Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Direttore: Francesco Gui (dir. resp.).
Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Anna
Maria Giraldi, Francesco Gui, Giovanna Motta, Pèter Sarkozy.
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Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006
del 17 ottobre 2006
Codice rivista: E195977
Codice ISSN 1973-9443
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Indice della rivista
luglio - settembre 2015, n. 36
MONOGRAFIE
“A State that might control the whole world”. La Gran Bretagna tra
impero e federazione sovranazionale
di Benedetta Giuliani
p. 3
La Santa Sede e la questione armena nei documenti vaticani
(1915 -1921)
di Antonella Ricci
p. 40
Nuovamente, grazie a Assange, sui “padri dell’Europa”
Integrazioni agli atti del convegno di Padova, nel centenario
della nascita di Luigi Gui
di F. G.
p. 105
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“A State that might control the whole world”.
La Gran Bretagna tra impero e federazione sovranazionale
di Benedetta Giuliani
Nell'epoca caratterizzata dalla crisi della sovranità propria dello Stato-nazione,
l'impero è tornato a rappresentare una categoria storiografica estremamente
versatile e utile per interpretare ed eventuale affrontare i mutamenti politici
contemporanei. Nel concetto di impero è contenuta infatti una vocazione, per
così dire, alla sovranazionalità e alla pacificazione che appare oggi
indispensabile per fronteggiare i limiti e l’intima pericolosità del modello degli
stati nazione indipendenti e sovrani. Lo studio dell’impero e delle sue forme è
dunque di nuovo oggetto di rinnovato e diffuso interesse da parte in primo
luogo della storiografia.
La rinata popolarità dell'impero sembra non essere scalfita neppure dal
suo essere un concetto fluido e labile, caratterizzato insomma da una pluralità
di significati che rende pretestuoso, se non superfluo, il voler cercare a tutti i
costi una definizione onnicomprensiva che codifichi univocamente la formaimpero.1 Nel ravvivato clima di interesse, a ricevere la maggiore attenzione è
stato in ogni caso l’impero più esteso e universalizzante dell’età fra moderna e
contemporanea, ovvero il British Empire.
La storiografia britannica offre difatti un esempio illuminante del più
generale fenomeno di riscoperta del concetto di impero. Nel 1973 J. G. A.
Pocock introdusse l'idea di una New British History affermando l'impossibilità di
concepire la storia britannica e la storia imperiale come due dimensioni
interconnesse ma separate e, di conseguenza, la necessità di uno sguardo storico
che considerasse la storia britannica come una storia imperiale nel suo
R. Romanelli, Impero, imperi. Una conversazione, L'Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma,
2009, p. 8.
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complesso, in grado di mettere in evidenza le relazioni sistemiche esistenti
all'interno del cosiddetto Arcipelago Atlantico (termine usato da Pocock come
variante più attendibile dell'espressione British Isles), nonché le ripercussioni
che tali relazioni avevano esercitato sui possedimenti britannici negli oceani2.
Da allora si sono susseguiti numerosi studi volti ad analizzare le diverse
modalità con cui l'impero britannico è stato concettualizzato e giustificato. Gli
“studi imperiali” britannici (imperial studies), nel tentativo di definire la natura
dell'impero, sono chiamati a confrontarsi con il carattere peculiare di
irripetibilità storica che spesso è stato attribuito all'impero britannico,
considerato da molti un unicum rispetto a tutte le altre forme di organizzazione
dell'autorità denominate “imperi” esistite in altre regioni del mondo. Come ha
sintetizzato con efficacia Teodoro Tagliaferri, l'impero britannico è una creatura
politica eccezionale, poiché irriproducibile ed essenzialmente ibrida, la cui
natura peculiare si deve “ancora più che al suo carattere talassocratico, al
mosaico iridescente di popoli, culture, società su cui, attraversando gli oceani, si
esercita l'autorità del centro dell'impero”3 ma soprattutto a quella che
Tagliaferri definisce “l'ambizione cosmo plastica” dell'impero britannico,
ovvero la volontà di farsi artefice di un ordine globale pacificato4.
Nella visione di molti politici e intellettuali britannici che contribuirono a
crearlo e a perpetuarlo, l'impero venne talvolta caricato di una natura
addirittura teleologica. Seguendo una tradizione storica derivata dal pensiero
latino secondo cui l'imperium non indicava solo una delle possibili forme
istituzionali tra tante possibili, bensì rappresentava lo spazio territoriale e
simbolico al cui interno si realizzava la specifica identità culturale incarnata
nella civitas, diversi politici e intellettuali attribuirono all'impero britannico una
missione civilizzatrice. Al pari della civitas degli antichi, concepita come un
bene morale la cui diffusione seguiva l'incessante allargamento delle frontiere
imperiali, il British Empire (nella sua forma di Stato globale munito di una
sovranità non territoriale) fu descritto – annota il Padgen - come modello
culturale e istituzionale esportabile al resto dell'umanità5.
Il tema dell'unicità dell'impero britannico si lega così a un altro motivo, il
quale raffigura la Gran Bretagna come promotrice di una nuova fase storica, in
D. Armitage, Greater Britain: A Useful Category of Historical Analysis?, in «The American
Historical Review», vol. 104, n. 2, 1999, p. 431.
3 T. Tagliaferri, Dalla Greater Britain al World Order. Forme del progetto imperiale britannico, in R.
Romanelli (a cura di), Impero, imperi. Una conversazione, L'Ancora del Mediterraneo, NapoliRoma, 2009, p. 195.
4 Ivi, p. 187.
5 A. Pagden, I signori del mondo. Ideologie dell'impero in Spagna, Gran Bretagna e Francia, 1500-1800,
Il Mulino, Bologna, 2005, p. 47 e ss.
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cui i conflitti tra Stati risulteranno estinti una volta che sia stata portata a
compimento l'unificazione dell'intero genere umano all'interno di un unico
Stato globale. Nell'assumere l'impero quale strumento privilegiato di un
progetto di pacificazione mondiale, possiamo rintracciare i segni sia di una forte
consapevolezza della propria forza politica, sia di un senso di predestinazione
religiosa che già aveva contribuito a ispirare certe forme di patriottismo proprie
dell'età moderna secondo cui la Gran Bretagna era la nazione prediletta da Dio6.
Sempre a giudizio di Tagliaferri:
Il discorso sull'impero si rivela così, nel suo significato profondo, discorso sull'identità
nazionale britannica, di cui esso intende fornire un'interpretazione che ne fa coincidere
l'elemento specificamente imperiale con la vocazione a cooperare con Dio (ovvero con la
Provvidenza secolarizzata delle filosofie della storia) all'avvento della pace universale,
legittimando in chiave cosmopolitica (anziché nazionalistica) le politiche di empire building e
infondendo nella partecipazione personale a esse il senso di un'esperienza religiosa capace di
integrare (o surrogare) quella cristiana. 7
In realtà, al di là di singole specifiche interpretazioni, l'ideologia imperiale
britannica appare nel complesso caratterizzata da un certo bi-frontismo. Da una
parte, l'impero fu per molti suoi sostenitori, sia “moderni” che ottocenteschi,
un’istituzione che avrebbe operato non solo in nome dell'arricchimento
materiale dei britannici, ma soprattutto per un processo di civilizzazione
universale, a conclusione del quale l'umanità sarebbe stata pacificata in una
“comunità morale unica al mondo”.8 Dall’altra, tale ideologia si identificò con
una concezione bellicosa e militaristica del fine dell'impero, ben esemplificata
dalla retorica di Benjamin Disraeli, la quale raggiunse la massima popolarità sul
finire del XIX secolo, quando ormai era stata assimilata una variante esclusiva e
aggressiva dell'idea di nazione. La Gran Bretagna, affermò Disraeli, era
chiamata a scegliere tra “principi nazionali o principi cosmopoliti” 9.
Intento di questo contributo è di ripercorrere soprattutto l’evoluzione della
prima delle due visioni, ovvero di osservare il modo in cui tra XVIII e XX secolo
la forma imperiale britannica fu indicata, anche da alcuni intellettuali non
inglesi, come il prototipo cui ispirarsi per una ridefinizione delle relazioni
internazionali mondiali improntata ad una maggiore integrazione tra gli Stati.
Si ripercorreranno perciò, alla luce dei recenti apporti della storiografia
R. McWilliam, Popular Politics in Nineteenth-Century England, Routledge, Londra-New York,
1998, p. 87.
7 T. Tagliaferri, Dalla Greater Britain al World Order, cit., p. 191.
8 G. Aldobrandini, The Wishful Thinking. Storia del Pacifismo inglese nell'Ottocento, Luiss
University Press, Roma, 2009, p. 262.
9 B. Disraeli, discorso tenuto al Crystal Palace nel 1872, in T.E. Kebbel (a cura di), Selected
Speeches of the Earl of Beaconsfield, vol. II, Longmans, Londra, 1882, pp. 529-534.
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anglosassone, gli orientamenti culturali più rappresentativi che identificarono,
prima nell'impero coloniale e poi nel British Commonwealth of Nations, due
eccezionali modelli di organismi transcontinentali la cui essenza e i cui principi
avrebbero potuto essere traslati al mondo intero.
L'esposizione seguirà pertanto il seguente schema cronologico: la prima
parte sarà dedicata sia alle concezioni universalistiche britanniche, sia ai
progetti per la creazione di un'istituzione sovranazionale che alcuni autori del
XVIII secolo immaginarono traendo spunto dalla peculiare organizzazione
dell'impero britannico e dallo spirito mercantile ad esso sotteso. La seconda
parte si concentrerà sul concetto ottocentesco di Greater Britain e sulla
correlazione tra quest'ultimo e la corrente federalista inglese, prestando
particolare attenzione al progetto federale di John Seeley, non trascurando le
ulteriori evoluzioni novecentesche.
Nelle conclusioni si accennerà infine alla questione dell'eredità imperiale
negli anni della cooperazione europea post-bellica, nonché alla dialettica che si
costruì tra Commonwealth e integrazione europea.
Il libero commercio, l'Impero e la Federazione (XVIII-XIX secolo)
Nella prima età moderna, come suggerisce Pagden, le conquiste coloniali delle
principali potenze europee erano state celebrate come una missione
escatologica volta a ingentilire l'arretrato mondo dei popoli extraeuropei. Al
tempo stesso, è fin troppo noto che, almeno in certe circostanze, i modi, gli
strumenti e i protagonisti stessi delle conquiste imperiali avrebbero alimentato
la leyenda negra dei massacri e della cancellazione delle civiltà precedenti.
Anche per queste ragioni, a partire dal XVIII secolo, l'esaltazione dello
spirito di conquista e dell'impero come strumento di una politica di
civilizzazione militante inizia a tramontare culturalmente, sepolta sotto l'idea
della superiorità del commercio sulla conquista militare. L'impero cessa di
essere esaltato in quanto gigantesco apparato di potere e inizia ad essere
valutato secondo la dinamica del mercato: non più fonte di onore guerriero e
gloria ecclesiastica, bensì di ricchezza commerciale10.
Con lo sviluppo dei traffici transoceanici e la crescente accumulazione dei
capitali (due processi economici che produssero conseguenze sociali, tra cui il
disfacimento della società degli ordini fondata sulla sequenza gerarchica di
oratores, bellatores, laboratores) emersero i limiti di un imperialismo inteso come
“inclinazione arazionale e irrazionale, puramente istintiva, alla guerra e alla
10
A. Pagden, I signori del mondo, cit., p. 211.
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conquista”11.
La filosofia illuministica, così critica verso il concetto di tradizione e
ispirata alla nuova realtà politico-economica, denunciò l'anacronismo di un
impero basato sull'espansione e la conquista e identificò nel commercio la forza
moderna che avrebbe spazzato via il vecchio imperialismo. L'ottimismo
dell'epoca convinse molti pensatori che gli anni d'oro della guerra fossero giunti
alla fine, superati ormai dal capitalismo e dall'agente attraverso cui esso si
propagava: il commercio. Un economista olandese ebbe a dire che il commercio
era diventato la mania del XVIII secolo e, di fatto, numerosi filosofi sembrarono
concepire la società mercantile come una fase positiva dell'evoluzione storica,
all'interno della quale i rapporti tra le comunità umane sarebbero stati regolati
non dalla prevaricazione bensì dalla cooperazione e dal riconoscimento dei
reciproci interessi12.
Secondo quanto affermava Montesquieu:
Il commercio guarisce dai pregiudizi ed è quasi una massima generale che ovunque vi sono
costumi miti, c'è commercio; e che ovunque v'è commercio vi sono costumi miti […] L'effetto
naturale del commercio è di portare alla pace. Due nazioni che commerciano insieme si rendono
reciprocamente dipendenti: se una ha interesse di acquistare, l'altra ha interesse di vendere […]
Lo spirito del commercio produce fra gli uomini un certo sentimento preciso della giustizia,
opposto da un lato al brigantaggio, e dall'altro a quelle virtù morali che fanno sì che non sempre
si discuta rigorosamente dei propri interessi, e che si possa trascurarli per quelli degli altri. 13
Nelle parole del pensatore francese emerge una concezione teleologica del
commercio quale forza pro-attiva capace di riplasmare i rapporti tra nazioni,
avvicinandole tra di loro fino all'istituzione di una società globale ordinata, in
cui l'utile che viene perseguito è esclusivamente il benessere di tutti i suoi
membri, the greatest happiness of the greatest number di benthaniana definizione.
In un periodo storico connotato dalla transizione da un sistema di valori (la
conquista militare-territoriale) ad un altro (lo scambio commerciale) fu naturale
guardarsi intorno nel tentativo di individuare un esempio paradigmatico del
nuovo spirito mercantile. Tale esempio fu trovato nell'Inghilterra, la quale, pur
con evidenti diversità a seconda dei luoghi, affiancava all’insediamento
territoriale tradizionale l’incoraggiamento all’iniziativa privata da parte dei
coloni e all’insediamento commerciale (si pensi alla Compagnia delle Indie), sia
pure sotto la tutela in ultima istanza della corona. Londra seppe approfittare
dell'espansione del commercio internazionale e del conseguente sviluppo del
J. Schumpeter, citato in A. Pagden, Impulso selvaggio, calcolo civile. La conquista, il commercio e la
critica illuministica dell'impero, in R. Ben-Ghiat (a cura di), Gli imperi. Dall'antichità all'età
contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 191.
12 Ivi, p. 197.
13 C.L. de Montesquieu, Lo Spirito delle Leggi, Rizzoli Editore, Milano, 1967, p. 408 (libro XX).
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capitalismo finanziario, riuscendo a ottenere velocemente il ruolo di prima
potenza economica in Europa, primato simbolicamente coronato dal trattato di
Parigi del 1763, che sancì il possesso inglese dell'Indostan, rotta commerciale di
primaria importanza per il futuro economico dell'Inghilterra14.
L'impero britannico divenne, agli occhi del resto d'Europa, esempio di
un'organizzazione istituzionale che perseguiva virtuosi obiettivi commerciali, la
cui espansione veniva descritta (spesso addolcendo o sorvolando sui tratti più
bellicosi dell'imperialismo britannico) piuttosto come il risultato di un'iniziativa
imprenditoriale a forte carattere privato che non dell'estensione del dominium di
un popolo su altri. Peraltro, il proiettare sull'impero britannico una serie di
valori positivi e il fare di esse un caso particolare nella lunga storia degli imperi,
quasi che fosse impossibile trovare un precedente cui paragonarlo15, può essere
spiegato alla luce, certamente, di un dato di fatto, ma anche di un preciso
costrutto ideologico, su cui si tornerà fra breve.
Ebbene, il dato di fatto riguardava il tipo di relazione che la madrepatria
aveva istituito con le colonie, da sempre considerate alla stregua di comunità
politiche semi-indipendenti unite dal vincolo di fedeltà alla Corona. Una
concezione così fluida dei rapporti tra centro e periferia dell'impero non deve
sorprendere se consideriamo, in primo luogo, che la madrepatria non aveva mai
esercitato un controllo pressante sull’assetto di governo delle colonie,
permettendo così la nascita spontanea di forme istituzionali eterogenee che
sembravano più funzionali ai soggetti coinvolti in primo piano nella
colonizzazione oltreoceano16. Ciò aveva incoraggiato lo sviluppo di coscienza e
identità politiche piuttosto forti per lo meno da parte delle colonie inglesi
d'oltreoceano (il che non trovava un corrispettivo nei possedimenti coloniali
francesi né tanto meno spagnoli). In secondo luogo, tra coloro che si trasferirono
dall'altra sponda dell'Atlantico, molti vi approdarono con il desiderio di
istituire comunità che riproducessero il sistema di common law e rispettassero
l'insieme delle libertà civili che i coloni avevano assimilato in patria 17, facendo sì
che un forte senso di identificazione con l'Inghilterra e la sua tradizione
giuridico-filosofica perdurasse fino alla guerra di indipendenza americana.
Una tale concomitanza di autonomia e dipendenza fu funzionale nel
H. Sée, Origini ed evoluzione del capitalismo moderno, Corticelli, Milano, 1933.
Bisogna sottolineare che cantori dell'eccezionalità dell'impero britannico non furono solo gli
inglesi ma anche intellettuali di altre nazionalità. Diversi francesi esaltarono la “repubblica
mercantile” inglese, tra cui Quesnay, Montesquieu e il marchese di Mirabeau, cfr. A. Pagden,
Signori del mondo, cit., p. 216.
16 J.H. Elliot, Empire of the Atlantic World. Britain and Spain in America, 1492-1830, Yale University
Press, New Haven-Londra, 2006, p. 134.
17 J. Greene, Exclusionary Empire. English Liberty Overseas, 1600-1900, Cambridge University
Press, New York, 2010, p. 5.
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costruire, soprattutto prima dell’epoca di creazione ottocentesca delle colonie
africane e indiane, l'immagine di un impero sui generis. Alcuni sostenevano che
sarebbe stato corretto definire il vincolo istituzionale che univa l'Inghilterra ai
suoi possedimenti come confederale, anziché imperiale, e vi fu chi descrisse
esplicitamente l'impero britannico come una “confederazione di stati
indipendenti l'uno dall'altro ma uniti sotto la stessa corona”18.
Venendo ora a quello che abbiamo definito un costrutto ideologico, alla
luce del quale si volle motivare ulteriormente l'eccezionalità dell'impero
britannico, tale costrutto fu elaborato a partire dalla distinzione, già abbozzata
dalla storiografia greca, tra impero terrestre e impero marittimo. Come ha
notato David Armitage19, la convinzione che l'impero derivasse il suo carattere
di potenza globale grazie all'egemonia che la marina inglese esercitava sugli
oceani ha costituito un elemento primario nella formazione dell'identità
culturale britannica (“a history so exceptional was inassimilable to other
European norms”20), rafforzando il mito di un impero atipico, il quale, proprio
in virtù del suo dominium transoceanico e della sua vocazione mercantile, si
riteneva fosse il più adatto a sfuggire al processo di degenerazione dispotica che
aveva colpito altri illustri “colleghi” (l'impero romano e la monarchia cattolica
di Spagna su tutti).
L'opposizione tra imperi marittimi e imperi terrestri non era in ogni caso
un'oziosa distinzione retorica. Seguendo un suggestivo confronto proposto
dallo stesso Armitage21, la contrapposizione tra egemonia terrestre e marittima
ben si incarnava nelle figure mostruose di Beemoth e Leviathan, le bestie
gigantesche che, secondo il Libro di Giobbe, dominano rispettivamente sulla
terra e sul mare. Questo dualismo tra terra e mare di derivazione biblica si
rifletteva nella tesi, diffusa fin dalla tarda età moderna, secondo cui imperi
terrestri e marittimi fossero due entità strutturalmente differenti, la cui
articolazione istituzionale dava origine non solo a un ethos specifico (dispotico e
centripeto in un caso, democratico e plastico nell'altro) ma anche a
un'evoluzione storica diversa per entrambi. Proprio come dimostravano i
diversi esiti cui erano andati incontro l'impero romano e quello ateniese.
Il primo aveva dato origine a un governo che si sorreggeva su una
sovranità territoriale rigida che aggregava a Roma il resto dei domini e che, alla
fine, era naufragata prima nella tirannia e poi nell'anarchia; il secondo,
A. Pagden, Signori del mondo, cit., p. 217.
D. Armitage, The Ideological Origins of the British Empire, Cambridge University Press,
Cambridge, 2000.
20 Ivi, p. 101.
21 D. Armitage, L'elefante e la balena: imperi terrestri e imperi marittimi, in R. Ben-Ghiat (a cura di),
Gli imperi. Dall'antichità all'età contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 57.
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istituendo una sorta di vincolo proto-federale tra i membri della Lega Achea,
aveva permesso alle proprie colonie di sviluppare una politica autonoma,
godendo dei vantaggi economico-politici provenienti da una simile formula22. Il
successore ideale della talassocrazia ateniese fu rintracciato nell'impero
britannico. A margine, è interessante notare come l'esperienza storica
dell'impero ateniese venisse attualizzata più volte nella filosofia politica
anglosassone, al punto tale da essere considerata dagli autori del The Federalist
una importante lezione impartita a coloro che avessero desiderato creare un
governo federale23.
Tenendo ben presente l'immagine dell'impero come una confederazione,
in grado di esercitare una sovranità globale amalgamando gli interessi di
regioni disparate del mondo, possiamo ora passare ad analizzare gli eterocliti
progetti per l'instaurazione di una federazione internazionale elaborati tra XVIII
e XIX secolo. Si è già detto di come, nel corso del Settecento, la cultura politica
del commercio avesse soppiantato l'ideologia belligerante della conquista
territoriale. In conseguenza di questo importante mutamento di paradigma,
alcuni intellettuali iniziarono a riflettere sullo stato delle relazioni internazionali
e a meditarne una nuova configurazione, in cui fosse l'interesse collettivo
dell'umanità, anziché il calcolo politico dei singoli Stati, a disciplinarne il
funzionamento.
È dunque in questo periodo che fa la sua comparsa la teoria federale delle
relazioni internazionali la quale vedrà già allora nel continente europeo un
soggetto politico collettivo, nonché luogo privilegiato dal quale procedere per il
superamento della sovranità nazionale-territoriale. Un processo storico,
quest'ultimo, che una corposa trattatistica otto-novecentesca immaginerà essere
destinato ad allargarsi fino a comprendere il mondo intero. Se alcuni appelli in
favore di una federazione europea – per non dire dalle proposte ancor
precedenti di William Penn - prendono le mosse dalle convinzioni repubblicane
degli autori, come l'Account of a Conversation Concerning the Right Regulations of
A. Pagden, Signori del mondo, cit., p. 212.
Nel saggio n. 18 si legge infatti: “Among the confederacies of antiquity, the most considerable
was that of the Grecian republics, associated under the Amphictyonic council. From the best
accounts transmitted of this celebrated institution, it bore a very instructive analogy to the
present Confederation of the American States. The members retained the character of
independent and sovereign states, and had equal votes in the federal council. This council had a
general authority to propose and resolve whatever it judged necessary for the common welfare
of Greece; to declare and carry on war; to decide, in all controversies between the members […].
Cfr. The Federalist Papers, a cura di G. W. Carey, J. McClellan, Indianapolis, Liberty Fund, 2001,
pp. 84-89.
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the Government for the Common Good of Mankind24 (1703) dello scozzese Andrew
Fletcher, pur severo critico dell'imperialismo economico messo in atto
dall'Inghilterra, altre dissertazioni trovarono nella forma imperiale britannica
un imprescindibile punto di riferimento.
Certamente il marchese di Mirabeau, nel suo l'Ami des hommes del 1759,
definì la politica imperiale adottata dagli inglesi nei confronti delle colonie
nordamericane come una delle più brillanti mai attuate da una nazione
europea, giacché essi avevano costruito le loro colonie sul rispetto dei principi
repubblicani e del governo rappresentativo parlamentare. Pertanto è possibile
che Mirabeau avesse in mente proprio l'impero mercantile inglese nel momento
in cui immaginava un governo sovranazionale (da lui definito “confraternita
universale del commercio”) composto da nazioni pacificate tra di loro e unite
dalla nuova coscienza umanitaria promossa dal commercio 25. Nel periodo in cui
l'Europa era ancora un continente di potenze imperiali e non di Stati nazionali,
molti osservatori si convinsero che, per sopravvivere, i mastodontici imperi
coloniali avrebbero dovuto affrontare una necessaria metamorfosi federale,
dotandosi di una assemblea sovrastatale i cui membri, pur mantenendo potere
discrezionale in alcuni ambiti, nonché una formale indipendenza, avrebbero
deferito a un consiglio federale la gestione di settori strategici (tra cui politica
estera e fiscale).
Dunque già nel XVIII secolo iniziava la riflessione sulle inefficienze insite
in un sistema di Stati muniti di una sovranità assoluta e indiscussa. Come
scrisse James Wilson, facendo sì riferimento al caso della Confederazione
americana ma con un monito che sembra adeguarsi anche al contesto europeo:
Separate states […] contiguous in situation, unconnected and disunited in government, would,
at one time, be the prey of foreign force, foreign influence, and foreign intrigue; at another, the
victims of mutual rage, rancour and revenge [corsivo aggiunto]. 26
L'approdo a un sistema internazionale di tipo federale avrebbe coinvolto
le potenze europee ad un duplice livello. Il primo livello riguardava i rapporti
L'elaborazione della proposta federale di Fletcher va collocata nel contesto del dibattito
politico che, nei primi anni del Settecento, vede scontrarsi i sostenitori dell'unione delle corone
di Scozia e Inghilterra con i fautori dell'autonomia scozzese, tra cui Fletcher stesso. Nell'Account
of a Conversation, Fletcher muove dall'analisi del sistema europeo di grandi potenze, all'interno
del quale l'esistenza delle entità politiche più piccole era costantemente messa a repentaglio, per
suggerire la creazione di una confederazione di città-stato di uguali dimensioni sulla falsariga
della Lega Achea. Cfr. I. Hont, Jealousy of Trade. International Competition and the Nation-State in
Historical Perspective, Harvard University Press, Cambridge, 2005, pp. 64-65.
25 A. Pagden, Signori del mondo, cit., pp. 294-296.
26 J. Wilson, Lectures on Law, VIII. Of Man as a Member of Confederacy, in Commentaries on the
Constitution of the United States of America, J. Debrett, Piccadilly, 1792, p. 33.
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reciproci che gli Stati europei intrattenevano tra di loro. L'Europa avrebbe
presto consumato se stessa se avesse proseguito nel mantenere divisioni che
correvano lungo frontiere nazionali che erano considerate sì sacre ma anche,
qualora si fosse presentata l'occasione, estendibili a danno degli Stati minori.
L'instaurazione di un vincolo federale tra gli Stati europei avrebbe creato un
sistema in cui, come argomentò Kant, che pur metteva in guardia, con il suo
cosmopolitismo, contro i pericoli del colonialismo inglese:
ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare di ottenere la propria sicurezza e tutela dei propri
diritti non dalla propria forza […] ma solo da questa grande federazione di popoli […] da una
forza collettiva e dalla deliberazione secondo leggi della volontà comune. 27
Il filosofo presbiteriano Richard Price (l'uomo che con la sua difesa degli
eventi rivoluzionari francese e americano avrebbe irritato a tal punto Edmund
Burke da indurlo a comporre le “reazionarie” Riflessioni sulla Rivoluzione in
Francia) giunse precocemente a una conclusione simile a quella kantiana
quando suggerì che, per sradicare la guerra dal continente europeo, sarebbe
stata necessaria la creazione di una struttura federale sovranazionale. Price
osservava che la tensione conflittuale caratterizzante le relazioni tra potenze
europee aveva una causa morale e una istituzionale. La causa morale derivava
da una distorta idea di patriottismo, la quale si traduceva non in un genuino
principio di cittadinanza che lega l'uomo alla propria terra, bensì in uno
sfrenato senso di competizione nazionale (spirit of rivalship):
It is proper that I should desire […] to distinguish between the love of our country and that
spirit of rivalship and ambition which has been common among nations. What has the love of
their country hitherto been among mankind? What has it been but a love of domination; a
desire of conquest, and a thirst for grandeur and glory, by extending territory, and enslaving
surrounding countries? 28
Del resto, nella riflessione morale dedicata alla “natura, i limiti e i
principi” della libertà civile, le Observations on the Nature of Civil Liberty (1776),
Price aveva già esposto la propria soluzione federale ai mali dell'Europa,
caratterizzata da un forte accento democratico derivato dalla convinzione
secondo cui tutti i governi sono “creature del popolo […] che hanno in mente
nient'altro che la loro felicità”29. Price notava come la libertà civile potesse essere
goduta pienamente solo in società di piccole dimensioni, alla stregua di cittàstato in cui ognuno interviene in prima persona nella vita politica. Quando uno
I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in G. Solari (a cura di) Scritti
politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, Utet, 1956, p. 131.
28 R. Price, A Discourse on the Love of Our Country, T. Caddel, Londra, 1789, p. 7.
29 R. Price, Observations on the Nature of Civil Liberty, the Principles of Government, and the Justice
and Policy of the War with America, T. Caddel, Londra, 1776, p. 11.
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Stato si arricchisce di territori ampliando i propri confini, ne consegue una
ridefinizione del principio di rappresentanza politica, che da diretta diventa
indiretta (in virtù della quale i cittadini scelgono i propri “sostituti o
rappresentanti”). Eppure, anche all'interno di entità statali di grandi
dimensioni, potevano essere individuati meccanismi legislativi di
perfezionamento della libertà civile che, secondo Price, erano ben applicabili
alla situazione europea.
Price rivela una lungimiranza di pensiero (smentendo in parte una certa
critica novecentesca30 che volle vedere nelle utopie pacifiste dell'Illuminismo
nient'altro che una forma di dominio dell'uomo sull'uomo velata di umanismo)
nell'affermare che la divisione dell'Europa non poteva essere risolta decretando
unilateralmente la supremazia di uno Stato su tutti gli altri, poiché
l'imposizione dell'autorità arbitraria dell'uno sui molti non avrebbe realizzato la
libertà civile ma la schiavitù (“a remedy worse than disease”) 31. Per estirpare il
male della guerra, Price suggeriva di istituire un organismo rappresentativo
europeo, costituito da un Senato in cui sarebbero stati accolti tutti i delegati
degli Stati europei. L'instaurazione di questo sistema parlamentare avrebbe
permesso di allocare equamente la sovranità su un duplice livello, quello statale
e quello federale:
Let every state, with respect to all its internal concerns, be continued independent of all the rest;
and let a general confederacy be formed by the appointment of a Senate consisting of
Representatives from all the different states. Let this Senate possess the power of managing all
the common concerns of the united states, and of judging and deciding between them, as a
common Arbiter or Umpire, in all disputes; having, at the same time, under its direction, the
common force of the states to support its decision – in these circumstances, each separate states
would be secure against the interference of foreign powers in its private concerns, and,
therefore would possess Liberty […] all litigations settled as they rose; universal peace
preserved; and nation prevented from anymore lifting up a sword against nation. 32
Il caso di Price (ma se ne potrebbero citare diversi, dal ricordato William
Penn al contemporaneo Thomas Paine) contribuisce a dimostrare come, mentre
le cancellerie europee proseguivano nel concepire le relazioni con i propri vicini
in termini di espansione territoriale e confronto armato, nella filosofia politica
anglosassone fosse già in atto la tendenza a immaginare una progressiva
europeizzazione dei rapporti inter-statali.
Il secondo livello a cui avrebbe dovuto estendersi tale pactum unionis
federale riguardava naturalmente i legami di dipendenza tra madrepatria e
colonie d'oltreoceano. La frattura rappresentata dalla guerra dei Sette Anni tra
Cfr. M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, Einaudi, Torino, 1974.
Ibidem.
32 Ivi, p. 12.
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Gran Bretagna e Francia (1756-63) aveva contribuito a svelare le inefficienze
strutturali degli imperi europei, ivi compreso quello britannico, il quale si
trovava costretto a fronteggiare difficoltà di ordine militare e finanziario non
indifferenti pur di mantenere saldi i propri domini. Uno dei problemi più
pressanti che la corona doveva risolvere, e che la contesa contro la Francia mise
in mostra, concerneva i costi e le dinamiche atte a sostenere la difesa
dell'impero, il cui finanziamento gravava quasi interamente sulle spalle della
madrepatria.
L'urgenza di rivedere la pianificazione della difesa imperiale era tale che,
ben due anni prima dell'inizio del conflitto contro i francesi, il re si preoccupò
di incaricare il Board of Trade di elaborare una politica di difesa incentrata sulla
stretta cooperazione con e tra le colonie, in modo da assegnare a queste ultime
maggiori responsabilità nella tutela della sicurezza imperiale 33. Cercare di
incrementare il ruolo delle colonie nella gestione della forza militare era un
terreno sul quale l'Inghilterra avrebbe dovuto procedere cautamente. Si trattava
infatti di intervenire su comunità politiche già autosufficienti e con una forte
coscienza della propria identità. Esortarle ad avvicinarsi l'una all'altra,
nell'adozione di una comune politica difensiva, poteva rivelarsi fatale per
Londra.
Non a caso, il destino delle colonie nordamericane sarebbe stato deciso
poco dopo la conclusione della guerra dei Sette Anni, ma vi fu anche taluno,
come l'economista francese Turgot, il quale seppe intuire con un certo anticipo
che l'evoluzione storica del Nord America iniziava a differenziarsi
sensibilmente da quello del vecchio continente e che a Occidente si apprestava a
sorgere un soggetto politico del tutto nuovo34. C’era da temere insomma che le
propaggini atlantiche, comprese le francesi e le spagnole, finissero prima o poi
per scindersi dal centro dell'impero. Pertanto l'adozione di una struttura
federal-imperiale si profilava come la soluzione attraverso cui le potenze
europee avrebbero potuto mantenere i propri domini. Turgot propose di
rinnovare il vincolo giuridico tra madrepatria e colonie istituendo una sorta di
confederazione, o partenariato commerciale, “tenuto insieme da un accordo
politico a maglie larghe, non definito”35.
Nel caso britannico i progetti per l'introduzione di una struttura federale
in luogo del tradizionale sistema di dipendenza coloniale sopravviveranno oltre
J.H. Elliot, Empire of the Atlantic World, cit., p. 297.
Turgot ipotizzò che l'America avrebbe potuto essere destinata a un brillante avvenire a patto
che non si riducesse ad essere “una copia dell'Europa: una massa di potenze divise, che si
contendono territori e ricchezze e che incessantemente rafforzano la schiavitù dei popoli con il
loro stesso sangue”, cfr. A. R. J. Turgot, lettera a Richard Price, 22 marzo 1778.
35 A. Pagden, Signori del mondo, cit., p. 313.
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la fine del Settecento e costituiranno la base sopra la quale si consoliderà, negli
anni '80 dell'Ottocento, la corrente del federalismo imperiale, che si farà
interprete del piano di trasformazione del British Empire in un vero e proprio
stato transnazionale.
In verità, gli eterogenei appelli in favore di un patto federale, da costituirsi
tra le potenze europee e tra queste ultime e i propri domini, rimasero
sostanzialmente lettera morta e furono liquidati come astrazioni utopiche di
pacifisti isolati. Ciò non impedì alla cultura politica britannica di continuare a
produrre, all'inizio del XIX secolo, gruppi e associazioni convinti che bisognasse
trasformare la forma mentis dei governi per giungere all'instaurazione di un
assetto giuridico internazionale che assicurasse la pace. La prima metà del XIX
secolo rappresentò una fase di transizione caratterizzata da fenomeni politici ed
economici contrastanti, di difficile interpretazione per la società vittoriana. Tra
gli anni Trenta e Quaranta dell'Ottocento i venti della rivoluzione che
soffiavano sull'Europa continentale si spinsero fino alle coste delle isole
britanniche, instillando nella popolazione e nelle élite di governo il terrore che lo
spirito rivoluzionario potesse diffondersi anche presso di loro.
Il timore di eventuali eccessi rivoluzionari (per altro infondato, visto che la
Gran Bretagna fu l'unico Paese a uscire immune dal Quarantotto), nel
contribuire a rendere incerto il clima politico, era tuttavia accompagnato da
processi di segno opposto in ambito economico: mentre nel resto d'Europa si
infiammavano le lotte per il principio di nazionalità, la Gran Bretagna
attraversava un periodo di rapida industrializzazione. Un senso di generale
ottimismo sopravvisse fino agli anni Ottanta, per poi venire soppiantato dal
timore che il governo dei liberali fosse sul punto di liquidare l'impero e
dall'assillo che nuovi protagonisti (Germania, Stati Uniti e Russia) potessero
soppiantare la Gran Bretagna sul palcoscenico mondiale.
Una costante del pensiero politico d'età vittoriana riguarda infatti la
riflessione sul posto della Gran Bretagna nel mondo.36 Interrogandosi su quale
fosse il ruolo del proprio Paese in un periodo storico in cui rapporti di forza e
sistemi di produzione stavano rapidamente mutando, diversi esponenti del
liberalismo inglese furono portati a immaginare un sistema internazionale
alternativo, disciplinato da un inedito spirito di cooperazione tra Stati.
Seguendo una concezione affine a quella degli economisti e filosofi del XVIII
secolo che avevano visto nel commercio la forza plastica che avrebbe avvicinato
tra di loro i popoli, l'internazionalismo liberale d'epoca vittoriana riponeva una
fiducia analoga nel potere dei traffici globali. I principi di utilità e reciprocità
D. Bell, Victorian Visions of Global Order: an Introduction, in D. Bell (a cura di), Victorian Visions
of Global Order, Cambridge University Press, New York, 2007, p. 18.
36
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sottesi alla logica commerciale avrebbero eliminato i conflitti e conferito una
nuova moralità alle relazioni internazionali37.
Gli anni d'oro dell'internazionalismo del libero commercio corrispondono
approssimativamente al trentennio che va dal 1840 al 1860 e coincisero con il
periodo di attività della ‘Lega per il libero commercio’. Il gruppo, nato in quella
fucina di industria e imprenditoria che era la città di Manchester 38, diede voce
alle aspirazioni del ceto medio imprenditoriale e trovò il proprio battesimo
politico nella campagna contro il sistema tariffario sull'importazione dei grani
dal continente (le cosiddette Corn Laws introdotte nel 1815). I capi del
movimento, il quacchero John Bright e l'imprenditore Richard Cobden, erano
convinti (soprattutto il secondo) che in un sistema di divisione del lavoro e di
abolizione delle tariffe doganali il libero commercio avrebbe potuto dispiegare
pienamente la sua capacità di aggregazione sociale anche a livello
internazionale.
La teoria del libero commercio, attraverso cui si esprimevano le esigenze
di sviluppo dell'economia britannica, era considerata un meccanismo di
scambio capace di conciliare gli interessi tanto dei privati cittadini quanto delle
nazioni nel loro insieme, di fonderli in un superiore concetto di bene comune,
mettendo a nudo la dannosità di una visione dei rapporti inter-statali fondata
sulla conquista e l'appropriazione, anziché sulla cooperazione. Facendo eco alla
affermazione di Benjamin Constant secondo cui la guerra appartiene a una fase
precedente e, verrebbe da dire, primitiva dell'umanità, mentre il commercio
occupa un gradino più elevato nell'evoluzione della socialità umana, Cobden
elaborò una delle più coerenti teorie circa la corrispondenza tra la pace
economica e il suo equivalente politico:
I see in the Free Trade principle that which shall act on the moral world as the principle of
gravitation in the universe – drawing men together, thrusting aside the antagonism of race and
creed and language, and uniting us in the bonds of universal peace. 39
Già nel 1846 il governo presieduto da Robert Peel si decise per
l'abrogazione delle Corn Laws, portando così a compimento un processo storico
che fece della Gran Bretagna la prima grande potenza liberoscambista
d'Europa. Uno storico inglese ha notato come l'abrogazione dei dazi sulle
importazioni di derrate agricole suggestionò la società vittoriana, proiettandola
in una dimensione di grande ottimismo verso gli esiti del libero commercio 40.
Ivi, p. 9 e ss.
G. Aldobrandini, The Wishful Thinking, cit., p. 92.
39 R. Cobden, Speeches on Questions of Public Policy, Fisher Unwin, Londra, 1870, vol. I, p. 187.
40 A. Howe, Free Trade and global order: the rise and fall of a Victorian vision, in D. Bell (a cura di),
Victorian visions of Global Order, cit., p. 26.
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L'apertura dei mercati, per un certo periodo, parve simboleggiare il cedimento
delle frontiere tra Stati, confermando tra numerosi intellettuali dell'epoca l'idea
che la società di mercato altro non era che ambasciatrice di una società
internazionale unita e pacificata, laddove l'instaurazione di un mercato
mondiale sarebbe stata il modo più efficace possibile per superare il modello
del country-state e approdare a un'unione sovranazionale.
L'abrogazione delle Corn Laws furono seguite, come è noto, da una serie di
trattati commerciali stipulati dalla Gran Bretagna con partner europei, il primo e
più importante dei quali fu l'intesa tariffaria anglo-francese del 1860. L'accordo,
conosciuto come trattato Cobden-Chevalier, stabiliva l'abolizione da parte
inglese di tutte le tariffe sull'importazione di merci francesi (escluso il vino) 41.
La Francia, per parte sua, avrebbe abbandonato il divieto di importare prodotti
tessili britannici e accettò di ridurre di circa il 15% le tariffe sulle merci
britanniche. Successivamente, la rete di accordi di libero scambio tessuta dalla
Gran Bretagna estese le sue maglie dallo Zollverein germanico fino all'Italia,
senza dimenticare l’unione monetaria latina del 1865. L'entusiasmo verso una
realtà internazionale fondata sulla ricchezza economica sembrò travalicare i
confini britannici ed estendersi al resto d'Europa. La moltiplicazione degli
accordi di libero scambio dopo il 1860 creò una situazione che non aveva
precedenti nel vecchio continente:
Approximately 60 treaties were negotiated, embracing most of Western Europe, and creating
the nearest Europe got to a single market before the 1950s, possibly the 1990s […] negotiations
were undertaken in the hope of extending the “ever-widening circle of commercial civilisation”
and in a significant term, drawing the Empire into the “Commonwealth of Europe”. 42
In estrema sintesi, il binomio sacro di pace e libero commercio ispirò, tra
XVIII e XIX secolo, composite prospettive di un ordine politico sovranazionale
il quale, di volta in volta, poteva incarnarsi nella forma di una federazione
mondiale (quale esito di una trasformazione strutturale degli Stati europei e dei
loro possedimenti imperiali) o in quella di un Commonwealth europeo fondato
su accordi di libero scambio. Tuttavia, sebbene questi progetti precorressero i
tempi nell’immaginare un assetto politico ed economico comune a tutta
l'Europa, è pur vero che essi non riuscirono ad elevarsi al rango di concrete
iniziative politiche, restando nell'alveo delle coraggiose utopie. Sul finire
Il trattato Cobden-Chevalier introdusse anche la norma della most favored nation, in base alla
quale se una delle parti contraenti avesse stipulato un accordo con una terza potenza l'altra
avrebbe beneficiato della tariffa più bassa accordata con il terzo contraente. Cfr. L. Hertslet, A
Complete Collection of Treaties and Conventions, and Reciprocal Regulations at Present Subsisting
Between Great Britain and Foreign Powers, H. M. Stationery Office, Londra, vol. 11, p. 165.
42 Ivi, p. 34.
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dell'Ottocento, poi, la sensibilità politica mutò considerevolmente, influenzata
com’era dall'avvento di un nuovo tipo di nazionalismo, il quale esaltava
l'assoluta importanza della sovranità nazionale e rigettava qualsiasi progetto
animato da internazionalismo o cosmopolitismo che potesse metterla in
discussione.
Anche la Gran Bretagna, come accennato, non fu immune dalla
effervescenza nazionalistica di fine Ottocento, benché non cessassero le prese di
posizione a favore di un nuovo ordine globale. Di fatto l'accento finì per
spostarsi non tanto sulle potenzialità del libero commercio quanto su quelle
della politica imperiale. L'idea della Greater Britain si apprestava in altre parole
a soppiantare il Commonwealth internazionale del libero commercio.
Con la Greater Britain, per poi tornare alla federazione sovranazionale
Sebbene nel corso del XIX secolo la popolarità dell'istituzione imperiale avesse
conosciuto una flessione, poiché non erano in pochi a ritenere le colonie come
un'appendice utile solo a prosciugare risorse materiali ed economiche, tuttavia
l'impero incarnava pur sempre un mito potente, tant’è che per buona parte
dell'opinione pubblica lungo le sue frontiere correva la demarcazione tra civiltà
e barbarie. L'imperialismo inglese ottocentesco, recuperando un motivo che
abbiamo visto essere diffuso già nell'età moderna (quello dell'impero come lo
spazio in cui si realizza una civitas che si vorrebbe universale), tese a giustificare
sempre più spesso le proprie conquiste in nome dell'opera di civilizzazione
globale che la Gran Bretagna era chiamata ad assolvere. Benché tale esaltazione
dell'impero rientrasse in una strategia di legittimazione ideologica della
continua espansione britannica43, essa traeva origine anche dalla convinzione
che l'impero fosse una creatura eccezionale, fondato com'era sul rispetto delle
libertà civili.
Di sicuro, agli occhi dei più ferventi fautori dell'internazionalismo, solo
uno Stato mondiale portatore di una sovranità per così dire disincarnata (in
quanto esercitata su territori assai distanti tra loro), sarebbe riuscito a superare,
come doveroso, la contraddittoria esistenza di Stati-nazione la cui sovranità era
rigorosamente territoriale e centralizzata, e dunque anacronistica in un sistema
economico internazionale che puntava a una maggiore integrazione tra le sue
componenti. Con tutto ciò, nella Gran Bretagna della seconda metà
dell'Ottocento, anche in ambienti progressisti, al discorso sullo Stato mondiale
si sovrapponeva quello sul destino dell'impero coloniale, nella ricerca di una
strategia che permettesse alla Gran Bretagna di restare in ogni caso una potenza
43
Tra 1882 e il 1899 la Gran Bretagna appose le proprie insegne in Africa e nel Sud-Est Asiatico.
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di primo piano.
La fiducia riposta nell'impero, sostenuta da una certa fede nel progresso
tipica dell'età vittoriana, indussero molti a considerare il British Empire e la sua
vocazione mondiale come basi ottimali dell’erigenda federazione globale:
Visions of a global state were not simply projections of the future, of an as yet unrealised dream.
It was argued frequently that the contours of this entity could be discerned in the existing
structure of the empire [corsivo aggiunto]. 44
Gli Stati Uniti, del resto, avevano già tracciato la strada. L'unione
americana, la quale aveva federato un gran numero di Stati autonomi sotto
l'egida di un unico centro, bilanciando al contempo i poteri del governo federale
con quelli degli Stati, dimostrava come la struttura monolitica dello Statonazione moderno potesse essere oltrepassata per realizzare un nuovo soggetto
politico con capacità di espansione potenzialmente illimitata. In Gran Bretagna,
di riflesso, e non senza una sottesa rivalità, il principio federale si incarnò in
primo luogo nell'idea di una federazione transcontinentale comprendente il
Regno Unito e i suoi possedimenti bianchi, o settler colonies, ovvero Canada,
Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. L'unione organica tra madrepatria e
colonie avrebbe realizzato l'ideale di una “Più Grande Bretagna” (Greater
Britain), una forma di organizzazione politica nuova, sorta da un grandioso
progetto di autoriforma delle strutture imperiali, in cui Regno Unito e colonie
avrebbero composto una “singola comunità politica” 45. Per non parlare delle
aspirazioni ad un’ancor più gloriosa espansione della civiltà anglosassone
condensatesi sempre intorno al concetto di Greater Britain (termine in realtà
polisemico, le cui accezioni potevano variare di autore in autore46) nella cui
conformazione si vagheggiava l'idea di uno Stato globale che “avrebbe potuto
controllare il mondo intero”47.
Tuttavia il dilagare del dibattito sulla federazione dell'impero rappresentò
soprattutto la reazione ad un assetto geopolitico in transizione in cui, secondo
alcuni, la Gran Bretagna era destinata a perdere il ruolo di potenza egemone.
Non sembrerà casuale dunque se Greater Britain e federalismo imperiale (due
concetti spesso, ma non sempre coincidenti48) divennero protagonisti abituali
del dibattito politico proprio nel momento in cui molte colonie avevano
D. Bell, The Victorian Idea of a Global State, in D. Bell (a cura di), Victorian Visions of Global Order,
cit., p. 160.
45 Ivi, p. 14.
46 D. Bell, The Idea of Greater Britain. Empire and the Future of World Order, 1860-1900, Princeton
University Press, Princeton, 2007, p. 7.
47 C. Oman, England in the Nineteenth Century, Longmans, Green and Co., New York, 1899, p.
258.
48 D. Bell, The Idea of Greater Britain, cit., p. 12.
44
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ottenuto forme più o meno articolate di autogoverno49.
Nell'idea di Greater Britain sembrano condensarsi due tòpoi della teoria
politica ottocentesca, ovvero la preoccupazione per i prossimi equilibri
dell'ordine internazionale in una fase storica di profondo cambiamento e la
credenza in un destino manifesto della civiltà anglosassone, il quale, almeno
secondo alcuni apologeti dell'imperialismo, nel colonizzare le zone più remote
della terra, avrebbe realizzato un'opera di diffusione globale del progresso
tecnico e culturale. Greater Britain divenne allora un modello ideale in cui
anglocentrismo e internazionalismo si intersecavano all'interno di una visione
provvidenziale dell'espansione britannica, concepita come un fenomeno da cui
il mondo intero avrebbe potuto trarre vantaggio:
And all of humanity would benefit, for it was argued that a just and peaceful world order
depended on the British to regulate and police its affairs. 50
Fu attraverso il dibattito sulla Greater Britain che il pensiero politico
britannico iniziò a diventare sempre più familiare con la teoria federalista, sia
pure intesa in senso lato. Difatti, molti di coloro che si rifacevano al linguaggio e
al simbolismo legati alla Greater Britain divennero sostenitori del federalismo
imperiale, ovvero di una teoria politica che si batteva per la creazione di un
legame federale tra le componenti dell'impero in nome della preservazione
dello stesso:
The quest for a global British polity was one of the most ambitious responses to the rupture in
Victorian national self-confidence […] the proximate cause of the rise of the federalist
movement was the largely unfounded suspicion that the Liberal government was intent on
dismembering the empire in 1869-70. This triggered a strident campaign to “save” the empire, a
drive that gathered steam during the 1870s and reached its peak in the late 1880s and early
1890s. 51
È importante ribadire come la stagione di popolarità della teoria federale
sopraggiunse in Gran Bretagna in concomitanza con vaste alterazioni
geopolitiche. Sommovimenti a ovest e ad est inducevano i britannici a temere
per il mantenimento della supremazia in Europa. Innanzitutto, l'avanzata della
Germania unificata di Bismarck (che piegò prima la Danimarca nel 1865, poi
l'Austria nel 1866 e infine la Francia nel 1870) rese chiaro nell'Europa centrosettentrionale i rapporti di forza propendevano in favore del neonato Stato
Un processo in atto dagli anni Quaranta dell'Ottocento e che, intorno al 1870, aveva coinvolto
domini importanti come Canada, Nuova Zelanda e Queensland. Cfr. H.M. Carey, God's Empire.
Religion and Colonialism in the British World, 1801-1908, Cambridge University Press, New York,
2011, p. 7.
50 D. Bell, The Idea of Greater Britain, cit., p. 9.
51 Ivi, p. 13.
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tedesco, pericoloso concorrente non solo da un punto di vista militare, ma
anche economico, se si considera l'industrializzazione repentina realizzata dalla
Germania post-unificazione.
In secondo luogo si profilava, più vaga e distante ma nondimeno
opprimente, la minaccia di Stati Uniti e Russia, due stati che, per estensione
territoriale e capacità produttiva, potevano sconvolgere la scala della
competizione internazionale. Davanti a una tale situazione, molti politici e
intellettuali britannici avvertirono l'esigenza di rafforzare l'impero, fonte di
prestigio e di risorse essenziali per mantenere combattiva la Gran Bretagna
nella lotta per l'egemonia politica. Fu dunque in tale contesto che iniziò a
radicarsi un crescente interesse per il federalismo imperiale e il suo piano di
fare della Greater Britain (cioè, si ricorderà, dell'impero coloniale propriamente
inteso) uno Stato federale che, per estensione e vocazione, avrebbe potuto dirsi
veramente ecumenico.
A cosa ci si riferisse esattamente quando si parlava di federazione
imperiale tuttavia non era chiaro, trattandosi di un'idea piuttosto labile il cui
significato e carattere variavano di autore in autore. Ciò che accomunava i
fautori della federazione imperiale era la convinzione che occorresse rinsaldare
i legami preesistenti tra colonie e madrepatria, conferendo loro un esplicito
carattere di vincolo costituzionale. Una simile idea veniva però declinata in una
congerie di progetti differenti. A dimostrazione delle numerose sfumature che
la nozione di federalismo imperiale poteva assumere, non era infrequente che
alcuni autori usassero il termine federazione mentre in realtà descrivevano
forme di governo molto più simili a una confederazione che non a un'unione
centripeta sul modello americano52.
La veste più radicale e innovativa assunta dal federalismo imperiale va
probabilmente ricercata nella corrente favorevole all'istituzione di un vero e
proprio federalismo “sovra-parlamentare”53 tramite l'istituzione di un nuovo
parlamento, federale, che avrebbe operato in qualità di organo legislativo con
potere decisionale su materie comuni, alla stregua del Congresso americano. Le
competenze residue, riguardanti gli affari interni delle diverse parti dell'impero,
sarebbero state affidate ai parlamenti locali, al cui rango sarebbe stato
declassato la stessa assemblea di Westminster.
Il federalismo imperiale, pur con tutte le sue istanze contraddittorie, si
guadagnò grande popolarità nel dibattito politico di fine Ottocento e ciò per
due ragioni. La prima, è che esso sembrò fornire contemporaneamente una
soluzione alla percepita minaccia di disfacimento dell'impero e una alternativa
52
53
J. Kendle, Federal Britain. A History, Routledge, Londra, 1997, p. 37.
D. Bell, Idea of Greater Britain, cit., p. 14.
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alla politica della sovranità nazionale che sosteneva i fragili equilibri europei.
Sotto quest'ultimo aspetto l'idea di una federazione imperiale, come già
accennato, si collegava all’utopia cosmopolitica in base alla quale
l'instaurazione di un'unione organica tra le parti dell'impero britannico veniva
considerata come il primo passo verso un'integrazione planetaria che avrebbe
riappacificato l'umanità, federandola in una comunità politica di nazioni pari
rango.
La seconda ragione è che il federalismo imperiale maturò sull'onda del
successo del modello americano, non meno che in un momento di profondo
ripensamento delle teorie sulle relazioni internazionali. Dapprima vincitrice
della guerra di indipendenza contro l'Inghilterra, uscita poi indenne da un
conflitto civile che l'aveva lacerata nel profondo, l'America aveva segnato
l'avvento di un tipo inedito (e vincente) di sovranità. L'internazionalismo
liberale inglese esaltò il federalismo e la forma di governo in esso incarnata
come se essi costituissero una sorta di climax dello sviluppo sociale e politico
umano.54 Per quanto non esente da accenti critici, James Bryce, lo storico autore
dell'imponente The American Commonwealth (1888), nonché ambasciatore inglese
negli States dal 1907 al ’13, vide in quel federalismo quasi un fenomeno metageografico, destinato cioè a valicare l'Atlantico e a permeare di sé l'intero
consesso umano:
The institutions of the United States […] represent an experiment in the rule of the multitude,
tried on a scale unprecedentedly vast, and the results of which everyone is concerned to watch.
And yet they are something more than an experiment, for they are believed to disclose and
display the type of institutions towards which, as if by a law of fate, the rest of civilized
mankind are forced to move, some with swifter, others with slower, but all with unresting feet.
55
L'aspetto che ci interessa qui sottolineare riguarda il rapporto che si
instaurò tra la riflessione sulla federazione imperiale e la teoria delle relazioni
internazionali. Un tale rapporto, in verità, non sempre è rintracciabile, poiché
diversi autori che parteciparono al dibattito sul federalismo in età vittoriana
dimostrarono di muoversi in una dimensione strettamente ancorata
all'orizzonte imperiale. Vale a dire che la creazione di una confederazione o
federazione imperiale era questione finalizzata ad assicurare la sopravvivenza
dell'impero in quanto tale e, pertanto, non si interrogava sull'eventualità che la
trasformazione dell'impero in uno Stato federale potesse servire da esempio per
la creazione di un nuovo sistema internazionale, anch'esso di stampo federale.
Altrove, invece, il pensiero imperiale e federalista britannico si colora di
54
55
Ivi, p. 98.
J. Bryce, The American Commonwealth, Cosimo Classics, New York, 2007, vol. I, p. 1.
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“utopismo e millenarismo a sfondo cosmopolitico”56 e dunque il discorso sulla
federazione imperiale si emancipa dal binomio madrepatria-settler colonies per
abbracciare l'Europa e il resto del mondo. L'autore che seppe coniugare al
meglio l'indagine sulla Greater Britain e la riflessione sulle relazioni
internazionali, intersecandone gli sviluppi, fu probabilmente l’assai noto John
Robert Seeley.
Allo storico di Cambridge andrebbero riconosciuti due meriti
fondamentali. Il primo, strettamente accademico, riguarda l'aver dato origine
(con l'opera The Expansion of England del 1883) all'ambito storiografico oggi
denominato Imperial History, incentrato sull'analisi della realtà coloniale
britannica tramite l'indagine scientifica degli scambi dinamici intercorsi tra
società britannica e culture extraeuropee57. Il secondo riguarda l'aver ampliato i
confini della teoria federalista britannica, facendo in modo che essa cessasse di
avere un dialogo privilegiato con il solo impero e si estendesse fino a
coinvolgere un nuovo interlocutore: l'Europa.
La riflessione federalista di Seeley maturò nel tempo, sebbene sia possibile
rinvenirne una traccia già nel discorso sul passaggio dell'Inghilterra da Statonazione a Stato mondiale riscontrabile in The Expansion of England. L'opera,
dedicata, come indica il titolo, allo studio della genesi e dello sviluppo
dell'Inghilterra58, affronta anche, sia pure in misura minore, la futura
trasformazione delle dinamiche di lotta per l'egemonia mondiale, insieme agli
adattamenti che, secondo Seeley, si riterranno necessari nei rapporti tra
Inghilterra e colonie. The Expansion of England argomenta difatti in maniera
piuttosto netta che la madrepatria e le sue colonie si trovano a un bivio. O
l'indipendenza delle seconde dalla prima, con la conseguenza di mutilare la
capacità geografica e commerciale britannica proprio nel momento in cui si
profila la competizione con grandi potenze, oppure il rafforzamento del vincolo
imperiale mediante l'instaurazione di un'unione federale con le settler colonies.
Al riguardo, il processo federativo della Greater Britain prometteva di
risultare facilitato dal fatto che l'Inghilterra e le settler colonies costituivano una
comunità omogenea da un punto di vista etnico, religioso e morale, essendo le
colonie canadesi, australiane e neozelandesi abitate prevalentemente da
anglosassoni. Per Seeley, dunque, il superamento del precedente, multiforme
Cfr. T. Tagliaferri, L'idea di “impero” nella storiografia britannica del secondo Ottocento. Appunti
sul pensiero storico di John R. Seeley (1834-1895), p. 138, www.docenti.unina.it.
57 Ivi, p. 13.
58 Da notare come, ancora nel XIX secolo, il sistema imperiale costruito dall'Inghilterra sia
celebrato nella sua particolarità. L'impero è nuovamente definito eccentrico rispetto “agli imperi
del Vecchio Mondo” non essendo fondato “nel suo complesso, sulla conquista”, cfr. J.R. Seeley,
The Expansion of England, Macmillan and Co., Londra, 1883, p. 51.
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legame che vincolava l'impero coloniale si basava sulla convinzione che fosse
possibile istituire un'unione politica sovra-parlamentare creando così una sorta
di “Stati Uniti di Gran Bretagna”59. Se la federazione imperiale fosse stata
portata a compimento l'Inghilterra sarebbe riuscita laddove finora solo gli Usa
erano riusciti con successo, ovvero “nel tenere insieme in un'unione federale
Paesi molto distanti gli uni dagli altri”60.
D'altra parte la creazione di una federazione transoceanica non esauriva il
proprio scopo nel garantire la sopravvivenza dell'impero britannico. Agli occhi
di Seeley, una federazione pan-anglicana altro non costituiva se non il primo
passo verso la creazione di un Commonwealth globale, un consesso politico che
avrebbe riunito l'umanità tutta e che per lo storico di Cambridge rappresentava
la meta decisiva della storia universale:
[…] Per Seeley il termine ultimo della tendenza progressiva ravvisabile nella storia
dell'Inghilterra moderna – la sua “espansione” – non è la mera “grandezza nazionale” […] Fine
della storia del mondo sembra essere per Seeley un qualche assetto del mondo nella cui
realizzazione l'Inghilterra, possibilmente in partner con gli Usa, è chiamata di certo a giocare un
ruolo di protagonista, e di cui nell'Espansione è dato a malapena scorgere i contorni, ma che con
tutta probabilità consiste in qualche forma di “utopia planetaria” cosmopolitica, destinata in
ogni caso a trascendere l'orizzonte puramente nazionale. 61
Il progetto federalista di Seeley non si esauriva tuttavia nei limiti delle
frontiere imperiali, bensì guardava al vicino più prossimo della Gran Bretagna:
l'Europa continentale. Come è noto, Seeley delineò il progetto di una strategia
federale per l'Europa durante una conferenza indetta dalla ‘Peace Society’ nel
1871. L'intervento di Seeley combinava argomenti tradizionali (il riferimento
agli Stati Uniti come esempio cui guardare) con altri più innovativi, i quali
suggerivano riflessioni poi recuperate dalla corrente federalista negli anni
Trenta e Quaranta del Novecento. Particolarmente moderna risultava l'idea che
la costruzione di un sistema federale sovranazionale potesse giungere quale
esito non tanto di una rivoluzione politica, quanto come conseguenza di un
diverso tipo di patriottismo, non più nazionalistico ma europeo. I cittadini
dovevano cioè iniziare a pensare se stessi come parte di una comunità più
grande dello Stato stesso:
[…] We shall never abolish war in Europe unless we […] take up a completely new citizenship.
We must cease to be mere Englishmen, Frenchmen, Germans and must begin to take as much
pride in calling ourselves Europeans […] The individual and not merely the State, must enter
into a distinct relation to the Federation […] The federation wanted is a real union of peoples
D. Bell, The Idea of Greater Britain, cit., p. 108.
Ivi, pp. 18-19.
61 Ivi, p. 138.
59
60
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[…]. 62
Nell’anno stesso in cui veniva proclamato il nuovo impero tedesco,
l'instaurazione di una federazione sovranazionale diventava dunque alternativa
alla distruzione dell'Europa sotto il peso delle guerre tra Stati sovrani. E forse
anche un potenziale antidoto ai disegni egemonici prussiani. Seeley era
consapevole degli sforzi che l'istituzione di un'unione europea avrebbe
richiesto, nonché degli ostacoli che le si paravano davanti, in un continente in
cui lo Stato-nazione costituiva un'entità politica ormai pienamente consolidata e
apparentemente imprescindibile. Tanto più che l’Europa, al contrario della
Greater Britain, non era avvantaggiata da una compattezza né etnica, né
linguistica, né politica. Tuttavia restava sempre possibile ispirarsi al più efficace
modello di patto federale tra Stati sovrani, ovvero l'Unione americana.
Gli Stati Uniti ricorrono infatti nel discorso dello storico inglese quale
esempio virtuoso degli esiti del federalismo. A differenza di altri teorici
federalisti dell'epoca, per i quali il confine tra federale e confederale era spesso
labile, Seeley dimostrò di conoscere bene dove cadeva il punto di distinzione tra
le due entità. Egli affermò infatti:
la particolare lezione che ci deriva dall'esperienza degli americani è che i provvedimenti
emanati dalla federazione non devono essere affidati, per la loro esecuzione, a funzionari dei
singoli Stati e che la federazione deve disporre di un esecutivo indipendente e separato. 63
Ancora una volta, la vicenda americana risultava il principale modello
comparativo. Il processo di nascita dell'Unione aveva dimostrato che un
congresso frutto di un'intesa tra Stati sovrani, quale era stato la Confederazione
americana, era destinato al fallimento, laddove l’assetto federale aveva avuto
successo nel conciliare unità e autonomia, controbilanciando la sovranità locale
con l'autorità di un governo comune e al di sopra dei singoli componenti.
Anche nel corso dei primi decenni del XX secolo l'idea di trasformare
l'impero coloniale in uno Stato globale non cessò di essere un tema ricorrente
nella letteratura politica britannica, ma subì un'importante evoluzione. L'enfasi
posta sull'omogeneità etnico-culturale della Greater Britain tese a diminuire
progressivamente e all'ipotesi di una sorta di Stato-nazione a dimensione
globale subentrò quella di un Commonwealth multinazionale, in cui i riferimenti
alla Britishness dell'impero cedevano il passo ad entusiasmi cosmopoliti. Come
annota Duncan Bell, docente a Cambridge:
J. Seeley, citato in M. Burgess, Federalism and Federation in Western Europe, Croom Helm,
Londra, 1986, pp. 139-140.
63 Citato in L.V. Majocchi (a cura di), John Robert Seeley, in «The Federalist», Anno XXXI, n. 2, p.
176.
62
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In 1905 W.F. Moneypenny, a leading journalist with The Times, conceived of the empire as a
“world-state”, a polity defined by cultural homogeneity and unity of interests. This was, he
claimed, the embodiment of a “new political conception” that “transcends nationality” while
simultaneously allowing the flourishing of separate nationalities within it. By escaping the
clutches of both a petty-minded “national exclusiveness” […] it pointed the way to a new form
of political order, a truly “cosmopolitan ideal”. Leo Amery wrote of the colonial empire as a […]
great world-State, composed of equal and independent yet indissolubly united States. 64
Individuare nella pluralità delle sue componenti la principale virtù della
Greater Britain fu un adattamento che si rese necessario in seguito al
conseguimento di una maggior indipendenza politica e all'acquisizione di una
crescente specificità identitaria da parte dei dominion. Anche Lord Lothian, il
noto autore di Pacifism is not enough nor Patriotism either, edito nel 1935, oltre che
ambasciatore britannico in Usa allo scoppio della seconda guerra mondiale,
osservò che le relazioni tra madrepatria e i dominion bianchi erano destinate a
mutare o sotto l'effetto di una politica di riforma convenuta da tutte le parti in
causa, o sotto la spinta della ricerca di ulteriore autonomia da parte dei
dominion:
The existing system might work for the present but time would come when the Dominions
would no longer agree to allow control of Imperial policy to remain in the sole hands of the
government of London. 65
Gli anni che vanno dal 1926 al 1931, lasso di tempo in cui si definì il British
Commonwealth of Nations, segnarono l'inizio di una nuova fase della storia
imperiale britannica, l'atteso cambiamento nella struttura delle relazioni
imperiali che molti auspicavano fin dagli anni Ottanta del secolo precedente.
L'atto di nascita del Commonwealth può essere fatto coincidere con la Conferenza
imperiale del 1926, la quale riunì i primi ministri e del Regno Unito e dei
dominion e costituì il palcoscenico dal quale il Lord primo ministro, Arthur
Balfour, rilasciò la famosa dichiarazione che porta il suo nome. In essa quale si
affermava il superamento del tradizionale ordine gerarchico madrepatriacolonie e l'affermazione di un sistema egualitario di associazione tra Stati
sovrani.
Il legame tra Gran Bretagna e dominion viene così definito nelle parole di
Balfour:
They are autonomous Communities within the British Empire, equal in status, in no way
subordinate to one another in any aspect of their domestic or external affairs, though united by
a common allegiance to the Crown, and freely associated members of the British
Commonwealth of Nations […] The rapid evolution of the Overseas Dominions during the last
64
65
D. Bell, The Idea of Greater Britain, cit., p. 118.
Citato in J. R. M. Butler, Lord Lothian 1882-1940, cit., p. 47.
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fifty years has involved many complicated adjustments of old political machinery to changing
conditions. The tendency towards equality of status was both right and inevitable. 66
Lo Statuto di Westminster siglato nel 1931 sancì de iure l'indipendenza di
Australia, Canada, Newfoundland, Nuova Zelanda, Sudafrica e dello Stato
Libero d'Irlanda, coronando così l'avvenuta evoluzione dell'impero britannico.
Durante gli anni Trenta e Quaranta del Novecento spettò dunque al
Commonwealth il farsi archetipo di un modello di Stato multinazionale, capace di
unire gruppi umani trascendendo le diversità culturali di ognuno 67. I tentativi
più esaurienti di concettualizzare le potenzialità ecumeniche del Commonwealth
furono prodotti da Lionel Curtis. Quest’ultimo rappresenta, insieme a Lothian,
una personalità fondamentale per la promozione del pensiero federalista in
terra britannica, impegno al quale dedicò tutta la sua carriera di funzionario e
uomo pubblico.
La formazione politica e intellettuale di Curtis era avvenuta a fianco di
Lord Milner, guida dell'Alto Commissariato per il Sudafrica dal 1897 al 1905,
che egli servì in qualità di segretario. Durante gli anni di servizio in Sudafrica
Curtis incontrò Philip Kerr, il futuro marchese di Lothian, ed altri funzionari
dell'amministrazione coloniale sostenitori di una “più stretta unione” (closer
union) tra l'impero e i suoi possedimenti. Fu, insomma, l'esperienza coloniale
sudafricana a formare le convinzioni federaliste di quei giovani. Anni dopo, nel
1939, Curtis ricordò l'incontro decisivo con il The Federalist americano, alla cui
conoscenza egli pervenne grazie alla biografia di Alexander Hamilton, scritta
dall'amico F.S. Oliver.
Una lezione preziosa per i contemporanei quella di The Federalist: “It
showed us how systems based on compact between sovereign States lead to
disaster”68.
Nel 1909 Curtis e Kerr animarono il gruppo denominato Round Table
Movement, il cui obiettivo era quello di sensibilizzare la classe dirigente e
l'opinione pubblica britannica sulle riforme costituzionali ritenute necessarie
per l'impero coloniale e che, secondo Curtis e compagni, avrebbero dovuto
culminare con l'instaurazione di un parlamento imperiale 69. Il futuro premio
Nobel per la pace del ’47 rientra dunque a pieno titolo in quel gruppo di
intellettuali, politici e uomini delle istituzioni che, nel pieno dell'età edoardiana,
elevarono la teoria federale al rango di uno argomenti centrali del dibattito
Cfr. “Inter-Imperial Relations Committee. Note by the Lord President of the Council”, in
www.nationalarchives.gov.uk.
67 T. Tagliaferri, Dalla Greater Britain al World Order, cit., p. 206.
68 L. Curtis, World Order, in «Royal Institute of International Affairs 1931-1939», vol. 18, n. 3,
1939, p. 304.
69 J. Kendle, Federal Britain, cit., pp. 80-81.
66
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politico, conquistandole una forte popolarità anche per gli anni a venire.
Michael Burgess ritiene infatti che nel 1918 l'idea federale era talmente dibattuta
da poter essere considerata una sorta di Zeitgeist70.
Lionel Curtis fece tesoro degli insegnamenti hamiltoniani anche durante il
periodo che lo vide a Parigi, nel 1919, in qualità di consigliere della delegazione
britannica per le questioni concernenti la costituenda Società delle Nazioni. La
presenza di Curtis era stata espressamente richiesta da Lord Robert Cecil,
all'epoca sottosegretario di Stato agli Affari Esteri, ma egli non fu l'unica
personalità proveniente dagli ambienti federalisti. Anche Philip Kerr era
presente, in qualità di segretario personale del Primo Ministro Lloyd George, ed
ebbe modo di svolgere un ruolo attivo nel dibattito sulle caratteristiche finali
della Società delle Nazioni. L'organismo partorito dalla conferenza
intergovernativa non mancò tuttavia di suscitare le delusioni di Curtis, il quale
notò in seguito che:
The Covenant was a close counterpart of the Articles of Confederation which The Federalist has
shown to be unworkable. I feared that, like the Confederation, it would lead to unimagined and
unforeseen troubles. 71
Nel 1938 (anno in cui fu oltretutto impegnato in una serie di viaggi in
Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti che gli diedero modo di saggiare
l'opinione pubblica, notando come questa attribuisse i fallimenti della politica ai
singoli individui anziché al sistema che essi rappresentavano72) Curtis pubblicò
il suo magnum opus intitolato Civitas Dei: The Commonwealth of God, in cui
l'instaurazione di un governo sovranazionale viene indicato come il giusto
compimento della storia umana73.
La sua riflessione sul passaggio dallo Stato-nazione ad un Commonwealth
sovranazionale traeva ispirazione, da una parte, dalla accentuata sensibilità
religiosa dell'autore, venata di un forte accento millenaristico, per cui l'avvento
di una federazione sovranazionale (“Divine Commonwealth”) era concepita
come lo strumento politico che avrebbe concretizzato il nuovo patto tra Dio e
l'uomo. Dall'altra, derivava dalla convinzione secondo cui “la società umana
funziona al suo meglio quando è capace e libera di adattare le proprie strutture
alle condizioni in divenire”74. Pertanto, in una realtà caratterizzata da un
M. Burgess, The British Tradition of Federalism, cit., p. 105.
L. Curtis, World Order, cit. p. 306.
72 “Is it not time, I ask, that we stop distributing blame to statesman, and examine the system, or
want of system, they are asked to operate? Is it not time that we […] try to diagnose before we
begin writing prescriptions?”, ivi, p. 307.
73 T. Tagliaferri, L'idea di “impero” nella storiografia britannica del secondo Ottocento, cit., p. 138.
74 L. Curtis, The Commonwealth of Nations, MacMillan and Co., Londra, 1916, p. 11.
70
71
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sempre più costante processo di integrazione, la frammentazione delle
comunità in Stati-nazione separati non costituiva altro che un grande ostacolo
per l'avvento della Civitas Dei.
Per Curtis, come per altri sostenitori del federalismo dopo di lui,
diventava prioritario iniziare a concepire le relazioni internazionali come il
rapporto dinamico tra le parti di un tutto organico. Di sicuro, pensando allo
scoppio del secondo conflitto mondiale, la sua convinzione del rischio di
“tornare indietro” possedeva un’estrema preveggenza:
Nello sviluppo della civiltà abbiamo ora raggiunto uno stadio oltre il quale non si può
progredire, ma siamo condannati a tornare indietro, finché non scopriamo i mezzi per passare
dallo Stato nazionale a quello internazionale, lo Stato nel più vero e più pieno senso della
parola. 75
L'umanità avrebbe potuto muoversi in questa direzione solo compiendo
una rinuncia fondamentale: ovvero abdicando alla religione del nazionalismo.
Ciò avrebbe implicato, in secondo luogo, ammettere che lo Stato-nazione non
era che una forma dell'organizzazione umana, lungi dall'esaurire o dal ridurre a
sé tutte le altre. Con Curtis il federalismo si arricchisce di una componente
finalistica importante, poiché esso viene descritto come la forma politica che
condurrà la società al compimento supremo del proprio fine, ovvero
all'instaurazione del “divino” Commonwealth:
I believe […] that sooner or later men will rise to the new idea that two or more nations, without
losing their characteristics or freedom, can unite in one international State, can erect one federal
government responsible to all their citizens […] for maintaining peace between themselves, and
also between themselves and the world […] I believe that the nations so united in one
international State would presently find they had attained a higher degree of freedom. In a few
generations other States would be eager to enter the federation, and the process of accretion,
once started, would advance more rapidly than man are now able to conceive. 76
Il federalismo di Curtis, benché concepito come un progetto di
realizzazione allo stesso tempo storica e spirituale dell’intero genere umano,
aveva delle radici geograficamente precise, rintracciabili nella tradizione
federalista americana e britannica. Era naturale che il suo punto di riferimento,
sia politico sia culturale, fosse la civiltà anglosassone e il Commonwealth, che ne
costituiva la più moderna espressione.
Nell'esposizione l'accento cadeva pertanto su quello che era il compito del
popolo inglese, compreso il ramo americano della stirpe. Gran Bretagna e Stati
Uniti risultavano come i due poli di una medesima civiltà, vincolati tra di loro
L. Curtis citato in L. Levi, G. Montani, F. Rossolillo (a cura di), Tre Introduzioni al federalismo,
Alfredo Guida Editore, Napoli, 2005, p. 147.
76 L. Curtis, World Order, cit., p. 308.
75
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da ciò che Lord Lothian definì “great common heritage”.77 Era infatti opinione
diffusa negli ambienti diplomatici britannici che una tale affinità culturale non
poteva che avere, quale necessario corollario politico, una salda alleanza tra i
due grandi Stati mondiali. In Civitas Dei, non a caso, è proprio il recupero del
senso di una comune identità e di una medesimo compito storico, da parte di
Gran Bretagna e Stati Uniti, a costituire il preludio della federazione mondiale78.
In conclusione possiamo individuare un filo rosso che percorre la teoria
federale britannica dal finire del XIX secolo ai primi trent'anni del XX e ci
permette di riscontrare delle somiglianze in analisi tra di loro distanti nel
tempo, come lo sono quelle di Seeley e Curtis. Sullo sfondo risalta innanzitutto
la specificità del rapporto istituzionale fra la Gran Bretagna e il suo impero, sia
nella forma coloniale che in quella inedita del Commonwealth, tanto da far sì
l'impero britannico venisse considerato, anche in epoche assai distanti fra loro,
un ammirevole pioniere nella sperimentazione di legami politici tra
madrepatria e domini. A questa capacità di collaudare strategie inedite al
proprio interno si collega poi un secondo elemento ricorrente di riflessione e di
proposta: ovvero il concepire l'impero britannico come paradigma per la
trasmutazione della sovranità, da nazionale ad ecumenica, in una prospettiva di
ricongiungimento pacifico dell'umanità. La Greater Britain e il Commonwealth
incarnano così, entrambi, un modello di sovranità organica, coesa, ma allo
stesso tempo plastica, in quanto estesa su territori eterogenei per posizione,
storia e tradizioni. Quest'ultima, sia nel federalismo imperiale di Seeley sia in
quello mondiale di Curtis veniva eletta ad alternativa provvidenziale alla
sovranità assoluta degli Stati-nazione.
Si è giunti così all’apice di quella che ci è parso essere la dimensione più
interessante delle teorie imperiali britanniche, ovvero il pensare l'impero non
solo come strumento di potere che impone il controllo di un popolo su gli altri,
ma anche come primo passo verso un innovativo modello di associazione
multinazionale, libero dalle logiche aggressive e concorrenziali degli Statinazione.
Tuttavia, come vedremo nel paragrafo conclusivo, tali concezioni
apertamente federaliste, per quanto recepite nel continente europeo dalle
P. Kerr, The Political Situation in the United States, in «Journal of the British Institute of
International Affairs», vol. 2, n. 4, 1923, p. 148.
78Il federalismo di Curtis potrebbe essere definito, usando una categoria moderna, come
atlantista. Caratteristica della corrente federalista britannica del XX secolo sarà proprio il suo
essere divisa tra una corrente atlantista e una corrente europeista, favorevole alla creazione di
un'unione federale tra la Gran Bretagna e gli Stati europei continentali. Per le differenze tra
questi due approcci si veda A. Bosco, Federal Union e l'unione franco-britannica: il dibattito
federalista nel Regno Unito dal patto di Monaco al crollo della Francia 1938-1940, Il Mulino, Bologna,
2009.
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personalità più lungimiranti, proprio perché convinte dalla critica allo Statonazione superiorem non recognoscens, inizieranno progressivamente ad
affievolirsi al di là della Manica. Paradossalmente ciò avverrà proprio nel
momento in cui le condizioni geopolitiche del mondo post-1945 (e dell'Europa
in particolare) si sposteranno con decisione verso strategie di integrazione
sovranazionale.
In effetti, risulta alquanto difficile dimenticare che nell’Inghilterra degli
anni Trenta e Quaranta era stato molto attivo un movimento di opinione
animato da intellettuali di rilievo, quali Barbara Wotton, William Beveridge,
Lionel Robbins, il giovane Harold Wilson. Vale a dire ‘Federal Union’, su cui si
rimanda al precedente contributo uscito in questa rivista nel numero di ottobredicembre 2014. Dall’interno del detto movimento, e in particolare dal suo
Constitutional Committee, sortirono circostanziati progetti di unione federale
europea (paesi del Commonwealth compresi) corredati di precise soluzioni
istituzionali. Fra di essi, il più approfondito, formulato dal giurista e
accademico Ivor Jennings, venne reso pubblico precisamente nell’anno 1940,
come ideale soluzione alternativa al conflitto europeo-mondiale appena
esploso. Per non dire che sempre in quell’anno Winston Churchill propose al
governo francese attaccato dai nazisti il celebre progetto di unione
parlamentare-federale fra i due Paesi.
Forse che, una volta conclusa la guerra con indubbio successo, ma con
ancor maggiore supremazia statunitense, la lungimiranza inglese restava
troppo dipendente dalla Greater Britain e dalla nostalgia dell’impero? Certo,
resta curioso che i progetti inglesi di federazione europea, compresi quelli
proposti alla vigilia del secondo conflitto mondiale, includessero sempre nel
novero degli stati membri anche le ex colonie di Sua Maestà. Quasi da pensare
che solo in questo modo l’egemonia inglese sull’Europa potesse perpetuarsi con
relativa facilità. E anche, al tempo stesso, che, grazie alla Greater Britain, il
Vecchio Mondo avrebbe potuto mantenere una dimensione mondiale che
altrimenti persa definitivamente.
Di sicuro, con la conclusione del secondo conflitto mondiale, e con
l’eccezione di qualche nuova sortita churchilliana, il federalismo inglese avrebbe
conosciuto un netto ridimensionamento, fino a diventare (con commendevoli,
singole eccezioni) quasi silente, malgrado fosse stato esportato con successo, si è
detto, fra intellettuali e politici di tutto il continente.
Il peso dell'eredità imperiale: la Gran Bretagna tra Commonwealth e Comunità
Europee nel secondo dopoguerra
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento la Gran Bretagna, pur
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essendo uscita dalla guerra vittoriosa, sembra ripiegare su se stessa seguendo
una politica estera conservativa. Il Commonwealth non viene più considerato
come modello da esportare nel resto del mondo, al fine promuovere un
processo di integrazione pacifica tra nazioni. Al contrario, il modo in cui il
discorso politico britannico del secondo dopoguerra tende a presentare i vincoli
morali, ideologici e commerciali che tengono insieme il British Commonwealth of
Nations tradisce la tendenza a concepire l'appartenenza della Gran Bretagna al
Commonwealth in termini esclusivi. Diventa il fattore che preclude a Londra la
possibilità di stabilire rapporti con le istituzioni comunitarie che si vanno
assemblando nell'Europa continentale.
Che al momento della creazione delle Comunità europee la condizione
politica e morale della Gran Bretagna fosse ben diversa da quella dei restanti
Paesi europei è fatto ben noto. Nell'Europa continentale l'idea della sovranità
nazionale era uscita del tutto disonorata dopo le degenerazioni totalitarie del
fascismo e del nazismo, laddove nelle isole britanniche essa godeva di ottima
salute. Se da un punto di vista materiale il secondo conflitto mondiale aveva
prostrato la Gran Bretagna, non aveva certo piegato la sua autostima; piuttosto
quest’ultima ne era uscita rafforzata in alcune delle sue più importanti
convinzioni. La Gran Bretagna era a pieno titolo vincitrice della guerra, tant’è
che nel dibattito pubblico seguitava a rappresentarsi come potenza mondiale e
guardava al proprio Stato-nazione come a un'istituzione uscita illesa e nobilitata
dalla guerra79.
A riprova, benché Winston Churchill in persona si facesse promotore
dell’unificazione europea mediante il sostegno al Movimento europeo e la
convocazione del celebre congresso dell’Aja del maggio ’48, tuttavia il suo
ritorno al potere agli inizi degli anni Cinquanta avrebbe confermato l’evidente
solipsismo britannico. Ovvero la tendenza a promuovere, al pari degli Usa,
l’integrazione del continente, ma senza cessioni di sovranità fino a porsi ad un
livello paritario con i paesi membri delle Comunità, poi Unione.
A distinguere ulteriormente, nell'immediato dopoguerra, la Gran Bretagna
dal resto d'Europa concorreva il fatto che era l'unico Paese a vantare un governo
socialista, mentre nell'Europa continentale gli incarichi governativi venivano
monopolizzati da conservatori e cristiano-democratici. Con le elezioni generali
del 1945 il partito laburista ottenne infatti il 48% dei voti e, in virtù del sistema
elettorale maggioritario, si vide assegnare due terzi dei seggi parlamentari80. Il
governo laburista di Clement Attlee passò così alla storia per aver attuato un
esteso progetto riformista, ispirato al modello keynesiano di programmazione
J. Pinder, Federal Union. The Pioneers, Palgrave Macmillan, Londra, 1990.
G. McCulloch, Labour, the Left, and the British General Election of 1945, in «Journal of British
Studies», vol. 24, n. 4, 1985, pp. 465-489.
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economica che trovò nel Piano Beveridge il proprio manifesto. Dal vasto piano
di nazionalizzazioni, che guadagnò allo Stato il controllo dei principali settori
industriali-finanziari del Paese, passando per la creazione del National Health
Service, le riforme plasmarono in maniera innovativa la vita politica e sociale
britannica.
E tuttavia il fervore riformista dei laburisti, così audace in certi ambiti, fu
più conservatore in altri. Ciò che il primo ministro, Clement Attlee, e il
Segretario agli Affari Esteri, Ernest Bevin, decisero di lasciare invariato di fatto
fu la politica estera britannica. Come ebbe a dire il segretario di Stato americano
James Byrnes, “la posizione della Gran Bretagna non cambiò minimamente con
la sostituzione di Churchill e di Eden con Attlee e Bevin. Questa continuità nella
politica estera britannica non mancò di impressionarmi”81. Il gruppo dirigente
laburista, con Bevin in testa, era convinto della necessità di attrarre gli Stati
Uniti nell'orbita europea al fine di assicurarsi un solido alleato (nonché un
generoso finanziatore per risollevare lo stato dell'economia britannica prostrata
dalla guerra) senza il cui appoggio la Gran Bretagna non avrebbe potuto
svolgere una politica estera di rilievo sul continente europeo. Al quale proposito
non va tuttavia dimenticata la progressiva decostruzione del potere coloniale
inglese ad opera del governo di Washington, come la crisi di Suez avrebbe
dimostrato con fin troppa evidenza.
Si presentò così una curiosa intesa tra laburisti e conservatori, entrambi
concordi nel ritenere, salvo smentite, che solo un “duumvirato” angloamericano avrebbe costituito una valida leadership per l'Europa occidentale,
l'unica in grado di impedire che il vuoto di potere creatosi con la fine del
secondo conflitto mondiale diventasse l'occasione per un'ulteriore espansione
dell'Unione Sovietica. Sotto questo aspetto la politica estera di Bevin altro non
era, in linea di massima, che un riflesso della teoria di Churchill sulle tre sfere di
influenza in cui la Gran Bretagna era coinvolta e delle quali costituiva il
nocciolo: il Commonwealth prima di tutto, poi il cosiddetto English-speakingWorld e, solo in ultima istanza, l'Europa82.
Comprensibilmente, la “continuità” che tanto aveva stupito James Byrnes
non mancò di suscitare forti polemiche nell'ala sinistra del partito laburista. Tra
queste, particolarmente significativa fu quella espressa dal gruppo ‘Keep Left’
formatosi nel maggio del 1947, il quale rappresentò una delle correnti “più
significative in seno al partito laburista e, per un certo periodo, perorò la causa
J. Byrnes citato in Storia d'Europa dal 1945 a oggi, G. Mammarella, Laterza, Roma-Bari, 2006, p.
55.
82 Cfr. W. Churchill, Conservative Mass Meeting. A Speech at Llandudno, 9 ottobre 1948, in Europe
Unite: speeches 1947-1948, Cassell, Londra, 1950, pp. 416-418.
81
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dell'unità europea”83. Il progetto, animato da Richard Crossman, (futuro
Segretario di Stato per i Servizi sociali sotto Harold Wilson) e dal deputato
laburista Michael Foot, vide partecipare ventuno membri del Parlamento, i
quali sottoscrissero una lettera indirizzata ad Attlee, invocando l'adozione di
una politica estera radicalmente diversa e meno conservativa, che rendesse la
Gran Bretagna parimenti autonoma tanto dagli Stati Uniti quanto dall'Unione
Sovietica e la mettesse alla guida di uno schieramento europeo unificato:
To democratic socialists the emerging superpowers were both suspect: one for its competitive
economic practices and the foreign policy to which they allegedly gave rise, the other for its
repressive political activities both at home and abroad. Bevin's policy, rather than aligning
Britain with the U.S., should chart a middle way between America and Russia. 84
Di fronte a un quadro internazionale che si andava ormai stabilizzando
lungo la linea del confronto tra il blocco occidentale e quello orientale, i laburisti
di ‘Keep Left’ suggerivano di abbandonare la tradizionale prospettiva atlantista
in favore di una politica estera di indirizzo europeista. Secondo tale progetto,
l'Europa, guidata dalla Gran Bretagna socialdemocratica, avrebbe potuto porsi
come alternativa politica a USA e URSS. Si trattava, insomma, dell'idea di
un'Europa “terza forza”, che non mancò di affascinare anche altri partiti della
sinistra europea. I sostenitori dell'iniziativa ‘Keep Left’ ritenevano che l'Europa
non avrebbe dovuto adeguarsi acriticamente al bipolarismo ostile che si era
creato tra USA e URSS a meno di non voler rischiare una nuova guerra
mondiale:
We cannot expect that the tension between Russia and America will be reduced in the
immediate future, and we shall probably have to plan on the assumption that no agreement
between them is likely for some time either on the control of atomic energy or on large-scale
disarmament. It will be an uneasy and dangerous sort of world […] No European nation will be
any safer for taking shelter in either an anti-American or anti-Russian bloc. The security of each
and of all of us depends on preventing the division of Europe into exclusive spheres of
influence. 85
La minoranza europeista del partito laburista riteneva che l'integrazione
europea avrebbe dovuto procedere proprio dal settore che, negli anni di
formazione della Comunità europea, contribuì a suscitare le maggiori criticità:
quello della politica di difesa. Francia e Gran Bretagna venivano indicate come
W. Lipgens, Documents on the History of European Integration: the Struggle for European Union by
Political Parties and Pressure Groups in Western European Countries, 1945-1950, Walter de Gruyter
& Co., Berlino, 1988, p. 673.
84 J. Schneer, Hopes Deferred or Shattered: the British Labour Left and the Third Force Movement, 19451949, in «The Journal of Modern History», vol. 56, n. 2, 1984, pp. 197-226.
85 W. Lipgens, Documents on the History of European Integration, cit., p. 675.
83
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le due nazioni alle quali sarebbe spettato il compito di avviare consultazioni
intergovernative al fine di delineare un comune sistema di sicurezza europeo, al
quale si sarebbero poi uniti gli altri Stati. Agli occhi degli autori del progetto, il
quale fu in seguito sistematizzato e pubblicato nel pamphlet intitolato Keep Left,86
si sarebbe dovuto cercare di “espandere l'alleanza anglo-francese in un patto di
sicurezza europeo e di annunciare tanto la nostra disponibilità quanto quella
delle altre nazioni europee a rinunciare alla produzione e all'utilizzo della
bomba atomica”.
Il pamphlet concludeva affermando che “solo un'Europa unita, forte
abbastanza da scoraggiare [un eventuale] aggressore, ma capace di rinunciare
volontariamente all'arma offensiva più letale della guerra moderna,
costituirebbe la miglior garanzia per la pace mondiale”87.
Il modello di integrazione europea ipotizzato da ‘Keep Left’ non aveva
molto in comune con le correnti più in voga del pensiero europeista, quali il
funzionalismo e il federalismo, derivando semmai dall'originario spirito
internazionalista del movimento operaio. Un sostenitore dell'iniziativa, il
deputato laburista William Warbey, descrisse la cosiddetta terza forza europea
come una creatura eminentemente socialdemocratica, nata dai rapporti
amichevoli e progressivamente sempre più stretti tra i partiti socialisti
d'Europa88.
Ciononostante le aspettative di un'Europa unita e autonoma in politica
estera, guidata da una coalizione sovranazionale della sinistra riformista, con
l'Inghilterra nel ruolo di leader, furono disattese malgrado le elezioni generali
del '45 avessero sancito l'acme del partito laburista. Se nel resto d'Europa i
partiti socialisti si distinsero in linea di massima per la ricerca di politiche
comuni fra i governi europei, nella convinzione che bisognasse collocare la
rinascita economica e sociale europea al di fuori delle frontiere nazionali89, la
maggioranza del ‘Labour Party’ non sposò affatto tale posizione. Il laburista
Hugh Gaitskell era convinto che sostenere l'unificazione europea fosse l'atto
simbolico con cui la Gran Bretagna avrebbe abdicato spontaneamente al ruolo
di potenza mondiale90 per diventare una potenza regionale, di eguale rango
Il testo completo apparve per la prima volta sul quotidiano New Statesman nel maggio del
1947.
87 Ivi, p. 676.
88 J. Schneer, Hopes Deferred or Shattered, cit., p. 201.
89 La costruzione comunitaria fu sostenuta anche dalla SFIO di Guy Mollet e dal PSI nella fase
successiva al passaggio dal patto di unità d'azione al patto di unità di consultazione con il PCI.
90 Lo storico J.G.A. Pocock sintetizzò il processo di “europeizzazione” della Gran Bretagna
definendolo il risultato di una duplice sconfitta derivata, in primo luogo, dalla perdita della
dimensione oceanica-imperiale del potere e, in secondo luogo, dall'impossibilità di assolvere un
ruolo da grande potenza sia nel vecchio continente che nei territori extraeuropei, cfr. J. G.A.
86
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rispetto agli altri Stati che dalla guerra erano usciti sconfitti:
Are we forced to go into Europe? The answer to that is, no. Would we necessarily, inevitably, be
economically stronger if we go in, and weaker if we stay out? My answer to that is also no […] If
I were a little younger today, and if I were looking around for a cause, I do not think I should be
quite so certain that I would find it within the movement for greater unity in Europe. I would
rather work for the Freedom from Hunger Campaign, I would rather work for War on Want, I
would rather do something to solve world problems [corsivo aggiunto].91
Con il passare degli anni, specie dopo il ritorno dei conservatori al potere
nel ‘51, anziché svolgere un ruolo di pioniere nell'unificazione politica del
continente la Gran Bretagna, come accennato, assunse, rispetto al processo di
integrazione europea, un ruolo di antagonista. La diffidenza con cui sul finire
degli anni Quaranta la Gran Bretagna considerava le iniziative politiche che
avrebbero portato alla nascita delle Comunità europee dipendeva da numerosi
fattori. Il fatto che tali progetti fossero studiati in Paesi guidati dai conservatori
(al cui interno le strategie di ricostruzione seguivano un modello economico
tendenzialmente liberista, rispetto ai grandiosi progetti di statalizzazione
sostenuti dai laburisti inglesi) e la convinzione di poter continuare a fare
affidamento su quel legame transatlantico che univa Londra a Washington sono
due fattori importanti che aiutano a comprendere la distanza che il governo
britannico desiderò porre tra sé e i nascenti organismi europei.
Tuttavia la causa principale andrebbe probabilmente ricercata
nell'eredità imperiale della Gran Bretagna, la quale sopravviveva nei legami di
dipendenza tra la Gran Bretagna e i Paesi del Commonwealth, in rapporti, cioè,
che affondavano nella storia, coinvolgevano tanto l'immagine di potenza
mondiale che i britannici avevano della propria patria, quanto aspetti più
pragmatici legati alle relazioni commerciali privilegiate esistenti tra Londra e i
paesi associati. Per buona parte dell'establishment e dell'opinione pubblica il
vincolo che univa i membri del Commonwealth era considerato inalienabile.
Anthony Eden, ex Segretario di Stato agli Affari esteri e futuro Primo Ministro
nella rovinosa vicenda di Suez, non ne fece certo un mistero quando nel 1949,
nel corso di una intervista rilasciata a Le Monde, affermò che per il popolo
britannico la partecipazione a iniziative di cooperazione sovranazionale in
Europa non poteva mettere in discussione, o indebolire in alcun modo il legame
Pocock, History and Sovereignity: The Historigraphical Response to Europeanization in Two British
Cultures, in «Journal of British Studies», vol. 31, n. 4, 1992, p. 362 e ss.
91 H. Gaitskell, in Britain and the Common Market. Texts of speeches made at the 1962 Labour Party
Conference by the Rt. Hon. Hugh Gaitskell M.P. And the Rt. Hon. George Brown M.P., Londra,
Labour Party, pp. 3-23.
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B. Giuliani, A State
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tra la Gran Bretagna e il resto del Commonwealth92.
Il 3 giugno 1950, il Segretario di Stato per le Relazioni con il
Commonwealth, al tempo Patrick Gordon Walker, presentò un rapporto sulle
ripercussioni che un eventuale ingresso della Gran Bretagna nella CECA,
prefigurata nella dichiarazione Schuman del 9 maggio precedente, avrebbe
avuto sulle relazioni interne al Commonwealth. Le conclusioni del rapporto erano
del tutto in armonia con quanto dichiarato da Eden appena un anno prima.
Stando a quanto si legge nel memorandum, la condotta inglese mantenuta
all'interno delle trattative per una “closer union” tra i Paesi europei, si ispirava a
due principi fondamentali:
a) the need to play our full part – and, indeed, to take the lead – in revivifying Europe, while at
the same time
b) not engaging ourselves in anything which was likely to do damage to our relationship with
other Commonwealth countries. 93
La Gran Bretagna veniva così a trovarsi incastrata tra due esigenze. Da una
parte, quella di svolgere un ruolo di primo piano all'interno del concerto
continentale; dall'altra quella di mantenere con scrupolosa cura l'unità
commerciale, storica e ideologica che il Commonwealth incarnava. La questione
aveva più a che fare con problemi di ordine economico e politico che non con i
sentimentalismi di una potenza decadente incapace di accettare il declino del
proprio impero. Come il memorandum non mancava di notare, i membri del
Commonwealth sarebbero stati certamente contrariati dal fatto che l'intera
industria siderurgica britannica fosse posta sotto il controllo legislativo di
un'istituzione autonoma dai governi centrali quale avrebbe dovuto essere la
CECA.
Tale eventualità, agli occhi dei governi dei paesi del Commonwealth,
metteva a repentaglio lo scambio di materie prime e beni manifatturieri sulla
base di tariffe agevolate che intercorreva tra di essi fin dai tempi degli accordi di
Ottawa (1932). Per i dominion, insomma, l'attrazione della Gran Bretagna
nell'orbita dell'Europa unificata comportava il tramonto del sistema della
preferenza imperiale e di quell’artificiale competitività economica che
quest'ultimo conferiva loro. Inoltre, se davvero l'esperimento di integrazione
settoriale rappresentato dalla CECA si fosse sviluppato secondo i desideri e le
aspettative degli schieramenti più convintamente europeisti, era probabile che
A. Eden, Great Britain, Europe and the Commonwealth, «Le Monde», 24 dicembre 1949.
Memorandum by the Secretary of State for Commonwealth Relations. Integration of Western
European Coal and Steel Industries: Commonwealth Implications, July 3d 1950, The National
Archives of the United Kingdom, Prime Minister's Office: Correspondence and Papers, 19451951, PREM 8. Parts I-II: Schuman Plan, 1950-51, PREM 8/1428.
92
93
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da una cooperazione di tipo economico si sarebbe presto transitati verso
un'integrazione politico-istituzionale, federale e sovranazionale. Nel momento
in cui gli Stati europei si fossero trovati nella condizione di condividere non
soltanto risorse materiali ma anche responsabilità politiche, i rapporti tra Gran
Bretagna e Commonwealth sarebbero stati pesantemente alterati se non del tutto
estinti.
Un simile esito non poteva essere accolto dalla strategia estera laburista,
per la quale (al pari di quanto asserivano i conservatori, peraltro interessati al
libero scambio con i paesi europei) la Gran Bretagna doveva restare una
potenza autonoma. Perché ciò accadesse la Gran Bretagna poteva contare solo
sul peso e sul prestigio del proprio impero quale valido contrappeso da opporre
ai giganti americano e sovietico. Il memorandum raccomandava perciò, in primo
luogo, di tenere costantemente aggiornati gli altri governi del Commonwealth sui
futuri sviluppi concernenti il Piano Schuman e, in secondo luogo, di orientare il
dibattito con i Paesi dell'Europa continentale affinché la costituenda autorità per
il carbone e l'acciaio non avesse carattere sovranazionale, né tanto meno poteri
legislativi.
I calcoli politici britannici sarebbero stati così perfettamente assecondati,
poiché la Gran Bretagna non sarebbe rimasta ai margini dell'Europa, ma
avrebbe preso parte alla costituzione della Comunità europea, riuscendo
tuttavia a manovrare in modo tale che nessuna forma di integrazione con i Paesi
dell'Europa continentale mettesse a repentaglio l'armonia interna e gli interessi
vitali del Commonwealth.
A scheme, broadly along these lines, would be seen as playing its part in the general effort to
restore European economy without raising the fear of Britain's being ultimately swallowed up
in the Continent and cutting her ties with the Commonwealth. 94
L'accento che il discorso storico-politico britannico pose sull'importanza
dei vincoli morali, ideologici e commerciali che tenevano insieme il British
Commonwealth of Nations, illustra adesso una tendenza a concepire
l'appartenenza della Gran Bretagna al Commonwealth in termini esclusivi:
essendo parte di quella composita organizzazione multinazionale, la Gran
Bretagna si precludeva la possibilità di associarsi a una comunità simile il cui
centro, tuttavia, era costituito dall'Europa occidentale.
Per concludere, possiamo notare come la cultura politica britannica fu
capace di elaborare un'originale teoria delle relazioni internazionali in cui
discorso imperiale e teoria federale intrattengono un fitto dialogo. In un periodo
storico in cui l'assoluta autodeterminazione nazionale era annoverata tra i più
94
Ibidem.
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alti valori politici, alcuni autori seppero stabilire un originale nesso tra la realtà
del dominio imperiale britannico e le esigenze di trasformazione di un mondo
sempre più globalizzato e tuttavia ancora fondato sull'instabile sistema della
balance of power. Ciò che fu considerato esemplare nell'organizzazione dei
rapporti tra Gran Bretagna e settler colonies era il fatto che esse, pur essendo
“comunità autonome eguali per status” avevano spontaneamente deciso di
rinunciare a una parte della propria sovranità nazionale, di sottostare a un
medesimo vincolo di fedeltà (in questo caso rappresentato dalla Corona) e di
affrontare di comune accordo la discussione delle materie vitali per la
sopravvivenza dell'impero.
Come sostenne, sul finire degli anni Quaranta, Lord Altrincham:
It is therefore the British Empire alone which has held nation-states together in effective unity
up to the present time. Despite their sovereign independence of each other, its member have
preserved a sense of responsibility to each other and to the system out of which they grew; and
they were thus inspired by a common impulse to act together instantaneously in defense of it. 95
Ancora nel present time, insomma, la forma imperiale britannica veniva
vissuta e indicata da autorevoli sudditi di Sua Maestà come il soggetto politico
che era riuscito laddove altri avevano fallito: ovvero nel conciliare autonomia e
sovranazionalità, nel combinare unità e diversità.
Un modello fortunato che il Regno Unito non era tuttavia più disposto a
esportare e promuovere nell’Europa entrata nel processo di costruzione di un
proprio assetto a vocazione federale e sovranazionale.
Lord Altrincham, The British Commonwealth and Western Union, in «Foreign Affairs», vol. 27, n.
1, 1948, p. 604.
95
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La Santa Sede e la questione armena nei documenti vaticani
(1915 -1921) 1
di Antonella Ricci
«Fare memoria di quanto è accaduto è doveroso
non solo per il popolo armeno e per la chiesa universale,
ma per l’intera famiglia umana, perché
il monito che viene da questa tragedia
ci liberi dal ricadere in simili errori,
che offendono Dio e la dignità umana.»2
Una premessa storiografica
La tragedia armena si compie in un’epoca di grandi rivolgimenti storici; un
intero popolo viene privato dei beni personali, sradicato ed eliminato dalla terra
in cui per più di duemila anni ha vissuto in un contesto multiculturale. Il
patrimonio identitario della nazione vede così interrotto il suo percorso storico
e in Anatolia i segni monumentali della presenza armena sono abbandonati al
degrado, quasi scomparsi. Tale frattura non è ancora recuperata dalla verità
storica.
Per diversi decenni, dopo il trattato di Losanna, il rafforzamento della
Repubblica turca e l’esaurirsi della cosiddetta “vendetta armena”, cala il
silenzio su tutto quel tragico evento che ha segnato gli anni della prima guerra
mondiale. La rimozione è collettiva ed ha diverse giustificazioni: per il governo
kemalista il genocidio armeno è un peso e un’eredità difficilmente gestibile e
Il presente articolo nasce da una tesi di laurea specialistica in storia moderna discussa il 19
gennaio 2011 a La Sapienza, con le prof.sse Anna Foa e Lucia Scaraffia, su cui si è continuato a
lavorare.
2 Papa Francesco, Messaggio agli armeni, Vaticano, 12 aprile 2015.
1
40
A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
pertanto non viene riconosciuto, con la scusante che durante il ‘trasferimento’
delle popolazione - deciso per motivi di sicurezza nazionale, data la presenza in
guerra di armeni nei due paesi, turco e russo- molti morirono proprio a causa
dei disagi del conflitto. Per l’Occidente il silenzio è la migliore opportunità per
allontanare il ricordo della sua complicità in tanti momenti dello svolgimento
della complessa vicenda; anche per gli armeni sovietizzati il silenzio è
l’opportunità migliore per vivere in un regime totalitario che non lascia spazio a
rivendicazioni identitarie di tipo nazionalistico. Ridotta infatti a entità
riconoscibile solo come Repubblica sovietica all’interno dell’URSS, l’identità
armena fatica a ritrovarsi e a confrontarsi con l’immane tragedia che ancora si
riverbera sui sopravvissuti e sulle comunità sparse nel mondo.
È questo il periodo, potremmo così dire, del silenzio.
Dal 1923 i diversi governi turchi hanno continuato ad asserire, con vario vigore e intensità, che
non c’è stato genocidio. […] I governi turchi sembrano essersi accorti che un riconoscimento
potrebbe comportare un cambiamento di confini e contaminerebbe l’onore della Repubblica e
indebolirebbe la sua posizione internazionale. I paesi stranieri hanno accettato o si sono opposti
a questa interpretazione a seconda dei loro interessi politici, economici o di sicurezza. 3
Queste parole dello storico Torben Jørgensen rendono efficacemente la
linea storiografica interpretativa turca, di esplicito negazionismo, nata da un
precisa operazione della giovane repubblica, ripensare e sistemare
l’interpretazione storica del passato nazionale secondo canoni di segno politico,
tanto più opportuni considerando l’inserimento del nuovo stato nel campo
occidentale e dell’Alleanza atlantica, e per le necessità della guerra fredda. Le
origini di tale operazione si fanno risalire ai primordi della Turchia postottomana. Così, Fatma Müge Goçek, storica turco-americana, nel suo Turkish
Historiography and the Unbearable Weight of 19154, colloca “le fondamenta per la
storiografia ufficiale della Repubblica turca” nel discorso pronunciato nel 1927,
in occasione del secondo congresso del partito popolare repubblicano, da
Mustafa Kemal, generale dell’esercito e organizzatore della rinascita
nazionalista turca e guida del governo di Ankara dal 1919, chiamato dal
Parlamento con il nuovo cognome Atatürk, “padre dei turchi”. Le sue parole:
In quell’intervento Mustafa Kemal raccontò la propria storiografia della guerra d’indipendenza
per tre giorni filati e la sua storiografia divenne alla fine quella della nazione turca. […] Nella
storiografia turca ufficiale, l’egemonia del nazionalismo turco risultò in una drammatica
T. Jørgensen, Turkey, the US and the Armenian Genocide, in S. L. B. Jensen (a cura di), Genocide:
Cases, Comparison and Contemporary Debates, Steven L.B. Jensen, The Danish Center for
Holocaust and Genocide Studies 2003, pp. 193-194.
4 Paper presentato al Workshop for Armenian-Turkish Scolarship, tenutosi a Salisburgo dal 15 al
17 aprile 2005.
3
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
limitazione del repertorio storico su cui gli studiosi s’impegnarono nella ricerca del passato
della Turchia. L’uso ufficiale della storia descrisse in modo molto selettivo le condizioni sociali
dell’impero ottomano, il ruolo al suo interno dei diversi gruppi sociali, l’ampiezza delle scelte
che questi gruppi avevano e lo spettro degli eventi storici che incontrarono. Su questo stato di
cose non sarebbe possibile per la storiografia turca ufficiale fare alcun significativo progresso
empirico e metodologico senza ricostruire la sua cornice, impegnandosi in un’analisi critica. 5
La Repubblica turca del resto viene fondata per iniziativa di precedenti
membri dell’Ittihad6, di militari e burocrati implicati nei crimini del 1915. Kemal
e i suoi uomini non possono, né vogliono riconoscere alcuna ingiustizia contro
gli armeni, in parte per motivi di ordine pratico, come le reazioni dei funzionari
statali e i procedimenti legali, ma soprattutto per il timore – probabilmente
infondato, ma nondimeno fortemente presente – che un riconoscimento del
genocidio avrebbe portato a un cambiamento dei confini nell’Anatolia orientale.
L’epurazione degli armeni viene perciò probabilmente vista come una
spiacevole, brutale, deplorevole, ma inevitabile soluzione all’altrimenti
insolubile problema di una minoranza ribelle e sleale, una soluzione senza la
quale la Repubblica turca non sarebbe nata. Questo modo di vedere si è
tramandato fino ad oggi.
Perciò dal 1923 il pensiero ufficiale afferma che gli armeni non hanno mai
avuto uno Stato indipendente e quindi non hanno alcun diritto nel rivendicare
alcuni territori in Anatolia; che sono stati ripetutamente sleali sia nel corso
dell’Ottocento, sia nei primi decenni del Novecento e che l’apice di questa
slealtà è stato il loro appoggio armato alle truppe russe nel 1915; e che per tali
motivi i governi turchi sono stati costretti a deportare gli armeni. Questa è la
versione ufficiale che i politici, e con loro gli storici turchi, decidono di
sostenere.
Kemal insomma vuole riscrivere il passato, e a tale scopo fonda all’inizio
degli anni ’30 la Società turca di storia, incaricata di divulgare la “tesi turca della
storia”, in base alla quale sono sempre stati i turchi gli abitanti indigeni
dell’Anatolia. Già il generale dell’esercito turco del Caucaso Kâzım Karabekir, a
commento di una nota del commissario bolscevico Cicerin del 3 giugno 1921,
afferma cinicamente che “in Turchia non ci sono mai stati né un’Armenia né un
territorio abitato dagli armeni” e la delegazione turca a Mosca il 13 agosto
Fatma Müge Goçek, Turkish Historiograph and the Unbearable Weight of 1915, paper presentato al
Workshop for Armenian-Turkish Scholarship, Salzburg, 15-17 aprile 2005; citato in M. Flores, Il
genocidio degli armeni, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 215-216.
6 Ittihad ve Terakki è il nome turco del Comitato di Unione e Progresso.
5
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risponde sempre a Cicerin che “non c’è mai stata una provincia armena in
Turchia”7.
In argomento, fra i principali scritti della storiografia nazionalista turca si
pronuncia l’opera in quattro volumi Tarih (Storia): edita nel 1931, riflette
l’ideologia dello Stato e la sua necessità di riscrivere la storia, e diventa il punto
di partenza dell’insegnamento della storia nazionale alle nuove generazioni,
influenzando i futuri studiosi. Ispirata all’orgoglio per le imprese del popolo
turco, Tarih ne intende creare una nuova, propriamente turca, più ancora che
ottomana; e ricorre alla cosiddetta teoria del Sole (Günesh Teorisi), ipotesi
linguistica pseudoscientifica elaborata proprio in Turchia nel 1930 e sostenuta
da Mustafa Kemal8.
In definitiva, come hanno riconosciuto e affermato diversi storici, tra cui R.
Hovannisian e T. Jørgensen, gli studiosi turchi devono accettare la linea ufficiale
e la censura statale controlla ed elimina le pubblicazioni indesiderate. Dal canto
loro però, molti intellettuali turchi si concepiscono come educatori, responsabili
del processo della formazione identitaria, impegnati in esso più che nella ricerca
della verità. I risultati di questo atteggiamento producono interpretazioni
sicuramente indifendibili, avallate dai politici turchi che temono al contempo le
rivendicazioni armene in Anatolia e la direttiva politica delle potenze
occidentali e della Russia.
La prima reazione viene dagli Stati Uniti già nel 1919, quando Henry
Morgenthau pubblica nelle sue memorie, quale ambasciatore americano a
Istanbul (1913-1919)9, le prime notizie documentate sullo sterminio degli
armeni; il forte interesse suscitato nell’opinione pubblica americana non ha
tuttavia sviluppi né conseguenze. Nel 1934 è la casa cinematografica Metro
Goldwyn Mayer a recuperare la questione armena con il progetto una versione
cinematografica de I quaranta giorni del Mussa Dagh, epopea della resistenza armena
Citato in C. Mutafian, Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni, Guerini e associati,
Milano 1995, pp. 55-56.
8 Secondo tale teoria, tutti i popoli discendono dai turchi dell’Asia centrale, che, come raggi di
sole, si sono irradiati nel mondo, creando uno Stato e fondando civiltà in Africa, Asia e Europa.
Nel linguaggio si rintraccia uno sviluppo analogo, secondo il quale tutte le lingue derivano da
una primordiale lingua turca. L’uomo turco preistorico, colpito dai benefici effetti del Sole sulla
vita, lo eleva alla divinità da cui proviene tutto e a cui dà nome “ag”, la sillaba da cui derivano
tutte le altre. Non fa menzione degli armeni che arrivano in Asia Minore intorno al 1200 a. C. La
teoria del Sole e l’assenza degli armeni sono rintracciabili anche nei dodici volumi di Türk
Tarikhi (Storia turca), altra opera ufficiale scritta da Rıza Nur tra il 1924 e il 1926.
9 H. Morgenthau, Ambassador Morgenthau’s Story, Doubleday, Page & Co., Garden City (N.Y.)
1919.
7
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di Franz Werfel10, scrittore e drammaturgo praghese di cultura ebraica, come
Morgenthau.
Il governo di Kemal reagisce prontamente, protestando presso il
Dipartimento di Stato e minacciando di boicottare le merci americane e di
proibire la diffusione di film americani in Turchia; il Dipartimento di Stato fa
pressione sui direttori della casa cinematografica, che rinunciano al progetto
dopo aver cercato vanamente per un anno di negoziare una soluzione. Si può
quindi concludere che dopo una mobilitazione della società americana in favore
degli armeni durante la prima guerra mondiale, successivamente al 1918 altri
fattori politici e soprattutto economici diventano più importanti per
l’amministrazione americana.
Se il periodo tra le due guerre è sicuramente il meno adatto al riaffiorare di
un nazionalismo di tipo rivendicativo11, e la tragedia della seconda guerra
mondiale cancella poi il ricordo di drammi precedenti per polarizzare
l’attenzione sulla Shoah, gli esordi del secondo dopoguerra e della guerra fredda
relegano ancor più nel passato l’esistenza di una questione armena.
In via generale, dopo il riconoscimento e la definizione del genocidio
nell’opera di R. Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, Axis Rule In
Occupied Europe del 1944, in cui lo si intende come la distruzione di un gruppo
nazionale o di un gruppo etnico, il genocidio viene condannato, per la prima
volta, dall’Assemblea generale dell’ONU l’11 dicembre del 1946, nella
risoluzione 96, come “una negazione del diritto alla vita di gruppi razziali,
religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte” e nel “rifiuto
al diritto all’esistenza di un intero gruppo umano che sconvolge la coscienza
dell’umanità”12.
Solo nel 1950 ad Ankara viene pubblicato Tahrihte Ermeniler ve Ermeni,
saggio dello storico turco Esad Uras sulla questione armena, ripubblicato in una
versione più ampia nel 1976 e nel 1988 in versione inglese, ancora più ampliata
(The Armenians in History and the Armenian Question). Si tratta del primo
tentativo, dalla nascita della Repubblica turca, di parlare direttamente degli
Werfel si imbatte per caso nella sventura armena quando, nel 1929, durante un viaggio a
Damasco, è colpito dai bambini armeni orfani, denutriti, pallidi, con enormi occhi scuri che
nella maggiore tessitoria di tappeti della città “si muovevano per tutto il pavimento,
raccoglievano spolette e fili, e talvolta scopavano anche il pavimento”. Da allora raccoglie
documentazione e appunti: l’ambasciatore francese conte Clauzel gli invia tutti i documenti che
si trovavano al ministero della guerra di Parigi, relativi agli orrori perpetrati dai turchi contro
gli armeni; più tardi, dal 1932 al 1933, scrive il romanzo.
11 Lo prova anche la proibizione di una traduzione in armeno de I quaranta giorni del Mussa
Dagh.
12 Assemblea generale delle Nazioni Unite, Risoluzione 96, 11 dicembre 1946.
10
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armeni e della questione armena, anche con adeguate risposte, di natura
difensiva, a questioni poco gradite poste in Occidente ai diplomatici turchi.
Così, a proposito del 1915, Uras mette in risalto la grande importanza
della collaborazione dei partiti armeni, specialmente il Dashnak13, con i russi;
argomenta il diritto dello Stato turco di difendersi dagli attacchi di un gruppo
di traditori, le violenze e le cospirazioni armene ai danni dei musulmani; il
tentativo, da parte delle potenze straniere, di destare l’ostilità degli armeni;
sottolinea che gli armeni non hanno mai avuto un proprio Stato e critica il
lavoro di molti storici armeni che utilizzano miti e tradizioni orali, che
considera premesse a partire dalle quali è impossibile la ricostruzione della
storia armena.
La pubblicazione ottiene dunque grande influenza, anche per il suo
collocarsi negli anni dell’anticomunismo e del crescente interesse degli Stati
Uniti per rapporti di amicizia con la Turchia. In sintesi sono due le
argomentazioni principali del libro rispetto al massacro armeno: in primo luogo
l’attribuzione agli armeni, e non l’inverso, dell’uccisione di migliaia di turchi e
la conseguente azione di difesa dello Stato con le deportazioni (“relocations”); la
negazione di massacri tra la popolazione armena perché le “relocations”
sarebbero state attuate in uno spazio limitato con uno svolgimento ordinario,
“disturbato” dagli stessi armeni14. A conclusione:
The Turks had given the Armenians no real cause for rebellion. It might, therefore, not be
unjustificable to put the blame for what happened in the end on the Armenians themselves”. 15
Pur nella loro contraddittorietà, gli argomenti di Uras sussistono fino al
1977, anno in cui viene pubblicato il lavoro di Stanford J. Shaw, History of the
Ottoman Empire and Modern Turkey, e il revisionismo turco tocca il suo nuovo
apice. Fino ad allora, il testo di Uras rimane il punto di vista ufficiale sulla
questione armena, centrato sulla tesi di una “reazione” obbligata e riluttante
alla “dichiarazione di guerra” lanciata dagli stessi armeni. Le morti armene non
sono insomma riconducibili agli attacchi dei turchi (tra le fila dei quali si
registra il più alto numero di vittime), ma per lo più a malattia, fame, scontri tra
gruppi nemici armati, cattive condizioni di trasporto16.
Il partito Dashnaksutiun o Federazione Rivoluzionaria Armena (FRA), è un partito
nazionalista, fondato a Tiflis nel 1890 da Christapor Mikaelian, Stepan Zorian e Simon Zavarian,
con l’obiettivo di unificare le lotte degli armeni contro le usurpazioni dei turchi e di creare
un’Armenia libera e indipendente.
14 Cfr. T. Jørgensen, op. cit., pp. 204-206.
15 E. Uras, The Armenians in History and the Armenian Question, p. 884, citato in T. Jørgensen, op.
cit., p. 207.
16 Cfr. T. Jørgensen, op. cit., p. 207.
13
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Nei medesimi anni, le stesse società armene della diaspora in Occidente,
impegnate nella ricerca di un nuovo modus vivendi, preferiscono guardare al
futuro e non al passato: i massacri del 1915 sono pressoché un tabù. Il
cambiamento avviene nel 1965, a cinquant’anni dal genocidio, quando le
comunità della diaspora cominciano il percorso della memoria17. Negli anni
Sessanta, in occasione della preparazione e della commemorazione del
cinquantesimo anniversario del Metz Yeghérn, il “Grande Male”, la memoria del
genocidio armeno si propone all’attenzione internazionale.
Bisogna, a tale proposito, ricordare un fatto particolare, collocato nel 1965
in Armenia, allo scadere della “profezia” lanciata nel 1915 da Talât Pascià, uno
dei triumviri dei Giovani Turchi, in base al quale “tra cinquant’anni non ci sarà
più un armeno sulla faccia della terra”: nel 1965, a Yerevan, nell’Armenia
sovietica, un gruppo assai numeroso di armeni sale in processione a
Dzidzernagapert, la Collina delle Rondini, dove dal 1967 sorge il “Memoriale
del genocidio”. Manifestano al grido “sono passati cinquant’anni e noi siamo
ancora qui”. Questo è l’inizio della rottura della congiura del silenzio.
Nel ventennio successivo, la diaspora ‘culturale’ cerca di coinvolgere la
coscienza collettiva attraverso una commemorazione articolata che raccoglie
memorie e documenti, interviste a sopravvissuti e documentari fotografici,
costruisce narrazioni e dibattiti storiografici, riti pubblici e ricordi collettivi. Il
contesto è quello dello studio dell’Olocausto che vede nel genocidio armeno,
proposto come “primo genocidio della storia”, il suo archetipo e la sua
preparazione. La frase di Hitler “chi oggi si ricorda degli armeni?”, pronunciata
nell’agosto del 1939 a Obersalzberg ai comandanti militari tedeschi prima
dell’invasione della Polonia, e che si riferisce alla violenza senza remore da
poter utilizzare contro i polacchi, viene spesso interpretata in riferimento alla
“soluzione finale” ebraica e alla possibilità, evocata dal Führer, di rimanere
impuniti per uccisioni di massa come quella dei turchi nei confronti degli
armeni. In questa lettura, il genocidio armeno sarebbe stato il primo modello di
quelli successivi18.
Dagli anni Sessanta, il mondo comincia ad interessarsi del destino degli
armeni; gli studiosi occidentali riprendono gli studi e i turchi reagiscono
ridefinendo la loro propaganda, che si intensifica a mano a mano che cresce
l’interesse per il genocidio armeno appunto all’interno degli studi sul
genocidio. D’altro canto le organizzazioni armene provano a intensificare le
pressioni, specie negli USA, perché il massacro del 1915 venga chiamato col
proprio nome, “genocidio”.
17
18
Ibidem, pp. 207-208.
Cfr. M. Flores, op. cit., pp. 213-214, 271.
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Ciononostante nella storiografia occidentale, influenzata dalla guerra
fredda, persistono tendenze apologetiche della Repubblica turca. La costruzione
storiografica nazionalistica turca si interseca così con la storiografia accademica
moderna che fiorisce nel contesto ideologico della guerra fredda. Ricordiamo a
questo proposito il lavoro risalente al 1951 di Lewis V. Thomas, capostipite di
questa linea interpretativa, e di Richard N. Frye, The United States and Turkey
and Iran, in cui si afferma:
Nel 1918, con la definitiva eliminazione dell’intera popolazione armena dall’Anatolia e dalla
regione degli Stretti, eccetto per una piccola e insignificante comunità nella città di Istanbul, i
processi di turchizzazione e islamizzazione finora largamente pacifici erano stati portati avanti
con grande impeto con l’uso della forza. […] Se la turchizzazione e l’islamizzazione non fosse
stata accelerata lì con l’uso della forza, oggi certamente non esisterebbe una Repubblica turca,
una Repubblica che deve la propria forza e stabilità in non piccola misura alla omogeneità della
sua popolazione, uno Stato che è adesso un valido alleato degli Stati Uniti. 19
Quali eredi della stessa linea interpretativa ricordiamo Stanford J. Shaw,
Justin McCarthy, Health Lowry. Se nel 1951 il professore americano Lewis V.
Thomas spiega il genocidio come una conseguenza dei nazionalismi occidentali,
nel 1977 viene pubblicata l’opera di Shaw sulla storia ottomana e turca, in cui
gli armeni risultano aver sempre giocato la parte della minoranza ribelle e
terroristica in stretto contatto con le ostili potenze straniere. Di fatto una mano
tesa alla storiografia turca della risposta obbligata alla “provocazione armena”,
con conseguente avvio della deportazione. In stretta relazione col governo
turco, in una posizione di prestigio nell’Università californiana di Los Angeles,
Shaw, educato nella tradizione di pensiero occidentale, guida il rifiuto turco del
genocidio su nuove vie più elaborate20. Il suo allievo McCarthy perfeziona tale
interpretazione (The Ottoman Turks. An Introductory History to 1923, pubblicato
nel 1997) e pone nello “scambio di popoli” tra armeni e musulmani la causa
“dell’odio da entrambe le parti”, la cui colpa ricade sulla logica espansionistica
dell’impero zarista:
La ribellione armena divenne presto una guerra di sterminio. Se eri catturato dall’altra parte
venivi ucciso, nessuno risparmiava donne e bambini. In tal modo ognuno era costretto a
prendere partito, l’alternativa sarebbe stata di morire senza avere la possibilità di difendersi. La
mortalità maggiore si ebbe tra i rifugiati di entrambe le parti. […] Sia gli armeni sia i musulmani
vennero esiliati o deportati dalle loro case nel corso della guerra, con una enorme perdita di vite
umane. 21
L.V. Thomas e R. Frye, The United States and Turkey and Iran, Harvard University Press,
Cambridge (Mass.) 1951, pp. 60-61.
20 Cfr. T. Jørgensen, op. cit., pp. 209-210.
21 J. McCarthy, The Ottoman Turks. An Introductory History to 1923, Longman, London 1997.
19
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Il dibattito storiografico dagli anni ’80 vede diverse prese di posizione e
diverse modalità di sostegno al rifiuto turco di ammettere la colpa: nei paesi
occidentali vengono fondati degli istituti di ricerca storica e sociale sulla
Turchia fermi nel negare il genocidio armeno (riconosciuto come tale in
Uruguay fin dal 1965). Al tempo stesso, professori turchi attaccano le principali
interpretazioni occidentali favorevoli agli armeni, criticando, ad esempio,
l’attendibilità delle fonti da esse utilizzate. Nel 1982 la Repubblica turca stanzia
tre milioni di dollari per fondare a Washington DC un “Istituto di Studi Turco”
che sostiene ricerche, studi, pubblicazioni in materia, e che gode anche i
contributi delle industrie americane e turche22. Il suo scopo è quello di
“continue to play a key role in furthering knowledge and understanding of a
key NATO ally of the US, the Republic of Turkey, among citizens”23. Lowry,
discepolo di Shaw, diventa direttore dell’Istituto e più tardi, nel 1994, occupa la
“Atatürk Chair in Turkish Studies” nell’università di Princeton.
Sempre negli anni Ottanta iniziano gli studi sull’Olocausto e sul
genocidio, nuovo ambito e nuova disciplina di ricerca, segnando il proprio
esordio con l’opera di Leo Kuper, Genocide: Its Political Use in the 20th Century,
del 1981. Cominciano dibattiti e discussioni teoriche, vengono pubblicate serie
di monografie e antologie dedicate a singoli casi, sorgono centri di ricerca sul
genocidio e si tengono molte conferenze, in cui si confrontano storici, sociologi,
psicologi specializzati, i cui risultati contribuiscono allo sviluppo della nuova
disciplina24. In parallelo gli Stati Uniti ampliano la loro apertura ai turchi, come
appare evidente nel bollettino del Dipartimento di Stato, in cui si legge
“Because the historical record of the 1915 events in Asia Minor is ambiguous,
the Department of State does not endorse allegations that the Turkish
Government committed genocide against the Armenian people”25.
Come di rimando, avanza intanto il lento processo del riconoscimento di
un “genocidio armeno”, che dagli anni Novanta vede moltiplicarsi nelle
democrazie occidentali le dichiarazioni e le scuse ufficiali per gli errori
d’interpretazione storica: in tutto il mondo i governi cominciano appunto
riconoscere la responsabilità morale degli atti delle passate generazioni, della
condotta nel tempo di guerra, della schiavitù o del maltrattamento delle
Cfr. T. Jørgensen, op. cit., p. 211.
ITS publication, citato in T. Jørgensen, op. cit., p. 211.
24 C’è chi sostiene che la reazione turca agli studi sul genocidio, con la crescente attenzione per
l’anno decisivo 1915, ha portato ad enfatizzare una simpatia per il popolo ebraico e la condanna
della linea politica tedesca durante la seconda guerra mondiale; cfr. T. Jørgensen, op. cit., pp.
211-215.
25 R. Hovannisian, The Etiology and Sequelae of the Armenian Genocide, 1994, in G. Andreopulos,
Genocide: Conceptual and Historical Dimensions, University of Pennsylvania Press, Philadelphia
1994, p. 131, citato in T. Jørgensen, op. cit., p. 215.
22
23
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popolazioni indigene. In assenza di un movimento interno alla Turchia, la
questione armena viene accolta e fatta conoscere dai parlamenti di diversi Stati.
Notevole avvenimento, il 21 giugno 1995, lo studioso britannico
naturalizzato Usa Bernard Lewis, considerato lo storico più celebre fra coloro
che sostengono l’interpretazione turca, o per lo meno propendono per la tesi
riduttiva del “massacro”, è simbolicamente condannato dal Tribunal de Grande
Instance di Parigi proprio per la sua negazione del genocidio26.
Per contro, anche se la guerra fredda è finita, gli Stati Uniti continuano ad
aver bisogno di alleati in Medio Oriente; la posizione rispetto al genocidio è
perciò altalenante, non senza interferenze di interessi politici ed economici.
Ancora nel 2000 e fino ad oggi, ai lavori e ai dibattiti sulla questione armena
della Commissione Relazioni Internazionali della Camera dei Rappresentanti
USA partecipano intellettuali e commentatori politici turchi che possono
approssimativamente essere classificati in quattro gruppi: i pochi che
riconoscono il genocidio, i genocide recognisers, che domandano alla nazione
turca di difendere i sopravvissuti e i loro discendenti; un gruppo più ampio che
giudica gli eventi del 1915 come una tragica guerra civile, in cui turchi e armeni
si massacrarono reciprocamente: ovvero il gruppo dei mutual killings, che riflette
il punto di vista dell’élite nazionalistica più illuminata; il gruppo più numeroso,
dei we are the real victims, il quale non riconosce le sofferenze degli armeni, ma
sottolinea come siano stati i turchi e i musulmani a soffrire sia sotto gli attacchi
armeni, sia con l’invasione russa, durante e dopo la prima guerra mondiale; un
ultimo gruppo infine difende le deportazioni e i massacri come misure
necessarie di cui non si prova alcun rimorso, facendo propria la visione del
Partito d’Azione Nazionale, dei radicali islamici e dei gruppi nazionalistici
connessi al quotidiano «Akit»27.
Può essere utile soffermarsi sui genocide recognisers, che rifiutano come
inaccettabili e ingiustificabili (in qualsiasi circostanza) le deportazioni e i
provvedimenti simili, e tra questi sugli storici turchi Taner Akçam e Halil
Berktay, sostenitori della tesi che deportazioni e uccisioni possono essere
chiamati “genocidio” dal momento che il governo ottomano avrebbe pianificato
centralmente il progetto di sterminio28.
Cfr.
fra
gli
altri
www.voltairenet.org/article14133.html;
www.lemonde.fr/europe/article/2005/04/22/l-historien-bernard-lewis-condamne-pour-avoir-niela-realite-du-genocide-armenien_641923_3214.html.
27 «Yeni Akit»(nuovo accordo) è un quotidiano turco conservatore e islamista, fondato nel 2010.
28 Cfr. M. Necef, The Turkish Media Debate on the Armenian Massacre, in S.L.B. Jensen (a cura di),
Genocide: Cases, Comparison and Contemporary Debates, op. cit., p. 232.
26
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Taner Akçam presenta interessanti considerazioni circa i motivi “della
perdita della memoria che caratterizza la società turca”29, una perdita che si
manifesta come “l’inesistenza di una coscienza storica”30 rispetto ai massacri
armeni, oscuro ma comunque chiuso capitolo nella storia della nazione. Akçam
considera come, in generale, tutti gli Stati tendano a costruire una storia
nazionale che presenti lo Stato esistente come il risultato di un inevitabile e
ininterrotto processo a giustificazione del suo potere. In questo orizzonte, per la
Turchia, la generazione repubblicana degli anni ’20 e ’30 provò a creare la sua
ragion d’essere prendendo le distanze dallo Stato ottomano, spesso presentato
in termini negativi. La “guerra di liberazione” (contro le potenze alleate, i greci
e gli armeni dopo la prima guerra mondiale) viene così vissuta come una
rinascita, “l’ingresso nell’esistenza dal nulla”. La presa di distanza dagli
ottomani tuttavia non si traduce per gli uomini della Repubblica in una libertà
di lettura dei fatti del 1915, a dimostrazione di come la Repubblica possa essere
considerata la continuazione del vecchio regime, anche in riferimento a quanto
non si desidera ricordare.
Inoltre, secondo il mito fondativo della Repubblica, approvato e
sottoscritto sia dalla destra che dalla sinistra in Turchia, lo Stato nazionale turco
si è proposto come il risultato della lotta antimperialista contro le potenze
europee che hanno provato invano a occupare, dividere e colonizzare la
Turchia; l’antimperialismo è così elemento vitale dell’identità nazionale turca.
In quest’ottica, il massacro degli armeni finisce però per contraddire tale mito
fondativo, in quanto indica che il processo storico cominciato nel 1914, quando
l’Impero ottomano entra nella prima guerra mondiale, e concluso nel 1923 con
l’affermazione della Repubblica, ha in larga parte il carattere di una guerra
civile contro armeni e greci che vivono in gran numero dentro i confini
dell’Impero ottomano.
Il terzo fattore è quello che Akçam chiama “lo spirito della milizia
nazionale del popolo”, di quei movimenti cioè che, dopo la fine della prima
guerra mondiale, cominciano la guerriglia contro le truppe alleate, la Grecia e la
Repubblica d’Armenia, fondata dopo la guerra. Tutte le nazioni, infatti,
glorificano i loro “combattenti per la libertà” e cercano perciò di rimuovere
dalla memoria gli eventuali fatti ingloriosi. Di fatto però molti membri di questa
milizia appartengono al comitato “Unione e Progresso”, profondamente
implicato nei massacri degli armeni; altri, invece, sarebbero semplici bande di
criminali che si appropriano dei beni degli armeni uccisi. Questa milizia del
29
30
T. Akçam, «Yeni Binyil», 24 ottobre, citato in M. Necef, op. cit., p. 241.
Ibidem.
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popolo viene o incorporata nell’esercito regolare sotto Atatürk o eliminata nel
caso rifiuti l’incorporazione.
Dopo la proclamazione della Repubblica, nel 1923, alcuni dei capi della
milizia del popolo, radicati in “Unione e Progresso”, scalano e occupano le
prime posizioni del nuovo regime: Sükrü Kaya, per esempio, diventa ministro
degli Interni, Tevfik Rüsdü ministro degli Esteri e Mustafa Abdulhalik
presidente del Parlamento. Nel 1925 ne vengono invece uccisi alcuni, accusati
della pianificazione dell’attentato ad Atatürk a Izmir31. Un’ulteriore spiegazione
della “perdita della memoria” e della difficoltà per i turchi di fare i conti col
proprio passato si ravvisa nella costruzione delle identità nazionali sulla base di
una continuità storica, della nazione come comunità etica capace di delineare
una particolare cornice etica per i suoi membri; nessuno certamente ha interesse
a presentarsi come membro di una nazione che ha commesso un genocidio32.
Si può perciò sentir affermare spesso, come Gündüz Aktan dichiara in
un’intervista al canale NTV della televisione turca il 15 ottobre 2000, qualcosa
come: “noi non possiamo permettere che i nostri avi siano disonorati e offesi
quali perpetratori di genocidio e non vogliamo trasmettere ai nostri figli e ai
nostri nipoti questa accusa infamante”33.
Dopo aver eliminato fisicamente gli armeni, i turchi ne dovevano perciò
sradicare il ricordo con il cosiddetto “genocidio bianco”, per cui, per esempio, le
guide turche delle grandiose rovine della città di Ani, capitale e gioiello
dell’Armenia medievale, parlano soltanto di una città bizantina poi diventata
turca, azzerando così il passato armeno. A questo “genocidio bianco” non
risulterebbero a volte estranei neppure gli organismi internazionali. Alcuni
esempi: l’esposizione di Costantinopoli del 1983, dedicata alle “civiltà
anatoliche”, non nomina neppure gli armeni; nel volume pubblicato in
quell’occasione, la carta dedicata all’età medievale mostra un vuoto nell’area in
cui sorgevano i regni di Cilicia, di Van o di Ani34. Nei libri di testo e nei curricula
dei diversi corsi di studio turchi, la costruzione dello Stato repubblicano si salda
alla narrazione storica sviluppatasi nel paese a partire dagli anni ’30 e
rinvigoritasi soprattutto nel periodo della guerra fredda.
Lo rileva ancora Taner Akçam nel suo Nazionalismo turco e genocidio
armeno. Dall’impero ottomano alla repubblica, in cui afferma che:
grandi epoche e avvenimenti storici paiono non esistere, come se fossero stati cancellati dalla
storia e dalla memoria. Possiamo ragionevolmente parlare di un tentativo collettivo di
Ibidem, pp. 241-242.
Cfr. D. Miller, On nationality, Oxford, 1995, pp. 19-21, citato in M. Necef, op. cit., p. 243.
33 Intervista a Gündüz Aktan, canale NTV della televisione turca, 15 ottobre 2000, citata in M.
Necef, op. cit., p. 243.
34 Cfr. C. Mutafian, op. cit., p. 56.
31
32
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dimenticare tali questioni. Chiunque voglia discuterne si troverà ad affrontare due reazioni: da
un lato, mancanza di interesse e indifferenza; dall’altro una risposta aggressiva e ostile. 35
È così evidente come sia la censura sia i meccanismi di rimozione
rimodellino la gerarchia d’importanza e il criterio di rilevanza della narrazione
storica, creando, a volte, dei veri e propri tabù. La costruzione della storia
nazionale della Repubblica turca è un’opera selettiva di narrazione storica
fortemente riduttiva e totalmente acritica, che diventa fondamento stesso
dell’identità collettiva delle nuove generazioni, cui è così sottratto il passato e
perciò la possibilità stessa di affrontare la storia in modo aperto e critico. In
questa interpretazione storiografica si situa la visione della Repubblica
kemalista come ‘nuovo inizio’, una visione che è però unicamente il frutto di
uno scontro ideologico tra le forze del bene – quelle della nazione – e le forze
del male – i pericoli che minacciano la nazione – totalmente al di fuori di una
realistica consapevolezza del contesto storico36.
Nel vivo della tragedia
Dal maggio del 1915 cominciano ad arrivare anche in Vaticano notizie
preoccupanti dei massacri perpetrati dai turchi ai danni degli armeni, inizio di
quel genocidio che in pochi anni conterà un numero enorme di vite. Attraverso
il delegato a Costantinopoli, monsignor Angelo Maria Dolci, che, a differenza
degli altri due delegati apostolici in Siria-Libano e in Mesopotamia-Kurdistan,
gode dei collegamenti diplomatici anche con Germania e Austria, vengono
compiuti passi importanti per limitare almeno i massacri e le deportazioni.
Monsignor Angelo Maria Dolci comincia infatti a muoversi presso Enver Paşa,
il Ministro della Guerra turco, aiutato dai diplomatici tedeschi e austroungarici, con risultati complessivamente molto scarsi. Riesce comunque a
bloccare l’ordine di deportazione degli armeni di Aleppo, impartito dal
governatore della Siria.
Pur non godendo di alcuno statuto diplomatico, ha tuttavia il pieno
sostegno del cardinale Segretario di Stato, Pietro Gasparri, che gli ribadisce le
linee guida dell’azione vaticana di fronte alle guerre, del non far cioè distinzioni
tra cattolici, protestanti o altri37. Consapevole della tragedia, il 10 settembre
1915, lo stesso Papa Benedetto XV interviene direttamente e pubblicamente con
T. Akçam, Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero ottomano alla Repubblica, Guerini e
associati, Milano 2005, p. 217.
36 Cfr. M. Flores, op. cit., pp. 216-217.
37 Cfr. Benedetto XV, Ubi primum, 8 settembre 1914; Benedetto XV, Nostis profecto, 6 dicembre
1915.
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una lettera al sultano Mehmed V. È questo un gesto senza precedenti, che ha
ampia risonanza anche sulla stampa europea.
Rivolgendosi al capo religioso dell’Islam, il capo religioso della Chiesa
cattolica sottolinea la gravità dei massacri, che hanno coinvolto i civili armeni e
anche molti ecclesiastici; dichiarandosi inoltre convinto che tali eccessi siano
avvenuti contro la volontà del Sultano, lo esorta pertanto ad intervenire per la
loro cessazione e in difesa del popolo armeno, suddito fedele. Pur non
escludendo che tra gli armeni possano esserci dei ribelli, che vanno processati e
condannati legalmente, chiede al Sultano di evitare di coinvolgere nella
repressione i civili inermi e innocenti38.Anche nei confronti dei colpevoli invoca
poi la clemenza imperiale.
Come nota Mario Carolla, studioso e attento conoscitore degli archivi
vaticani, la lettera del Papa sortisce un duplice effetto: se le persecuzioni turche,
soprattutto verso i cattolici, vengono talora sospese, contemporaneamente viene
irritato il governo ottomano39.
Mehmed V è infatti anche un capo politico, in quel momento ostaggio del
governo dei Giovani turchi. Dopo un colloquio con mons. Dolci, in cui il sultano
dichiara di essersi trovato di fronte a una “cospirazione armena”, il 10
novembre risponde al Papa sostenendo l’impossibilità, per le autorità, di
distinguere, nella cospirazione armena, tra gli innocenti e i sediziosi,
giustificando in tal modo la pratica delle deportazioni di massa. A questo punto
la Santa Sede tenta la via diplomatica e impartisce istruzioni al Segretario di
Stato Gasparri per fare pressione presso i governi tedesco e austro-ungarico.
Gasparri stesso, a sua volta, incoraggia i nunzi a fare presente ai governi
tedesco e austro-ungarico che le leggi dell’umanità e della civiltà imponevano
un loro intervento per “far cessare prontamente atti di barbarie i quali
disonorano non solo chi li commette, ma anche chi, potendolo, non li
impedisce”40.
La linea ottiene anche un certo successo, come dimostrato dai
ringraziamenti successivi di Zaven I Éghiaïan, patriarca della Chiesa armena
gregoriana di Costantinopoli (diocesi patriarcale appartenente alla Chiesa
apostolica armena) quando, nel 1919, torna in città dalla deportazione a Mossul,
così come riportato nella lettera di Dolci a Gasparri 41. Come si vedrà avanti, il
Vaticano stesso si adopera in azioni di sostegno umanitario.
A. Riccardi, Benedetto XV e la crisi della convivenza multireligiosa nell’Impero ottomano, in
Benedetto XV e la pace 1918, a cura di G. Rumi, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 104-105.
39 Cfr. M. Carolla, La Santa Sede e la questione armena (1918-1922), Mimesis, Milano 2006, p. 12.
40 Ivi, p. 28.
41 Eminentissimo Principe, di recente è giunto qui in città, ritornato dall’esilio, S. E. Mgr. Zaven,
patriarca armeno gregoriano. Una delle sue prime visite fu fatta a questa Delegazione. Egli era
38
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Tacciano le armi
Con la Nota alle potenze belligeranti42 del 1 agosto 1917 Benedetto XV compie un
importantissimo passo a sostegno degli armeni. Del resto, già nell’Ubi primum
dell’8 settembre 1914, esortazione rivolta a “tutti i cattolici del mondo”, scritta
pochi giorni dopo la sua elezione al soglio pontificio il 31 agosto e all’inizio del
primo conflitto mondiale, egli aveva invocato la pace:
Allorché da questa vetta Apostolica abbiamo rivolto lo sguardo a tutto il gregge del Signore
affidato alle Nostre cure, immediatamente l’immane spettacolo di questa guerra Ci ha riempito
l’animo di orrore e di amarezza, constatando che tanta parte dell’Europa, devastata dal ferro e
dal fuoco, rosseggia del sangue dei cristiani […].
Benedetto XV comunicava perciò di aver “fermamente deciso, per quanto
è in Nostro potere, di nulla omettere per affrettare la fine di questa calamità
[…]”, concludendo quindi con la viva esortazione a “coloro che reggono le sorti
dei popoli a deporre tutti i loro dissidi nell’interesse della società umana”43.
Analogamente, nel discorso del 6 dicembre 1915 al Sacro Collegio Cardinalizio
Nostis profecto, il papa invocava ancora la pace per poi rivolgere la sua
attenzione direttamente all’Armenia:
Per fermo, nonostante che immense rovine si sian già accumulate nel corso di questi sedici mesi,
nonostante che cresca nei cuori il desiderio della pace, e alla pace anelino nel pianto numerose
famiglie, nonostante che Noi abbiamo adoperato ogni mezzo che valesse in qualche modo ad
affrettare la pace e a comporre le discordie, pur nondimeno questa guerra fatale imperversa
ancora per mare e per terra, mentre, d’altra parte, sovrasta alla misera Armenia l’estrema
rovina. 44
Il pontefice non cede di fronte alla continua tragedia sui campi di morte e
il 1 agosto 1917 nella già citata Nota ai Capi dei popoli belligeranti ricorda
innanzitutto le tre cose che:
accompagnato dal suo vicario. Il Patriarca, dopo i primi convenevoli, entrò subito a parlare
dell’opera del S. Padre in favore e per protezione della Nazione Armena, per la quale opera
espresse i suoi sentimenti della più viva riconoscenza e mi pregò di trasmetterli al S. Padre.
Cogliendo l’occasione, misi il patriarca al corrente di quanto fu fatto e che avrebbe potuto non
giungere a conoscenza di lui, e credetti bene, giunto il momento opportuno, dargli lettura della
prima Nota dalla Santità Sua rivolta a S. M. il Sultano. Alla mia volta andai a restituirgli la
visita. Fui ricevuto con somma deferenza ed onore, ed ebbi la consolazione di riudire da S.
Beatitudine espressa la sua grande ammirazione per l’opera del S. Padre in questa guerra e la
sua gratitudine in particolare per la parte che i suoi connazionali ne hanno goduto. Chinato al
bacio ecc.», Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 1, n. [?], 6 marzo 1919 Costantinopoli –
Dolci a Gasparri.
42 Benedetto XV, Nota alle potenze belligeranti, 1 agosto 1917.
43 Benedetto XV, Ubi primum, 8 settembre 1914.
44 Benedetto XV, Nostis profecto, 6 dicembre 1915.
54
A. Ricci, La Santa Sede
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Fin dagli inizi del Nostro Pontificato, fra gli orrori della terribile bufera che si era abbattuta
sull’Europa, tre cose sopra le altre Noi ci proponemmo: una perfetta imparzialità verso tutti i
belligeranti, quale si conviene a chi è Padre comune e tutti ama con pari affetto i suoi figli; uno
sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da Noi si potesse, e ciò senza accettazione di
persone, senza distinzione di nazionalità o di religione, come Ci dettano la legge universale
della carità e il supremo ufficio spirituale a Noi affidato da Cristo; infine la cura assidua,
richiesta del pari dalla Nostra missione pacificatrice, di nulla omettere, per quanto era in poter
Nostro, che giovasse ad affrettare la fine di questa calamità, inducendo i popoli e i loro Capi a
più miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una ‘pace giusta e duratura’.[…]. Noi
fummo sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e di beneficenza, così non cessammo
dall’esortare e popoli e Governi belligeranti a tornare fratelli […].
Riconosce però che «purtroppo l’appello Nostro non fu ascoltato […]» e
passa alle proposte pratiche di un accordo sui capisaldi per una pace giusta e
duratura. Innanzitutto:
Per non contenerCi sulle generali, come le circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora
discendere a proposte più concrete e pratiche ed invitare i Governi dei popoli belligeranti ad
accordarsi sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e
duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e completarli.
E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza materiale
delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione
simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura
necessaria e sufficiente al mantenimento dell’ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione
delle armi, l’istituto dell’arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo le norme da
concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni
internazionali all’arbitro o di accettarne la decisione.
Il tacere delle armi come primo punto, quindi una pace concordata:
Stabilito così l’impero del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei popoli con
la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto,
aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di progresso. Quanto ai danni e spese di guerra,
non scorgiamo altro scampo che nella norma generale di una intera e reciproca condonazione,
giustificata del resto dai beneficii immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la
continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in
qualche caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed equità.
E da qui una chiara linea strategica:
Ma questi accordi pacifici, con gli immensi vantaggi che ne derivano, non sono possibili senza
la reciproca restituzione dei territori attualmente occupati. Quindi da parte della Germania
evacuazione totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare
ed economica di fronte a qualsiasi Potenza, sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari
restituzione delle colonie tedesche. […]
55
A. Ricci, La Santa Sede
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Il pontefice invoca un equo assetto dell’Armenia, come quello degli Stati
balcanici e della Polonia:
Lo stesso spirito di equità e di giustizia dovrà dirigere l’esame di tutte le altre questioni
territoriali e politiche, nominatamente quelle relative all’assetto dell’Armenia, degli Stati
Balcanici e dei paesi formanti parte dell’antico Regno di Polonia, al quale in particolare le sue
nobili tradizioni storiche e le sofferenze sopportate, specialmente durante l’attuale guerra,
debbono giustamente conciliare le simpatie delle nazioni. 45
Benedetto XV considera le aspirazioni armene legittime come quelle degli
altri paesi europei, prospetta una necessaria soluzione delle varie questioni, per
quanto possibile, nel rispetto della volontà dei popoli interessati, anticipando
così lo spirito dei quattordici punti di Wilson dell’8 gennaio 1918. In particolare
– va ricordato – usa espressioni generiche circa le nazionalità sottoposte
all’Impero ottomano, ma chiede inequivocabilmente l’indipendenza della
Polonia.
Sempre nella Nota dell’agosto 1917 sono chiaramente delineati, riferiti
nella circostanza alla prima guerra mondiale, i criteri con cui la Santa Sede
intende porsi di fronte a un conflitto: imparzialità, prudenza e libertà di
giudizio. Sono anche chiaramente espresse le basi dell’auspicabile futuro
assetto dei popoli46. Difatti il pontefice si rivolge ai capi del mondo:
Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti,
siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima
alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage. Tutti
riconoscono, d’altra parte, che è salvo, nell’uno e nell’altro campo, l’onore delle armi; ascoltate
dunque la Nostra preghiera, accogliete l’invito paterno che vi rivolgiamo in nome del Redentore
divino, Principe della pace. Riflettete alla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e
dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli
famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l’assoluto
dovere di procurare. Vi inspiri il Signore decisioni conformi alla Sua santissima volontà, e faccia
che Voi, meritandovi il plauso dell’età presente, vi assicuriate altresì presso le venture
generazioni il nome di pacificatori. 47
“Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come quelle ad esempio che si agitano fra l’Italia
e l’Austria, fra la Germania e la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una
pace duratura con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante,
tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle
aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del grande
consorzio umano”.
46 “Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione
della questione economica, così importante per l’avvenire e pel benessere materiale di tutti gli
stati belligeranti”.
47 Benedetto XV, Nota alle potenze belligeranti, cit.
45
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A. Ricci, La Santa Sede
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La ripresa delle stragi e l’operato della Chiesa
Già nei primi mesi del 1918, dopo le grandi ondate di massacri del 1915 e del
1916, le stragi di armeni e di altri cristiani riprendono con l’avanzata dei turchi,
i quali, dopo l’armistizio di Brest Litovsk, stanno rioccupando i territori ceduti
alla Russia e quelli perduti durante la guerra. A dare notizia di questi terribili
fatti alla S. Sede sono il vescovo armeno cattolico Der Abramian,
Amministratore Apostolico armeno-cattolico nell’Impero russo ed anche
l’eminente laico della Chiesa apostolica armena, rappresentante a Parigi dei
catholicoi48, Boghos Nubar Pascià. Quest’ultimo era un armeno egiziano che
aveva organizzato per i francesi la Legione d’Oriente e che aveva fondato nel
1912 la Delegazione nazionale armena a Parigi, con il compito di coordinare le
attività filo armene, sensibilizzando l’Europa al riguardo49.
La lettera del 5 marzo 1918 di Der Abramian al Papa riporta il dispaccio
apparso il 2 marzo dello stesso anno sul giornale italiano «La Tribuna»:50
Beatissimo Padre, con sommo dolore, con l’animo straziato ho letto ieri sul giornale un
dispaccio col seguente titolo “Massacro di russi a Trebisonda”. Parigi 1 marzo. L’agenzia dei
Balcani ha da Pietrogrado che al momento della rioccupazione di Trebisonda migliaia di
sbandati russi sono stati fucilati e annegati. Sono stati gettati a mare molti sacchi pieni di
ragazzi armeni; uomini e donne sono stati crocefissi e tutte le giovani donne e le fanciulle sono
state abbandonate alla soldatesca («La Tribuna» del 2 marzo 1918).
Racconta quindi le tribolazioni dei cristiani a lui affidati e chiude la lettera
con l’invocazione della protezione del Papa.
A questa funestissima notizia mi pare di sentire, col cuore lacerato, l’eco delle grida di
disperazione e desolazione di una gran parte del mio povero gregge che si trova nel Caucaso.
Specialmente quelli che si trovano a Batum, Artvin, Kars ecc. circa 20.000 armeni cattolici con
25-30 preti stanno in pericolo imminente: se il Governo Turco è entrato ovvero sta per entrare,
allora avranno la stessa terribile sorte di quei di Trebisonda. Io non ho altra speranza, dopo
DIO, che la protezione morale di Vostra Santità, che trovi un mezzo, senza indugio, di sollevare
Il termine greco catholicos, entrato nell’uso probabilmente nel VI sec., si riferisce alla carica di
capo dei vescovi o patriarca.
49 Cfr: B. Nubar, The Armenian question before the Peace Conference, New York Press Bureau, The
Armenian National Union of America 1919; Letter to the Times of London, 30 gennaio 1919; The
Pre-War Population of Cilicia, Pettitt, Cox & Bowers, London 1920; B. Nubar and Nubarashem,
publication of the general Directorship of Armenian General Benevolent Union, Paris 1929; B.
Nubar’s papers and the Armenian question, 1915-1918, Mayreni publishing, Monterey 1996.
50 «La Tribuna», quotidiano fondato a Roma nel 1883 dai politici Alfredo Baccarini e Giuseppe
Zanardelli quale organo politico della loro corrente, la “pentarchia”; vive fino al novembre del
1946. Segue con attenzione il fronte di guerra russo-turco già dal 1914.
48
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A. Ricci, La Santa Sede
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i suoi lontani disgraziati figli che tutti con me gridano a VOSTRA SANTITÀ ‘DOMINE, SALVA
NOS, PERIMUS’. 51
Lo stesso vescovo armeno cattolico Der Abramian, insieme al Procuratore
Patriarcale Pietro Kojunian, arcivescovo della Chiesa apostolica armena di
Calcedonia degli Armeni, e a p. Giovanni Torossian, Provinciale Generale dei
Mechitaristi armeno-cattolici di Venezia, continuano ad informare il Papa degli
eventi. Infatti, la cessione da parte della Russia delle province a presenza
armena di Ardahan, Kars e Batum nelle mani del governo turco:
dà le mani libere alla barbarie mussulmana per la continuazione delle stragi e deportazioni del
1915 delle popolazioni Armene già in parte ripopolate in quelle regioni, per portare a
compimento l’iniquo suo progetto dell’intiera distruzione della nostra Nazione. Con sommo
dolore e trepidazione si apprendono già le notizie di quel che fanno i Turchi nel loro ingresso a
Trebisonda. 52
Ricordando poi con gratitudine e riconoscenza che gli interventi del Papa
avevano in parte mitigato la sorte degli infelici armeni, i tre religiosi continuano
a cercare protezione per il popolo armeno nell’interessamento e nell’aiuto di
Sua Santità. Der Abramian ringrazia per il «magnanimo atto» del Pontefice
verso la sua «travagliata e decimata Nazione» in riferimento alla Nota ai Capi
dei popoli belligeranti53. Anche Boghos Nubar, della Delegazione nazionale
armena che affianca (contrapponendosi) a Parigi la Delegazione della
Repubblica Armena, nel telegramma inviato in Vaticano dalla Conferenza di
pace l’8 marzo del 1918, si appella rispettosamente alla protezione del Santo
Padre, incoraggiato dai suoi sentimenti di compassione dimostrati nei confronti
degli armeni. Ne chiede l’intervento:
afin que la réoccupation turque des provinces abandonnées par russes ne renouvelle crimes et
atrocités qui ont ensanglanté Arménie et ne lui porte dernier coup fatale stop Communiqués
officiels ottomans avouent excès sanguinaires déjà commis et il est urgent qua Sa Sainteté
La lettera si chiude con una invocazione: Io non ho altra speranza, dopo DIO, che la
protezione morale di Vostra Santità, che trovi un mezzo, senza indugio, di sollevare i suoi
lontani disgraziati figli che tutti con me gridano a VOSTRA SANTITÀ ‘DOMINE, SALVA NOS,
PERIMUS’”, Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 59711, 5 marzo 1918, Roma – Der
Abramian al Papa – Administrator Apostolicus Armeno–Catholicorum in Imperio Russiaco.
52 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 59712, 6 o 7 marzo 1918, Roma – Der
Abramian e altri al Papa.
53 Di fronte a “un sì orribile sterminio”, Der Abramian non vede «altro rifugio e rimedio che
nella validissima protezione ed efficace interessamento di V. Santità: e ciò umilmente
imploriamo per tutta la Nazione Armena ed in special modo per i Cattolici, i quali benché pochi
in proporzione dei non uniti, perdettero però cinque Vescovi diocesani, molti del Clero sia
regolare sia secolare, e molte migliaia di Fedeli sono morti sia per morte violenta sia per i disagi
e tormenti sopportati nelle deportazioni.
51
58
A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
étende sa main protectrice sur malheureuses populations sans défense et empêche leur
extermination. 54
Nella risposta del giorno seguente, il cardinal Gasparri assicura Nubar che
la Santa Sede, ancor prima di aver ricevuto il telegramma, aveva fatto “des
pressantes démarches dans le but désiré”55. Per parte sua Nubar, nella lettera
dell’11 marzo inviata a Gasparri, in cui ringrazia il Papa a nome “de la
Délégation Nationale et de tous les Arméniens” per il suo intervento “en faveur
de nos compatriotes des provinces que les armées turques réoccupent”, avverte
anche che i turchi accusano ingiustamente gli armeni di commettere atrocità
verso i musulmani, quale alibi delle rinnovate violenze antiarmene. A tal
proposito rettifica il suo stesso errore di interpretazione dei dispacci secondo
cui:
… les crimes déjà commis étaient reconnus par les communiqués ottomans mêmes, quant au
contraire, ce sont les Turcs qui accusent les Arméniens de s’être livrés à des excès sur les
Musulmans. […] cette fausse accusation des Turcs n’est, au contraire, qu’un sinistre présage car,
fidèles à leur tactique, c’est pour donner d’avance un semblant de justification à leurs crimes et
pour avoir un prétexte aux atrocités qu’ils préparent et qui sont déjà commencées, qu’ils
attribuent des actes criminels aux Arméniens, les traitant de bandes rebelles, quand ces derniers
ne font que tenter de défendre leurs foyers et d’échapper à l’extermination. 56
Due giorni dopo, il 13 marzo, in un telegramma, esprime a Gasparri i
ringraziamenti della Delegazione Nazionale Armena57. La Santa Sede non resta
inoperosa: il Segretario di Stato vaticano Gasparri, che solleciterà ripetutamente
l’intervento di ambasciatori, ministri e capi di stato di diversi paesi, indirizza al
Nunzio Apostolico a Monaco (Eugenio Pacelli) un cifrato perché intervenga
presso il Cancelliere dell’Impero tedesco (Georg von Hertling) a favore dei
“poveri Armeni [perché] sieno rispettati dai Turchi rioccupanti i territori
attribuiti loro nel trattato di pace con la Russia”.
Occorre qui ricordare che la Germania aveva premuto per la mobilitazione
dell’esercito turco quando ancora la Turchia si dichiarava neutrale, che
l’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il barone von Wangenheim aveva
accresciuto la sua influenza sul gabinetto turco per assumere gradatamente il
controllo delle risorse militari turche e il comando dell’esercito e della marina,
Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n.
Nubar al Vaticano.
55 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n.
Gasparri a Nubar.
56 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2,
Gasparri.
57 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57,
telegramma di Nubar a Gasparri.
54
57889, 8 marzo 1918, Parigi – telegramma di
57889, 8 marzo 1918, Parigi – telegramma di
n. 60608, 11 marzo 1918, Parigi – Nubar a
2, n. 59729, 13 marzo 1918, Costantinopoli –
59
A. Ricci, La Santa Sede
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fino ad assicurare alla Germania l’alleanza della Turchia. Quindi, durante le
operazioni di guerra, i tedeschi continuano a premere sulle autorità turche
affinché applichino ai nemici i metodi tedeschi quali il tenere in ostaggio alcuni
rappresentanti di spicco della popolazione, la cattura dei civili, l’uso di donne e
bambini come scudo di difesa dalle armate e dalla flotta dell’Intesa.
Nella sua risposta, trasmessa dall’incaricato d’affari interni della
Nunziatura Apostolica, Lorenzo Schioppa, il Cancelliere tedesco riferisce di un
contatto tra il Governo imperiale e il Governo ottomano, in cui quest’ultimo
assicura sulle buone disposizioni turche verso gli armeni innocenti “per
facilitare in avvenire una pacifica comunanza di vita fra la popolazione cristiana
e maomettana dell’Anatolia orientale”. Contemporaneamente avverte però che
la pacificazione sarà possibile solo “se gli Armeni si sottomettono al Governo
turco, se rinunziano alle loro aspirazioni politiche, ora completamente senza
speranza di successo, se ritornano lealmente ai loro doveri civili” notando al
contempo che “sventuratamente i Comitati rivoluzionari armeni in Svizzera
sono all’opera, per stimolare all’estrema lotta gli Armeni contro la Turchia”58.
Il 15 maggio 1918, il Sultano risponde ad una lettera di Benedetto XV del
12 marzo precedente, su cui si è soffermato Andrea Riccardi59: Mehmed V non
si discosta dalla posizione turca ufficiale e rinnova innanzitutto l’assicurazione
della protezione alla popolazione armena, dal momento che principio
immutabile della propria condotta sovrana sono i sentimenti di giustizia e
sollecitudine nei confronti di tutti i soggetti senza distinzioni di razza o di
religione, i sentimenti di tolleranza e di rispetto per i credenti di tutte le
confessioni religiose.
Nous sommes heureux de pouvoir renouveler à Votre Sainteté les assurances précédemment
données dans Notre lettre du 10 du mois de Novembre 1915, relativement à la protection pleine
et entière de la population arménienne. Le sentiment de haute sollicitude et de justice
traditionnel de Nos Ancêtres à l’égard de tous leurs sujets sans distinction de race ni de religion,
ainsi que celui de tolérance et de respect pour les croyances des différentes communautés dont
le Tout-Puissant a daigné Nous confier la garde, constituent les principes immuable de Notre
conduite souveraine. Donc Votre Sainteté peut être assurée, que ceux qui ne devient pas du
droit chemin et ne manquent pas à leur devoirs envers leur pays continueront à jouir, à l’instar
de tous Nos fidèles sujets, de toute Notre paternelle protection.
Mehmed V afferma poi che solo gli armeni, opponendo resistenza alle
truppe turche incaricate di rioccupare le province invase e poi evacuate dai
Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 63502, 20 marzo 1918, Monaco – Schioppa a
Gasparri.
59 Lettera autografa del Pontefice conservata nell’Archivio degli Affari Ecclesiastici Straordinari,
Austria 57, citata da A. Riccardi, Benedetto XV e la crisi della convivenza multireligiosa nell’Impero
ottomano, in Benedetto XV e la pace-1918, a cura di G. Rumi, Brescia, Morcelliana, 1990, p. 115.
58
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A. Ricci, La Santa Sede
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russi dopo Brest Litowsk, avevano compiuto massacri nei confronti dei
musulmani in quei territori, lasciando rovina e disperazione:
Bien que les armées russes aient évacué Nos provinces envahies, les bandes arméniennes se
sont efforcées d’opposer de la résistance à Nos troupes chargées de la réoccupation des dites
provinces et elles se sont livrées avec acharnement à leur ouvre de mort contre la population
musulmane sans défense et n’ont laissé sur leur passage que ruine et désolation.[…]. 60
Auspica inoltre un pronto ristabilirsi di buoni rapporti tra le due
popolazioni:
avec l’aide du Très-Haute Nous espérons que l’ordre et la calme seront bientôt rétablis dans ces
territoires, et Notre plus vif désir de voir Nos sujets arméniens y vivre en paix et en plaine
prospérité, côte à côte avec leurs concitoyens musulmans ne tardera pas à se réaliser
entièrement.[…] 61
Qualche settimana dopo, arriva in Vaticano a Gasparri la lettera di mons.
Dolci datata 19 marzo che riferisce del cifrato n. 14 del Segretario di Stato del 12
marzo, come egli stesso riporta:
V.S. Ill.ma faccia, Nome Santo Padre, le più vive istanze presso codesto Ministero Esteri e
presso… [indecifrabile], affinché i poveri armeni siano rispettati dai turchi rioccupanti territorio
attribuito loro nel trattato pace con Russia… [altri numeri indecifrabili].
Informa quindi di aver avviato i suoi contatti con l’ambasciatore tedesco
nell’impero ottomano, allora a Vienna, conte Albrecht von Bernstorff (sarebbe
stato fucilato nel ’44 come partecipante alla congiura di von Stauffenberg), che
gli assicura il suo aiuto:
Prima d’intervenire presso questo Governo, credetti opportuno intervistare il giorno stesso del
recapito del Cifrato, questo Signore Ambasciatore Conte Bernstorff; e, dopo avergli partecipato
l’incarico che l’Eminenza Vostra degnavasi affidarmi, gli dimandavo il suo efficace concorso.
L’ambasciatore mi dichiarò di essere ben lieto che il Santo Padre mi avesse assegnato si
nobile e caritatevole missione, la quale giungeva opportunamente per facilitargli l’azione già
iniziata per la causa degli armeni. Interrogato da me sulle atrocità che i turchi attribuiscono agli
armeni e che gli armeni di Costantinopoli, alla loro volta, rigettano sui turchi, mi rispose
dicendo: che nella guerra, di atrocità se ne commettono anche fra i popoli meglio inciviliti.
Immagini quindi, Monsignore, quello che può accadere laggiù ove si combatte per odio di
“Le district d’Erivan qui se trouve pourtant en dehors des limites fixées par le Traité de BrestLitowsk n’a pas échappé à son tour aux horreurs commises par ces bandes qui se sont livrées,
tout récemment encore, à un massacre qui a duré plus d’une semaine et dont le nombre des
victimes s’élève à plus de cinq mille âmes, et plus de quarante mille personnes ont cherché
refuge dans les montagnes et se trouvent exposées à des privations indescriptibles”.
61 Archivio Segreto, Guerra, 1914-18, 244, 112, n. 67801, 15 maggio 1918 (arrivata in Vaticano in
giugno), Costantinopoli – il Sultano al Papa (traduzione in francese oltre all’originale in lingua
turca), firmata Mohammed Réchad V.
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razza. Mi disse infine che Enver Pacha [generale e ministro della Guerra e della Difesa] 62 lo
aveva assicurato di aver inviato ordini ai comandanti delle truppe, vietanti qualsiasi atto di
rappresaglia contro gli armeni.
Mons. Dolci continua la relazione aggiungendo di aver successivamente
informato l’ambasciatore tedesco dei decreti di deportazione degli armeni di cui
è venuto a conoscenza in modo riservato:
Il quindici, alcune persone armene degne di fiducia, si presentavano a questa Delegazione per
prevenirmi nel più stretto segreto che questo Governo aveva decretato la deportazione degli
armeni, non esclusi neppure quelli di Costantinopoli, e mi supplicavano a nome dei loro
connazionali, d’interporre a nome del Santo Padre, i miei uffici presso il Governo, onde far
sospendere tali misure che si sarebbero risolte in un vero disastro per tutta la nazione. Corsi
tosto, nuovamente, dall’Ambasciatore di Germania per metterlo confidenzialmente al corrente
di questa comunicazione fattami. Egli, pure lasciando intravedere la possibilità di questa
misura, riteneva però la decisione prematura, stante che il Cabinetto non si sarebbe assunto una
responsabilità si grave senza attendere l’arrivo del Gran Vizir [Talât Pascià]. Mi disse che
avrebbe subito telegrafato a von Kuhlmann [ministro degli Esteri tedesco], il quale trovandosi a
Bucarest insieme col Gran Vizir [per la conferenza di pace con la Romania, mai ratificata]
avrebbe potuto interporre i suoi valevoli uffici presso quest’ultimo.
Stando sempre al testo, Dolci prende contatti anche con il ministro degli
Esteri interinale turco Alil Bey, al quale chiede di sospendere rappresaglie e
nuove deportazioni contro gli armeni. Il ministro rassicura «che nei territori
rioccupati non s’incontravano più armeni i quali colle loro famiglie avevano
abbandonato quei luoghi portandosi aldilà della frontiera russa», ma ripete
anche quanto già esposto nell’intervista del 25 febbraio, cioè che le bande
armene avevano commesso nefandezze contro la razza turca, devastando
abitazioni e non risparmiando fanciulle, vecchi e donne incinte. Infatti:
Facendo poi subito cadere il discorso sulle atrocità commesse contro la razza turca, mi ripeté ciò
che egli mi aveva già detto nell’intervista del 25 febbraio, che mi pregiai portare a conoscenza
dell’Eminenza Vostra con Rapporto N° 740; cioè che le bande armene avevano commesso i più
orribili delitti contro la razza turca; che esse avevano saccheggiato, devastato e bruciato le
abitazioni in tutte le terre dalle quali furono costrette, nei combattimenti, a ritirarsi; e che nel
loro odio belluino non avevano risparmiato neppure le fanciulle, i vecchi, le donne incinte. Mi
dichiarò inoltre che queste atrocità erano state commesse in Erzinghian ed Erzurum; e che la
devastazione da tali bande perpetrata si estendeva da Van a Trebizonda; conclude dicendo che
di tutte queste nefandità avrebbe redatto un esposto per comunicarlo alle Potenze.
Dolci comunque riesce sia a scongiurare la deportazione degli armeni di
Ankara, sia ad ottenere, al fine di evitare rappresaglie, che la stampa turca non
Enver Paşa (1881-1922), esponente dei Giovani Turchi, ministro della Guerra nel 1914, assieme
a Talât, ministro dell’Interno e a Cemal, ministro della Marina nel governo del Comitato di
Unione e Progresso.
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dia troppa pubblicità alle presunte violenze armene nei territori rioccupati dai
turchi. Il ministro sopprime infatti la pubblicazione degli articoli e nega nuove
misure di rappresaglia e di deportazione; rassicura anche circa la disponibilità
del governo a concedere a tutti gli armeni, sudditi ottomani, completa amnistia.
Il Ministro, relativamente a nuove misure di rappresaglia contro gli armeni dell’Impero, negò
categoricamente ch’esse fossero nella mente del Governo e mi diede l’incarico di rassicurare il S.
Padre che tutte le voci di deportazione erano destituite di fondamento e che il Governo era anzi
disposto a concedere a tutti gli armeni, sudditi ottomani, completa amnistia.
Quanto alla pubblicazione degli articoli mi disse che essa fu subito repressa, come
sarebbe subito represso qualunque atto ostile della popolazione turca contro quella armena.
Infatti, all’infuori di quelli menzionati, non sono più comparsi nei giornali, per quanto mi
consta, articoli contro gli armeni; la stampa anzi prende ora la loro difesa lodando il contegno
pacifico degli Armeni dell’Impero. Di ciò ho ricevuto assicurazioni anche dall’Ambasciatore di
Germania. 63
Ricorda infine di aver riassunto e trasmesso «tale intervista col predetto
Signor Ministro degli Esteri» con il cifrato 2464.
Notizie dei massacri, della miseria e della confusione continuano intanto
ad arrivare da Tiflis, da parte dei vicari dell’Amministratore Apostolico degli
armeni cattolici nell’Impero russo, Der Abramian. Dionigi Kalatosoff, religioso
mechitarista e Antonio Kapojan parlano infatti in modo dettagliato delle
violenze perpetrate dai turchi nei villaggi occupati di Artvin, Ardanuch, Kars,
Batum, Alessandropoli, Axalzik, Akalkalak, Zori: preti e uomini trucidati,
donne violate e ridotte in schiavitù, fuggiaschi vagabondi e affamati in cerca di
rifugio nelle città centrali.
Quelli poi, che si sono salvati dalla strage con la fuga, muojono di fame o per strada o qui a
Tiflis; il padre separato dal figlio, lo sposo dalla sposa; le famiglie disperse parte rimasta nei
paesi occupati e parti vagabonde ed affamate nelle città centrali […]. Insomma non ci regge il
Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244, 112 n. 66827, 19 marzo 1918, Costantinopoli
(arrivato il 22 giugno 1918) – Dolci a Gasparri.
64 “Conforme istruzioni cifrato n. 14 essendo oggi 18 intervenuto nome Augusto Santo Padre
questo Ministro Esteri interinale m’incarica portare a conoscenza Sua Santità che tutti gli armeni
dei territori che rioccupano le truppe turche hanno colle loro famiglie traversato frontiera russa.
Solamente, le truppe turche incontrano negli accennati territori delle bande armene armate che
lottano per la ritenzione di quei luoghi e dove esse hanno commesso le più atroci crudeltà
contro la razza turca. Avendo la stampa turca pubblicato tali atrocità sono pure intervenuto
Nome Augusto S. Padre presso questo Ministro per scongiurare agli armeni nell’Impero
Ottomano questo pericolo; specialmente quello della deportazione di cui essi temevano e per
cui avevano ricorso a questa Delegazione. Ministro Esteri m’incarica di rassicurare anche su
questo punto Santo Padre che tale pubblicazione è stata dal Governo repressa, che nessun atto
ostile sarà commesso contro gli armeni dell’Impero e che la minaccia di deportazione è
destituita di ogni fondamento. Mi aggiunse ancora che Governo è disposto concedere amnistia
armeni Impero. Segue rapporto. Ossequi”.
63
63
A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
cuore, per descrivere queste scene strazianti65 […]Per Tiflis pure vi sono stati parecchi giorni di
panico, durante i quali sono fuggiti verso Vladicaucaso una cinquantina di mila ed anche
adesso continuano ad emigrare […] 66
Intanto i circa 300.000 profughi costretti dalla continua avanzata
dell’esercito turco di Mustafa Kemal – dal 1935 denominato dal Parlamento
Kemal Atatürk, “padre dei turchi”– ad abbandonare l’Anatolia, malati,
affamati, privi di casa e di lavoro, arrivano nell’Armenia russa in condizioni
disastrose e vengono ulteriormente decimati da assideramento e tifo
nell’inverno 1918-1919 (si calcolano circa 200.000 morti). Nella grande difficoltà
delle comunicazioni postali risulta praticamente impossibile l’invio di aiuti ai
cristiani del Caucaso e della Persia attraverso la Russia.
Già nel giugno del 1918, Jacques Manna, vescovo caldeo, informa Gasparri
che il Comitato armeno in Inghilterra, sollecitato da padre Ross, segretario di
Propaganda Fide, è ben disposto a soccorrere i cristiani del Caucaso e della
Persia, ma che non c’è modo di inviare alcun aiuto in quei paesi, dal momento
che le relazioni con gli agenti del comitato erano interrotte a causa degli ultimi
avvenimenti in Russia. Chiede perciò al cardinale se ha un modo sicuro di far
pervenire in quei paesi gli aiuti che il Comitato mette volentieri a disposizione
di tutti i cristiani armeni e siro-caldei67.
Nella minuta autografa di risposta, Gasparri si premura di informare
Manna che la Segreteria di Stato trasmetterà volentieri a mons. Dolci “la somme
d’argente que le dit Comité voudra bien leur destiner”68 e che pregherà lo stesso
mons. Dolci di interessarsi delle sorti dei cristiani in quella regione, nonché di
comunicargli le novità a loro riguardo. Per parte sua, il giorno seguente Dolci
trascrive a Gasparri l’intervista di Ahmed Djevdet Bey69 sulla formazione di
“Kars e Batum totalmente evacuati dagli armeni cattolici: il parroco del primo scappato in
Russia; quello del secondo per ora si trova a Tiflis, come pure il prete di Erzurum, Eighianian;
quello di Trebizonda P. Timoteo, e di Karakaci, Der Agop Mighirdichian”.
66Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, n. 81691, 21 giugno 1918, Tiflis (ricevuta a
settembre) – Kalatosoff e Kapojan a Der Abramian.
67 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244 K12 c, 306, n. 66909, 22 giugno 1918,
Roma – Manna a Gasparri.
68 Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244K12 c, 306, n. 66909, 22 giugno 1918, Roma –
minuta autografa di Gasparri a Manna.
69 Ahmed Djevdet Bey, politico unionista turco, governatore di Van dal 1914 al 1918,
proprietario ed editore di «Ikdam», uno dei più antichi quotidiani di Costantinopoli.
65
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A. Ricci, La Santa Sede
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nuovi Stati nel Caucaso – Azerbajgian, Georgia e Armenia70 - apparsa sul
giornale officioso «Hilal» del 26 giugno, n. 110871.
Gasparri ricorre perciò a circuiti assai complicati per comunicare con Dolci
e inviare denaro: invia un telegramma cifrato a mons. Maglione, rappresentante
della Santa Sede a Berna, perché a sua volta telegrafi a Dolci72; telegrafa anche a
mons. Pacelli, allora Nunzio Apostolico a Monaco, perché si informi presso il
governo tedesco circa la possibilità di inviare aiuti73. Nella sua risposta, mons.
Pacelli comunica a Gasparri che “il governo Imperiale pur dichiarandosi
disposto a trasmettere soccorsi alle popolazioni siro caldee ed armene, dice di
dubitare che, specialmente per la Persia, il mezzo sia di pratica attuazione”74.
Ancora nel 1919 continuano le difficili condizioni di vita, come anche
attesta la lettera del 2 marzo del Padre Denys Kalatosoff, vice Amministratore
Apostolico, che comunica di aver ricevuto un aiuto finanziario da parte del
Pontefice75 in un momento di grande difficoltà per l’insufficienza dei mezzi di
comunicazione:
Pour dire la vérité, cette administration ecclésiastique d’un si vaste pays comme la Russie et
tout le Caucase, se trouve dans de grands embarras par suite du manque de communications,
ne pouvant pas arriver à temps nécessaire, par télégraphe ou par poste, mȇme par le moyen de
voyageurs. Ainsi le prestige et l’Autorité de cette administration va se diminuer de jour en jour,
et ça et là la morale de quelque prȇtre commença à laisser beaucoup à désirer. […]
Kalatosoff ribadisce le miserevoli condizioni della popolazione e
soprattutto del clero, che, derubato di tutto, non ha più nemmeno il necessario
per vivere76; mette in rilievo che i prezzi dei beni di prima necessità aumentano
di giorno in giorno in modo così considerevole che non si sa più cosa fare.
Nel 1917 Azerbajgian, Georgia e Armenia hanno formato la Repubblica federativa di
Transcaucasia; nel 1918 prima Georgia e Azerbajgian e poi, il 28 maggio, l’Armenia proclamano
l’indipendenza: nasce così la prima Repubblica d’Armenia, la Repubblica dell’Ararat.
71 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 576, n. 69471, 26 giugno 1918, Costantinopoli –
Dolci a Gasparri.
72 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244K12 c, 306, n. 66909, 26 giugno 1918,
Roma – minuta autografa del telegramma cifrato di Gasparri a mons. Maglione, rappresentante
Santa Sede a Berna.
73 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244K12 c, 306, n. 68898, 9 luglio 1918, Roma –
telegramma di Gasparri a Pacelli.
74 Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244K12 c, 306, n. 68898, agosto 1918, Monaco –
copia del telegramma cifrato di Pacelli a Gasparri.
75 “Avant hier j’ai reçu la lettre officielle de V.E. datée le 30 Mars 1919 N. 561, et le chèque yinclus de la Banque Fédérale S.A. Zurigo n. 309338/1744 - 29 Mars 1919 – de la Valeur de frs
Suisses 12031,70/00”.
76 Mais plutôt le clergé est tombé dans une misère indescriptible, car la population devenue
pauvre dans le pays dérobés par les soldats et les kurdes ne peuvent plus maintenir leurs
prêtres, qui par plus sont restés privés de tout (avec leur familles, femmes, enfants) n’ayant plus
70
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A. Ricci, La Santa Sede
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Les prix sur les matières de première nécessité: pain, viande, vin pour la messe, cierges,
bougies, allumettes, papier, médicaments, les aliments en général, les chaussures et les
vêtements spécialement, augmentent chaque jour tellement qu’on ne sait plus ce qu’on doit
faire, on perd la tête.[…] 77
Uno stato armeno?
Contemporaneamente la prima Repubblica armena, da poco costituitasi, avvia i
primi contatti diplomatici con la Santa Sede e il 17 luglio 1918 una
rappresentanza armena viene ricevuta da mons. Dolci. Dopo gli iniziali
ringraziamenti “per l’opera del Santo Padre a pro della loro Nazione”, il
discorso si sposta su temi politici. Il Presidente Avetis Aharonian afferma in via
confidenziale che la Repubblica, “benché riconosciuta dal Governo Ottomano,
non trova nessuna simpatia e nessun appoggio presso i rappresentanti delle
Potenze cristiane”; accenna poi ai massacri degli armeni in Turchia e insinua
“che la Germania protegge invece la repubblica georgiana, ed è contraria al
movimento dei Tartari che tendono a fare una politica, non tanto panislamica
quanto panturca, il che altera le relazioni tra la Germania e l’Impero
Ottomano”. Diventa perciò a suo avviso inspiegabile “come la Germania e
l’Austria, queste due grandi potenze cristiane abbiano potuto, non dirò
permettere, ma tollerare la strage degli Armeni; mentre una loro parola avrebbe
potuto salvarli”78. La mancanza della conclusione del documento impedisce di
approfondire la questione della connivenza di Germania e Austria con i
massacri, questione dibattuta da diversi storici79.
de nourriture indispensable, des vêtements, des chaussures etc.», Archivio della Segreteria di
Stato, Russia, 505, n. 1120, 2 marzo 1919, Tiflis – Kalatosoff a Dolci – trasmesso il 16 maggio
1919, Costantinopoli – Dolci a Gasparri.
77 Ibidem.
78 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. […] 61, 18 luglio 1918, Costantinopoli – Dolci a
Gasparri.
79 Ricordiamo innanzitutto Vahakn Dadrian, che dedica un capitolo del suo Storia del genocidio
armeno alla “questione della complicità tedesca”, rifacendosi ai risultati della polemica
storiografica tra Ulrich Trumpener, Germany and Ottoman Empire, 1914-1918, e Artem
Ohandjianian, sostenuto da Christoph Dinkel. Dadrian dedica poi un intero libro all’analisi del
coinvolgimento tedesco nel genocidio armeno, German Responsibility in the Armenian Genocide. A
Review of the Historical Evidence of German Complicity, Watertown (Mass.), Blue Crane Books,
1996. Hilmar Kaiser mette invece in luce la molteplicità e varietà di vedute nel mondo tedesco e
afferma, nel suo Germany and Armenian Genocide. A Review Essay (in «Journal of the Society for
Armenian Studies», 1995, n. 8., p. 132), che “una storia conclusiva del ruolo Tedesco nel
genocidio armeno deve ancora essere scritta”. Wolfgang Gust, nel suo The Armenian Genocide:
Evidence from the German Foreign Office Archives 1915-1916, Ed. Berghahn Books, Oxford, New
York 2013, lavora sui documenti dei rapporti militari conservati e studia le decisioni politiche e
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A. Ricci, La Santa Sede
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La Santa Sede non teme comunque di prendere posizione nei confronti
della Repubblica armena, come dimostrano i dispacci di Dolci a Gasparri che
riferiscono della cordialità anche dei successivi incontri con i delegati della
nuova Repubblica armena e della disponibilità a discutere le questioni religiose
dell’unità spirituale con Roma da parte degli “scismatici convinti”80 quale
opportunità anche di consolidamento politico dell’Armenia. Viene decisamente
apprezzato anche il desiderio del Papa che il Patriarca armeno cattolico o un
suo rappresentante risiedano a Erevan nella nuova Repubblica, come esplicitato
nel cifrato di Gasparri a Dolci del 23 ottobre del 191881.
Questo pronunciamento verrà interpretato dalla Delegazione della
Repubblica armena, dalla Commissione armena, di cui fa parte il Ministro degli
Esteri della nascente Repubblica, dal Patriarca armeno-cattolico di Cilicia, Paolo
Pietro XIII Terzian, e da tutta la stampa della nazione come il riconoscimento
diplomatico della Repubblica da parte del Papa e ciò dimostra la necessità vitale
degli stessi armeni di un sostegno internazionale al loro riconoscimento come
popolo e come Stato. Qualche giornale come il «Giamanak»82 legge infatti in
chiave politica una misura che nasce con carattere pastorale, come riportato
nell’articolo del 30 ottobre 1918 pubblicato appunto dal «Giamanak», che Dolci
trasmette a Gasparri83.
Intanto a Parigi, sede della Conferenza di pace alla fine della guerra,
lavora la Delegazione dell’Armenia integrale, ovvero la doppia delegazione,
formata dalla Delegazione nazionale armena del gruppo di Boghos Nubar, in
militari tedesche nell’Oriente durante la prima guerra mondiale. La Germania mira a negoziare
l’alleanza con il governo dei Giovani Turchi, che intendono servirsi della guerra per annientare
i nemici interni senza il disturbo degli interventi diplomatici stranieri. L’operato degli
ambasciatori tedeschi a Costantinopoli segue perciò unicamente una politica di potenza priva di
scrupoli morali e la Germania si accorda con il governo turco, che vuole risolvere la “questione
armena” attraverso la conquista del suo territorio per la realizzazione dell’ideale del
panturchismo. Evince perciò la connivenza della Germania con la politica turca di sterminio
sociale delle minoranze, che avviene così sotto gli occhi dei tedeschi e in parte col loro aiuto.
Decisamente contrario alla colpevolezza politica o giuridica dei tedeschi, anche se ritenuti
comunque moralmente responsabili, si mostra Aaron Aaronsohn, capo della rete spionistica
sionista NILI.
80 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 81286, 9 luglio 1918, Costantinopoli - Dolci a
Gasparri.
81 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. […], 9 luglio 1918, Costantinopoli - Dolci a
Gasparri.
82 «Giamanak» è ancora oggi il più antico quotidiano in lingua armena; fondato ad Istanbul nel
1908 da Misak Koçunyan, vede la sua prima pubblicazione il 28 ottobre. Molti nomi famosi
della letteratura armena hanno contribuito al giornale. Di proprietà della famiglia Koçunyan fin
dall’inizio, ha attualmente la sua sede al 22, Beyoğlu, Istanbul.
83 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. [?], 4 novembre 1918, Costantinopoli –
Dolci a Gasparri.
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A. Ricci, La Santa Sede
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nome del Patriarcato della Chiesa gregoriana, e dal gruppo di Avetis
Aharonian, un nazionalista del partito del Dashnak, a impronta rivoluzionaria,
che parla a nome della neonata Repubblica armena.
In tale contesto, Mihran Damadian, inviato dal 1917 come rappresentante
in Italia84 della Delegazione Nazionale di Nubar Pascià, ricevuto in udienza da
Gasparri il 20 dicembre 1918, fa il punto sulla “situazione diplomatica della
questione armena” e, come ricorda nella lettera del 3 gennaio del 1919,
sottomette a Roma qualche documento sugli “accords ‘secrets’ relatifs à
l’Arménie et à l’Asie Mineure, intervenus en 1915-16 entre le Gouvernement
tsariste de Russie et les gouvernements anglais et français, dont a été question
en cette audience” [si trattava di articoli della rivista «Armenia» recanti
corrispondenze dal giornale italiano «La Nazione»].
Ces accords, qui étaient effectivement devenus caduques, après l’entrée en guerre des EtatsUnis d’Amérique et la révolution russe – deux événements qui ont prêté à la guerre, en ce qui
concerne le côté des Alliés, le caractère d’une croisade pour le triomphe de la liberté du monde
et du droit des nationalités de disposer librement de leur sort, - ces accords, dis-je, paraissent
maintenant avoir été remis en vigueur et développés entre la France et l’Angleterre, - témoin la
déclaration anglo-français du 8 novembre dernier, dont inclus également copie [non
rintracciata].
Si chiede inoltre Damadian se il cardinale
ne saurait ne pas se rendre compte combien ces accords, s’ils étaient appliqués comme bases du
réglement du sort de la nation arménienne seraient préjudiciables aux intérȇts de l’Arménie, qui
réclame, à juste titre, l’unification de tout son territoire historique, du Caucase à la Méditerranée,
baigné du sang de ses martyrs et de ses héros, pour en constituer un Etat arménien libre et
indépendant sous la garantie internationale des Puissances Alliés et des Etats-Unis d’Amérique ou la
Société des Nations, dès qu’elle serait réalisée.
Di questo testo è rilevante anche il passo con cui si riferisce «de la visite
imminente au Saint-Siège du président Wilson [non risulta sia avvenuta]» e a
nome della Delegazione si chiede che la Santa Sede intervenga presso il
Presidente Wilson, “campione della giustizia e dei diritti dei popoli, grandi e
piccoli” affinché sia fatta totale giustizia alla nazione armena con il
“riconoscimento dei suoi diritti imprescrittibili e con la realizzazione delle sue
rivendicazioni nazionali”85.
Nel 1915 l’Italia è entrata nel primo conflitto mondiale, dichiarando guerra all’AustriaUngheria e alla Turchia; con il telegramma del 9 luglio, l’ambasciatore Camillo Eugenio Garroni
richiama in patria il console generale d’Italia a Trebisonda, Giacomo Gorrini, testimone oculare
della deportazione e dei massacri degli armeni.
85 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 81691, 3 gennaio 1919, Roma – Damadian a
Gasparri.
84
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A. Ricci, La Santa Sede
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Accompagnato da mons. Koyounian, vicario del patriarcato degli armeni
cattolici e da padre Ohannès Torossian, procuratore generale della
Congregazione mechitarista di Venezia, Damadian ricorda che tutti i cristiani
armeni hanno sofferto lo stesso martirio, che tutti hanno dimostrato in modo
irremovibile la loro fede cristiana e il loro attaccamento alla civiltà occidentale,
che sono stati tutti oggetto della stessa sollecitudine da parte del Santo Padre,
che ora sono indissolubilmente solidali in tutto ciò che concerne i supremi
interessi della nazione armena, una e indivisibile86.
Le fonti fanno ritenere che, per conoscenza, venisse inviata copia di un
memorandum indirizzato all’ambasciatore americano presso lo Stato italiano, in
cui la Delegazione Nazionale chiede la liberazione dal giogo straniero di tutti i
territori storici dell’Armenia, il riconoscimento da parte alleata della Repubblica
armena dell’Ararat e la riunificazione nello stesso Stato, degli armeni che
vivono nelle due zone storiche dell’Armenia, ora parte in territorio russo e parte
in territorio turco, più la Cilicia e uno sbocco sul Mediterraneo, ampie zone
dell’Anatolia sud-orientale abitate da musulmani turchi e curdi, la città di Kars
e qualche territorio conteso tra azeri e georgiani. Il nuovo Stato armeno doveva
quindi essere posto sotto la tutela alleata o della Società delle Nazioni, cui si
chiede di partecipare, mentre nei primi vent’anni una potenza occidentale
doveva avere un mandato fiduciario sull’Armenia. In alcune disposizioni
minori si parla anche delle riparazioni turche quale risarcimento per i massacri
e della punizione dei responsabili.
Gli Usa vengono scelti quali mandatari per l’Armenia alla Conferenza di
pace di Parigi; i motivi di tale scelta sono rintracciabili nelle qualità
diplomatiche di Wilson, nella sollecitudine dei diplomatici americani per la
questione armena, nelle organizzazioni umanitarie di aiuto alle vittime della
deportazione, quali il Near East Relief (NER), già American Committee for
Armenian and Syrian Relief (ACASR), operante dal 1919 al 1930. A causa delle
schermaglie tra gli alleati europei, Wilson è indeciso se accettare il mandato
sull’Armenia, nonostante le pressioni dell’American Committee for the
Indipendence of Armenia (ACIA)87.
Nel novembre 1919 il Senato americano respinge il trattato di Versailles e
blocca così l’ipotesi dell’Armenia indipendente. Negli anni fino al trattato di
Losanna gli interessi e i progetti delle potenze occidentali continuano ad
influenzare il futuro dell’Armenia e gli armeni.
Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. [?], 20 dicembre 1918, Roma – Damadian a
Gasparri.
87 Cfr. F. Sidari, La questione armena nella politica delle grandi potenze (dal Congresso di Berlino al
trattato di Losanna 1878-1923), Cedam, Padova, 1962, pp. 132-33, 139-146.
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A. Ricci, La Santa Sede
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Poniamo ora particolare attenzione a quell’importante passo del
memorandum88 circa le considerazioni generali sull’opportunità della
costituzione di uno Stato armeno. Viene messo innanzitutto in risalto che il
motivo principale dei mali dell’Armenia risiede nell’assoluta incapacità dei
turchi di governare, e in particolare di governare le nazioni cristiane, come si è
reso evidente nei disastri e nelle violenze subiti dalle popolazioni loro
sottomesse. L’indipendenza dell’Armenia viene inoltre perorata e giustificata
con la considerazione della posizione geopolitica del paese che si trova su un
altopiano, punto d’incontro in Oriente delle sfere di influenza e delle
dominazioni della Gran Bretagna da un lato e della Germania e della Turchia
dall’altro89.
Si nota infine come, con la caduta dello zarismo e l’entrata in guerra degli
Stati Uniti, si sia aperta la possibilità di una soluzione della questione armena
basata sui principi, proclamati dal Presidente Wilson, di giustizia, d’onore, dei
diritti delle piccole nazioni90.
A tale proposito ricordiamo la lettera che il patriarca armeno mons.
Terzian rivolge a Clémenceau, a Wilson, al Re del Belgio e a Lloyd George, di
cui peraltro ci dà notizia in dettaglio mons. Dolci91. In tale lettera, Terzian si
rivolge in particolare:
Memorandum della Delegazione Nazionale Armena per l’ambasciatore americano a Roma,
Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 84492, 10 novembre 1918.
89 Fin dall’inizio della guerra, le potenze dell’Intesa pensano alla riorganizzazione dei territori
dell’Impero ottomano, attraverso gli accordi di Istanbul (marzo-aprile 1915), Londra (26 aprile
1915), Syket Picot (maggio 1916), S. Jean de Maurienne (19 aprile 1917), Balfour (novembre
1917). In questo gioco diplomatico si inseriscono le speranze dei sopravvissuti e degli armeni,
ma l’armistizio di Brest-Litovsk del dicembre 1917 permette alle truppe ottomane di riprendere
possesso dei territori perduti nel corso della guerra e di quelli ceduti alla Russia nel 1878.
L'Armistizio di Mudros del 30 ottobre 1918 pone fine alle ostilità nel Vicino Oriente tra l'Impero
ottomano e gli Alleati. Alla resa ottomana, le loro restanti guarnigioni al di fuori dell'Anatolia
vengono richiamate; agli alleati viene concesso il diritto di occupare i forti sullo stretto dei
Dardanelli e del Bosforo, e il diritto di occupare "in caso di evenienza" ogni territorio turco in
caso di una minaccia alla sicurezza. L'esercito ottomano è smobilitato, e porti, ferrovie ed altri
punti strategici sono resi disponibili per l'uso da parte degli Alleati. Nel Caucaso, la Turchia
deve ritirarsi sulle frontiere pre-belliche. All'armistizio segue l'occupazione di Costantinopoli e
la successiva spartizione dell'Impero ottomano. Il 10 agosto 1920 segue il Trattato di Sèvres a
definire l'armistizio, ma questo trattato non viene mai applicato a causa dello scoppio della
guerra d'indipendenza turca.
90 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, n. 84492, 10 novembre 1918 – Memorandum
della Delegazione Nazionale Armena per l’ambasciatore americano a Roma.
91 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 105, 3, 5, n.1525, 28 gennaio 1919, Roma – Dolci al card. Marini.
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au représentant de la Noble France dont les armées héroïques ont sauvé la cause des peuples
opprimés, afin que celle-se daigne s’intéresser dans la mesure la plus juste au sort de la Nat.
Arm. et d’en obtenir la complète libération en assurant son indépendance dans les limites
historiquement définies et réclamées par un droit imprescriptible, droit qui ne peut être jamais
étouffé par la puissance et la prépondérance de la tyrannie. L’Arménie majeure, l’Arménie
mineure et la Cilicie forment le trépied sur lequel doit être replacé la nation Arménienne
injustement dépouillée, tyrannisée et menacée d’extermination durant le longs siècles. 92
La missiva sofferma quindi l’attenzione su tre punti importanti per
assicurare l’unità, l’ordine e lo sviluppo della nazione: dal punto di vista
religioso, l’applicazione del principio della libertà di coscienza, che permetterà a
ogni parte religiosa in cui si divide la nazione armena di svilupparsi
liberamente per concorrere al bene generale; una nuova organizzazione
ecclesiale delle province; la disponibilità di risorse quale compensazione degli
enormi danni subiti nel periodo delle deportazioni e dei massacri.
Anche la questione del Karabagh93 viene segnalata in Vaticano da mons.
Dolci, che il 27 giugno 1919 invia al card. Niccolò Marini, Prefetto della Sacra
Congregazione per la Chiesa orientale, copia di un articolo dello stesso giorno
del giornale la «Renaissance»94 circa le stragi di armeni perpetrate dal generale
azero Sultanov. Il quotidiano riporta la notizia per cui:
Suivant les derniers journaux reçus du Caucase, les Tartares de la région de Kharabagh ont
essayé d’organiser des massacres à Chouchi et ses environs. Le 4 Juin sur 50 ouvriers arméniens
qui s’étaient rendus à leur travail dans le quartier musulman de la ville de Chouchi, sept
seulement sont rentrés, le reste a été massacré. Ce massacre a été, suivant certains indices,
organisé par Soultanoff. 95
L’articolo procede poi a descrivere i dettagli dei massacri perpetrati nella
città di Chouchi e nei villaggi di Khaibali, Dahloul, Tchamouchlou e
Gargadjian. Anche Tigran Nazarian, delegato degli armeni del Karabach e del
Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 105, 3, 5, n.1525, 15 gennaio 1919, Costantinopoli – copia della lettera di Terzian a
Clémenceau, a Wilson, al Re del Belgio e a Lloyd George.
93 L’Armenia rivendica alla Conferenza di pace la regione dell’Alto Karabagh, abitata al 95% da
armeni, ma controllata dal generale azero Sultanov, nominato dagli inglesi governatore della
regione nel 1919.
94 «Renaissance» è un quotidiano fondato in Francia dal patriarcato armeno di Costantinopoli,
con lo scopo di difendere gli interessi armeni. Il team editoriale formato da Tigran Chayan,
Garabed Nurian e Dr. Topjian, inizia le pubblicazioni in lingua francese il 9 dicembre 1908 e le
interrompe il 10 febbraio 1920.
95 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 105, 3, 5, n. 2375, 27 giugno 1919, Costantinopoli – Dolci al card. Marini.
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Zangezur alla Conferenza di pace a San Remo96, invia un appello al Papa, in
italiano, perché intervenga presso la Conferenza di pace contro l’unificazione di
Karabach e Azerbaigian, repubblica di nazionalità turca e alleata dei turchi:
Io in qualità di delegato degli armeni di Karabach e di Zangezur protesto contro questo atto
ingiusto e supplico in nome di tutti gli armeni l’augusta intercessione di vostra Santità presso la
conferenza della pace che si radunerà in questo corrente mese a S. Remo per decidere
definitivamente i confini dell’Armenia, che la Provincia Karabach sia legata all’Armenia come è
stata considerata sempre come una parte dell’Armenia. Deh Padre Santo, Voi che con sovrano
gesto e clemenza avete asciugato tante lacrime ai fedeli e desolati abbiate pietà ai miei
compatrioti desolati, non vogliamo che le nostre Chiese e i Conventi Cristiani e le tombe dei
nostri martiri siano contaminate dai barbari turchi nemici giurati del cristianesimo, non
vogliamo che centinaia di migliaia di cristiani armeni rimangano sotto il duro giogo islamico. 97
Le difficoltà con l’Intesa, specialmente con la politica filoazera
dell’Inghilterra, fanno comunque sì che gli armeni sopravvalutino i passi della
Santa Sede, interpretandoli nel senso di un pieno riconoscimento diplomatico.
A tale proposito, già nel 1919, Dolci trascrive a Marini quanto pubblicato su «la
Renaissance» in merito all’opera del Santo Padre per l’indipendenza armena.98
Circa un mese dopo, Dolci trasmette a Gasparri la traduzione testuale del
giornale armeno «Erivan» n. 12, del 17 marzo 1919, in cui si parla del Santo
Padre e della sua opera a vantaggio degli armeni. Il giornale pubblica i ritratti
delle due grandi figure amiche e protettrici della nazione armena, mons. Dolci e
il Santo Papa, raccontandone “quella larga parte ed influenza che essi ebbero
nell’occasione della deportazione degli armeni e dell’indipendenza
dell’Armenia”99 e ripercorrendone le opere di aiuto.
Le discussioni della conferenza di pace vengono spostate da Parigi a Londra nel febbraio del
1920 e proseguono a San Remo dall’aprile del 1920.
97 Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 1, n. 5293, 13 aprile 1920, Roma – Tigran Nazarian
al Papa. Dopo molte trattative, negli anni 1920-1923 viene creato l’Oblast autonomo del
Nagorno Karabach, facente parte della Repubblica Socialista Sovietica Azera. A tutt’oggi il
Karabach è armeno al settanta per cento della sua popolazione, e sottoposto giuridicamente alla
Repubblica dell’Azerbajgian
98 « En faveur de l’indépendance arménienne. Nous apprenons de source autorisée que Sa
Sainteté le Pape vient d’adresser au Président Wilson une lettre autographe pour lui demander
d’intervenir avec toute son autorité auprès le Congrès, afin d’assurer définitivement le
règlement de la question arménienne par l’indépendance de l’Arménie unie et intégrale. Un
membre du Sacré collège a été chargé par S.S. de porter cette lettre à Mr. Wilson ». Archivio
della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso 1896-1926), 106,
4, 3, n. 1667, 24 febbraio 1919, Costantinopoli – Dolci a Marini.
99 Archivio Segreto Vaticano, Guerra 1914-18, 244, 69, n. 90014, 18 marzo 1919, Costantinopoli –
Dolci a Gasparri.
96
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A. Ricci, La Santa Sede
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L’azione della Chiesa alla fine della guerra
La Conferenza di pace di Parigi esprime l’esigenza di punire i responsabili della
guerra e le atrocità commesse nel periodo bellico. Nel frattempo, già nel marzo
1919, il governo liberale di Damad Ferid Paşa cerca l’equilibrio tra le pretese
straniere di sistemazione delle regioni arabe sottoponendole a propri mandati,
come nel caso dell’Inghilterra in Irak. Intanto è nata, come abbiamo visto, nel
Caucaso la piccola Repubblica armena dell’Ararat e il governo turco apre
un’inchiesta parlamentare e prepara procedimenti penali e giudiziari nei
confronti dei capi dell’Ittihad100.
Nel loro intento sanzionatorio, gli alleati perseguono i due obiettivi della
divisione dell’Anatolia e del processo ai colpevoli di crimini di guerra e di
massacri. Tale atteggiamento, che non riconosce i diritti sovrani degli ottomani,
determina il carattere e la politica del movimento d’indipendenza turco, che,
all’epoca, non obietta sulla “punizione” da parte delle potenze vittoriose, ma
che queste vogliano farlo suddividendo l’Anatolia.
Sia il governo di Istanbul che il movimento nazionalista di Ankara –
fondato da ex membri del CUP, che, col suo organo centrale, il Comitato
Rappresentativo, dal dicembre del 1919 aveva ivi stabilito la sua sede– si
considerano infatti eredi dello Stato ottomano e desiderano entrambi una
continuazione della sovranità ottomana sulle aree non occupate in base
all’armistizio di Mudros del 1918. Tale armistizio, firmato dai turchi e dalle
potenze dell’Intesa il 30 ottobre del 1918 a bordo della corazzata britannica
Agamennon, disegnava la riorganizzazione dei territori dell’Impero ottomano
in aree sottoposte all’influenza e al controllo di Francia, Russia, Gran Bretagna,
Italia.
Per contro, il patto nazionale (Misak-ı Milli) è l’espressione scritta
dell’accordo di sovranità tra Istanbul e Ankara, che concordano sulla necessità
di punire i colpevoli dei crimini di guerra e dei massacri secondo la legge
nazionale; respingono però con decisione ogni forma di punizione che implichi
la suddivisione dei territori sovrani dello Stato ottomano, come emerge dai
cinque protocolli allegati alla decisione finale dei colloqui tra i due governi
svoltisi ad Amasya dal 20 al 22 ottobre del 1919101.
Mentre a Parigi gli alleati discutono dell’intervento militare nel Caucaso a
sostegno dell’Armenia e delle altre Repubbliche, in Turchia riesplode il conflitto
Cfr. M. Flores, op. cit., p. 130. Lo storico Akçam mette in rilievo che il desiderio di punire i
turchi per le brutalità commesse è il principale motivo apparente per invocare la suddivisione
dell’Anatolia tra i vari gruppi nazionali secondo i piani delle potenze dell’Intesa per soddisfare i
loro interessi imperialistici.
101 Cfr. T. Akçam, op. cit., pp. 118-193, 209.
100
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tra l’Intesa da un lato e la popolazione e l’esercito dall’altro. Quando, infatti,
nell’aprile del 1919 le truppe italiane sbarcano ad Adalia (Antalja in turco) e nel
maggio quelle greche a Smirne, il movimento nazionalista turco vede in questo
sbarco nemico la minaccia di spartizione dell’Anatolia e iniziano così una serie
di atrocità che culminano con la distruzione della parte turca di Adalia, in cui si
riconosce la responsabilità dei greci102. Contemporaneamente il generale
Mustafa Kemal riorganizza l’esercito e tenta la pacificazione dell’Anatolia;
rianima anche le forze di resistenza allo straniero e allo stesso governo in carica.
Nel corso del 1919 organizza congressi a Erzurum e a Sivas, incontra
persone da tutta la Turchia e si pronuncia contro uno Stato armeno
indipendente dando vita alla Lega per la difesa dei diritti in Anatolia e Rumelia;
inoltre sposta ad Ankara il suo quartier generale. Riprende così in mano il
vessillo del nazionalismo turco che implica la liquidazione dei resti della
presenza armena e lancia la parola d’ordine: “nemmeno un pollice d’Anatolia
sarà ceduto ai greci e agli armeni”103.
Riprende pertanto il tutta la sua asprezza il confronto fa i due popoli,
motivando nuovamente la Santa Sede ad intervenire. A riprova, diversi giornali
armeni, come il «Vercin Lur» (L’ultima novella), nel n. 1523 del 18 marzo del
1919104, o il «Nor Ghiank», nel n. 153 del 27 marzo dello stesso anno 105 danno
notizia dei rinnovati massacri contro gli armeni. In essi si dà peraltro conferma
dell’opera di mons. Dolci e del Santo Padre per scongiurarli. Importanti e
decisivi sono anche gli aiuti economici da parte della Santa Sede in un momento
di grande desolazione per il clero armeno e per tutta la popolazione106.
Tutti questi avvenimenti destano intensa preoccupazione tra i cristiani di
Turchia, come si evince dalla lettera di mons. Dolci a Gasparri, in cui si palesa
anche la preferenza della Santa Sede per l’indipendenza delle piccole
Repubbliche del Caucaso in funzione antisovietica:
Durante la conversazione con l’Ammiraglio inglese [l’Alto commissario Robert], si parlò pure
dell’indipendenza dell’Ucraina, della Georgia e dell’Armenia. Le mie impressioni furono che si
desidera nuovamente una grande Russia e non sembrano [Francia, Italia e Inghilterra] ben
disposti per l’indipendenza di quegli stati specialmente della Georgia e dell’Ucraina. La ragione
Cfr. D. Bloxham, The Great Game of Genocide. Imperialism, Nationalism, and the Destruction of the
Ottoman Armenians, Oxford University Press, Oxford, 2005, pp. 149-150.
103 Citato in M. Carolla, La Santa Sede e la questione armena (1918-1922), Mimesis, Milano 2006, p.
27.
104 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra 1914-18, 244, 69, n. 90034, 18 marzo 1919,
Costantinopoli – Dolci a Gasparri.
105 Cfr. Archivio Segreto Vaticano, Guerra 1914-18, 244, 69, n. 89948, 28 marzo 1919,
Costantinopoli – Dolci a Gasparri.
106 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Russia, 505, n. 1120, 16 maggio 1919, Costantinopoli –
Dolci a Gasparri.
102
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politica che si adduce è che questi piccoli stati potrebbero essere facilmente soggiogati
dall’influenza tedesca. Io ho energicamente difeso la loro indipendenza, dimostrando che la
risurrezione della grande Russia sarebbe il più grave errore che l’Europa commetterebbe. Fui
indotto a prendere questa difesa perché ritengo che sarebbe un gravissimo danno per i nostri
alti interessi religiosi la ricostituzione del colosso moscovita […] 107
Antonio Delpuch, Visitatore apostolico
La Santa Sede ha intanto inviato, nel settembre del 1919, un Visitatore
Apostolico a Erevan per una missione di carattere esplorativo sullo stato del
Caucaso e sulla possibilità di stabilire contatti con le tre repubbliche
transcaucasiche108, al fine di riorganizzare la vita religiosa della consistente
minoranza cattolica. Il religioso prescelto è Antonio Delpuch, dei Padri Bianchi
francesi (Missionari d’Africa), vice-presidente della Sacra Congregazione della
Chiesa Orientale, creata da Benedetto XV a maggio del 1917 attraverso la
sottrazione della sezione delle Chiese Orientali dalla giurisdizione di
Propaganda Fide. La documentazione vaticana che lo riguarda risulta istruttiva.
Scrivendo da Erevan, nella lettera indirizzata ad Alexander Khatissian,
presidente dal 1919 al 1920 della prima Repubblica armena, oltre che capo del
governo e ministro degli Esteri, responsabile perciò della politica estera del
paese, Delpuch parla dell’interesse e della simpatia del Papa per il popolo
armeno e anche del desiderio del Papa per una patria libera e indipendente, in
cui il popolo armeno possa vivere in pace, sviluppando le sue ammirevoli
capacità lavorative e organizzative. Chiede quindi la reciprocità della
benevolenza nel fatto che lo Stato assicuri la libertà religiosa, sia per il culto e
sia per la vigilanza pastorale sui cattolici armeni, consistente minoranza
nazionale, oltre che per la possibilità di costruire strutture come ospedali,
orfanotrofi e strutture per l’insegnamento della lingua e della storia
nazionale109.
Nella sua risposta, Khatissian rassicura Delpuch che in Armenia è
ammessa la libertà di coscienza e che tutte le confessioni religiose sono
liberamente esercitate; offre quindi tutte le facilitazioni richieste dalle autorità
religiose cattoliche per l’esercizio del loro ministero apostolico 110.
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 117, n. 10228, 2 ottobre 1919, Costantinopoli – Dolci a
Gasparri.
108 Le tre Repubbliche transcaucasiche sono quelle di Azerbajgian, Georgia e Armenia, che
hanno formato nel 1917 la Repubblica federativa di Transcaucasia e hanno dato vita, nel
febbraio del 1918, a Tiflis, al Seim, un corpo legislativo regionale.
109 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, n. 3643, 21 ottobre 1919, Erivan – Delpuch al
Presidente e Ministro degli Esteri armeno Khatissian.
110 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, n. 3643, 3 novembre 1919, Erivan –
Alkhatissian e Ter Akopian a Delpuch.
107
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Nel suo rapporto a mons. Isaia Papadopoulos, vescovo di Costantinopoli
dal 1912, chiamato nel 1918 da Benedetto XV come primo assessore della Sacra
Congregazione della Chiesa Orientale, Delpuch nota che tutte le persone più
responsabili di qualunque classe sociale – dal Segretario di Stato agli Affari
Esteri al Presidente della Repubblica, al Delegato del Comandante del luogo,
all’Alto Commissario Alleato, al Generale delle truppe armene, Nazarbékof, al
Patriarca, agli arcivescovi di Erevan e di Tiflis – ebbene tutti guardano a Roma
come a un sostegno e a un modello insostituibile, riconoscendo “la superiorité
incontestée du Catholicisme, l’intensité de sa vie religieuse, sa culture élévée,
son empire sur les âmes, sa vertu éminemment moralisatrice”111.
Nel salutare il presidente armeno Khatissian, prima di rientrare in Italia
nel gennaio del 1920, padre Delpuch gli assicura l’amicizia e l’affetto del Papa
verso l’Armenia e il suo popolo; un popolo che, fedele alla sua tradizione
cristiana, aveva eroicamente sopportato indicibili sofferenze per questa sua
appartenenza. Il Papa perciò avrebbe appoggiato con tutti i mezzi le nobili e
legittime aspirazioni all’indipendenza di un popolo che “mérite de prendre sa
place au milieu des peuples libres”112.
Nella sua lunga ed esauriente relazione alla Congregazione della Chiesa
Orientale, Delpuch rileva che il governo armeno del partito del Dashnak è un
governo laico che non opprime però la libertà religiosa della Chiesa apostolica
armena e che anche lo Stato ha scopi eminentemente politici e patriottici, e che
perciò gode dell’appoggio della Chiesa apostolica. Con preoccupazione nota
anche però che i dirigenti politici armeni sono in conflitto tra loro e che l’unico
fattore di unità è l’avversione per i secolari persecutori musulmani, i vicini
turchi e azeri. Non solo, perché anche tra armeni e georgiani, due popoli
cristiani, la divisione è profonda.
Pertanto, proprio per porre fine alle sue sofferenze, l’Armenia ritiene
necessario e in parte risolutivo il riconoscimento internazionale della
repubblica; lo stesso sperano anche Georgia e Azerbajgian, pur avendone forse
meno bisogno per la sopravvivenza del popolo; inoltre, prosegue Delpuch, la
Conferenza di Parigi non ha ancora, alla fine del ’19, riconosciuto de jure le tre
repubbliche, mentre ha ambiguamente riconosciuto de facto solo Georgia e
Azerbajgian; e perciò, nella loro grande amarezza, gli armeni sperano a maggior
ragione nel riconoscimento pontificio. Alla fine del suo rapporto, il religioso
mostra come l’invio, da parte della Santa Sede, di un Visitatore Apostolico,
ovvero un rappresentante ufficioso residente a Tiflis, possa costituire, in via
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, 83, n. 3643, 21 novembre 1919, Tiflis – Rapporto
di Delpuch a Papadopoulos.
112 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 2, 3, n.3228, 27 novembre 1919, Tiflis – Delpuch a Khatissian.
111
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temporanea, il mezzo migliore per accogliere le richieste delle repubbliche
transcaucasiche, evitando al contempo gelosie e risentimenti. Il mezzo migliore
anche per dare alla regione un assetto ecclesiastico conforme alle esigenze della
Chiesa113.
La relazione, corredata da osservazioni sullo stato religioso della regione,
viene accolta molto positivamente da Roma: il Prefetto di Propaganda Fide,
cardinale Van Rossum, in una relazione di commento per i vertici vaticani,
condivide e accetta tutte le proposte di Delpuch114. Di fatto, come vedremo, la
Santa Sede, seguendo i suggerimenti di Delpuch, invierà nel Caucaso un nuovo
Visitatore Apostolico. Nella lettera che Delpuch scrive a Dolci in data 12
novembre 1920, viene messa in rilievo la necessità da parte vaticana di
interventi concreti in favore degli armeni, sia dal punto di vista religiosomissionario che politico, visto il prestigio di cui gode la Santa Sede e il
contemporaneo proselitismo che varie sette protestanti americane stanno
facendo in Armenia115. Gasparri quindi si affretta a ringraziare il Presidente
armeno, a ribadire la speranza che l’Armenia tuteli i diritti della Chiesa cattolica
locale e le permetta di svolgere la sua benefica attività, a confermare l’augurio
del Papa per ogni progresso morale e materiale della nazione116. Il risultato della
missione di Delpuch dimostra la disponibilità dei governi locali a lasciare
libertà d’azione alla Chiesa cattolica.
Intanto, nel gennaio del 1920, la Santa Sede può favorire la causa armena
anche nella Conferenza di Parigi, dove si recano sia il Patriarca apostolico degli
armeni di Turchia, Zaven I Der Yeghiaian, sia il vescovo dell’eparchia di
Trebisonda degli Armeni, mons. Giovanni Naslian, rappresentante degli armeni
cattolici alla Conferenza di Parigi e instancabile attivista della causa armena.
Infatti, il card. Gasparri, sollecitato a dare l’autorizzazione alla presenza a Parigi
anche del Luogotenente del patriarcato armeno-cattolico, Agostino Sayeghian,
per un’azione più coordinata e più efficace117, permette a mons. Naslian di
Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 2, 3, n. 3516 [pp. 6-13], [forse gennaio ‘20] – Relazione di Delpuch alla Sacra
Congregazione Chiesa Orientale.
114 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 2, 3, n. 3825 , [data?] – Relazione del card. Van Rossum sul rapporto Delpuch.
115 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 2, 3, n. 3172, 13 gennaio 1920, Costantinopoli – Dolci a Marini.
116 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, n. 3643, 15 gennaio 1920, Roma – minuta
autografa di Gasparri al Presidente armeno Khatissian.
117 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. 1066, 20 gennaio 1920, Costantinopoli –
telegramma cifrato di Cesarano a Gasparri.
113
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parteciparvi, al posto di Sayeghian, per non lasciare scoperta l’amministrazione
ecclesiastica del patriarcato118.
Nel suo appello alla Francia cattolica, il 12 marzo, mons. Naslian ricorda
che:
tous les arméniens catholiques et non-catholiques sans distinction ayant souffert ensemble de
terribles persécutions et subi d’atroces massacres, autorisés par le gouvernement ottoman,
organisés par le Jeunes Turcs et exécutés par les musulmans, avec un raffinement de cruauté
rebutant.
Il monsignore esalta inoltre l’amicizia e l’alleanza tra Armenia e Francia,
riportando le parole di una lettera del Presidente Raymond Poincaré al
patriarca degli armeno-cattolici in cui affermava che “l’Arménie n’a jamais
douté de la France comme la France n’a jamais douté de l’Arménie; […] Après
avoir supporté ensemble les mêmes souffrances pour le triomphe du Droit et de
la justice, les deux Pays peuvent aujourd’hui communier dans la même
allegresse et la même fierté”. Riassume infine, sulla falsariga delle richieste
della delegazione armena alla Conferenza di pace di Parigi, i desideri della
nuova Repubblica:
I. Délivrance définitive de la Nation Arménienne du joug musulman, en lui reconnaissant
une indépendance et en la constituant en état libre.
I. Récupération des territoires historiques de l’Arménie dans les limites aussi larges que
possible. a) avec un débouché sur mer, indispensable pour sa vie économique. b) Frontières
limitrophes à la zone d’occupation française, ce qui nous garantirait la sécurité et nous
préserverait de toute attaque éventuelle.
III. Retour à leur religion chrétienne des Arméniens convertis de force à l’Islamisme.[…]
119
A sostegno delle sue richieste Naslian invia un memorandum al premier
Georges Clemenceau: gli fa presente innanzitutto le comuni rivendicazioni
della Delegazione nazionale armena, quindi gli espone il desiderio del
patriarcato armeno-cattolico di una speciale protezione francese nei confronti
della Chiesa cattolica armena, accompagnato dalla richiesta di aprire in
Armenia scuole e Università, di offrire borse di studio in Francia per i giovani,
di aiutare la ricostruzione delle diocesi devastate dai turchi, di assicurare agli
Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. 1066, 28 gennaio 1920, Roma – Gasparri
a Cesarano.
119 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. [?], 12 marzo 1920, Parigi – Naslian
all’opinione pubblica cattolica francese. Parla anche della liberazione delle donne e dei bambini
armeni ancora prigionieri; delle facilitazioni per il rimpatrio degli scampati ai massacri e ora
dispersi in Asia Minore, Mesopotamia, Siria, Arabia ecc.; del disarmo dei turchi e delle garanzie
di vita per gli armeni; della restituzione dei beni o dell’indennizzo da parte dei turchi ai singoli
e alle comunità religiose armene.
118
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armeno-cattolici il recupero dei beni pubblici e privati e degli indennizzi dovuti
dalla Turchia; promette in cambio di coordinare gli interessi del Patriarcato
armeno cattolico con quelli francesi120.
Clemenceau però non risponde al suo appello.
Le richieste di aiuto da parte armena
Il 5 aprile 1920, Naslian trasmette a Gasparri, in allegato, un importante
documento, che doveva far parte del successivo trattato, e consegnato ai
delegati armeni: è lo Schema di Trattato redatto dalla Conferenza di Londra per
la Delegazione Armena, che riguarda l’insieme degli obblighi del governo
armeno inerenti le minoranze etniche o religiose e le preferenze economiche e
doganali da accordare ai membri della Società delle Nazioni. La Delegazione
discute e approva il progetto quasi integralmente, in quanto “nell’insieme […]
sono molto liberali e larghe le disposizioni prese”; aggiunge tuttavia una
clausola all’art. 5 sul diritto di controllo da parte del governo armeno sugli
istituti contemplativi121. Per parte sua, il cardinale Gasparri rassicura il
Presidente della Repubblica armena, Avetis Aharonian, presente alla
Conferenza di pace, circa il continuo interessamento papale per tutte le
questioni che riguardano l’Armenia122.
La situazione dell’Armenia però non migliora e permangono, a suo
riguardo, i contrasti tra le potenze alleate, che spostano le discussioni da Parigi
a Londra nel febbraio e quindi a San Remo, che conclude i lavori il 26 aprile del
1920 con una proposta di trattato di pace che affida la delimitazione dei confini
tra Turchia e Armenia all’arbitrato del presidente Wilson (provvisoriamente le
frontiere rimangono quelle esistenti), mentre il Consiglio degli Alleati, dopo
l’arbitrato americano, avrebbe tracciato i confini tra l’Armenia e le altre due
Repubbliche caucasiche, se non ci fosse stato un accordo tra i tre interessati123.
Mons. Naslian si fa interprete della delusione degli armeni nel vedersi
abbandonati a se stessi proprio mentre i kemalisti minacciano la Repubblica con
l’appoggio dei russi e dell’Azerbajgian sovietico. Stando alle sue parole:
Gli affari d’Armenia non sono consolanti: nel Caucaso si minaccia l’esterminio definitivo di tutti
i superstiti armeni, i mezzi di difesa mancano ed i Tartari d’accordo con i Turchi sono decisi di
Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. [?], 13 marzo 1920, Parigi – Naslian al
Ministero degli Esteri francese.
121 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. 5288, 5 aprile 1920, Roma – Naslian a
Gasparri.
122 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 2, n. 4764, [?] aprile 1920, Roma – Gasparri ad
Aharonian.
123 Cfr. F. Sidari, op. cit., p. 195.
120
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schiacciarli e forse già stanno in opera, così che prima della soluzione diplomatica della
queszione [sic] si deplorerà forse la soluzione a la turca[…] 124
Anche il governo ottomano manifesta malumore verso l’oneroso trattato
di pace, in un momento in cui sta perdendo ascendente sul popolo e Mustafa
Kemal lo sta acquistando. Mons. Dolci raccoglie a Costantinopoli tale malumore
e riferisce al card. Gasparri di essere stato convocato dal Gran Visir, Damad
Ferid Paşa, per un parere sul trattato, da rendere pubblico nel caso fosse
“favorevole alla sovranità ed indipendenza dello Stato Ottomano», insieme
all’ulteriore richiesta di «intervento del Santo Padre presso le Potenze firmatarie
del trattato per modificarne le condizioni”. Dolci risponde, seppure spiacente,
che “l’ordine categorico” dei suoi superiori vietava ai rappresentanti all’estero
della Santa Sede di “accordare interviste e di esternare pubblicamente un
giudizio qualsiasi sovra ogni sorta di avvenimenti politici”125.
Chiaro e deciso è d’altro canto l’atteggiamento vaticano nei confronti delle
nuove richieste di aiuto da parte armena, per cui Nubar si rivolge al Papa l’8
giugno 1920126. Il quale Papa Benedetto incarica Gasparri di raccomandare
prontamente la soddisfazione dei desideri armeni al conte John Francis de Salis,
inviato straordinario e ministro plenipotenziario di Sua Maestà britannica
presso la Santa Sede.
Quindi Gasparri redige con fermezza la nota dell’8 luglio 1920, diretta al
governo inglese affinché, nella sua tradizione filoarmena, assicuri allo Stato
armeno frontiere tali da non rischiare l’annientamento da parte dei vicini popoli
islamici.
È qui evidente il deciso e forte pronunciamento della Santa Sede a favore
degli armeni; è parimenti evidente, specialmente nel richiamo alla fedeltà ai
suoi impegni, il monito all’Inghilterra a non lasciarsi guidare da considerazioni
esclusivamente utilitaristiche, entrando fin nel dettaglio della tutela delle
Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 2, 3, n. 4363, 27 maggio 1920, Parigi – Naslian a mons. (Papadopulos ?). Naslian
aspetta il rapporto del Capitano Poidebard da Erivan per esporre al Santo Padre i casi
catastrofici a seguito dell’invasione bolscevica e cercare, col suo intervento, di prevenire il
disastro.
125 Archivio della Segreteria di Stato, Austria, 576, n. 7232, 1 giugno 1920, Costantinopoli – Dolci
a Gasparri. Rispetto alla richiesta dell’intervento del Santo Padre, afferma con sicurezza che «il
S. Padre, per il principio di neutralità da Lui scrupolosamente osservato, e per la grave offesa di
essere stata esclusa la sua altissima autorità dalla Conferenza della Pace, si trovava
nell’impossibilità di aderire alla sua preghiera». La Santa Sede, tramite la risposta del Segretario
di Stato, approva la riservatezza di Dolci. Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Austria, 576, n.
7232, 18 giugno 1920, Costantinopoli – minuta autografa della risposta di Gasparri a Dolci.
126 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1 ,n. 8131, 8 giugno 1920, Parigi – Boghos
Nubar al Papa.
124
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frontiere per difendere le persone e l’indipendenza della Repubblica armena,
che altrimenti si sarebbero trovate nell’impossibilità di ricevere qualunque tipo
di aiuto. Gasparri scrive che il Santo Padre ha ricevuto una lettera dal:
Président de la Délégation Nationale Arménienne auprès de la Conférence de Paix, […] dans
laquelle il expose le dangers qui menaceraient de nouveau ce peuple, déjà si cruellement
éprouvé au cours de sa douloureuse histoire, si le pays qui lui est assigné était restreint dans ces
limites et enfermé comme dans un cercle par des pays à populations non chrétiennes, ennemies
séculaires de la nation arménienne. […] 127
Lo stesso Gasparri informa quindi Nubar di aver comunicato il contenuto
della sua lettera al ministro d’Inghilterra pregandolo “de vouloir bien attirer
l’attention de son Gouvernement sur les dangers qui menaceraient la noble et
généreuse nation arménienne du fait des limites politiques qu’on se propose de
lui assigner”128.
Da parte alleata non arrivano però al Papa risposte concrete e le sorti
dell’Armenia peggiorano rapidamente sotto l’assalto dei kemalisti e
dell’Armata Rossa, mentre il 1. giugno il Senato americano rifiuta il mandato
sull’Armenia. Intanto l’attacco greco in Asia Minore contro Kemal non
risparmia Erevan.
Respinte alla Conferenza di Spa le proteste turche sul trattato di pace, la
fermezza alleata costringe i turchi a firmare il trattato di Sèvres il 10 agosto
1920129, non ratificato dal Parlamento di Costantinopoli e rifiutato da Kemal, che
ordina l’invasione dell’Anatolia nord-orientale, cioè dell’Armenia occidentale.
Davanti all’assalto turco alla Repubblica armena, già il 23 ottobre il
Patriarca cattolico armeno di Cilicia, Paolo Pietro XIII Terzian, temendo il
peggio, sollecita un ulteriore intervento della Santa Sede, trasmettendo al
Segretario di Stato un altro appello di Boghos Nubar al Papa (probabilmente
una nota storica rivolta al governo francese e poi per conoscenza a Benedetto),
dal momento che le grandi potenze non rispondevano ai reiterati appelli e non
si muovevano a protezione dell’Armenia.
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57,1, n. 8131, 8 luglio 1920, Roma – minuta autografa
di Gasparri al Conte di Salis.
128 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57,1, n. 8132, 9 luglio 1920, Roma – minuta autografa
di Gasparri a Nubar.
129 Tale trattato impone l’internazionalizzazione degli Stretti, la cessione della Tracia con
Gallipoli, delle isole egee, esclusa Rodi, di Smirne col suo retroterra alla Grecia, il mandato sulla
Siria e sulla Cilicia alla Francia, quello sull’Iraq, la Palestina e l’Arabia all’Inghilterra; il
passaggio di Rodi e del Dodecanneso all’Italia, di Cipro e dell’Egitto all’Inghilterra. L’Armenia
diventa indipendente; i suoi confini li avrebbe stabiliti il presidente Wilson in un secondo
tempo.
127
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Nella nota storica di Nubar si rammentano i principali fatti che hanno
visto armeni e francesi combattere insieme contro i turchi prima e poi contro i
kemalisti nella Cilicia occupata dai francesi; viene deplorato l’abbandono della
Cilicia ai turchi e alle loro rinnovate persecuzioni; viene con forza richiesta
l’autonomia amministrativa della regione sotto il controllo o la protezione
francese per garantire la vita e la sicurezza a 270.000 cristiani del paese,
evidenziando come, al contrario, il ritiro delle truppe francesi porterebbe alla
rovina completa la popolazione cristiana della regione130. Mons. Terzian avverte
anche delle deportazioni di massa che i turchi stanno effettuando, proprio come
nel 1915.
In questi tristi giorni siamo assai dolenti per i recenti avvenimenti dall’Asia Minore e di Cilicia,
che i giornali celano. In questa stagione migliaia di armeni si mandano dalla loro città ai paesi
lontani per mezzo dei kemalisti, da Kutahia, da Eskischir, da Bilegin, ecc.ecc. e dall’altra parte si
cede in Cilicia ai turchi. Questa povera nazione armena si avvicina alla sua ultima rovina e
sterminio […] 131
Sia il 6 che il 28 novembre Gasparri rassicura Terzian circa il costante
interessamento del Papa per l’Armenia132. La Santa Sede continua infatti a
tenersi informata sulla situazione armena, ricevando conferma, come si evince
dai documenti, delle sanguinarie vicende che in essa ebbero luogo.
Il 21 novembre 1920, mons. Naslian scrive a mons. Cerretti, all’epoca
Sostituto della Sacra Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari
(AA.EE.SS.), illustrando innanzitutto la situazione in Armenia, dove i cristiani
sono minacciati e oppressi nella Cilicia abbandonata dalla Francia, nonché
perseguitati nei paesi occupati dai kemalisti:
per necessità rinchiusi in recinti pubblici delle chiese, presbiteri e scuole a migliaia, vi restano
condannati a perire senza poter sortire, e sottoposti alle più barbare prove con ogni sorta di
attentati all’onore ed alla fede delle famiglie cristiane.
Tant’è che a suo avviso:
S’impone quindi un efficace intervento dell’Augusto Pontefice di cui la voce autorevole
commoverebbe opportunamente il mondo civile a favore di questa nazione e suo neonato
Governo, così ingiustamente aggrediti da bande congiurate nell’odio anticristiano ed
antieuropeo contro ogni elemento d’ordine e di cristiane convinzioni.
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57,1, n. 13508, 10 ottobre 1920, Parigi – nota storica di
Nubar.
131 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, n. 19169, 20 ottobre 1920, Parigi – lettera autografa
di Terzian a Gasparri.
132 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, n. 13138, 6 novembre 1920, Roma – minuta di
Gasparri a Nubar; Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, n. 13163, 28 novembre 1920, Roma
– Gasparri a Terzian.
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
In un allegato Naslian specifica le richieste di aiuto alla Santa Sede. In
primo luogo analizza la grave situazione in Cilicia a maggioranza cristiana e
armena, per cui chiede la tutela dei 270.000 profughi ritornativi dopo i massacri,
osservando che l’Intesa, se avesse voluto, sarebbe riuscita a imporre alla
Turchia il rispetto dei diritti armeni dovunque. Suggerisce inoltre pressioni
diplomatiche sui paesi occidentali per «sollecitare gli aiuti necessari a
scongiurare l’annientamento dell’Armenia» e sui kemalisti per invitarli alla
moderazione. Punta in aggiunta sul Partito Popolare Italiano per un’azione di
governo solidale con l’Armenia. Afferma infine che per la pace nel mondo è
necessario rompere l’alleanza tra turchi kemalisti e Russia bolscevica133.
Sia Naslian che Terzian si mostrano profondamente ostili sia ai bolscevichi
che a Kemal, i quali in un anno hanno perpetrato numerose stragi di armeni e di
altri cristiani cattolici.
Mons. Moriondo e la missione nel Caucaso
Nel frattempo, la Santa Sede, seguendo i suggerimenti di padre Delpuch,
nomina mons. Natale Gabriele Moriondo, vescovo di Cuneo e domenicano,
Visitatore Apostolico nel Caucaso, dove arriva prima del 12 novembre 1920,
data di una sua prima relazione a Roma sulla situazione generale e sulla sua in
particolare, peraltro non rintracciata nel corso della presente ricerca
documentaria.
Prima di proseguire varrà tuttavia la pena di ricordare quale sia stata la
vicenda politica dell’Armenia dopo il trattato di Sèvres.
Il 23 settembre del 1920, l’esercito turco, al comando del generale Kâzım
Karabekir, luogotenente di Mustafa Kemal, inizia l’assalto alla Repubblica
armena; il 7 novembre gli armeni capitolano; il 29 novembre un comitato
rivoluzionario armeno proclama a Icevan la nascita della Repubblica Socialista
Sovietica Armena; il 2 dicembre il trattato armeno-turco di Alexandropol
(sottoscritto ancora dalla prima repubblica) riporta i confini turchi al 1878. Il 6
dicembre l’Armata Rossa entra a Erevan, il partito bolscevico instaura la
dittatura. Così nata, la seconda Repubblica dell’Armenia, o “Repubblica
socialista indipendente”, con la sua piccola porzione di territorio in
Transcaucasia, conosce una graduale sovietizzazione: i gravi scontri della
guerra civile vedono opporsi i comunisti del Comitato rivoluzionario, che
impongono il durissimo “comunismo di guerra”, e i membri del Dashnak, i
quali cercano di resistere prima di essere duramente perseguitati. Intanto gli
armeni della Cilicia sono fuggiti verso la Siria, l’Egitto, la Grecia, i Balcani.
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, n. 13508, 21 novembre 1920, Roma – Naslian a
Cerretti.
133
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Con l’introduzione della NEP, anche l’Armenia potrà avvalersi, tra il 1921
e il 1928, di una certa liberalizzazione economica, che rafforza l’agricoltura e
cerca di aprire agli scambi commerciali con i paesi confinanti. Inoltre, fra il 1922
e il 1926, l’Armenia costituisce con la Georgia e l’Azerbajgian l’Unione Federata
delle Repubbliche della Transcaucasia, diventando poi, con la nuova
Costituzione sovietica, una delle repubbliche federate dell’URSS.
Riprendendo la narrazione in merito al ruolo della Santa Sede, nella lettera
del 18 dicembre 1920, indirizzata probabilmente al card. Nicolò Marini, prefetto
della Congregazione della Chiesa Orientale, il Visitatore Moriondo riferisce
sulla situazione, gravemente compromessa dal punto di vista politico-militare
per i gravi avvenimenti che hanno portato alla caduta del governo dei Dashnak
di Erevan. Sottolinea infatti:
la disfatta dell’Armenia, per opera dei kemalisti, e la caduta di essa in mano d’un governo
bolscevico; la vittoria dell’armata bolscevica sulle truppe del Gen. Wrangler in Crimea, e il
fallimento completo della rivolta, che i partiti avversi tentarono contro il regime bolscevico, nel
Kuban e nel Daghestan […].
Dal punto di vista economico, aggiunge, un’inflazione galoppante porta
ad una situazione in cui «la miseria pubblica è indescrivibile»; del resto anche
“la situazione religiosa soffre naturalmente di tutti questi mali, i quali non solo
non impediscono di migliorarla, ma la rendono ognor più critica […]”. Il
Governo georgiano intanto comincia a metter la mano sui beni religiosi134.
Niente da fare, Moriondo si mostra profondamente pessimista sul futuro
della Chiesa nel Caucaso, al punto da ritenere inopportuno e quindi
sconsigliabile l’invio di missionari, che non avrebbero la possibilità di lavorare
in una situazione economica disastrosa, con una prospettiva incerta e
scoraggiante. Conclude, sostenuto dal “parere delle personalità politiche e
diplomatiche europee che qui si trovano [e dalle] stesse notizie che la stampa
europea dà di queste regioni”135, con la denuncia dell’inutilità della sua
permanenza sul posto. Ragione per cui prega la Congregazione della Chiesa
Orientale di richiamarlo in patria il prima possibile, dal momento che
qualunque tentativo gli appare precluso. Il Papa però lo esorta a rimanere nella
regione quanto più a lungo possibile136.
Nelle stesse contingenze, tenendo conto della caduta la Repubblica
armena dei Dashnak, mons. Naslian invia alla Santa Sede delle osservazioni in
Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 2, 3, n. 4999, 18 dicembre 1920, Tiflis – Moriondo al card. (Marini?).
135 Ibidem.
136 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 3, 5, 2,n.5313, 10 febbraio 1921, Tiflis – Moriondo al Papa.
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
merito al trattato di Sèvres e alla possibilità di salvare ancora la nazione o
almeno di difendere gli interessi cattolici, confidando sempre nell’aiuto
occidentale. Dopo un attento esame della situazione, il prelato invoca la tutela
della nazione armena, sia in termini di sopravvivenza fisica del popolo, sia in
merito alla necessità che esso si mantenga come Stato indipendente, i cui
territori comprendano quelli dell’Armenia turca e dell’Armenia russa e che
abbia uno sbocco sul mare.
La sua descrizione della situazione dell’Armenia occupata dai turchi e non
solo si esprime con toni drammatici:
1 - L’Armenia si trova oggi in stato d’invasione, e ne subisce le tristi e disastrose conseguenze,
analoghe a quelle del tempo di guerra; le popolazioni rifugiatevi, che insieme a quelle del paese
formavano un considerevolissimo numero di armeni, sono in via d’esterminazione un’altra
volta; la gioventù in specie è implacabilmente condannata a morte dai Turchi invasori con i
medesimi artificii dei passati massacri: altri passati a fil di spada addirittura, altri messi fuori
d’abitazione nudi e senza ristoro, gelano vivi sotto l’intemperie del freddo intenso di 24 gradi
sotto il 0; altri, relegati nei centri turchi dell’Anatolia, è facile supporre come possano essere
trattati. Le poche notizie pervenute confermano ciò […]
Pertanto:
22 – Per i Cattolici bisogna che la S. Sede trovi modi di assistenza nel ricupero dei Beni
Ecclesiastici, onde non vengano negati ed appropriati dai Turchi, o usurpati dai non-cattolici,
più forti sempre in tali contingenze, o dai Laici sotto nome di Beni Nazionali […] 137
Naslian si mostra in definitiva pessimista circa il futuro del proprio paese,
sia perché la Società delle Nazioni non prende decisioni efficaci, sia perché le
grandi potenze sono più inclini alla tutela dei propri interessi, anche se
contrastanti, che non a garantire il rispetto del trattato di Sèvres.
Parimenti il card. Gasparri, cui Naslian si è rivolto, nel ribadire l’interesse
speciale della Santa Sede per la nazione armena e malgrado tutti i suoi tentativi
per poter introdurre “nel trattato di Sèvres alcune modifiche in favore delle
comunità cattoliche di Oriente”, mostra ormai un profondo scetticismo
riguardo al fatto che “attese per altro le difficoltà del momento […] le dimande
della Santa Sede saranno senz’altro soddisfatte da parte dei vari Governi
interessati”138.
Quanto poi a mons. Moriondo, di fronte a una situazione che si va facendo
sempre più pericolosa, dato che il trattato di Sèvres risulta superato dagli
avvenimenti bellici e non vi sono più margini per un’azione propriamente
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 16169, 25 gennaio 1921, Roma – Naslian
appunti a commento del Trattato di Sèvres.
138 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 16169, 18 febbraio 1921, Roma – minuta della
risposta di Gasparri a Naslian.
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
politica, nel rivolgersi direttamente al Papa139 e poi al card. Marini, conferma la
gravità della situazione, in un momento in cui:
il Governo [della repubblica sovietizzata] però nulla promette di bene verso la religione. Anzi,
prima ancora d’aver votato la legge di separazione, già la mette in pratica, impossessandosi dei
beni religiosi. A nulla valgono le proteste e le minacce, poiché ad ogni costo si vuol attuare il
programma comunista e antireligioso del governo. Né vi è a sperare che simile governo cada,
avendo in suo favore quasi tutto il popolo, compenetrato fino al midollo dei principi del
socialismo. La situazione economica è sempre gravissima, né si troverà facilmente una via
d’uscita, se le potenze europee non daranno alla nazione aiuti finanziari. 140
Il 2 marzo successivo, a seguito della conquista e sovietizzazione della
Repubblica georgiana, mons. Moriondo comunica a Marini la decisione di
lasciare Tiflis assieme alle delegazioni straniere141, ribadendo il giorno seguente
che “a nulla certo avrebbe più valso l’opera mia sotto la schiavitù e tirannia
bolscevica; mentre per altro sarei rimasto, Dio sa fino a quando, isolato da tutti
ed esposto ad ogni possibile evento”142.
L’assessore della Congregazione della Chiesa Orientale, mons.
Papadopulos143 prima chiede a mons. Federico Tedeschini, sostituto Segretario
di Stato, di telegrafare a Moriondo “di aspettare lettere della S.
Congregazione”144. Quindi, in una lettera del 5 marzo, scrive allo stesso
Moriondo, peraltro già partito dal Caucaso, la disapprovazione della Santa
Sede, che “avrebbe sommamente desiderato di saperLa rimasta nel Caucaso
magari nel dominio dei kemalisti, sia per poter difendere a nome del S. Padre le
persone e i beni dei cristiani, sia per evitare l’impressione spiacevole che
potrebbe aversi dai cristiani del Caucaso nel ritenersi abbandonati dal loro
autorevole Pastore”.
Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5313, 10 febbraio 1921, Tiflis – Moriondo al Papa.
140 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 3, 2, n. 5293, 12 febbraio 1921, Tiflis – Moriondo a Marini –. Vicariato Apostolico
del Caucaso.
141 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 5, 3, 2, n. 5287, 2 marzo 1921, Costantinopoli – telegramma di Moriondo a
Marini.
142 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5347, 3 marzo 1921, Tiflis – Moriondo a Marini –. Vicariato Apostolico
del Caucaso.
143 Nel 1912 viene istituito a Istanbul un ordinariato per i greci nell’Impero ottomano, con il
primo vescovo nella persona di Isaia Papadopulos (1852-1932), titolare di Grazianopolis. Nel
1918 viene chiamato a Roma da Papa Benedetto XV come primo assessore della Sacra
Congregazione della Chiesa Orientale.
144 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5287,4 marzo 1921, Roma – mons. Assessore a Tedeschini.
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Dal momento però che Moriondo si trova già a Costantinopoli, dovrebbe
continuare a interessarsi attivamente di tutti gli abitanti del Caucaso, senza
nessuna distinzione etnica o religiosa, aspettando il momento propizio per
tornare almeno a Batum145. Con la partenza di Moriondo si assiste al fallimento
del primo tentativo della Santa Sede di instaurare dei rapporti stabili con i
governi e i popoli della Transcaucasia.
Le nuove iniziative diplomatiche e gli appelli della Chiesa
Di fronte allo smembramento dell’Armenia fra russi e turchi, Mons. Terzian
insiste rivolgendosi direttamente agli ambasciatori interessati, riuniti a Londra,
e contemporaneamente sollecita e ottiene dalla Santa Sede pressioni sui
rispettivi rappresentanti accreditati in Vaticano146. Gasparri rivolge perciò un
esplicito e preoccupato invito indirizzato agli ambasciatori di Spagna e Brasile
perché partecipino ad una iniziativa concreta sulla questione armena da parte
dei loro governi147. Nonostante le risposte rassicuranti dell’ambasciatore del
Brasile e di quello spagnolo, non risulta chiaro il tipo d’azione svolta, limitata
comunque a provvedimenti umanitari 148.
Particolarmente coinvolto, Benedetto XV tenta tutte le strade per alleviare
la sorte dei cristiani in Oriente e il 9 marzo 1921, per il tramite del card.
Gasparri, rivolge un appello a Mustafa Kemal, il generale ribelle ancora non
investito di alcun potere legittimo, affinché rispetti la vita e i beni dei cristiani
della Turchia. Si rivolge ai suoi “nobles sentiments d’humanité”,
scongiurandolo di dare gli ordini opportuni:
pour assurer le respect de la vie et des biens des Chrétiens du Caucase, de l’Asia Mineure et de
l’Anatolie. Après tant de souffrances que l’humanité a endurée, il est à souhaiter que la voix de
la clémence et de la pitié s’impose partout. 149
Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 3, 5,2, n. 5287, 5 marzo 1921, Roma – Mons. Assessore a Moriondo.
146 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 28 febbraio 1921, Roma – Terzian
a Cerretti.
147 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 1° marzo 1921, Roma – minuta
autografa di Gasparri al marchese di Villasinda, ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede;
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 1° marzo 1921, Roma – minuta autografa
di Gasparri a Magalhaes de Azeredo, ambasciatore del Brasile presso la Santa Sede.
148 Rispettivamente: Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 31 marzo 1921, Roma
– Magalhaes de Azeredo ambasciatore del Brasile presso la Santa Sede a Gasparri. Archivio
della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 17537, 16 aprile 1921, Roma – marchese di Villasinda,
ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede a Gasparri.
149 Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 117, n. 17569, 9 marzo 1921, Roma – minuta autografa
del telegramma di Gasparri a Kemal.
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Nel lungo telegramma di risposta inviato direttamente al «Santo» Papa,
Kemal assicura, quale dovere impostogli sia dalla religione musulmana sia dai
propri sentimenti umanitari, che:
la securité et le bonheur de tous les habitants de notre pays sans distinction de religion est pour
nous un devoir impérieux commandé par nos sentiments humanitaires ainsi que par la réligion
musulmane Stop Par consequent, les Chretiens de toutes les régions ou s’extendent l’autorité et
l’influence du Gouvernement de la Grande Assemblée National de Turquie jouissent de la
tranquillité la plus complète.
Kemal allega alla sua risposta gli estratti delle dichiarazioni proferite nel
discorso inaugurale di apertura della Grande Assemblea Turca di Ankara del 24
aprile del 1920 e in quello del 1 marzo del 1921. In ambedue si dichiara di
considerare principio fondamentale della propria politica la protezione dei
cristiani, purché pacifici. In tal modo si rigetta le responsabilità delle violenze
sui cristiani, come già aveva fatto il sultano.
C’est un principe fondamental admis de tout temps chez nous de protéger les grecs et les
arméniens de l’Anatolie et de leur assurer paix et bonheur tant qu’ils [s’abstiennent] absolument
de faire opposition à la volonté nationale et aux ordres du gouvernement stop Même en face
des criminelles agressions commises contre nos frères de race et de religion par des forces
arméniennes tant régulières qu’irrégulières en Cilicie ainsi qu’en dehors de nos frontières
orientales, nous avons considéré comme un devoir primordial d’humanité d’assurer la sécurité
la plus complète aux chrétiens qui vivent tranquillement à l’intérieur de notre pays stop […] 150
Intanto, alla Conferenza di Londra, tra il febbraio e il marzo del 1921,
l’Intesa pone le basi per la revisione del Trattato di Sèvres a favore della
Turchia; ogni tentativo di accordo però fallisce per l’opposizione kemalista ad
ogni concessione agli armeni proposta dagli alleati. Kemal, non avendo ancora
preso in mano il potere e laicizzata la Turchia, mantiene l’alleanza con la Russia
comunista per motivi tattici. Questo atteggiamento favorisce l’equivoco, da
parte dei diplomatici vaticani, di attribuirgli fanatismo islamico e simpatie
bolsceviche. In realtà, una volta al potere, avrebbe instaurato un regime
nazionalista e laico e si sarebbe destreggiato tra le potenze occidentali e la
Russia.
Nel maggio, il Delegato Apostolico a Beirut, mons. Frediano Giannini,
informa il Vaticano delle sue azioni in difesa e a favore degli armeni e degli altri
cristiani, specialmente in Cilicia, da cui la Francia si è impegnata a ritirarsi, e
delle idee panislamiche di Mustafa Kemal151. Giannini consegna anche
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 117, n. 17569, 12 marzo 1921, Angora – telegramma di
risposta di Kemal al Papa (in turco con) traduzione in francese.
151 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 21439, 7 maggio 1921, Beirut – Giannini a
Gasparri.
150
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
all’ammiraglio francese de Bon, comandante della flotta del Mediterraneo
orientale, un memorandum sul problema armeno, come lui stesso attesta nella
relazione a Gasparri del 14 maggio, cui allega proprio il memorandum. In esso
si chiede per l’Armenia un’autonomia politica e amministrativa sotto la
protezione militare francese e col divieto per i turchi di stabilire proprie
guarnigioni. Nella stessa lettera si richiama l’attenzione della Chiesa sul fatto
che:
Questa martirizzata nazione armena, che ebbe tante e così magnifiche promesse dagli alleati
dell’Intesa durante la guerra, adesso trovasi più o meno abbandonata da tutti. Sarà onore eterno
della Santa Sede l’aver seguitato ad interessarsene attivamente, quando i potenti della terra
stavano per abbandonarla affatto. E chi sa che ciò non possa anche essere avviamento ad un
ritorno di questi figli separati nel seno della Madre comune? In ogni caso non sarà mai né
superfluo né perduto tutto ciò che si potrà fare per impedirne il temuto sterminio. 152
Sfortunatamente, dopo un suo viaggio in Cilicia, Giannini riferisce a
Gasparri la risposta negativa dell’Alto Commissario francese, allegando alla sua
relazione un appello all’arcivescovo cardinale di Parigi, Louis-Ernest Dubois153.
Di fatto, la Francia si rifiuta di continuare ad agire per le minoranze religiose e,
come emerge dalla relazione di Giannini a Gasparri del 18 giugno, il
riconoscimento, da parte dell’Intesa, del governo di Mustafa Kemal, è di fatto il
tacito via libera alla Turchia di imporre la propria politica nei confronti dei
cristiani. Di riflesso, la politica benevola e conciliante della Francia e delle altre
potenze, scambiata per debolezza, incoraggia la guerriglia delle diverse bande
musulmane.
Giannini invia inoltre un ulteriore memorandum sulla questione armena a
Franklin Bouillon, ex ministro francese e Presidente della Commissione per gli
Affari esteri, ancora influente tra gli uomini politici del paese. In tale
memorandum, Giannini continua a chiedere per l’Armenia un’autonomia
politica e amministrativa sotto la protezione militare francese e col divieto per i
turchi di stabilire proprie guarnigioni154.
Ma l’appello rimane senza effetti e il 20 ottobre 1921, per il tramite proprio
di Bouillon in qualità di plenipotenziario, la Francia conclude un accordo con
Kemal, cui “svende” il territorio, provocando così l’esodo della popolazione
non turca. Non risultano più prese di posizione propriamente politiche da parte
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 21439, 14 maggio 1921, Beirut – Giannini a
Gasparri.
153 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 22655, 18 giugno 1921, Beirut – Giannini
a Gasparri.
154 Cfr. Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 57, 1, n. 24161, 17 luglio 1921, Beirut – Giannini a
Gasparri.
152
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A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
della Santa Sede, che continua comunque la sua azione pastorale e umanitaria,
dopo che le altre vie erano state precluse.
Padre Kalatosoff, vice amministratore apostolico del Caucaso
Il padre mechitarista armeno Dionisio Kalatosoff, sostituto dell’Amministratore
Apostolico degli Armeni cattolici, mons. Der Abramian, riferisce alla Santa Sede
della situazione in Transcaucasia quando, a fine aprile del 1921, torna
provvisoriamente a Roma perché uno scontro tra kemalisti e russi a Batum gli
aveva impedito di raggiungere Tiflis. Kalatosoff informa il card. Marini dei suoi
contatti con i profughi russi, georgiani e con agenti comunisti georgiani a
Costantinopoli155. Tra l’estate e l’autunno del 1921, il melchitarista armeno riesce
a tornare nel Caucaso, non si sa se prima o dopo il ritorno in patria di mons.
Moriondo, perché “la S.C. per la Chiesa Orientale non può lasciare a lungo oltre
50.000 cattolici di diverso rito senza un capo che abbia cura del clero e del
popolo che invoca assistenza dalla S. Sede trovandosi esposto a dure prove”156.
I bolscevichi intanto cercano di stabilire contatti con la Chiesa cattolica,
anche in seguito alla morte di Benedetto XV, il 22 gennaio 1922, e all’elezione di
Pio XI. Di rimando, Francesco Agagianian, rettore del Pontificio Collegio
armeno di Roma (nel 1932) e futuro Patriarca armeno cattolico di Cilicia degli
Armeni (dal 1937), nonché cardinale Gregorio Pietro XV Agagianian (dal 1946)
e prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, chiede insistentemente la
nomina di un rappresentante pontificio nel Caucaso, sia per i cristiani locali, sia
per una possibile futura evangelizzazione della Russia. E invero Papa Ratti
continua a inviare suoi rappresentanti nella regione, avvalendosi di padre
Kalatosoff; il quale indirizza una relazione alla Santa Sede in cui avverte delle
infiltrazioni bolsceviche anche nelle comunità cattoliche della regione e perfino
in Vaticano, nonché della presenza disseminata tra la popolazione
transcaucasica di numerose spie del partito comunista. Riguardo all’invio di un
altro Visitatore nel Caucaso, p. Kalatosoff avverte che un atteggiamento pavido
e diffidente come quello di mons. Moriondo può suscitare scandalo tra i fedeli e
favorire mosse propagandistiche dei governi locali157.
Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5638, 3 maggio 1921, Roma – Kalatosoff a Marini.
156 Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 5278, 10 novembre 1921 – Pro-memoria per Mons. Pizzardo (Sostituto
Segr. di Stato).
157 Cfr. Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e Caucaso
1896-1926), 106, 3, 5, 2, n. 7632, pp. 9-12 e 15-16, (?) Costantinopoli – relazione segreta autografa
di p. Kalatosoff alla Santa Congregazione.
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Il nuovo Visitatore Apostolico, scelto dalla Santa Sede nella persona di
Adrian Smets, vescovo dell’arcidiocesi di Bagdad, riuscirà a visitare il Caucaso
solo nel 1923.
Concludendo sul ruolo della Chiesa nella difesa degli armeni
La Chiesa romana ha cercato di difendere la vita e la libertà del popolo armeno
nei modi sopra accennati; il suo realistico criterio di azione risulta essere quel
compromesso che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure,
l’opera dell’uomo. Ovvero, volendo avvalersi di considerazioni di Benedetto
XVI ancora non asceso al pontificato:
Io penso che oggi noi dobbiamo con decisione chiarirci che né la ragione né la fede promettono,
a ciascuno di noi, che un giorno ci sarà un mondo perfetto. Esso non esiste. […] 158
Piuttosto, la “separazione di autorità statale e sacrale, il nuovo dualismo in
essa contenuto, rappresenta l’inizio e il fondamento persistente dell’idea
occidentale di libertà”159. Ne è la condizione previa, nella consapevolezza che “il
desiderio di assoluto nella storia è il nemico del bene che è nella storia” e rende
incapaci di “far amicizia con le cose umane”160. Per questo, anche nel corso delle
vicende ricordate, nel contrastare antichi e nuovi assoluti, tutti in definitiva
sacralizzatori dello stato, la politica ecclesiastica ha esercitato il fondamentale
compito di conservare il bilanciamento di tale sistema dualistico come
fondamento di libertà; per questo la Chiesa ha potuto avanzare delle richieste
nell’ambito del diritto internazionale e pubblico; per questo ha potuto
rivolgersi, come abbiamo visto, alle autorità politiche e difendere il popolo
armeno161.
Sempre per questo gli armeni si sono rivolti al Papa e alla Santa Sede, a
quel capo spirituale e a quell’istituzione religiosa, in quanto impegnati in primo
luogo a difendere la vita e la dignità di persone e popoli; in quanto preoccupati
de “l’offensiva di pace” per “fermare l’inutile strage” nella “perfetta
imparzialità verso tutti i belligeranti”; in quanto, infine, impegnati ad alleviare
le sofferenze dei popoli nello “sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che
da Noi si potesse”162.
J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Milano, 1987, p. 194.
Ivi, p. 155.
160 Ivi, p. 192.
161 Ivi, pp. 142-158.
162 Benedetto XV, Dès le Début, 1 agosto 1917.
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Nella consapevolezza, come si è detto, dei propri limiti e della
irrealizzabilità del mondo perfetto, che neanche altri debbono credere di poter
realizzare, sacrificando oltretutto i propri simili in modo così orrendo.
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Fonti d’archivio163
Archivio della Segreteria di Stato, posizione Asia 57, 1, nn: 5293, 8131,
8132, 13508, 19169, 13138, 13508, 13163, 16169, 17537, 21439, 22655, 24161 […
manca il numero di protocollo].
Archivio della Segreteria di Stato, Asia 57, 2, nn: 59711, 59712, 57889,
60608, 59729, 63502, 81691, 84492, 1066, 5288, 4764 […]
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 117, nn: 10228, 17569.
Archivio della Segreteria di Stato, Asia, 126, n. 3643.
Archivio della Segreteria di Stato, Russia, 505, n° 1120
Archivio della Segreteria di Stato, Austria, 576, nn: 7232, 69471
Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244 K12 c, 306, nn: 66909, 68898
Archivio Segreto Vaticano, Guerra, 1914-18, 244, 112, nn: 67801, 66827
Archivio Segreto Vaticano, Guerra 1914-18, 244, 69, nn: 90014, 90034, 89948
Archivio della Sacra Congregazione per le chiese Orientali (Armeni in
genere e Caucaso 1896-1926), 105, 3, 5, nn. 1525, 2375
Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in
genere e Caucaso 1896-1926), 106, 2, 3, nn. 3228, 3516, 3825, 3172, 4363, 4999
Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in
genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 2, n°5293
Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in
genere e Caucaso 1896-1926), 106, 3, 5, 2, nn. 5313, 5347, 5638, 5278, 7632
Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in
genere e Caucaso 1896-1926), 106, 4, 3, n°1667,
Archivio della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali (Armeni in genere e
Caucaso 1896-1926), 106, 5, 3, 2, n°5287
Per la collocazione archivistica, rivisitata, si può fare riferimento all’opera in 6 volumi a cura
di Georges-Henry Ruyssen, La questione armena 1908-1925, Edizioni Orientalia Christiana &
Valore Italiano - Lilamé, Roma 2013-2015.
163
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104
A. Ricci, La Santa Sede
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Nuovamente, grazie a Assange, sui “padri dell’Europa”
Integrazioni agli atti del convegno di Padova, nel centenario
della nascita di Luigi Gui
F.G.
In un numero precedente, il n. 29 per l’esattezza, questa rivista ha già fatto
ricorso alla consultazione on line dei documenti dell’amministrazione americana
divulgati attraverso le pagine dell’ormai celebre sito denominato WikiLeaks,
frutto delle iniziative alquanto anticonformiste di Julian Assange.
Nella circostanza, l’oggetto delle ricerche, con risultati di sicuro interesse,
è stata la figura di Altiero Spinelli, “padre dell’Europa” parecchio noto e
frequentato in questa sede. Nel presente contributo verranno invece ricercate
fra le schermate del sito, che espone documenti provenienti dagli archivi
Kissinger, Carter ed ulteriori fonti, le informazioni riguardanti altri “padri”
continentali: in particolare quelli di cultura e militanza democratico cristiana cui
è stato dedicato un convegno tenutosi all’università di Padova nel dicembre
2014. Gli atti di quell’incontro sono stati pubblicati su «EuroStudium3w» di
gennaio-marzo 2015. L’occasione dell’evento era stata la ricorrenza del
centenario della nascita di Luigi Gui, cittadino padovano, anch’egli esponente
democristiano ed altrettanto europeista.
Per la verità, trattandosi di “padri” quali Robert Schuman, Konrad
Adenauer e Alcide De Gasperi, i materiali investigati risultano relativamente
ridotti, dato che le carte Usa edite di soppiatto non risalgono all’indietro oltre
gli anni Settanta. Tuttavia esse offrono spunti assai istruttivi per quanto
riguarda il prestigio che i suddetti leader postbellici continuavano a godere non
solo tra i rispettivi popoli, ma anche presso l’amministrazione americana. In
breve, si trattava di personalità di eccezionale valore a cui fare continuo ricorso
come modelli permanenti per la politica dei loro paesi, da cui mai era giusto
discostarsi, sia perché tenacemente legati alla visione occidentale, senza
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
cedimenti in altre direzioni, e sia ancora per il loro illuminato europeismo,
sostenuto con vigore ed anche con aiuti economici dagli Usa stessi. Per non
parlare della dirittura etica dei patres, oltre che politica, ovviamente.
Insuperabili figure di riferimento, insomma, della cui eredità ci si doveva
ancora avvalere nei tormentati decenni dell’Europa della crisi economica e delle
incertezze di prospettive.
Iniziando dal cancelliere
Entrando in argomento a partire dalla zona di Bonn, allora capitale della
Repubblica federale tedesca, ciò che risalta, a proposito di Konrad Adenauer,
dotato di una “grim and steely image” quanto Bismarck (così in una nota
diplomatica), è l’impatto persistente della sua personalità e del suo lascito
politico, tenacemente riconosciuto in tutti gli ambienti politici tedeschi, oltre che
negli States. Per esempio, nel gennaio 1976, in occasione del centenario della
nascita di “der Alte”, il grande vecchio, come riferiva l’ambasciatore Usa,
Martin J. Hillenbrand, già nel “summary” della sua missiva:
THE 100TH ANNIVERSARY OF KONRAD ADENAUER'S BIRTH HAS BEEN THE
OCCASION FOR NUMEROUS TRIBUTES TO THE POSTWAR GERMAN STATESMAN. NOT
ONLY HAVE CDU AND CSU POLITICIANS SOUGHT TO WRAP THEMSELVES IN THE
MANTLE OF "DER ALTE'S" GREATNESS, BUT EVEN SPD AND FDP POLITICIANS ARE
ATTEMPTING TO PORTRAY SOCIAL-LIBERAL GOVERNMENT PROGRAMS AS THE
LOGICAL EXTENSION OF ADENAUER'S POLICIES. 1
Anche gli avversari dei democristiani tedeschi, insomma, specie perché in
vista delle prossime elezioni politiche, si sperticavano in lodi del grande
cancelliere, onde potersi conquistare le simpatie popolari, che evidentemente
restavano a lui legate. Con l’aggiunta, c’è da presumere da parte nostra, di un
qualche intento tranquillizzante nei confronti di Washington. Del resto, sempre
a detta del diplomatico statunitense, a quel tempo mancavano persone di
eguale “stature” sulla scena politica tedesca. Lo stesso candidato cancelliere
Helmut Kohl, il quale tentava di sostituirsi alla leadership socialdemocratica, non
pareva molto comparabile rispetto al padre della patria d’altri tempi. Salvo
conquistarsi parecchi meriti, sia consentita l’annotazione, una volta giunto al
governo – cosa avvenuta soltanto a partire dal 1982, dopo la sfiducia a Helmut
Schmidt – e in particolar modo in occasione della riunificazione.
Sia come sia, mentre il bavarese Strauss esaltava il “primo cancelliere della
repubblica federale “ nel corso di “glowing speeches” che rivendicavano
ONE HUNDREDTH ANNIVERSARY OF ADENAUER'S BIRTH, 1976 January 7, 13:05
(Wednesday), 1976BONN00218_b.
1
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Eurostudium3w luglio-settembre 2015
all’unione Csu-Cdu il ruolo di “bearers of the Christian-democratic tradition”, il
candidato Kohl aveva comunque saputo descrivere in modo esemplare i meriti
storici di Adenauer:
SPEAKING BEFORE AN AUDIENCE IN BONN'S BEETHOVEN HALLE ON THE EVE OF
THE ANNIVERSARY, KOHL LAUDED ADENAUER'S ACCOMPLISHMENTS IN LEADING
THE FRG INTO AN ALLIANCE WITH THE FREE WORLD, CREATING INTERNATIONAL
TRUST AND RESPECT FOR WEST GERMANY, ESTABLISHING FRIENDLY RELATIONS
WITH FRANCE AND ISRAEL, AND STABILIZING THE DEMOCRATIC ORDER IN THE
FRG. 2
Dal canto suo, il Kanzler socialdemocratico in carica, ovvero Schmidt,
confortato dal consenso dei liberali suoi alleati, accreditava la “Ostpolitik”
(compreso il recente accordo con la Polonia) e la “Mitbestimmung” (la
cogestione fra lavoratori e imprese, non amata dagli Usa) quale “naturale
sviluppo” delle politiche di Adenauer e del suo obiettivo di riconciliazione con
gli antichi nemici.
A dar credito poi al settimanale «Spiegel», solo Bismarck aveva portato
alla storia della Germania contemporanea un contributo analogo a quello di
Adenauer, mentre l’insieme degli atteggiamenti degli ambienti politici tedeschi,
aggiungeva sempre l’ambasciatore americano, rivelava una forte “nostalgia”
per l’epoca del grande leader della repubblica federale, rispetto alla modestia del
presente.
THIS REFLECTS A RECOGNITION THAT ADENAUER HAS EARNED A SECURE PLACE IN
GERMAN HISTORY AS A STATESMAN AND AS THE FATHER OF POST-WORLD WAR II
GERMAN DEMOCRACY. HOWEVER, IT MAY ALSO REFLECT THE FACT THAT THERE
ARE FEW POLITICIANS OF HIS STATURE ON THE SCENE. 3
Difatti, come accennato, forse con un eccesso di sottovalutazione
dell’uomo Kohl:
CDU/CSU CHANCELLOR CANDIDATE KOHL, WHO LACKS THE POLITICAL APPEAL
AND POPULARITY OF THE FIRST CDU CHANCELLOR, WANTS TO PORTRAY HIMSELF
AS THE HEIR TO THE ADENAUER TRADITION PREPARED TO TAKE OVER THE REIGNS
[sic] OF GOVERNMENT.
Qualunque cosa se ne pensasse, merito suo o dell’eredità adenaueriana
che fosse, l’imponente Helmut, come accennato, avrebbe comunque finito per
assidersi là dove una volta si posava il suo patriarcale predecessore Konrad4. E
Ibidem.
Ibidem.
4 Per un giudizio sul candidato Kohl cfr. anche HELMUT KOHL: THE MAN WHO COULD BE
CHANCELLOR, 1977 June 20, 00:00 (Monday), 1977BONN10272_c. Malgrado i molti pregi, tra
2
3
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
di sicuro del lascito di quest’ultimo il nuovo occupante apicale del Bundesviertel
di Bonn non si sarebbe mai dimenticato. A riprova, sempre nel gennaio ’76,
tanto per citare un particolare, nel corso di una conversazione con Hillenbrand,
Kohl aveva ricordato come Adenauer, quando tentò delle aperture verso l’Est,
si premurò sempre di coinvolgere anche i partiti di opposizione, mentre Willy
Brand e Schmidt se ne erano ben guardati5. Inoltre, in un’intervista dell’aprile
1977, alla vigilia di una visita negli Usa – riferiva Walter J. Stoessel jr., il nuovo
ambasciatore a Bonn - Kohl così si era espresso a proposito di un accordo
stipulato con il Brasile. Ovvero, mai più violare un trattato:
UNDER HITLER'S THIRD REICH, GERMANS MADE FOR THEMSELVES A REPUTATION AS
BREAKERS OF TREATIES. OBSERVANCE OF TREATIES IS ONE OF THE MOST IMPORTANT
HALLMARKS OF DEMOCRATIC GERMANY. KONRAD ADENAUER HAMMERED THAT
INTO THE HEADS OF THE YOUNGER GENERATION. 6
Ad Adenauer il martellatore esemplare andava dunque ricondotta la
nuova, tenace fedeltà tedesca ai patti sottoscritti. Quanto a Kohl, questi aveva
poi aggiunto, e la cosa non sorprende: “We are an export-intensive country”.
Ma non si sa quanto l’asserzione venisse anch’essa ricondotta al lascito del
grand’uomo di Colonia.
Al quale grand’uomo il presidente americano Jimmy Carter, intervenendo
nel luglio successivo nella Rathaus germanica, riconosceva il merito di aver
collocato la sede del parlamento della Repubblica federale nella città di Bonn,
non lontana dalla natia Colonia. Sede “temporanea”, d’accordo, ammise Carter
(qualcuno sperava fosse anche sede definitiva), tuttavia il suo “remark” in
proposito risultava parecchio sentito, oltre che consapevole del forte
attaccamento del cattolico praticante Adenauer (come del resto Kohl) alla storia,
alle tradizioni e anche alle più gentili atmosfere, tra l’ecologico e il politico,
della Germania renana:
cui l’affabilità, sfortunatamente per lui, “KOHL DOES NOT HAVE THAT INSTINCT FOR THE
JUGULAR WHICH OFTEN MARKS SUCCESSFUL POLITICAL FIGURES”. Era anche un
tantino “generalist” nella sua cultura e nella sua preparazione sui singoli dossier.
5 CONVERSATION WITH CDU/CSU CHANCELLOR-CANDIDATE KOHL,1976 January 27,
11:30 (Tuesday), 1976BONN01389_b: “UNLIKE ADENAUER, THE SOCIAL DEMOCRATS
HAD NOT ATTEMPTED TO INCLUDE THE OPPOSITION IN THE MAKING OF FOREIGN
POLICY, FOR EXAMPLE, HE SAID, ADENAUER HAD TAKEN REPRESENTATIVES OF ALL
THE "FRAKTIONEN" TO MOSCOW WITH HIM AND THUS HAD FORCED THE SOCIAL
DEMOCRATS, WHO WERE THEN IN OPPOSITION, TO TAKE JOINT RESPONSIBILITY
WITH THE CDU GOVERNMENT FOR ADENAUER'S "OPENING TO THE EAST" POLICY”.
6 HELMUT KOHL'S INTERVIEW ON PENDING U.S. VISIT…, Date:1977 April 6, 00:00
(Wednesday), 1977BONN06092_c.
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
KONRAD ADENAUER ALWAYS SAID HE CHOSE BONN AS CAPITAL, TEMPORARY
CAPITAL, OF THE FEDERAL REPUBLIC BECAUSE IN ADDITION TO HIS LOVE FOR
ROSES, HE KNEW DEMOCRACY COULD REACH ITS FULLEST FLOWER IN THIS SERENE
AND GENTLE TOWN ALONG THE BANKS OF THE RHINE. (APPLAUSE). 7
Procedendo oltre, un giudizio assai assertivo sull’influenza di lungo
periodo dell’opera di Adenauer sul suo paese, in specie sulla politica tanto
europea che occidentale della Germania, è contenuto nella ampia nota,
classificata “secret”, che tale Robinson, aveva trasmesso agli uffici “intelligence”
del Dipartimento di Stato, già nel settembre ’76, a proposito della Cdu/Csu e
della sua possibile vittoria elettorale. Un documento sicuramente di parte
statunitense e tuttavia molto interessante, nonché assai particolareggiato in
tema di relazioni della Germania con la Nato, con il blocco sovietico, la Francia,
le Comunità europee e con molti altri paesi ancora. Bonn era tenuta tra l’altro, si
apprende, e si sottolinea, a impiegare proprie risorse per sostenere l’assetto
politico italiano e mantenerlo saldamente filo-occidentale.
Questo il tenore di una “sentence” del testo, emessa in via riassuntiva:
20. SINCE THE ESTABLISHMENT OF THE WEST GERMAN STATE IN 1949, THE
OVERWHELMING MAJORITY OF ITS PEOPLE HAVE SUPPORTED POLICIES BASED ON A
WESTERN ORIENTATION. CHRISTIAN DEMOCRATIC ADMINISTRATIONS LED BY
KONRAD ADENAUER AND HIS SUCCESSORS FORMULATED THOSE POLICIES THAT
TODAY'S CDU/CSU REGARDS AS FUNDAMENTAL. THE SPD-FDP COALITIONS UNDER
BRANDT AND SCHMIDT HAVE NOT DEVIATED SIGNIFICANTLY FROM THE PROWESTERN ORIENTATION OF PREDECESSOR CDU/CSU GOVERNMENTS. 8
Ancora una volta, dunque, il ruolo determinante riconosciuto a Konrad
Adenauer dagli stessi diplomatici americani nel fondare su solide base la
repubblica federale e l’assetto politico europeo postbellico. Un assetto tanto il
più possibile unitario, quanto saldamente orientato a e da Occidente. A dare
conferma di tale convinzione concorre, se ancora ce ne fosse bisogno, l’ultima
missiva del carteggio diplomatico dell’ambasciatore Hillenbrand, il quale,
soltanto un mese più tardi, lasciando un’attività che lo aveva portato a
occuparsi della Germania, e di Europa, per ben trent’anni anni – “as I prepare to
leave Bonn after more than thirty years of professional association [di cui 4 da
ambasciatore, nda] with Germany and Europe” – intendeva mettere a parte il
Dipartimento di Stato di alcune sue, ma non poche, “general observations”.
Al punto 6, figuravano le seguenti asserzioni, che per un verso ci
confermano della chiara identificazione, anche da parte americana, dei “padri
TEXT OF REMARKS OF THE PRESIDENT AT RATHAUS…, Date: 1978 July 14, 00:00
(Friday), Canonical ID: 1978BONN12960_d. Jimmy Carter entrò in carica il 20 gennaio 1977.
8 IMPLICATIONS OF A CDU/CSU VICTORY IN FRG'S OCTOBER ELECTIONS,1976
September 28, 20:03 (Tuesday), 1976STATE240975_b.
7
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
dell’Europa”, con De Gasperi in testa, e dall’altro tradiscono una condizione di
diffuso pessimismo sullo stato del processo di unificazione europea, che già
allora risultava deludente, oltre che largamente incompleto. La qual cosa potrà
forse rasserenarci un poco sui pessimismi dei nostri tempi, visto che dai giorni
del messaggio di Hillenbrand, sedicente europeista “convinto”, di passi in
avanti la costruzione comune ne ha fatti comunque parecchi. Ebbene:
6. AS A CONVINCED SUPPORTED [sic] OF EUROPEAN INTEGRATION FOR MORE THAN
25 YEARS, I CAN ONLY BE SADDENED AT THE PRESENT STATE OF THE EUROPEAN
MOVEMENT. THE GENERALLY NEGATIVE OR LUKEWARM REACTION TO THE RECENT
TINDEMANS REPORT, MILD AS IT WAS IN ITS RECOMMENDATIONS, BROUGHT HOME
ONCE AGAIN HOW LITTLE REMAINS OF THE SPIRIT AND IDEALISM OF THE SURGE
TOWARDS EUROPEAN UNITY IN THE 1950'S LED BY SUCH CREATIVE PERSONALITIES
AS ALCIDE DE GASPERI, ROBERT SCHUMAN, KONRAD ADENAUER, JEAN MONNET,
AND MANY OTHERS. IT WAS THE ASSUMPTION THEN, SHARED BY CHANCELLOR
ADENAUER, THAT GERMAN DYNAMISM COULD BEST' BE CONTAINED WITHIN AN
EVER DEVELOPING EUROPEAN COMMUNITY TO WHICH NATIONAL GOVERNMENTS
WERE PREPARED TO MAKE MEANINGFUL DEROGATIONS OF SOVEREIGNTY. 9
Una sintesi decisamente nitida del processo a vocazione sovranazionale,
con cessioni di sovranità alle comuni istituzioni, vagheggiato ed avviato dai
“padri” nel dopoguerra. Peccato però che il rapporto troppo “mild” presentato
il 29 dicembre 1975 dal belga Leo Tindemans ai suoi colleghi capi di stato e di
governo non fornisse sufficiente continuità ed impulso. Eppure già in esso si
perorava la causa dell’erigenda Unione europea, comprensiva di unione
economica e monetaria, politica estera comune, non meno che di cittadinanza
europea. Ma a quei giorni, in effetti, il Vecchio Mondo non versava in stato di
grande euforia, sia per gli effetti della crisi economica anni Settanta, sia perché
il profilo della presenza tedesca già si stagliava parecchio corposo sulla scena
continentale. Con effetti di generale smarrimento.
Tant’è che Hillenbrand, con quel suo annuncio del sogno
“irrevocabilmente” svanito, risultava fin troppo pessimista:
THIS DREAM NOW SEEMS IRREVOCABLY SHATTERED, AND THE FEELINGS OF
UNEASE ABOUT GERMAN POWER WHICH ONE FINDS IN FRANCE, THE BENELUX,
AND THE UNITED KINGDOM AT LEAST PARTLY REFLECT THIS LOSS OF A
CONCEPTUAL FRAMEWORK FOR THE EUROPE THAT WAS TO EMERGE. ONE RESULT
IN THE FEDERAL REPUBLIC HAS BEEN A VACUUM OF CREATIVE POLITICAL PURPOSE
AMONG MANY YOUNG PEOPLE. INSTEAD, THEY FALL EASY PREY TO A CERTAIN
WEARINESS OF SPIRIT WHICH SEEMS TO CHARACTERIZE MOST GERMAN LEADERS
TODAY, INCLUDING THE CHANCELLOR, A SENSE OF DRIFT AND OF RELATIVE
OBSERVATIONS ON GERMANY AND EUROPE, 1976 October 16, 13:38 (Saturday),
1976BONN17542_b.
9
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
HELPLESSNESS IN THE FACE OF EVER MORE COMPLICATED POLITICAL, ECONOMIC
AND SOCIAL PROBLEMS AFFECTING THE FUTURE OF EUROPE.
Eppure eppure, qualcosa restava del vecchio sogno, qualcosa di
istituzionale, di decisamente funzionalistico, merito di Jean Monnet e degli anni
Cinquanta, su cui poggiare una pur minimale concertazione europea, malgrado
le crescenti disparità fra le economie dei diversi stati membri e il quadro
internazionale a dir poco “turbolento”. Ah, il grande merito della “European
Community”, per quanto minacciata, ma ancora potenzialmente in grado di
risalire la china:
WHAT IS LEFT INSTITUTIONALLY IN EUROPE IS THE EUROPEAN COMMUNITY
AMALGAMATING THE TREATY OF ROME AND THE TREATIES ESTABLISHING A
EUROPEAN COAL AND STEEL COMMUNITY AND A EUROPEAN ATOMIC
COMMUNITY, ALL PRODUCTS OF THE 1950'S. THAT ONLY PARTLY REALIZED
EUROPEAN ECONOMIC COMMUNITY IS NOW THREATENED BY STRONG
CENTRIFUGAL FORCES ARISING OUT OF GROWING DISPARITIES BETWEEN THE
NATIONAL ECONOMIES OF MEMBER STATES. THE BEST THAT ONE CAN HOPE FOR IN
THE SHORT RUN IS THAT THE COMMUNITY, AS A MATTER OF URGENCY, AT LEAST
DEVELOP ITS CAPACITY FOR JOINT POLITICAL ACTION THROUGH FREQUENT
CONSULTATION TO COPE WITH AN INCREASINGLY TURBULENT INTERNATIONAL
ENVIRONMENT.
Nel complesso, certo, la tensione per la riunificazione nazionale, per
quanto controllata, continuava a distogliere la società tedesca dalla piena
partecipazione alla politica occidentale-statunitense. Con tutto ciò, a ben
vedere, malgrado i personali accenti di pessimismo e il diffuso disorientamento,
lo stesso Hillenbrand, nel chiudere la sua ultima missiva da diplomatico nella
terra di Goethe, riteneva che il “West” mantenesse parecchio dinamismo.
L’importante era trovare una leadership adeguata, in grado di affrontare “i
preoccupanti problemi del nostro tempo”. Quasi da evocare, e lasciando stare
che le “free societies” alla fine avrebbero avuto la meglio, i dibattiti e le
problematiche dei “nostri” (intendi a. D. 2015) ondivaghi giorni. Insomma, per
il diplomatico Usa, si poteva ancora far sì che:
…THE TROUBLESOME PROBLEMS OF OUR ERA, INCLUDING THAT OF ADJUSTING TO
LOWER RATES OF ECONOMIC GROWTH, CAN BE MASTERED OR AT LEAST
CONTAINED WITHOUT DESTROYING THE BASIC INSTITUTIONAL STRUCTURES
NECESSARY TO THE EFFECTIVE FUNCTIONING OF FREE SOCIETIES.
Dopodiché, concludendo sul “padre” Adenauer e la Germania, fra le
curiosità si potrebbe aggiungere ancora qualcosa in tema di rapporti con la
Cina. Per esempio, scriveva Stoessel, il Kanzler per antonomasia rifiutò di
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
riconoscere Taiwan10. Curioso risulta poi l’accenno a un certo desiderio del
grande vecchio di accentuare i poteri del presidente tedesco rispetto al
cancelliere, tanto da immaginare di diventare lui stesso presidente, salvo poi
convincersi della scarsa praticabilità del progetto11.
Ma al di là dei dettagli, Adenauer restava indiscutibilmente come faro
splendente sulle pianure germaniche, tanto illuminato e illuminante da aver
saputo consolidare il regime democratico e della “freedom” all’interno del
processo di unità continentale, in stretto legame con gli Usa e, attenzione, senza
temuti approcci o cedimenti all’avversario orientale.
Da tenere in considerazione infine (anche se i messaggi che citano
Adenauer sono molti di più e meriterebbero un’ulteriore visitazione) i
documenti assai più recenti, riprodotti da WikiLeaks nella categoria The Global
Intelligence Files, fra cui: “German Report Says Adenauer Sought To Exchange
West Berlin With Parts of GDR” e “Good Read: How Helmut Kohl Created a
British Europe”. In quest’ultimo, dal titolo vagamente ironico, si può comunque
rilevare un’efficace definizione della vocazione europea della Germania affidata
ai maggiori leader Cdu: “the exceptional European commitment of the
Adenauer-to-Kohl Federal Republic”.
Peccato soltanto per il rischio di non volute evoluzioni alquanto British,
ovvero di segno nazional-contraddittorio, affiorate più di recente.
Nostalgie, con contraddizioni, anche al di qua del Reno
Più o meno nello stesso torno di tempo delle malinconie di Hillenbrand, anche
altrove, precisamente in Lussemburgo, il senso di rimpianto per i tempi antichi,
beneficiati dalla presenza dei “padri”, prendeva il sopravvento. Da segnalare il
commento, luglio ’77, dell’ambasciatore Usa, James G. Lowenstein, allo sfogo di
Gaston Thorn, allora primo ministro, nonché futuro presidente della
Commissione Cee dal gennaio 1981, confidatosi con l’Herald Tribune. Ancora
una volta, sottolineava riassumendo il diplomatico, i nomi fatidici affioravano
alla memoria. Quanto suggestiva era stata la loro epoca rispetto alle miserie del
presente…
GENSCHER VISIT TO CHINA, 1977 October 5, 00:00 (Wednesday), 1977BONN16534_c.
Stando a quanto riferito da Bonn, il ministro degli Esteri Hans-Dietrich Genscher, interessato a
sviluppare le relazioni con la Cina: OBSERVED THAT THERE WERE NO BILATERAL
PROBLEMS BETWEEN BONN AND PEKING AND THIS WAS IN NO SMALL MEASURE
DUE TO THE FARSIGHTEDNESS OF FORMER CHANCELLOR KONRAD ADENAUER
WHO HAD STEADFASTLY REFUSED TO RECOGNIZE TAIWAN.
11 WALTER SCHEEL AND THE POWERS OF THE FRG PRESIDENCY, 1976 December 3, 13:05
(Friday), 1976BONN20397_b.
10
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
FOR MR. THORN, THE DETERIORATION IS NOT JUST POLITICAL AND ECONOMIC, BUT
MORAL AS WELL. THERE HAS BEEN AN ABDICATION OF LEADERSHIP AND VISION,
HE THINKS, WHICH HAS PLUNGED THE CONTINENT BACK INTO RIVALRY AND
NATIONALISM. "WE HAVE A GENERATION OF LEADERS TODAY," HE SAID, "FOR
WHICH EUROPE NO LONGER HAS THE PRIORITY IT HAD FOR (ROBERT) SCHUMAN,
(ALCIDE) DE GASPERI AND (KONRAD) ADENAUER." INSTEAD OF WORKING TOWARD
EUROPEAN UNITY, HE SAID, "WE SEE EACH COUNTRY - FRANCE, WEST GERMANY
AND BRITIAN - JEALOUSLY TRYING TO DOMINATE THINGS, AND WHEN THEY CAN'T,
SPENDING THEIR ENERGY TRYING TO MAKE SURE THE OTHERS DON'T EITHER. THAT
IS WHY EUROPE IS BLOCKED. 12
Veramente triste come quadro d’insieme. Oltretutto tenendo conto,
nell’ottica di Thorn, che l’amministrazione Carter, avviata nel gennaio ’77,
sembrava un po’ troppo indulgente rispetto all’ipotesi di un accesso al potere
dei partiti eurocomunisti in Italia e Francia. Per contro, specie in Francia, un
protagonista di fede gaullista come l’ex e futuro primo ministro, oltre che
presidente, Jacques Chirac, allora sindaco di Parigi, faceva resistenza alla
prospettiva, ormai imminente, di un parlamento europeo eletto a suffragio
universale diretto. Per non dire della disponibilità a concedergli qualche potere.
Davvero un brutto affare, secondo Thorn. E una vera fortuna, si può aggiungere
di sfuggita, che a raddrizzare il corso degli eventi intervenisse di lì a poco sulla
scena strasburghese un altro “padre”, oltretutto eletto fra gli indipendenti del
Partito (euro)comunista italiano: Altiero Spinelli, l’autore del progetto di
Unione europea che porta il suo nome, e che rimise in moto la macchina
inceppata.
Un’intervista senza dubbio avvincente quella di Thorn, meritevole, in altra
sede, di una puntuale rivisitazione. Di sicuro, spostandosi a questo punto sulla
Senna, appare istruttivo constatare quanto in quegli anni una personalità come
Chirac risultasse ostinatamente renitente all’evoluzione istituzionale europea.
Eppure, lo stesso leader gaullista, da presidente, si sarebbe dimostrato
abbastanza aperto in materia: si pensi alla vicenda del trattato costituzionale,
che fu difeso dal suo governo, per quanto poi affossato dalla maggioranza del
popolo francese. Forse il personaggio, pur di conquistare, in fase di ascesa, il
cuore del suo elettorato, aveva alquanto esagerato nel difendere l’Europa delle
nazioni, pagandone più tardi le conseguenze. Peccato, perché a forza di
sconfessare il lascito dei “padri”, e sarà pur giusto dare al generale ciò che è del
generale, però il rischio è di finire per accreditare un po’ troppo i personaggi
alla Marine, per non dire di papà, sempre Le Pen.
THORN INTERVIEW IN INTERNATIONAL HERALD TRIBUNE, 1977 July 19, 00:00
(Tuesday), 1977LUXEMB00567_c.
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A confermare l’originaria durezza souveraniste di Chirac, al punto da
sfruttare persino il “père” Schuman a favore della sua causa, concorre ancora
una volta una missiva del successore di Hillenbrand, l’ambasciatore Stroessel,
datata 2 novembre 1978. Il contesto è la visita a Bonn del “Gaullist leader”, in
qualità di ospite della Cdu e del suo presidente Kohl, effettuata nell’ottobre
appena trascorso. In effetti il risultato era stato davvero pessimo. Un disastro su
tutta la linea, un “no meeting of minds” per ogni dove, dalle questioni Cee alla
politica estera, all’Unione dei partiti democratici, con buona pace delle
dichiarazioni di principio, condivise solo in astratto:
CDU SOURCES HAVE TOLD US THAT THE VISIT BROUGHT NO MEETING OF MINDS ON
THE MAJOR ISSUES OF CDU/GAULLIST DISAGREEMENT, EUROPEAN POLICY AND THE
ATLANTIC ALLIANCE. INDEED, WE WERE TOLD THAT AT THE CONCLUSION OF
CHIRAC'S PRIVATE DISCUSSION WITH KOHL AND A FEW OTHER CDU DEPUTIES, THE
PRINCIPALS COMMENTED THAT THEY WERE IN AGREEMENT ON ALL ABSTRACT
WESTERN VALUES, BUT THAT THERE WAS NO COMMON GROUND ON A SINGLE
POINT OF PRACTICAL EUROPEAN OR FOREIGN POLICY. THERE WAS ALSO NO RESULT
FROM DISCUSSION ON HOW TO COOPERATE ON EUROPEAN COMMUNITY AND
PARLIAMENT ISSUES THROUGH THE EUROPEAN DEMOCRATIC UNION (EDU) OF
CENTER AND RIGHTIST PARTIES. 13
Malgrado le aspirazioni ad un Europa “strong”, Chirac si dichiarava
contrario alla sovranazionalità: per lui doveva esistere un’Europa delle nazioni
e basta, nemmeno quella federazione di stati nazione di cui si sarebbe a suo
tempo fatto paladino, e a questo punto se ne capisce appieno il senso, il grande
presidente della Commissione tra gennaio ’85 e gennaio ‘95, Jacques Delors. Per
parte sua, lo Jacques gaullista, alzando ulteriormente il tiro, aveva chiamato in
causa precisamente il “padre” Schuman. Persino lui, sosteneva, era contrario a
largheggiare troppo in tema di unità europea, tant’è vero che lo si ricordava “as
opposing European citizenship”, ovvero avversario, a suo avviso, della
cittadinanza europea.
Può darsi, forse, tutto da vedere che la citazione fosse legittima. Ma di
sicuro, pensando allo spirito della Dichiarazione che porta il nome del ministro
degli Esteri francese, quella del 9 maggio 1950, detto anche “San Schuman”, in
cui si invocava la “federazione” europea per la pace, il seguito dei
pronunciamenti di Chirac non suona schumaniano per niente. Certo,
ammetteva il futuro presidente francese, era giusto che l’Europa parlasse con
una voce sola, ma il modo per ottenerlo erano soltanto frequenti incontri –
quanto attuali! – fra “key”, sottolineiamo “key”, “heads of government”. Da cui
CHIRAC DISCUSSIONS WITH CDU DO NOT BRIDGE DISAGREEMENTS, 1978 November
2, 00:00 (Thursday), 1978BONN20273_d.
13
114
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
una alquanto sconfortata considerazione conclusiva di Stoessel, centrata sulla
questione Parlamento europeo, ormai prossimo all’elezione diretta:
CRITICISM OF THE EUROPEAN PARLIAMENT. CHIRAC LAMPOONED THE
PARLIAMENT, SAYING THAT A STRONG ONE WOULD NOT WORK BECAUSE IT
WOULD CHALLENGE THE AUTHORITY OF NATIONAL GOVERNMENTS, WHILE A
WEAK ONE WAS UNNECESSARY AND WOULD MERELY WASTE MONEY. --A DIG AT
BRANDT, SCHMIDT, TINDEMANS, AND ANDREOTTI FOR SUGGESTING LEGISLATIVE
ASSEMBLY RIGHTS FOR THE EUROPEAN PARLIAMENT, AND A MORE SPECIFIC DIG AT
TINDEMANS AND HIS REPORT ON EUROPEAN COOPERATION. 14
Lo scritto nel complesso non fa del bene alla figura di Chirac, tanto più
che, come accennato, il prosecutore dell’impostazione propria del gran generale
avrebbe finito per ammorbidire parecchio le proprie idee una volta giunto al
potere15. Al tempo stesso, e per fortuna che le cose sono poi andate così, la
positiva evoluzione del processo di democratizzazione delle istituzioni europee,
grazie proprio all’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento
strasburghese e al riconoscimento della cittadinanza europea, ci conforta non
poco. Ci rassicura del fatto che anche in passato si sono verificate delle crisi
parecchio gravi, ci sono stati momenti di involuzione e di smarrimento, ma alla
fin fine il processo avviato dai “padri” è andato avanti, confermando una volta
di più che avevano ragione loro.
Interessante, comunque, poco da fare, che l’ambasciatore Usa patrocinasse
il ruolo sovranazionale del Parlamento europeo direttamente eletto. Sicché
anche in questo caso varrebbe la pena di indugiare di più tra i messaggi Usa
dedicati all’eredità di Schuman, di Monnet e in generale al parecchio
contraddittorio europeismo francese, a seconda di chi lo interpreti.
Directly back to De Gasperi
Trasferendoci ora in Italia per vagliare i messaggi che giungevano al
Dipartimento di Stato da quelle, cioè dalle nostre bande, assai istruttiva risulta
una missiva ricevuta per “electronic telegram” in un’occasione apparentemente
secondaria, ovvero alla vigilia, luglio 1973, di una visita in Usa del ministro
dell’Agricoltura, Mario Ferrari Aggradi, su invito del collega, Earl Butz. Tra le
ragioni dell’apprezzamento riservato all’importante personaggio italiano – così
lo definiva il mittente, ovvero ben noto ambasciatore Usa a Roma John A. Volpe
– c’era il dato di fatto che l’ospite “traces the lineage of his political thinking
Ibidem.
Sul supporto del convertito Chirac all’approvazione del trattato costituzionale del 2004, nei
giorni precedenti lo sfortunato referendum francese del 29 maggio 2005, molto interessante il
documento: 2005 May 26, 16:50 (Thursday), 05PARIS3668_a.
14
15
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Eurostudium3w luglio-settembre 2015
directly back to De Gasperi”. Da cui la sicurezza, sia pure un po’ interessata, di
poter aprire un dialogo amichevole anche nella “key area” delle relazioni Stati
Uniti - Comunità Europea in tema di agricoltura, “where we need all the friends
we can get”16.
Niente paura, comunque, perché il governo italiano da poco costituito
sotto la guida di Mariano Rumor, appena il trentacinquesimo… dall’età
postbellica, risultava certamente affidabile e fedele agli impegni delle origini.
Ovvero, Alleanza Atlantica, Europa unita e amicizia con gli Usa:
ITALY'S 35TH POST WAR GOVERNMENT IS NOT EXPECTED TO DEVIATE FROM
THE ESTABLISHED POLICY OF SUPPORT FOR THE ATLANTIC ALLIANCE, FOR
THE CONSTRUCTION OF EUROPE AND FOR CLOSE AND FRIENDLY BILATERAL
RELATIONS WITH THE U.S. 17
Ancor più significante sarebbe suonato, nel luglio 1974, il “toast” riservato
al presidente della Repubblica italiana, Giovanni Leone, da parte di Henry
Kissinger in occasione di un “lunch” al Quirinale. Così si espresse, parole sue, il
segretario di Stato di Richard Nixon, il presidente che di lì a un mese, causa il
Watergate, si sarebbe clamorosamente dimesso:
WE WILL NEVER FORGET THAT WHATEVER WE MAY ACHIEVE IN FOREIGN POLICY
HAS BEEN BASED ON THE UNITY OF THE WEST, TO WHICH AN ITALIAN STATESMAN,
DE GASPERI, AND ITALIAN LEADERS IN THE WHOLE POST-WAR PERIOD, MADE SUCH
A MAJOR CONTRIBUTION. WE ARE NOW IN A MORE COMPLICATED PERIOD OF
FOREIGN POLICY THAN IN THE EARLY POST-WAR ERA. THE PEOPLE OF NONE OF
OUR COUNTRIES WILL BE PREPARED TO SUSTAIN CRISES UNLESS THE LEADERS OF
THE COUNTREIS [sic] CAN SHOW THAT THEY MADE EVERY EFFORT TO PRESERVE THE
PEACE. 18
Sia come sia, Kissinger connetteva strettamente la solidarietà occidentale
con “every effort” per preservare la pace. Un obiettivo che gli faceva
sicuramente onore. Ed anche in questo De Gasperi, vero uomo di stato,
sussisteva come un punto fermo, sicuro, incontrovertibilmente affidabile.
Potrà essere peraltro di notevole interesse constatare come nella stessa
occasione, sia pure non nel toast, il ministro degli Esteri, Aldo Moro, “age 58”,
FERRARI-AGGRADI VISIT, 1973 July 31, 13:30 (Tuesday), 1973ROME07598_b.
NEW GOVERNMENT AND ITALIAN/U.S. RELATIONS, 1973 July 12, 16:45 (Thursday),
1973ROME06753_b, sempre Volpe da Roma. Il 23 luglio 73 si confermava che il nuovo governo
manteneva: TRADITIONALLY STRONG US/ITALIAN TIES. LOYALTY TO THE
ATLANTIC ALLIANCE, SUPPORT FOR A UNITED EUROPE AND STRONG
BILATERAL TIES WITH U.S.
18 KISSINGER'S TOAST AT PRESIDENT LEONE'S LUNCHEON, 1974 July 6, 13:20 (Saturday),
1974MUNICH01030_b. Il testo dell’intervento veniva inviato da Kissinger stesso da Monaco.
16
17
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
già presidente di tre governi, nonché insediato sei volte alla Farnesina, venisse
definito una “major figure” nella “left wing”, la sinistra, democristiana. Non
solo, perché Moro, asseriva Volpe, “has been a long time firm supporter of Nato
and close US ties”19. Così, a scanso di equivoci.
Il governo Usa si dimostrava insomma assai attento a tutelare i capisaldi
occidental-europeistici-comunisticorepellenti, con finalità pacificatrici, del patto
postbellico originario. A cui si può aggiungere – sia consentita la breve
divagazione – che ci teneva anche molto a tutelare i propri interessi, economici
compresi. A confermarlo concorre un messaggio “secret” di qualche mese
successivo. Un documento davvero completo e perspicuo, meritevole di
auspicabili approfondimenti. vergato sempre dall’ambasciatore. Tra le righe,
inter alia, si legge:
THE APPOINTMENT OF LEFT-WING CHRISTIAN DEMOCART [sic] DONAT-CATTIN AS
INDUSTRY MINISTER MAY CREATE PROBLEMS FOR US OIL COMPANIES OPERATING
IN ITALY. 20
Carlo (non Marco…) Donat Cattin era davvero così pericoloso per le 7
sorelle? A quanto pare sì. Evidentemente lo si era sottovalutato... Figurarsi
perciò il pericolo che per gli Usa potevano rappresentare i seguaci di Marx con
affinità sovietiche.
Il clima complessivo della situazione italiana, come si deduce sempre dalle
carte di WikiLeaks, si stava comunque progressivamente aggravando. Con il
passare dei mesi la paura dell’ingresso dei comunisti al governo, riusciti
trionfanti alle amministrative del ’75, incombe sul quadro politico e dei rapporti
con gli Usa. Di lì a poco si terranno le elezioni del giugno ’76, destinate a fornire
al Pci il massimo dei voti (oltre 34%) raggiunti nel dopoguerra. Il presidente
Ford, successore di Nixon, ha già preso una posizione alquanto ferma
sull’ipotesi del compromesso storico, ma il segretario della Dc, Benigno
Zaccagnini, non può permettersi di mostrarsi troppo condiscendente nei suoi
confronti.
Si profila insomma un clima di potenziale contrasto, una condizione di
crescenti sospetti, di insofferenze reciproche tra esponenti politici italiani, Dc
compresi, e amministrazione Usa. Quest’ultima risulta infatti estremamente
attenta e sospettosa in merito all’ipotesi, che ritiene sostanzialmente
inaccettabile, di uno sconfinamento comunista, sia pure “euro”, oltre le linee
divisorie consolidate fin dall’epoca dei “padri”.
SECRETARY KISSINGER'S VISIT TO ROME, QUIRINALE LUNCH, 1974 July 4, 15:00
(Thursday), 1974ROME09250_b.
20 NEW ITALIAN GOVERNMENT, 25 NOVEMBRE 74 16:50 (Monday, 1974ROME16416_b.
19
117
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Viceversa, volente o nolente, il recentemente eletto Zaccagnini, è tenuto ad
esprimere una posizione critica verso le interferenze nella vita del proprio
paese, “which is determined only by the choices made by the Italian people in
free elections”, riporta fra virgolette l’ambasciatore Usa a Roma. E non che le
pressioni esterne possano mutare in qualcosa la strategia della Dc, aggiunge
l’onesto segretario, interrogato sul punto. Infatti, ancora virgolette: “Dc strategy
is set by the National congress based on its own historical traditions derived
from the teachings of Sturzo and De Gasperi”, sia pure “adjusting the
operational lines in accord with the exigencies of today’s society in the
exclusive interest of Italy and in the constant defense of liberty”21.
Così la “Zaccagnini perception”, da intersecare, a consultazione popolare
avvenuta, con un’altra, la “Vatican perception”, decisamente più irrigidita
rispetto all’evoluzione del quadro politico italiano, tenendo conto oltretutto
della scomunica, per quel che valeva, emessa a suo tempo contro i sovietizzanti.
A farne parola con il sostituto segretario di Stato, mons. Giovanni Benelli, è il
“Deputy Chief of Mission” a Roma, Robert M. Beaudry, che subito annota il
disappunto dell’ecclesiastico per la recente elezione di un comunista, alias Pietro
Ingrao, alla presidenza della Camera dei Deputati italiana. Per Benelli, tanto
preoccupato da non volersi allontanare da Roma se non per viaggi lampo, la
Democrazia Cristiana, a meno di soccombere, è chiamata a rinnovarsi.
Rinnovarsi innanzitutto nella tradizione, sicuro, di De Gasperi, espressamente
citato, ma chiamando al tempo stesso al potere una generazione più giovane,
nonché ricostruendo le strutture di base. I politici attualmente al potere
appaiono infatti troppo inclini a rimandare al domani i problemi seri,
indulgendo in cose più futili e “quick fix”.
Oltretevere si nutrono tra l’altro parecchie apprensioni per la poltrona del
sindaco di Roma, che il Vaticano vorrebbe affidata a Giulio Andreotti. Un
“nodo” non trascurabile, detto per incidens, ricordando di sfuggita che all’epoca
– e adesso si capisce meglio perché - qualcuno voleva riservare il posto in
Campidoglio all’indipendente di sinistra, ma al contempo “padre dell’Europa”,
Altiero Spinelli. Il quale, da ex commissario europeo a suo tempo sostenuto da
Nenni, preferì invece accedere al Parlamento europeo, non ancora elettivo,
tramite quello nazionale.
La situazione restava tuttavia “unclear”, si legge più avanti, a causa dei
negoziati in corso per la formazione del nuovo governo. Su cui una “note” di
RESPONSES OF ITALIAN POLITICAL PARTIES TO PRESIDENT FORD'S RESPONSE RE
[sic] POSSIBLE ENTRY OF PCI INTO GOVERNMENT, 1976 February 24, 17:20 (Tuesday),
1976ROME02963_b.
21
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
non poco rilievo: “Andreotti is candidate for premiership”22. Come avvenne
difatti di lì a poco, con la berlingueriana astensione del Partito comunista e con
tutte le concitate, drammatiche vicende successive.
Volendo tuttavia restare sempre in tema “padri dell’Europa”, e De
Gasperi in particolare, è un’altra circostanza che suscita interesse. Un fatto
marginale, ma al tempo decisamente mediatico, da cui si induce come il
governo americano, incombendo il “compromesso storico”, cercasse di influire
sull’opinione pubblica mediante il vettore televisivo ancora senza rivali (oltre
che finalmente a colori, seppure con ritardo rispetto ad altri paesi europei): la
Rai. Ad esempio, nel giugno ’77, su iniziativa dell’ambasciatore Richard
Gardner, mittente dell’informazione al Dipartimento di Stato, venne diffuso in
“prime time”, di sabato sera, sul canale “Christian-Democratic oriented”, un
programma di 50 minuti dedicato al trentesimo anniversario del Piano
Marshall.
Per incoraggiare la Rai a trasmetterlo, cosa che fu eseguita
“enthusiastically” e con risultati di grande qualità, Gardner aveva contattato
Arrigo Levi, editorialista della «Stampa» (e futuro consigliere dei presidenti
Ciampi e Napolitano) che effettuò le interviste. Gli interlocutori furono Gardner
stesso, insieme ad autorevoli esponenti politici, fra cui il premier Andreotti, che
proprio nel ’47 era diventato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, sotto
lo sguardo del padre Alcide. Tutto “interspersed” con filmati d’epoca, fra cui,
unico citato espressamente, quello su “De Gasperi electoral campaigns”.
Al di là di molti dettagli di non poco conto su cui sarebbe utile soffermarsi,
il messaggio della trasmissione era che il Piano Marshall, come asserì
l’ambasciatore, non risultava diretto contro qualcuno, nemmeno contro l’Urss,
la quale all’epoca non volle parteciparvi, bensì “against hunger, poverty,
desesperation and chaos”. Cosa che Washington intendeva proseguire anche
nel presente, sia combattendo inflazione e disoccupazione, sia fornendo
“economic underpinnings for freedom [sottolineature nostre] in industrialized
world”. Non solo, perché tanto gli Usa che i paesi beneficiari del Piano Marshall
dovevano ora applicare lo stesso metodo per aiutare il Terzo Mondo.
Inoltre, ribadiva il diplomatico, e la cosa in questa sede suona assai
significante,:
US MARSHALL PLAN AID LINKED TO EUROPEAN UNITY AND U.S. CONTINUES TO
SUPPORT EUROPEAN UNITY TODAY. 23
VATICAN PERCEPTION OF ITALIAN POLITICAL SCENE, 1976 July 12, 13:15 (Monday,
1976ROME11152_b.
23 AMBASSADOR GARDNER'S APPEARANCE ON TV SPECIAL ON MARSHALL, 1977 June
7, 00:00 (Tuesday), 1977ROME09385_c.
22
119
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Occidente, alleanza atlantica, unità europea, De Gasperi, promozione dello
sviluppo economico e uscita agevolata dalle crisi. Tenendo conto che il padre
dell’Europa, proprio nel 1947, dopo il celebre viaggio a Washington, aveva
estromesso i social-comunisti dal governo anche al fine, è stato da molti
osservato, di poter ricevere lo sperato sostegno al rilancio di un’Italia
immiserita, i rimandi risultavano di rinnovata attualità. Attuali quanto
l’impegno per l’unità europea, sostenuto dagli Usa, e la cooperazione politicoeconomica transatlantica.
L’ambasciatore Usa ci teneva davvero molto che gli italiani se lo
ricordassero. Oltretutto quelli erano anni di nuove difficoltà finanziarie e
produttive, un po’ come all’epoca, almeno per analogia, del Piano Marshall.
Tant’è che Gardner assicurava di dedicare attenzione anche al settore
cinematografico, sostenendo quello più vicino ai canoni di cui sopra. Tra l’altro,
non era vero che il cinema italiano fosse tutto di sinistra: per esempio, due anni
prima, Rossellini aveva prodotto una biografia elogiativa, “laudatory film bio”,
di De Gasperi…24
Dev’essere stato per tutte queste ragioni che un primo ministro come
Andreotti, benché formato alla scuola del grande trentino, benché sempre
pronto a farne le lodi - come accaduto in occasione del cinquantenario
dell’arresto del “padre” Alcide da parte dei fascisti nel 1927 - Andreotti,
appunto, all’ambasciatore Usa dava molte, molte preoccupazioni. Soprattutto
un concetto centrale di quel suo discorso commemorativo a Gardner non era
piaciuto. E cioè che, a voler dare ascolto al pur stimato Giulio, nel grande
politico trentino c’era stata una grande capacità di rappresentare un “symbol of
unity” per il popolo italiano.
Niente da fare, date le circostanze la parola “unità” del popolo italiano
suscitava sospetti, ovvero sconcertanti induzioni, confermate anche da “many
individuals of differing political persuasion” consultati in proposito. E cioè che
Andreotti volesse lasciar capire che i democristiani non erano “implacably
opposed to an eventual compromesso storico”. Difatti, ripensando sempre a
quel concetto di unità del popolo:
REFLECTING ON THIS LATTER THEME, ANDREOTTI, MORE BY IMPLICATION THAN
DIRECT STATEMENT LEFT THE IMPRESSION THAT THE GATE WAS OPEN TO DIRECT
GOVERNMENTAL COOPERATION WITH THE PCI. TO PUT THIS ANOTHER WAY, HE
NEVER MADE ANY FLAT STATEMENTS THAT THE CHRISTIAN DEMOCRATS WERE
AGAINST THE "COMPROMESSO STORICO". 25
PROPOSED YOUNG AMERICAN FILMMAKERS SEMINAR IN FOLIGNO AND OTHER
UMBRIAN TOWNS, 1977 August 1, 00:00 (Monday), 1977ROME12441_c.
25 PRIME MINISTER ANDREOTTI AND "COMPROMESSO STORICO", 1977 December 6, 00:00
(Tuesday), 1977FLOREN00765_c.
24
120
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Benché sia difficile dare un giudizio compiuto in merito, non può lasciare
indifferenti il fatto che l’allievo Andreotti, sia pure implicitamente, rivendicasse
i diritti del popolo italiano alla libera scelta facendosi forte precisamente
dell’eredità del “padre”, per quanto di sicura fede occidentale ed europea.
Eppure il cospicuo personaggio con origini a Segni, in Ciociaria, doveva sapere
che il grande fratello d’Oltreatlantico era “implacabilmente” contrario ad
eventuali aperture ai comunisti. Eppure non gli sfuggiva che, sempre per il
grande fratello, De Gasperi era quello che aveva scelto il campo e l’appoggio
americano, anche a costo di metter fine – sia pure senza giungere a cancellare la
solidarietà costituzionale - alla collaborazione governativa da cui era nata la
Repubblica. Eppure… Davvero avvincente. Tra l’altro, detto di passata, non è
che poi De Gasperi avesse fatto fuoco e fiamme per la soluzione repubblicana.
In conclusione, il governo Usa, offrendo una prospettiva piuttosto
realistica del ruolo di De Gasperi come “padre” della nuova Europa, cui
riallacciarsi “directly back”, lo poneva in stretta connessione con la ferma
adesione all’Occidente e l’irrevocabile cesura rispetto al comunismo, sovietico o
quand’anche berlingueriano che fosse. Il tutto non senza evidenti analogie con
le resistenze parallelamente opposte alla Ostpolitik tedesca, sempre da parte
dell’amministrazione Usa, nel nome dell’altro “padre”, Konrad Adenauer.
Le fatiche d’Hercules
Terribilmente complesso risulterebbe in ogni caso, restando al di qua delle Alpi,
tentare di azzardare un giudizio esaustivo sulla “perspective” chiamiamola
zaccagniniana, nel suo rapporto con l’eredità or ora ricordata. La prospettiva
del segretario, come accennato, rivendicava al popolo italiano il diritto di
attuare il “compromesso storico” tra le forze che avevano dato vita alla
Repubblica, e condiviso la Costituzione, rispetto alle interferenze “Vatican”, o
ancor più agli orientamenti dell’amministrazione americana. La quale restava
“implacably opposed” all’ingresso dei comunisti al governo e alla conseguente
presunta violazione dell’eredità politica degasperiana. Sia consentita tuttavia
una qualche personalistica esternazione in argomento, non dimentica di
ricavare ulteriori dettagli in merito al lascito dei “padri” grazie sempre ai
documenti di WikiLeaks. Magari aggiungendovi qualche motivo di soggettivo
compiacimento.
Ora, per quanto corretta ed anche generosa debba essere definita la prima
delle due opzioni or ora ricordate – volesse il cielo riuscire a rendere “normale”,
oltre che socialmente progressista, il sistema politico italiano, portando i
compagni alla piena occidentalizzazione! - per certo il destino relativamente
imminente del comunismo di matrice sovietica non ne accredita, oggi per ieri, le
121
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
propaggini italiane come portatrici di potenziali, risanatrici innovazioni.
Nemmeno nella versione “euro”, che tra l’altro avrebbe di lì a poco fatto
opposizione al sistema monetario europeo. Per non dire dell’ammissione, una
volta caduto il muro, del fallimento dei propri fattori identitari, reso evidente
dalla rinuncia al nome stesso del partito, da parte, appunto, dei sedicenti
“euro”.
In aggiunta, pur nell’oggettiva necessità di procedere in Italia ad un
sistema di maggioranze alternative, dopo decenni di schieramenti più o meno
moderati divenuti oggettivamente poco sopportabili, tuttavia l’ingresso del Pci
nell’area di governo finiva per proporsi, con non poco paradosso, come
soluzione effettivamente di “compromesso”. Di compromesso non solo e non
tanto fra le forze cosiddette costituzionali, quanto in grado di contenere,
proprio grazie al Pci, la spinta estremistica, a carattere anche terroristico,
proveniente dal fronte sociale (con possibili incoraggiamenti esterni) che si
chiamava alla tradizione rivoluzionaria, appunto comunista.
Qualcosa di confuso e a dir poco contraddittorio, derivante dalla mancata
Bad Godesberg italiana, seppur, d’accordo, non così facilmente praticabile. Una
Godesberg alla Spd, che potesse condurre gli eredi di Gramsci (e Togliatti)
verso una reale socialdemocratizzazione. Gli eventi avrebbero invece imposto
più tardi, non senza effetti paradossali, il passaggio diretto alla
democratizzazione, lasciando cadere il “social” e forse anche qualcos’altro. In
aggiunta, pensando proprio al drammatico ’77, la spinta al cambiamento
avveniva in un clima non solo di violenze di tutti i tipi, ma anche di sovente
acrimoniosa avversione verso i partiti (e personalità) tradizionali da parte di
esponenti del partito che pur mirava al “compromesso”. Dicesi ovviamente il
Pci, portato al suo apice storico dalle elezioni dell’anno precedente. Con in più
l’offensiva di settori della magistratura, diciamo così, parecchio schierati.
Sempre in quell’anno, soltanto per accennare a qualcosa, accanto alla
sconcertante, appunto, estromissione di Luciano Lama, segretario comunista
della Cgil, da una Sapienza ribollente di furori pseudo rivoluzionari (ma anche
a Bologna si facevano barricate), si verificarono efferati attentati brigatisti: oltre
agli assassinati Carlo Casalegno, Fulvio Croce, Walter Rossi, anche Indro
Montanelli fu colpito alle gambe, più o meno come Publio Fiori, laddove,
d’altro canto, Giorgiana Masi veniva uccisa dalla polizia a Roma, durante una
manifestazione promossa dai radicali. A Bologna un proiettile delle forze
dell’ordine raggiungeva invece Francesco Lorusso, di Lotta Continua. Ma non si
possono nemmeno dimenticare, perché sarebbe davvero ingiusto, i non pochi
poliziotti vittime di attentati. In aggiunta, a Napoli avvenne il rapimento del
figlio di Francesco De Martino, il leader socialista avvicendato di recente da
Bettino Craxi. Per non dire degli episodi di violenza fascista.
122
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
In quel medesimo anno, volendo aggiungere ancora qualcosa su un punto
appena accennato, a parte l’incriminazione per reticenza su Piazza Fontana a
carico di Mariano Rumor, le offensive della magistratura finirono per spedire in
prigione persino il sottosegretario Dc Giuseppe Zamberletti, protagonista della
protezione civile in Italia, poi doverosamente assolto. Intanto un noto
magistrato, inutile fare nomi, dapprima risultato vincente nel ricorso alla Corte
costituzionale per togliere il segreto di Stato sul presunto “golpe bianco”
anticomunista di Edgardo Sogno, poi chiamato ad occuparsi di terrorismo
presso il Ministero della Giustizia, si apprestava ad iscriversi al Pci. Sarebbe
diventato presidente della Camera.
Nel luglio ‘77, evento significativo, si procedette inoltre alla sottoscrizione
di un accordo programmatico fra i partiti del cosiddetto arco costituzionale, Pci
ovviamente compreso. Giusto in anticipo, insomma, rispetto alla fuga di
Herbert Kappler, responsabile delle Fosse Ardeatine, dall’ospedale militare
romano del Celio. Evasione clamorosa presto compensata, in Germania, dal
rapimento e successiva uccisione del presidente degli industriali tedeschi con
passato SS, Hanns Martin Schleyer, ad opera della Rote Armee Fraktion (i cui
capi vennero ben presto trovati immoti nel carcere in cui erano reclusi).
Nel frattempo il Pci, o partito fratello dell’arco costituzionale, lanciava
veementi campagne di stampa alternate ad iniziative accusatorie contro partiti
ed esponenti dell’arco costituzionale. In marzo i radicali esigevano
l’incriminazione di Giovanni Leone, presidente della Repubblica, per l’affare
Lockheed.
L’affare Lockheed, precisamente. Lo scandalo della Corporation Usa, sui
dettagli del quale, essendo parecchio noto in quanto riguardante episodi di
corruzione intercontinentali connessi a forniture militari, risulterebbe troppo
lungo soffermarsi. Curioso, però, e alquanto disorientante che il 3 marzo ‘77 un
C-130 Hercules, cioè Lockheed, acquistato dall’aviazione italiana tramite il
ministero della Difesa, si schiantasse al suolo, provocando decine di vittime.
Ebbene, soltanto a distanza di una settimana, la maggioranza della Camera, per
la prima volta nella storia repubblicana, votava per l’incriminazione presso la
Corte Costituzionale degli ex ministri della Difesa, Luigi Gui (precisamente
quello del convegno padovano sui “padri dell’Europa”, di cui ricorreva il
centenario della nascita) e Mario Tanassi, per sospetto di corruzione.
Come è noto Luigi Gui, il quale non era stato nemmeno indiziato di reato
dal magistrato ordinario che aveva istruito la causa, venne successivamente
assolto dalla Corte per non aver commesso il fatto. Ad interpretare il ruolo
accusatorio alla Camera, ovvero a votargli contro, in occasione del giudizio, si
sarebbero distinti esponenti comunisti, quelli cioè che esigevano il
compromesso storico. Ma il supposto reo, definito “leftist” dall’ambasciatore
123
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Volpe in una missiva del ’73, non era forse un seguace di Moro anzi il “top
Moro lieutenant” (definizione di fine giugno ‘75), il quale Moro lavorava allo
storico accordo? Ma perché poi prendersela con uno di cui conoscevano bene
ciò che sapeva anche – leggi più in basso – la diplomazia americana? Caso mai
era quest’ultima che poteva riservargli qualche rancore per non aver egli votato
a suo tempo, da dossettiano, per il Patto atlantico. Ma il Pci di Berlinguer…
E d’accordo, sarà pur vero che non era facile resistere alle pressioni degli
indignati dal basso, i quali avrebbero sospettato di chissà quali collusioni gli
eredi di Lenin investiti delle responsabilità processuali ove si fossero disposti
ad una serena valutazione delle singole responsabilità personali. E si potrà
anche convenire che ad assumere il ruolo di censori, ovvero di presunti tutori
della pubblica moralità, si potevano ottenere parecchi suffragi in sede elettorale,
magari realizzando addirittura l’agognato “sorpasso”, che sarebbe prodotto ben
altro e ben più che un “compromesso”. Tant’è vero che l’intervento di Moro alla
Camera in difesa di Gui risultò in primo luogo una difesa di tutta la Dc, dei suoi
valori e della sua storia, dall’attacco che vedeva protagonisti i rivali-candidati
partner. Con tutto ciò…
Senza proseguire oltre, quel che qui rileva è far nuovamente ricorso ai
documenti di WikiLeaks, sempre in connessione con le personalità fatte oggetto
del convegno di Padova. Nel caso, il riflettore si sposta, ma non senza rimandi
all’eredità di De Gasperi, precisamente su Luigi Gui. Quest’ultimo, stato più
volte ministro della Repubblica, viene ricordato tra l’altro per lo scritto
clandestino pro unità europea, attribuibile ad “Uno qualunque”, fatto circolare
già durante la Resistenza nella natale città padana ed ampiamente ricordato nel
detto convegno. Peraltro nella stessa sede sono stati messi in evidenza ulteriori
aspetti, fra cui le riforme attuate dal ministro Gui nel settore dell’istruzione, con
apertura di idee decisamente europea. Ed altro ancora. Pertanto vale la pena
individuare quanto venga a lui dedicato nelle carte messe in rete da Julian
Assange.
Nulla sull’Europa in quanto tale, per la verità, ma molto, e parecchio
istruttivo, a proposito dei riflessi del cruciale caso Lockheed appena ricordato,
agli esordi del quale Luigi Gui, con atto non poco inusuale, si era
volontariamente dimesso da ministro degli Interni, finché non venisse fatta
chiarezza sulle sue responsabilità. La rilettura può risultare illuminante sotto
vari rispetti: in primis, per la consapevolezza dei diplomatici Usa che, con quello
scandalo, sorto in America per ragioni interne, erano gli Usa stessi a mettere
questa volta in crisi il saldo rapporto con gli alleati, quegli alleati a cui
rimproveravano di voler abbandonare la tradizione dei “padri” mediante le
aperture a sinistra. Tanto più che tra le carte dello scandalo messe in
circolazione non si citavano nemmeno per nome i più importanti accusati, ma li
124
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
si “incastravano” allusivamente, impedendo loro di difendersi in modo
adeguato. Con effetti a dir poco devastanti.
Una volta tanto, insomma, e volendo lasciar stare il dramma del Vietnam,
erano gli Usa a mostrare di non essere all’altezza dell’accordo originario,
impostato sulla reciproca fiducia, sulla trasparenza e sulla libertà, il quale aveva
nutrito e giustificato le scelte dei “padri”. E pertanto l’impatto sull’opinione
pubblica, ovvero la legittimazione di certe rivendicazioni di superiorità morale
degli avversari comunisti risultavano davvero imponenti, quanto estremamente
preoccupanti.
Per altro verso, dalle missive dei corrispondenti della potenza
d’Oltreatlantico emerge la constatazione di una coerenza negli atteggiamenti di
leader come Aldo Moro, tale da lasciare i mittenti di allora alquanto disorientati.
Benché i Dc di “left” fossero impegnati a rendere possibile il compromesso
storico, tuttavia si esprimeva in loro una sorta di attaccamento allo stile, alla
rigidezza stessa degasperiana, tali da renderli assai fermi e determinati nel
distinguersi e, se del caso, nel contrapporsi rispetto ai potenziali compagni di
viaggio affidati alla guida di Enrico Berlinguer.
A confermarlo concorre, fra gli altri, un telegramma di Volpe da Roma,
scritto nel travagliato agosto ’75, dopo i successi dei comunisti alle elezioni
amministrative che li avevano portati a partecipare alla gestione di città
importanti. Volpe riferiva che ne erano derivate forti pressioni perché a questo
punto il Pci entrasse anche nel governo nazionale. Eppure, fatto curioso, ad
opporsi a tale ipotesi erano stati proprio i “left wing” della Dc, compreso Donat
Cattin, il quale forse ne avvertiva la concorrenza sul proprio terreno più ancora
dei moderati alla Giulio Andreotti. A schierarsi insieme a lui era intervenuto
anche il ministro “left” degli Interni, Luigi Gui, che temeva malesseri
amministrativi e crescenti disordini. Ebbene:
DC LEFT WING LEADER DONAT CATTIN'S STRONG OBJECTION (REFTEL) TO THE
TRANSFER TO THE NATIONAL GOVERNMENT OF THE "OPEN" (TO PCI) CENTER-LEFT
COMPROMISE REACHED IN LOMBARDY AND ELSEWHERE, HAS TWICE BEEN FULLY
SUPPORTED BY INTERIOR MINISTER GUI. IN HIS LATEST PRONOUNCEMENT, AN
INTERVIEW IN ESPRESSO, GUI ADDS THAT THE LOCAL JUNTA ARE IN CHAOS, AND
WARNS THAT THE NATIONAL GOVERNMENT HAS NO LONGER A POLITICAL BASE
SUFFICIENTLY STRONG TO CONFRONT THE "SOCIAL PRESSURES" EXPECTED IN THE
FALL. 26
Arrendersi allora alla forza maggiore? No, serviva invece maggiore
chiarezza e determinazione da parte della Dc. Cosa alle quale Zaccagnini, a
DC RESISTENCE TO "OPENING' NATIONAL GOVERMMENT TO PCI…, 1975 August 20,
16:40 (Wednesday), 1975ROME11969_b.
26
125
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
detta di Volpe, rispose solo parzialmente, pur non potendo fare a meno, ancora
una volta, di richiamarsi doverosamente, immancabilmente, al “padre” De
Gasperi, nel nome di una netta distinzione fra chi stava da una parte e chi
dall’altra. Un’esigenza per la quale anche esponenti “dorotei” si erano associati
a:
…GUI AND DONAT CATTIN IN ENCOURAGING DC SECRETARY ZACCAGNINI TO
BRING CLARITY INTO THE DC POSITION, A REQUEST ZACCAGNINI SATISFIED ONLY
PARTIALLY IN HIS MEMORIAL EDITORIAL TO DEGASPERI, AUGUST 19. ZACCAGNINI
EMPHASIZED DEGASPERI'S VIEW THAT A CLEAR LINE MUST BE MAINTAINED
BETWEEN THE MAJORITY AND THE PARLIAMENTARY OPPOSITION.
Infine, sempre a voler valorizzare la visitazione dei documenti di
WikiLeaks, nella determinazione con cui Luigi Gui venne attaccato dai
potenziali compagni di strada decisamente più “left” di lui si percepisce, e il
dato emerge con chiarezza dai resoconti statunitensi, una dose di
strumentalizzazione del caso davvero cospicua.
“Honest man and efficient administrator”
In effetti, all’interno dei messaggi dedicati dall’amministrazione Usa al
clamoroso affaire, Luigi Gui ritorna parecchie volte, insieme alla segnalazione
dei diversi incarichi occupati nel corso dei successivi governi. In seno ai quali
egli risultava assai vicino, come accennato, alle posizioni del presidente della
Dc, sostenitore dello storico compromesso e tragicamente scomparso nel
maggio ’78. Dicesi sempre Aldo Moro, ovviamente, destinato ad essere rapito
dalle cosiddette BR nello stesso giorno, 16 marzo, in cui il governo Andreotti
entrava in carica con il voto favorevole del Pci, ormai parte della maggioranza.
Aldo Moro, decisamente, accanto al quale non vanno mai dimenticati i cinque
uomini della scorta, caduti a via Fani al momento del rapimento.
Da annotare, tornando a Gui, che qualche singolo, isolato documento di
WikiLeaks fa cenno, tanto per dire, alla contrarietà dell’ancora ministro
dell’Interno Gui verso la rivendicazione, sostenuta dalla Cgil, di concedere il
diritto di sciopero alle forze di polizia. Qualche altro concerne invece la sanità,
di cui fu ministro fra ’73 e ’74. Con tutto ciò, il grosso della documentazione che
lo riguarda verte direttamente o indirettamente sul suddetto affaire di portata
internazionale. Uno scandalo suscitato con effetti devastanti dalla pur
benintenzionata commissione presieduta dal senatore democratico Frank
Church, incaricatasi di portare alla luce molti eccessi dell’amministrazione
statunitense.
Ora, non sarà questa la sede per affrontare il caso in tutti i suoi aspetti e
nemmeno con l’intera documentazione offerta dai leaks. Forse si potrà trovare
126
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
un’occasione successiva per tornarci sopra. Di seguito verranno pertanto presi
in esame soltanto i riferimenti alla persona e alla cultura politica di Luigi Gui
(con connessioni ai “padri”) allegando peraltro la riproduzione del primo
documento in cui egli viene citato. Un messaggio “confidential” che offre
un’assai attenta ricognizione dell’impatto di quello che viene presentato dal
mittente stesso, ovvero l’ambasciatore Beaudry, come un gravissimo autogol
statunitense, in grado di scuotere l’intera società italiana, compromettendone i
rapporti con gli Usa e avvantaggiando il Partito comunista.
Ad addentrarsi a questo punto fra le righe del lungo rapporto,
teletrasmesso a carattere maiuscolo come al solito, ci si allarga un po’ il cuore,
sia consentito confessarlo, nel leggere certe affermazioni, che pur non lasciano
dubbi sui tormenti, politici e personali della situazione complessiva. Le
circostanze di tempo sono quelle degli esordi, o quasi, della vicenda, ovvero nel
marzo ’76, un anno prima del pronunciamento della Camera:
LUIGI GUI, ON THE OTHER HAND, WAS ONE OF THE CHRISTIAN DEMOCRATS
WITH IMPECCABLE CREDENTIALS AS AN HONEST MAN AND AN EFFICIENT
ADMINISTRATOR. THE DC CAN ILL AFFORD TO HAVE ONE OF THEIR MOST
ESTEEMED REPRESENTATIVES FOUND GUILTY IN THIS SCANDAL. EVEN IF
GUI AND TANASSI ARE NOT PROVEN GUILTY, IT WILL BE ALMOST
IMPOSSIBLE TO THEM, IN THE CIRCUMSTANCES, TO PROVE THEIR
INNOCENCE. 27
“Impeccable credentials”. Non un’affermazione da poco. Solo che uno
degli aspetti più crudeli della vicenda consisteva proprio nel fatto che, specie a
proposito di Gui, i documenti della commissione Church su cui si basavano le
accuse in Italia potevano suscitare induzioni, ma non citavano in maniera
incontrovertibile la persona. E per di più la documentazione restante, che
avrebbe potuto consentire di risolvere positivamente il caso, restava in buona
parte indisponibile.
Eppure fin dall’inizio erano stati chiesti dagli interessati i dossier o altro
che li riguardavano, visto che la stampa aveva fatto circolare indiscrezioni sui
nomi dei sospettati, desumendoli dalle date in cui si parlava di ministri della
Difesa in carica (Gui dal giugno ’68 al marzo ‘70) durante le operazioni di
compravendita degli Hercules. Ma con tutto ciò l’amministrazione Usa non era
stata in grado di fornire delle carte tali da scagionarli definitivamente. Anche
perché, nel momento in cui aveva dovuto cominciare, su richiesta degli
interessati, a rendere pubblica la documentazione, alcuni dei personaggi
ITALIAN LOCKHEED SCANDAL: ITS MEANING AND IMPACT, 1976 March 1, 16:15
(Monday), 1976ROME03342_b.
27
127
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
realmente compromessi erano stati costretti ad uscire allo scoperto, con tutte le
spiacevoli conseguenze che si possono immaginare.
Ciò che qui comunque maggiormente ci riguarda è un passo precedente
rispetto alla citazione elogiativa di cui sopra. In esso lo scrivente Beaudry
sottolineava l’eccezionalità, seppur quanto imbarazzante per il governo Usa (e
non solo), del gesto ”precedent setting” compiuto da Gui nel dimettersi dagli
Interni. A costo di lasciare la prestigiosa poltrona, egli richiedeva innanzitutto
chiarezza, carte alla mano, sui suoi comportamenti. Cosa per la verità non facile
da ottenere:
AS THE DOCUMENTS KEPT APPEARING IN THE PRESS AND AS OTHER
INDUSTRIALIZED NATIONS--ESPECIALLY JAPAN AND HOLLAND--BEGAN TO
MAKE VERY VIGOROUS INVESTIGATIONS, THE ITALIAN GOVERNMENT WAS
FORCED TO BEGIN STEPS TO "BRING FACTS IN THIS CASE TO LIGHT".
MINISTER GUI'S REFUSAL TO CONTINUE IN THE NEW GOVERNMENT UNTIL
HE HAD PROVEN HIMSELF INNOCENT WAS A PRECEDENT SETTING ACTION
WHICH WAS UNSETTLING FOR MANY OF HIS FELLOW CHRISTIAN
DEMOCRATS (AND NO DOUBT POLITICIANS OF OTHER PARTIES AS WELL.)
THIS LED TO OUR GOVERNMENT'S PROVIDING SET OF "LOCKHEED"
DOCUMENTS TO BOTH MR. GUI AND TO THE GOVERNMENT OF ITALY. THEY
COMPLAINED THAT THEY DID NOT RECEIVE ALL THE DOCUMENTS WHICH
HAD PREVIOUSLY BEEN DISCUSSED IN THE PRESS. 28
Del resto, anche il 19 febbraio precedente Volpe aveva inviato
considerazioni analoghe, a proposito di colui che definiva una delle
figure più importanti della Dc:
GUI, WHO HAS REPUTATION FOR HONESTY -- PROBABLY WELL - FOUNDED, IS
APPARENTLY HAMPERED IN ABILITY TO DEFEND HIMSELF AGAINST CHARGES OF
CORRUPTION. GUI HAS STRONGLY PROFESSED TOTAL INNOCENCE AND, EQUALLY
STRONGLY, DEMANDED FULL OPPORTUNITY TO PROVE THAT. SINCE U.S. HAS BEEN
RESPONSIBLE FOR HAVING RAISED CHARGES IN FIRST PLACE, WE BELIEVE IT HAS
EQUAL RESPONSIBILITY TO MAKE ALL FACTS AVAILABLE TO GUI. THIS IS ALL THE
MORE IMPORTANT SINCE GUI REPRESENTS ONE OF MORE IMPORTANT FIGURES
WITHIN DC.
Eppure, poco da fare, il contorto iter dell’accusa alla persona avrebbe
continuato a basarsi sostanzialmente su un documento in cui si alludeva ad un
“previous minister” e “certi membri del suo team” in riferimento ad una
“special fee”, ovvero supposta tangente, nonché su una nota scritta a mano e
parzialmente cancellata in cui figurava tra l’altro “defence minister Gui”29. Per
Ibidem.
Cfr. punto 2, in, DOCUMENTATION RELEASED BY CHURCH SUBCOMMITTEE
REGARDING LOCKHEED MILITARY AIRCRAFT SALE TO ITALY 1976 February 5, 22:51
28
29
128
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Eurostudium3w luglio-settembre 2015
parte sua, Beaudry si dilungava nel mettere in risalto tutte le conseguenze
negative dello scandalo, tanto per gli Usa che per i loro alleati.
Un mese dopo, dal console generale Usa a Milano, Thomas W. Fina,
arrivavano al Dipartimento di Stato ulteriori spiacevoli notizie, per quanto
relativamente secondarie: malgrado tutto, la Dc del Veneto aveva fatto un altro
passo verso sinistra, uno “step leftward” zaccagniniano, benché le banche,
“some” camere di commercio e il giornale veneto più influente restassero in
linea di massima nelle mani dei Dc meno di left. Tra cui il presidente regionale e
il prossimo ministro delle Partecipazioni statali, classificato dall’informatore
anglofono come “doreoteo”, poi scomparso, cadendo in mare, nel 1984. Un
documento assai dettagliato, a riprova di quanto le vicende politiche locali
venissero seguite con estrema attenzione30.
Per ulteriore conferma, il console Fina si rifaceva vivo ad appena 20 giorni
di distanza, con un “cable” di approfondimento mirato proprio sul caso
Padova. Il suo preciso resoconto – nel contesto di un’indagine a tappeto sul
possibile esito delle imminenti elezioni nazionali, del giugno ’76, quelle del
tentato “sorpasso” – suonava come di seguito: situazione economica, descritta
settore per settore, tutto sommato soddisfacente; quanto alla politica, ancora
buon controllo su città e provincia da parte della Dc, composta per tre quarti
dalla “Gui faction”, orientata “toward Aldo Moro”, benché senza ormai la
maggioranza assoluta; persistente autorevolezza in città del vescovo,
direttamente consultato dal console, e salda influenza della Chiesa, che il culto
di Sant’Antonio contribuiva a rendere piuttosto benestante, grazie all’attivismo,
tra l’altro, di Comunione e Liberazione nell’università e altrove.
Era in corso anche un significativo rinnovamento dei quadri alti della Dc,
mentre i socialisti collaboravano troppo con i comunisti, per parte loro gente
parecchio seria, seppur sospettati di tornare a fare gli autoritari - confermava il
“bishop, a bearded capuccian monk” - qualora avessero prevalso. Certo, a dar
grave fastidio era sempre il caso Lockheed, ma non perché gli amici e i votanti
della Dc credessero poi alle accuse di corruzione contro Gui. Tutt’altro,
riassumeva Fina:
LOCKHEED INEVITABLY A FACTOR IN PADUA. DC PROVINCIAL SECRETARY
THOUGHT SCANDAL HAD DEFINITELY HURT PARTY, THOUGH HIS
PREDECESSOR SAID LOCAL DC VOTERS DID NOT BELIEVE EVERYTHING THEY
(Thursday), 1976STATE028662_b. Da considerare anche i messaggi in cui l’amministrazione Usa
parlava dell’invio in segreto a Gui dei documenti del processo che lo riguardavano. Ad es. il
telegramma del 26 febbraio del 76., 1976ROME03111_b. I documenti non portavano comunque
piena chiarezza.
30 VENETO DC: ANOTHER STEP LEFTWARD, APR 10-11, 1976, 1976 April 13, 15:30
(Tuesday), 1976MILAN00899_b.
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
READ ABOUT HIS FRIEND GUI. LOCAL PEOPLE KNOW HE HAS NO VILLAS OR
EXPENSIVE CARS. ACCORDINGLY, THEY DO NOT BELIEVE CHARGES AGAINST
HIM. 31
Niente ville, niente macchinoni. A Padova, in breve, al Gui corrotto non ci
si credeva proprio, almeno fra la gente che gli assicurava la maggioranza nella
Dc e alla Dc.
Il problema era semmai di sbarazzarsi di qualche altro caso eventualmente
compromettente a livello nazionale, in modo da ridare fiducia alla popolazione.
ON NATIONALS [sic] LEVEL, SITUATION JUDGED MORE SERIOUS. BOTH
PRESENT AND PAST SECRETARIES URGED US TO COOPER ATE IN QUINYLY
[sic] PROVING OR DISPROVING GUILT OF DC NATIONAL LEADERS. NOTHING
COULD BE WORSE, THEY SAID, THAN FOR DC TO ENTER ELECTIONS WITH
CLOUD HANING [sic] OVER EVERYONE. BETTER TO BITE BULLET AND THROW
OUT ONE OR TWO THAN HAVE ALL PAY. 32
L’importante, per capire come sarebbero stati i comportamenti degli
elettori, detto anche più avanti, era il modo con cui i partiti e la loro immagine
sarebbero stati giudicati, sotto i diversi profili, a livello nazionale. A tale
riguardo, il documento del settembre successivo, intitolato “Farewell to Padua”
– l’amministrazione Usa stava per trasferire i propri specialisti da Padova al
distretto consolare di Trieste - risulta non meno istruttivo. Si tratta di un testo
particolareggiato e metodico nell’esposizione, frutto della consultazione
sistematica di una vera folla di interlocutori. Autore, ancora una volta, Thomas
W. Fina.
Ebbene, venendo ai contenuti, non che la Dc sia andata male alle elezioni
del 20 giugno (sempre ’76), tutt’altro (56 per cento dei voti per la Camera), ma il
clima è cambiato: gli “old bosses” Mariano Rumor e Luigi Gui sono
oggettivamente in declino, mentre avanzano figure più giovani, peraltro meno
orientate su Moro. Il Pci poi, benché rimasto sulle posizioni, risulta sempre più
attivo e determinato. Tanto che la Dc lo tratta con deferenza e “ginglerly”, con
cautela. Segue la dettagliata esposizione della situazione economica e politica.
Tra l’altro il rettore assicura che sono solo 200 gli studenti
“extraparliamentarians” su un complesso di 60 mila allievi del suo ateneo.
Dopodiché lo “electronic telegram”, prima di riprendere l’analisi politica,
ritorna sulla questione dei leader e sull’effetto del caso Lockheed ancora
incombente.
CABLE FROM PADOVA, 1976 April 30, 15:10 (Friday), 1976MILAN01031_b.
Ibidem. Da leggere, sempre in tema di previsione dei risultati elettorali, la ricognizione della
situazione milanese del 25 maggio successivo, 1976MILAN01266_b.
31
32
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Eurostudium3w luglio-settembre 2015
E qui, sia pure incidentalmente, un nuovo spontaneo elogio alla persona
di Luigi Gui, che la gente non crede affatto colpevole, e tuttavia, si trova di fatto
danneggiato e sminuito, per quanto ingiustamente.
THERE HAVE BEEN MAJOR LEADERSHIP SHIFTS, FOR EXAMPLE. MARIANO
RUMOR IS SAID TO BE FINISHED, VICTI M OF LOCKHEED REVELATIONS.
ANOTHER FORMER MINISTER, LUIGI GUI, JUST ELECTED SENATOR, HAS
SUFFERED INJURY FROM SAME SOURCE. THROUGH [sic] PEOPLE SAY THEY
DON'T BELIEVE HIM GUILTY OF BRIBE TAKING, EVERYONE AGREES HIS
INFLUENCE IS DIMINISHED LOCALLY. 33
Per parte nostra si può aggiungere che l’altro esponente politico citato,
Mariano Rumor, ex presidente del Consiglio, sarebbe stato successivamente
esentato dalle accuse, mentre la Camera, come accennato, avrebbe infierito
sull’esponente moroteo, non certo condannandolo, ma rinviandolo alla Corte,
nella presumibile ipotesi di una sua assoluzione.
Difatti le carte, o telegrammi elettronici di WikiLeaks con citazione di
Luigi Gui, si spostano sulle vicende della Commissione parlamentare di
inchiesta, presieduta dal Dc Mino Martinazzoli, messa all’opera sul caso
Lockheed. Come riferisce il solito Beaudry, i tre ministri accusati, Gui, Rumor,
Tanassi, vorrebbero essere interrogati con “fullest publicity” sulle risultanze a
loro carico contenute nei documenti forniti dagli Usa. Ma questi ultimi non
vogliono. Difatti:
THIS DECISION HAS GIVEN THE LEFT-LEANING PRESS ANOTHER
OPPORTUNITY TO CALL ATTENTION T [sic] THE ALLEGED AMERICAN "VETO"
OVER THE WORK OF THE COMMISSION. EVEN COMMITTEE PRESIDENT
MARTINAZZOLI (DC) IS QUOTED BY LA REPUBBLICA (LEFT-WING) AS
WRITING TO GUI, "I'M SORRY TO SAY IT, BUT WE CAN'T (COMMENT:
INTERROGATE PUBLICLY), THE UNITED STATES DOESN'T WANT IT." . 34
Una situazione imbarazzante per Washington e dintorni, che il vice-capo
della Mission di Roma vorrebbe venisse superata, consentendo la citazione dei
documenti provenienti d’Oltreatlantico nelle “public interrogations”. Intanto le
procedure proseguono con la precisazione dei capi d’accusa sia contro i politici
che contro le altre persone coinvolte. Per quanto interessa in questa sede,
sempre Beaudry riassume:
EX-MINISTERS GUI AND TANASSI, FORMER AIR FORCE CHIEF FANALI AND
ANTONIO AND OVIDIO LEFEBVRE: "AGGRAVATED CORRUPTION" FOR
HAVING ACCEPTED BRIBES AND "DOUBLY AGGRAVATED FRAUD" FOR
FAREWELL TO PADUA, 1976 September 21, 14:15 (Tuesday), 1976MILAN02033_b.
LOCKHEED COMMITTEE CITES NON-RESPONSE BY US IN REFUSING PUBLIC
INTERROGATIONS, 1976 December 15, 16:15 (Wednesday), 1976ROME20366_b.
33
34
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F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
HAVING RAISED THE PRICE OF THE HERCULES AIRCRAFT SO AS TO MAKE
THE ITALIAN GOVERNMENT PAY FOR THE BRIBES AND "CONSULTANT" FEES .
35
Imputazioni pesanti, aver accettato denaro sottobanco, aver aggravato i
conti dello Stato per interesse proprio e di complici. Il segretario Zaccagnini e
tutta la Dc, compresi i suoi membri nella Commissione, evidentemente messi in
minoranza, fanno comunque fronte compatto in difesa dei propri colleghi
accusati, suscitando qualche perplessità in Beaudry:
THE DC HAS CONTINUED ITS UNQUALIFIED S UPPORT OF FORMER PM RUMOR
(REFTEL B) AND FORMER MINISTER GUI. DC COMMITTEE MEMBERS VOTED
AGAINST EVERY FORMAL CHARGE WHICH EVEN ALLUDED TO ILLEGAL
BEHAVIOR ON THE PART OF EITHER RUMOR OR GUI. IN A NATIONALLY
TELEVISED INTERVIEW, DC SECRETARY ZACCAGNINI WEI GHED IN WITH A
STATEMENT THAT HE WAS "ABSOLUTELY CONVINCED" ON THE BASIS OF
"LONG AND FRANK DISCUSSIONS" OF THE INNOCENCE OF BOTH RUMOR
AND GUI. COMMENT: THE DC'S DEFENSE OF RUMOR AND GUI GOES BEYOND
PRO FORMA REQUIREMENTS. DC MOTIVES, IN PARTICULAR THOSE OF
ZACCAGNINI, ARE HARD TO DEFINE AT THIS POINT. END COMMENT. 36
Evidentemente Zaccagnini non era talmente spregiudicato da tradire i
propri colleghi, che sapeva non imputabili di reato, pur di evitare un confronto
con il Pci, agevolando così il solito compromesso. Non per nulla, all’interno
della Commissione parlamentare d’inchiesta tutti i Dc si schierarono in difesa
dei due compagni di partito, salvo il fatto che, 29 gennaio ’77, Rumor non venne
indiziato grazie al voto favorevole dell’indipendente valdostano (e al valore
doppio, stante il caso di parità, del voto del presidente Martinazzoli), mentre
Gui, con vera sorpresa del già citato Beaudry, cui sfuggiva il comportamento
del valdostano, non ebbe altrettanta fortuna37.
Si apriva così quel mese e mezzo assolutamente sfiancante dell’attesa del
voto in Parlamento, con la suspence della fase preparatoria, la presidenza della
Camera affidata ad un “left” del Pci come Ingrao (recentemente scomparso), gli
inasprimenti polemici causati dalla controversa legge sull’aborto, i rinnovati
attacchi radicali al presidente Leone, l’impegno del presidente della Dc, Aldo
Moro, a intervenire in difesa di Gui. Tutto seguito attentamente dai diplomatici
Usa e tutto culminato, previa ricordata incredibile tragedia dell’Hercules, nel
celebre discorso di Moro, il 10 marzo, davanti a Camera e Senato in seduta
LOCKHEED COMMITTEE COMPLETES BILL OF CHARGES ON ITALIANS -AMERICANS ARE NEXT, 1976 December 7, 15:45 (Tuesday), 1976ROME19914_b.
36 Ibidem.
37 LOCKHEED -- COMMITTEE INCROMINATES [sic] TWO FORMER MINISTERS, 1977
January 31, 00:00 (Monday), 1977ROME01563_c.
35
132
F.G., Nuovamente
Eurostudium3w luglio-settembre 2015
comune. Con l’amaro seguito del voto sfavorevole riportato dal suo “close
friend and factional colleague”, con cui veniva rinviato assieme a Tanassi alla
Corte costituzionale.
Coinvolgente leggere al riguardo il commento di Beaudry, rimasto colpito
dai contenuti dell’intervento di Moro, il quale andò ben al di là della difesa del
“colleague”. Con qualche danno, si potrebbe annotare, per la posizione di Gui,
che il presidente della Dc presumibilmente riteneva ormai compromessa dalle
logiche antagonistiche. Aldo Moro infatti:
WENT FURTHER BY DEFINING THE ISSUE IN UNCHARACTERISTICALLY FORCEFUL
TERMS AS THE INTEGRITY OF THE DC ITSELF. HE THEREFORE SERVED A WARNING
THAT AN ANTI-DC VOTE WILL JEOPARDIZE FURTHER POLITICAL COOPERATION
WITH THE LEFT PARTIES AND POSSIBLY LEAD TO EARLY ELECTIONS.
Non solo, ma era la funzione storica di tutto il partito democraticocristiano a dover essere degasperianamente (sia concesso) rivendicata:
MORO DEFENDED THE DC'S POLITICAL RECORD OVER THE LAST 30 YEARS,
NOTWITHSTANDING CERTAIN ERRORS, AS HAVING PRESERVED ITALIAN
DEMOCRACY AND POLITICAL LIBERTIES.
L’autorevole, carismatico presidente non temeva, in definitiva, di
compromettere il compromesso, pur di mantenere la fiducia della Dc in se
stessa, rafforzarne al coesione interna, forse rivendicare a sé la leadership del
partito e mettere in guardia le forze concorrenti. Pertanto, concludeva Beaudry,
era andato “beyond the limits” dell’immediato contesto:
THUS, IT MIGHT BE SAID THAT MORO'S SPEECH WENT BEYOND THE LIMITS
DICTATED BY THE IMMEDIATE OBJECTIVE SITUATION. IF MORO EXCEEDED THOSE
LIMITS, HE DID SO INTENTIONALLY, PROBABLY TO SERVE A POLITICAL WARNING TO
ALL THAT AN ANTI-DC VOTE WILL EXACERBATE FUTURE POLITICAL COOPERATION
BETWEEN THE DC AND THE LEFT PARTIES. 38
Di certo per Gui si apriva una prova davvero difficile da sopportare, anche
perché non stavano solo a Padova e dintorni coloro che lo ritenevano
ingiustamente perseguito e perseguitato. Il giorno successivo al voto, tale
Wayman, funzionario Usa a Milano, incontrava infatti Indro Montanelli, non
ancora fatto segno del ricordato attentato, e lo trovava parecchio inferocito,
anche a voler tener conto del suo noto anticomunismo. Questo il suo sfogo,
comprensivo di suggestioni non trascurabili, oltre che di fiducia nell’integrità di
Gui, che nessuno, a suo avviso, pensava fosse colpevole, nemmeno i comunisti:
MORO ENDS LOCKHEED DEBATE WITH POLITICAL WARNING TO, 1977 March 10,
00:00 (Thursday), 1977ROME03963_c.
38
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Eurostudium3w luglio-settembre 2015
1. MONTANELLI WAS FIT TO BE TIED WHEN CONGEN [counsel general] MET HIM
MARCH 11. VOTE BY PARLIAMENT TO INDICT GUI WAS MAJOR COMMUNIST VICTORY
IN HIS VIEW AND DUE TO DIVISIONS IN DC. MONTANELLI HAD LITTLE USE FOR DC
BUT IT WAS ONLY REMAINING BARRIER TO COMMUNISTS IN ITALY. NO ONE, HE
RAGED, THOUGHT GUI WAS GUILTY, ESPECIALLY NOT COMMUNISTS. INDICTMENT
WAS PCI MANEUVER TO PLLORY# ENTIRE DC. AND IT HAD SUCCEEDED. NO MATTER
WHAT OUTCOME OF TRIAL BEFORE COURT, DC HAD BEEN DEALT NEW BLOW. AS
FOR TANASSI, HE MIGHT WELL BE GUILTY. / 2. MAIN QUESTION, HE THUNDERED,
WAS WHO IN DC WAS TO BLAME FOR INDICTMENT? PICCOLI HAD PROPOSED DC
ABSTENTION THAT WOULD HAVE MADE PARTY DEFECTIONS AND THEREFORE
INDICTMENT IMPOSSIBLE. WHY WAS THAT APPROACHED SABOTAGED? 39
Il timore di Montanelli era che gli errori americani, commessi nel
provocare e gestire il caso Lockheed, finissero precisamente per portarli ad
accettare la prospettiva dell’ingresso dei comunisti al governo, sconvolgendo gli
assetti consolidati dall’epoca che ormai possiamo chiamare degasperiana. In
ogni caso, ad avviso del noto giornalista, il discorso di Moro era stato un attacco
ad Andreotti e al suo governo sostenuto dall’astensione del Pci. Anche se il
furibondo Montanelli non era stato poi in grado, annotava il corrispondente
Usa, di rispondere a tutti i propri interrogativi.
Di sicuro - si leggeva sempre nella stessa data in un telegramma da Roma,
a firma Beaudry - il discorso di Moro aveva prodotto l’effetto di schierare
massicciamente la Dc anche a difesa di Tanassi, mentre in sede di commissione
inquirente i democristiani gli avevano votato contro.
Di conseguenza i fronti si erano irrigiditi, con il risultato di porre contro la
Dc tutti gli altri partiti, compresi liberali e repubblicani. Ma non solo, perché
persino quelli del Movimento sociale italiano si erano affiancati ai comunisti e
agli altri, con il risultato di produrre un’esile maggioranza assoluta, eppur
sempre maggioranza, a voto segreto, a danno di Gui.
FOR GUI, THE MARGIN WAS THIN, WITH 487 PARLIAMENTARIANS VOTING FOR
INDICTMENT, ONLY TEN MORE THAN REQUIRED. TANASSI WAS INDICTED BY 513
VOTES. THE NUMBERS INDICATE THAT THE PRO-INDICTMENT COALITION HELD,
WITH VERY FEW INDIVIDUAL "CONSCIENCE" DECISIONS. INTERESTINGLY, WITHOUT
THE VOTES OF NEO-FASCIST ITALIAN SOCIAL MOVEMENT, WHO JOINED THE LEFTIST
PARTIES, THE REPUBLICANS AND THE LIBERALS, THE INDICTMENT OF GUI WOULD
NOT HAVE BEEN POSSIBLE. 40
DARK POLITICAL SCENE AND US THREAT, 1977 March 11, 00:00 (Friday),
1977MILAN00440_c., confidential da Wayman.
40 PARLIAMENT INDICTS TWO FORMER MINISTERS IN LOCKHEED SCANDAL, 1977
March 11, 00:00 (Friday), 1977ROME03989_c. Seguitava Beaudry: “THE RULING CHRISTIAN
DEMOCRATIC PARTY (DC) NOT ONLY SUPPORTED ITS OWN DEFENDENT, GUI, BUT
ALSO APPARENTLY HELD ABSOLUTELY FIRM IN FAVOR OF TANASSI. THIS IS A
MEASURE OF THE DEGREE TO WHICH THE DC PARLIAMENTARIANS GOT PARTY
39
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Eurostudium3w luglio-settembre 2015
Un esito in definitiva ingiusto, come avrebbe confermato la Corte
costituzionale, con la sua sentenza di assoluzione piena, per non aver
commesso il fatto. Eppure il discorso di Moro, in difesa della tradizione
originaria della Dc, malgrado il suo favore per il compromesso storico, aveva
significato qualcosa. Moro insomma non si era distaccato da una posizione di
fermezza, atta a rinsaldare la coesione interna del suo partito, che diremmo
ancora una volta degasperiana.
A confermarlo, in data 14 marzo 77, era persino l’opinione di un esponente
Dc non sospettabile certo di simpatie di sinistra. Vale a dire Massimo De
Carolis, come emerge dalla sintesi di uno scambio di idee avuto con il console e
tale “executive officer”, presso il consolato Usa a Milano.
Homo novus della scena democristiana, confidente dell’amministrazione
statunitense e con un futuro come minimo tormentato, De Carolis non si diceva
certo contento della situazione. A suo avviso serviva molto più attivismo su
vari fronti, compresa la ricerca di aiuti per la Dc provenienti dall’esterno. Tra
l’altro aveva preso contatti con la comunità italo-americana, anche a rischio di
venir ingiustamente sospettato di avvalersi di elementi sospetti, se non di gente
legata al banchiere Michele Sindona. Ma lasciamo stare, benché si tratti di
particolari assai interessanti.
Rileva invece constatare in questa sede come De Carolis, un pochino
supponente quanto carico di attivismo, risultasse assai critico verso i suoi
colleghi di partito per come era stata gestita la vicenda Lockheed. Non che
dubitasse del fatto che Gui fosse “un uomo onesto”, e in ogni caso prove non ce
n’erano; però sarebbe stato più accorto a presentarsi direttamente alla Corte,
dove si giudicava in base ai dati di fatto, senza attendere il voto in Parlamento.
GUI WAS HONEST MAN AND, IF HE HAD TAKEN MONEY, DID IT FOR PARTY. IN ANY
CASE, PROOF NOT THERE. HE HIMSELF HAD URGED GUI TO GO BEFORE SUPREME
COURT VOLUNTARILY, DEPRIVING LEFTIST PARTIES OF CHANCE FOR POLITICAL
DECISION IN PARLIAMENT AND PUTTING HIMSELF BEFORE BODY MORE DISPOSED
TO MAKE JUDGMENT ON EVIDENCE. BUT THIS WASN'T DNE [sic] AND, IN FACT, DC
HAD HAD NO STRATEGY AT ALL.
Quanto a Moro, si era comportato con onore, ma un po’ tipo vecchia
guardia, serrando i ranghi in modo tradizionale. Ciononostante, la fermezza di
Moro, con il suo “magistrale” discorso nei confronti del Pci, con la sua linea
divergente nei confronti di Andreotti, aveva assunto un significato ben più
ampio rispetto alla vicenda in sé:
PRESIDENT ALDO MORO'S FIRM MESSAGE TO DIG IN THEIR HEELS (REFTEL), AND IS
ESPECIALLY STRIKING SINCE ONLY TWO OF THE EIGHT DC INQUIRY COMMITTEE
MEMBERS HAD VOTED IN TANASSI'S FAVOR AT THE COMMITTEE STAGE.”
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MORO'S SPEECH AHD [sic] BEEN MASTERFUL, BEST THAT OLD GUARD HAD TO OFFER,
BUT IT WAS STILL NO MORE THAN PARTY CLOSING RANKS IN TRADITIONAL WAY. IN
SUM. LOCKHEED AFFAIR HAD OFFERED DC CHANCE TO DO THINGS DIFFERENTLY,
BUT PARTY HAD NOT DONE SO. 3. MORO'S SPEECH OF COUSE [sic] HAD WIDER
SIGNIFICANCE IN ITS HARD STANCE AGAINST PCI. THAT DIFFERED DISTINCTLY
FROM LINE ANDREOTTI HAD BEEN PURSUING… 41
Insomma, alla fin fine, la “left” democristiana usciva ancora una volta
meno “left” di quanto gli occhiuti osservatori americani sospettassero. Magari
non proprio “subdued” alla causa, come De Carolis confermava
personalmentee di essere:
HE WAS JUST AS FIRMLY - DN ACTIVELY - COMMITTED TO NON-COMMUNIST, [p]ROU.S. AND EC, MARKET-ORIENTED FUTURE FOR ITALY AS EVER.
Niente comunisti, insomma, bensì Alleanza atlantica, Comunità europea
ed economia di mercato, anche per evitare che il Pci si avvalesse dell’industria
pubblica - così temeva De Carolis insieme ai suoi confidenti Usa - per
sgominare gli avversari, qualora fosse giunto al potere. Con tutto ciò, il
“magnificent” intervento di Moro (forse non a caso “old style”) aveva
dimostrato che quelle pietre miliari oltre un certo limite comunque non si
spostavano. E senza far ricorso a troppe reticenze o abilità manovriere. Salvo
poi essere proprio lui, il presidente, a dover alla fin fine pagare così
crudelmente per tutti.
Giungendo ormai in conclusione, si può annotare per completezza che
non risultano messaggi significativi di commento alla sentenza della Corte con
la quale Gui veniva assolto. Resta semmai da fare un cenno al telegramma
“confidential” del già citato ambasciatore in Italia, Richard Gardner, marito
della veneziana Danielle Luzzatto, trasmesso nel giugno successivo. Garner
riferiva che l’ex ministro, deferito alla Consulta con un “vote that followed strict
party line”, si era messo in contatto con l’ambasciatore medesimo. Lo aveva
fatto per ricordare, esprimendosi in modo decisamente garbato, di aver
ottenuto in gennaio da un “official” della Lockheed stessa, autore delle allusioni
DE CAROLIS ON ITALY AND ITALO - AMERICAN COMMUNITY, 1977 March 14, 00:00
(Monday), 1977MILAN00450_c., Confidential, Wayman. In un precedente colloquio, del 22
settembre ’76, 1976MILAN02039_b, De Carolis si era richiamato direttamente a De Gasperi,
lamentando i pericoli terzomondisti del presente: ACCORDING TO DE CAROLIS, THE
WHOLE QUESTION HAD PRETTY MUCH FALLEN INTO A TORPOR AFTER THE
DE GASPERI PERIOD AS FOREIGN POLICY SIMPLY EVAPORATED AS A MAJOR
ITALIAN POLITICAL CONERN. NOW, HOWEVER, HE SEES AN EFFORT ON THE
PART OF AN IMPORTANT FACTION IN THE CHRISTIAN DEMOCRATIC PARTY
TO MOVE ITALY INTO A THIRD WORLD POSITION.
41
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al “previous minister” su di basava l’accusa, un affidavit giurato. In esso il
funzionario:
DENIED THAT HE HAD DIRECTLY OR INDIRECTLY INTENDED TO IMPLICATE
GUI AS A RECIPIENT OF BRIBES.
Per ottenere questo l’imputato si era recato personalmente in America –
accompagnato dal suo avvocato e da un suo figlio, come si riscontra in un
messaggio firmato da Kissinger stesso42 – per testimoniare di fronte alla Sec
(Securities and Exchange Commission). Intendeva ovviamente “establish his
innocence”.
Ma su un piano generale la sua preoccupazione era per certi aspetti ancora
più grave rispetto al proprio caso personale, in cui era costretto a difendersi
senza che la lista di coloro che avevano davvero ricevuto “bribes” venisse mai
resa pubblica:
GUI SAID HIS INTENTION IN VISITING THE AMBASSADOR WAS TO POINT
OUT, ON HIS OWN BEHALF BUT ALSO ON BEHALF OF HIS P ARTY, THE
TREMENDOUS POLITICAL DAMAGE THAT COULD RESULT FOR THE
DEMOCRATIC PARTIES IN ITALY SHOULD ADDITIONAL LOCKHEED
DOCUMENTS CONTAIN INNUENDOES RATHER THAN FACTS. AMBASSADOR
ASSURED GUI THAT HE WOULD BRING THESE CONCERNS TO THE
ATTENTION OF THE DEPARTMENT AND INTERESTED USG AGENCIES. 43
Ecco, in questo caso, con tutto il rispetto per le intenzioni di Church, la
corruzione fra le due sponde dell’Atlantico, su iniziativa peraltro e con penose
reticenze degli Usa stessi, rischiava di mettere in crisi la saldezza del patto che i
“patres” avevano sottoscritto a tempo debito. Un accordo non certo fondato su
“bribes” e reciproci ricatti. Un’intesa che doveva legare insieme non solo
Washington e i paesi dell’Europa uscita affranta dalla guerra, ma anche quei
medesimi paesi fra di loro. A quel punto ai “democratic parties” non restavano
molti margini per evitare di aprire le porte, sotto la pressione popolare,
all’antagonista comunista, o comunque al compromesso con le forze sostenute
dall’Est. Così come sulle rive dell’Elba il disincanto per l’Occidente e per l’unità
LOCKHEED CASE, 1976 October 14, 20:21 (Thursday), 1976STATE254854_b.
LOCKHEED CHARGES AGAINST SENATOR GUI, 1977 June 22, 00:00 (Wednesday),
1977ROME10246_c. Sull’ambasciatore Gardner, nonché sul quadro dei rapporti transatlantici
del periodo, vale la pena di consultare anche l’articolo di Giulio Andreotti, “Italia-Usa”, apparso
nel 2004 sul mensile da lui diretto «30 giorni» (www.30giorni.it/articoli_id_4313_l1.htm) come
recensione al libro Mission Italy, scritto dall’ambasciatore. Oltre ai molti particolari istruttivi, vi
appare la prospettiva andreottiana del periodo del compromesso storico.”I comunisti si
impegnavano a riconoscere formalmente che Patto atlantico e Comunità europea erano i punti
fondamentali di riferimento della politica estera italiana”.
42
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europea in ristagno ravvivava il desiderio di ricongiunzione nazionale
mediante trattativa con gli assolutisti d’Oriente.
E dunque? Tormenti angosciosi di un’epoca ancora recente, che certo non
viaggiava nella sicurezza di quello che sarebbe stato l’esito finale, a fine anni
Ottanta. Fortuna che l’antagonista con la bandiera rossa celava sotto di sé difetti
ancora peggiori, quanto ormai prossimi a portarlo al tracollo. La corruzione,
tuttavia, è proprio il caso di notarlo, non avrebbe mancato di esercitare a lungo i
suoi effetti non poco devastanti, al di qua ed anche al di là della cortina, per non
dire della maligna contaminazione tra i due campi.
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