella tradizione satirica da cui in giovane età si era drasticamente allontanato. Le
riflessioni e le osservazioni, un tempo dirette ed esplicite, divennero generali e più
astratte, oltreché più pacate.
Bersaglio privilegiato delle satire di Giovenale sono le donne, in special modo quelle
emancipate e libere tra le matrone romane, che per il loro disinvolto muoversi nella
vita sociale personificano agli occhi del poeta lo scempio stesso del pudore. Quelli
che egli considerava i vizi e le immoralità dell'universo femminile gli ispireranno
la satira VI, la più lunga, che rappresenta uno dei più feroci documenti
di misoginismo di tutti i tempi, dove campeggia la cupa grandezza di Messalina,
definita Augusta meretrix ovvero "prostituta imperiale". Messalina viene presentata
appunto come un'entità dalla doppia vita: non appena suo marito Claudio si
addormenta, ne approfitta per prostituirsi in un lupanare fino all'alba, "lassata viris
necdum satiata" (stanca di tanti, ma non soddisfatta). Le descrizioni dei
comportamenti delle matrone romane da parte di Giovenale sono infatti spesso aspre
e crude: frequenti sono i tratti quasi irreali di scialacquatrici senza il minimo freno
morale che non badano alla povertà alle porte perseverando in esistenze fatte dei più
turpi misfatti.
Altro comune bersaglio di Giovenale fu l'omosessualità, che si traduce per lui e per il
mondo cui appartiene in una fatidica bolla d'infamia. Giovenale conosce e distingue
due diversi tipi di "omosessuale":
 quello che per natura proprio non può dissimulare la sua condizione (quindi
perdonato e tollerato, poiché è il suo destino e non certo una colpa);
 quello che per ipocrisia si nasconde di giorno pontificando rabbiosamente sulla
corruzione degli antichi costumi romani, per poi sfogarsi di notte lontano da
occhi indiscreti.
Entrambi questi tipi vengono condannati da Giovenale, poiché omosessuali, ma il
secondo in modo particolare, per essersi reso ancora più odioso dall'alto del suo
piedistallo di falso censore: ecco, quindi, che si ritrova quella carica anti-moralistica
che è un aspetto fondamentale della sua poetica. Il disprezzo per le convenzioni è
bilanciato da una mitizzazione pressoché integrale del passato, secondo il
tipico topos della perduta età dell'oro, quella dei popoli latini pastori e agricoltori non
ancora contaminati dai costumi orientali: infatti Giovenale contrappone sempre
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l'omosessuale molle, urbano e raffinato al ruvido e pio contadino repubblicano, in cui
si concentrano per contrasto tutte le qualità di una civiltà guerriera gloriosa e perduta.
LUCANO
Marco Anneo Lucano (39 d.C.- 65 d.C.) è stato un poeta romano.
Sulla vita di Lucano ci sono giunte molte biografie antiche tra cui quella di Svetonio.
Marco Anneo Lucano nacque a Cordova nel 39 d.C. da Marco Anneo Mela, fratello
di Seneca. Già nel 40 si trasferisce con la famiglia a Roma dove è allievo dello
stoico Lucio Anneio Cornuto. Entra a far parte della cerchia di amici intimi
dell'imperatore Nerone che gli concede di ricoprire la Questura ed entra a far parte
del collegio degli auguri. Nel 60 partecipa ai Neronia, i certamina poetici indetti da
Nerone, e vi recita le sue laudes indirizzate al principe. Per motivi incerti si crea una
rottura tra Nerone e Lucano e quest'ultimo aderisce infine alla congiura di Pisone.
Altri invece attribuiscono la rottura fra i due solamente all'invidia di Nerone, il quale
sarebbe stato geloso dei successi di Lucano e avrebbe proibito al poeta di far versi e
di praticare l'attività forense. Questo, spinto dall'intemperanza del suo animo
giovanile avrebbe aderito alla congiura poiché adirato per il divieto di Nerone.Tacito
ci racconta che una volta scoperta la congiura, Lucano negò insieme ad altri due suoi
compagni congiurati, Quinziano e Senecione, il proprio coinvolgimento nel
complotto e solo davanti a una promessa di impunità il poeta denunciò addirittura la
madre. Tuttavia riporta Tacito che la madre Alicia dopo la denuncia non fu né
condannata né assolta, ma semplicemente dissimulata, non fu considerata. A lui come
a molti altri viene dato l'ordine di togliersi la vita; Lucano muore nel 65 d.C. a 25
anni.
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ORAZIO
Orazio nacque l'8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, colonia romana fondata in
posizione strategica tra Apulia e Lucania, nell'attuale Basilicata, figlio di un liberto
che si trasferì poi a Roma per fare l'esattore delle aste pubbliche,compito poco
stimato ma redditizio. Il poeta era dunque di umili origini, ma di buona condizione
economica. Orazio seguì perciò un regolare corso di studi a Roma, sotto
l'insegnamento del grammatico Orbilio e poi ad Atene, all'età di circa vent'anni, dove
studiò greco e filosofia presso Cratippo di Pergamo. Qui entrò in contatto con la
lezione epicurea ma, sebbene se ne sentisse particolarmente attratto, decise di non
aderire alla scuola. Sarà all'interno dell'ambiente romano che Orazio aderirà alla
corrente, la quale gli permise di trovare un rifugio nell'otium contemplativo. Il poeta
espresse la sua gratitudine verso il padre in un tributo nelle Satire (I, 6). Quando
scoppiò la guerra civile Orazio si arruolò, dopo la morte di Cesare, nell'esercito di
Bruto, nel quale il poeta incarnò il proprio ideale di libertà in antitesi alla tirannide
imperante e combatté come tribuno militare nella battaglia di Filippi (42 a.C.), persa
dai sostenitori di Bruto e vinta da Ottaviano. Nel 41 a.C. tornò in Italia grazie a
un'amnistia e, appresa la notizia della confisca del podere paterno, si mantenne
divenendo segretario di un questore, in questo periodo cominciò a scrivere versi, che
iniziarono a dargli una certa fama. Nel 38 a.C. venne presentato a Mecenate da
Virgilio e Vario, probabilmente incontrati nel contesto delle scuole epicuree di
Sirone, presso Napoli ed Ercolano. Dopo nove mesi Mecenate lo ammise nel suo
circolo. Da allora Orazio si dedicò interamente alla letteratura. Mecenate gli donò nel
33 a.C. un piccolo possedimento in Sabina, le cui rovine sono ancor oggi visitabili nei
pressi di Licenza, cosa molto gradita al poeta che, in perfetta osservanza del modus
vivendi predicato da Epicuro, non amava la vita cittadina. Con la sua poesia fece
spesso azioni di propaganda per l’imperatore Augusto, anche se, a dire il vero, in
questo periodo Ottaviano lasciò una maggiore libertà compositiva ai suoi. Esempi di
propaganda augustea sono, ad ogni modo, alcune Odi e il Carmen saeculare,
composto nel 17 a.C. in occasione della ricorrenza dei Ludi Saeculares. Morì nel
novembre dell'8 a.C. all'età di 57 anni e fu sepolto sul colle Esquilino, accanto al suo
amico Mecenate, morto solo due mesi prima.
Gli Epodi, in tutto 17, iniziati nel 41 e composti fino al 30 a.C., sono componimenti
di natura polemica, in metro giambico, in cui generalmente si nota una carica di
aggressività insolita nel resto della produzione oraziana. Tale carattere va comunque
motivato con i modelli greci presenti prescelti, come Ipponatte e Archiloco.
Tuttavia all’interno dell’opera si nota una varietà di temi, delle invettive nei confronti
di personaggi squallidi e ostili, come la maga Canidia, alla preoccupazione per le
sorti di Roma, o ancora all’amore e all’amicizia.
Le Satire, chiamate dall’autore Sermones, cioè “chiacchierate alla buona” ,
esprimono invece un atteggiamento più pacato nei confronti dei difetti degli uomini e
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insieme l’ideale di serenità raggiunto dal poeta. I due libri in cui le Satire oraziane
sono suddivise ( 10 nel primo e 8 nel secondo) furono composti in esametri dal 40 al
30 a.C. e contengono molti temi diversi: morali, come l’analisi delle passioni e dei
difetti degli uomini, personali, come il ricordo della figura del padre, il racconto del
viaggio a Brindisi con gli amici Mecenate e Virgilio, e l’episodio del seccatore che lo
segue nel Foro e non lo molla per tutta una mattinata; letterari come la difesa della
poesia satirica e il suo collegamento con Lucilio, indicato come inventore del genere,
anche se poco accurato nella scrittura.
Le Odi, dal poeta chiamate Carmina, furono composte dal 30 al 23 a.C., quando il
poeta pubblicò i primi tre libri, successivamente, nel 13, ne aggiunse un quarto, per
un totale di 103 componimenti.
Le Odi nel panorama della produzione di Orazio possono definirsi come l’opera più
augustea cioè più impegnata e più corrispondente all’ideologia del principato.
Le tematiche sono varie e riprendono motivi propri della riflessione oraziana, come
l’amore per la vita semplice della campagna, il senso della fugacità del tempo, la
saggezza di saper cogliere l’ attimo fuggente, l’amore e l’ amicizia. Accanto ad essi si
inseriscono però motivi civili, come quelli dell’esaltazione delle antiche virtù romane
e a condanna per la corruzione presente, e nel quarto libro addirittura motivi
celebrativi della politica di Augusto e della grandezza di Roma.
La varietà dei temi corrisponde anche ad una varietà di metri e modelli, questi sono
tutti appartenenti alla lirica eolica con particolare preferenza per Alceo.
Le Epistole, in due libri, il primo, di venti componimenti, pubblicato nel 20, il
secondo, soltanto di tre, nel 13 a.C., riprendono le conversazioni sui temi esistenziali,
morali e culturali, già sperimentate nelle Satire. Tuttavia più che all’esterno, il poeta
ora guarda alla sua interiorità e parla come a se stesso, ormai quasi del tutto
disinteressato di quello che è il mondo intorno a lui: gli amici a cui le epistole sono
indirizzate sono una finzione letteraria. Dalle tre epistole del II libro, tutte di
argomento letterario, è notevole la terza, conosciuta come Ars poetica, in cui l’ autore
espone i principi estetici classici, per cui la poesia è il risultato dell’ingenium ( la
creatività) e dell’ars ( il lavoro stilistico e formale) .
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PLAUTO
Tito Maccio Plauto ( Sarsina, tra il 255 e il 250 a.C. – 184 a. C.) è stato un
commediografo romano. Plauto fu uno dei più prolifici e importanti autori
dell'antichità latina. Sembra che nel corso del II secolo circolassero qualcosa come
centotrenta commedie legate al nome di Plauto: non sappiamo quante fossero
autentiche, ma la cosa era oggetto di viva discussione.
Restano di lui 21 commedie dette “Varroniane”, perché esaminate dall’erudito
Varrone . Tra le principali ricordiamo: Miles Gloriosus, Aulularia, Captivi, Casina,
Menaechmi, Mostellaria.
Lo schema delle commedie è formato da un prologo (personaggio della vicenda) che
illustra l’antefatto, un intreccio amoroso con spesso un adulescens che si innamora di
una ragazza e un lieto fine.
Protagonista è il Servus Callidus che grazie alla sua astuzia aiuta il ragazzo a
risolvere il problema; pertanto le commedie di Plauto si dividono in: commedie del
Servus Callidus e commedie degli Equivoci.
La grande comicità generata dalle commedie di Plauto è prodotta da diversi fattori:
un’ oculata scelta del lessico, un sapiente utilizzo di espressioni e figure tratte dal
quotidiano e una fantasiosa ricerca di situazioni che possano generare un effetto
comico.
È grazie all’unione di queste trovate che si ha lo straordinario effetto dell’elemento
comico che traspare da ogni gesto e da ogni parola dei personaggi.
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PLUTARCO
Plutarco (46/48 d.C. – 125/127 d.C.), è stato un biografo, scrittore e filosofo greco
antico, vissuto sotto l'Impero Romano, di cui ebbe anche la cittadinanza e ricoprì
incarichi amministrativi. Studiò ad Atene e fu fortemente influenzato dalla filosofia
di Platone. La sua opera più famosa sono le Vite parallele, biografie dei più famosi
personaggi dell'antichità. Durante l'ultima parte della sua vita fu sacerdote al
Santuario di Delfi.
Le opere di Plutarco vengono, per convenzione secolare, divise in due grandi blocchi:
Vite Parallele, Moralia
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SAN PAOLO
Paolo (o Saulo) di Tarso, noto come san Paolo, è stato l'«apostolo dei Gentili»,
ovvero il principale (secondo gli Atti degli Apostoli non il primo) missionario del
Vangelo di Gesù tra i pagani greci e romani. Secondo i testi biblici, Paolo era un
ebreo
ellenizzato
che
godeva
della
cittadinanza
romana.
Era figlio di farisei e arrivò, come tanti connazionali, a perseguitare direttamente la
neo-istituita Chiesa cristiana. Sempre secondo la narrazione biblica Paolo si convertì
al cristianesimo mentre, recandosi da Gerusalemme a Damasco per organizzare la
repressione dei cristiani della città, fu improvvisamente avvolto da una luce
fortissima e udì la voce del Signore. Reso cieco da quella luce divina, Paolo vagò per
tre giorni a Damasco, dove fu poi guarito dal capo della piccola comunità cristiana di
quella città. L'episodio, noto come "Conversione di Paolo", diede l'inizio alla sua
opera di evangelizzazione.
Come gli altri primi missionari cristiani, rivolse inizialmente la sua predicazione agli
Ebrei, ma in seguito si dedicò prevalentemente ai «Gentili». Fu fatto imprigionare
dagli Ebrei a Gerusalemme con l'accusa di turbare l'ordine pubblico. Appellatosi al
giudizio dell'imperatore – come era suo diritto, in quanto cittadino romano –, Paolo
fu condotto a Roma, dove fu costretto per alcuni anni agli arresti domiciliari,
riuscendo però a continuare la sua predicazione. Morì vittima della persecuzione di
Nerone, decapitato probabilmente tra il 64 e il 67.
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SVETONIO
Gaio Svetonio Tranquillo 70-126 d.C. è uno scrittore romano d'età imperiale,
fondamentale esponente del genere della biografia. Fu un erudito, vista la grande
mole di opere dallo stesso composte negli ambiti più svariati (in parte scritte in
greco). Fu figura di antiquario, studioso enciclopedico, con grande interesse per le
antichità e la cultura romana, accostabile a Marco Terenzio Varrone per le
caratteristiche della produzione. Ad Ostia ebbe la carica religiosa locale di pontefice
di Vulcano. Studiò retorica e giurisprudenza, divenendo avvocato. Ricoprì cariche
importanti sotto l'imperatore Adriano, e forse già sotto Traiano, entrando a far parte
del personale a più stretto contatto con l'imperatore. Fu infatti il suo segretario
personale , ed in tale qualità aveva accesso ai documenti più importanti degli archivi
imperiali. Della sua vita non si hanno molti altri dati certi. L'ultimo è il suo
allontanamento da parte dell'imperatore Adriano nel 122, per motivi non chiari.
Anche la data di morte non è del tutto sicura, ed è posta attorno al 126.
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TERENZIO
Publio Terenzio Afro, in latino Terentius Afer (Cartagine 185 a.C. circa- Stinfalo,
159 a.C.), fu un commediografo di lingua latina , attivo a Roma dal 166 a.C. al 160
a.C.
Arrivò a Roma come schiavo del senatore Terenzio Lucano che lo educò nelle arti
liberali, e in seguito lo affrancò; il ragazzo assunse pertanto il nome di Publio
Terenzio Afro. Fu in stretti rapporti con il Circolo degli Scipioni ed in particolare con
Gaio Lelio e Scipione Emiliano da cui riprende il concetto di “Humanitas”.
Morì mentre si trovava in viaggio in Grecia nel 159 a.C. all’età di 26 anni.
Terenzio scrisse soltanto sei commedie, tutte giunte a noi integralmente.
Si adattò alla commedia greca; in particolare segue i modelli della Commedia Nuova
attica e, soprattutto, di Menadro. L’opera di Terenzio non si limitò a una semplice
traduzione e riproposizione degli originali greci. Terenzio, infatti, praticava la
contaminatio, ovvero introduceva all’interno di una stessa commedia personaggi ed
episodi appartenenti a commedie diverse, anch’esse comunque di origine greca. Tra
le opere più importanti troviamo: L’Hecyra, il Heautontimorumenos, l’Eunuchus,
l’Adelphoe e il Phormio.
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VIRGILIO
Publio Virgilio Marone (Andes, 70 a.C. – Brindisi, 19 a.C.), fu un poeta romano.
Nacque il 15 ottobre del 70 a.C. vicino Mantova, e precisamente nel villaggio
di Andes, località identificata dal XIII secolo con il borgo di Pietole in tal senso si
esprime Dante nella Divina Commedia (Purgatorio, 18,83). Il padre era un piccolo
proprietario terriero. Virgilio studiò prima a Cremona, poi a Milano ed infine a
Roma lettere greche e latine, ma anche matematica e medicina. Qui conobbe molti
poeti e uomini di cultura e si dedicò alla composizione delle sue opere, portando a
termine la propria formazione oratoria studiando eloquenza alla scuola di Epidio, un
maestro importante di quell’epoca. Lo studio dell’eloquenza doveva fare di lui un
avvocato ed aprirgli la via per la conquista delle varie cariche politiche. L’oratoria di
Epidio non era certo congeniale alla natura del mite Virgilio, riservato e timido. In
seguito Virgilio si spostò a Napoli, per recarsi alla scuola dei filosofi Sirone e
Filodemo per apprendere i precetti di Epicuro, e dove conobbe diversi importanti
personaggi nel campo politico ed artistico.
Gli anni in cui Virgilio si trova a vivere sono anni di grandi sconvolgimenti a causa
delle guerre civili: prima lo scontro tra Cesare e Pompeo, culminato con la sconfitta
di quest’ultimo a Farsalo (48 a.C.), poi l’uccisione di Cesare e lo scontro
tra Ottaviano e Marco Antonio da una parte e i cesaricidi (Bruto e Cassio) dall’altra,
culminato con la battaglia di Filippi (42 a.C.). Egli fu toccato direttamente da queste
tragedie: infatti la distribuzione delle terre ai veterani dopo la battaglia di Filippi mise
in grave pericolo le sue proprietà nel Mantovano ma, grazie all'intercessione di
personaggi influenti (Pollione, Varo, Gallo e lo stesso Augusto), Virgilio riuscì ad
evitare la confisca. Si spostò poi a Napoli.
Dopo il successo delle Bucoliche, venne in contatto con Mecenate ed entrò a far parte
del suo circolo, che raccoglieva molti letterati famosi dell’epoca. Attraverso
Mecenate, Virgilio conobbe Augusto e collaborò alla diffusione della sua ideologia
politica. Divenne il maggiore poeta di Roma e dell’impero.
Morì a Brindisi il 21 settembre del 19 a.C. (calendario giuliano), di ritorno da un
improvviso viaggio in Grecia. Prima di morire, Virgilio raccomandò ai suoi
compagni di studio Tucca e Vario di distruggere il manoscritto dell’Eneide. Ma i due,
per timore o per colpa, consegnarono i manoscritti all’imperatore.
I resti del grande poeta furono poi trasportati a Napoli, dove sono custoditi in
un tumulo tuttora visibile, sulla collina di Posillipo. Purtroppo l’urna che conteneva i
suoi resti andò dispersa nel Medioevo. Sulla tomba fu posto il celebre
epitaffio: Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua,
rura, duces; ovvero: "Mi generò Mantova”
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Liceo Scientifico Statale G. Galilei
Pescara
A. S. 2012/2013
Menù offerto dalla Prof.ssa Flora Galli e dagli alunni della 2° G
Battista Benedetta
Biancucci Alessia
Bonifacio Paolo
Busiello Lorenzo
Caporale Sara
D’Aquino Eleonora
De Vincentiis Laura
Di Berto Francesca Romana
Di Carmine Lucrezia
Di Donfrancesco Andrea
Di Fabio Eva
Di Ienno Stefano
Di Nicola Beatrice
Di Nino Sara
Di Nisio Stefano
D’Isidoro Francesco
Lama Lorenzo Giuseppe
Mancinelli Leo
Maurizio Giorgia
Piccoli Emanuela
Quien Stefano
Romanelli Lorenza
Serraiocco Elena
Vecchi Davide
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Verzella Elisabetta
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Lupus in Tabula - Liceo Scientifico "G. Galilei"