Doctis Ardua
D OSSIER S IRIA
Tra il rischio di un intervento armato incerto e i nuovi spazi
di manovra per una diplomazia in affanno. Tutto quello che è
accaduto e che potrebbe ancora accadere in Siria.
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
SOMMARIO
SOMMARIO
1
L’ALLEANZA ATLANTICA TRA
TRA DUE FUOCHI: DIPLOMAZIA E IMPIEGO DELLE ARMI
di Ilaria De Napoli
5
L’EUROPA NON VUOLE I MILITARI
di Ilaria De Napoli
7
LA LEGA
EGA ARABA CHIAMA LE NAZIONI UNITE
di Gerardo Fortuna
8
IL LIBANO NUOVAMENTE DIVISO
di Gerardo Fortuna
9
LA POSIZIONE CAUTA DI BAGHDAD
di Marcella Centaro
12
GLI SCHIERAMENTI INTERNAZIONALI
INTERNAZIONALI DI FRONTE ALLA CRISI
di Paolo Balmas
14
CHI SONO GLI ALAWITI?
di Federica De Paola
15
LA PROTEZIONE REPUBBLICANA
REPUBBLICANA E LE FORZE SPECIALI
SPECIALI
di Roberto Angiuoni
18
1
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
I GRUPPI D’OPPOSIZIONE
di Federica De Paola
20
LE ARMI CHIMICHE E I GAS NERVINI
di Elisa del Greco
22
IL PROBLEMA DEI RIFUGIATI
RIFUGIATI
di Marzia Nobile
26
GLI ARMAMENTI CONTRAPPOSTI
CONTRAPPOSTI
di Paolo Balmas
27
MEDITERRANEO ORIENTALE
LA PRESENZA NAVALE ITALIANA NEL MEDITERRANEO
di Ilaria De Napoli
30
I GRANDI DIVISI A SANPIETROBURGO
di Marcella Centaro
32
LA SOLUZIONE LAVROV: UNA TERZA VIA
di Ilaria De Napoli
34
GLI AUTORI
37
2
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
Doctis Ardua
Periodico di approfondimento geopolitico dell’Associazione Istrid Analysis
Dossier Siria
Anno I, n. 1 – Settembre 2013
Comitato di redazione: Daniele Cellamare, Paolo Balmas, Gerardo Fortuna
Coordinamento redazionale: Paolo Balmas
Layout: Gerardo Fortuna
Istrid Analysis
[email protected]
www.doctisardua.com
3
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
Area: 185,180 km2
Popolazione: 21,906,000 (World Health Organisation, 2009) – 2,000,000 di profughi
Lingue: Arabo (ufficiale), Curdo, Armeno, Aramaico, Circasso, Turco, Inglese, Francese
Religioni: Islam sunnita, Sciita, Drusa; Cristiana (Greca ortodossa, Siriana ortodossa,
Greca cattolica, Assira, Armena ortodossa, Protestante); Ebraica; Yazidismo
Stati confinanti: Libano, Israele, Giordania, Iraq, Turchia
Capitale: Damasco
Porto principale:
principale: Latakia (Al-Ladhiqiyah)
Aeroporto principale: Damascus International
Moneta: Sterlina siriana (1€ = 172,47 SYP)
*
4
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
L’ALLEANZA ATLANTICA TRA DUE
FUOCHI: DIPLOMAZIA E IMPIEGO DELLE
ARMI
La posizione dell’Alleanza Atlantica sulla questione siriana non è di
facile valutazione. Non è possibile confinarla nella linea dell’interventismo,
così come non si possono definire all'opposto i tentativi di perseguire una
soluzione diplomatica. L’organizzazione politica – con il suo forte braccio
militare – ha monitorato la crisi siriana sin dall'inizio, auspicando che le
tensioni potessero conoscere una graduale recessione, fino a ripiegare su
una soluzione politica interna senza necessità di alcuna intromissione
dall’esterno.
Nell'estate del 2012, Rasmussen commentava l’intensificarsi delle
violenze a Damasco dichiarando pubblicamente che la NATO non aveva
alcuna
intenzione
di
condurre
un’operazione militare in Siria e, a chi
domandava come avrebbe replicato in
La NATO risulta spaccata a metà tra due
caso di utilizzo di armi chimiche, il
posizioni inconciliabili che al momento non
fanno altro che paralizzarne l’azione.
Segretario generale ribadiva che non
c’era alcuna base per credere che il
governo potesse impiegare questo tipo
di armi. L’Alleanza doveva quindi
inviare un messaggio univoco al governo di Damasco, unendosi
all’orientamento comune internazionale di supporto al dialogo politico, con
l'appello al regime affinché si aprisse alla discussione con tutto il popolo
siriano e i rappresentanti delle diverse fazioni politiche.
Un anno dopo è stata superata la cosiddetta linea rossa delle armi
chimiche e il mondo si è interrogato sui possibili scenari e le opzioni da
perseguire. Già prima dell’attacco del 21 agosto 2013, la NATO aveva
messo in guardia il regime: qualsiasi violenza estesa all’interno di uno
Stato membro sarebbe stata considerata danno nei confronti dell’intera
organizzazione e violazione del diritto internazionale.
Uno Stato membro come la Turchia, infatti, è sottoposto a continui
rischi di spillover e il 2 settembre 2013 Rasmussen forza la mano: un
eventuale contagio del conflitto in direzione Ankara costituirà
un’automatica estensione del conflitto a tutti gli Stati dell’Alleanza
Atlantica, come previsto dal principio della difesa collettiva sancito
nell’articolo 4 e 5 del Trattato di Washington. Considerando che la Turchia
è uno degli Stati che ha maggiori interessi a diventare protagonista di un
eventuale intervento internazionale (e che la Francia, tra i paesi fondatori,
ha già espresso il proprio favore in questo senso), la NATO risulta spaccata
a metà tra due posizioni inconciliabili che al momento non fanno altro che
paralizzarne l’azione.
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
Quasi tutti gli Stati europei sono anche membri dell’Alleanza
Atlantica e i leader occidentali non possono prescindere dalle prese di
posizione dell’Europa e del Servizio di Azione Esterna. E così, dopo il G20,
si è complicato lo scacchiere delle decisioni, in attesa di una presa di
posizione definitiva di Washington e soprattutto in attesa di una nuova
discussione in seno al Consiglio di Sicurezza, sotto scacco della Russia e
della Cina, e con la bilancia della comunità internazionale che pende per il
non intervento.
In un’area atlantica a maggioranza non interventista rimangono un
Obama guardingo e un Hollande recalcitrante, uniti ad Ankara che non è
affatto ritrosa a intervenire in Siria anche senza autorizzazione del
Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
Ilaria De Napoli
L’EUROPA NON VUOLE I MILITARI
L’esplosione della crisi siriana e la dura repressione delle proteste da
parte del governo di Damasco hanno portato l’Unione ad arretrare rispetto
al processo di avvicinamento politico che aveva intrapreso con il paese. La
Siria rappresenta un’area importante per l’Europa, soprattutto nei settori
commerciali e di investimento finanziario.
Tuttavia, a partire dalla metà del marzo del 2011, sono state
condotte una serie di misure restrittive rispetto al precedente impulso,
orientato allo sviluppo di una cooperazione economica e sociale con il
governo di Damasco. Applicando le misure restrittive previste dal Trattato
UE all’art. 215, l’Unione ha congelato i beni e bandito ogni traffico
commerciale proveniente dal paese, imponendo inoltre l’embargo di armi e
di qualsiasi altro tipo di equipaggiamento che potesse essere utilizzato dal
regime per la repressione interna.
Dichiarando inaccettabili i livelli di violenza raggiunti sul territorio e
manifestando preoccupazione per il deterioramento delle condizioni dello
Stato, il Consiglio degli Affari Esteri dell’Unione Europea ha provveduto a
sospendere tutti i programmi di cooperazione bilaterale intrapresi
nell’ambito delle politiche di Vicinato e dell’Unione del Mediterraneo, di cui
la Siria è membro. In seguito alle preoccupazione dell’Occidente circa un
inasprimento della crisi siriana, che potrebbe ripercuotersi nei territori
vicini, l’Unione ha sospeso ogni politica di supporto alle riforme domestiche
interne della Siria, precedentemente sostenute. Dal maggio del 2013 le
istituzioni europee hanno promosso l’apertura al dialogo, sollecitando la via
della soluzione politica per un conflitto che colpisce in particolare la
popolazione civile, senza alcun riguardo per il rispetto dei diritti umani.
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
L’Unione ha investito più di 800 milioni di euro per garantire
assistenza alla popolazione, e ha accettato come rappresentante legittimo
del popolo siriano la Coalizione Nazionale delle Forze di Opposizione e
Rivoluzionarie della Siria (Soc) nella speranza che costituisca nel nuovo
paese libero un ordinamento democratico, secondo i principi di inclusione e
di pluralismo, che rispetti i diritti umani e delle minoranze etniche e
religiose.
Nell’ultimo position paper dell’Unione, il Consiglio ha dichiarato che
l’Europa continuerà a collaborare con tutte le parti politiche coinvolte in
questo processo di risoluzione diplomatica della crisi, specialmente con le
Nazioni Unite e con la Lega Araba, per sostenere le vittime siriane e
condannare l’uso della violenza incondizionata portata avanti tanto dalle
forze ribelli quanto dall’esercito governativo.
Tuttavia, mentre la posizione istituzionale europea condanna la
violenza promuovendo una soluzione politica, tra gli Stati membri spicca la
posizione interventista della Francia che, ancor prima di qualunque
decisione delle Nazioni Unite, già sostiene la linea dell’azione militare
presentandosi come l’unico partner occidentale pronto a intervenire
militarmente in Siria al fianco di Washington.
Solo nell’incontro informale del
6 settembre 2013 a Vilnius, che ha
Riemerge una delle principale linee guida
visto riuniti i ministri degli Esteri dei
dell’Unione, ovvero la predilezione per la
28 paesi, Bruxelles è riuscita a
diplomazia. Una diplomazia che, allo stesso
esprimere finalmente una voce
tempo, fatica però ad essere espressa in un
univoca, dopo i tentativi falliti di
solo coro.
rispondere congiuntamente ai punti
delicati della crisi toccati durante il
G20 di San Pietroburgo. I ministri
hanno convenuto che le basi militari di Londra e di Nicosia non saranno
messe a disposizione per alcuna azione militare e tutti i paesi membri,
tranne la Francia, hanno ritenuto che nessuna decisione in merito debba
essere presa senza un mandato internazionale dell’ONU.
Per l’Europa rimane prioritaria un’azione di tipo politico: le linee
guida del Consiglio dei Diritti Umani (con i lavori dal 9 al 27 settembre
2013) saranno proprio l’interesse alla promozione della pace e alla
protezione dei diritti umani. Ovviamente, anche la Siria sarà tra i temi
principali in agenda, e qualsiasi risoluzione al riguardo non mancherà di
richiamare l’attenzione del mondo sulla precaria situazione umanitaria e
sulla necessità di sostenere con ogni sforzo possibile le indagini della
Commissione internazionale di inchiesta.
Così, mentre l’Europa studia i nuovi orizzonti della difesa
comunitaria, riemerge una delle principale linee guida dell’Unione, ovvero
la predilezione per la diplomazia. Una diplomazia che, allo stesso tempo,
fatica però ad essere espressa in un solo coro.
Ilaria De Napoli
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
LA LEGA ARABA CHIAMA LE NAZIONI
UNITE
I ministri degli affari Esteri della Lega Araba si sono riuniti il 1°
settembre 2013 in un vertice straordinario d’emergenza, tenuto al Cairo,
per cercare una posizione comune alla luce dei frenetici sviluppi della
questione siriana. Tutti gli Stati della Lega hanno firmato il comunicato
finale in cui si afferma la responsabilità del presidente siriano Bashar alAssad per i fatti di Ghouta del 21 agosto in cui, secondo fonti vicine ai
ribelli, gli attacchi chimici del regime avrebbero provocato circa 1.400
morti. Come ha avuto modo di precisare successivamente il segretario
Nabil El-Arabi, la Lega Araba non è ancora certa del fatto che le forze
alawite abbiano usato il gas sarin, ma ad ogni modo la responsabilità per
l’incolumità dei propri cittadini ricade sempre sul governo in carica, che ha
comunque l’obbligo di proteggere i civili in questo tipo di situazioni.
Sulla necessità di un intervento militare, l’organizzazione dei paesi
arabi si è spaccata del tutto. Da una parte vi sono i paesi del Golfo, con
l’Arabia Saudita in testa, disposti a sostenere un’azione decisa e immediata
contro Assad; dall’altra i paesi che si oppongono a un attacco al di fuori del
capitolo VII della Carta di San Francisco, come Libano, Egitto e Algeria,
mentre una esigua minoranza rimane contraria a qualsiasi forma di
intervento, sia esso militare che politico.
L’attuale orientamento ufficiale della Lega Araba a riguardo resta
quello di un’insolita neutralità
d’attesa, confermata dal segretario
El-Arabi, che vede come unico
attore capace di un attacco
I paesi arabi si sono svincolati da qualsiasi
deterrente e punitivo contro il
responsabilità sulla Siria e hanno chiamato
governo siriano solo le Nazioni
ai propri obblighi le litigiose potenze
Unite. Un passo di lato, che svincola
incapaci di trovare un fronte comune per
i
paesi
arabi
da
qualsiasi
una soluzione che eviti l’implosione del
Medio Oriente.
responsabilità e chiama ai propri
obblighi le litigiose potenze incapaci
di trovare un fronte comune per una
soluzione che eviti l’implosione del
Medio Oriente. Non a caso, lo stesso El-Arabi ha parlato dei rischi di una
riproposizione della guerra fredda.
Proprio su pressione di Lega Araba e Unione Europea, l’Onu aveva
provveduto a rendere operativa la propria missione ispettiva a Damasco in
seguito all’accordo raggiunto il 25 agosto dall’alto rappresentante per il
disarmo, Angela Kane, e le autorità siriane. Il mandato del team di esperti,
guidato dallo svedese Aake Sellström, si limitava però a un mero controllo
sull’effettivo impiego di armi non convenzionali, senza approfondire
l’eventuale responsabilità di una o dell’altra fazione in lotta, se confermati
gli attacchi chimici. La comunità internazionale attende il rapporto degli
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
ispettori che, dopo aver raccolto campioni, informazioni e altri reperti nella
periferia di Damasco, hanno annunciato che sarebbero tornati sui siti
incriminati, pur non precisando alcuna data.
Dal mese di agosto, Lakhdar Brahimi ha sostituito Kofi Annan nel
ruolo di inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba per la Siria, e ha
lasciato trapelare che negli ambienti Onu sono ormai abbastanza certi circa
l’utilizzo di sostanze chimiche nell’attacco del 21 agosto; il dubbio è più che
altro relativo a chi le abbia effettivamente utilizzate. Brahimi era presente
anche al G20 di San Pietroburgo, dove ha continuato a lavorare per una
soluzione politica della crisi auspicando una Ginevra 2, questa volta
risolutiva. Anche il segretario Ban Ki-moon e gli alti rappresentanti delle
Nazioni Unite persistono nei loro sforzi diplomatici, continuando a
rimarcare l’illegalità di un intervento militare senza il necessario consenso
del Consiglio di Sicurezza.
Ma sembra essere proprio l’insuperabile situazione di stallo in seno
al Consiglio di Sicurezza ad aver causato il deteriorarsi della situazione in
Siria. Il silenzio di chi mantiene il monopolio dell’uso legittimo della forza
porta inevitabilmente i 15 membri a disattendere le proprie responsabilità
nel mantenimento della pace e della stabilità internazionale. Che la
paralisi del Consiglio rappresenti il più preoccupante pericolo per la
sicurezza dell’area, è dimostrato dal fatto che la stessa indagine del team di
esperti era partita su iniziativa personale di Ban Ki-moon, mentre il
coordinamento era stato affidato successivamente all’Ufficio per il Disarmo
delle Nazioni Unite, dipartimento sempre interno al Segretariato. L’ultima
riunione straordinaria del Consiglio, convocata proprio la notte seguente
l’ormai certo attacco chimico, si era conclusa invece con l’ennesima
dichiarazione di allerta precauzionale, al solito attenuata dalle obiezioni di
Russia e Cina, senza che effettivamente venisse stabilita un’indagine e
limitandosi a un generico proposito di fare chiarezza. Ci si può aspettare
una reazione più ferma da parte dell’Onu nei confronti di Assad, una volta
pubblicate le conclusioni a cui perverranno Sellström e la sua équipe. Ma i
requisiti legali formali per un intervento in Siria approvato dal Consiglio,
sembrano ancora lontani.
Gerardo Fortuna
IL LIBANO NUOVAMENTE DIVISO
Il 6 settembre 2013, nel corso dell’incontro con il Consiglio supremo
della Difesa a Beirut, il presidente libanese Michel Suleiman ha ribadito
ufficialmente la propria contrarietà a un intervento militare in Siria a
guida statunitense, pur condannando l’utilizzo di armi chimiche nel vicino
paese. Qualche giorno prima, in un discorso televisivo, aveva espresso la
necessità di trovare una soluzione politica alla crisi siriana senza alcuna
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
interferenza di carattere militare, prendendo poi le distanze da
un’implicazione del paese dei cedri in qualsiasi sviluppo futuro in Siria.
Anche in sede multilaterale, durante la riunione a porte chiuse dei
ministri degli esteri della Lega araba del 1° settembre al Cairo, il Libano si
è fermamente schierato tra i paesi contrari all’intervento militare insieme a
Egitto, Iraq, Tunisia e Algeria. Una posizione ufficiale governativa tenuta
inoltre dal primo ministro provvisorio Najib Mikati, dimissionario a fine
marzo ma ancora in carica per la gestione degli affari correnti, che nel
recente incontro con l’ambasciatrice francese in Libano, Patrice Paoli, ha
rinnovato la neutralità di Beirut rispetto ai conflitti della regione.
Ma ciò che preme principalmente risolvere, tra le complicazioni
sociali che il conflitto siriano sta generando, è la questione dei rifugiati: in
Libano sono più di 700.000, ovvero circa il 18% della popolazione totale.
Grazie ai buoni uffici dell’UNHCR, il 4 settembre si sono riuniti a Ginevra
per fronteggiare la crisi alcuni
ministri di Iraq, Giordania, Libano e
Turchia, rivolgendo un drammatico
La questione siriana ha esacerbato le già
appello alla comunità internazionale.
pressanti tensioni interne, spaccando di
In occasione dell’apertura dei giochi
fatto il campo politico libanese in due
della
francofonia
a
Nizza,
il
fazioni,
una a favore, l’altra contro Assad.
presidente Suleiman ha incontrato il
presidente
francese
François
Hollande per discutere sulla proposta
di creare un fondo a sostegno dei
rifugiati siriani in Libano. Precedentemente, Suleiman si era pure espresso
a favore della realizzazione di campi profughi in Siria vicino ai confini con
il Libano, presidiati dai caschi blu delle Nazioni Unite.
Se ferme appaiono l’opposizione a un’azione militare e l’interesse a
una soluzione del problema rifugiati, non traspare invece un vero
orientamento governativo di merito su Bashar al-Assad, né per quanto
riguarda la sua responsabilità negli attacchi chimici, né sulla possibilità
che possa continuare a guidare il paese. Al contrario, i gruppi politici
libanesi restano apertamente e diversamente schierati, alimentando i
propri storici contrasti con gli echi di guerra provenienti da Damasco.
Proprio la questione siriana ha esacerbato le già pressanti tensioni
interne, spaccando di fatto il campo politico libanese in due fazioni, una a
favore, l’altra contro Assad. Una contrapposizione anzitutto sul campo
principale di scontro: le milizie sciite di Hezbollah sono impegnate nel
conflitto siriano accanto alle forze alawite, per la prima volta in lotta contro
altri arabi e non contro Israele. I sunniti, invece, appoggiano apertamente i
ribelli anti-regime.
Ma il contrasto si sta estendendo anche oltre i confini siriani, fino a
ricadere in quelli interni libanesi. L’ex premier Mikati è stato costretto a
rassegnare le dimissioni proprio per non essere riuscito a ricomporre la
pericolosa frattura che sta riportando il Libano sull’orlo di una nuova
guerra civile. Da mesi intercorrono a nord di Beirut, a Tripoli e a Sidone,
violenti scontri tra gruppi armati sunniti e alawiti, mentre il 23 agosto
2013 due attentati dinamitardi a Tripoli, davanti a due moschee sunnite,
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
hanno provocato oltre 50 morti e 500 feriti, segnando la giornata più
sanguinosa dalla fine della guerra civile del 1990.
Nonostante il rischio di un pericoloso vuoto politico a seguito delle
dimissioni di Mikati, le consultazioni del presidente Suleiman hanno avuto
dopo due settimane un esito positivo, quando le preferenze dei gruppi
parlamentari sono confluite sul moderato Tammam Salam, a cui è stato
affidato l’incarico di formare un esecutivo di interesse nazionale. Esponente
sunnita, certamente vicino all’Arabia Saudita, quella di Salam è una figura
gradita anche al “Fronte 8 Marzo” guidato da Hezbollah, perché
appartenente alla corrente di notabili sunniti rimasti nell’ombra dopo
l’ascesa politica della famiglia Hariri a partire dal 1992, quindi non
apertamente contro la Siria e meno favorevole all’ingerenza americana nel
paese rispetto ai principali esponenti del “Fronte 14 Marzo” guidato dall’ex
premier Saad Hariri.
Il primo ministro designato vorrebbe guidare il governo perseguendo
la strada della neutralità circa gli affari interni siriani, in continuità con la
sessione del dialogo nazionale del giugno 2012, la cui dichiarazione finale
aveva decretato la distanza e l’estraneità del Libano da tutti i conflitti
regionali e internazionali, con un chiaro riferimento implicito a quello
siriano in corso. Tuttavia, il Parlamento non ha ancora approvato la lista
dei membri del governo per l’ostruzionismo di Hezbollah e dei suoi alleati
nella coalizione “Fronte 8 Marzo”. L’ultima proposta, che prevedeva l’equa
ripartizione dei ministri tra “Fronte 8 Marzo” e “Fronte 14 Marzo” è stata
rigettata il 5 settembre 2013, con la complicità del leader druso Walid
Jumblatt, da tempo ondivago ago della bilancia nel confronto politico
libanese.
Il fronte cristiano è ugualmente disunito, sostanzialmente perché i
cristiani fanno riferimento a più partiti, collocati diversamente nell’agone
politico. La “Libera Corrente Patriottica” di Michel Aoun e il “Movimento
Marada” di Suleiman Frangieh – entrambi nella coalizione “Fronte 8
Marzo” – seguono il proprio alleato politico del “Partito di Dio”
nell’appoggiare Bashar. L’altra metà dei cristiani, rappresentati dalle
“Forze Libanesi” di Samir Geagea e dal “Partito Kataeb” di Amin Gemayel,
non nascondono le proprie simpatie per i ribelli e allo stesso tempo
spingono per un intervento contro Damasco. Al contrario, i cristiani
maroniti hanno manifestato, sin dall’inizio della guerra civile,
preoccupazione sulla possibilità che i “terroristi sunniti” possano salire al
potere in Siria. Recentemente, il cardinale Beshara Boutros al-Rai,
patriarca e guida spirituale dei maroniti, ha espresso la sua contrarietà a
un’azione militare, cercando un dialogo con le altre alte sfere confessionali
della regione.
Gerardo Fortuna
11
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
LA POSIZIONE CAUTA DI BAGHDAD
Se durante la crisi irachena la Siria era stata accusata di proteggere
il regime di Saddam Hussen per essersi opposta all’intervento americano,
oggi la situazione sembra essersi invertita. Al centro delle polemiche
questa volta c’è il premier sciita iracheno Nuri al-Maliki, il cui rapporto con
il regime siriano di Assad viene guardato con sospetto dalla Casa Bianca.
Già nell’ottobre del 2012, a crisi già scoppiata, il Financial Times
annoverava l’Iraq tra i paesi che fornivano carburante al governo di
Damasco. Né è passato inosservato l’intrecciarsi di nuovi legami ecomici
sempre più stretti tra i due paesi a partire dal 2008, quando è stato
riaperto l’oleodotto che congiunge Kirkuk alla città costiera siriana di
Baniyas. A questo evento significativo, che si aggiunge alla via di
collegamento preferenziale dei giacimenti di gas di ‘Akkaz alle raffinerie
siriane, sono seguite la creazione di aree di libero scambio lungo le frontiere
e una maggiore integrazione delle reti ferroviarie nazionali.
A dispetto delle accuse il governo di Baghdad ha mostrato, fin dal
primo manifestarsi della crisi siriana, un atteggiamento cauto e neutrale.
Già nel discorso tenuto a Teheran il 13 novembre 2012, durante la riunione
ministeriale del Movimento dei
Paesi Non Allineati, il ministro
degli affari esteri iracheno Hoshyar
Il premier al-Maliki ha dichiarato la
Zebari ha ricordato l’impegno
propria vicinanza al popolo siriano, per via
dimostrato dal suo paese nella
del rischio che possa subire l’ingerenza di
ricerca di una soluzione pacifica per
altri paesi nelle proprie questioni interne,
la questione siriana, collaborando
come ha dovuto patire l’Iraq solo pochi
con l’inviato speciale delle Nazioni
anni prima.
Unite e delle Lega Araba Kofi
Annan e partecipando alla riunione
internazionale di Ginevra del 30
giugno 2012. Pur escludendo un
intervento militare straniero in favore dei ribelli anti-Assad, il ministro non
ha trascurato in questa occasione di manifestare la sua vicinanza al popolo
della Siria, riconoscendo le sue legittime aspirazioni alla libertà, alla
democrazia e all’autodeterminazione. Sulla stessa linea le parole
pronunciate, sempre a fine 2012, dal premier al-Maliki che ha dichiarato la
propria vicinanza al popolo siriano, per via del rischio che possa subire
l’ingerenza di altri paesi nelle proprie questioni interne, come ha dovuto
patire l’Iraq solo pochi anni prima. Per al-Maliki il popolo siriano è
pienamente in grado di autodeterminarsi, mentre le pressioni esterne
devono essere finalizzate esclusivamente a evitare altre stragi, presentando
ai gruppi in lotta una via d’uscita diplomatica e pacifica al conflitto.
Ad oggi la posizione ufficiale irachena non è mutata. In occasione
dell’incontro del 15 agosto scorso con il segretario di Stato statunitense
John Kerry, il ministro degli esteri iracheno ha ribadito l’orientamento non
interventista del proprio governo, invocando un nuovo tavolo internazionale
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
di trattative con la partecipazione di entrambe le fazioni in lotta, in grado
di dare finalmente attuazione agli accordi precedentemente raggiunti a
Ginevra.
Baghdad ha conservato tale indirizzo governativo anche in seguito al
presunto utilizzo di armi chimiche contro civili da parte del regime di
Damasco. Nel corso dell’incontro dell’8 settembre con l’omologo iraniano
Mohammad Jawad Tharif, il ministro Zebari ha analizzato la prospettiva
di un intervento armato degli Stati Uniti, sottolineandone le possibili
ripercussioni negative non solo per l’area siriana, ma anche per tutta la
regione mediorientale. Ciononostante, è arrivata la condanna ufficiale
dell’uso delle armi chimiche, definito crimine efferato in grave violazione
delle norme internazionali. Durante il Consiglio Ministeriale della Lega
Araba di pochi giorni fa, però, il ministro degli esteri iracheno ha
manifestato le sue riserve nell’attribuire delle precise responsabilità prima
di un’accurata indagine internazionale a opera degli ispettori Onu, pur
evidenziando la particolare sensibilità a questo tema del popolo iracheno,
vittima dell’uso indiscriminato di questi strumenti di sterminio durante il
regime di Saddam, come ad esempio nella città di Halabja nel 1988.
Non di secondaria importanza è stata poi considerata la questione
dei rifugiati. Dallo scoppio della guerra civile, milioni di cittadini siriani in
fuga si sono riversati nei paesi limitrofi. Secondo le stime nazionali, i
rifugiati in territorio iracheno avrebbero superato a fine agosto le 200.000
unità. Alla conferenza tenutasi il 4 settembre 2013 presso la sede dell’High
Commissioner of Refugees (UNHCR) a Ginevra, la delegazione irachena
guidata dal ministro Hoshyar Zebari ha messo in luce il notevole
incremento subito dai flussi di profughi siriani nel corso degli ultimi due
mesi e l’incredibile impegno profuso dall’Iraq nell’affrontare una simile
emergenza umanitaria. A tal proposito, ha ricordato l’allestimento di
numerosi campi profughi, tra cui quello di Qaiem e quello di Dumez nel
Kurdistan iracheno, nonché gli enormi sforzi economici sostenuti dal
governo per garantire agli sfollati servizi di prima necessità come acqua
potabile, elettricità, servizi igienico-sanitari ma anche cibo istruzione e
sicurezza. La conferenza si è conclusa con l’appello ai paesi donatori e alle
agenzie internazionali specializzate affinché accrescano il loro supporto
finanziario e umanitario.
Marcella Centaro
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
GLI SCHIERAMENTI INTERNAZIONALI DI
FRONTE ALLA CRISI
Alla conclusione del vertice di San
Pietroburgo,
tenutosi tra il 5 e il 6 settembre
LA DICHIARAZIONE
2013, lo schieramento dei G20, in relazione alla
DEL G20
questione siriana, si è delineato con maggiore
chiarezza. Superpotenze, potenze emergenti e
•••
nazioni europee si sono trovate divise tra chi
Undici paesi hanno sottoscritto un
accetta la tesi secondo cui il governo di Bashar
documento
che
chiede
espressamente
di
superare
al-Assad sia responsabile degli attacchi con le
l’immobilità del Consiglio di
armi chimiche dello scorso 21 agosto, e chi non
Sicurezza delle Nazioni Unite:
ritiene le prove fornite dall’intelligence di vari
Stati Uniti d’America, Canada,
Australia, Inghilterra, Francia,
paesi, sufficienti per approvare una “risposta
Italia, Spagna, Turchia, Arabia
forte” da dare alla Siria.
Saudita, Giappone e Corea del Sud.
Tra gli attori più che determinati verso
Tra questi, la Francia, l’Inghilterra
e la Turchia costituiscono l’asse più
l’intervento ci sono Israele, che in realtà è già
deciso verso una risoluzione
intervenuto militarmente con raid aerei volti
militare per mettere fine al
alla distruzione di armamenti ritenuti
governo di al-Assad.
minacciosi, e Qatar e Arabia Saudita, che
finanziano vari gruppi di ribelli presenti sul
territorio siriano.
Le nazioni che si sono opposte alla
Tra i paesi che si sono schierati a favore
firma sono: Federazione Russa,
Germania,
Cina,
Brasile,
dell’intervento, l’Italia ricopre una posizione
Argentina, Messico, Sudafrica,
particolare. La marina militare ha inviato il
India e Indonesia. Come si è detto,
cacciatorpediniere Andrea Doria, ma solo come
queste non ritengono certe le prove
supporto alla missione UNIFIL, ovvero a difesa
che vedono il governo siriano come
dei 1.200 soldati italiani presenti sul territorio
responsabile degli attacchi del 21
libanese e non per partecipare a un eventuale
agosto. Anzi, la Germania, nei
giorni successivi al summit, ha
attacco contro Damasco.
proposto un nuovo possibile
I rappresentanti della Lega Araba, che si
scenario: l’attacco chimico, secondo
sono riuniti il 1° settembre 2013, hanno siglato
il Bnd – il servizio segreto tedesco
un documento che attribuisce ad al-Assad la
– sarebbe stato ordinato da alti
responsabilità degli attacchi chimici. I paesi
ufficiali dell’esercito siriano senza
della Lega hanno però assunto posizioni diverse
il consenso di al-Assad. Le prove
sono
custodite
in
una
rispetto all’intervento armato. Mentre alcuni,
conversazione registrata da una
Arabia Saudita e Qatar in testa, si sono
nave da ricognizione tedesca al
espressi a favore, altri, come ad esempio Libano
largo delle coste siriane.
ed Egitto, si sono opposti.
L’Iran, storico alleato della Siria, ha
P. B.
assunto una posizione ambigua, dimostrandosi
non eccessivamente preoccupato per un
possibile intervento contro Damasco, in una delicata fase di politica interna
dove sembra più disponibile ad un nuovo dialogo con l’Occidente. Hamas e
Fatah, le due fazioni palestinesi, sostengono invece che di un attacco contro
14
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
Damasco beneficerebbe soltanto il governo di Tel Aviv. Infine, la proposta
della Federazione Russa di mettere gli arsenali chimici siriani sotto
controllo internazionale, ha aperto una finestra sulla possibilità di una
soluzione pacifica ed è stata subito ben accolta da Bashar al-Assad.
Catherine Ashton, alto rappresentante per gli affari esteri
dell’Unione Europea, che aveva già affermato che gli attacchi con le armi
chimiche non potevano rimanere impuniti, ha rilasciato un documento in
cui manifesta l’approvazione di tale risoluzione. Molti paesi hanno seguito
questa indicazione e uno dei primi a esprimersi favorevolmente è stata
l’India.
Paolo Balmas
CHI SONO GLI ALAWITI?
L’alawismo è una corrente religiosa diffusa prevalentemente in Siria,
Turchia e Libano. Deve il suo nome ad Alì Ibn Abi Talid, genero e cugino di
Maometto, comunemente considerato il primo imam sciita e uno dei quattro
califfi ben guidati. L’origine è discussa e si perde nel folklore locale, secondo
cui gli alawiti sarebbero i discendenti dell’undicesimo imam o del suo
discepolo Ibn Nusayr, ragion per cui nei secoli hanno preso anche il nome di
Nusayri.
Altrettanto problematico è il loro inserimento nel filone dell’islam
tradizionale: benché ad oggi si autodefiniscano sciiti duodecimani,
tradizionalmente sono stati considerati dagli altri mussulmani come
eretici, estranei sia all’islam sciita che a quello sunnita. In una fatwa del
teologo hanbalita Ibn Taymiyya del secolo XIII, furono definiti “non
credenti, più infedeli di ebrei e cristiani”. In effetti, il loro credo, di cui
peraltro non si conosce molto, racchiude elementi pagani, derivanti da
antichi culti mesopotamici e, secondo alcuni, addirittura fenici, ma questa
fede ha anche molto in comune con l’ismaelismo e con un’accezione
eterodossa del cristianesimo.
Al pari dei cristiani, riconoscono il Natale e il giorno delle Palme,
ricorrono al vino come forma di comunione e credono in una Trinità, in cui
“Alì è il Significato; Maometto, che Alì creò con la sua luce, è il Nome;
Salman il persiano è il Cancello”. Come gli ismaeliti, credono a una lettura
esoterica del Corano e a una qualche forma di reincarnazione. In
particolare, sembra che secondo la loro fede in origine ogni uomo fosse una
stella del firmamento, finché non caddero tutti nel mondo come punizione
per la loro disobbedienza (ogni alawita deve rinascere sette volte prima di
ritornarvi). I peccatori rinascono come giudei o cristiani, mentre gli infedeli
tornano nel mondo come animali.
15
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
Ogni fedele alawita ha in sé una parte della luce del Creatore, che lo
guida nel mondo terreno fino al ritorno
nel firmamento, dove Alì è il principe.
Della teologia alawita si conosce poco
Benché ad oggi si autodefiniscano sciiti
altro, la loro è una fede segreta di cui
duodecimani,
tradizionalmente sono stati
neanche la maggior parte dei seguaci
considerati dagli altri mussulmani come
ha una conoscenza completa. Non
eretici, estranei sia all’islam sciita che a
accettano convertiti e né che vengano
quello sunnita
pubblicati i loro testi sacri, e
tramandano i segreti della teologia
soltanto a una ristretta cerchia di
iniziati, tutti rigorosamente maschi.
Numericamente non sono una comunità molto diffusa; anche dove la
loro concentrazione è massima, vale a dire in Siria, rappresentano soltanto
il 12% circa della popolazione. Eppure governano questo paese da circa
quarant’anni, ovvero hanno costituito un regime che, se oggi sembra quanto
mai precario, in passato ha rappresentato per molti un faro di stabilità,
stretto tra le guerre civili del Libano, l’occupazione americana dell’Iraq e
l’eterno conflitto israelo-palestinese.
Storicamente sfruttati e talvolta perseguitati, prima dagli emiri e poi
dall’impero ottomano, gli alawiti acquisirono una certa autonomia dopo la
Prima guerra mondiale, quando la Siria fu affidata alla Francia sotto forma
di mandato. A seguito dell'indipendenza, mentre la Siria affrontava un
periodo di forte instabilità con un susseguirsi di governi deboli e colpi di
stato, molti alawiti vennero reclutati dal partito nazionalista arabo Bath.
Cominciarono ad avvicinarsi all’islam tradizionale edificando moschee e
fondando istituzioni religiose, con il conseguente sostegno degli sciiti
duodecimani iracheni.
Il partito Bath, al potere dal 1963, venne riformato nel 1966 e
ricostituito su basi meno nazionaliste e più filo-sovietiche. Nel 1970, con un
nuovo colpo di stato, Hafiz al-Assad, all’epoca colonnello dell’aeronautica,
divenne presidente della Siria. Gli alawiti restavano una minoranza, ma
adesso erano al comando. Tre anni dopo, l’ayatollah libanese Musa al-Sadr,
autorità dello sciismo duodecimano, pronunciò una fatwa con cui
riconduceva gli alawiti nell’alveo dell’islam tradizionale. Benché potesse
sembrare puramente teologica, la fatwa ebbe uno scopo eminentemente
politico: legittimare Hafiz al-Assad nel ruolo di vertice che aveva occupato,
poiché la carta costituzionale siriana prevedeva espressamente che il
presidente fosse di fede musulmana.
Tuttavia, gli Assad, padre e figlio, non hanno mai dimenticato che
per molti restano ancora mussulmani di seconda classe. Per mantenere il
potere acquisito hanno seguito due strade: da un lato hanno cercato di
garantire alle altre minoranze del paese un minimo di inclusione
nell’apparato governativo, dall’altro hanno corretto il culto alawita fino a
farlo rientrare nei classici canoni islamici.
Sono dunque state costruite moschee e limitate le tradizioni di
matrice pagana, i fedeli sono stati incoraggiati a pregare con costanza e a
seguire i precetti dell’islam (in particolare i cinque pilastri che
16
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
precedentemente, seppur riconosciuti, venivano considerati più come doveri
simbolici che come veri e propri obblighi).
Federica De
De Paola
L’OFTALMOLOGO CHE DIVENNE
DI VENNE PRESIDENTE:
PRESIDENTE : BASHAR ALAL - ASSAD
•••
Bashar al-Assad è nato a Damasco l’11 settembre 1965. La famiglia appartiene alla potente, sebbene poco numerosa,
corrente sciita degli alawiti. Il padre, Hafiz al-Assad, un generale dell’aviazione siriana, prese il potere con un colpo di
stato e fu prima ministro della Difesa e poi presidente della Siria dal 1971. Bashar al-Assad subentrò al padre alla sua
morte, nel 2000. Tuttavia, non era lui il successore designato da Hafiz. Aveva infatti intrapreso la carriera di medico,
specializzandosi in oftalmologia presso l’università di Damasco nel 1988. Ha servito nell’esercito come medico e nei primi
anni Novanta si è trasferito a Londra per continuare gli studi. Qui conobbe Asma (alias Emma, alias Rosa del Deserto,
classe 1975), che in seguito diverrà sua moglie. Nel 1994, però, la morte inaspettata (e misteriosa) del fratello maggiore
Basil in un incidente d'auto, che era cresciuto nell’esercito ed educato per prendere la guida del paese, lo riportò
precipitosamente in patria, al preciso scopo di essere inserito nel sistema di potere ed addestrato a diventare in tempi
rapidi il futuro presidente. Frequentò l’accademia militare e raggiunse il grado di colonnello (dopo sei mesi) nella
Guardia Nazionale.
Tutti i suoi parenti sono ben radicati nella struttura del potere siriano: il fratello minore, Maher, comanda la temuta IV
Divisione Corazzata dell’esercito (dove l’80% degli ufficiali sono alawiti) e la Guardia Repubblicana, l’unica unità delle
forze armate autorizzata a operare nella capitale Damasco; il cognato (marito della sorella Bushra) era vice ministro
della Difesa prima di essere ucciso in un attentato nel luglio del 2012; i cugini di parte materna, Rami Makhlouf e Hafez
Makhlouf, sono rispettivamente un noto finanziere (che il Financial Times ha stimato come possessore del 60% delle
ricchezze dell’intero paese), e il capo dei servizi civili d’intelligence della regione della capitale. Tutti sono membri del
partito politico Bath, il movimento presente in vari paesi del Medio Oriente (in Iraq fino al 2003), che mira alla creazione
di un’unica grande nazione islamica nella regione.
P. B.
17
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
LA PROTEZIONE REPUBBLICANA E LE
FORZE SPECIALI
All’età di 39 anni, il ministro della Difesa, generale Hafez al-Hassad,
soprannominato successivamente il “Grande Leone”, prese il potere in Siria
con un colpo di stato nel 1970 e rimase presidente sino alla sua morte,
avvenuta nel 2000, per lasciare la carica al figlio Bashar al-Hassad dopo 30
anni di incontrastato dominio sulla vita militare e civile del paese. In
qualità di comandante delle Forze Armate, si deve al “Grande Leone” la
prima importante configurazione dell’esercito siriano, sostanzialmente
invariata sino ai nostri giorni (anche se la specifica dei dati raccolti
riguarda il periodo del “passaggio di consegne” al figlio Bashar).
Oltre alla principale divisione in tre Corpi d’Armata, le Forze Armate
siriane possono contare su una divisione di “Forze Speciali”, sulla più
famosa “Protezione Repubblicana” (tre brigate corazzate ed un reggimento
di artiglieria), su una brigata di “Fanteria della Montagna” (un corpo
d'élite, la 120°) e sull’unità della “Protezione del Deserto”, una forza di
1.800 uomini responsabile della perlustrazione delle ampie zone di
frontiera della Siria. In ogni caso, tutti uomini altamente addestrati.
Secondo il “Middle East Intelligence Bulletin” del giugno del 2000, al
secondo “Corpo d’Armata”– di stanza a Zabadan, a nord di Damasco e con
copertura sino ad Homs – appartengono anche 5 reggimenti delle Forze
Speciali, tra cui il più famoso “5° Special Force”, schierato contro le
posizioni israeliane sulle alture del Golan e provvisto di alcune “unità
segrete” addestrate per penetrare in profondità con attacchi eli-trasportati
ed in grado di infliggere gravi danni ai collegamenti israeliani tra le basi
avanzate sul monte Hermon e le posizioni logistiche arretrate. Oltre alle
armi individuali in dotazione – che sarebbe troppo lungo analizzare in
questa sede – è interessante notare che in questo reparto sono state
segnalate armi occidentali provenienti dal “mercato parallelo”, ovvero il
fucile automatico americano M16A1 da 5,56mm, l’israeliano UZI da 9 mm,
l’italiana Beretta BM12 da 9 mm, ed il tedesco MP5K con silenziatore per
operazioni clandestine.
Decisamente particolare la storia della “Protezione Repubblicana”,
fondata direttamente dal presidente Hassad nel 1976 dopo una serie di
violenti attacchi portati dalle milizie armate palestinesi nel cuore di
Damasco contro la partecipazione siriana in Libano, ed affidata ad Adnam
Makhlouf, cugino della moglie del presidente, sino al cambio di guardia
avvenuto nel 1995, per presunti disaccordi proprio con il giovane figlio
Bashar, a favore del generale Ali Mahmud Hasan. Denominata a volte
anche “Protezione Presidenziale” e composta da 10.000 soldati scelti di
sicura lealtà politica, è la forza responsabile della sicurezza del regime
siriano, ovvero del presidente, del palazzo presidenziale e del quartiere
residenziale del Malki, dove vive la maggior parte della “nomenklatura” di
Damasco. Da informazioni raccolte dalle maggiori agenzie di intelligence
18
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
occidentali, sembra che per assicurarne una fedeltà incondizionata a questa
divisione venga devoluta una parte significativa del reddito ricavato dai
campi petroliferi della regione di Al-Zur di Dayr.
In ogni caso, i gradi più alti e le cariche direttive di questa
particolare divisione vengono sempre affidati a parenti della famiglia
presidenziale o ad elementi di sicura lealtà. Destinata ad essere sempre
equipaggiata con gli armamenti migliori, alla data del 2000 risultava in
grado di schierare veicoli corazzati da combattimento Bmp-2/3, 350 carri
armati T-62/72, veicoli corazzati per trasporto truppe Btr-60/70, veicoli
corazzati da ricognizione Brdm-2, cannoni 2S1 (122 mm) e 2S3 (155 mm),
difesa antiaerea Zsu-23/4 (23 mm) e lanciagranate multipli Bm-21 da 122
mm.
Anche se in misura minore, la stessa attenzione viene riservata alle
“Forze Speciali” – circa 15.000 uomini addestrati come commandos d’elite
ed organizzati in 10 reggimenti indipendenti e nella XIV divisione aerea, di
stanza a Al-Qutayfeh, vicino a Damasco.
Il primo comando (1968-1994) venne affidato al generale Alì Haydar,
ma successivamente sostituito, dopo sospetti su presunti appoggi per un
colpo di stato, dal generale Alì
Habib, già comandante della VII
Si deve al “Grande Leone” Hafez Assad la
divisione meccanizzata e delle Forze
prima importante configurazione
Armate siriane nella coalizione della
dell’esercito siriano, sostanzialmente
Guerra del Golfo del 1991. Anche se
rimasta invariata sino ai nostri giorni
in generale il corpo ufficiali non è
tenuto ad aderire al partito Baath,
questa viene considerata comunque
una condizione essenziale per accedere alla “Protezione Repubblicana” ed
alle “Forze Speciali”, così come per i livelli più alti di comando, ed in ogni
caso per continuare la carriera nello Stato Maggiore dell’esercito.
Per gli ufficiali, l’addestramento iniziale avviene presso l’Accademia
Militare di Homs, (oltre cento chilometri a nord di Damasco) considerata la
più antica e qualificata del paese, fondata dai francesi nel 1933 e
regolamentata ufficialmente dalla Siria solo nel 1987. E’ possibile accedere
in un’età compresa tra i 18 ed i 23 anni ed oltre al superamento delle
normali prove di selezione, è necessario dimostrare una particolare lealtà
politica per intraprendere il primo biennio di studi comune a tutte e tre le
scuole, quindi anche l’Accademia Navale nella città di Latakia, e
l’Accademia Aeronautica, nella base aerea di Nayrab, vicino Aleppo.
Alla severità dell’addestramento specifico di altri tre anni, bisogna
aggiungere che gli ufficiali incaricati di ricoprire posizioni di comando nella
“Protezione Repubblicana” e nelle “Forze Speciali” vengono inviati in
Russia per frequentare corsi professionali presso la prestigiosa Accademia
Militare “Voroshilov” di Mosca.
E’ interessante notare che, sin dal 1946, il governo siriano ha sempre
riconosciuto la necessità di offrire ai propri militari condizioni
particolarmente favorevoli per assicurarsi la necessaria lealtà. Agli ufficiali
dei Corpi Speciali viene permesso, per esempio, di acquistare l’automobile
personale senza pagare le tasse aggiuntive, così come la concessione di
19
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
prestiti finanziari senza interessi, erogati direttamente dal governo, ed
un’assicurazione sanitaria gratuita, oltre ad un trattamento pensionistico
migliore rispetto alle altre classi lavoratrici. Anche se in maniera ridotta,
analoghi benefits sono riservati ai soldati di truppa, sempre con l’intento di
rendere allettante una scelta militare qualificata, e nel 1987 le paghe
riuscirono a garantire – sulla base di semplici indicazioni raccolte in quel
periodo e non certo sulla verifica delle buste-paga – un tenore di vita
superiore a quello dei civili, lì dove risultarono anche essere competitive
rispetto agli standards dei militari degli altri paesi arabi. La crisi
dell’Unione Sovietica nel 1990, con le sue ripercussioni anche sull’economia
della Siria, ha oggi ridotto notevolmente tali agevolazioni.
Secondo Richard Bennet – analista di sicurezza militare dello
“Istituto Britannico di Servizi e Studi della Difesa” ed autore di volumi
sulla preparazione degli eserciti e dei servizi di intelligence nel contesto
internazionale – le Forze Armate siriane sono state (1967-1991) tra le più
importanti ed addestrate di tutto il mondo arabo, grazie ad uno spiccato
senso della disciplina ed una forte motivazione, tanto da guadagnarsi anche
il rispetto di Tzahal, i pur temuti soldati dell’esercito israeliano.
Roberto Angiuoni
I GRUPPI DI OPPOSIZIONE
Fin dall’inizio, l’opposizione siriana è stata caratterizzata da una
patologica carenza di omogeneità. A quasi due anni e mezzo dallo scoppio
delle rivolte, la frammentazione continua ad essere il tallone d’Achille del
fronte anti-Assad, che si sgretola in una sequenza senza fine di nomi, sigle
e ideologie.
In principio si è costituito il Consiglio Nazionale Siriano, riunitosi
per la prima volta a Istanbul il 23 agosto del 2011, e nato ufficialmente il
15 del mese successivo come espressione di un gruppo di attivisti in esilio.
Pur avendo il merito di essere stato il primo gruppo a tentare di creare un
fronte unitario, il Consiglio perse molto presto quella coesione a cui
aspirava e apparve sempre più diviso e distante dai ribelli attivi in Siria,
dai quali fu criticato sia per lo scarso approvvigionamento di armi che per
l’eccessiva dipendenza dai Fratelli Musulmani.
A esperimento ormai fallito, il Consiglio è confluito in una nuova
organizzazione ombrello, la Coalizione Nazionale Siriana (Cns), nata a
Doha nel novembre del 2012 e supportata da attori esterni, in particolare
da Stati Uniti e Qatar. Riconosciuta dagli Stati che sostengono i ribelli
come unico e solo rappresentante legittimo del popolo siriano, la Coalizione
rappresenta oggi il principale raggruppamento dell’opposizione, tanto che
nel marzo del 2013 ha occupato il seggio della Siria in seno alla Lega
Araba. Ne fanno parte non solo i gruppi dell’opposizione in esilio, ma anche
20
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
le formazioni (combattenti e non) attive nel paese: dai Comitati di
Coordinamento Locale (Lcc) fino all’Esercito Siriano Libero, del quale sono
stati ammessi 15 rappresentanti nel maggio del 2013, suggellando così, per
la prima volta, la partecipazione diretta dei ribelli a un gruppo politico.
Nonostante tutto, la Coalizione sembra soffrire degli antichi mali che
affliggevano il suo predecessore: da un
lato le divisioni interne ai Fratelli
Riconosciuta dagli Stati che sostengono i
Musulmani, dall’altro la pesante
ribelli come unico e solo rappresentante
assenza di partiti come il Comitato
legittimo
del popolo siriano, la Coalizione
Nazionale di Coordinamento per il
Nazionale Siriana rappresenta oggi il
Cambiamento
Democratico
(Cnc),
principale raggruppamento
gruppo di matrice laica e pacifista –
dell’opposizione, tanto che nel marzo del
2013 ha occupato il seggio della Siria in
contrario alla militarizzazione della
seno alla Lega Araba.
rivolta – o la Commissione Generale
della Rivoluzione Siriana (Cgrs), uscita
dalla Coalizione a giugno del 2013
lamentando lo strapotere dei Fratelli
Musulmani sponsorizzati da Turchia e Qatar, e delle altre forze di matrice
islamista finanziate dal governo saudita.
Fuori anche uno dei maggiori partiti curdi, il Partito di Unione
Democratica (Pyd). Il Consiglio Nazionale Curdo (Knc), invece, ha
recentemente firmato un accordo che sancisce l’unione con il Cns, sul quale
però pesa la spada di Damocle dell’approvazione da parte del Consiglio
Supremo Curdo.
Infine, mentre si svolgeva la riunione a San Pietroburgo, è nata una
nuova Coalizione che unisce ben 33 gruppi d’opposizione: la Comunità
Nazional Democratica Siriana, i cui esponenti si sono incontrati con i
vertici dell’Esercito Siriano Libero (Esl), il 5 settembre 2013 a Gaziantep,
nella Turchia meridionale.
Ancora più confusa si presenta la situazione dei gruppi combattenti.
Il principale, per anzianità e numero di militanti, è l’Esl, che è stato
fondato dall’ex colonnello Riad al-Asaad, già nell’estate del 2011, e che
comprende un gran numero di disertori dell’esercito regolare. L’anno
successivo, il grande incremento degli effettivi, sia disertori che civili, ha
portato a una riorganizzazione dell’Esl, incoraggiata e in parte finanziata
dai paesi occidentali e dalle monarchie del Golfo.
Ad oggi questa organizzazione conta circa 40.000 uomini, anche se
talvolta i vertici ne hanno dichiarati il doppio, e i suoi battaglioni sono
presenti su tutto il territorio siriano. La leadership appartiene al generale
Salim Idriss, che però da molti viene percepito più come una guida politica
che come l'effettiva e suprema autorità militare (non sono pochi i
comandanti locali che controllano direttamente le proprie milizie, spesso
con una matrice diversa da quella laica e nazionalista delle truppe sotto il
diretto controllo di Idriss).
Sul versante dell’opposizione religiosa, nel settembre del 2012 si è
formato il Fronte Islamico Siriano di Liberazione (Fisl), che comprende
all’incirca una ventina di gruppi di matrice islamista. Può contare su un
potenziale di 35.000 combattenti ed è particolarmente radicato nelle
21
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
province di Homs e Hama. Notevole importanza riveste anche il Fronte
Islamico Siriano (Fis), nato nel dicembre del 2012 grazie ai finanziamenti
delle monarchie del Golfo. È un’alleanza radicale, in cui confluiscono vari
gruppi combattenti, tra cui Harakat al-Fajr al-Islamiyya e Liwa al-Haq,
per un totale di circa 25.000 uomini. Tutti i gruppi membri del Fis sono
uniti dalla comune ideologia salafita e puntano ad instaurare la sharia
sull'intero territorio siriano.
Attorno alle formazioni principali ruotano una serie di gruppi che si
affiliano, di volta in volta, all’una o all’altra. Tra questi, i più numerosi sono
le Brigate Farouq, il Movimento Islamico Ahrar al Sham, le Brigate dei
Martiri della Siria, la Brigata dell’Islam, la Brigata Tawhid e le Brigate
Suqour al Sham.
Infine, vi sono due formazioni meno numerose del Fis, del Fisl o
dell’Esl, ma da queste del tutto indipendenti: la prima è l’Unità di
Protezione Popolare (Ypg), il principale gruppo combattente curdo, legato a
doppio filo al Pkk e diffidente nei confronti della corrente islamica
dell’opposizione; la seconda è il gruppo Jabaht al-Nusraa, finanziato da alQaeda e attivo segretamente già dalla seconda metà del 2011.
Di Jabaht al-Nusraa si è parlato molto, soprattutto negli ultimi mesi,
tanto da dare l’impressione che la maggior parte delle operazioni militari
dell’opposizione siano ormai in mano alla componente qaedista. Ma sembra
che i miliziani di al-Nusraa abbiano più interesse ad acquisire il controllo
delle aree liberate che ad entrare nel vivo delle operazioni militari (in
effetti, sono stati i grandi assenti della famosa battaglia di Qusayr).
Il peso specifico delle diverse anime dell’opposizione siriana non è
facilmente individuabile, cosi come non sono ancora chiari i rapporti tra le
diverse correnti. Di certo, non lasciano ben sperare le dichiarazioni di
Muhammed Shalabi, più conosciuto come Aby Sayyif, esponente del
salafismo giordano. Sayyif ha sostenuto che lo scontro tra i miliziani
salafiti e quelli laici, così come con gli esponenti di un islam moderato, è
certamente inevitabile per via degli obiettivi così distanti: da una parte si
mira all’instaurazione della sharia, dall’altra a un sistema democratico
laico e filo occidentale. “Se dovesse cadere Assad, e L’Esl ci intimasse di
abbandonare le armi, ci sarà uno scontro con perdite enormi”.
Federica De
De Paola
LE ARMI CHIMICHE E I GAS NERVINI
Le armi chimiche vengono classificate dalle Nazioni Unite come
Armi di Distruzione di Massa (WMD, Weapons of Mass Destruction) e sia
la loro realizzazione che lo stoccaggio sono proibiti dalla Convenzione sulle
armi chimiche del 1993 (Chemical Weapons Convention). Già nel 1925 la
Convenzione di Ginevra ne vietava espressamente l’uso militare.
22
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
Queste armi vengono usate in combattimento sfruttando le proprietà
tossiche di alcune sostanze chimiche, principalmente sotto forma di gas, per
uccidere o invalidare pesantemente le forze avversarie. Il loro più massiccio
impiego avvenne sul fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale
(battaglia di Ypres) ma, pur avendo suscitato universale esecrazione e
numerose messe al bando, negli anni successivi molte nazioni hanno
perfezionato nuovi aggressivi chimici. La Germania nazista, ad esempio,
rivoluzionò la guerra chimica con la scoperta degli agenti nervini Tabun,
Sarin e Soman, che non vennero comunque mai utilizzati dai tedeschi per
timore di rappresaglie. Successivamente, sia l’Unione Sovietica che gli Stati
Uniti continuarono gli studi sui gas letali realizzandone ampi stock.
I più recenti e tragici esempi di attacchi con aggressivi chimici
contemplano non solo gli usi per scopi bellici, ma anche per la soppressione
degli oppositori interni sino all'impiego per atti terroristici. Nel primo caso,
nella guerra Iran-Iraq (1980-1988), Saddam Hussein utilizzò a più riprese
contro l’Iran, sia Yprite che Tabun, con bombe sganciate da vettori aerei (la
stima è di circa 100.000 vittime). Sempre Saddam Hussein, con identiche
modalità, il 16 marzo 1988 compì il massacro di Halabja contro la
popolazione curda di quella città: un mix letale di diversi gas venefici tra
cui Yprite, Sarin, Tabun e VX, che non diedero scampo e procurarono la
morte di 5.000 persone, in maggioranza civili.
L’unico esempio sinora conosciuto in ambito terroristico risale invece
al 20 marzo 1995, quando adepti della setta religiosa apocalittica Aum
Shinrikyo rilasciarono del Sarin nella metropolitana di Tokyo, uccidendo 12
persone e procurando serie lesioni ad altre 5.000.
La classificazione delle armi chimiche si basa sulle tipologie degli
effetti e sulle distinzioni degli agenti chimici impiegati. Si possono
riassumere in agenti nervini (con azione sul sistema nervoso), agenti
vescicanti (con azione attraverso l’epidermide) e agenti asfissianti (azione
soffocante).
23
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
Il gruppo che però desta maggiori preoccupazioni è quello degli
agenti nervini: da un lato per la facilità di assorbimento di questi ultimi,
non solo tramite inalazione diretta ma anche per contatto cutaneo, e
dall’altro per l’estrema letalità anche a minimi dosaggi. I sintomi si
manifestano subito con l’assorbimento di quantità infinitesime: contrazione
delle pupille, profusa salivazione, convulsioni, perdita di controllo
muscolare e infine arresto cardiaco e/o asfissia. La morte sopraggiunge in
pochi secondi, o in alcuni minuti in caso di inalazione, da due a diciotto ore
per contatto cutaneo.
I gas nervini, o neurotossici, appartengono alla categoria degli
"anticolinesterasici”:
inibiscono l’enzima acetilcolinesterasi bloccando l’azione dell’acetilcolina,
un neurotrasmettitore deputato al controllo della contrazione muscolare.
I gas nervini di tipo “G” tendono ad essere altamente volatili e non
persistenti. Tuttavia, alcuni di essi possono essere addizionati con altre
sostanze per renderli più persistenti; mentre i gas della serie “V”, viceversa,
tendono ad essere persistenti. Di solito, si scelgono in base a determinate
caratteristiche. Per un uso tattico, ovvero quando si intenda poi intervenire
sul territorio per occupare le posizioni colpite, si usano quelli di tipo G
(Tabun, Sarin e Soman), mentre per impieghi più strategici e di maggiore
interdizione di area, si usano i gas della serie V, che impregnano più a
lungo il suolo.
Gli agenti nervini per uso bellico si distinguono in agenti singoli
(formati da un unico composto) o agenti binari, questi ultimi più comuni
per motivi sia logistici che di sicurezza di maneggio (sono il risultato di una
miscela di due o più gas, singolarmente inerti, ma che una volta miscelati
danno vita al composto letale).
I gas nervini possono essere inseriti in diversi contenitori e utilizzati
con svariati vettori: bombe d’aereo, testate di missili, razzi e granate
d’artiglieria, ma anche diffusi attraverso sistemi di irrorazione tramite
elicotteri od altri mezzi idonei.
Gli aggressivi chimici sono anche stati definiti come “l’atomica dei
poveri”, per via dei grossi arsenali di alcuni paesi non particolarmente
sviluppati sotto il profilo dell'armamento convenzionale, che tendono a
dotarsi di queste armi per una deterrenza a basso costo, nonostante i
numerosi trattati che li vietano e la forte censura internazionale.
Molti di questi vettori (missili, razzi e proiettili di artiglieria dell’ex
Unione Sovietica, così come quelli degli Stati Uniti), erano dotati della
capacità di trasporto di gas nervini grazie alla rapida intercambiabilità
delle testate e alla facilità di adattamento di queste ultime ai gas letali.
Tutti questi sistemi sono in pratica dotati di involucri esterni non dissimili
da quelli utilizzanti nelle comuni testate ad alto esplosivo: il volume
interno è occupato dall’aggressivo chimico contenuto da pareti di minor
spessore rispetto a una granata, atti soltanto al contenimento dell’agente e
facilmente disintegrabili da una ridotta carica di esplosivo (quest’ultimo ha
solo la funzione di rompere il contenitore agevolandone la dispersione
aerea).
24
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
Le spolette possono essere ad impatto, o più convenientemente di
prossimità, in modo da far detonare la munizione chimica ad una certa
altezza da terra, creando la miglior dispersione possibile della nube tossica.
Il missile balistico tattico Scud-B, molto diffuso e dalla gittata
massima di 300 km, era provvisto di una testata chimica, designata 8F 44G
Tuman-B, in grado di trasportare un carico di 555 kg di VX e dotata di una
spoletta di prossimità. Tale ordigno era congegnato per rilasciare una nube
in grado di coprire una striscia rettangolare di terreno lunga quattro
chilometri e larga seicento metri.
Anche il diffusissimo razzo M-21, del calibro di 122 mm, del sistema
Grad e con gittata di 20 km, era dotato di una testata chimica.
Ragionevolmente, a seconda del diametro e della capienza interna dei
munizionamenti chimici (siano essi razzi o proiettili di artiglieria, da 122 a
155 mm), per saturare convenientemente una vasta area sono necessarie
più salve di razzi o di proiettili.
Con riferimento alla Siria, l’intelligence occidentale ritiene plausibile
la disponibilità di una certa quantità di missili balistici Scud-B (e il
derivato nordcoreano Hwasong-6) e Scarab-B, modificati con testate
chimiche prodotte localmente e poi adattate. Tuttavia, la reale efficacia di
queste testate, come le quantità degli agenti chimici effettivamente
trasportati, vengono da più parti messe in discussione.
Oltre alle differenti gittate massime di questi due sistemi,
rispettivamente di 120 e 300 km, sono altrettanto significativi i cosiddetti
CEP (Circular Error Probability) individuali, ossia, la probabile massima
distanza cui il missile potrebbe mancare il bersaglio designato. Per lo ScudB, circa 900 metri, e inferiore ai 100 metri per lo Scarab-B (lo Scarab-B
sarebbe già stato lanciato in 14 esemplari durante un attacco nel distretto
di Barzeh, a nord est di Damasco e nel mese di aprile del 2013).
Entrambi i modelli sono dotati di lanciatori mobili (TEL), una
condizione che agevola gli spostamenti così come l’occultamento. Di contro,
i tempi di allestimento al lancio non risultano veloci.
Riguardo al munizionamento aereo, apparentemente più semplice, si
ipotizzano delle soluzioni locali con interventi su ordigni originariamente
destinati ad altri scopi, come le bombe cluster sovietiche Ptab-500 e
incendiarie Zab, adattate per l’impiego di aggressivi chimici.
Anche il possibile uso di razzi artigianali, sullo stile dei Qassam,
sembra rientrare nelle normali capacità produttive della Siria.
Elisa del Greco
25
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
IL PROBLEMA DEI RIFUGIATI
Quando nel marzo 2011 hanno avuto inizio le manifestazioni
pubbliche contro il governo di Bashar al-Assad, la Siria rappresentava uno
dei paesi con il maggior numero al mondo di rifugiati e richiedenti asilo. Si
trattava di persone provenienti
dall’Iraq,
dall’Afghanistan,
dalla
Somalia, dalla Palestina e da altri
paesi ancora, insediate nelle aree
Secondo le stime dell’UNHCR, i siriani in
urbane della Repubblica Araba
fuga sono nel mese di settembre 2 milioni,
Siriana.
Con
la
drammatica
ed il numero di coloro che cercano riparo
evoluzione dei disordini in guerra
nella regione mediorientale aumenta di
5.000/6.000 unità al giorno.
civile, è stata la popolazione siriana
ad essere costretta alla mobilitazione.
L’inasprimento del conflitto ha
determinato una crisi umanitaria
senza precedenti, che ha causato il ritorno nei paesi di origine di coloro che
avevano trovato rifugio in Siria, oltre allo spostamento degli stessi siriani
sia all’interno che lungo i confini dello Stato.
Il numero dei rifugiati ha superato quota un milione già nella prima
settimana di marzo del 2013. Secondo le stime dell’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNHCR, i siriani in fuga sono nel mese
di settembre 2 milioni, ed il numero di coloro che cercano riparo nella
regione mediorientale aumenta di 5.000/6.000 unità al giorno. Nel 2012, i
rifugiati registrati o in attesa di registrazione erano circa 230.000, mentre
in dodici mesi la Siria ha visto fuggire quasi due milioni di persone.
Il 97% dei rifugiati siriani è ospitato dai paesi confinanti, come il
Libano, la Giordania, la Turchia e l’Iraq. Più di 4 milioni di persone, invece,
sono sfollate all’interno del territorio siriano, secondo i dati raccolti
dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari
Umanitari.
Per quanto riguarda il Libano, in questo paese sono presenti, sempre
secondo le stime dell’ONU, 720.000 rifugiati siriani. Per il governo di
Beirut le cifre oscillano intorno al milione, in uno Stato con una popolazione
di circa 4 milioni. Per far fronte a questa emergenza le autorità libanesi e le
Nazioni Unite stanno allestendo un centro di accoglienza profughi nei
pressi del valico di frontiera di Masnaa, lungo il confine orientale con la
Siria. Il numero di siriani registrati in Libano con lo status di rifugiato è
pari, se non superiore, al 18% del totale della popolazione, con gruppi di
persone distribuite in più di 1.400 diverse località.
Decine di migliaia di civili provenienti dalla regione di Damasco sono
invece presenti nella valle dello Yarmuk, il fiume che segna il confine tra
Giordania, Siria e Israele. Il governo di Amman, che ha finora accolto
520.000 rifugiati siriani, ha ormai chiuso le frontiere e concede l’ingresso
soltanto a 200 persone al giorno. I siriani che si trovano nel campo di
Zaatari, aperto nel luglio del 2012 nel deserto a nord della Giordania, sono
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
circa 100.000. Il flusso di siriani che fuggono dalla guerra ha determinato
un incremento dell’11% della popolazione di questo paese. Oltre ai rifugiati
che vivono nei campi, migliaia di persone si trovano nelle città e nei villaggi
della Giordania, il cui governo ha fatto fronte all’emergenza con uno
stanziamento, nel 2013, di circa due miliardi di dollari.
L’Iraq ha accolto, fino al mese di settembre del 2013, circa 200.000
rifugiati siriani e la regione che ha registrato il maggior numero di arrivi è
quella del Kurdistan iracheno.
Per quanto riguarda la Turchia, questo è il primo paese dell’area ad
aver offerto ospitalità ai siriani in fuga, ma da alcuni mesi Ankara ha
ristretto l’accesso frontaliero e posto sotto accurata sorveglianza i campi
profughi. Per i 464.000 rifugiati siriani presenti nel paese il governo ha
stanziato 2 miliardi di dollari.
Altri 100.000 siriani hanno cercato rifugio in Egitto, mentre i paesi
del Nord Africa ne hanno accolti circa 24.000. Alcuni, invece, hanno cercato
di raggiungere l’Europa, dove circa 15.000 persone sono state accolte dalla
Svezia, il paese che ha garantito il permesso di residenza a tutti i
richiedenti asilo.
Secondo l’UNHCR, il numero dei siriani che decidono di abbandonare
il paese e di rifugiarsi in quelli confinanti è molto più elevato, a causa della
mancata registrazione presso l’Agenzia dell’ONU. Secondo i dati
dell’UNHCR e dell’UNICEF, i bambini (con età compresa da 0 a 18 anni)
costituiscono oggi la metà di tutti i rifugiati che hanno abbandonato la
Siria. Inoltre, gli ultimi dati raccolti indicano che tra i due milioni di
rifugiati siriani, 740.000 hanno meno di 11 anni, mentre altri due milioni di
bambini sono sfollati all’interno della stessa Siria.
Per quel che riguarda l’Italia, sulle coste sono sbarcati, a partire dal
2011, circa 3.700 siriani, anche se la meta finale sembra piuttosto essere
l’Europa del nord.
Marzia Nobile
GLI ARMAMENTI CONTRAPPOSTI
L’inasprirsi della situazione in Siria ha provocato la mobilitazione di
alcune nazioni che hanno inviato parte delle proprie forze navali nel
Mediterraneo orientale e nel Mar Rosso. Gli Stati Uniti hanno spostato il
gruppo navale della portaerei Nimitz, dal Mare Arabico al Mar Rosso.
La portaerei ha la capacità di ospitare novanta velivoli, compresi gli
elicotteri, è scortata da un incrociatore e quattro cacciatorpediniere, oltre a
uno o più sottomarini. Il numero complessivo di questi ultimi non è chiaro,
anche se alcune fonti segnalano la presenza di due sottomarini della US
Navy al largo di Creta. La portaerei Harry S. Truman, invece, si trova più a
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
sud, nel Mare Arabico, con il suo gruppo navale: la Princeton, la William P.
Lawrence, la Stockdale e la Shoup.
Di recente, la marina americana ha dislocato nel Mediterraneo
orientale:
• la portaelicotteri San Antonio, una nave che trasporta anche mezzi
anfibi;
• cinque cacciatorpediniere della classe Arleigh Burke: la Barry
(salpata per il Mediterraneo orientale da Norfolk già il 18 agosto
2013), la Gravely, la Stout, la Ramage e la Mahan. Queste cinque
navi dispongono, complessivamente, di 225 Tomahawk, i missili
guidati con sistema Gps che possono raggiungere obiettivi a 2.500
km di distanza, con testate da 450 kg ognuna. In caso di attacco,
saranno l’armamento principale della marina.
Le basi aeree di Creta,
Turchia, Giordania e Qatar ospitano
gli aerei dell’aviazione americana,
All’ imponente dispiegamento di forze da
oltre a quelli stanziati sulle
parte americana si aggiungono Israele e
Turchia, concentrate sulla difesa
portaerei. Tra i velivoli, oltre ai
missilistica dei propri territori e
caccia F16 e F18 e ai bombardieri Bsull’eventuale offensiva che potrebbe
1 e B-52, spiccano il bombardiere
coinvolgere anche le forze di terra.
“invisibile” B-2 e l’Uav (aereo privo
di pilota) Global Hawk che, oltre a
svolgere compiti di intelligence, può
montare armamenti.
L’Italia ha inviato due navi al largo delle coste del Libano in difesa
della missione Unifil, che conta 1.200 soldati italiani. Si tratta del
cacciatorpediniere Andrea Doria, dotato di missili Aster 15 e Aster 30, e
della fregata Maestrale, un’antisommergibile, con il suo cannone Oto
Melara da 127 mm.
Anche la Francia, a difesa del proprio contingente in Libano che
conta 900 soldati, ha posto il cacciatorpediniere Chevalier Paul, stessa
classe dell’Andrea Doria, al largo delle coste libanesi. A supportare l’azione
francese, vi sarà anche la portaerei Charles De Gaulle con i suoi caccia
multiruolo Mirage e Rafale, sebbene si trovi ancora in acque francesi.
A Cipro sono dislocati sei Eurofighter Typhoon e vari bombardieri
Tornado inglesi e, nelle acque dell'isola, la Royal Navy dispone anche di un
sottomarino classe Trafalgar. A questo imponente dispiegamento di forze si
aggiungono Israele e Turchia, concentrate sulla difesa missilistica dei
propri territori e sull’eventuale offensiva che potrebbe coinvolgere anche le
forze di terra.
Le forze armate di Damasco dispongono di un ampio numero di aerei
ed elicotteri di origine sovietica ancora in servizio, tra cui sessanta caccia
multiruolo Mig-29 Fulcrum e venti bombardieri Sukhoi 24. Sebbene datati,
molti velivoli sono stati aggiornati con strumentazioni più recenti e
sofisticate. La marina siriana assicura il controllo della costa attraverso
moderni pattugliatori, ma le unità d’attacco consistono in una fregata
(risalente agli anni Settanta) e a imbarcazioni leggere d’attacco rapido,
classe Osa, dotate di sistemi missilistici.
28
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
La difesa aerea è affidata ai più precisi S-300, missili di
fabbricazione russa, oltre che ai Buk M2 Telar e ai Pechora 2A, missili a
medio raggio. Gli armamenti siriani più temibili sono invece i missili
antinave: Damasco possiede i C-802 cinesi ed è in attesa della consegna dei
russi Yakhont (l’intelligence israeliana ha affermato che i primi 72 sono
stati già consegnati). L’attacco del mese di luglio del 2013 da parte delle
forze aeree di Tel Aviv in territorio siriano è stato effettuato per colpire
alcune postazioni in cui erano dislocati proprio questi missili.
Si tratta di un’arma particolarmente efficace che potrebbe mettere in
difficoltà le navi avversarie nel Mediterraneo orientale. Allo scopo di
contrastarli, la marina di Tel Aviv, negli ultimi mesi, ha cominciato a
dotare alcune navi dei missili Barak 8, capaci di intercettare i Yakhont. Per
la difesa del territorio israeliano, invece, è stato recentemente testato, in
una prova congiunta con la US Navy, il sistema di difesa Arrow.
Damasco potrà contare sull’appoggio effettivo della marina russa,
che si è offerta di proteggere il territorio siriano dagli attacchi missilistici.
La Federazione Russa possiede a Tartus, sulle coste siriane, l’unica base
navale al di fuori dei propri confini. Inoltre, Mosca ha fatto convergere nel
Mediterraneo un numero elevato di navi, un'operazione che non veniva
effettuata dai giorni del crollo dell’Unione Sovietica.
Fra queste vi sono: i cacciatorpediniere Admiral Panteleyev e
Nastoichivy; varie navi d’assalto anfibie, l’Alexander Shabalin, l’Admiral
Nevelsky, la Peresvet, la Novocherkassk, la Minsk, la Nikolai Filchenkov e
la Azov; le fregate Neustrashimy e Yaroslav Mudry; l’incrociatore Moskva –
proveniente dalla Flotta del Mar Nero e che prenderà il comando delle
operazioni – e varie navi antisommergibili, tra cui la Severomorsk.
Rilevante la presenza della nave da ricognizione Ssv-201 Priazovye,
una vera e propria centrale d’ascolto progettata per l’elaborazione di dati
Sigint e Comint. Infine, come già programmato da tempo, si attende per la
fine del 2013 l’arrivo nel Mediterraneo dell’unica portaerei della
Federazione Russa, l’Admiral Kuznecov.
La marina russa ha effettuato importanti spostamenti anche in altre
aree. L’incrociatore nucleare Pyotr Veliky (Pietro il Grande), due navi
antisommergibili e due navi d’assalto anfibie, la Olenegorsky Gornyak e la
Kondopoga, tutte appartenenti alla Flotta del Nord, si sono portate a largo
delle isole della Nuova Siberia, nel Circolo Polare Artico, più vicine allo
Stretto di Bering che divide la Federazione Russa dagli Stati Uniti.
Paolo Balmas
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
LA PRESENZA NAVALE ITALIANA NEL
MEDITERRANEO ORIENTALE
Mentre la diplomazia internazionale ricerca affannosamente una
soluzione alternativa all’intervento militare per fermare le atrocità e le
violenze commesse senza soste nel territorio di Damasco, il Mediterraneo
orientale, silenziosamente e non, viene inevitabilmente occupato da unità
militari. Come al principio di una partita di Risiko, quando i dadi ancora
non sono stati tratti, ogni attore provvede a posizionare le proprie forze
nelle aree di interesse per tenersi pronto e contare sul doppio effetto di una
presenza militare preventiva: deterrenza e difesa.
E come si colloca l’Italia in questa fase di incertezza internazionale
di fronte alla crisi siriana?
Il 4 settembre 2013 le agenzie hanno dato notizia dell’invio di due
navi militari italiane in direzione delle coste libanesi allo scopo di tutelare
le truppe italiane – presenti in teatro
per adempire la missione UNIFIL –
nel caso in cui il conflitto siriano si
La nave inviata in Libano ha elevate
acuisca.
capacità di difesa aerea e di comando e
Le navi di cui parla la stampa
controllo
e sarà presente nel Mediterraneo
nazionale sono il cacciatorpediniere
per garantire supporto dal mare al
Andrea Doria e la fregata Maestrale,
personale italiano impegnato
rispettivamente
lanciamissili
e
antisommergibile. E mentre i primi
nell’operazione UNIFIL.
articoli anticipano previsioni circa
l’invio e l’impiego di questi mezzi della
marina militare, il Ministero della Difesa rettifica. In un comunicato
stampa del 5 settembre, lo Stato Maggiore precisa che l’unico mezzo
attualmente presente al largo delle coste libanesi è il lanciamissili Andrea
Doria, mentre nave Maestrale rimane in territorio italiano, probabilmente
in approntamento, ma ad oggi ancorato nel porto di La Spezia.
Perché una lanciamissili nel Mediterraneo orientale? Perché una
classe Orizzonte?
Varata nell’ottobre del 2005, nave Andrea Doria, insieme alla
gemella Caio Duilio, spicca per la capacità multiruolo che garantisce ampia
copertura nelle azioni militari. Si tratta di un caccia antiaereo capace di
difendersi dalle tre tipologie di minaccia – aerea, di superficie, subacquea.
Può concorrere ad operazioni anfibie, contrastare efficacemente unità di
minaccia e può svolgere compiti di controllo del traffico mercantile.
Dal 2010 al 2011 il cacciatorpediniere è stato impiegato in diverse
operazioni di cooperazione o pattugliamento, dalle coste del Brasile e
dell'Africa nord-occidentale durante l’operazione Tucano, al largo delle
coste libiche durante l’emergenza del 2011 con compiti di sorveglianza
aerea a bassa quota, fino al comando dell’Operazione Ocean Shield nel
30
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
contrasto alla pirateria marittima nell’Oceano Indiano dal giugno al
dicembre del 2011.
Le esperienze passate, tra attività di cooperazione, sorveglianza e
supporto operativo, rendono questa unità la migliore per l’invio in un’area
critica come quella siriana. Come è noto, da due anni questo paese vive
contando le vittime di uno scontro che anziché svigorirsi ha assunto forme
sempre più crudeli, culminando con l’utilizzo delle armi chimiche il 21
agosto 2013.
Data la posizione strategica della Siria, le possibili conseguenze,
intenzionali e non, dell'allargamento del conflitto potrebbero essere
devastanti.
L’unità navale Doria è dotata di un apparato lanciamissili verticale
che, a differenza dei comuni razzi, è guidato a distanza. Utilizzando missili
Aster 15 e Aster 30, il cacciatorpediniere Doria offre un’ampia copertura
contro attacchi missilistici aerei ai danni del contingente.
La nave inviata in Libano ha elevate capacità di difesa aerea e di
comando e controllo e – con un equipaggio di 195 membri, tra uomini e
donne, al comando del Capitano di Vascello Stefano Turchetto – sarà
presente nel Mediterraneo per garantire supporto dal mare al personale
italiano impegnato nell’operazione UNIFIL. La zona dove è dislocata la
forza di interposizione ONU è compresa in un’area delimitata a nord dal
fiume Litani, a est dall’altipiano del Golan (congiungendosi con il
contingente UNDOF che presidia il confine siro-israeliano), a sud dalla
zona che dista solo 10 km dal confine israeliano e a ovest dal Mar
Mediterraneo. L’area rivolta in direzione Damasco è considerata la più
rischiosa.
Il 9 giugno 2013 il premier israeliano Netanyahu ha dichiarato di
essere preoccupato per lo sgretolamento delle forze dell’UNDOF, sulle
alture del Golan, dopo l’escalation degli scontri tra l’esercito di Bashar alAssad e le forze ribelli. I flussi di rifugiati che continuano a raggiungere il
territorio libanese, uniti all’instabilità contagiata ormai su tutto il
perimetro, rendono la situazione quantomeno allarmante.
La seconda unità navale presa in considerazione è la fregata
Maestrale, antisommergibile. La nave ha ripreso i fondamentali
addestrativi nel maggio del 2012, a conclusione di una lunga fase di
ricondizionamento delle capacità operative, iniziata nel novembre del 2010
dopo venti anni di attività nazionale ed internazionale: dal supporto ai
cacciamine italiani nel Golfo Persico nel 1991, fino alle operazioni di
controllo del traffico marittimo e lotta al terrorismo internazionale dopo
l’attentato alle Torri Gemelle del 2001.
Attualmente al comando del Capitano di Fregata Pier Paolo Daniele,
l’unità è in grado di condurre guerra antisommergibile, dotata di un
apparecchio sonar capace di raggiungere i 300 m di immersione, ma può
condurre anche attività di ricerca mine grazie alle ultime modifiche
realizzate. La fregata può garantire supporto alle operazioni di sbarco
anfibio, assicurando protezione da eventuali sommergibili ostili, e possiede
un’ampia capacità antinave grazie alla dotazione dei missili Teseo. Si
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
tratta di missili a traiettoria programmabile costruiti per impiego antinave
e, nelle ultime versioni, anche per obiettivi vicini alla costa.
Come risulta dall’ultimo comunicato dello Stato Maggiore, questa
unità non è ancora presente in acque libanesi, tuttavia un eventuale
impiego futuro trova giustificazione nelle alte capacità combat ready che
garantiscono prontezza ed efficienza.
Il dispiegamento di navi italiane al largo delle coste mediorientali
non rappresenta comunque un'eccezione nel vasto panorama delle attività
internazionali. Ogni attore statale che abbia interessi strategici nell’area
ha provveduto ad inviare navi nel Mediterraneo, dispiegando la forza come
unità di controllo, senza alcuna minaccia per gli Stati rivieraschi.
La Russia ha dispiegato sedici navi da guerra e tre elicotteri a base
navale nel Mediterraneo, primo dispiegamento russo permanente dai tempi
dell’Unione Sovietica.
Ilaria De Napoli
I GRANDI DIVISI A SAN PIETROBURGO
Nato come forum di discussione e cooperazione internazionale sui più
importanti temi economici e finanziari globali, il G20 ha visto spesso la sua
agenda estendersi a tematiche che hanno fatto passare in secondo piano
problemi come globalizzazione, disoccupazione e stabilità dei mercati.
È quanto accaduto nel settembre del 2013 nel corso del summit di
San Pietroburgo. L’argomento ascritto all’ordine del giorno, crescita
economica e creazione dei posti di lavoro, è stato messo in ombra dalla
tragedia siriana e dal clima di conflitto latente da essa generato nel
panorama internazionale. Il premier italiano Enrico Letta, subito dopo la
cena ufficiale al Peterhof di San Pietroburgo, si è pronunciato su Twitter
con un commento: “È terminata ora la sessione serale dove si è certificata
la divisione sulla Siria”.
Opposte, infatti, sono apparse le posizioni risultanti dal summit, con
Stati Uniti e Russia ai due poli. A seguito del presunto utilizzo di armi
chimiche contro civili da parte del regime di Damasco, nel mese di agosto
del 2013, il presidente Obama si è a più riprese dichiarato pronto all’azione
militare, incontrando l’opposizione di Putin, che durante la conferenza
stampa finale ha dichiarato: “Aiuteremo Damasco con armi e soldi,
intensificando la cooperazione umanitaria in caso di azione militare contro
la Siria. L’applicazione della forza nei confronti di uno stato sovrano è
possibile solo per autodifesa e con il mandato dell’ONU e non è questo il
caso. Come già detto, chi agisce in modo unilaterale, viola la legge
internazionale”. E il presidente russo si è spinto oltre, definendo lo stesso
utilizzo di armi chimiche come una messa in scena organizzata dai ribelli
32
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
anti-Assad al fine di sollecitare l’intervento straniero nella regione e
rovesciare il regime.
In questo clima da guerra fredda, gli altri paesi hanno mantenuto un
atteggiamento più cauto; guadagnatosi l’appoggio di Turchia, Canada e
Arabia Saudita, il presidente Obama sembra non aver convinto totalmente
Germania, Gran Bretagna, Italia e la stessa Francia che, in un primo
momento, era orientata verso l’azione militare. Il presidente Hollande,
infatti, ha comunicato di voler
attendere il rapporto degli ispettori
Onu sulla questione delle armi
chimiche prima di decidere in merito
Il presidente russo ha definito l’utilizzo di
armi chimiche come una messa in scena
a un eventuale attacco alla Siria.
organizzata dai ribelli anti-Assad al fine di
Ancor più misurata la presa di
sollecitare l’intervento straniero nella
posizione del premier Letta, che ha in
regione e rovesciare il regime.
più occasioni spiegato che la Carta
costituzionale italiana vieta la
partecipazione a interventi armati
che
non
dispongano
dell’autorizzazione delle Nazioni Unite, ricordando però l’impegno italiano
in altre missioni militari internazionali, che spaziano dal Kosovo al Libano,
passando per l’Afghanistan.
Favorevoli a una soluzione politica e pacifica, lontana dall’uso delle
armi, si sono mostrati Repubblica Popolare di Cina, India, Indonesia,
Argentina, Brasile, Sudafrica e lo stesso Pontefice, che da Roma ha inviato
il suo appello alla pace e al dialogo, lanciando su Twitter l’hashtag
#prayforpeace per le cinque ore di preghiera e di digiuno del 7 settembre
2013.
La divergenza di opinioni in merito alla crisi siriana si è rivelata,
insomma, così profonda che qualsiasi riferimento all’argomento è stato
escluso dal comunicato finale del G20, in cui gli addetti ai lavori si sono
limitati a trattare le questioni all’ordine del giorno di natura prettamente
economica. Sul problema siriano l’unico risultato materialmente raggiunto
è stata una dichiarazione congiunta a firma di dieci paesi (Australia,
Canada, Francia, Italia, Giappone, Corea del Sud, Arabia Saudita, Spagna,
Turchia e Stati Uniti), in cui si condanna con la massima fermezza l’attacco
con armi chimiche avvenuto a Damasco il 21 agosto 2013 (il regime di
Assad viene ritenuto responsabile), ma al tempo stesso si esclude ogni
soluzione di tipo militare, auspicando invece una pacifica attuativa di
quanto stabilito a Ginevra nel 2012.
A G20 concluso, le più recenti notizie parlano di una possibile
ricomposizione del conflitto che segua la via delle trattative diplomatiche;
sembra, infatti, che il governo di Assad abbia accolto favorevolmente la
proposta russa, annunciata dal ministro degli Esteri, Serghiei Lavrov, di
consegnare il proprio arsenale chimico alla comunità internazionale,
decisione che Barack Obama ha definito “uno sviluppo potenzialmente
positivo” e che Mosca e Damasco sperano possa bloccare l’intervento
militare statunitense.
Marcella Centaro
33
Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
LA SOLUZIONE LAVROV: UNA TERZA VIA
“Se la sottoposizione dell’arsenale chimico al controllo internazionale
permetterà di evitare altre violenze e scontri, inizieremo immediatamente
a lavorare con Damasco”. Queste
sono le parole con le quali Lavrov –
ministro degli esteri russo – ha
La “soluzione Lavrov” sembra aver messo
manifestato l’intenzione di aprire
tutti d’accordo, Damasco compresa. E la
comunità internazionale, riflessa nelle
una terza via nella crisi siriana, a
considerazioni del Segretario generale delle
pochi giorni dalla chiusura di un G20
Nazioni Unite, ha seguito la scia.
apparentemente impotente.
La proposta di Mosca arriva il
giorno dopo la fine dei round
negoziali di San Pietroburgo, quando
il segretario di Stato americano, John Kerry, ha lanciato un velato
ultimatum ad Assad.
In uno dei suoi ultimi interventi, il rappresentante della Casa Bianca
ha in effetti aperto uno spiraglio: l’unica e l'ultima possibilità di evitare
un'operazione militare si sarebbe concretizzata solo qualora Assad avesse
consegnato tutte le armi chimiche entro un tempo limite di una settimana.
La chance della strada diplomatica è stata colta al balzo dalla
controparte russa e riformulata ufficialmente da Mosca. È quindi Lavrov a
proporre la nuova soluzione pacifica il 10 settembre 2013.
Il giorno dopo l’intervento di Kerry, Lavrov continua: “Quello che
chiediamo alla Siria non è solo di accettare di porre il proprio arsenale
chimico sotto controllo internazionale, ma anche di acconsentire alla
successiva distruzione dell’armamento e sottoscrivere la Convenzione di
Parigi sulla proibizione delle armi chimiche del 1993”.
La risonanza della proposta russa, l’extrema ratio per evitare un
intervento militare, sin dal suo apparire sulla scena internazionale non
conosce opposizioni, presentandosi agli occhi di una diplomazia in affanno
come l’unica vera alternativa capace di raccogliere consensi da ambo le
parti.
Così, dopo aver dichiarato che la Siria è pronta ad ogni forma di
cooperazione al fine di evitare qualunque pretesto di aggressione, il
ministro degli esteri di Damasco – Walid al Moallem – ha confermato la
possibilità di esplorare con attenzione una via laterale nel percorso
intricato della crisi. La Siria apre per la seconda volta le porte agli ispettori
internazionali, ma questa volta per permettere che il proprio arsenale sia
sottoposto al controllo esterno.
Le reazioni del resto del mondo non tardano ad arrivare. L’Europa
accoglie la proposta come un’alternativa seria all’intervento militare e un
valido sostegno alle politiche diplomatiche perseguite. L’Unione tutta,
comprese Parigi e Londra, accoglie all’unanimità questa ipotesi di disarmo.
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
E anche Obama – che nel suo discorso alla nazione del 10 settembre
2013 si era dimostrato determinato a proporre al Congresso un intervento
militare a tempo determinato per evitare che il regime potesse compiere
altre violenze – ascolta con interesse la voce russa di Lavrov e si dimostra
disponibile a dare la precedenza alla diplomazia. Laddove la via
diplomatica riesca davvero ad imporre un nuovo ordine al contesto siriano,
o almeno a mitigarne l'esasperata conflittualità, nessun paese potrà più
richiedere l’opzione interventista.
La “soluzione Lavrov” sembra aver messo tutti d’accordo, Damasco
compresa. E la comunità internazionale, riflessa nelle considerazioni del
Segretario generale delle Nazioni Unite, ha seguito la scia.
Ban Ki-moon ha proposto la creazione di aree supervisionate
dall’ONU all’interno del territorio siriano, nelle quali convergere i carichi
delle armi a disposizione del regime per la successiva distruzione.
Le nazioni, tutte o quasi, direttamente o indirettamente interessate
alla crisi siriana, non hanno manifestato alcuna opposizione ad una simile
eventualità, anche se rimane da valutare la fattibilità (e la road map) del
piano russo.
Ma se per il mondo politico e diplomatico occidentale il mese di
settembre del 2013 può rappresentare una possibile svolta nella gestione
della crisi siriana, per altri attori quest’ultima soluzione sembra invece
apparire come un compromesso inaccettabile.
In prima linea a sostenere l’opposizione ad una tale soluzione
compare l’Esercito Libero Siriano. Il portavoce del Free Syrian Army, in
un’intervista a France 24 rilasciata il 12 settembre 2013, dichiara le
ragioni per le quali in realtà non ci sarebbe nessuna svolta. Nessuno può
assicurare alla comunità internazionale che il regime consegnerà tutto il
suo arsenale, nessuno garantisce che pur consegnando l’attuale armamento
il Presidente non provvederà ad avviare una nuova produzione o ad aprire
nuove attività di procurement. “Bashar al-Assad conosce un solo
linguaggio, la forza”, con queste parole Louay Al-Mokdad sembra fendere il
velo di ottimismo che si è appena creato nella comunità internazionale, da
New York a Bruxelles, da Mosca a Pechino.
Nella fila degli scettici, per ragioni diverse, appare Tel Aviv:
Netanyahu teme che l’accettazione della proposta di un controllo
internazionale possa essere strumentalizzata da Assad solo per guadagnare
tempo e perseguire i propri intenti di politica interna senza il disturbo di
eserciti internazionali.
La comunità mondiale, tra diffidenza e ottimismo, attende la
prossima mossa di Damasco sperando che il percorso si concluda con la
sottoscrizione della Convenzione sulle armi chimiche che riflette il quadro
di supervisione internazionale proposto da Mosca il 9 settembre scorso.
Il sistema di controllo internazionale previsto dal Trattato in
questione è stato creato nel 1993 con la sottoscrizione della Convenzione di
Parigi e si basa principalmente su due pilastri: le dichiarazioni e le
ispezioni. Le dichiarazioni devono pervenire periodicamente da parte degli
Stati alla Commissione Internazionale dell’Aja (OPAC). Gli Stati membri
sottopongono al vaglio un elenco di quelle attività nazionali, di carattere
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Doctis Ardua n.1 – Dossier Siria / settembre 2013
militare o civile, che -come disposto dalla Convenzione- devono essere
tenute sotto controllo, rientrando, pertanto, tra gli obblighi di notifica. Le
ispezioni, d’altra parte, possono perseguire due diverse vie. Il programma
prevede visite ispettive ordinarie, effettuate con brevissimo preavviso da
parte dei membri dell’OPAC per verificare la reale corrispondenza tra le
dichiarazioni e la situazione reale. In casi sospetti e su specifica richiesta di
uno Stato parte della Convenzione la Commissione Internazionale può
svolgere, inoltre, delle ispezioni straordinarie, mirate a riscontrare la
veridicità di accuse di terzi o sospetti di violazioni degli obblighi
internazionali.
Ammettendo il controllo della comunità internazionale e
sottoscrivendo il Trattato di Parigi la Siria sarebbe il sedicesimo Stato del
Medio Oriente a prendere parte alla Convenzione per la messa al bando
delle armi chimiche, della quale sono già parte Afghanistan, Arabia
Saudita, Bahrein, Cipro, Emirati Arabi Uniti, Giordani, Iran, Iraq, Kuwait,
Libano, Omano, Pakistan, Qatar, Turchia e Yemen.
Ilaria De Napoli
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GLI AUTORI
Roberto Angiuoni,
Angiuoni laureato con lode in Relazioni Internazionali, dal
novembre 2012 è Direttore dell’Associazione Istrid Analysis. È coautore del
volume L’Islam Radicale in Africa (Apes, Roma 2012) e del libro Le
Primavere Islamiche (La Scuola, 2013), a cura di R. Tottoli.
Paolo Balmas,
Balmas laureato in Lingue e Civilità Orientali presso
l’Università Sapienza di Roma, si è occupato di religioni e culture
dell’Estremo Oriente. Svolge l’attività professionale di traduttore.
Marcella Centaro,
Centaro studia Scienze Politiche e Relazioni Internazionali
presso l’Università Sapienza di Roma. Si interessa di politica
internazionale con particolare riguardo all’area mediorientale.
Elisa del Greco,
Greco laureata in psicologia clinica, specializzanda in
psicoterapia, psicodiagnosi clinica e forense. Svolge attività professionale
d’istruttore di tiro, studio delle armi e tecnica dell’uso delle armi.
Ilaria De Napoli,
Napoli laureata con lode in Relazioni Internazionali presso
l'Università di Roma LUISS Guido Carli. Nel 2013 ha conseguito il titolo di
master post lauream in Studi Internazionali Strategico-Militari presso il
Centro Alti Studi per la Difesa.
Federica De
De Paola, laureata in Relazioni internazionali presso
l'università La Sapienza di Roma. Attualmente frequenta un master in
Studi diplomatici presso la Società Italiana per l'Organizzazione
Internazionale.
Gerardo Fortuna,
Fortuna laureato con lode in Scienze Politiche e Relazioni
Internazionali all’Università Sapienza di Roma. Si occupa di diritto
internazionale e storia diplomatica.
Marzia Nobile,
Nobile laureata con lode in Relazioni Internazionali presso
l’Università Sapienza di Roma. Ha frequentato la Scuola di giornalismo
della Fondazione Lelio e Lisli Basso. Si interessa di diritti dei migranti e
dei richiedenti asilo.
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