Mario Venturi
Arbitro – Maestro Cintura Nera 3° Dan
Oggetto: Passaggio di Grado da 3° a 4° Dan
Io Sottoscritto Mario Venturi Arbitro e Maestro C.N. 3° grado conseguito il 24-05-2008,
chiedo alla Spett.le Commissione Tecnica Kick Boxing di poter accedere agli esami per il
conseguimento del 4° grado, e a tale proposito allego copia della tesi come richiesto dalla
Spett.le Commissione Tecnica.
In Fede
Mario Venturi
Psicologia
dell’insegnamento
nella kick-boxing
A cura di Venturi Mario Maestro e arbitro di Kick-Boxing, c.n. 3° grado.
Mario Venturi
Arbitro – Maestro Cintura Nera 3° Dan
Introduzione
Accingendomi a scrivere di mio pugno, cio’ che negli anni ho appreso, assimilato, sperimentato,
osservato, rielaborato; mi accorgo di quanto sia ‘titanica’ l’impresa che mi sono prefissato: scrivere in
modo succinto ed esauriente una dispensa su come un istruttore debba praticare una attivita’ (in questo
caso la kick-boxing)e quale debba essere l’approccio alla medesima.
Cio’ che mi sono prefisso di fare e’ mostrare quello che in palestra non si ‘vede’, ma c’e’; gli strumenti
che un insegnante deve adoperare per interagire con il gruppo-allievi e quale soluzioni ottimali egli debba
adottare affinche’ cio’ che insegna sia recepito in modo chiaro ed esaustivo.
Non vuole essere ne una recensione ne una pubblicazione ma una ‘Insieme di Riflessioni’frutto di una
esperienza pluriennale in tanti settori dello sport:nuoto, presciistica, danza , kick-boxing e aerobica.
La cosa piu’ curiosa e’ che, partendo dal concetto che tutti gli istruttori hanno un buon bagaglio tecnico e
una buona dose di esperienza, ben pochi hanno l’attitudine all’insegnamento e ancora meno riescono a
comunicare quello che negli anni hanno appreso.
La figura dell’istruttore, per quanto possa sembrare sottovalutata e sottostimata, racchiude in se’ un potere
enorme e una complessita’ di responsabilita’ che vanno al di la’ del semplice insegnamento didattico.
Cerchero’ di non addentrarmi mai nel merito tecnico della disciplina in esame, in quanto ho imparato che
le cosiddette ‘progressioni’ sulla metodologia di insegnamento di una tecnica spesso non solo sono
soggette ad adattamenti del singolo istruttore che, con un po’ di inventiva ,esperienza e capacita’ di
improvvisazione, riesce a farle recepire al suo gruppo- allievi;ma il piu’ delle volte si scontrano con i
singoli individui che recepiscono in modo diverso, con tempi diversi e spesso con problematiche molto
soggettive uno stesso concetto. Da cio’ si evincono problematiche di gruppo e individuali di
apprendimento che impediscono una didattica rigida e lineare: qui l’istruttore naviga in un oceano di
alternative che solo l’esperienza lo aiutera’ a farle proprie e a sceglierle al momento opportuno.
La mia analisi e’ strutturata su cinque capitoli: il primo analizza la figura dell’istruttore e il team-istruttori,
il secondo l’approccio psicologico nei confronti del gruppo, il terzo l’approccio psicologico verso
l’individuo,il quarto verso un gruppo di atleti agonisti,il quinto l' emisfero dei bambini.
Mario Venturi
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Capitolo
Primo
La figura dell’istruttore
E’ di uso comune dire che ‘non sempre il buon atleta e’ un bravo insegnante e il buon insegnante un bravo
atleta’: niente e’ mai stato piu’ vero di questa massima.
Purtroppo colui che decide di avvicinarsi all’insegnamento, spesso, non sa quali responsabilita’ si assume.
L’insegnamento e’ un arte e oso dire, con un po’ di presunzione, che esso e’ una questione ‘GENETICA’.
Un individuo deve essere predisposto caratterialmente a questo tipo di lavoro e ci sono alcune cose che
non si possono imparare: o l’individuo le possiede o non e’ idoneo a svolgere questo tipo di professione.
Tutti possono possedere il patrimonio tecnico in modo esauriente ma non tutti possono avere la capacita’ e
la sensibilita’ di comunicarlo.
Come si puo’ notare la COMUNICAZIONE e’ un concetto che ritorna sempre e io lo reputo il primo
requisito di un istruttore. Il concetto di saper comunicare ha molte sfaccettature e si puo’ cercare di
analizzarlo e razionalizzarlo in questo modo: bisogna saper ascoltare e non sentire, osservare e non vedere,
comunicare e non dire, trasmettere sensazioni e non toccare. La comunicazione si attua con tutti i sensi,
ma per essere tale deve presupporre una partecipazione emotiva, un approccio attivo verso colui al quale
viene trasmesso un messaggio. Inoltre, bisogna stabilire in quali termini comunicare: i tipi, le modalita’, i
tempi.
Ci sono due tipi di comunicazione: verbale (in cui si racchiudono il linguaggio scritto e parlato), non
verbale (in cui si racchiudono il linguaggio visivo, tattile, gestuale).
La piu’ frequente e’ sicuramente quella verbale, di cui quella parlata e’ la forma piu’ utilizzata perche’ e’
immediata e rapida a manifestarsi.
La forma scritta e’ piu’ complessa e a forte impatto di quella parlata in quanto, a differenza di
quest’ultima, rimane indelebile; e le parole spesso assumono un ‘importanza e un peso maggiore in
considerazione del fatto che cio’ che si scrive rimane…….fisicamente sulla carta!!!!!!
Ancora piu’ complesse sono quella visiva e tattile: spesso uno sguardo o una carezza o un complimento
trasmesso con le mani o un ‘buffetto’ sul viso trasmettono all’individuo molto di piu’ della comunicazione
verbale.in esse ci sono calore, emotivita’, sensazioni, sentimenti, affetto…e… a volte un atleta deve essere
anche coccolato!!!
La gestualita’ compendia i precedenti tipi di comunicazione e a volte li sostituisce in toto.
Per quanto riguarda le modalita’, la comunicazione deve essere SEMPLICE, CHIARA,
COMPRENSIBILE ED ESAUSTIVA.
Quando si esprime un concetto, bisogna usare una terminologia semplice affinche’ essa venga recepita da
tutto il gruppo; spesso l’istruttore, non tenendo conto dell’ obiettivo primario di cio’ che vuole esprimere,
sfocia in un linguaggio prolisso e pomposo anziche’ sintetico e conciso.
Il linguaggio, inoltre, deve essere chiaro: un concetto deve essere trasmesso in modo lineare e preciso,
evitando digressioni inutili che possono confondere l’allievo. La mancanza di chiarezza, il piu’ delle volte,
si esaspera quando si spiegano concetti che lo stesso istruttore non ha prima elaborato e che ,quindi,
risultano a lui stesso nebulosi, creando disagio da entrambe le parti.
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A una semplicita’ e chiarezza di linguaggio si deve affiancare la comprensibilita’ di cio’ che viene
espresso: l’istruttore deve tenere conto del livello culturale medio del gruppo in quanto usare termini non
conosciuti o spesso ritenuti acquisiti(siano tecnici o puramente nozionistici) spesso crea un distacco tra
atleta e istruttore che il primo interpreta come uno status di inferiorita’ e di conseguenza porta l’atleta in
una situazione di difficolta’.
Infine la comunicazione deve essere esauriente, ossia deve soddisfare a pieno tutto cio’ che l’atleta si
aspetta anche dopo una rielabolazione personale del messaggio ricevuto.
E’ vero che l’istruttore parte dal preconcetto che l’atleta, all’inizio e’ come ‘una scatola vuota da riempire’
ma ha anche la consapevolezza che cio’ che spieghera’ in piu’ oggi, sara’ di aiuto all’atleta domani.
Il secondo requisito di un insegnante e’la capacita’ di RELAZIONARSI.
Mi risulta difficile immaginare un istruttore che sia dotato di una buona comunicazione e di una cattiva
interrelazione con il gruppo: I due concetti, a mio avviso, sono strettamente connessi in quanto un buon
comunicatore acquisisce con il tempo la capacita’ di razionalizzare determinati stereotipi di
comportamento di un individuo e di agire, a sua volta nel modo migliore.
Questo concetto verra’ approfondito meglio nei capitoli seguenti.
It terzo requisito e’ la MOTIVAZIONE. Ogni istruttore si avvicina alla professione dell’insegnamento con
degli obiettivi e delle ragioni strettamente personali. Negli anni di esperienza che ho acquisito, sono giunto
alla convinzione che la prima, vera ed unica motivazione che spinge un individuo ad insegnare debba
essere la passione per questa professione.
Essa e’ l’unica destinata a perdurare nel tempo e a portare sempre e comunque risultati soddisfacenti in
qualsiasi disciplina ci si cimenti.
Le motivazioni, siano esse economiche, di stima, d’identificazione, di rivalsa, possono portare a risultati
solo temporanei ma se l’istruttore non possiede ed infonde passione ed entusiasmo nel gruppo,
quest’ultimo sara’ sempre molto fragile e destinato a sgretolarsi nel tempo.
A mio parere, la mancanza di questo requisito, e’ motivo sufficiente per ritenere un individuo non idoneo a
tale professione poiche’ le motivazioni che un individuo si prefigge vengono inevitabilmente per fondersi
con il gruppo-allievi; e se, l’entusiasmo e la passione non rinvigoriscono le motivazioni dei singoli allievi,
qualunque esse siano, con il tempo si inaridiscono e vengono meno.
Il quarto requisito e’ LA PREPARAZIONE TECNICA, nella quale io non mi addentrero’ visti gli obiettivi
che ho deciso di percorrere con queste mie suddette riflessioni.
Il quinto requisito e’ L’IMMAGINE. Spesso questo requisito e’ molto sottovalutato, ma ad una attenta
analisi, potremmo scorgerne un’importanza profonda e quanto mai veritiera.
L’istruttore e’ e deve essere un esempio e un punto di riferimento per gli altri e stando in mezzo ad un
gruppo, inevitabilmente finisce per trasmettere messaggi identificativi e a volte emulativi che vengono
successivamente riprodotti dagli stessi allievi.
La responsabilita’ e la consapevolezza di essere un riferimento obbliga l’istruttore a tutelarsi affinche’
messaggi o distorsioni socialmente ritenuti di cattivo esempio non siano emulati.
Questo vale sia dal punto di vista tecnico che d’immagine.Un abbigliamento e una presenza decorosa ,
inoltre, non solo finisce per avere un risvolto positivo sugli atleti (li fa sentire a loro agio), ma crea una
immagine positiva del gruppo anche per coloro che vogliono avvicinarsi a una disciplina e vedono
dall’esterno il futuro gruppo del quale faranno parte.
L’ultimo requisito che deve possedere un istruttore e’ IL FEELING CON GLI ALTRI ISTRUTTORI.
L’armonia nel team-istruttori e’ un requisito fondamentale. Essi devono continuamente confrontarsi,
aiutarsi, stimolarsi a vicenda per raggiungere l’unico obiettivo vero: essere una voce sola in mezzo ad un
coro ( gruppo-allievi ) di voci diverse. Solo cosi’ gli allievi avranno la sensazione di percorrere un’unica
via didattica e comportamentale e non saranno disorientati da continui cambi di direzione.
Dal mio punto di vista, sono consigliabili riunioni tecniche periodiche in cui gli stessi istruttori possano
confrontarsi, consigliarsi ed aiutarsi a vicenda affinche’ cio’ che viene comunicato in palestra sia in
armonia con le aspettative degli stessi insegnanti.
Mario Venturi
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CAPITOLO
Secondo
La psicologia d’insegnamento nei confronti del gruppo.
Accingendomi ad affrontare un argomento cosi’ delicato, non posso non partire dalla premessa che il
bravo insegnante costruisce un proprio sistema di analisi psicologica di gruppo utilizzando dapprima un
sistema induttivo ( procedimento logico che consiste nell’inferire da un’ osservazione particolare un
concetto generale in esso implicito) per poi passare esclusivamente ad un sistema di tipo deduttivo
(procedimento logico che consiste nell’inferire da un concetto generale una conseguenza particolare che
avvalori le premesse).
Quello che viene chiesto e’ uno sforzo di osservazione notevole ma vista la prerogativa comunicativa che
un insegnante deve possedere, egli deve captare e percepire determinati comportamenti ripetuti all’interno
del gruppo che manifestano uno status generale e deve prevenire situazioni critiche che portino allo
sgretolamento di quest’ultimo. Il metodo induttivo e’ tipico degl’insegnanti alle prime armi; essi, non solo
spesso guardano e non osservano, ma assumono questo atteggiamento nei confronti di un comportamento
individuale e ne traggono un giudizio di gruppo. A volte e’ difficile cogliere la differenza tra un segnale
individuale e uno di gruppo, e questo e’ sicuramente il primo problema da affrontare. Un messaggio
trasmesso da un allievo deve essere subito valutato per capire se cio’ che egli comunica rispecchia le sue
reali intenzioni: a volte il concetto manifestato non e’ esattamente quello che la persona avrebbe voluto
manifestare. Capito l’input si passa alla fase successiva di confronto con gli altri individui, per verificare
se il messaggio e’ individuale o di gruppo; una volta accertata l’entita’ di gruppo, si elabora un giudizio
generale sul tipo di input e si provvede alla sua risoluzione. Da una causa percepita dal singolo si elabora
la causa di gruppo e alla causa generale si applica una risoluzione efficace. Con l’esperienza l’istruttore
arriva a prevenire la causa e quindi l’eventuale problema operando in modo deduttivo. Ossia , sapendo
come evitare i problemi che negli anni lo hanno obbligato a porre rimedi di tipo induttivo, parte da
concetti generali acquisiti nel tempo e previene situazioni gia’ precedentemente analizzate. E’ implicita nel
discorso, la certezza che un istruttore non abbia codificato tutte le possibilita’ comportamentali di gruppo;
ergo, egli operera’ sempre in casistiche nuove con il metodo induttivo per arrivare poi a quello dedutivo.
Analizzati i processi di strutturazione del sistema di introspezione psicologica nei confronti del gruppo,
entramo nello specifico per valutare le casistiche-tipo piu’ frequenti che un istruttore si trova ad
affrontare: gli approcci psicologici scaturiscono, nella maggior parte dei casi, da cause motivazionali o
interrelazionali, comportamentali e didattiche.
Ci sono situazioni in cui il gruppo non e’ motivato, e la mia esperienza mi suggerisce che spesso il
problema non e’ didattico ma comunicativo: l’istruttore stesso infonde questa insoddisfazione facendo
trasparire mancanza di entusiasmo e coinvolgimento(ma qui si ritorna al problema della motivazione
personale dell’insegnante).Altre volte la mancanza di motivazione puo’ essere data dalle interrelazioni tra
gli stessi allievi e spetta all’insegnante riportare gli equilibri; altre demotivazioni possono emergere per
mancanza di un confronto competitivo (quindi e’ vivamente consigliabile infondere nell’atleta
l’importanza della gara agonista come momento di valutazione personale).Infine possono sorgere
alienazioni date da fattori didattici ( es. la ripetitivita’ d’esecuzione delle tecniche o il desiderio di provare
cose viste ma non in grado ancora di eseguirle correttamente): qui e’ la ‘magia’ dell’istruttore, che si trova
tra ‘incudine e martello’, a infondere con un po’ d’inventiva entusiasmo nel gruppo. La conflittualita’ in
cui spesso l’istruttore giace e’ quella di insegnare con una certa lentezza per permettere agli allievi piu’
lenti nell’apprendimento, di assimilare le tecniche e nello stesso tempo di non demotivare quelli piu’
veloci nell’assimilazione che spesso incalzano l’istruttore affinche’ si proceda con la didattica.
Mario Venturi
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Un motto che spesso il mio mentore mi diceva era: “Non riuscirai mai ad accontentarli tutti, ma se gia' il
51% lo sara’, allora avrai fatto un buon lavoro”.
Un altro discorso molto piu’ raffinato si puo’ intravedere nella consapevolezza che spesso l’allievo non
viene in palestra perche’ gli piaccia da morire la kick-bocxing, ma perche’ si trova bene all’interno di un
gruppo, di un ambiente, e la motivazione diventa di tipo interrelazionale.
Considero molto positive le ‘gare interne’ tra gli stessi atleti di una palestra o le cene che si organizzano
durante la stagione o le giornate intere passate a vedere un atleta che incoraggia un altro atleta durante le
gare agonistiche o le gite organizzate al di fuori delle lezioni didattiche o gli stages: tutto cio’ fa gruppo e,
cosa piu’ importante, interrelaziona gli atleti tra di loro che finiscono poi per riconoscersi non piu’ nella
loro individualita’ ma in un team.
I problemi comportamentali di gruppo piu’ frequenti sono i cosiddetti ‘gruppettini’ tra atleti che si
frequentano gia’ fuori dalla palestra oppure i ritardi collettivi. Come ho gia’ precedentemente detto,
l’azione punitiva e’ da abolire come mezzo risolutivo di qualsiasi problema, quindi l’insegnante nel caso
dei gruppettini deve cercare di isolare progressivamente i loro componenti, fargli prendere coscienza che
essi fanno parte di un gruppo globale, infine ricostruire dalla loro individualita’, un’ identita’ di gruppo
globale e non parziale. Invece nel caso di ritardi non giustificati, porli sempre a confronto con gli altri, in
quanto l’identificazione di gruppo, non solo crea il gruppo, ma trasmette un modello di valori compatto
che si ripercuote con grosse influenze sugli stessi individui che lo compongono.
Infine abbiamo i problemi didattici di gruppo. Al sottoscritto, e’ stata spesso chiesta la via ottimale per
approcciarsi didatticamente con un gruppo: non c’e’!!!!!!!!!.
Non perche’ siano tutte fallimentari ma perche’ le variabili di apprendimento sono infinite e un gruppo e’
un insieme di individui differenti sia per predisposizione fisica e psicologica sia per cultura sia per
capacita’ di apprendimento…etc.
Prima di concludere il capitolo volevo sintetizzare un concetto importante: visti gli aspetti e le
problematiche di gruppo, spesso gli altri istruttori mi hanno domandato come mi approccio dal punto di
vista comunicativo agli atleti nell’arco di un ciclo di insegnamento: la risposta anche in questo caso non
c’e’, ma mi sento in dovere, con la mia esperienza, di tracciare una via. L’approccio iniziale deve dare
subito un’impressione di chi sta al comando (gruppi nei quali non e’ riconosciuta la guida sono gruppi allo
sbando…).Quest’impressione deve essere di estrema professionalita’, serieta’, personalita’ e di un po’ di
riverenza (non timore!!).Cosi’ il gruppo, che nella prima fase studia l’istruttore e recepisce i confini da non
superare, sara’ sempre sotto controllo. Stabilite le regole e fatte rispettare con personalita’(utilizzando un
timbro di voce di chi guida un gruppo che identifichi uno stato d’animo preciso in base alle circostanze),
l’istruttore si accorgera’ che, dopo un po’ di tempo, potra’ allentare ‘la presa’ e passera’, con le determinate
cautele, da un rapporto formale a uno piu’ informale.
Sono arrivato a queste conclusioni in quanto ritengo che, un gruppo che non riconosca a primo impatto le
regole, successivamente porra’ l’istruttore in una situazione estremamente difficoltosa, il quale dovra’
faticare il doppio rispetto all’inizio per ripristinare l’ordine. In questo tipo di soluzione, l’arbitrio sta’ nel
periodo piu’ o meno lungo nel quale l’istruttore decide di passare progressivamente da un approccio
formale ad uno informale.
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CAPITOLO
Terzo
La psicologia dell’insegnamento nei confronti dell’individuo.
Incominciando l’ultimo capitolo, mi accorgo che questo e’ sicuramente il piu’ difficile ma affascinante da
affrontare: si potrebbe partire da mille aneddoti per analizzarne il contenuto ma visto l’obiettivo di
sinteticita’ che mi sono posto, vedro’ di limitarmi a sporadici esempi chiarificativi.
Anche nell’approccio individuale vi sono diverse problematiche da affrontare: motivazionali, relazionali,
comportamentali, e didattiche. Ma al contrario del capitolo precedente, qui la comunicazione risulta essere
il filo conduttore di tutti i possibili casi di risoluzione. Esso costituisce lo strumento primo, sia esso
verbale o non. Le casistiche sono infinite e molteplici e risulta difficile raggrupparle in gruppi omogenei;
poiche’, per esempio, nelle casistiche comportamentali, specificatamente psicologiche, le situazioni sono
sempre diverse l’una dall’altra e non si puo’ mai ne’ standardizzare ne’ operare con logica deduttiva.
Con l’individuo il lavoro psicologico dell’insegnante raggiunge i livelli massimi, ma cio’ non deve
spaventarlo: spaventa di piu’ la convinzione, che viene infusa negl’istruttori, di avere sempre una risposta
o di possedere la scienza infusa o di essere in grado di dispensare sempre e ovunque pillole di saggezza;
questa e’ assolutamente arroganza!!!!!! Il mio mentore diceva sempre: “la conoscenza di una disciplina va
da uno a dieci. Un istruttore in quella disciplina sa da uno a tre, da tre a sei lo impara sul campo con
l’esperienza, da sei a otto lo imparera’ da persone piu’ brave o piu’ esperte di lui, da otto a dieci sara’
sempre per lui off-limits.”
L’istruttore puo’ sbagliare ma dovrebbe sbagliare meno di un’atleta!!!E soprattutto accorgersi che
sbaglia….!!!Una volta che egli e’ consapevole di questi limiti, e’ pronto per accostarsi all’individuo.
Iniziamo con le problematiche di tipo motivazionale. Ogni individuo si avvicina ad una disciplina con un
obiettivo ben preciso e trae da cio’ la sua vera motivazione che lo spinge a venire in palestra. Le
problematiche motivazionali nascono spesso da un problema semplicissimo: la motivazione dell’atleta non
coincide con l’obiettivo che l’istruttore si e’ prefisso di raggiungere con quell’atleta. Le motivazioni
possono essere infinite (fisiche, relazionali, comunicative, prestazionali, agonistiche, etc.);spesso si
scontrano con le aspettative dell’istruttore e l’atleta e’ rovinato!!!!. Il punto focale di queste problematiche
e’ la scelta iniziale e l’indirizzo che vuole dare la palestra (intesa come gruppo istruttori), tenendo sempre
presente che la disciplina, con un indirizzo specifico (per esempio l’agonismo), diventera’ selettiva da
subito e non tutti potranno accedervi: questa e’ una scelta corretta come le altre purche’ all’atleta sia
chiaro fin dall’inizio LA MOTIVAZIONE GUIDA della palestra. Nel caso invece in cui in una palestra ci
siano piu’ obiettivi e diverse motivazioni guida, l’istruttore deve rispettare quella di ogni individuo e non
imporre la propria. L’arbitrio dell’insegnante sta’ nel saper valutare se l’atleta ha ben chiaro il suo
obiettivo, perche’ spesso l’allievo ha bisogno di una vera guida, anche in questo, alla riscoperta dei suoi
bisogni.
Le problematiche relazionali di potrebbero schematizzare in questo modo: ci sono atleti estremamente
taciturni e timidi che non interrelazionano con il gruppo, ci sono quelli esuberanti, ci sono quelli posati,
c’e’ il leader, e infine c’e’ la ‘pecora nera’(o sfigato).Qui l’obiettivo primo e’ il gruppo! Il carattere di un
individuo non deve mai ledere l’armonia del gruppo, quindi l’intervento dell’istruttore deve essere sempre
mirato a questo. La comunicazione che l’insegnante instaura con l’allievo puo’ alleviare timidezza ed
esuberanza, puo’ arginare l’invadenza del leader e puo’ infondere sicurezza nello sfigato.
Gli aspetti comportamentali sono sicuramente i piu’ difficili da schematizzare: spesso sono imprevedibili e
non si finisce mai di imparare. Ricordo un atleta che durante le lezioni, se ne andava manifestando un
disagio interiore che non riusciva a controllare; un atleta che alla prima gara, dopo aver ricevuto il primo
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pugno senza conseguenze fisiche, subi’ un blocco psicologico e porto’ a termine il combattimento con una
passivita’ totale; un atleta che durante l’allenamento, usciva a fumare; un atleta che parlava a ripetizione e
non riusciva a fermarsi; un atleta che raccontava storie inventate per attirare l’attenzione; un atleta che
usava le tecniche acquisite per fare risse fuori dalla palestra, etc. Le casistiche sono infinite e ad ognuna
c’e’ un rimedio diverso: a volte e’ necessario un richiamo deciso, a volte un richiamo di gruppo anche se
vuole essere individuale, a volte un colloquio individuale, a volte un complimento, a volte una carezza o
un abbraccio, a volte bisogna solo ascoltare; ma il concetto di fondo che un istruttore deve tenere sempre
presente e’ che in ogni intervento, l’atleta deve sempre avere la consapevolezza di essere aiutato, che cio’
che gli viene trasmesso e’ un consiglio o un aiuto interessato esclusivamente alla sua crescita.
Bisogna tenere presente che quando un atleta entra in palestra, porta con se’ tutte le tensioni di una
giornata dura e faticosa, e non e’ tenuto a nascondere il suo stato d’animo, pero’ l’istruttore deve far
percepire all’allievo il confine oltre il quale non deve andare. Al contrario, l’istruttore deve sempre
lasciare fuori dalla porta tutti i problemi che prima di entrare si portava dentro di se’: deve sgomberare la
mente perche’ egli deve essere l’esempio e l’atleta non la sua cavia.
Gli ultimi problemi possono venire dalla didattica che spesso e’ oggetto di esame per gli istruttori: l’atleta,
quando si e’ instaurato un rapporto di informalita’, ama mettere scherzosamente in difficolta’ l’insegnante
facendogli domande a trabocchetto o facendogli notare gaff nel linguaggio:questo io lo reputo un buon
segno; si sta’ creando un feeling tra le due parti e l’istruttore dovrebbe stare al gioco.
Per quanto riguarda la comunicazione agli atleti, l’istruttore deve sempre incoraggiare un allievo senza
pero’ accanirsi o impuntarsi su una tecnica nella quale l’individuo in questione mostra evidenti difficolta’
di esecuzione. Inoltre, succede che, quando un istruttore cede il proprio gruppo ad un altro, gli allievi si
possano sentire didatticamente spiazzati e facciano osservazioni su come una tecnica debba essere
eseguita. Avendo precedentemente fatto notare come l’aspetto tecnico abbia dei risvolti soggettivi, mi
chiedo come sia possibile che istruttore che vede una tecnica specifica eseguita in modo didatticamente
corretto, contesti il modo in cui sia stata spiegata o la progressione logica con la quale e’ stata acquisita:se
non diamo un certo arbitrio o una certa elasticita’ mentale a un istruttore nel modo di insegnare come si
puo’ pretendere da lui acume o capacita’ analitica o rielaborazione!!!
Concludo dicendo che non esiste una via gia’ tracciata per essere un buon insegnante ma la dote che egli
dovrebbe sempre avere e che ritengo la chiave di una crescita continua e quella di METTERSI SEMPRE
IN GIOCO, criticare cio’ che insegna e porsi sempre mille domande sul suo operato: la responsabilita’ e’
molta, il margine di errore dovrebbe essere poco, il senso del dovere scontato. SI DA’ TANTO MA SI
RICEVE ANCHE TANTO………
Mario Venturi
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CAPITOLO
Quarto
La psicologia dell’insegnamento nei confronti di atleti agonisti.
Iniziando a parlare del mondo agonistico, non posso non premettere come il coach di una squadra sia il
MODELLO, la guida, il riferimento di cio' di cui si fa portavoce e in cui crede. Gli atleti prima di tutto
seguono il modello e paradossalmente,farebbero di tutto per raggiungere un obiettivo sportivo, se credono
in cio che il coach trasmette per il suddetto fine. Una volta riconosciuto il ruolo di chi guida, cio' che
diversifica il corso amatoriale da quello agonistico sono prevalentemente tre aspetti: l' obiettivo dell' atleta
e la motivazione-chiave per raggiungerlo,il percorso tecnico e lo sviluppo fisico, e per ultimo la
personalita' dell' individuo.
La profondita' di analisi a cui si arriva quando si segue un atleta agonista non e' lontanamente
paragonabile ad un atleta amatore. Mentre chi non gareggia ha molteplici motivazioni/obiettivi,per gli
agonisti esiste un solo obiettivo ultimo:VINCERE.Come ottenerlo? quali motivazioni prefiggersi?che
percorso seguire?.La sfida e' ardua ma molto stimolante per un coach,ed e' difficilissimo trovare la
motivazione-chiave che porta alla vittoria, tenendo presente quale priorita' viene data dall' atleta alla
attivita' che svolge. Spesso gli ostacoli sono sempre 'tra le orecchie' e non puramente tecnici; atleti con
grande tecnica, combattono molto contratti, manifestando un disagio di qualsiasi tipo che frena la
motivazione che porta alla vittoria.Utilizzando gli strumenti gia' precedentemente affrontati, un allenatore
deve saper ' liberare' l' atleta da blocchi mentali, preoccupazioni,disagi e la' dove non riesce,ricorrere a
psicologi sportivi e motivatori.Spesso quando obiettivo e motivazione (vincere) coincidino, l' atleta, libero
da qualsiasi ostacolo esterno e interno,esprime il massimo delle sue capacita' psico-fisiche al
raggiungimento del risultato.
Il percorso tecnico e lo sviluppo fisico vanno spesso a braccetto,uno puo' influenzare l' altro e un
allenatore non deve mai dimenticare come poter massimizzare il contenuto ( la tecnica) in un contenitore
(il fisico).
Mi e' capitato di vedere diversi atleti che pur combattendo in modo 'poco convenzionale' dal punto di vista
estetico, sono molto efficaci ai fini del risultato. Atleti con posture di crescita che evidenziano alcune
problematiche fisiche, riescono a fare di alcune tecniche o movimenti tecnici i loro punti di forza.
Mai pretendere atleti uguali, fisicamente e didatticamente ogni atleta ti racconta la sua storia e ti indica la
strada da percorrere.
L' ultimo punto,ma non meno importante, e' la personalita' dell' individuo.Ci sono atleti che nascono
agonisti, alcuni lo diventano, e infine altri che sono destinati a non esserlo mai. Pur avendo il talento e
magari anche l' applicazione alla didattica alcuni mancano di spirito agonistico, di 'fame' di vittoria , e pur
essendo il desiderio di vincere manca la determinazione o la lucidita' a raggiungerlo. Spesso persone
caratterialmente insoddisfatte o irrequiete o aggressive e prive di lucidita' non riescono a tenere sotto
controllo tutti i fattori psicologici fondamentali per vincere.
Gli agonisti, geneticamente predisposti, si individuano subito in coloro che esprimono sempre se stessi
abbastanza vicini alle loro massime possibilita' e anche quando non sono fisicamente in condizioni
ottimali riescono a tirare fuori da se' cio' che necessita per vincere.
Coloro invece che arrivano con una crescita graduale ad esprimersi al massimo, spesso intraprendono un
percorso di consapevolezza nelle proprie possibilita',frenato da timori e mancanza di autostima.Questo
ultimo fattore e' fondamentale per confrontarsi con altri atleti e per poter prevalere.Per quanto gli atleti
non lo recepiscono, i combattimenti si vincono prima di iniziare un incontro.
Ritengo in tal senso fondamentale far rivedere agli atleti le loro performance,per comprendere a fondo
tutti questi aspetti.
Mario Venturi
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CAPITOLO
Quinto
La psicologia dell’insegnamento nei confronti dei bambini.
La crescita dei bambini suggerisce, secondo studi di molti esperti,che fino all'eta' di 6 anni (fase
prescolare), possano apprendere solo esercizi ludici e non didattici;dai 6 anni in poi il bambino riesce a
dare attenzione a movimenti coordinati di motricita'.La kick Boxing suggerisce un eta' di apprendimento
che parte dagli 8/10 anni,in considerazione del fatto che la fase di avviamento all' attivita' agonistica parte
dai 10 anni (semi contact).
Vorrei porre l' attenzione su due aspetti: il linguaggio comunicativo e la figura dell' istruttore.
Il linguaggio comunicativo,sia esso verbale o del corpo, deve essere indubbiamente piu' semplificato,
diretto e chiaro rispetto a quello utilizzato con adolescenti o adulti. I bambini percepiscono le parole con il
loro significato piu' vero e non colgono le sfumature; spesso un richiamo verbale viene percepito come un
rimprovero. Non vengono colti gli aspetti motivazionali che sono riconducibili unicamente all' aspetto
ludico: per loro vincere e' l' espressione piu' gioiosa di un gioco, anche se intorno ai 13 anni comincia a
subentrare l' aspetto competitivo che in ogni caso rimane limitato all evento e non si riflette su componenti
psico-comportamentali. Fondamentamente c'e' un assenza di responsabilita' del bambino verso l' evento.E'
vissuto con serenita' e per lui e' piu' importante il riconoscimento o l' incoraggiamento delle persone a lui
care che il fine ultimo della gara.Dai 13 anni in poi l' autostima comincia ad essere piu' marcata e l' aspetto
motivazionale legato alla vittoria inizia a diventare preponderante.
Il secondo aspetto e' come viene percepito l' istruttore. L' esperienza mi insegna che con un gruppo di
bambini il primo approccio e' fondamentale. Vieni testato; e il bambino, se dall' inizio ha ben chiare le
regole,cosa puo' fare e cosa non e' permesso, nonche' percepisce che l' adulto ha un atteggiamento
affettuoso ma determinato nei suoi confronti, riconosce nell' adulto una figura formativa e si pone sotto il
suo controllo.Un atteggiamento compiacente e poco determinato da parte dell' istruttore rende il gruppo
ingovernabile, bambini poco inclini ad ascoltare e molto indisciplinati.
L' istruttore e' una FIGURA FORMATIVA e come tale deve non solo limitarsi all' insegnamento tecnico
ma ad insegnare ai bambini un 'mondo' di cose, stuzzicare la loro curiosita', la loro capacita' rielaborativa e
spingerli a migliorarsi. L' impatto di una figura come la nostra su un bambino e' molto piu' delicata e
rilevante che su un adulto.In qualche modo concorriamo alla loro formazione anche se solo in piccola
parte e rappresentiamo qualcuno da cui apprendere in modo continuo e incondizionato.
Da un lato rappresenta una grande responsabilita' ma dall' altro sappiamo che la semplicita' comunicativa e
la chiarezza con cui manifestano le loro problematiche psico-motorie ci mettono in condizione di svolgere
un servizio efficace per il bene del bambino.
Un sentito ringraziamento a tutti gli istruttori ed allievi dell' associazione asd double team, i quali grazie a lunghe chiaccherate e
confronti costruttivi su didattica e insegnamento mi hanno arricchito di un Know-how che con passione e dedizione sviluppo e
miglioro per poter rappresentare un ruolo degno delle loro aspettative.
Mario Venturi
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Psicologia dell`insegnamento nella kick-boxing