La fiera delle vanità di Koons A inizio secolo scorso un certo Kasimir Malevic ha inventato l’astrazione nel tentativo di dare una rappresentazione del vuoto; una cinquantina d’anni più tardi il proposito è stato ripreso dall’irascibile e mistico Yves Klein. Ma è toccato a un americano far sì che il vuoto stesso diventasse il contenuto dell’opera d’arte. Balloon Dog (Magenta), 1994 – 2000. Pinault collection – © Jeff Koons crédit photographique : © Jeff Koons Teapot, 1979. Photo : Douglas M. Parker Studios, Los Angeles The Sonnabend Collection, Nina Sundell Et Antonio Homem © Jeff Koons Iniziando il percorso della retrospettiva consacrata dal Centre Pompidou a Jeff Koons si ha l’impressione di entrare in un grande magazzino di lusso tipo il londinese Harrods o le parigine Galeries Lafayette. Un cammino che conduce oltre l’adagio che voleva denunciare la pubblicità in quanto “commercio dell’anima”: solo la luce riflessa sembra assurgere a valore. A partire dagli Inflatables degli esordi – giocattoli gonfiabili a metà strada tra il readymade dadaista e la pop art di cui l’artista è figlio e continuatore – ecco dipanarsi una gigantesca vetrina del consumismo più sfrenato. In sintesi la sostanza del sogno americano: successo, notorietà, poco importa se chiassosa. L’ascesa è graduale: aspiratori esaltati da neon mutuati dall’esperienza del pluricopiato Dan Flavin e acquari in cui palloni da basket troneggiano sospesi in un ovattato trionfo dello sport che diventa strumento di conquista per arrampicatori sociali, cedono presto il passo al glittering di oggetti banali e spesso kitsch la cui primigenia tautologia si sublima in rappresentazioni dell’immaginario collettivo più popolare. Balloon Dog (Magenta), 1994 – 2000. Pinault collection – © Jeff Koons. Crédit photographique : © Jeff Koons Lobster, 2003. Photo : Tom Powel Imaging. Collection de l’artiste © Jeff Koons Il processo di identificazione è inevitabile: chi non ha mai visto porcellane di dubbio gusto o statuine dorate in un negozio di souvenir? L’intervento di Koons gioca sulla riproducibilità dell’effimero che viene cristallizzato in opere plastiche tecnicamente perfette. E proprio in questa ricerca quasi maniacale della precisione del dettaglio – Koons fa ricorso ad artigiani di altissimo livello per la realizzazione dei propri lavori – sembra situarsi la chiave di lettura della nostra società: ciò che non affascina e non “brilla” non trova collocazione nell’universo della logica commerciale. Il palloncino eternato nell’acciaio (Balloon Dog), il cantante e la sua scimmietta (Micheal Jackson and Bubbles), il coniglietto giocattolo (Rabbit) diventano icone del nonsense imperante. Michael Jackson and Bubbles, 1988. Photo : Douglas M. Parker Studios, Los Angeles Collection particulière © Jeff Koons Antiquity 3, 2009-2011. Collection particulière, Courtesy Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso Para El Arte © Jeff Koons. Non mancano sottili critiche al sistema – la serie Luxury and degradation si propone di evidenziare come l’arte astratta sia accessibile (quasi) solamente alle classi più elevate – ma lo sguardo del nostro sembra più improntato a una divertita testimonianza della sua epoca. È il caso di Made in Heaven, la serie realizzata a inizio anni ’90 con l’allora moglie Cicciolina, in cui cavalca la massificazione del sesso per traslare verso l’arte le rappresentazioni mutuate dalle riviste pornografiche. O ancora delle sculture in alluminio delle serie Popeye e Hulk Elvis che riprendono l’idea degli oggetti gonfiabili e ingannano lo spettatore nella loro apparente verosimiglianza con oggetti reali. Gazing Ball (Ariadne), 2013. Photo : Tom Powel Imaging Monsoon Art Collection © Jeff Koons A chiudere la mostra sono le serie Antiquity – rivisitazione pop dell’arte del passato, declinata in statue e dipinti prodighi di ammiccamenti – e Gazing Ball in cui calchi in gesso di oggetti popolari e di capolavori scultorei quali Arianna addormentata o Ercole Farnese diventano supporto per piccole sfere blu che evocano elementi decorativi della natia Pennsylvania e che nelle intenzioni dell’artista costituirebbero il segno dell'”ineluttabile farsi decorative delle opere d’arte”. Difficile pronunciarsi sull’efficacia di questo intervento i cui presupposti sembrano fragili e facilmente smontabili. Resta un’evidenza dei fatti: l’apologia del prodotto – artistico in questo caso – riflette in ogni senso la decadenza che sembra attanagliare il mondo occidentale, sempre più indirizzato a una corsa verso una fruizione che non permetta di fermarsi a riflettere. Danilo JON SCOTTA Jeff Koons Centre Pompidou Parigi fino al 27 aprile 2015