PROVINCIA DI LATINA
AVVOCATURA PROVINCIALE
Avvocato Giulio Tatarelli
Via Costa n.1 – LATINA 04100
Tel.0773.401387 - fax 0773.663556
[email protected]
PEC: [email protected]
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO
R E G I O N A L E DEL LAZIO
RICORSO
PER
La PROVINCIA DI LATINA codice fiscale 80003530591, in persona
del Presidente Armando Cusani, in virtù dei poteri conferiti dall’art.17
dello Statuto provinciale, rappresentato e difeso, giusta
ordinanza
presidenziale n.193 assunta in data 4.09.2012, (DOC.1), per mandato in
calce
al
presente
dall’Avv.
atto,
Giulio
Tatarelli,
c.f.
TTRGLI78A17E527J (e.mail [email protected] – PEC
[email protected]
fax:0773.663556),
dell’Avvocatura
provinciale ed elettivamente domiciliata ai fini del presente giudizio, in
Roma via Cola Di Rienzo n.297 00100 ROMA (RM) presso lo studio
dell’Avv. Nadia Scugugia e Avv. Stefano Palmieri posta certificata:
[email protected];
CONTRO
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del
Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato, con domicilio in via dei
Portoghesi, N.12 – 00186 ROMA.
Ed altresì
REGIONE LAZIO in persona del Presidente pro- tempore della
Giunta Regionale con sede in Via Cristoforo Colombo n.12 - 00145
ROMA;
1
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PEC: [email protected]
PROVINCIA DI FROSINONE in persona del Presidente pro
tempore, Antonello Iannarilli con sede in Frosinone - P.zza A. Gramsci,
13 - 03100 FROSINONE;
PROVINCIA DI RIETI in persona del Presidente pro tempore, Fabio
Melilli con sede in Via Vittorio Emanuele II - 02100 RIETI
PROVINCIA DI VITERBO in persona del Presidente pro tempore,
Marcello Meroi, con sede in - Via Saffi, 49 - 01100 VITERBO
nonché al
CONSIGLIO DELLE AUTONOMIE LOCALI DEL LAZIO in persona
del Presidente pro tempore Fabio Melilli, con sede in Via della Pisana,
1301 - 00163 ROMA
controinteressati
per l’annullamento previa sospensiva
della Deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 Luglio 2012,
pubblicata in G.U. n.171 del 24 Luglio 2012, avente ad oggetto la
“Determinazione dei criteri per il riordino delle province, a norma dell’articolo 17,
comma 2, del D. L. 6 Luglio 2012, n.95” (DOC.2), pubblicata in G.U. del
24 luglio 2012 n. 171, con contestuale questione di illegittimità
costituzionale dell’art.17 del D.L. N.95/2012, nonché di ogni altro atto
presupposto, conseguente o comunque connesso, ancorchè non
conosciuto e con espressa riserva di formulare sin da ora motivi aggiunti.
FATTO
L’art.23 del D.L. n.201/2011 recante “Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”, convertito con modificazioni
dalla L.n.214 del 22.12.2011, dal comma 14 al comma 21, contiene
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norme di sostanziale “abolizione” delle Province ritenute lesive delle
attribuzioni, delle competenze e prerogative degli enti locali.
Dalle norme approvate, le Province di cui all’art.114 della Cost. escono
completamente trasformate, divenendo enti di secondo grado, preposte
a funzioni di coordinamento delle attività proprie dei Comuni: non
esercitano più l’attività di gestione amministrativa, né propriamente
funzioni amministrative ai sensi dell’art.118, comma 1 e 2, della
Costituzione. Tali approdi normativi sono stati oggetto di formale
dissenso dal Consiglio delle Autonomie Locali del Lazio (CAL) nella
seduta del 24 gennaio u.s. che, in occasione della quale è stata approvata
all’unanimità, la deliberazione n.1, con la quale si è sollecitata presso il
Presidente della Regione, ai sensi dell’articolo 41, comma 4, dello Statuto
regionale, la proposizione del ricorso alla Corte Costituzionale avverso
l’articolo 23, commi 14–21, del d.l. n. 201/2011.
Le motivazioni
addotte nel
citato atto
deliberativo
venivano
ulteriormente argomentate nell’Ordine del giorno approvato dal
Consiglio Provinciale con deliberazione n.4 del 30.01.2012 (DOC.3).
La Regione Lazio, d’altro canto, ha esercitato il suo potere-dovere di
difendere il sistema delle autonomie locali, promuovendo la questione di
legittimità costituzionale, con ricorso n.44/2012, pubblicato in G.U. n.15
del 11.04.2012, ritenendo che l’art.23 costituisca un grave vulnus ai
principi costituzionali a garanzia delle autonomie locali.
A tal proposito giova, segnalare che la odierna deducente ha proposto nei termini e con le modalità di cui all’art.4 “Interventi in giudizio”
della Deliberazione della Corte Costituzionale, deliberazione 7 ottobre
2008, recante Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
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costituzionale (GU n. 261 del 7-11-2008)- ricorso ad ajuvandum per la
lesione diretta subita dalle norme contestate e per la lesione delle
prerogative dal testo Costituzionale riconosciute alle Province.
In prosecuzione dell’avviata opera di riassetto istituzionale, ed in buona
parte, col proposito di superare i macroscopici vizi di incostituzionalità
del precedente decreto, il Governo, ricorrendo ancora una volta, alla
decretazione d’urgenza, ha emanato il D.L. n. 95 del 6 luglio 2012, c.d. “
Spending review 2” recante “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini”, successivamente convertito in
L. n. 135 del 7 agosto 2012.
Ed invero, il decreto in questione ha proceduto, del tutto
immotivatamente ed arbitrariamente, all’individuazione di ben due criteri
applicativi per la riduzione del numero delle Province Italiane, ovvero
quello della dimensione territoriale e quello della popolazione residente
in ciascuna provincia, rinviando ad una Deliberazione del Consiglio dei
Ministri la successiva puntuale enucleazione dei requisiti minimi.
Pertanto, in data 20 Luglio 2012, il Consiglio dei Ministri deliberava,
proprio ai fini dell’attuazione dell’art. 17 del D.L. n. 95 del 6 Luglio 2012,
i requisiti di riordino delle Province individuando, così come statuito
all’art.1, per il requisito dimensionale territoriale: un chilometraggio a)
non inferiore a 2.500 Kmq, e per quello della popolazione residente
un numero b) non inferiore a 350.000 abitanti.
Avverso tale atto, del tutto ingiusto ed illegittimo, oltre che palesemente
lesivo delle aspettative ed interessi di cui la Provincia di Latina è
direttamente portatrice, la ricorrente intende proporre, come in effetti
col presente atto propone, ampio e formale ricorso per ivi sentir
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annullare integralmente la deliberazione de qua atteso che i requisiti
determinati dall’esecutivo per il riordino delle Province, così come i
criteri enucleati dal presupposto D.L. n.95/2012, meritano, come si avrà
modo di argomentare, non poche censure.
*** *** ***
Avverso l’atto in epigrafe, ed i suoi ineludibili presupposti normativi,
gravemente lesivi della sfera giuridica della ricorrente amministrazione,
oltre che palesemente illegittimi sotto molteplici profili, si propone il
presente ricorso a mezzo del quale se ne chiede l’annullamento per tutti i
motivi che verranno appresso dedotti a seguito della illustrazione della
ricorrenza delle condizioni dell’azione.
I.
SULLA
LEGITTIMAZIONE
E
INTERESSE
ALLA
IMPUGNATIVA E SULL’INTERESSE AL RICORSO
Per ciò che concerne la legittimazione al ricorso al momento non v’è
deduzione da svolgere, stante la diretta ed immediata incidenza,
dell’impugnato provvedimento nella sfera giuridica della Provincia di
Latina e degli interessi di cui la ricorrente è portatrice. Invero, non è
recabile in dubbio la sussistenza in capo alla ricorrente amministrazione
di un diretto interesse ad essere partecipe del processo di riordino posto
in atto per il tramite di una complessa sinossi normativa che trae le sue
radici dal D.L. n.201/2011 (Decreto meglio noto come Salva Italia), cui
succede il D.L. n.95/2012 (c.d. Spending review) tra i quali si innesta la
Deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 Luglio scorso, oggetto
della presente impugnativa.
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Ebbene, costituisce ius receputm, anche per come meglio si dirà oltre,
l’assunto secondo il quale il principio autonomista concorre a realizzare il
principio democratico che informa, nel suo complesso, l’ordinamento
repubblicano.
Nello specifico, secondo quanto previsto dalla Corte Costituzionale con
la sentenza 12 aprile 2002 n. 106, l’art. 1, nello stabilire che la sovranità
appartiene al popolo, impedisce di ritenere che vi siano luoghi o sedi
dell’organizzazione costituzionale nella quale essa si possa insediare
esaurendosi, posto che “le forme e i modi nei quali la sovranità del
popolo può svolgersi, infatti, non si risolvono nella rappresentanza,
ma permeano l’intelaiatura costituzionale” assumendo “una
configurazione talmente ampia da ricomprendere certamente il
riconoscimento e la garanzia delle autonomie locali”.
Per altro verso, la valenza di questo obiettivo significato, oltre che
emergere
alla
stregua
dei
principi
fondamentali
della
Carta
Costituzionale, recati dagli articoli 1 e 5, è stata altresì sancita dalla Carta
Europea delle Autonomie Locali (CEAL), firmata a Strasburgo il 15
ottobre 1985, ratificata da 45 Paesi e di cui è stata data esecuzione in
Italia con Legge 30 dicembre 1989 n. 439, nell’ottica di una stringente
salvaguardia dei diritti del cittadino nell’ambito delle autonomie locali,
ove viene in evidenza nella formulazione del preambolo, la
consapevolezza “del fatto che la difesa ed il rafforzamento dell’autonomia locale nei
vari Paesi europei rappresenti un importante contributo all’edificazione di un’Europa
fondata sui principi della democrazia e del decentramento” e che “ciò
presuppone l’esistenza di collettività locali dotati di organi
decisionali democraticamente costituiti, che beneficiano di una
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vasta autonomia per quanto riguarda le loro competenze, le
modalità di esercizio delle stesse, ed i mezzi necessari
all’espletamento dei loro compiti istituzionali” .
Ne consegue la indubbia legittimazione ed interesse al presente ricorso
da parte della deducente, confortata dalla diretta ed immediata incidenza
della Deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012, nella
sfera giuridica della Provincia di Latina, stante il combinato disposto
dell’art. 17 del D.L. n.95 del 6 Luglio 2012 e dell’impugnato
provvedimento governativo, oggetto di riordino istituzionale. Del resto,
preme rilevare che l’Ente provinciale pontino, pur eccedendo
abbondantemente il requisito minimo prescritto di 350 mila residenti,
non raggiunge per poche centinaia di Km, il parametro di estensione
minimo fissato in 2.500 Kmq dall’articolo 1 della indicata deliberazione.
Conseguentemente, appare altresì di tutta evidenza la legittimazione
dell’Amministrazione de qua ad agire tanto per la tutela dei propri
interessi, che per la cura concreta di quelli della collettività di riferimento
in virtù della propria vocazione specifica di Ente territoriale esponenziale
che, proprio in ossequio al principio di sussidiarietà ex art. 118 Cost,
impone all’ente locale più vicino ai cittadini la cura degli interessi delle
comunità stanziate sul proprio territorio.
I cittadini della Provincia di Latina, saranno invero, come prevedibile, i
primi
ad essere pesantemente pregiudicati
dal
nuovo assetto
organizzativo provinciale, il cui prodotto determinerà la creazione di
macro province di area vasta, con la inevitabile conseguenza di ritardi
nell’efficienza degli uffici amministrativi, atteso il crescente esponenziale
carico di lavoro delle amministrazioni provinciali.
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Per quanto poi riguarda l’interesse al ricorso, del pari indubitabile né è
la ricorrenza, ove si consideri che, la Provincia assume una posizione
differenziata rispetto alla tutela del proprio interesse alla corretta azione
amministrativa in materia, da cui discende la legittimazione ad agire
anche nell'interesse dell'intera sua collettività derivandole direttamente
dal ruolo di portatore di interessi generali della comunità territoriale di
riferimento. Anche solo facendo riferimento a tali principi affermati da
orientamenti
ormai
risalenti,
non
si
potrebbe
dubitare
della
legittimazione degli enti territoriali rispetto agli interessi della Comunità e
del territorio di cui sono enti, non solo esponenziali ma, altresì,
rappresentativi. Infatti per tali enti la tutela degli interessi della collettività
che rappresentano è oggetto di specifica tutela costituzionale. Si deve
ricordare che con la riforma del titolo V della Costituzione è stata
esplicitata la funzione degli enti territoriali di cura concreta degli interessi
della collettività di riferimento; ciò sia in relazione alla autonomia di cui
all'art. 114 della Costituzione (i Comuni, le Province, le Regioni sono enti
autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati
dalla Costituzione), sia in relazione alla espressa previsione del principio
di sussidiarietà ( art. 118 della Costituzione) che affida all'ente locale più
vicino ai cittadini la cura concreta di interessi.
La giurisprudenza riconosce ai Comuni quali enti esponenziali della
collettività radicata sul loro territorio la legittimazione ad impugnare
provvedimenti, anche in materie in cui la competenza specifica sia di
altro soggetto pubblico (Cfr. di recente Consiglio Stato, sez. V, 14 aprile
2008, n. 1725, che ha affermato la legittimazione a ricorrere avverso il
provvedimento di localizzazione di una discarica di rifiuti di un Comune,
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che, anche se spogliato di specifiche competenze in materia, nella sua
qualità di ente esponenziale, portatore in via continuativa di interessi
diffusi radicati nel proprio territorio che fanno capo ad una circoscritta e
determinata popolazione residente, è, in astratto, portatore di un
interesse pubblico differenziato e qualificato; cfr. altresì T.A.R. Liguria,
sez. II, 13 marzo 2009, n. 311, rispetto alla legittimazione di un Comune
all'impugnazione di un piano sanitario che prevede la soppressione di
strutture sanitarie ospedaliere: i Comuni, sono in linea generale
riconosciuti quali titolari di una situazione rappresentativa degli interessi
radicati nel proprio territorio, in specie nel nuovo contesto costituzionale
in cui all'equiparazione tra diversi livelli di governo, come fissata dall'art.
114 Cost. con conseguente elevazione del riconoscimento dei Comuni, si
accompagna l'individuazione del principio di sussidiarietà quale
parametro principale di affidamento delle funzioni amministrative le
quali comunque vanno attribuite in via principale proprio agli stessi
comuni, art. 118 comma 1 Cost.; trattandosi di un ente esponenziale
degli interessi riferibili alla collettività dei residenti nel suo territorio e
titolato, in quanto tale, all'impugnazione dei provvedimenti che
producono effetti pregiudizievoli per la comunità locale dallo stesso
rappresentata, il Comune è legittimato ad impugnare le parti del piano
sanitario e di quello ospedaliero riferite alle strutture ricadenti nel suo
ambito ovvero, nel caso in cui nel singolo territorio non ve ne siano, in
quelle poste nelle immediate vicinanze in quanto costituenti i diretti ed
immediati riferimenti sanitari della collettività territoriale). Inoltre, alla
Provincia, proprio in quanto ente esponenziale degli interessi che fanno
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capo al suo territorio sono affidate specifiche funzioni dall'ordinamento
dagli art. 19 e 20 del T.UE.L., n° 267 del 18-8-2000).
Sicchè resta acclarata la idoneità lesiva degli impugnati atti in relazione
alla loro concreta ed immediata applicabilità, e che per tali motivi,
richiamando il principio di costituzionale memoria fissato dall’art.113,
non può sottrarsi al sindacato giurisdizionale, pena la lesione dei principi
di cui alla stessa Carta costituzionale fissati agli artt. 3 e 24, vieppiù
esaltati dalla riforma dell’art.111 Cost.
*** *** ***
Ciò in fatto premesso e dedotto quanto alla ricorrenza delle condizioni
dell’azione ed alla ammissibilità del ricorso in rapporto alla idoneità
lesiva degli atti al cui annullamento lo stesso è diretto, anche alla luce dei
principi racchiusi negli articoli 3, 24, 97,111 e 113 della Costituzione, si
osserva quanto segue in
Diritto
II.
SULLA
NATURA
CONSEGUENTE
DELL’ATTO
IMPUGNATO
ASSOGGETTABILITÀ AL
E
SINDACATO
GIURISDIZIONALE.
Come noto, in base all’art.2 della Legge n.400 del 23 Agosto 1988, il
Consiglio dei Ministri è organo preposto alla determinazione della
politica generale del Governo e, ai fini della sua attuazione, ha pertanto
competenza all’emanazione di tutti i provvedimenti di fissazione
dell’azione generale amministrativa.
Ed invero, nel caso di specie la Deliberazione del 20 Luglio 2012
adottata dal Consiglio dei Ministri, ha inteso, proprio nell’asserita ottica
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di riordino istituzionale amministrativo, indirizzare e coordinare
segnatamente il nuovo assetto delle Province sulla scorta di ben due
criteri; quello dimensionale territoriale e quello afferente la popolazione
residente.
Orbene, proprio la potestas vincolata del fine dell’atto de quo, oltre che
l’individuazione specifica delle Province quali soggetti destinatari,
comprova l’evidente natura amministrativa della deliberazione
emarginata, che a differenza dei c.d. atti politici, espressivi della
libertà politica dell’organo emanante e contenenti per lo più direttive
di carattere generale, non può essere sottratta al sindacato del giudice
amministrativo (Cfr. TAR Lazio, Sez. I, sent. n. 2223 del 22.02.12, per
cui gli Atti Politici “….non costituiscono attuazione dell’ordinamento ma sono
espressione di una funzione diversa, libera nei fini e per tal motivo sono sottratti al
sindacato del Giudice amministrativo..”.
Acclarata l’indiscussa natura amministrativa dell’atto-provvedimento,
è poi opinabile la riconducibilità dello stesso alla categoria di quegli atti
caratterizzati da ampia discrezionalità emanati da organi di alta
amministrazione come appunto i c.d. atti di alta amministrazione, che
svolgono funzione di raccordo tra indirizzo politico ed attività
amministrativa in senso stretto e che, pertanto, rappresentano il primo
grado di attuazione dell’indirizzo politico nel campo amministrativo.
Tuttavia, anche nella denegata e marginale ipotesi in cui l’atto in
questione debba annoverarsi tra gli atti di alta amministrazione, giova
ricordare che per orientamento pacifico di dottrina e giurisprudenza, gli
stessi soggiacciono alla generale disciplina del più ampio genus
degli atti amministrativi ivi compreso dunque altresì il sindacato
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giurisdizionale e l’obbligo di motivazione prescritto dalla Legge n.
241 del 1990.
Del resto, come più volte chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, la
natura ampliamente discrezionale della scelta adottata dall’organo di alta
amministrazione “… può sempre essere sindacata dal giudice sul
piano della sufficienza, della logica e della sostanziale congruità e
razionalità in quanto non possono ritenersi sussistenti zone
assolutamente franche dal sindacato giurisdizionale sull’esercizio
di detto potere discrezionale, seppure circoscritto all’accertamento
estrinseco della legittimità, cioè al riscontro dell’esistenza dei
presupposti e dell’esistenza e della congruità del nesso logico di
consequenzialità fra presupposti e conclusione” (Cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 10 luglio 2007, n. 3893; Tar Lazio, I, 9 febbraio 2004, n.
1206; Tar Lazio, Roma, III-quater, 22 gennaio 2009, n. 517).
III.
SULLA IMMEDIATA LESIVITA’ DELL’ATTO IMPUGNATO
Le argomentazioni in punto di diritto che seguiranno infra, meritano una
ulteriore preliminare premessa, necessaria a fugare ogni possibile dubbio
circa la immediata impugnabilità del provvedimento in oggetto.
La gravata deliberazione trae fondamento dal già ricordato art.17 D.L.
n.95/2012, il quale sostanzia il riordino in un procedimento complesso,
nel quale la fase decisoria si presenta chiaramente articolata in una
pluralità di atti e quindi di momenti decisionali, da realizzarsi in tempi
assai stringenti.
Orbene, nella denegata e remota ipotesi in cui si volesse ricondurre la
gravata
deliberazione
nell’alveo
degli
atti
endoprocedimentali,
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rivisitando i tradizionali principi in materia di impugnazione degli atti
amministrativi ed alla luce delle note nozioni di teoria del procedimento
amministrativo, talune eccezioni si impongono rispetto alla regola che
vuole tali atti non autonomamente impugnabili.
Si allude all’ipotesi dell'autonoma impugnabilità di atti come pareri e
proposte, che abbiano carattere vincolante e quindi risultino
immediatamente lesivi della sfera giuridica dell’interessato.
La giurisprudenza ha infatti riconosciuto che "la regola secondo la quale l’atto
endoprocedimentale non è autonomamente impugnabile (la lesione della sfera giuridica
del soggetto destinatario dello stesso essendo normalmente imputabile all’atto che
conclude il procedimento) incontra un’eccezione nel caso di atti di natura
vincolata (pareri o proposte), idonei come tali ad imprimere un
indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva, di atti
interlocutori, idonei a cagionare un arresto procedimentale capace
di frustrare l’aspirazione dell’istante ad un celere soddisfacimento
dell’interesse pretensivo prospettato, e di atti soprassessori, che,
rinviando ad un avvenimento futuro ed incerto nell’an e nel
quando il soddisfacimento dell’interesse pretensivo fatto valere dal
privato, determinano un arresto a tempo indeterminato del
procedimento che lo stesso privato ha attivato a sua istanza idonei,
come
tali,
ad
imprimere
un
indirizzo
ineludibile
alla
determinazione conclusiva" (così: C.d.S., Sez. IV, 4 febbraio 2008, n.
296; id., 11 marzo 2004, n. 1246; 11 marzo 1997, n. 226; Sez. VI, 9
ottobre 1998, n. 1377, TAR Lazio n.2223/2012).
Vieppiù che nel caso in esame, la lesività non si profila soltanto temuta,
ma si concreta nella modificazione della circoscrizione provinciale quale
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conseguenza diretta della carenza in capo alla Provincia di Latina
(similmente ad altre province) dei requisiti minimi determinati dall’atto
deliberativo impugnato.
Il tenore del comma 2, primo periodo, dell’art. 17, non lascia dubbi in tal
senso: “Entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore del
presente decreto, il Consiglio dei ministri determina, con apposita
deliberazione, da adottare su proposta dei Ministri dell'interno e
della pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, il riordino delle province sulla base
di requisiti minimi, da individuarsi nella dimensione territoriale e
nella popolazione residente in ciascuna provincia”.
Appare chiaro quanto il disposto normativo citato preveda, un
procedimento complesso determinativo di una sequenza articolata di atti
che, tuttavia, hanno una autonoma valenza lesiva, atti che non
determinano interruzioni del processo, viepiù salvaguardato nel suo
incedere, da idonei meccanismi sostitutivi, ad assicurare il perseguimento
dell’obiettivo e dunque un riordino ingenerato dai parametri vincolanti
stabiliti dal Governo.
Tale idoneità lesiva impone il superamento della paventata natura
generale ovvero endoprocedimentale del provvedimento impugnato, il
quale si profila come provvedimento avente carattere specifico e
concreto, e pertanto idoneo ad incidere direttamente nella sfera
degli amministrati, siano essi soggetti singoli o enti esponenziali
di interessi collettivi o diffusi, da cui l'onere di immediata
impugnazione.
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Conforta la fondatezza di tale approdo, l’avvenuta pubblicazione dell’atto
deliberativo governativo non solo sul sito del Ministero bensì sulla
Gazzetta Ufficiale del 24 luglio 2012 n. 171, attraverso la quale si è
adempiuto
all’onere
comunicativo
integrativo
della
efficacia
provvedimentale.
La espressa previsione della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale di un
atto asseritamente endoprocedimentale, rappresenterebbe un ossimoro
giuridico frutto di esegesi negromantiche, piuttosto che normative.
Non sfugge quanto l’ordine normativo assegni alla comunicazione una
specifica presenza procedimentale, successiva alla fase decisoria e quindi
riconducibile alla fase di integrazione dell'efficacia. Adottato il
provvedimento espresso l'amministrazione procedente deve informare
gli interessati dell'avvenuta conclusione del procedimento.
La suddetta pubblicazione ha consacrato la generale conoscibilità
dell’atto corroborandone la natura definitiva dello stesso, dal quale
cioè, né sono derivati, e come in effetti derivano, conseguenze
immediate. Il processo di riordino vede infatti già mutato lo scenario
istituzionale italiano: più della metà degli enti provinciali sono stati
dichiarati morituri, le Province "salve" sarebbero 43 su 107 di cui 10
metropolitane, 26 in Regioni a Statuto ordinario e 7 in Regioni a statuto
speciale.
Chiara ed inequivocabile la nuova geografia provinciale, disegnata a far
data dalla pubblicazione dell’atto dell’Esecutivo sopra ricordata, che
individua i soggetti istituzionali che mantengono la loro entità
rappresentativa e coloro che iniziano il percorso di dismissione delle
funzioni propedeutico all’accorpamento in una nuova circoscrizione.
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Il rinnovato contesto istituzionale non appare privo di ulteriori
conseguenze in danno degli enti morituri: appare infatti di tutta evidenza
quanto la Provincia di Latina ob torto collo abbia la necessità di rimodulare
la propria actio pubblica ed i propri programmi, un ripensamento delle
priorità che avevano ispirato il programma di mandato con evidente
coinvolgimento dell’apparato amministrativo che, alla luce della
inevitabile soppressione (o riordino che dir si voglia) sta alimentando,
giorno dopo giorno, un sentimento di sconforto generale presso i
dipendenti, i quali in vista della
rivisitazione degli organici attiva
volontariamente procedimenti di esodo verso i Comuni della Provincia,
della Regione o comunque verso altri enti, al fine di scongiurare eventuali
ma pur sempre possibili, se non prevedibili, situazioni di esubero.
Si tratta di ripercussioni gravi, che minano la dinamica delle relazioni
interne all’amministrazione ed alterano i rapporti e le progettualità sinora
messe in campo necessarie al corretto raggiungimento degli obiettivi.
Ulteriori profili di illegittimità sono riscontrabili dal giudice a quo nel
contrasto diretto con alcuni principi della Costituzione,
IV.
ILLEGGITTIMITA’
DEGL’ATTO
VIOLAZIONE
PRECETTI
DEI
ILLEGITTIMITA’
DELL’ATTO
GRAVATO
PER
COSTITUZIONALI
-
PRESUPPOSTO
–
INVALIDITA’ DERIVATA
a) VIOLAZIONE DELL’ART.77 DELLA COSTITUZIONE:
RICORSO ALLA DECRETAZIONE D’URGENZA IN
ASSENZA DEI PRESUPPOSTI DELLA URGENZA E
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DELLA NECESSITÀ - VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI
OMOGENEITA’.
Come noto, l’articolo 77 della Costituzione, consente al Governo, nei
soli casi di straordinarietà ed urgenza la possibilità di adottare sotto la
propria personale responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di
legge.
Come ha affermato la Corte costituzionale, il Governo, ai sensi dell’art.
77 Cost., è legittimato ad adottare provvedimenti provvisori aventi forza
di legge unicamente quando, in ragione di una circostanza
eccezionale ed imprevedibile, non sia possibile provvedere con gli
strumenti legislativi ordinari, rendendosi necessaria ed improcrastinabile
la produzione immediata degli effetti propri del decreto governativo (cfr.
Corte cost., 27 gennaio 1995, n. 29).
L’esistenza di tali presupposti non può essere sostenuta dalla apodittica
enunciazione di tale sussistenza, essendo indispensabile, fra l’altro, che
alla situazione o le situazioni disciplinate dall’atto normativo
dell’esecutivo si applichino immediatamente gli effetti del decreto, al fine
di porre in essere quelle modificazioni, sia della realtà materiale, sia
dell’ordinamento che sono richieste proprio dalla eccezionalità ed
imprevedibilità dell’evento regolato (cfr. Corte cost., 23 maggio 2007, n.
171). CIÒ FUGA OGNI DUBBIA CIRCA LA ATTITUDINE
LESIVA DELL’ATTO DE QUO E LA NECESSITÀ DELLA
SUA IMMEDIATA IMPUGNAZIONE nei termini già argomentati
in rubrica che precede.
In questo senso, del resto, dispone l’art. 15, comma 3, della legge 23
agosto 1988, n. 400, che, rendendo esplicito il principio desumibile dalla
norma
costituzionale,
prevede
che
il
decreto-legge
“DEBBA
CONTENERE MISURE DI IMMEDIATA APPLICAZIONE”.
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La giurisprudenza ha, inoltre, affermato che la preesistenza di una
situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere
tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto –
legge, “costituisce un requisito di validità costituzionale dell’adozione del predetto
atto, di modo che l’eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura…un
vizio di illegittimità costituzionale del decreto – legge che risulti adottato al di fuori
dell’ambito applicativo costituzionalmente previsto” (cfr. Corte cost., 30 aprile
2008, n. 128; Corte cost., 23 maggio 2007, n. 171).
E la prova della mancanza dei requisiti di cui all’art. 77, II comma, Cost.
può e deve desumersi non solo da indici testuali interni, ma anche da
elementi esterni al decreto, i quali, nel caso concreto, dimostrino la
evidente insussistenza di circostanze attuali di natura eccezionale ed
imprevedibile che si pongano a fondamento del provvedimento
governativo (cfr. Corte cost., 30 aprile 2008, n. 128; Corte cost., 29 luglio
1996, n. 330; Corte cost., 22 luglio 1996, n. 270).
Orbene, nel caso che ci occupa, non può sicuramente ravvisarsi né la
straordinarietà, né tantomeno l’urgenza giustificativi dell’emanazione del
D.L.95/2012 atteso che il dichiarato intento del Governo di conseguire,
altresì con il riordino delle Province, il rispetto in tempi celeri del piano
di revisione e contenimento della spesa pubblica, appare palesemente in
contraddizione con quanto asserito nella relazione tecnica allegata
all’emarginato decreto, per cui “l’effettiva quantificazione dei
risparmi di spesa discendenti dalla procedura di riordino potranno
essere quantificati solo a completamento dell’iter”, iter che –a
mente dell’art.23 del D.L. n.201/2012, difficilmente potrà concludersi
prima della scadenza naturale del mandato di numerose province,
verosimilmente previsto per il 2014.
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A maggiore conforto, vale la pena richiamare la giurisprudenza della
Corte Costituzionale, la quale non ha mancato di chiarire quanto il vizio
del decreto carente dei presupposti della necessità ed urgenza si
trasmette ineluttabilmente alla legge di conversione. Ne resta, nel
caso che ci occupa, evidentemente travolto il deliberato del Consiglio dei
Ministri che, nel decreto e nell’atto di conversione radica la propria
ragion d’essere.
Ne tale carenza può dirsi superata dalla prassi invalsa negli ultimi anni,
consolidando, il caso di che trattasi, una indubbia evidente mancanza,
non potendosi tale lacuna colmarsi inscrivendo il caso controverso entro
un quadro di straordinaria contingenza economico finanziaria da arginare
attraverso il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, imposti
dagli obblighi europei e necessari al raggiungimento del pareggio di
bilancio (art.17 comma 1 D.L. n.95/2012).
Del resto, sul punto la stessa Corte Costituzionale, con noti arresti
giurisprudenziali (sentenze n.148/2012 e n.151/2012), proprio in materia
di autonomia degli enti locali ha inteso, con l’inequivocabile intento di
arginare l’ormai copioso ricorso alla decretazione d’urgenza, ammonire il
Governo ribadendo che il richiamo al noto principio “Salus rei publicae
suprema lex esto”, non può in alcun modo essere invocato per giustificare
la sospensione delle garanzie costituzionalmente previste. Afferma infatti
la Corte: “il principio salus rei publicae suprema lex esto non può
essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di
autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione. Lo
Stato,
pertanto,
deve
affrontare
l’emergenza
finanziaria
predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento
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costituzionale”. E’ un principio netto e chiarissimo, in risposta alla
difesa dello Stato secondo la quale le misure finanziarie adottate “trovano
giustificazione nell’esigenza di far fronte con urgenza ad una gravissima crisi
finanziaria che mette in pericolo la stessa salus rei publicae. La gravità della
situazione consentirebbe allo Stato di derogare alle regole costituzionali di riparto delle
competenze legislative tra Stato e Regioni e di «intervenire legislativamente in ogni
materia», in ottemperanza ai doveri espressi dalla Costituzione ed in applicazione dei
princípi costituzionali fondamentali della solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.),
dell’uguaglianza economica e sociale (art. 3, secondo comma, Cost.), dell’unità della
Repubblica (art. 5 Cost.), della responsabilità internazionale dello Stato (art. 10
Cost., dell’appartenenza all’Unione europea (art. 11 Cost.), del concorso di tutti alle
spese pubbliche (art. 53 Cost.), di sussidiarietà (art. 118 Cost.), della responsabilità
finanziaria (art. 119 Cost.) e della tutela dell’unità giuridica ed economica (art. 120
Cost.)”.
Tale assunto come noto non è stato condiviso dalla Corte Costituzionale
la
quale
ha
perentoriamente
affermato:
LE
NORME
COSTITUZIONALI MENZIONATE DALLA DIFESA DELLO
STATO, INFATTI, NON ATTRIBUISCONO ALLO STATO IL
POTERE
DI
DEROGARE
AL
RIPARTO
DELLE
COMPETENZE FISSATO DAL TITOLO V DELLA PARTE II
DELLA
COSTITUZIONE,
NEPPURE
IN
SITUAZIONI
ECCEZIONALI”.
E’ chiaro che le norme relative alle Province, contenute nella sinossi
normativa a fonte governativa modificano in radice l’architrave del
policentrismo autarchico adottato
dalla
Carta
Costituzionale
e
ridefiniscono profondamente l’assetto di un ente territoriale, la Provincia,
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previsto dalla Costituzione, realizzando una riforma strutturale destinata
a valere in via permanente sulla organizzazione dei pubblici poteri, che
non radica la sua ragion d’essere nella necessità di far fronte ad una
situazione di urgenza contingente e straordinaria.
Né l’urgenza di adottare la disciplina in questione può consistere
nell’esigenza di conseguire un risparmio di spesa in tempi brevi, dal
momento che, come si è in precedenza ricordato, secondo la relazione
illustrativa accompagnatoria del D.L. N.201/2011, il risparmio ipotizzato
“è destinato a prodursi dal 2013 e peraltro in via prudenziale non
viene considerato in quanto verrà registrato a consuntivo”.
Infine, ma non di minor rilievo, le norme censurate risultano, altresì,
illegittime anche perché inserite all’interno di un decreto – legge PRIVO
DEL REQUISITO DELLA OMOGENEITÀ.
Com’è noto, l’art. 15, comma 3, della legge n. 400 del 1988 stabilisce che
il contenuto del decreto-legge debba “ESSERE SPECIFICO,
OMOGENEO E CORRISPONDENTE AL TITOLO”, e la Corte
costituzionale ha affermato, con una recentissima decisione, che tale
disposizione “costituisce esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma
dell’art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell’intero decreto –
legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il
Governo ad avvalersi dell’eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza
previa delegazione da parte del Parlamento”, cosicché “la scomposizione
atomistica della condizione di validità prescritta dalla Costituzione
si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento
legislativo urgente ed il “caso” che lo ha reso necessario,
trasformando il decreto – legge in una congerie di norme
assemblate soltanto da mera casualità temporale” (cfr. Corte cost.,
16 febbraio 2012, n. 22; v. anche Corte cost., 30 aprile 2008, n. 128).
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L’inserzione nel testo normativo in questione, sotto il titolo
omnicomprensivo “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici”, di cui al D.L. 201/2012, al pari di
quello del
D.L. n. 95/2012, sotto tale ultimo profilo ancor più
interessante e variegato, che reca “Disposizioni urgenti per la
revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini
(nonche' misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del
settore bancario)” della normativa afferente il riordino delle Province,
accanto a disposizioni riguardanti oggetti più disparati, rende il decreto
illegittimo per mancanza del citato requisito dell’omogeneità.
Né i vizi del decreto potrebbero ritenersi sanati dalla legge di
conversione, dal momento che, come ha affermato la Corte
costituzionale già richiamata, la conversione di un decreto – legge
illegittimo determina, al contrario, un vizio in procedendo della stessa
legge di conversione, che, valutando erroneamente l’esistenza di
presupposti di validità in realtà insussistenti, converte in legge un
atto che non può essere legittimo oggetto di conversione (cfr.
Corte cost., 27 gennaio 1995, n. 29).
Affermare che la legge di conversione sia atta a sanare, in ogni caso, i vizi
del decreto-legge, infatti, “significa in concreto attribuire al legislatore ordinario il
potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del
Governo quanto alla produzione delle fonti primarie” (cfr. Corte cost., 23
maggio 2007, n. 171; Corte cost., 30 aprile 2008, n. 128) e quanto alla
“tutela di valori e diritti costituzionali” (cfr. Corte cost., 23 maggio 2007, n.
171).
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b) VIOLAZIONE DELL’ART.133 DELLA COSTITUZIONE:
MANCANZA DEL COINVOLGIMENTO DEGLI ENTI
LOCALI NELLA PROCEDURA DI RIORDINO
La procedura individuata dal Governo, nel D.L. n. 95/2012, di rinvio ad
una deliberazione del Consiglio dei Ministri, per la fissazione dei requisiti
minimi essenziali alla rimodulazione del sistema locale, si pone senza
dubbio alcuno in contrasto con quanto disposto all’art. 133, 1 comma,
della Carta Costituzionale che enuncia: “Il mutamento delle
circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province
nell’ambito d’una Regione sono stabiliti con leggi della
Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione”.
La procedura di riordino, prescelta dalla Costituzione dunque, demanda
esclusivamente ai Comuni, primi coinvolti, l’iniziativa del riordino delle
circoscrizioni provinciali dello Stato sentite le Regioni. Solo al termine di
tale iter che si avvia secondo un processo definito bottom up, “dal
basso verso l’alto”, il Parlamento, cui in buona sostanza spetta un ruolo
di verifica-ratifica, potrà procedere ad approvazione mediante apposita
legge.
Orbene, nel caso del D.L. 95/2012 e conseguente della Deliberazione del
Consiglio dei Ministri, si è inteso seguire l’inverso ed opposto percorso
ove l’iniziativa dei Comuni viene apoditticamente sostituita da quella dei
CAL.
Ebbene, non sfugge quanto il CAL, pur contemplato dalla Carta
costituzionale, viene specificatamente indicato dall’articolo 123 quale
“organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali”, ben
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lontano da poter costituire un idoneo e democratico sostituto dei
Comuni.
Resta peraltro poi da dover comprendere come possano partecipare al
suddetto processo riorganizzativo i comuni presenti nelle Regioni che ad
oggi non hanno tuttavia provveduto all’istituzione degli organi consultivi
CAL o che risultano sprovviste di organi di raccordo delle autonomie
locali!
Tale questione sembrerebbe in qualche modo superabile, così come
desunto dalla norma del decreto, dall’ennesima forzatura, per la quale in
assenza di proposte, il riordino prosegue autonomamente mediante
meccanismi sostitutivi, con ciò
reiterando la violazione del 133, 1
comma Cost..
Sebbene, il procedimento di riordino delineato a partire dalla Decreto
Legge n.201 del 2012, ed articolatosi nei termini di cui all’art.17 del
Decreto legge n.95/2012, abbia una portata generale, è indubbia la sua
sussumibilità nell’alveo dell’art.133 Cost., in assenza del quale si
ipotizzerebbe un vuoto normativo.
Ma anche a voler supportare l’infondata tesi della generalità del riordino
rispetto alla specificità del caso delineato dall’art.133 Cost., quanto da
questo stabilito, il dettato costituzionale resterebbe pur sempre un
monito chiaro, dal quale il legislatore ordinario non avrebbe motivo né
ragione di discostarsi ammantando un revisione su scala generale, né
giammai un percorso necessitato dalla urgenza di assicurare gli equilibri
di bilancio.
Ebbene, nella relazione al disegno di legge di iniziativa governativa n.
3396 per la conversione del decreto-legge n.95/2012 (spending review) si
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legge: “anche a voler prescindere dalla considerazione che, trattandosi di riordino
complessivo, non trova applicazione l’art.133 della Costituzione, va rilevato in ogni
caso che detto articolo è, nella sostanza, rispettato visto che i Comuni sono pienamente
coinvolti tramite il Consiglio delle autonomie locali” (pag. 371 della relazione di
accompagnamento).
Secondo il Governo, quindi, in caso di riordino delle Province che
coinvolga tutto il territorio nazionale, è possibile derogare al
procedimento legislativo di tipo aggravato di cui all’art. 133, comma 1,
della Carta costituzionale. A dire dell’Esecutivo, la norma costituzionale,
pertanto, troverebbe applicazione unicamente per modifiche di
circoscrizioni provinciali ed istituzioni di nuove Province limitate
all’ambito regionale.
Premesso che anche il caso di riordino complessivo produce i suoi effetti
sempre e comunque all’interno di una Regione, non essendo consentita
un’ipotesi di riduzione/accorpamento concernente Province di Regioni
contermini (perché, in questa evenienza, la Provincia dovrebbe prima
staccarsi dalla Regione di appartenenza e poi aggregarsi a quella
confinante ai sensi dell’art.132, comma 2, Cost.), dalla lettura dell’art.
133, comma 1, del testo costituzionale non pare vi siano elementi
funzionali ad una interpretazione derogatoria nell’evenienza di un
intervento generalizzato sulle Province.
Nell’unica volta in cui la Corte costituzionale si è occupata dell’art.133,
comma 1, Cost., ossia nella sentenza n.347/1994 relativa al caso della
istituzione della Provincia di Lodi, il giudice delle leggi ha “concesso”
che la istituzione di Province o la modifica di quelle esistenti
possano essere effettuate, oltre che con legge formale, con ricorso
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ad una delega legislativa, ma sempre nel rispetto di quel
procedimento ascensionale che vede coinvolti, in primis, i Comuni.
Al potere legislativo, ha poi proseguito la Corte, “SPETTA
SOLTANTO
DELLO
VALUTARE,
STESSO
L’ADEGUATEZZA
NELLA
FASE
PROCEDIMENTO,
DELL’AMBITO
CONCLUSIVA
L’IDONEITÀ
E
TERRITORIALE
DESTINATO A COSTITUIRE LA BASE DELLA NUOVA
PROVINCIA”.
Infine, sostenere, come ha fatto l’Esecutivo, che la norma costituzionale
è comunque rispettata in quanto prevede un coinvolgimento delle
amministrazioni comunali tramite i CAL, non sembra fondato.
Infatti, l’iniziativa comunale di cui all’art.133, comma 1, Cost. si
configura in modo molto diverso rispetto alla deliberazione del piano di
accorpamenti e riduzioni che devono adottare i Consigli delle autonomie
locali o, in mancanza, gli organi regionali di raccordo, come prevede l’art.
17, comma 2, del decreto-legge n.95/2012.
Sono i Comuni, enti locali territoriali singolarmente considerati, ad
essere titolari della riserva di competenza ad attivare un eventuale
procedimento revisorio e non altri organismi.
Inoltre, l’iter procedurale previsto dal provvedimento sulla spending review
delinea un percorso il cui contenuto è già precostituito dal Governo e
non è affatto rimesso alla libera ed autonoma iniziativa delle
amministrazioni comunali, recando ulteriore vulnus alle
garanzie
assicurate dal disposto costituzionale, aggravato nel momento in cui
viene altresì previsto un intervento in via sostitutiva dell’Esecutivo (art.
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17, comma 4) nel caso in cui le deliberazioni non dovessero essere
assunte.
Conclusivamente, non appare pertanto plausibile circoscrivere il campo
di efficacia della norma costituzionale, ritenendo che essa riguardi solo
ipotesi di carattere specifico, posto che una tale esegesi restrittiva non è
in alcun modo compatibile con l’art.133 Cost. il cui disposto, al
contrario,
pone una
regola
generale,
suscettibile
di trovare
applicazione a tutti i casi di mutamento delle circoscrizioni
provinciali.
Il principio del pluralismo democratico, l’autonomia riconosciuta agli enti
locali territoriali, il processo di decentramento ed il principio di
prossimità, suffragano e rafforzano l’estendibilità dei precetti consacrati
nell’art.133 al processo in corso, impedendo che la volontà formatasi dal
basso possa essere superata da succedanei non conformi al dettato
costituzionale, sopravvalutati nella loro rappresentatività al solo scopo di
salvaguardare una surrettizia investitura proveniente dalle popolazioni
locali, unica fonte della iniziativa ritenuta dal Costituente essenziale alla
realizzazione di un riordino territoriale complessivo come quello in atto.
c) VIOLAZIONE ART. 117, I COMMA, COST. E ARTT. 2, 3, 5
6 DELLA CARTA EUROPEA DELLE AUTONOMIE
LOCALI.
La soppressione, a tutti i costi, dell’ente intermedio sembra essere
diventato un obiettivo ineludibile alla salute dei conti pubblici, tuttavia
resta disatteso il conforto di una attenta analisi costi-benefici, così come
è risultato irrilevante simulare un ipotesi di scenario credibile del nuovo
assetto istituzionale delle autonomie locali.
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Si è da più parti sostenuto che l’Unione Europea spinga verso un
riordino amministrativo (art.17 D.L. n.95/2012) da declinare sempre alla
luce del principio di sussidiarietà, già individuato come cardine
dell’ordinamento giuridico comunitario all’art. 5 del Trattato CE, d’altro
canto, promuovendo con efficacia precettiva la Carta europea delle
autonomie locali, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985, ratificata
dall’ordinamento interno con la legge n.439 del 30 Dicembre 1989.
Ebbene, il legislatore italiano nel suo progetto di riordino istituzionale
richiama le sollecitazioni dell’Unione, ma dimentica gli impegni assunti
con prefato atto normativo.
Nel preambolo della medesima Carta viene affermato che “LE
COLLETTIVITÀ LOCALI COSTITUISCONO UNO DEI
PRINCIPALI
FONDAMENTI
DI
UN
REGIME
DEMOCRATICO”.
Tutto ciò, però, richiede “L’ESISTENZA DI COLLETTIVITÀ
LOCALI
DOTATE
DI
ORGANI
DECISIONALI
DEMOCRATICAMENTE COSTITUITI, CHE BENEFICINO
DI UNA VASTA AUTONOMIA PER QUANTO RIGUARDA LE
LORO
DELLE
COMPETENZE,
STESSE,
ALL’ESPLETAMENTO
LE
ED
MODALITÀ
I
DEI
MEZZI
LORO
D’ESERCIZIO
NECESSARI
COMPITI
ISTITUZIONALI”.
In base all’art. 4.3 della Carta europea delle autonomie locali, “L’esercizio
delle responsabilità pubbliche deve, in linea di massima, incombere di preferenza sulle
autorità più vicine ai cittadini. L’assegnazione di una responsabilità ad un’altra
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autorità deve tener conto dell’ampiezza e della natura del compito e delle esigenze di
efficacia e di economia”.
Pertanto,
e
coerentemente
con
l’impostazione
che
si
ricava
dall’ordinamento comunitario, gli enti locali sono intesi quali primi
garanti dei principi di democrazia e di tutela dei diritti
fondamentali della persona che ispirano la stessa Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo.
La precettività della Carta, e le prescrizioni da questa vaticinate presso i
governi europei, prevede un’ampia tutela delle autonomie territoriali e
che coinvolge anche tutte le Province italiane, tutela a fortiori assicurata
dalla successiva ratifica avvenuta con legge 30 dicembre 1989, n. 439.
All’art. 5 della Cost. viene infatti previsto che “la Repubblica, una e
indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei
servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento
amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione
alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Pertanto, dalla garanzia del principio autonomistico sopra esposto
discende, anzitutto, il riconoscimento della capacità delle collettività
locali di darsi un proprio indirizzo politico amministrativo, anche diverso
da quello del governo nazionale e regionale.
La Costituzione italiana del resto mette chiaramente in rilievo la
posizione della Provincia come ente rappresentativo della collettività
locale, come ente autonomo territoriale, accanto agli altri enti cui si
distribuisce l’esercizio della sovranità popolare e si organizza il
pluralismo politico-amministrativo.
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L’attuale art. 114 della Costituzione, come riformato con la legge cost. n.
3/2001, equipara il rango costituzionale di Regioni, Province, Città
metropolitane e Comuni, che insieme allo Stato, costituiscono la
Repubblica, ed espressamente al comma 2 prevede che “…le
Provincie…sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni
secondo i principi fissati dalla Costituzione”. Insomma, “la pari
dignità politico costituzionale si traduce qui in una parità di
regime giuridico di tutti gli enti del governo territoriale, tutti
definiti nel loro contesto ordinamentale, tanto sul versante
organizzativo che su quello funzionale, dai principi della
Costituzione”.
Rafforza il precetto costituzionale citato il successivo art. 119 della
Costituzione.
Tale
articolo
stabilisce
chiaramente
che
le
“Province…hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa…Le
Province hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi
ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i
principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi
erariali riferibili al loro territorio”.
Ma vi è di più, la recente legge delega in materia di federalismo fiscale n.
42 del 5 Maggio 2009 costituisce l’attuazione del citato art. 119 Cost.,
assicurando autonomia di entrata e di spesa di Comuni, Province, Città
metropolitane e Regioni, GARANTENDO I PRINCIPI DI
SOLIDARIETÀ E DI COESIONE SOCIALE IN MANIERA DA
SOSTITUIRE GRADUALMENTE, PER TUTTI I LIVELLI DI
GOVERNO, IL CRITERIO DELLA SPESA STORICA E DI
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GARANTIRE
LA
RESPONSABILIZZAZIONE
LORO
E
L’EFFETTIVITÀ
MASSIMA
E
LA
TRASPARENZA DEL CONTROLLO DEMOCRATICO NEI
CONFRONTI DEGLI ELETTI.
L’art. 11 di tale legge, rubricato “Principi e criteri direttivi concernenti il
finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane” prevede il
finanziamento delle funzioni fondamentali anche delle Province. Su
questa architettura istituzionale, si dovrebbe quindi realizzare il principio
costituzionale dell’autonomia finanziaria, contenuto nell’art.119 della
Costituzione, di ciascun soggetto territoriale del sistema, fondata su
risorse proprie, compartecipazioni ed eventuali riequilibri perequativi.
Sulle norme del federalismo fiscale trova consacrazione il nesso
inscindibile tra assetto delle competenze amministrative e assetto delle
risorse finanziarie, nella prospettiva di una piena valorizzazione
dell’autonomia finanziaria delle Province.
I frutti della Carta si sono potuti vedere non solo in rapporto all’opera di
continuo stimolo e collaborazione tra Consiglio d’Europa e UE (e che ha
portato infine ad una forte valorizzazione della Rappresentanza delle
autonomie regionali e locali in sede UE nel recente Trattato
Costituzionale), ma anche relativamente al “precipitato” normativo che,
all’interno dei singoli ordinamenti statali è direttamente o indirettamente
riconducibile alla CEAL ed ai principi in essa contenuti. Tale concezione,
dunque, è strettamente collegata al già citato principio di sussidiarietà e
presuppone un tendenziale autogoverno delle collettività locali tramite
“Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario,
diretto e universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro
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confronti”(art. 3.2). La precisazione di una legittimazione democratica degli
organi rappresentativi a livello locale, dunque, è il primo tassello per una
costruzione di un sistema delle autonomie locali che garantisca
democrazia e partecipazione nella gestione della cosa pubblica.
Ai fini del presente ricorso si pone l’accento su un’ulteriore spunto di
riflessione offertoci dalla CEAL: in particolare recita l’art.5 della CEAL
recante “Tutela dei limiti territoriali delle collettività locali. Per ogni
modifica dei limiti locali territoriali, le collettività locali interessate dovranno essere
preliminarmente consultate, eventualmente mediante referendum, qualora ciò sia
consentito dalla legge.”
E’ chiara la distanza tra le garanzie offerte dai precetti di tradizione
europeistica ed invece la impostazione assunta dal Governo italiano al
varo delle norme della c.d. spending review.
Un ultima notazione sull’argomento ci sia consentita: in sede di
conversione del Decreto Legge n.95/2012, nella medesima seduta del 7
Agosto 2012, su proposta dell’On. Foti Tommaso, e dei cofirmatari On.li
Ghiglia Agostino Aracri Francesco Polledri Massimo, la Camera,
rafforzando quanto già disposto a livello europeo, e recepito con legge
ordinaria, ulteriormente accoglieva l’Ordine del Giorno 9/05389/004
testualmente riportato:
“La Camera, premesso che:
l'articolo 17 del provvedimento in esame reca il riordino delle province e loro funzioni,
impegna il Governo
a valutare l'opportunità, e nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica, di
consentire alle Province di potere assumere gli atti amministrativi
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prodromici a dare effettività alle previsioni di cui all'articolo 5 della
legge 30 dicembre 1989, n. 439.”
E’ chiara la scissura determinata dalla normativa varata in tema di
riordino in aperto dispregio delle più elementari norme di democrazia e
partecipazione che lo Stato Italiano ha recepito agli arbori del rinnovato
slancio europeo, ha fatto proprie, dapprima recependo i precetti europee,
per poi consacrarli nella propria Carta fondamentale. I provvedimenti
varati dal Governo nella loro complessità, in modo specioso appaiono
conseguire fini nobili nell’interesse del Paese, ma nella sostanza,
tradiscono i principi profondi che ispirano da sempre la democrazia.
La CEAL va infatti oltre al dettato costituzionale, e richiama la possibilità
di un ricorso a forme di partecipazione diretta (quali referendum e
assemblee di cittadini), se consentite e disciplinate a livello legislativo.
Da segnalare, infine, l’art. 11, in relazione alla tutela legale dell’autonomia
locale. Tale disposizione prevede che “le collettività locali devono disporre di un
diritto di ricorso giurisdizionale, per garantire il libero esercizio delle loro
competenze ed il rispetto dei principi di autonomia locale, consacrati dalla
Costituzione o dalla legislazione interna”.
Tale norma, non a caso inserita tra i dieci paragrafi a efficacia
rinforzata ex art. 12 CEAL, mira a garantire, sul piano del diritto
interno, che i principi di autonomia che stanno alla base della
Carta non rimangano privi di garanzie giurisdizionali.
Si tenta, quindi, di recuperare sul piano interno una delle più evidenti
lacune del testo sul piano del diritto internazionale: la mancanza di forme
di controllo e di garanzia. La disposizione, che si inserisce in qualche
modo nel dibattito sul riconoscimento di un accesso diretto degli enti
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locali alla giurisdizione costituzionale (da ultimo previsto, ad esempio,
nel disegno di legge di revisione attualmente in discussione nel
parlamento italiano), non specifica le forme di una tale garanzia
giurisdizionale, potendosi quindi ritenere sufficiente anche la
tutela in sede di giurisdizione amministrativa.
A tal proposito, vale la pena ricordare la giurisprudenza della Corte
costituzionale, che dopo la riforma del Titolo V del 2001, ha evidenziato
quanto le norme dei trattati internazionali costituiscano norme interposte
nei giudizi di legittimità costituzionale, essendo il legislatore ordinario,
statale e regionale, tenuto a rispettare, ai sensi dell’art. 117, I comma,
Cost., i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, anche di carattere
pattizio (cfr. Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348; Corte cost., 24 ottobre
2007, n. 349).
L’articolazione procedurale dettata dall’art.17, all’interno della quale si
colloca con preminente funzione la Deliberazione impugnata in questa
sede, al pari del logico loro presupposto normativo, e tale è l’art.23 del
Decreto Legge n. 201/2012, costituisce uno iato stridente con la nostra
Carta Costituzionale, una sorta di diverticolite normativa dalle
potenzialità destruenti del genoma costituzionale e del patrimonio
precettivo
realizzato
con la Carta europea delle autonomie locali,
sottoscritta a Strasburgo il 15 ottobre 1985 e ratificata dall’Italia con
legge 30 dicembre 1989, n. 439.
Appare di tutta evidenza, senza necessità di ulteriore argomentazioni, il
contrasto dell’art. 23 del D.L. n.201/2011, e dei suoi degni successori,
segnatamene all’art.17 in combinato disposto con la Deliberazione del
Consiglio dei Ministri, con le citate norme convenzionali determini,
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dunque, l’illegittimità costituzionale della normativa interna per
violazione dell’art. 117, I comma, Cost.
Da ultimo non può poi peraltro sfuggire l’ulteriore contegno assunto dal
Governo del tutto lesivo delle prerogative parlamentari nell’adozione
della Deliberazione del 20 Luglio 2012.
Deve infatti ricordarsi che il Governo ha ritenuto, nel menzionato art.17
del D.L. 95/2012, demandare al Consiglio dei Ministri, entro 10 giorni
dalla data di entrata in vigore dello stesso, la puntuale quantificazione dei
requisiti in esso individuati ancor prima che il Parlamento potesse
procedere, entro i consueti 60 giorni, all’esame della conversione dello
stesso Decreto in legge. Come infatti evidente, il parlamento ben avrebbe
potuto, nell’esercizio legittimo delle proprie funzioni, emendare e
sostituire entrambi i requisiti prescritti dall’art. 17 de quo, che a questo
punto sarebbero invece già stati segnatamente indicati dall’avvenuta
deliberazione del Consiglio dei Ministri.
d) ILLEGITTIMITA’
IRRAGIONEVOLEZZA,
PER
LA
DELL’ATTO
MANIFESTA
CHE
NE
DETERMINA IL CONTRASTO CON L’ART. 3 COST. –
ILLEGITTIMITA’ DERIVATA
Le ragioni che la relazione allegata al testo del decreto – legge adducono
per giustificare la radicale riforma dell’ordinamento provinciale che il
decreto stesso realizza, sono di carattere esclusivamente economico,
consistendo, in ultima analisi, nel risparmio di spesa che la riforma stessa
consentirebbe, ad avviso del Governo, di realizzare.
Ciò si desume, del resto, dalla stessa rubrica dell’art. 23, che parla,
appunto, di “Riduzioni di spesa. Costi degli apparati”. Per quanto riguarda, in
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particolare, il taglio dei cosiddetti “costi della politica”, al quale
sembrerebbero da ricondurre gli interventi relativi agli organi di governo
delle Province, esso dovrebbe consentire, secondo la relazione, di
realizzare un risparmio di spesa stimato, sulla base, peraltro, di un calcolo
meramente ipotetico, in 65 milioni di euro lordi. Sennonché, a parte
il fatto che simili esigenze di carattere economico non potrebbero certo
giustificare, la violazione dell’autonomia che la Costituzione riconosce
alle Province, la normativa in questione appare per più profili affetta da
irragionevolezza, incongruità e contraddittorietà.
Va detto, in primo luogo, che lo stesso Governo si mostra estremamente
dubbioso circa la possibilità di conseguire effettivamente gli obiettivi di
risparmio di spesa enunciati nella citata relazione al decreto – legge, dal
momento che, nella medesima relazione, si dichiara che “il risparmio di
spesa associabile al complesso normativo in esame – 65 milioni di
euro lordi – è destinato a prodursi dal 2013 e peraltro in via
prudenziale non viene considerato in quanto verrà registrato a
consuntivo”.
Ma l’impossibilità di conseguire un simile obiettivo appare certa, se si
considera che i risparmi, meramente ipotizzati, che deriverebbero dalla
riforma sono destinati a essere assorbiti dai costi che la stessa comporta
per l’istituzione e il funzionamento di una serie di strutture
amministrative, di livello regionale o sovracomunale, necessarie per lo
svolgimento delle funzioni attualmente espletate dalle Province, e, in
particolare, delle unioni o organi di raccordo comunali previsti dal
comma 21, nonché delle strutture che lo Stato o le Regioni dovrebbero
costituire, ai sensi del comma 19, per assicurare il necessario supporto di
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segreteria per l’operatività degli organi della Provincia. Ove, poi, si
consideri che buona parte delle funzioni oggi di competenza provinciale
sono destinate, con ogni probabilità, a essere trasferite alle Regioni e che
i dipendenti provinciali ad esse addetti finirebbero, di conseguenza, con il
transitare nei ruoli regionali, godendo di un trattamento economico
superiore a quello attuale, appare del tutto evidente come la riforma
rischi, in realtà, di produrre un risultato esattamente opposto a quello
auspicato, determinando un aumento complessivo della spesa pubblica,
anziché una sua riduzione. La necessità di riallocare le funzioni che
attualmente svolge la Provincia comporterebbe, poi, verosimilmente,
data la strutturale inadeguatezza del livello comunale all’espletamento
delle funzioni di area vasta e la grande difficoltà di costituire forme
associative o di collaborazione tra Comuni, un accentramento delle
funzioni stesse a livello regionale, con conseguente pregiudizio per
l’efficienza
dell’attività
amministrativa
e
allontanamento
delle
amministrazioni dai cittadini.
Una incomprensibile involuzione del percorso riformista avviato da oltre
un ventennio, che riporta il Paese all’infausto ed improbo centralismo
autarchico, superato con fatica, con le Bassanini, la riforma del Titolo V
della Costituzione, tradito oggi da poche norme, prive di senso e
coordinamento.
L’irragionevolezza delle soluzioni adottate con la normativa di cui al
Decreto Legge Salva Italia si estende con soluzione di continuità al
successivo decreto, convertito in Legge n.135/2012 e alla Delibera del
Consiglio dei Ministri che di tali norme sono la estrema conseguenza.
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La irragionevolezza appare, d’altronde, ancor più evidente, se si
considera che non sarebbero mancate soluzioni alternative, che
avrebbero potuto consentire di realizzare più agevolmente gli obiettivi di
risparmio di spesa perseguiti, senza sacrificare l’autonomia di enti
territoriali garantiti dalla Costituzione, dall’accorpamento delle Province
esistenti, specie laddove il loro numero è stato artificiosamente
aumentato, nel periodo più recente, all’istituzione delle Città
metropolitane, da tempo previste dalla legislazione ordinaria e, ora, anche
dalla Costituzione, ma mai attuate, all’accorpamento degli uffici statali
periferici, alla riduzione di quella miriade di enti pubblici, statali e locali,
di carattere funzionale che non godono, a differenza degli enti territoriali,
di garanzia costituzionale e le cui funzioni potrebbero (e dovrebbero, in
base all’art. 118 Cost.) essere attribuite a questi ultimi.
Non meno irragionevole appare, d’altra parte, la scelta del legislatore di
incidere, per di più mediante lo strumento del decreto – legge,
sull’ordinamento delle Province, fino a trasformare radicalmente l’assetto
attuale dell’ente, sotto il profilo organizzativo e funzionale, con una
normativa parziale e frammentaria, che appare priva di qualsiasi
coordinamento con l’ordinamento degli enti locali delineato, nel quadro
dei principi costituzionali, dal testo unico n.267 del 2000, e richiede
l’intervento, in funzione attuativa e integrativa, di ulteriori leggi statali e
regionali, i cui contenuti e i cui tempi di approvazione appaiono
largamente indeterminati. La mancanza di qualsiasi coordinamento tra la
normativa in questione e l’ordinamento degli enti locali appare fonte di
incertezza sul piano applicativo e si pone in evidente contrasto con
l’esigenza di coerenza che caratterizza l’ordinamento medesimo e che
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trova espressione, fra l’altro, nel principio enunciato nell’art. 1, comma 4,
del testo unico del 2000, in base al quale deroghe alla disciplina
contenuta nello stesso testo unico possono essere introdotte solo
“mediante espressa modificazione delle sue disposizioni”.
Gli assunti sinora postulati non mancano del conforto costituzionale che
ha ribadito, in più occasioni, quanto il sindacato di legittimità delle leggi
ben può estendersi
alla
verifica della loro ragionevolezza
e
proporzionalità rispetto al fine perseguito dal legislatore (cfr., per tutte,
Corte cost., 1° agosto 2008, n. 326; Corte cost., 21 dicembre 2007, n.
452). La palese irragionevolezza delle disposizioni dell’art. 23 del d.l. n.
201 del 2011 le rende, dunque, manifestamente illegittime per violazione
dell’art. 3 Cost., al quale è riconducibile, secondo il citato orientamento
giurisprudenziale, il principio di ragionevolezza dell’attività legislativa.
e) ILLEGITTIMITA’ PER VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO
DI SUSSIDIARIETÀ VERTICALE E ALTRESÌ DEL
PRINCIPIO
DI
DIFFERENZIAZIONE
ED
ADEGUATEZZA SANCITO DELL’ARTICOLO 118 COST.
Invero i criteri determinati dal Consiglio dei Ministri, nel non tener conto
delle peculiarità geo-morfologiche proprie di ciascuna provincia italiana,
si pongono indirettamente in netto contrasto con la corretta applicazione
sia del principio di sussidiarietà, e nello specifico quella verticale, quanto
altresì con quello di differenziazione ed adeguatezza sancito all’art. 118
Cost.
Il
principio di sussidiarietà verticale, contemplato da quest’ultima
disposizione, privilegia il livello comunale nell’esercizio delle funzioni
amministrative, tuttavia richiedendo la allocazione delle stesse al livello
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direttamente superiore, in primis quello provinciale, al fine di garantire ed
assicurare un trattamento più uniforme in relazione al territorio preso a
riferimento.
Non può infatti sottacersi che, nel caso di specie, la mancanza per la
odierna ricorrente del requisito dimensionale territoriale si tradurrebbe,
stante il vigente dettato normativo, in una soppressione- accorpamento
con l’altra provincia presente nel basso Lazio, quella di Frosinone
originando così un Ente provinciale ben più esteso e popoloso
addirittura di altre regioni Italiane.
Il nuovo Ente provinciale del Lazio Meridionale, Latina-Frosinone,
arriverebbe dunque infatti a contare circa 1 milione e 100 mila abitanti su
un territorio vastissimo di ben 5.000 Kmq, dovendosi considerare di
fatto come Provincia solo nel nomen.
Dall’accorpamento infatti la nuova circoscrizione provinciale risulterebbe
tra le più popolose, nonché più estesa dell’intera Regione Liguria.
In buona sostanza dunque l’entità territoriale amministrativa più vicina al
cittadino, immediatamente consequenziale ai comuni, diverrebbe, nella
fattispecie in esame, un ente che, in pratica del tutto simile ad una
regione, oltre a correre il concreto rischio di distanziarsi dalle tematiche
locali, verrebbe altresì oberato dal crescente carico degli adempimenti
rivelandosi del tutto inefficiente all’esercizio della potestas amministrativa.
Del resto la concretezza del paventato rischio lesivo delle garanzie
costituzionali sussidiaristiche, è apparso altresì condiviso ed argomentato
dai ben 33 Comuni della Provincia Pontina che, nonostante dal
combinato disposto del D.L. 201/2011 e D.L 95/2012, abbiano ottenuto
un potenziamento ed implementazione delle proprie funzioni, hanno
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tuttavia inteso sottoscrivere un documento, “Salviamo le Province, non il
provincialismo” (DOC.4), nella consapevolezza che il ruolo fondamentale
della Provincia di Latina, per l’operato svolto, oltre che per la presenza e
sussidio mostrati negli anni al territorio di propria competenza,
difficilmente possano essere adeguatamente sostituiti ne con la creazione
di una macro-provincia, che è bene ancora una volta ribadire si connota
più come “Regione Latina-Frosinone” che come ente provinciale, ne
tantomeno con la devoluzione-frazianamento di competenze della stessa
a Regioni e Comuni.
*** *** ***
L’atto impugnato oltre a recare seco gravi vizi di incostituzionalità
derivata, importando sul piano della effettività un vulnus alle prerogative
costituzionalmente garantite alle autonomie locali, segnatamente alle
Province, quali istituzioni equiordinate in cui si articola lo Stato,
e
rilevabili dal giudice a quo, presenta ulteriori e non meno evidenti vizi di
legittimità per i seguenti motivi:
V.
VIOLAZIONE DELLA LEGGE N.241/90 E S.M.I PER
ASSOLUTA CARENZA MOTIVAZIONALE VIOLAZIONE ED
ECCESSO
DI
PERPLESSITÀ
POTERE,
CARENZA
DELL’AZIONE
ISTRUTTORIA,
AMMINISTRATIVA,
VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI BUON ANDAMENTO,
IRRAGIONEVOLEZZA, INGIUSTIZIA MANIFESTA
L’agere dell’amministrazione come autorità è il potere, ma il potere lo si
vuole assoggettato alla legge, e dal suo assoggettamento alla legge deriva
(art. 3 della legge n. 241 del 1990 ), in primo luogo, il suo essere
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incatenato all’obbligo di motivazione , obbligo strumentale, non finale,
via attraverso cui il potere si fa legittimo, disvela le sue ragioni, ostende
in pubblico la giustificazione del suo operare, concilia quando può,
sceglie quando deve.
In apicibus, può essere evidenziato che non appare revocabile in dubbio
l’affermazione secondo cui la motivazione rappresenta un elemento
essenziale del provvedimento amministrativo.
Sul punto può essere citato l’art. 3, L. n. 241/1990 laddove si sancisce
che “Ogni provvedimento amministrativo .. deve essere motivato”.
Ebbene, alla luce di quanto asserito, preme rilevare che la Deliberazione
del Consiglio dei Ministri del 20 Luglio 2012, presenta un grave deficit
motivazionale.
Di fatto, l'atto in questione, pur richiamando in premessa espressamente
il D.L. n. 95/2012, e segnatamente l'articolo 17, comma 2, che enuclea i
due requisiti per il riordino delle province ossia quello dimensionale
territoriale e quello della popolazione residente in ciascuna provincia,
non appare in alcun modo motivare la scelta quantitativa dei 2.500 Kmq
e dei 350 mila abitanti.
In
assenza
di
siffatta
motivazione,
ci
si
interroga
dunque
necessariamente e legittimamente sul perché siano stati individuati
proprio 2.500 Kmq e non 2.450 Kmq, o 360 mila abitanti in luogo dei
350 mila prescritti, né l’atto presupposto (art.17) reca un corredo
motivazionale congruo alla scelta dei due soli criteri ovvero di quei criteri
in luogo di altri.
Ebbene, pare corretta la qualificazione della motivazione quale elemento
essenziale del provvedimento in considerazione, oltre che dell’evoluzione
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sottesa all’emergere del concetto stesso di motivazione, dello stesso dato
positivo ed in particolare dell’art. 1, Legge n.241/1990 che attribuisce ai
criteri di pubblicità e trasparenza dell’attività amministrativa il crisma di
principi generali dell’agere pubblicistico. E’ indubitabile, infatti, che detti
principi trovano un momento di attuazione proprio mediante
l’esternazione dei presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno
determinato - in relazione alle risultanze dell'istruttoria - la decisione
dell'amministrazione. Se pertanto si riconduce l’istituto della motivazione
ad uno strumento attuativo dei suddetti principi generali dell’azione
amministrativa, il carattere essenziale dell’istituto risulta essere in re ipsa.
Non sfugge allora quanto i criteri determinati dal Consiglio dei Ministri:
-
non tengono conto di alcun tipo di fattore legato alla
peculiarità di ogni provincia italiana, come ad esempio la
posizione geografica, le caratteristiche geo-morfologiche, il
reddito prodotto, le tradizioni storico-culturali dei territori
coinvolti nel processo di riordino;
-
non sono in grado di individuare alcun elemento di
virtuosità, né connesso alla efficienza amministrativa, né alla
capacità e/o solidità dei conti pubblici, con ciò ponendo
sullo stesso piano le province che negli anni si sono
contraddistinte per una efficiente e virtuosa gestione e quelle
invece che tali virtuosità hanno completamente disatteso;
-
comportano per la Provincia di Latina, caratterizzatasi da
una sana gestione amministrativo finanziaria, un gravissimo
pregiudizio e nocumento, venendo i territori di cui è
rappresentativa del tutto sacrificati senza una valutazione
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reale e concreta circa i servizi erogati e la capacità di governo
di area vasta sino ad oggi esercitata;
-
i criteri non tengono in alcuna considerazione le differenze
correnti tra le Regioni Italiane, né sono in grado di
considerare la peculiarità che presenta la Regione
Lazio, in relazione alla presenza di Roma Capitale, e della
ineludibile necessità, proprio in ragione di tale presenza, di
assicurare più livelli di governo di area vasta in grado di fare
sintesi e coesione amministrativa, a salvaguardare quei
territori da sempre lontani da Roma e troppo spesso
penalizzate da politiche
promananti dalla Regione
romanocentriche;
-
determineranno una concentrazioni delle funzioni per
ciascun ambito territoriale, e con esso una depauperamento
del principio dell’autonomia e del federalismo, che implicano
la dismissione di tutte le politiche sinora attuate dirette a
garantire la centralità dei servizi ed il loro coordinamento.
Non convince la tesi della natura regolamentare dell’atto de quo,
ovvero la sua astratta generalità, per eludere l’obbligo, giacchè nel
momento stesso in cui si quantificano i criteri restano acclarate le
Province moriture.
Né giova a sanare il vizio, ritenere succedaneo alla motivazione il
richiamo che introduce nel primo dei suoi due articoli “Ai fini
dell’attuazione dell’articolo 17 del decreto-legge 6 luglio 2012,
n. 95” attesa la non conformità di una tale inverosimile
giustificazione al paradigma normativo di riferimento, quanto a
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completezza degli elementi costitutivi (risultanze dell’istruttoria e
loro complessiva valutazione).
Non di meno, in linea di mero subordine, tale motivazione appare
censurabile comunque sotto il diverso profilo dell’eccesso di potere
per illogicità della motivazione resa.
VI.
ECCESSO DI POTERE ILLOGICITÀ ED INGIUSTIZIA
MANIFESTA DEI CRITERI ADOTTATI.
La scelta dei criteri minimi quantitativi operata dall’organo collegiale di
Governo con la Deliberazione del 20 Luglio scorso
non può poi
peraltro in alcun modo ritenersi scevra, nel merito, da qualsivoglia
censura attesa
la natura discrezionale dell'atto, conseguendone un
evidente eccesso di potere.
Deve invero puntualizzarsi che il D.L. n. 95 del 2012 nella delega che di
fatto rende al Consiglio dei Ministri, si limita unicamente ad indicare i
due già richiamati requisiti
essendo invece poi l’atto deliberativo a
specificare all’art. 2 che “Le nuove province risultanti dalla procedura di riordino
devono possedere entrambi i requisiti…”.
Tale scelta operata, peraltro anch’essa in assenza di motivazione,
unitamente alla fissazione dei requisiti minimi quantitativi, si connota
come del tutto illogica ed ingiusta, specie nei confronti di quelle
Amministrazioni Provinciali che, come la Provincia di Latina, superano
abbondantemente un solo limite imposto ma non rientrano nei parametri
dell’atro.
La disamina del panorama provinciale italiano, pone la Provincia di
Latina tra le province italiane più popolose, superando il tetto delle 500
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mila unità (il dato ISTAT 2009 registra 555.692 abitanti) viepiù con un
indice di antropizzazione elevato, registrando una densità per chilometro
quadrato pari a 246,9, penalizzata, come in effetti è stata, da una
estensione geografica contenuta 2.251 Km/q.
Ciò ne ha fatto una Provincia moritura.
I suoi 33 Comuni, mostrano più di tante altre realtà provinciali, quanto
l’attuale assetto della Provincia di Latina possa rappresentare un modello
di governance ideale, e presso il quale l’archetipo istituzionale colga il
massimo risultato. Una istituzione di area vasta realmente intermedia alla
Regione Comune, capace di intercettare il fabbisogno democratico ed
amministrativo-gestionale, di Comuni la maggior parte dei quali di
medio-grandi dimensioni.
Del resto le stesse vaticinazioni impartite dal Governo, con noti
provvedimenti,
sollecitano,
imponendolo,
un
processo
di
associazionismo di funzioni per i piccoli comuni ormai inidonei a
rappresentare adeguatamente le rinnovate esigenze delle comunità
amministrate.
In
ciò
tuttavia
sembra
annidarsi
un’ulteriore
contraddittorietà del processo di riordino in fieri, dato dalla evidente
discrasia tra la volontà di accorpare -mediante soppressione di provinceil livello istituzionale intermedio, e la contestuale sollecitazione ad
associare funzioni presso i Comuni di più piccole dimensioni,
innescando così un processo evolutivo di lenta e progressiva rinascita di
agglomerati istituzionali in luogo delle province soppresse.
Lo iato istituzionale nel contesto laziale derivato dal venir meno di ben 3
province tra cui Latina, con i numeri che sopra abbiamo richiamato,
induce a chiedersi come sia ipotizzabile in concreto una gestione di una
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entità amministrativa dalle funzioni ridotte e da una rappresentatività
mortificata dalla incostituzionale degradazione, sancita dall’art.23 del
decreto c.d. Salva Italia.
Ulteriori considerazioni si impongono alla luce degli indicatori
economici, cui agevolmente può farsi ricorso esaminando l’analisi
condotta dal CUSPI-UPI, autrici dell’Atlante Statistico delle Province
Italiane 2011, i quali pongono la Provincia di Latina nelle prime posizioni
tra le Province italiane; posizione che migliora sensibilmente se si
circoscrive il campione alle sole province del centro sud: in particolare,
in base agli ultimi dati forniti dal richiamato studio statistico la Provincia
di Latina produce al 2010 un PIL pari a 12.373,1 Milioni di Euro, con
un Pil pro capite pari a 22.353,1 Euro. Già questi soli dati consentono di
ritenere che i criteri indicati nella proposta di riordino varata dal
Governo –popolazione superiore ai 350mila abitanti e territorio
superiore a 2.500 Kmq– si rivelano del tutto inadeguati a decretare quale
Provincia italiana può permanere e quale invece dovrà soggiacere al
processo forzato di riordino. E’ indubbio quanto i parametri prescelti
siano insufficienti a descrivere e comprendere le peculiarità territoriali
delle istituzioni che intendono riformarsi, inesaustivi a rappresentare
realtà disomogenee dal nord e sud Italia, cui fanno il paio, limiti fissati
con la Delibera del Consiglio dei Ministri, cionostante idonei a far cadere
nella ghigliottina realtà che al contrario hanno diritto, atteso il contributo
che danno alla economia italiana, e per esso al risanamento dei conti
pubblici, di continuare a rappresentare i loro territori.
In chiosa di postilla, la incongruenza dei limiti adottati dalla
Deliberazione del Consiglio dei Ministri appaiono evidenti provando ad
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ipotizzare lo scenario futuro della Provincia di Latina, la quale si vede
accorpata tout court con l’unica provincia laziale superstite, ovvero
Frosinone,
1.053.859
GENERANDO
ABITANTI,
UNA
MAXI
DISTRIBUITI
PROVINCIA
SU
124
DA
COMUNI,
INSISTENTI SU 5.495 KM/Q, LA CAPACE DI GENERARE
UN PIL ANNUO PARI A 24.317 MILIONI di euro il che equivale a
dire una produzione:
SUPERIORE A QUELLA DELLA REGIONE UMBRIA
(21.623) E DELLA REGIONE BASILICATA (10.984)
QUASI PARI A QUELLA DELLA REGIONE ABRUZZO
(28.371);
QUASI QUATTRO VOLTE SUPERIORE A QUELLA
DELLA REGIONE BASILICATA (6.479).
La riduzione degli organi di governo delle Province a due soli organi,
non più eletti direttamente dal corpo elettorale e ridotti nella loro
composizione, limita considerevolmente la capacità di operare scelte di
politica territoriale relative al livello intermedio, pregiudicandone
l’attitudine a svolgere in maniera adeguata quelle stesse funzioni di
indirizzo e di coordinamento dell’attività dei Comuni che dovrebbero
rimanere in capo all’ente intermedio. L’attribuzione, poi, ai Comuni del
potere di eleggere i componenti degli organi di governo delle Province
rischia di accentuare gli effetti negativi della riforma, soprattutto in quelle
zone nelle quali, a causa della frammentazione della dimensione
comunale e della presenza di molti Comuni di piccolissime dimensioni (la
nuova circoscrizione provinciale Latina-Frosinone ne conterà, 124)
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sarebbe difficile trovare professionalità realmente capaci di gestire i
problemi quotidiani di aree tanto vaste e popolose.
Si argomenta da se la sostanziale ed obiettiva impossibilità per l’Ente,
riformato nei termini voluti dal Governo, di gestire adeguatamente
numeri di tale portata e rilevanza. Numeri ai quali rispondono delle
persone (e verso i quali è evidente il dispregio dell’Esecutivo), portatori
di interessi ed istanze cui l’istituzione nel suo complesso è chiamata a
rispondere, secondo i consueti criteri di adeguatezza e prossimità, ma
viepiù depositari della sovranità popolare consacrata dalla Carta
Costituzionale, rivelatasi per il Governo non così fondamentale.
Peraltro, non può poi non rilevarsi in siffatta sede, altresì la
MANIFESTA
ILLEGITTIMITÀ
COSTITUZIONALE
ED
ARBITRARIETÀ DELLA SCELTA STESSA DEI CRITERI
INDIVIDUATI DAL PRESUPPOSTO ATTO della deliberazione in
oggetto, ovvero dall’art. 17, comma 2 del D.L. n. 95 /2012, avvenuta,
oltre che in dispregio di qualsivoglia confronto con le Autonomie locali
altresì in assenza di apposita legge delega.
Il progetto governativo, in realtà, si rivela manchevole proprio sotto il
profilo della coerenza della differenziazione legislativa.
Con una recentissima pronuncia, la n. 151/2012, la Corte costituzionale,
pur riconoscendo la bontà dell’operato del legislatore statale in merito ai
provvedimenti adottati inerenti ai tagli del costo della politica già
contemplati nel decreto-legge n.78/2010, ha rivolto un monito allo Stato,
valido pro futuro, di rispettare i principi fondamentali che la Costituzione
pone a garanzia degli enti locali territoriali. In altri termini, secondo il
giudice delle leggi, situazioni eccezionali, come la grave crisi economica
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che ha colpito l’Italia e l’Europa intera, non possono essere invocate ed
utilizzate dal legislatore per sospendere le garanzie costituzionali di
autonomia di Comuni e Province stabilite dalla Carta. Lo Stato, pertanto,
se da un lato deve affrontare con decisione l’emergenza finanziaria,
dall’altro
deve
predisporre
rimedi
che
siano
consentiti
dall’ordinamento costituzionale.
Ebbene, il Governo ben avrebbe potuto, laddove la scelta fosse stata
frutto di una attenta valutazione delle risultanze istruttorie, salvare
quanto meno quelle Province la cui popolazione superi le 500 mila unità,
evitando che dall’accorpamento derivassero mostri istituzionali dalle
ingestibili dimensioni. E’ il caso della Provincia di Latina, di cui si è già
avuto occasione di dire, con dati alla mano.
Del resto questo semplice correttivo non sarebbe pesato sulla
fantomatica necessità di conseguire risparmi e/o riduzioni della spesa
pubblica, atteso che delle Province moriture, solo 6 tra cui appunto
Latina, sforano il tetto dei 500 mila abitanti, tetto accompagnato come
evidente da una antropizzazione forte, dovuta alla carenza del requisito
minimo territoriale che le avrebbe al contrario mantenute in vita.
E’ patrimonio comune della nostra cultura giuridica l’assunto per cui
anche il principio autonomista, sancito dall’art. 5 Cost. “La Repubblica,
una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua
nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento
amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione
alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”, concorre a
realizzare il principio democratico che informa, nel suo complesso,
l’ordinamento repubblicano.
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Il concetto di autonomia locale è chiaramente ribadito dalla Carta
europea delle autonomie locali, recepita in Italia con la legge 30 dicembre
1989, n. 439, che, dopo aver sancito all’art. 2 che “Il principio
dell’autonomia locale deve essere riconosciuto dalla legislazione
interna, e per quanto possibile, dalla Costituzione” all’art. 3 precisa:
“Per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva,
per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare
nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle
popolazioni, una parte importante di affari pubblici. Tale diritto è
esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a
suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di
disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti”. Un
percorso culminato nella riforma del Titolo V della Costituzione che ha
introdotto il principio di pariordinazione tra diversi livelli di governo, un
elemento profondamente innovativo ed in grado di definire le concrete
relazioni tra Enti locali, Regioni e Stato.
Tanti e tali conquiste garantiste sembrano essere state travolte da uno
ztunami normativo, caratterizzato da un eccesso di disinvoltura, dalla
superficialità e dalla fretta che di sovente colora gran parte dei processi
riformatori italiani, che merita in questa sede di essere perentoriamente
censurata.
VII.
INCOMPETENZA DEL SOGGETTO CHE HA POSTO IN
ESSERE L'ATTO IMPUGNATO - INCOMPETENZA DELLA
MATERIA SU CUI QUESTO DISPIEGA I SUOI EFFETTI.
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In ossequio a quanto statuito dall’art. 3, lett. q) della L. n. 400/1988,
sono sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri tutti quei
provvedimenti per i quali essa sia prescritta.
Orbene, nell’ipotesi in esame la competenza all’emanazione della
Deliberazione del 20 Luglio 2012 da parte del Consiglio dei Ministri,
pacificamente deve rinvenirsi dall’espresso dettato dell’art. 17, comma 2
del D.L. 95/2012 che demanda alla deliberazione consiliare il compito di
adottare, entro 10 giorni dalla entrata in vigore dello stesso decreto, i
criteri quantitativi di riordino delle province italiane.
Tuttavia, non può sfuggire che il D.L. 95/2012, atto presupposto della
deliberazione de qua, ha erroneamente e del tutto illegittimamente
demandato ad un organo come quello del Collegio dei Ministri,
l’attuazione
del
citato
art.17
concernete
materia
strettamente
costituzionale, con la conseguente inevitabile incompetenza dello stesso
alla puntualizzazione dei criteri riorganizzativi delle Province.
Di fatto, preme rilevare che il nuovo assetto istituzionale provinciale,
ridisegnato dal D.L. n.95/2012, convertito in L. n.135/2012, e
susseguente Deliberazione del Consiglio dei Ministri 20 Luglio 2012,
modifica del tutto arbitrariamente ed illegittimamente l’attuale dettato
della Carta Costituzionale che, all'art.114, comma 1, individua nelle
province una delle articolazioni fondamentali della Repubblica e pertanto
come noto, può essere oggetto di revisione unicamente nelle forme e nei
modi prescritti dall’art.138 della stessa Costituzione e non anche con
mera legge ordinaria, peraltro emanata a seguito di conversione di
decreto legge, o con atto amministrativo.
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Di tutta evidenza appare dunque la competenza esclusiva del Parlamento
nella materia de qua su cui la delibera incompetentemente spiega i propri
effetti.
Tale assunto appare viepiù confortato da quanto disposto all’art. 15 della
L. n. 400/1988 sulla scorta del quale non possono formare oggetto di
decretazione d’urgenza le materie previste dall’art.72, 4 comma della
Cost., tra le quali appunto rientra quella costituzionale.
Acclarata dunque la natura squisitamente costituzionale della materia
oggetto
dell’atto
impugnato,
come
vieppiù
comprovato
dalla
disposizione dell’art.133 Cost, preme altresì rilevarsi che la delega
presente nell’art. 17, comma 2, del D.l. n. 95/2012, si sostanzia peraltro
come una vera e propria “delega in bianco” conferita dal Governo allo
stesso Governo e pertanto assunta in violazione dell’art.76 Cost. che
afferma che “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo
se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e
per oggetti definiti”, ragion per cui ex art. 15 della L. n. 400/1988
l’Esecutivo non può mediante decreto legge conferire deleghe legislative
ai sensi dell’art. 76 Cost.
VIII.
VIOLAZIONE
DEL
PRINCIPIO
DI
LEALE
COLLABORAZIONE IN RELAZIONE ALL’ART. 8 DELLA
LEGGE 5.6.2003 N. 131 RECANTE DISPOSIZIONI PER
L’ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA ALLA LEGGE
COSTITUZIONALE 18.10.2001 N. 3.
Il
comma 18, del richiamato art.17 del D.L. n. 95/2012, ove si
prevede l’intervento
sostitutivo dello Stato, viola il principio di
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leale collaborazione non rientrando, le fattispecie ivi normate, nell’art.
120 della Costituzione così come applicato nell’art. 8 della L.n.131/2003.
Oltre a ciò la mancanza di concertazione tra Stato e Regioni ed enti locali
di per sé viola il principio di leale collaborazione.
Emerge con sufficiente chiarezza quanto l’attuazione delle singole
disposizioni esaminate disattenda l’unico obiettivo della “manovra”
quello cioè di produrre una riduzione delle spese, posto che da una loro
disamina viene dimostrata la
inidoneità
delle misure al
perseguimento e la estraneità di tale obiettivo
suo
da un intervento
strutturale sull’autonomia degli enti locali costituzionalmente definita e
garantita: nessun risparmio di spesa deriva dalle norme impugnate, e se
risparmio vi è, sicuramente è sproporzionato alla deflagrazione
dell’architrave istituzionale voluto dalle disposizioni costituzionali.
Sarebbe stato auspicabile, nei termini pure prospettati dalla Unione delle
Province italiane con un ordine del giorno del 7.12.2011, e di cui l’atto
deliberativo assunto dal Consiglio provinciale n.4/2012 (DOC.3) in
allegato, condividere con le Regioni, Province ed i Comuni una proposta
unitaria di riordino complessivo delle istituzioni territoriali capace di
ingenerare riduzione della spesa, razionalizzazione dei costi di gestione e
parimenti
la
democraticità
ed
il
pluralismo
amministrativo
dell’ordinamento garantita dalle norme costituzionali.
La norma impugnata, con ciò, viola quel principio di ragionevolezza nel
quale ravvisare l’interesse interesse pubblico a non poter giustificare una
così grave limitazione e invasione della sfera di competenza regionale e
degli altri enti locali territoriali.
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L’uso del decreto legge, unitamente al breve termine concesso alle
Regioni per ottemperare a disposizioni a loro volta invasive della loro
competenza legislativa concorrente, non è giustificato da un risparmio
economico non dimostrato e a scapito delle Regioni e degli enti locali.
ISTANZA CAUTELARE
Sussistono i presupposti previsti dall’articolo 21 della legge TAR per
l’emanazione dei provvedimenti cautelari finalizzati alla sospensione della
efficacia dell’atto impugnato.
Rinviando, per quanto concerne il fumus boni juris, alle deduzioni in
diritto, per ciò che riguarda il periculum in mora pare opportuno osservare
quanto segue.
Non può dubitarsi della lesività grave ed immediata dell’atto in questa
sede impugnato, né dubbi della sussistenza di ragioni che impongono di
esaminare con urgenza, già in sede di delibazione dell’istanza di
sospensione, la questione di legittimità costituzionale al fine di rimettere
in via immediata atti e parti avanti la Corte Costituzionale.
Sul punto è noto infatti che il Giudice delle Leggi ha più volte statuito
che il Giudice amministrativo ben può sollevare questione di legittimità
costituzionale in sede cautelare, sia quando non provveda sulla domanda
cautelare, sia quando conceda la relativa misura, purché tale concessione
non si risolva, per le ragioni addotte a suo fondamento, nel definitivo
esaurimento del potere cautele del quale in quella sede il giudice
amministrativo fruisce (cfr., fra le tante, Corte Costituzionale 07 luglio
2010 n. 236).
Quanto al periculum in mora lo stesso è ravvisabile nell’essere il
procedimento di riordino -il cui avvio è stato sancito proprio dalla
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determinazione dei limiti di cui all’atto deliberativo impugnatoattualmente in fieri senza possibilità di arresto,
tutelato dai poteri
sostitutivi predisposti dall’articolo 17 del D.L. n.95/2012.
La cadenza temporale da quest’ultimo determinata del resto non offre
alternativa alcuna, all’esito della quale già il prossimo 3 Ottobre il CAL
del Lazio sarà tenuto sulla scorta dei limiti indicati dal Governo a
formulare la proposta di riordino da inviare alla Regione.
Tra le conseguenze immediate del processo militano in favore della
invocata misura cautelare, motivazioni non di minore interesse legate allo
sconcerto ed alla incertezza determinata dal riordino in atto. Le politiche
attuative del programma di mandato devono necessariamente essere
rivisitate, anche con riferimento alla capacità organizzativa e funzionalità
della macchina burocratica che, come detto, sconta un malessere
generalizzato conseguente alla incertezza sul destino di una provincia
moritura, sulla paura di entrare a far parte di processi di gestione degli
esuberi non meramente eventuali, bensì concreti e piuttosto importanti.
Si insiste quindi per l’emanazione di un ordine cautelare volto a
paralizzare, nel tempo necessario alla decisione nel merito delle presenti
eccezioni ed anche alla luce della eccepita incostituzionalità delle
disposizioni indicate in narrativa segnatamente alla disciplina di cui all’art.
23, commi 15, 16, 17 e 20, del d.l. n. 201 del 2011, la quale, del resto, è
stata oggetto di impugnativa in via principale da parte di diverse Regioni
(Campania, Lazio, Lombardia, Molise, Piemonte ed altresì la stessa
resistente mediante intervento ad adjuvandum), i cui ricorsi sono
attualmente pendenti davanti alla Corte costituzionale, con udienza
fissata in data 6 Novembre p.v.. La questione deve, d’altra parte, ritenersi
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rilevante nell’ambito del presente giudizio, dal momento che il suo
accoglimento comporterebbe il venir meno delle norme legislative sulla
base delle quali sono stati emanati i provvedimenti impugnati e la
conseguente illegittimità dei provvedimenti stessi.
In via subordinata, si chiede che codesto Tribunale amministrativo
Voglia ordinare alle autorità amministrative resistenti di riesaminare e/o
modificare i provvedimenti impugnati alla luce dei motivi di diritto
formulati nel presente ricorso.
Sussistono,
dunque,
amministrativo
i
rimetta
presupposti
la
perché
questione
alla
codesto
Corte
Tribunale
costituzionale,
sospendendo il giudizio fino alla decisione della Corte. All’accoglimento
della questione, e al conseguente annullamento della disciplina legislativa
che ne è oggetto, non potrà non conseguire l’annullamento dei
provvedimenti impugnati.
P. Q. M.
si chiede
in accoglimento delle istanze avanzate dalla ricorrente
Provincia di Latina, che l’Ecc.mo Tribunale, disattesa ogni istanza ed
eccezione Voglia:
In via cautelare sospendere il provvedimento impugnato;
In via pregiudiziale: rimettere alla Corte Costituzionale gli atti aventi ad
oggetto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, commi 1, 2,
3, 4 e 4-bis, D.L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito con modificazioni dalla
legge 7 agosto 2012, n. 135.
In via principale: accogliere il presente ricorso con ogni conseguente
provvedimento anche in ordine alle spese, competenze ed onorari di
giudizio.
Si producono in copia i seguenti documenti:
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1) Ordinanza presidenziale conferimento incarico legale n.193 del
04.09.2012;
2) Deliberazione del Consiglio dei Ministri 20 Luglio 2012,
pubblicata in G.U. del 24 luglio 2012 n. 171;
3) Ordine del Giorno approvato dal Consiglio Provinciale con
deliberazione n.4 del 30.01.2012;
4) Ordine del giorno “Salviamo le Province, non il provincialismo”
sottoscritto dai Comuni della Provincia di Latina;
5) Nota spese fase cautelare.
Ai fini e per gli effetti di cui al d.P.R. 115/2002 e ss. mm. e ii., si dichiara che
alla proposizione della presente controversia corrisponde l’obbligo di
versamento di un contributo unificato pari a 600 euro.
Latina - Roma, 18 Settembre 2012
Avv. Giulio Tatarelli
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