Presentazione In questo spazio on-line, destinato a docenti ed alunni, sono presenti materiali di lavoro e di studio, che arricchiscono quanto già ampiamente rappresentato nei due volumi degli Esercizi. Nello specifico, si hanno le sezioni che seguono. - n.1. Ripasso in Rete: Frasi e Testi. Esercizi di varia tipologia, frasi e testi da tradurre e analizzare, costituiscono un ampio ventaglio di materiale di lavoro aggiuntivo, che ripropone in rapida sintesi tutti i temi morfosintattici studiati (che sono ogni volta espressamente segnalati). (Fonti dei testi in: www.trevisini.it, area docenti). - n.2. Ripasso in Rete: Tavole Morfologiche. Riproposte nel loro insieme secondo una scansione grammaticale standard, esse costituiscono un repertorio di facile e rapida consultazione delle “forme” grammaticali del latino. - n.3. Dal Corso ai Percorsi: Temi e Tracce. Il numero straordinariamente ampio e ricco dei testi presenti nei due volumi degli Esercizi offre al docente la possibilità di organizzare dei percorsi a tema, di varia tipologia e di diversa difficoltà. Egli potrà approfondire aspetti specifici della cultura di Roma antica, oppure aspetti della vita umana in generale, gli uomini, le donne, curiosità, aneddoti, eroi ed eroine, vizi, virtù, animali ecc… . Non c’è che l’imbarazzo della scelta, uno sguardo ai due Indici delle Versioni e il gioco è fatto. Qui noi proponiamo cinque possibili temi (in ogni Percorso testi già presenti nel Corso sono integrati con nuovi testi di contenuto omogeneo), che riteniamo possano contribuire alla formazione culturale e civile dell’allievo, al di là dell’esercizio specifico del “tradurre latino”: 1) Geografia dell’Italia; 2) Terre e popoli d’Europa; 3) L’uomo è un essere sociale; 4) L’amicizia; 5) Il vino, fra sacro e profano. Gli autori spaziano dalla latinità classica al latino dell’età imperiale, cristiana e medioevale. (Fonti dei testi in: www.trevisini.it, area docenti). 1 - n.4. La Trama e l’Ordito: Lingue a Confronto. Nell’immaginario culturale dell’uomo sono presenti motivi e temi di carattere universale (la “trama”), che, unendo fantasia e realtà, danno vita a miti e racconti che, grazie alla lingua, o meglio, le diverse lingue (l’ “ordito”), lo accompagnano attraverso il tempo, lo spazio, la storia e la cultura dei popoli. Essi si trasformano, si modificano, talvolta si capovolgono: in una parola, si adattano, tracciando le linee di una cultura che non si perde. Conoscere le lingue e confrontarne i diversi esiti in fondo è proprio questo: essere fruitori consapevoli di una cultura che è di tutti gli uomini e di tutte le donne, in qualunque tempo essi abbiano avuto vita e in qualunque spazio essa si sia realizzata. Peraltro il plurilinguismo è presente nella storia italiana da sempre, dall’era di Roma al Medioevo e fino alle diverse forme dialettali dell’italiano moderno, vere e proprie lingue. Un plurilinguismo che oggi si arricchisce delle lingue comunitarie, con le quali sempre più spesso siamo chiamati a confrontarci. Riprendendo e integrando alcune suggestioni offerte qua e là nel Corso, costruiamo dunque in questa sezione un percorso operativo innnovativo, che passa attraverso quattro temi di facile approccio e attrattiva per gli studenti - 1) Il diluvio universale; 2) Animali parlanti; 3) La metamorfosi; 4) Anelli magici - presentati attraverso testi redatti in lingue diverse. Si tradurrà il latino ma anche altre lingue, confrontando le diverse modalità espressive che esse consentono di attuare. Va da sé che sarà l’insegnante a valutare in quale modo ed entro quali limiti utilizzare i materiali qui proposti. Le Autrici 2 Indice Presentazione 1 Ripasso in Rete: Frasi e Testi 4 Ripasso in Rete: Tavole Morfologiche 35 Dal Corso ai Percorsi: Temi e Tracce Percorso 1 - Geografia dell’Italia Percorso 2 - Terre e popoli d’Europa Percorso 3 - L’uomo è un essere sociale Percorso 4 - L’amicizia Percorso 5 - Il vino, fra sacro e profano 73 73 79 86 90 94 La Trama e l’Ordito: Lingue a Confronto Percorso 1 - Il diluvio universale Percorso 2 - Animali parlanti Percorso 3 - La metamorfosi Percorso 4 - Anelli magici 3 101 101 111 118 133 Ripasso in Rete: Frasi e Testi I e II declinazione - aggettivi maschili e femminili - participio perfetto - infectum indicativo attivo - verbo sum Es. 1. Traduci le seguenti frasi, raccogliendo in due elenchi distinti i nomi e gli aggettivi (anche participio perfetto) della I e della II declinazione. 1. Avarus miseriae causa suae est. (da Publ. Syr.) 2. Bona fama in tenebris proprium splendorem (= splendore, acc. m. sing.) tenet. (Publ. Syr.) 3. Bene cogitata si excidunt non occidunt. (Publ. Syr.) 4. Fortuna vitrea est: tum cum (= quando) splendet frangitur. (Publ. Syr.) 5. Frenos inponit linguae conscientia. (Publ. Syr.) 6. Sero in periclis est consilium quaerere. (Publ. Syr.) 7. In miseria vita etiam contumelia est. (Publ. Syr.) 8. Regia auratas columnas habet: totas vitis (= un tralcio di vite, nom. f. sing.) auro caelata percurrit. (Curt.) 9. Litterarum secreta (Germanorum) viri pariter ac feminae ignorant. (Tac.) 10. Corona rosis amoenis intexta fulgurabat. (da Ap.) Es. 2. Traduci. T 1. Antiche divinità femminili Deae antiquae multae erant: Diana, Latonae filia, silvarum ac ferarum dea; Minerva, sapientiae pugnarumque dea; Vesta, flammae perpetuae atque puellarum pudicitiae dea. Antiqui peninsulae Italicae incolae cum filiis filiabusque has (= queste, acc. f. pl.) deas celebrabant. ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 4 I e II declinazione - aggettivi della I classe - norme della concordanza - dativo di possesso - infectum indicativo, attivo e passivo - verbo sum - complementi indiretti con e senza preposizione Es. 3. Traduci il brano che segue ed esegui gli esercizi che lo corredano. T 2. La faticosa vita degli agricoltori Antiquĭtus agricolae impĭgri primo dilucŭlo e lecto surgebant atque in agros properabant; ibi usque ad vespĕram terram aratro colebant. Horā sextā operam laboriosam intermittebant, modicum cibum sumebant atque sub procerarum fagorum vel cupressorum umbrā quiescebant atque recumbebant. Agricolis numquam feriae, sed semper arduă officiă erant. In tenebris ad parvam casam remeant, cum familia cenant atque statim in misero grabato dormiunt. Iam silentium in casa regnat: nam pater familias, mater familias, pueri puellaeque, armenta quoque in stabulo tacent. In caelo sereno luna plena splendet, in silva longinqua luscinia canit. Sed ab agricolis fessis luna candida non videtur, luscinia canora non auditur: aspera vita ab agricolis semper vivitur. Dentro il testo a) Raccogli in due elenchi distinti i sostantivi della I e della II declinazione, comprese le particolarità, poi analizzane per scritto caso, genere, numero e funzione. b) Raccogli in tre elenchi distinti, in base al genere, gli aggettivi della I classe poi analizzane per scritto caso e funzione. c) Compila un elenco di tutte le forme verbali e analizzale per scritto. d) Sottolinea il costrutto del dativo di possesso. e) Compila un elenco dei casi indiretti, con e senza preposizione, indicando per scritto quale complemento italiano corrisponde a ciascuno di essi. ---------------------------------------------------------------------------------------------------- III declinazione - aggettivi della II classe Es. 4. Traduci le seguenti frasi ed esegui gli esercizi che le accompagnano. 1. In stagnis ac paludibus gruum greges sunt. 2. Libertatem nostris militibus, leges, iura, iudicia, imperium orbis terrae, dignitatem, pacem, otium 5 promittimus. (da Cic.) 3. Oppidanorum multitudo cum coniugibus ac liberis in arcem confŭgit, deinde in deditionem venit. (Liv.) 4. Damnati lingua vocem habet, vim non habet. (Publ. Syr.) 5. Habet suum venenum blanda oratio. (Publ. Syr.) 6. Milites, roboris, virtutis et magnanimitatis pro patria praeclara exempla praebere debetis. 7. Hominum diversitate saepe magnae discordiae atque lites generantur. 8. Annianus poeta praeter ingenii amoenitates litterarum quoque veterum et rationum in litteris oppido quam peritus fuit! Nam sermones edebat mira et scita suavitate. (da Gell.) 9. Necessitas egentem mendacem facit. (Publ. Syr.) 10. Supplicem hominem opprimere, virtus non est, sed crudelitas. (Publ. Syr.) Dentro il testo a) Risali al nominativo dei sostantivi e aggettivi sottolineati, spiegando per scritto le caratteristiche della formazione di ciascuno di essi. b) Declina per scritto tutti i termini sottolineati e ripeti oralmente. c) Sottolinea con due colori diversi i sostantivi e gli aggettivi, poi suddividi tali termini in base alla loro declinazione d’appartenenza. d) Analizza per scritto tutte le forme verbali. ------------------------------------------------------------------------------------------------ IV e V declinazione - aggettivi della II classe - perfectum Es. 5. Traduci le seguenti frasi, raccogliendo in due elenchi distinti i nomi della IV e della V declinazione. 1. Bonarum rerum consuetudo pessima est. (Publ. Syr.) 2. Equitatus Caesaris sinistrum cornum premere incipit. (da B. Hisp.) 3. Formosa facies muta commendatio est. (Publ. Syr.) 4. Metus improbos compescit non clementia. (Publ. Syr.) 5. Domus habet quattuor (= quattro) cenationes, cubicula viginti (= venti), porticus marmoratos duos. (da Petr.) 6. Labienus interim cum parte equitatus Leptim oppidum cum cohortibus VI (= sei), oppugnare ac vi inrumpere temptabat. (da B. Afr.) 7. Concilium totius Galliae in diem certam indictum est. (da Caes.) 8. Nimius honos inter secunda rebus adversis in solacium cessit. (Tac.) 9. Planities erat magna et in ea (= essa, abl. f. sing.) tumulus terrenus satis grandis. Locus aequum fere spatium a castris Ariovisti et Caesaris aberat (da absum). (da Caes.) 10. Inter defunctos Atizyes et Rheomithres et Sabaces, praetor Aegypti, magnorum exercituum praefecti, noscitabantur; circa eos (= loro, acc. m. pl.) cumulata erat peditum equitumque obscura turba. (da Curt.) 6 Es. 6. Traduci il brano che segue ed esegui gli esercizi che lo corredano. T 3. Il respiro dell’uomo Olim hieme pauper agricola amicitiam cum benevolenti satyro fecit. Proxima planities glacie acuta rigebat atque agricolae misera domus frigore hiemali magnum detrimentum sumebat. Agricola satyrum domum ad mensam suam duxit, quae (= che, nom. f. sing.) acri frigore plena erat. Tum agricola ad faciem manus admovit et spiritum ex ore emisit. “Cur rem facis?”, satyrus ex agricola quaesivit. “Flatu calefacio frigore gelidas manus meas”, agricola respondit. Deinde agricolae uxor miseras sed bonas atque calidas epulas paravit, itaque agricola in os cibos admovet atque rursus spiritum ex ore emittit. “Cur rem iteras?”, satyrus obstupefactus ex agricola quaerit. “Cibos nimis ferventes refrigerare tempto”, agricola dicit. “Profecto mira tuus flatus efficit: ferventia refrigerat atque frigida calefacit”. Dentro il testo a) Raccogli in due elenchi distinti i sostantivi della IV e della V declinazione, comprese le particolarità, poi analizzane per scritto caso, genere, numero e funzione. b) Raccogli in due elenchi distinti gli aggettivi della I e della II classe, poi suddividili ancora in base al genere e analizza per scritto caso e funzione di ciascuno di essi. c) Compila un elenco di tutte le forme verbali e analizzale per scritto. d) Compila un elenco dei casi indiretti, con e senza preposizione, indicando per scritto quale complemento italiano corrisponde a ciascuno di essi. e) Sottolinea e spiega per scritto il costrutto del verbo quaero. Es. 7. Caccia all’errore: nella tabella che segue tutti i termini inseriti nelle colonne delle declinazioni sono scorretti; nell’ultima colonna può essere sbagliato un termine soltanto oppure tutti e due; correggi e poi traduci. sing. I decl. II decl. III decl. IV decl. V decl. aggettivo + sostantivo nom. lunā amici floris arcu faciem paupera casa gen. lunam amico flosis arcum facieae amori grati dat. lună amicum flosi arci faciae morbo mortale acc. lunae amicus flore arcu faciam illustrum consulum voc. lunā amico florem arcu facie luce albă abl. lună amici flori arco faciei diei statută 7 pl. I decl. II decl. III decl. IV decl. V decl. aggettivo + sostantivo nom. lunis amicus floris arces faciei agricolae fessae gen. lunae amicis flores arcum faciarum avium nigrum dat. lunas amicum flosium arcibus facibus proelibus atrocibus acc. lunae amice flos arcos facies bella civiles voc. lunis amicae flos arces faciei Magnae Graeciae abl. lunarum amice floris arcibus facibus uxoribus pudicibus ----------------------------------------------------------------------------------------------------- Comparativo - superlativo - pronomi e aggettivi pronominali verbi anomali Es. 8. Traduci le seguenti frasi, raccogliendo in tre elenchi distinti i comparativi, i superlativi, i pronomi e aggettivi pronominali; inoltre scrivi e impara a memoria il paradigma dei verbi anomali incontrati. 1. Nullius boni sine socio iucunda possessio est. (Sen.) 2. Nihil est deo potentius, nam nihil est deo perfectius. (da Ap.) 3. Lucius doctior musicā quam Marcus est. 4. Hierocles hospes est mihi adulescens adprobus. (Caec. in Gell.) 5. Pomarium seminarium ad eundem modum atque oleagineum facito: suum quidquid genus talearum serito. (Cat.) 6. Nihil est hominum inepta persuasione falsius nec ficta severitate ineptius. (Petr.) 7. Sed tuă me virtus tamen et sperată voluptas / suavis amicitiae quemvis efferre (da effero) laborem / suadet. (Lucr.) 8. Haec duo praeterea disiectis oppida muris, / reliquias veterumque vides monumenta virorum. / Hanc Ianus pater, hanc Saturnus condĭdit arcem: / Ianiculum huic, illī fuerat Saturnia nomen. (Verg.) 9. Nihil est, fratres dilectissimi, ante omnia homini timenti deum tam necessarium atque conveniens, quam ut se ipsum noverit. (Zeno) 10. Nulla autem re conciliare facilius benivolentiam multitudinis possunt ii, qui rei publicae praesunt, quam abstinentia et continentia. (Cic.) 11. Seminarium ad hunc modum facito: locum quam optimum et apertissimum et stercorosissimum poteris et quam simillimum genus terrae eae, ubi semina ponere debes, eum locum bipalio vertito, delapidato circumque saepito bene et in ordine serito. (da Cat.) 12. Miser homo est, qui ipse sibi quod edit quaerit et id aegre invenit, / sed ille est miserior, qui et aegre quaerit et nihil invenit; / ille miserrimust (= miserrimus est), qui cum esse cupit, tum quod edit non habet. (Plaut.) ----------------------------------------------------------------------------------------------------8 Sintassi dei casi Es. 9. Traduci le frasi raccolte in a), b), c), d), e); sottolinea poi i costrutti connessi alla sintassi del caso di volta in volta affrontato e spiega brevemente per scritto valore e funzione di ciascuno di essi. a) nominativo - vocativo 1. Vincere est honestum, opprimere acerbum, pulcrum ignoscere. (Publ. Syr.) 2. Verani optime tuque mi Fabulle, / quid rerum geritis? (Catull.) 3. Antiquitus mancipia iure belli capta coronis induta veniebant et idcirco dicebantur "sub corona" venire. Namque ut ea corona signum erat captivorum venalium, ita pilleus impositus demonstrabat eiusmodi servos venundari, quorum nomine emptori venditor nihil praestaret. (Gell.) 4. Scipio Nasica quia non rite inauguratus consul esse videretur, consulatu se abdicavit et domitis Dalmatis oblatum a senatu triumphum repudiavit statuasque quas sibi quisque in publico posuerat in censura sua sustulit. Censuit in senatu tamen Carthaginem non esse delendam; propterea optimus iudicatus. (Amp.) 5. Arreptus a viatore “Iuppiter” inquit, “optime maxime Iunoque regina ac Minerva ceterique di deaeque, qui Capitolium arcemque incolitis, sicine vestrum militem ac praesidem sinitis vexari ab inimicis? Haec dextra, qua Gallos fudi a delubris vestris, iam in vinclis et catenis erit?” (Liv.) 6. Pontifices creantur suasor legis P. Decius Mus P. Sempronius Sophus C. Marcius Rutulus M. Livius Denter; quinque augures item de plebe, C. Genucius P. Aelius Paetus M. Minucius Faesus C. Marcius T. Publilius. (Liv.) b) accusativo 1. O pessimum periclum quod opertum latet. (Publ. Syr.) 2. Facilitas nimia partem stultitiae sapit. (Publ. Syr.) 3. "Sed nihil interest", hoc enim dicitur, "dum alatur et vivat, cuius id lacte fiat." (Gell.) 4. Diligentem patrem familiae decet agri sui particulas omnes et omni tempore anni frequentius circumire, quo prudentius naturam soli sive in frondibus et herbis sive iam maturis frugibus contempletur nec ignoret, quicquid in eo recte fieri poterit. (Col.) 5. Q. quoque Claudius in primo annalium “nequitiam” appellavit luxum vitae prodigum effusumque. (Gell.) 6. Saenius Pompeianus in plurimis causis a me defensus, postquam publicum Africae redemit, plurimis causis rem familiarem nostram adiuvat. (Front.) 9 c) genitivo 1. Numae Pompili regis nepos Ancus Marcius erat; ut regnare coepit avitae gloriae memor fuit. (da Liv.) 2. “Vereor” inquam “ignotae mihi feminae” et statim rubore suffusus deiecto capite restiti. (Ap.) 3. Vos autem, iuvenes, malo beneficii mei oblivisci quam periculi vestri meminisse. (Curt.) 4. Adiutores quosdam consilii sui nanctus ex regis amicis exercitum a Pelusio clam Alexandriam evocavit atque eundem Achillam, cuius supra meminimus, omnibus copiis praefecit. (Caes.) 5. Quod hoc genus est consolandi (= di consolare), obliterata mala revocare et animum in omnium aerumnarum suarum conspectu conlocare vix unius patientem? (Sen.) 6. Lucullus Asiaticae provinciae spoliis maximas opes est consecutus et aedificiorum tabellarumque pictarum studiosissimus fuit. (Amp.) d) dativo 1. Mihi maximae curae est non de mea quidem vita, cui satis feci vel aetate vel factis vel, si quid etiam hoc ad rem pertinet, gloria, sed me patria sollicitat in primisque, mi Plance, exspectatio consulatus tui. (Cic.) 2. Qui studet multis amicis, multos inimicos ferat. (Publ. Syr.) 3. Numquam vir ille perfectus adeptusque virtutem fortunae maledixit, numquam accidentiă tristis excepit, civem esse se universi et militem credens labores velut imperatos subit. (Sen.) 4. Raro invidetur eorum honoribus quorum vis non timetur: contra in iis homines extraordinariă reformīdant, qui eă suo arbitrio aut deposituri aut retenturi videntur. (Vell. Pat.) 5. Urbibus obsessis clausae munimĭna portae prosunt. (Ov.) 6. Res et fortunae tuae mihi maximae curae sunt. Quae quidem cottidie faciliores mihi et meliores videntur multisque video magnae esse curae. (Cic.) e) ablativo 1. Parentes obiurgatione digni sunt, qui nolunt liberos suos severa lege proficere. (Petr.) 2. Debet deus nullam perpeti vel odii vel amoris temporalem perfunctionem et idcirco nec indignatione nec misericordia contingi, nullo angore contrahi, nulla alacritate gestire, sed ab omnibus animi passionibus liber nec dolere umquam nec aliquando laetari nec aliquid repentinum velle vel nolle. (Ap.) 3. Philaenorum egregii facti memoriam ne patriae quidem interitus extinxit. Nihil est igitur excepta virtute, quod mortali animo ac manu inmortale quaeri possit. (Suet.) 4. Sertorius proscriptus a Sylla cum in exilium profugisset, quam brevissimo tempore prope totam Hispaniam redegit in suam 10 potestatem et ubique adversante fortuna insuperabilis fuit. (Amp.) 5. “Si quid ego” (philosophus) inquit “in tanta violentia tempestatum videor paulum pavefactus, non tu istius rei ratione audienda (= di ascoltare, gerundivo, abl. f. sing.) dignus es.” (Gell.) 6. Cuncti enim caelites semper eodem statu mentis aeterna aequabilitate potiuntur, qui numquam illis nec ad dolorem versus nec ad voluptatem finibus suis pellitur nec quoquam a sua perpetua secta ad quempiam subitum habitum demovetur nec alterius vi - nam nihil est deo potentius - neque suapte natura - nam nihil est deo perfectius. (Ap.) ---------------------------------------------------------------------------------------------------- Modi verbali nominali - verbi deponenti e semideponenti - le proposizioni subordinate Es. 10. Traduci le seguenti frasi, poi completa la tabella che segue con le voci verbali richieste; trascrivi infine sul quaderno le frasi subordinate in elenchi distinti in base alla loro diversa tipologia. 1. Virtus difficilis inventu est. 2. Inde partem equitatus atque ferentarios praedatum misit. (Cat.) 3. (Pompeiani) hos montes intrare cupiebant, ut equitatum effugerent Caesaris praesidiisque in angustiis conlocatis exercitum itinĕre prohibērent, ipsi sine periculo ac timore Hibērum copias traducerent. (Caes.) 4. Theophrastus tradit in Aegyptiorum commentariis reperiri regi eorum a rege Babylonio munĕri missum (esse) smaragdum quattuor cubitorum longitudine ac trium latitudine. (Plin.) 5. Magnis in laudibus totā fere fuit Graeciā victorem Olympiae citāri, in scaenam vero prodire ac populo esse spectaculo nemini in eisdem gentibus fuit turpitudini. (Nep.) 6. Quia nullo modo sine amicitia firmam et perpetuam iucunditatem vitae tenere possumus neque vero ipsam amicitiam tueri, nisi aeque amicos et nosmet ipsos diligamus, idcirco et hoc ipsum efficitur in amicitia, et amicitia cum voluptate conectitur. Nam et laetamur amicorum laetitiā aeque atque nostrā et pariter dolemus angoribus. (Cic.) 7. Tu, ut instituisti, me diligas rogo proprieque tuum esse tibi persuadeas. (Cic.) 8. Rogationem fert Demosthenes ne illi qui apud Chaeroneam capti erant a Philippo et gratis remissi consiliis publicis intersint. (Quint.) 9. Lucius Thorius Balbus fuit, Lanuvinus, quem meminisse tu non potes. Is ita vivebat, ut nulla tam exquisita posset inveniri voluptas, quā non abundaret. Erat et cupidus voluptatum et eius generis intellegens et copiosus, ita non superstitiosus, ut illa plurima in sua patria sacrificia et fana contemneret, ita non timidus ad mortem, ut in acie sit ob rem publicam interfectus. (Cic.) 10. Ab sinistro, quem locum duodecima legio tenebat, cum primi ordines hostium transfixi pilis concidissent, tamen acerrime reliqui 11 resistebant nec dabat suspicionem fugae quisquam. (Caes.) 11. “Non prius”, inquit “medicorum optime, non prius carissimo mihi marito trades istam potionem quam de ea bonam partem hauseris ipse. Unde enim scio an noxium in ea lateat venenum? (Ap.) 12. His rebus gestis, Labieno in continenti cum tribus legionibus et equitum milibus duobus relicto, ut portus tueretur et rei frumentariae provideret, ipse cum quinque legionibus et pari numero equitum ad solis occasum naves solvit. (Caes.) 13. Et cohortari ausus est accusator in hac causa vos, iudices, ut aliquando essetis severi, aliquando medicinam adhiberetis rei publicae. Non ea est medicina, cum sanae parti corporis scalpellum adhibetur atque integrae, carnificina est ista et crudelitas: ei medentur rei publicae qui exsecant pestem aliquam tamquam strumam civitatis. (Cic.) 14. Maximum hoc habemus naturae meritum, quod virtus lumen suum in omnium animos permittit; etiam, qui non secuntur illam, vident. (Sen.) 15. Neque serendi neque colendi nec tempestive demetendi percipiendique fructus neque condendi ac reponendi ulla pecudum scientia est, earumque omnium rerum hominum est et usus et cura. (Cic.) n. frase indicativo congiuntivo participio gerundio gerundivo infinito supino (c ontinua…) (c ontinua…) (c ontinua…) (c ontinua…) (c ontinua…) (c ontinua…) (c ontinua…) (c ontinua…) ----------------------------------------------------------------------------------------------------- La subordinata relativa con l’indicativo e il congiuntivo Es. 11. Traduci, motivando per scritto l’uso del modo verbale nelle subordinate relative. T 4. De septem liberalibus disciplinis Disciplinae liberalium artium septem sunt. Prima grammatica, id est loquendi peritia. Secunda rhetorica, quae propter nitorem et copiam eloquentiae suae maxime in civilibus quaestionibus necessaria existimatur. Tertia dialectica cognomento logica, quae disputationibus subtilissimis vera secernit a falsis. Quarta arithmetica, quae continet numerorum causas et divisiones. Quinta musica, quae in carminibus cantibusque consistit. Sexta geometrica, quae mensuras terrae dimensionesque conplectitur. Septima astronomia, quae continet legem astrorum. (Isidoro) 12 Es. 12. Traduci, motivando per scritto il diverso uso del modo verbale nelle subordinate relative. T 5. De nomine Nomen dictum quasi notamen, quod nobis vocabulo suo res notas efficiat. Cum enim nomen nescis, cognitio rerum non est. Propria nomina dicta quia specialia sunt. Unius enim tantum personam significant. Species propriorum nominum quattuor: praenomen, nomen, cognomen, agnomen. Praenomen dictum eo, quod nomini praeponitur, ut “Lucius”, “Quintus”. Nomen vocatum (est), quia notat genus, ut “Cornelius”. Cornelii enim omnes in eo genere. Cognomen, quia nomini coniungitur, ut “Scipio”. Agnomen vero quasi accedens nomen, ut “Metellus Creticus”, postquam Cretam subegit. Extrinsecus enim venit agnomen ab aliqua ratione. Cognomentum autem vulgo dictum eo, quod nomini cognitionis causa superadiciatur, sive quod cum nomine est. Appellativa nomina inde vocantur, quia communia sunt et in multorum significatione consistunt. (da Isidoro) ---------------------------------------------------------------------------------------------------- Le frasi interrogative - ablativo assoluto - gerundio / gerundivo perifrastica attiva e passiva Es. 13. Traduci le seguenti frasi, poi compila sul quaderno una tabella come da esempio e completala con le voci richieste, utilizzando, ove necessario, i termini latini interessati. n. frase tipologia della ablativo gerundio/ perifrastica perifrastica interrogativa assoluto gerundivo attiva passiva n. 1 (continua…) existimandă (continua…) (continua…) (continua…) existimandă est (continua…) (continua…) 1. Ea (= Natura) quo sua sponte maior est eo minus divinā ratione fieri existimandă est. (Cic.) 2. An vos A. Hirtium, praeclarissimum consulem, C. Caesarem, deorum beneficio natum ad haec tempora, pacem velle censetis? (Cic.) 3. Nihil interest valeam ipse necne, si tu non valebis. (Suet.) 4. (Albinus consul) postquam eo venit, quamquam persĕqui Iugurtham et mederi fraternae invidiae animo ardebat, statuit sibi nihil agitandum. (Sall.) 5. Lectis tuis litteris, quibus declarabas aut omittendos Narbonensīs aut cum periculo dimicandum, illud magis timui; quod vitatum non moleste fero. (Cic.) 6. Nunc quoniam, sicut 13 mihi videor, de plebe renovanda conrigendaque satis disserui, de senatu quae tibi agenda videntur, dicam. (Sall.) 7. Vos oro obtestorque, iudices, ut in sententiis ferendis, quod sentietis, id audeatis. (Cic.) 8. Urbs erat ea tempestate clara Hecatompylos, condita a Graecis; ibi stativa rex habuit commeatibus undique advectis. Itaque rumor, otiosi militis vitium, sine auctore percrebruit regem contentum rebus, quas gessisset, in Macedoniam protinus redire statuisse. (Curt.) 9. Age, redeuntis vulnera quis religavit, sanguinem quis abluit? Ad templa quis duxit? Quis gratulatus est? Sciebasne iam tum esse officium tuum, an confiteris ad te haec non pertinuisse? (Quint.) 10. M. Minucio deinde et A. Sempronio consulibus magna vis frumenti ex Sicilia advecta, agitatumque in senatu quanti plebi daretur. Multi venisse tempus premendae plebis putabant reciperandique iura quae extorta secessione ac vi patribus essent. (Liv.) 11. Per deos immortalīs! Quo tandem animo sedetis, iudices, aut haec quem ad modum auditis? Utrum ego desipio et plus quam satis est doleo tantā calamitate miseriāque sociorum, an vos quoque hic acerbissimus innocentium cruciatus et maeror pari sensu doloris adfĭcit? (Cic.) 12. “Ego sic semper et ubique vixi, ut ultimam quamque lucem tamquam non redituram consumerem.” (Petr.) Es. 14. Traduci, poi sottolinea tutte le forme verbali nominali, spiegando brevemente per scritto valore e funzione di ciascuna di esse. T 6. Tante parole, un’unica radice “Fatur” is qui primum homo significabilem ore mittit vocem. Ab eo, ante quam ita faciant, pueri dicuntur “infantes”; cum id faciunt, iam “fari”. […] Ab hoc tempora quod tum pueris constituant Parcae “fando”, dictum “fatum” et res “fatales”. Ab hac eadem voce qui facile fantur “facundi” dicti et qui futura praedivinando soleant fari “fatidici”; dicti idem vaticinari, quod vesana mente faciunt: sed de hoc post erit usurpandum, cum de poetis dicemus. Hinc “fasti” dies, quibus verba certa legitima (verba legitima, «formule stabilite dalla legge») sine piaculo praetoribus licet fari; ab hoc “nefasti”, quibus diebus ea fari ius non est et, si fati sunt, piaculum faciunt. Hinc “effata” dicuntur, qui augures finem auspiciorum caelestum extra urbem agris sunt effati ut esset; hinc “effari” templa dicuntur: ab auguribus effantur qui in his fines sunt. Hinc “fana” nominata, quod pontifices in sacrando fati sint finem; hinc “profanum”, quod est ante fanum coniunctum fano. […] Ab eodem verbo “fari”, “fabulae”, ut tragoediae et comoediae, dictae. Hinc “fassi” ac “confessi”, qui fati id quod ab his quaesitum. Hinc “professi”; hinc “fama” et “famosi”. Ab eodem “falli”, sed et “falsum” et “fallacia”, quae propterea, quod fando quem decipit ac contra quam dixit facit. (Varrone) ----------------------------------------------------------------------------------------------------14 Modo imperativo - modi indicativo e congiuntivo (indipendenti e dipendenti ) - periodo ipotetico Es. 15. Traduci le seguenti frasi e spiega brevemente valore e funzione dei modi verbali impiegati in ciascuna di esse. 1. Nihil potestas regum valebat, nisi prius valuisset auctoritas. (Curt.) 2. Nam nisi multorum praeceptis multisque litteris mihi ab adulescentia suasissem nihil esse in vita magno opere expetendum nisi laudem atque honestatem, in ea autem persequenda omnis cruciatus corporis, omnia pericula mortis atque exsili parvi esse ducenda, numquam me pro salute vestra in tot ac tantas dimicationes atque in hos profligatorum hominum cotidianos impetus obiecissem. (Cic.) 3. Vehementer laetor tibi probari sententiam et orationem meam. Qua si saepius uti liceret, nihil esset negoti libertatem et rem publicam reciperare. (Cic.) 4. Plus tamen tibi et viva vox et convictus quam oratio proderit; in rem praesentem venias oportet, primum quia homines amplius oculis quam auribus credunt, deinde quia longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla. (Sen.) 5. Hactenus mihi videor de amicitia quid sentirem potuisse dicere; si quae praeterea sunt (credo autem esse multa), ab iis, si videbitur, qui ista disputant, quaeritote. (Cic.) 6. “Si qui ex principalibus alicuius civitatis latrocinium fecerint aliudve (-ve, «o») quod facinus, ut capitalem poenam meruisse videantur, commiserint, vinctos eos custodies et mihi scribes et adicies, quid quisque commiserit." (Iustin.) 7. C. Lucilius, homo doctus et perurbanus, dicere solebat ea quae scriberet neque se ab indoctissimis neque a doctissimis legi velle, quod alteri nihil intellegerent, alteri plus fortasse quam ipse. (Cic.) 8. Clitus utinam non coegisset me sibi irasci! Cuius temerariam linguam probra dicentis mihi et vobis diutius tuli, quam ille eadem me dicentem tulisset. (Curt.) 9. Etsi quid scriberem non habebam, tamen Caninio ad te eunti non potui nihil dare. Quid ergo potissimum scribam? Quod velle te puto, cito me ad te esse venturum. Etsi vide, quaeso, satisne rectum sit nos hoc tanto incendio civitatis in istis locis esse. (Cic.) 10. Athenienses diem certam Chabriae praestituerunt, quam ante domum nisi redisset, capitis se illum damnaturos denuntiarunt. (Nep.) 15 Es. 16. Traduci il testo che segue, poi trascrivi tutte le forme verbali, spiegando brevemente a fianco di ciascuna valore e funzione del modo impiegato. T 7. La vera buona salute SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Mos antiquis fuit, usque ad meam servatus aetatem, primis epistulae verbis adicere «Si vales bene est, ego valeo». Recte nos dicimus «si philosopharis, bene est». Valere enim hoc demum est. Sine hoc aeger est animus; corpus quoque, etiam si magnas habet vires, non aliter quam furiosi aut frenetici validum est. Ergo hanc praecipue valetudinem cura, deinde et illam secundam; quae non magno tibi constabit, si volueris bene valere. (Seneca) Es. 17. Traduci il testo che segue, poi raccogli le forme verbali in elenchi distinti in base al modo espresso e spiega brevemente per scritto valore e funzione di ciascuno di essi. T 8. Seminarium quo modo fiat Seminarium ad hunc modum facito: locum quam optimum et apertissimum et stercorosissimum poteris et quam simillimum genus terrae eae, ubi semina positurus eris, et uti ne nimis longe semina ex seminario ferantur, eum locum bipalio vertito, delapidato circumque saepito bene et in ordine serito. In sesquipedem quoquovorsum taleam demittito opprimitoque pede: si parum deprimere poteris, malleo aut matiola adigito. Digitum supra terram facito semina emineant fimoque bubulo summam taleam oblinito signumque apud taleam apponito crebroque sarito, si voles cito semina crescant. Ad eundem modum alia semina serito. (Catone) Es. 18. Traduci il passo che segue, poi sottolinea tutte le forme verbali, spiegando brevemente per scritto valore e funzione di ciascun modo verbale impiegato. T 9. Area quo modo fiat Aream, ubi frumentum teratur, sic facito: confodiatur minute terra, amurca bene conspargatur et combibat quam plurimum. Comminuito terram et cylindro aut pavicula coaequato: ubi coaequata erit, neque formicae molestae erunt, et, cum pluerit, lutum non erit. (Catone) 16 Lo stile epistolare - l’oratio obliqua Es. 19. Traduci i testi che seguono, poi esegui gli esercizi che li corredano. T 10. Cicerone scrive ad Attico (I) V Kal. Nov. CICERO ATTICO SAL. Triginta dies erant ipsi cum has dabam litteras per quos nullas a vobis acceperam. Mihi autem erat in animo iam, ut antea ad te scripsi, ire in Epirum et ibi omnem casum potissimum exspectare. Te oro ut si quid erit quod perspicias quamcumque in partem quam planissime ad me scribas et meo nomine, ut scribis, litteras quibus putabis opus esse ut des. Data V Kal. Nov. (Cicerone) T 11. Cicerone scrive ad Attico (II) XI Kal. Iun. CICERO ATTICO SAL. Ego, etsi nihil habeo quod ad te scribam, scribo tamen quia tecum loqui videor. Hic nobiscum sunt Nicias et Valerius. Hodie tuas litteras exspectabamus matutinas. Erunt fortasse alterae postmeridianae, nisi te Epiroticae litterae impedient, quas ego non interpello. Misi ad te epistulas ad Marcianum et ad Montanum. Eas in eundem fasciculum velim addas, nisi forte iam dedisti. (Cicerone) T 12. Cicerone scrive ad Attico (III) VII Id. Apr. CICERO ATTICO SAL. Alteram tibi eodem die hanc epistulam dictavi et pridie dederam mea manu longiorem. Visum te aiunt in Regia, nec reprehendo, quippe cum ipse istam reprehensionem non fugerim. Sed exspecto tuas litteras, neque iam sane video quid exspectem, sed tamen, etiam si nihil erit, id ipsum ad me velim scribas. (Cicerone) Dentro il testo a) Traduci T9, T10, T11 adottando, ove possibile, sia il punto di vista del destinatario, sia il punto di vista del mittente. b) Sottolinea e spiega l’uso dei termini connessi allo stile epistolare. c) Individua gli elementi tipici dell’oratio obliqua. d) Traduci le date nella forma corrispondente all’italiano. e) Individua le subordinate con l’indicativo e quelle con il congiuntivo, motivando l’uso del modo verbale in ciascuna di esse. ----------------------------------------------------------------------------------------------------17 Riepilogo generale: sintassi dei casi, del verbo, del periodo [I testi sono raccolti in ordine alfabetico d’autore e, all’interno di ogni autore, per ordine crescente di difficoltà; in chiusura, un brano comico e licenzioso di età umanistica.] Es. 20. Traduci i testi che seguono, poi motiva brevemente per scritto funzione e uso dei costrutti sintattici o verbali più significativi presenti in ciascuno di essi. T 13. La virtù della moderazione Scio solere plerisque hominibus rebus secundis atque prolixis atque prosperis animum excellere atque superbiam atque ferociam augescere atque crescere. Quo mihi nunc magnae curae est, quod haec res tam secunde processit, ne quid in consulendo advorsi eveniat, quod nostras secundas res confutet, neve haec laetitia nimis luxuriose eveniat. Advorsae res edomant et docent, quid opus siet (= sit) facto. Secundae res laetitia transvorsum trudere solent a recte consulendo atque intellegendo. Quo maiore opere dico suadeoque, uti (= ut) haec res aliquot dies proferatur, dum ex tanto gaudio in potestatem nostram redeamus. (Catone) T 14. L’estrazione del dente Si vero dens dolores movet eximique eum, quia medicamenta nihil adiuvant, placuerit, circumradi debet, ut gingivae ab eo resolvantur; tum is concutiendus est. Eaque facienda, donec bene moveatur: nam dens haerens cum summo periculo evellitur, ac nonnumquam maxilla loco movetur; idque etiam maiore periculo in superioribus dentibus fit, quia potest tempora oculosve concutere. Tum, si fieri potest, manu; si minus, forfice dens excipiendus est. Ac si exessus est, ante id foramen vel linamento vel bene adcommodato plumbo replendus est, ne sub forfice confringatur. Recta vero forfex ducenda est, ne inflexis radicibus os rarum (= già consumato), cui dens inhaeret, parte aliqua frangat. Neque ideo nullum eius rei periculum est utique in dentibus brevibus, qui fere longiores radices non habent: saepe enim forfex cum dentem conprehendere non possit aut frustra conprehendat, os gingivae prehendit et frangit. Protinus autem ubi plus sanguinis profluit, scire licet, aliquid ex osse fractum esse. Ergo specillo conquirenda est testa, quae recessit, et volsella protrahenda est. Si non sequitur, incidi gingiva debet, donec labans ossis testa recipiatur. Quod si factum statim non est, indurescit extrinsecus maxilla, ut is hiare non possit. (Celso) 18 T 15. L’impegno verso lo Stato CICERO S. D. FURNIO Si interest, id quod homines arbitrantur, rei publicae te, ut instituisti atque fecisti, navare operam rebusque maximis quae ad exstinguendas reliquias belli pertinent interesse, nihil videris melius neque laudabilius neque honestius facere posse, istamque operam tuam, navitatem, animum in rem publicam celeritati praeturae anteponendam censeo. Nolo enim te ignorare quantam laudem consecutus sis. (Cicerone) T 16. Cicerone risponde a Metello med. Ian. M. TULLIUS CICERO Q. METELLO Q. F. CELERI PRO COS. S. D. Si tu exercitusque valetis, bene est. Scribis ad me te existimasse pro mutuo inter nos animo et pro reconciliata gratia numquam te a me ludibrio laesum iri. Quod cuius modi sit satis intellegere non possum; sed tamen suspicor ad te esse adlatum me in senatu, cum disputarem permultos esse qui rem publicam a me conservatam dolerent, dixisse a te propinquos tuos, quibus negare non potuisses, impetrasse ut ea quae statuisses tibi in senatu de mea laude esse dicenda reticeres. Quod cum dicerem, illud adiunxi, mihi tecum ita dispertitum officium fuisse in rei publicae salute retinenda ut ego urbem a domesticis insidiis et ab intestino scelere, tu Italiam et ab armatis hostibus et ab occulta coniuratione defenderes atque hanc nostram tanti et tam praeclari muneris societatem a tuis propinquis labefactatam, qui, cum tu a me rebus amplissimis atque honorificentissimis ornatus esses, timuissent ne quae mihi pars abs te voluntatis mutuae tribueretur. Hoc in sermone cum a me exponeretur quae mea exspectatio fuisset orationis tuae quantoque in errore versatus essem, visa est oratio non iniucunda, et mediocris quidam est risus consecutus, non in te sed magis in errorem meum et quod me abs te cupisse laudari aperte atque ingenue confitebar. Iam hoc non potest in te non honorifice esse dictum, me in clarissimis meis atque amplissimis rebus tamen aliquod testimonium tuae vocis habere voluisse. (Cicerone) T 17. Grande generosità di Alessandro Tunc quidem (Alexander) ita se gessit, ut omnes ante eum reges et continentia et clementia vincerentur. Virgines reginas excellentis formae tam sancte habuit, quam si eodem quo ipse parente genitae forent; coniugem eiusdem, quam nulla aetatis suae pulchritudine corporis vicit, adeo ipse non violavit, ut summam adhibuerit curam, ne quis captivo corpori inluderet. 19 Omnem cultum reddi feminis iussit, nec quicquam ex pristinae fortunae magnificentia captivis praeter fiduciam defuit. Itaque Sisigambis «Rex,» inquit «mereris, ut ea precemur tibi, quae Dareo nostro quondam precatae sumus, et, ut video, fide dignus es, qui tantum regem non felicitate solum sed etiam aequitate superaveris. Tu quidem matrem me et reginam vocas, sed ego me tuam famulam esse confiteor. Et praeteritae fortunae fastigium capio et praesentis iugum pati possum: tua interest, quantum in nos licuerit, si id potius clementia quam saevitia vis esse testatum.» Rex bonum animum habere eas iussit. Darei filium collo suo admovit, atque nihil ille conspectu tum primum a se visi conterritus cervicem eius manibus amplectitur. Motus ergo rex constantia pueri Hephaestionem intuens «Quam vellem,» inquit «Dareus aliquid ex hac indole hausisset!» Tum tabernaculo egressus. (Curzio) T 18. Parole di Dario prima della sconfitta di Arbela Igitur quae proelio apud Arbela coniuncta sunt, ordiar dicere. Dareus media fere nocte Arbela pervenerat, eodemque magnae partis amicorum eius ac militum fugam fortuna compulerat. Quibus convocatis exponit haud dubitare se, quin Alexander celeberrimas urbes agrosque omni copia rerum abundantes petiturus esset: praedam opimam paratamque ipsum et milites eius spectare. Id suis rebus tali in statu saluti fore: quippe se deserta cum expedita manu petiturum. Ultima regni sui adhuc intacta esse: inde bello vires haud aegre reparaturum. Occuparet sane gazam avidissima gens et ex longa fame satiaret se auro, mox futura praedae sibi: usu didicisse pretiosam supellectilem paelicesque et spadonum agmina nihil aliud fuisse quam onera et impedimenta: eadem trahentem Alexandrum, quibus rebus antea vicisset, inferiorem fore. Plena omnibus desperationis videbatur oratio, quippe Babylona, urbem opulentissimam, dedi cernentibus: iam Susa, iam cetera ornamenta regni, causamque belli, victorem occupaturum. At ille docere pergit non speciosa dictu, sed usu necessaria in rebus adversis sequenda esse: ferro geri bella, non auro, viris, non urbium tectis. Omnia sequi armatos: sic maiores suos perculsos in principio rerum celeriter pristinam reparasse fortunam. Igitur sive confirmatis eorum animis sive imperium magis quam consilium sequentibus Mediae fines ingressus est. Paulo post Alexandro Arbela traduntur regia supellectile ditique gaza repleta - IIII milia talentum fuere - praeterea pretiosa veste, totius, ut supra dictum est, exercitus opibus in illam sedem congestis. (Curzio) T 19. Integrità di C. Gracco C. Gracchus, cum ex Sardinia rediit, orationem ad populum in contione habuit. Ea verba haec sunt: «Versatus sum» inquit «in provincia, quomodo ex usu 20 vestro existimabam esse, non quomodo ambitioni meae conducere arbitrabar. Nulla apud me fuit popina, neque pueri eximia facie stabant, sed in convivio liberi vestri modestius erant quam apud principia.» Post deinde haec dicit: «Ita versatus sum in provincia, uti (= ut) nemo posset vere dicere assem aut eo plus in muneribus me accepisse aut mea opera quemquam sumptum fecisse. Biennium fui in provincia; si ulla meretrix domum meam introivit aut cuiusquam servulus propter me sollicitatus est, omnium nationum postremissimum nequissimumque existimatote. […]» Atque ibi ex intervallo: «Itaque,» inquit «Quirites, cum Romam profectus sum, zonas, quas plenas argenti extuli, eas ex provincia inanes retuli; alii vini amphoras quas plenas tulerunt, eas argento repletas domum reportaverunt.» (Gellio) T 20. L’anello all’anulare sinistro Quae eius rei causa sit, quod et Graeci veteres et Romani anulum in eo digito gestaverint, qui est in manu sinistra minimo proximus. Veteres Graecos anulum habuisse in digito accipimus sinistrae manus, qui minimo est proximus. Romanos quoque homines aiunt sic plerumque anulis usitatos. Causam esse huius rei Apion in libris “Aegyptiacis” hanc dicit, quod insectis apertisque humanis corporibus, ut mos in Aegypto fuit, quas Greci ἀνατομάς (leggi: anatomás, «dissezioni») appellant, repertum est nervum quendam tenuissimum ab eo uno digito, de quo diximus, ad cor hominis pergere ac pervenire; propterea non inscitum visum esse eum potissimum digitum tali honore decorandum, qui continens et quasi conexus esse cum principatu cordis videretur. (Gellio) T 21. Parla come mangi Favorinus philosophus adulescenti veterum verborum cupidissimo et plerasque voces nimis priscas et ignotas in cotidianis communibusque sermonibus expromenti: «Curius» inquit «et Fabricius et Coruncanius, antiquissimi viri, et his antiquiores Horatii illi trigemini plane ac dilucide cum suis fabulati sunt neque Auruncorum aut Sicanorum aut Pelasgorum, qui primi coluisse Italiam dicuntur, sed aetatis suae verbis locuti sunt; tu autem, proinde quasi cum matre Evandri nunc loquare, sermone abhinc multis annis iam desito uteris, quod scire atque intellegere neminem vis, quae dicas. Nonne, homo inepte, ut, quod vis, abunde consequaris, taces? Sed antiquitatem tibi placere ais, quod honesta et bona et sobria et modesta sit. Vive ergo moribus praeteritis, loquere verbis praesentibus atque id, quod a C. Caesare, excellentis ingenii ac prudentiae viro, in primo de analogia libro scriptum est, habe semper in memoria atque in pectore, ut "tamquam scopulum, sic fugias inauditum atque insolens verbum".» (Gellio) 21 T 22. Uno schiavo al governo della Sicilia Siciliae primo Trinacriae nomen fuit, postea Sicania cognominata est. Haec a principio patria Cyclopum fuit, quibus exstinctis Cocalus regnum insulae occupavit. Post quem singulae civitates in tyrannorum imperium concesserunt, quorum nulla terra feracior fuit. Horum ex numero Anaxilaus iustitia cum ceterorum crudelitate certabat, cuius moderationis haud mediocrem fructum tulit; quippe decedens cum filios parvulos reliquisset tutelamque eorum Micalo, spectatae fidei servo, commisisset, tantus amor memoriae eius apud omnes fuit, ut parere servo quam deserere regis filios mallent principesque civitatis obliti dignitatis suae regni maiestatem administrari per servum paterentur. Imperium Siciliae etiam Karthaginienses temptavere, diuque varia victoria cum tyrannis dimicatum. Ad postremum amisso Hamilcare imperatore cum exercitu aliquantisper quievere victi. (Giustino) T 23. Gli Ateniesi padroni del mare Idem (= Timoteo) classi praefectus circumvehens Peloponnesum, Laconicen populatus, classem eorum fugavit, Corcyram sub imperium Atheniensium redegit sociosque idem adiunxit Epirotas, Athamanas, Chaonas omnesque eas gentes, quae mare illud adiacent. Quo facto Lacedaemonii de diutina contentione destiterunt et sua sponte Atheniensibus imperii maritimi principatum concesserunt, pacemque iis legibus constituerunt, ut Athenienses mari duces essent. Quae victoria tantae fuit Atticis laetitiae, ut tum primum arae Paci publice sint factae eique deae pulvinar sit institutum. Cuius laudis ut memoria maneret, Timotheo publice statuam in foro posuerunt. Qui honos huic uni ante id tempus contigit, ut, cum patri populus statuam posuisset, filio quoque daret. Sic iuxta posita recens filii veterem patris renovavit memoriam. (Nepote) T 24. Pausania, luci ed ombre (I) Pausanias Lacedaemonius magnus homo, sed varius in omni genere vitae fuit: nam ut virtutibus eluxit, sic vitiis est obrutus. Huius illustrissimum est proelium apud Plataeas. Namque illo duce Mardonius, satrapes regius, natione Medus, regis gener, in primis omnium Persarum et manu fortis et consilii plenus, cum ducentis milibus peditum, quos viritim legerat, et viginti milibus equitum haud ita magna manu Graeciae fugatus est, eoque ipse dux cecidit proelio. Qua victoria elatus plurima miscere coepit et maiora concupiscere. Sed primum in eo est reprehensus, quod ex praeda tripodem aureum Delphis posuisset epigrammate inscripto, in quo haec erat sententia: suo ductu barbaros apud 22 Plataeas esse deletos eiusque victoriae ergo Apollini donum dedisse. Hos versus Lacedaemonii exsculpserunt neque aliud scripserunt quam nomina earum civitatum, quarum auxilio Persae erant victi. (Nepote) T 25. Pausania, luci ed ombre (II) Post id proelium eundem Pausaniam cum classe communi Cyprum atque Hellespontum miserunt, ut ex iis regionibus barbarorum praesidia depelleret. Pari felicitate in ea re usus elatius se gerere coepit maioresque appetere res. Nam cum Byzantio expugnato cepisset complures Persarum nobiles atque in his nonnullos regis propinquos, hos clam Xerxi remisit, simulans ex vinclis publicis effugisse, et cum his Gongylum Eretriensem, qui litteras regi redderet, in quibus haec fuisse scripta Thucydides memoriae prodidit: «Pausanias, dux Spartae, quos Byzanti ceperat, postquam propinquos tuos cognovit, tibi muneri misit seque tecum affinitate coniungi cupit: quare, si tibi videtur, des ei filiam tuam nuptum. Id si feceris, et Spartam et ceteram Graeciam sub tuam potestatem se adiuvante te redacturum pollicetur. His de rebus si quid geri volueris, certum hominem ad eum mittas face, cum quo colloquatur.» Rex tot hominum salute tam sibi necessariorum magnopere gavisus confestim cum epistula Artabazum ad Pausaniam mittit, in qua eum collaudat; petit, ne cui rei parcat ad ea efficienda, quae pollicetur: si perfecerit, nullius rei a se repulsam laturum. Huius Pausanias voluntate cognita alacrior ad rem gerendam factus in suspicionem cecidit Lacedaemoniorum. In quo facto domum revocatus, accusatus capitis absolvitur, multatur tamen pecunia, quam ob causam ad classem remissus non est. (Nepote) T 26. Un insolito epitaffio Lex erat Thebis, quae morte multabat, si quis diutius imperium retinuisset, quam lege praefinitum foret. Hanc Epaminondas cum rei publicae conservandae causa latam videret, ad perniciem civitatis conferre noluit et quattuor mensibus diutius, quam populus iusserat, gessit imperium. Postquam domum reditum est collegae eius hoc crimine accusabantur. Quibus ille permisit, ut omnem causam in se transferrent suaque opera factum contenderent, ut legi non oboedirent. Qua defensione illis periculo liberatis nemo Epaminondam responsurum putabat, quod quid diceret non haberet. At ille in iudicium venit, nihil eorum negavit, quae adversarii crimini dabant, omniaque, quae collegae dixerant, confessus est neque recusavit quominus legis poenam subiret, sed unum ab iis petivit, ut in sepulchro suo inscriberent: «Epaminondas a Thebanis morte multatus est, quod eos coegit apud Leuctra superare Lacedaemonios, quos ante se imperatorem nemo Boeotorum ausus fuit aspicere in acie, quodque uno proelio non solum Thebas ab interitu 23 retraxit, sed etiam universam Graeciam in libertatem vindicavit eoque res utrorumque perduxit, ut Thebani Spartam oppugnarent, Lacedaemonii satis haberent, si salvi esse possent, neque prius bellare destitit, quam Messene restituta urbem eorum obsidione clausit.» Haec cum dixisset, risus omnium cum hilaritate coortus est, neque quisquam iudex ausus est de eo ferre suffragium. Sic a iudicio capitis maxima discessit gloria. (Nepote) T 27. Morte di Attico (I) (Atticus) cum septem et septuaginta annos complevisset atque ad extremam senectutem non minus dignitate quam gratia fortunaque crevisset (multas enim hereditates nulla alia re quam bonitate consecutus est), tantaque prosperitate usus esset valetudinis, ut annis triginta medicina non indiguisset, nactus est morbum, quem initio et ipse et medici contempserunt: nam putaverunt esse tenesmon (trad. «tenesmo», malattia intestinale), cui remedia celeria faciliaque proponebantur. In hoc cum tres menses sine ullis doloribus consumpsisset, praeterquam quos ex curatione capiebat, subito tanta vis morbi in imum intestinum prorupit ut extremo tempore per lumbos fistulae puris eruperit. Atque hoc priusquam ei accideret, postquam in dies dolores accrescere febresque accessisse sensit, Agrippam generum ad se arcessi iussit et cum eo L. Cornelium Balbum Sextumque Peducaeum. (Nepote) T 28. Morte di Attico (II) Hos ut venisse vidit, in cubitum innixus «Quantam» inquit «curam diligentiamque in valetudine mea tuenda hoc tempore adhibuerim, cum vos testes habeam, nihil necesse est pluribus verbis commemorare. Quibus quoniam, ut spero, satisfeci, me nihil reliqui fecisse, quod ad sanandum me pertineret, reliquum est ut egomet mihi consulam. Id vos ignorare nolui: nam mihi stat alere morbum desinere. Namque his diebus quidquid cibi sumpsi, ita produxi vitam, ut auxerim dolores sine spe salutis. Quare a vobis peto, primum ut consilium probetis meum, deinde ne frustra dehortando impedire conemini.» Hac oratione habita tanta constantia vocis atque vultus, ut non ex vita, sed ex domo in domum videretur migrare, cum quidem Agrippa eum flens atque osculans oraret atque obsecraret, ne ad id quod natura cogeret ipse quoque sibi acceleraret letum, et (ut) se sibi suisque reservaret, preces eius taciturna sua obstinatione depressit. Sic cum biduum cibo se abstinuisset, subito febris decessit leviorque morbus esse coepit. Tamen propositum nihilo setius peregit. Die quinto, postquam id consilium inierat, pridie Kal. Aprilis Cn. Domitio C. Sosio consulibus decessit. Elatus est in lecticula, ut ipse praescripserat, sine ulla pompa funeris, comitantibus omnibus bonis, maxima 24 vulgi frequentia. Sepultus est iuxta viam Appiam ad quintum lapidem in monumento Q. Caecilii, avunculi sui. (Nepote) T 29. Alla ricerca di un buon precettore C. PLINIUS MAURICO SUO S. Quid a te mihi iucundius potuit iniungi, quam ut praeceptorem fratris tui liberis quaererem? Nam beneficio tuo in scholam redeo, et illam dulcissimam aetatem quasi resumo: sedeo inter iuvenes ut solebam, atque etiam experior quantum apud illos auctoritatis ex studiis habeam. Nam proxime frequenti auditorio inter se coram multis ordinis nostri clare iocabantur; intravi, conticuerunt; quod non referrem, nisi ad illorum magis laudem quam ad meam pertineret, ac nisi sperare te vellem posse fratris tui filios probe discere. Quod superest, cum omnes qui profitentur audiero, quid de quoque sentiam scribam, efficiamque quantum tamen epistula consequi potero, ut ipse omnes audisse videaris. Debeo enim tibi, debeo memoriae fratris tui hanc fidem hoc studium, praesertim super tanta re. Nam quid magis interest vestra, quam ut liberi (dicerem tui, nisi nunc illos magis amares) digni illo patre, te patruo reperiantur? Quam curam mihi etiam si non mandasses vindicassem. Nec ignoro suscipiendas offensas in eligendo praeceptore, sed oportet me non modo offensas, verum etiam simultates pro fratris tui filiis tam aequo animo subire quam parentes pro suis. Vale. (Plinio il Giovane) T 30. La ricchezza genera discordia Hi (= Troiani et Aborigines) postquam in una moenia convenere, dispari genere, dissimili lingua, alius alio more viventes, incredibile memoratu est quam facile coaluerint: ita brevi multitudo divorsa atque vaga concordia civitas facta erat. Sed postquam res eorum civibus moribus agris aucta satis prospera satisque pollens videbatur, sicuti pleraque mortalium habentur, invidia ex opulentia orta est. Igitur reges populique finitumi bello temptare, pauci ex amicis auxilio esse: nam ceteri metu perculsi a periculis aberant. (Sallustio) T 31. Metello conquista la città di Vaga Su istigazione di Giugurta gli abitanti di Vaga, importante centro commerciale della Numidia (oggi Beja, in Tunisia) hanno trucidato il presidio romano che si trovava nella loro città; dall’eccidio si è salvato solo il governatore T. Turpilio Silano, cittadino del Lazio. La vendetta di Metello contro gli abitanti di Vaga, e contro lo stesso Turpilio accusato di tradimento, sarà terribile. 25 Metellus postquam de rebus Vagae actis conperit, paulisper maestus ex conspectu abit. Deinde ubi ira et aegritudo permixta sunt, cum maxuma cura ultum ire iniurias festinat. Legionem, cum qua hiemabat, et quam plurumos potest Numidas equites pariter cum occasu solis expeditos educit et postera die circiter hora tertia pervenit in quandam planitiem locis paulo superioribus circumventam. Ibi milites fessos itineris magnitudine et iam abnuentis omnia docet oppidum Vagam non amplius mille passuum abesse, decere illos relicuom laborem aequo animo pati, dum pro civibus suis, viris fortissumis atque miserrumis, poenas caperent; praeterea praedam benigne ostentat. Sic animis eorum adrectis equites in primo late, pedites quam artissume ire et signa occultare iubet. Vagenses ubi animum advortere ad se vorsum exercitum pergere, primo, uti erat res, Metellum esse rati portas clausere; deinde ubi neque agros vastari et eos, qui primi aderant, Numidas equites vident, rursum Iugurtham arbitrati cum magno gaudio obvii procedunt. Equites peditesque repente signo dato alii volgum effusum oppido caedere, alii ad portas festinare, pars turrīs capere: ira atque praedae spes amplius quam lassitudo posse. Ita Vagenses biduom modo ex perfidia laetati; civitas magna et opulens cuncta poenae aut praedae fuit. Turpilius, quem praefectum oppidi unum ex omnibus profugisse supra ostendimus, iussus a Metello causam dicere, postquam sese parum expurgat, condemnatus verberatusque capite poenas solvit; nam is civis ex Latio erat. (Sallustio) T 32. Atene sotto i trenta tiranni Numquid potes invenire urbem miseriorem quam Atheniensium fuit, cum illam triginta tyranni divellerent? Mille trecentos cives, optimum quemque, occiderant nec finem ideo faciebant, sed inritabat se ipsa saevitia. In qua civitate erat Areos pagos, religiosissimum iudicium, in qua senatus populusque senatu similis, coibat cotidie carnificum triste collegium et infelix curia tyrannis angustabatur: poteratne illa civitas conquiescere in qua tot tyranni erant quot satellites essent? Ne spes quidem ulla recipiendae libertatis animis poterat offerri, nec ulli remedio locus apparebat contra tantam vim malorum; unde enim miserae civitati tot Harmodios? Socrates tamen in medio erat et lugentīs patres consolabatur et desperantīs de re publica exhortabatur et divitibus opes suas metuentibus exprobrabat seram periculosae avaritiae paenitentiam et imitari volentibus magnum circumferebat exemplar, cum inter triginta dominos liber incederet. Hunc tamen Athenae ipsae in carcere occiderunt, et qui tuto insultaverat agmini tyrannorum, eius libertatem libertas non tulit: licet scias et in adflicta re publica esse occasionem sapienti viro ad se proferendum et in florenti ac beata pecuniam, invidiam, mille alia inertia vitia regnare. (Seneca) 26 T 33. I segni del tempo SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Quocumque me verti, argumenta senectutis meae video. Veneram in suburbanum meum et querebar de inpensis aedificii dilabentis. Ait vilicus mihi non esse neglegentiae suae vitium, omnia se facere, sed villam veterem esse. Haec villa inter manus meas crevit: quid mihi futurum est, si tam putria sunt aetatis meae saxa? Iratus illi proximam occasionem stomachandi arripio. «Apparet» inquam «has platanos neglegi: nullas habent frondes. Quam nodosi sunt et retorridi rami, quam tristes et squalidi trunci! Hoc non accideret si quis has circumfoderet, si inrigaret.» Iurat per genium meum se omnia facere, in nulla re cessare curam suam, sed illas vetulas esse. Quod intra nos sit, ego illas posueram, ego illarum primum videram folium. Conversus ad ianuam: «Quis est iste?» inquam «Iste decrepitus et merito ad ostium admotus? Foras enim spectat. Unde istunc nanctus es? Quid te delectavit alienum mortuum tollere?» At ille: «Non cognoscis me?» inquit, «Ego sum Felicio, cui solebas sigillaria adferre; ego sum Philositi vilici filius, deliciolum tuum.» «Perfecte» inquam, «iste delirat: pupulus, etiam delicium meum factus est? Prorsus potest fieri: dentes illi cum maxime cadunt.» Debeo hoc suburbano meo, quod mihi senectus mea quocumque adverteram apparuit. Conplectamur illam et amemus: plena est voluptatis, si illa scias uti. (Seneca) T 34. Tutti hanno nostalgia della patria lontana (I) Seneca, che si trova in esilio in Corsica, cerca di consolare la madre che soffre per l’assenza del figlio da Roma. Tutti quanti soffrono la mancanza della patria lontana, egli dice, anche coloro che, per motivi diversi, si sono allontanati dalle loro città e adesso vivono nella ricca e affollata Roma. “Carere patria intolerabile est.” Aspice agedum hanc frequentiam, cui vix urbis inmensae tecta sufficiunt: maxima pars istius turbae patria caret. Ex municipiis et coloniis suis, ex toto denique orbe terrarum confluxerunt: alios adduxit ambitio, alios necessitas officii publici, alios inposita legatio, alios luxuria opportunum et opulentum vitiis locum quaerens, alios liberalium studiorum cupiditas, alios spectacula; quosdam traxit amicitia, quosdam industria laxam ostendendae virtuti nancta materiam; quidam venalem formam attulerunt, quidam venalem eloquentiam. Nullum non hominum genus concucurrit in urbem et virtutibus et vitiis magna pretia ponentem. (Seneca) 27 T 35. Tutti hanno nostalgia della patria lontana (II) Iube istos omnes ad nomen citari et “unde domo” quisque sit quaere: videbis maiorem partem esse quae relictis sedibus suis venerit in maximam quidem ac pulcherrimam urbem, non tamen suam. Deinde ab hac civitate discede, quae veluti communis potest dici, omnes urbes circumi: nulla non magnam partem peregrinae multitudinis habet. Transi ab iis quarum amoena positio et opportunitas regionis plures adlicit, deserta loca et asperrimas insulas, Sciathum et Seriphum, Gyaram et Cossuran percense: nullum invenies exilium in quo non aliquis animi causa moretur. Quid tam nudum inveniri potest, quid tam abruptum undique quam hoc saxum? Quid ad copias respicienti ieiunius? Quid ad homines inmansuetius? Quid ad ipsum loci situm horridius? Quid ad caeli naturam intemperantius? Plures tamen hic peregrini quam cives consistunt. Usque eo ergo commutatio ipsa locorum gravis non est ut hic quoque locus a patria quosdam abduxerit. (Seneca) T 36. Le origini dei Teucri Teucrus: de hoc fabula duplex est; nam et de parentibus eius dupliciter traditur. Alii enim Idae nymphae, alii, inter quos et Trogus, Scamandri filium tradunt. Qui Scamander cum Creta frugum inopia laboraret, cum parte tertia populi ad exteras sedes quaerendas profectus est, ab Apolline monitus, ibi eum habiturum sedes, ubi noctu a terrigenis oppugnatus esset. Cum ad Phrygiam venisset et castra posuisset, noctu mures arcuum nervos et loramenta armorum adroserunt. Scamander hos interpretatus hostes esse terrigenas, in Idae montis radicibus aedificia collocavit. Qui cum adversus Bebrycas finitimos bellum gereret, victor in Xantho flumine lapsus non conparuit, qui post a Cretensibus in honorem regis sui Scamander appellatus est, filioque eius Teucro regnum traditum. Qui cives e suo nomine Teucros appellavit, qui post a rege Troo Troiani dicti sunt, et templum Apollini constituit, quem Sminthium appellavit; Cretenses enim murem sminthicem dicunt. Alii non Scamandrum, sed Teucrum ipsum sub condicione supradicti oraculi profectum de Creta dicunt, et civitatem et templum condidisse, et sminthos mures vocari a Phrygibus. (Servio) T 37. Decisioni assembleari presso i Germani De minoribus rebus principes consultant, de maioribus omnes, ita tamen ut ea quoque, quorum penes plebem arbitrium est, apud principes praetractentur. Coëunt, nisi quid fortuitum et subitum incidit, certis diebus, cum aut incohatur luna aut impletur; nam agendis rebus hoc auspicatissimum initium credunt. 28 Nec dierum numerum, ut nos, sed noctium computant. Sic constituunt, sic condicunt: nox ducere diem videtur. Illud ex libertate vitium, quod non simul nec ut iussi conveniunt, sed et alter et tertius dies cunctatione coëuntium absumitur. Ut turbae placuit, considunt armati. Silentium per sacerdotes, quibus tum et coërcendi ius est, imperatur. Mox rex vel princeps, prout aetas cuique, prout nobilitas, prout decus bellorum, prout facundia est, audiuntur auctoritate suadendi magis quam iubendi potestate. Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt: honoratissimum adsensus genus est armis laudare. (Tacito) T 38. Presagi di grandezza per Vespasiano Post Muciani orationem ceteri audentius circumsistere, hortari, responsa vatum et siderum motus referre. Nec erat intactus tali superstitione, ut qui mox rerum domnus Seleucum quendam mathematicum rectorem et praescium palam habuerit. Recursabant animo vetera omina: cupressus arbor in agris eius conspicua altitudine repente prociderat ac postera die eodem vestigio resurgens procera et latior virebat. Grande id prosperumque consensu haruspicum et summa claritudo iuveni admodum Vespasiano promissa, sed primo triumphalia et consulatus et Iudaicae victoriae decus implesse fidem ominis videbatur: ut haec adeptus est, portendi sibi imperium credebat. Est Iudaeam inter Syriamque Carmelus: ita vocant montem deumque. Nec simulacrum deo aut templum - sic tradidere maiores - : ara tantum et reverentia. Illic sacrificanti Vespasiano, cum spes occultas versaret animo, Basilides sacerdos inspectis identidem extis «Quicquid est» inquit, «Vespasiane, quod paras, seu domum extruere seu prolatare agros sive ampliare servitia, datur tibi magna sedes, ingentes termini, multum hominum.» (Tacito) T 39. Un esempio di grande astuzia: Demostene Demosthenis quoque astutia mirifice cuidam aniculae succursum est, quae pecuniam depositi nomine a duobus hospitibus acceperat ea condicione, ut illam simul utrisque redderet. Quorum alter interiecto tempore tamquam mortuo socio squalore obsitus deceptae omnīs nummos abstulit. Supervenit deinde alter et depositum petere coepit. Haerebat misera et in maxima pariter et pecuniae et defensionis penuria iamque de laqueo et suspendio cogitabat: sed opportune Demosthenes ei patronus adfulsit. Qui, ut in advocationem venit: «Mulier» inquit «parata est depositi se fide solvere, sed nisi socium adduxeris, id facere non potest, quoniam, ut ipse vociferaris, haec dicta est lex, ne pecunia alteri sine altero numeraretur.» (Valerio Massimo) 29 T 40. Un esempio di grande astuzia: Annibale (a) Hannibal a Duilio consule navali proelio victus timensque classis amissae poenas dare, offensam astutia mire avertit: nam ex illa infelici pugna prius quam cladis nuntius domum perveniret quendam ex amicis conpositum et formatum Karthaginem misit. Qui, postquam civitatis eius curiam intravit: «Consulit vos» inquit «Hannibal, cum dux Romanorum magnas secum maritimas trahens copias advenerit, an cum eo confligere debeat.» Adclamavit universus senatus non esse dubium quin oporteret. Tum ille: «Conflixit» inquit «et superatus est». Ita liberum his non reliquit id factum damnare, quod ipsi fieri debuisse iudicaverant. (Valerio Massimo) T 41. Un esempio di grande astuzia: Annibale (b) Item Hannibal Fabium Maximum invictam armorum suorum vim saluberrimis cunctationibus pugnae ludificantem, ut aliqua suspicione trahendi belli respergeret, totius Italiae agros ferro atque igni vastando unius eius fundum inmunem ab hoc iniuriae genere reliquit. Profecisset aliquid tanti beneficii insidiosa adumbratio eius, nisi Romanae urbi et Fabii pietas et Hannibalis vafri mores fuissent notissimi. (Valerio Massimo) T 42. Morire per la patria: Decio Mure P. Decius Mus, qui consulatum in familiam suam primus intulit, cum Latino bello Romanam aciem inclinatam et paene iam prostratam videret, caput suum pro salute rei publicae devovit ac protinus concitato equo in medium hostium agmen patriae salutem, sibi mortem petens inrupit factaque ingenti strage plurimis telis obrutus super corruit. Ex cuius vulneribus et sanguine insperata victoria emersit. Unicum talis imperatoris specimen esset, nisi animo suo respondentem filium genuisset: is namque in quarto consulatu patris exemplum secutus devotione simili, aeque strenua pugna, consentaneo exitu labantīs perditasque vires urbis nostrae correxit. Ita dinosci arduum est utrum Romana civitas Decios utilius habuerit duces an amiserit, quoniam vita eorum ne vinceretur obstitit, mors fecit ut vinceret. (Valerio Massimo) T 43. Proteggere la patria: Scipione l’Africano Non est extinctus pro re publica superior Scipio Africanus, sed admirabili virtute ne res publica extingueretur providit: siquidem cum adflicta Cannensi clade urbs nostra nihil aliud quam praeda victoris esse Hannibalis videretur, 30 ideoque reliquiae prostrati exercitus deserendae Italiae auctore Q. Metello consilium agitarent, tribunus militum admodum iuvenis stricto gladio mortem unicuique minitando iurare omnes numquam se relicturos patriam coëgit pietatemque non solum ipse plenissimam exhibuit, sed etiam ex pectoribus aliorum abeuntem revocavit. (Valerio Massimo) T 44. Grande saggezza di Socrate e Solone Idem (= Socrates), cum Atheniensium scelerata dementia tristem de capite eius sententiam tulisset fortique animo et constanti vultu potionem veneni e manu carnificis accepisset, admoto iam labris poculo, uxore Xanthippe inter fletum et lamentationem vociferante innocentem eum periturum, «Quid ergo?» inquit, «nocenti mihi mori satius esse duxisti?» Inmensam illam sapientiam, quae ne in ipso quidem vitae excessu oblivisci sui potuit! Age quam prudenter Solo neminem, dum adhuc viveret, beatum dici debere arbitrabatur, quod ad ultimum usque fati diem ancipiti fortunae subiecti essemus. Felicitatis igitur humanae appellationem rogus consummat, qui se incursui malorum obicit. Idem, cum ex amicis quendam graviter maerentem videret, in arcem perduxit hortatusque est ut per omnes subiectorum aedificiorum partes oculos circumferret. Quod ut factum animadvertit, «Cogita nunc tecum» inquit, «quam multi luctus sub his tectis et olim fuerint et hodieque versentur et insequentibus saeculis sint habitaturi ac mitte mortalium incommoda tamquam propria deflere.» (Valerio Massimo) T 45. Necessità della concordia dei consoli Nunc ad senatus acta transgrediar. Cum adversus Hannibalem Claudium Neronem et Livium Salinatorem consules mitteret eosque ut virtutibus pares, ita inimicitiis acerrime inter se dissidentes videret, summo studio in gratiam reduxit, ne propter privatas dissensiones rem publicam parum utiliter administrarent, quia consulum imperio nisi concordia inest, maior aliena opera interpellandi quam sua edendi cupiditas nascitur. Ubi vero etiam pertinax intercedit odium, alter alteri quam uterque contrariis castris certior hostis proficiscitur. Eosdem senatus, cum ob nimis aspere actam censuram a Cn. Baebio tribuno pl. pro rostris agerentur rei, causae dictione decreto suo liberavit vacuum omnis iudicii metu eum honorem reddendo, qui exigere deberet rationem, non reddere. (Valerio Massimo) 31 T 46. Vita rustica et urbana Cum duae vitae traditae sint hominum, rustica et urbana, […] dubium non est quin hae non solum loco discretae sint, sed etiam tempore diversam originem habeant. Antiquior enim multo rustica, quod fuit tempus, cum rura colerent homines neque urbem haberent. Etenim vetustissimum oppidum cum sit traditum graecum Boeotiae Thebae, quod rex Ogygos aedificarit, in agro Romano Roma, quam Romulus rex. […] Nec mirum, quod divina natura dedit agros, ars humana aedificavit urbes, cum artes omnes dicantur in Graecia intra mille annorum repertae, agri numquam non fuerint in terris qui coli possint. Neque solum antiquior cultura agri, sed etiam melior. Itaque non sine causa maiores nostri ex urbe in agros redigebant suos cives, quod et in pace a rusticis Romanis alebantur et in bello ab his alebantur. Nec sine causa terram eandem appellabant matrem et Cererem, et qui eam colerent, piam et utilem agere vitam credebant atque eos solos reliquos esse ex stirpe Saturni regis. Cui consentaneum est, quod initia vocantur potissimum ea quae Cereri fiunt sacra. […] Agri culturam primo propter paupertatem maxime indiscretam habebant, quod a pastoribus qui erant orti in eodem agro et serebant et pascebant: quae postea creverunt pecunia diviserunt, ac factum ut dicerentur alii agricolae, alii pastores. (Varrone) T 47. Il filosofo Aristippo Aristippus philosophus Socraticus, naufragio cum eiectus ad Rhodiensium litus animadvertisset geometrica schemata descripta, exclamavisse ad comites ita dicitur: «Bene speremus! Hominum enim vestigia video.» Statimque in oppidum Rhodum contendit et recta gymnasium devenit, ibique de philosophia disputans muneribus est donatus, ut non tantum se ornaret, sed etiam eis, qui una fuerunt, et vestitum et cetera, quae opus essent ad victum, praestaret. Cum autem eius comites in patriam reverti voluissent interrogarentque eum, quidnam vellet domum renuntiari, tunc ita mandavit dicere: eiusmodi possessiones et viatica liberis oportere parari, quae etiam e naufragio una possent enatare. Namque ea vera praesidia sunt vitae, quibus neque fortunae tempestas iniqua neque publicarum rerum mutatio neque belli vastatio potest nocere. (Vitruvio) 32 T 48. Il principio di Archimede e la corona del re Gerone (I) Nel trattato “Sui corpi galleggianti” Archimede racconta un curioso episodio. Entrato un giorno in un balineum, «bagno», lo studioso si rese conto che dalla vasca si sollevava un volume di acqua pari alla massa del suo corpo immerso nel liquido; con gioia uscì nudo dal bagno gridando Éureka, éureka, «Ho trovato, ho trovato». La scoperta di tale legge idrostatica (“Un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l'alto pari al peso del volume di fluido spostato”) gli permise di svelare una truffa perpetrata ai danni del re Gerone. Archimedis vero cum multa miranda inventa et varia fuerint, ex omnibus etiam infinita sollertia id, quod exponam, videtur esse expressum. Nimirum Hiero enim Syracusis auctus regia potestate, rebus bene gestis cum auream coronam votivam diis inmortalibus in quodam fano constituisset ponendam, manupretio locavit faciendam et aurum ad sacomam adpendit redemptori. Is ad tempus opus manu factum subtiliter regi adprobavit et ad sacomam pondus coronae visus est praestitisse. Posteaquam indicium est factum dempto auro tantundem argenti in id coronarium opus admixtum esse, indignatus Hiero se contemptum esse neque inveniens, qua ratione id furtum reprehenderet, rogavit Archimeden, uti (= ut) in se sumeret sibi de eo cogitationem. Tunc is, cum haberet eius rei curam, casu venit in balineum, ibique cum in solium descenderet, animadvertit, quantum corporis sui in eo insideret, tantum aquae extra solium effluere. Idque cum eius rei rationem explicationis ostendisset, non est moratus, sed exsiluit gaudio motus de solio et nudus vadens domum universis significabat clara voce invenisse, quod quaereret; nam currens ʿ´ρηχα ευʿ´ρηχα (leggi: éureka éureka, «ho trovato, ho identidem graece clamabat ευ trovato»). (Vitruvio) T 49. Il principio di Archimede e la corona del re Gerone (II) Tum vero ex eo inventionis ingressu duas fecisse dicitur massas aequo pondere, quo etiam fuerat corona, unam ex auro et alteram ex argento. Cum ita fecisset, vas amplum ad summa labra implevit aquae, in quo demisit argenteam massam. Cuius quanta magnitudo in vasum depressa est, tantum aquae effluxit. Ita exempta massa quanto minus factum fuerat, refudit sextario mensus, ut eodem modo, quo prius fuerat, ad labra aequaretur. Ita ex eo invenit, quantum pondus argenti ad certam aquae mensuram responderet. Cum id expertus esset, tum auream massam similiter pleno vaso demisit et ea exempta, eadem ratione mensura addita invenit ex aquae numero sextantum minore, quanto minus magno corpore eodem pondere auri massa esset quam argenti. Postea vero repleto vaso in eadem aqua ipsa corona demissa invenit plus aquae defluxisse in corona quam in aurea eodem pondere massa, et ita ex eo, quod fuerat plus aquae in corona quam in massa, ratiocinatus reprehendit argenti in auro mixtionem et manifestum furtum redemptoris. (Vitruvio) 33 T 50. De muliere quae virum defraudavit Petrus contribulis meus olim mihi narravit fabulam ridiculosam et versutia dignam muliebri. Is rem habebat cum femina nupta agricolae haud multum prudenti, et is foris in agro saepius ob pecuniam debitam pernoctabat. Cum aliquando amicus intrasset ad mulierem, vir insperatus rediit in crepusculo: tum illa, subito collocato subtus lectum adultero, in maritum versa, graviter illum increpavit, quod redisset, asserens velle eum degere in carceribus: «Modo,» inquit, «Praetoris satellites ad te capiendum universam domum perscrutati sunt, ut te abriperent ad carcerem: cum dicerem te foris dormire solitum, abierunt, comminantes se paulo post reversuros.» Quaerebat homo perterritus abeundi modum: sed jam portae oppidi clausae erant. Tum mulier: «Quid agis, infelix? Si caperis, actum est.» Cum ille uxoris consilium tremens quaereret, illa ad dolum prompta: «Ascende,» inquit, «ad hoc columbarium: eris ibi hac nocte, ego ostium extra occludam, et removebo scalas, ne quis te ibi esse suspicari queat.» Ille uxoris paruit consilio. Ea, obserato ostio, ut viro facultas egrediendi non esset, amotis scalis, hominem ex ergastulo eduxit, qui simulans lictores Praetoris iterum advenisse, magna excitata turba, muliere quoque pro viro loquente, ingentem latenti timorem incussit. Sedato tandem tumultu, ambo in lectum profecti ea nocte Veneri operam dederunt; vir delituit inter stercora et columbos. (Poggio Bracciolini, Liber Facetiarum, 10) 34 Ripasso in rete: Tavole Morfologiche Tavole morfologiche ◗ 1◗ Forme del nome PRIMA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI MASCHILI E FEMMINILI IN -A puella, -ae, f., «la fanciulla» nom. gen. dat. acc. voc. abl. puell- ¥ puell- ae puell- ae puell- am puell- ¥ puell- ≠ sing. la fanciulla della fanciulla alla fanciulla la fanciulla o fanciulla con la fanciulla pl. le fanciulle delle fanciulle alle fanciulle le fanciulle o fanciulle con le fanciulle puell- ae puell- ≠rum puell- is puell- as puell- ae puell- is SECONDA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI MASCHILI E FEMMINILI IN -US nom. gen. dat. acc. voc. abl. lupus, -i, m., «il lupo» sing. pl. lup- us lup- i lup- i lup- ∏rum lup- o lup- is lup- um lup- os lup- ≥ lup- i lup- ∏ lup- is fagus, -i, f., «il faggio» sing. pl. fag- us fag- i fag- i fag- ∏rum fag- o fag- is fag- um fag- os fag- ≥ fag- i fag- ∏ fag- is SECONDA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI MASCHILI IN -ER nom. gen. dat. acc. voc. abl. puer, -eri, «il fanciullo» (I) sing. pl. puer pu≥r- i pu≥r- i puer- ∏rΩm pu≥r- o pu≥r- is pu≥r- um pu≥r- os puer pu≥r- i pu≥r- ∏ pu≥r- is liber, -ri, «il libro» (II) sing. pl. liber libr- i libr- i libr- ∏rΩm libr- o libr- is libr- um libr- os liber libr- i libr- ∏ libr- is SECONDA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI NEUTRI IN -UM bellum, -i, «la guerra» sing. nom. gen. dat. acc. voc. abl. bell- um bell- i bell- o bell- um bell- um bell- ∏ pl. bell- ¥ bell- ∏rum bell- is bell- ¥ bell- ¥ bell- is 36 Forme del nome TERZA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI IMPARISILLABI IN CONSONANTE consul, consΩlis, m., «console»; laus, laudis, f., «lode»; corpus, corpπris, n., «corpo» sing. pl. masch. femm. neutro masch. femm. neutro nom. consul laus corpus consΩl- es laud- es corpπr- ¥ gen. consΩl- is laud- is corpπr- is consΩl- um laud- um corpπr- um dat. consΩl- i laud- i corpπr- i consul- ∑bus laud- ∑bus corpor- ∑bus acc. consΩl- em laud- em corpus consΩl- es laud- es corpπr- ¥ voc. consul laus corpus consΩl- es laud- es corpπr- ¥ abl. consΩl- e laud- e corpπr- e consul- ∑bus laud- ∑bus corpor- ∑bus TERZA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI PARISILLABI IN VOCALE -I civis, civis, m., «cittadino»; vulpes, vulpis, f., «volpe» sing. masch. nom. gen. dat. acc. voc. abl. civ- is civ- is civ- i civ- em civ- is civ- e pl. femm. vulp- es vulp- is vulp- i vulp- em vulp- es vulp- e masch. civ- es civ- ∑um civ- ∑bus civ- es (-∂s) civ- es civ- ∑bus femm. vulp- es vulp- ∑um vulp- ∑bus vulp- es (-∂s) vulp- es vulp- ∑bus TERZA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI PARISILLABI IN VOCALE -I, CON DESINENZE PROPRIE sec∫ris, sec∫ris, f., «la scure» sing. pl. nom. sec∫r- is sec∫r- es gen. sec∫r- is secur- ∑um dat. sec∫r- i secur- ∑bus acc. sec∫r- im sec∫r- es (∂s) voc. sec∫r- is sec∫r- es abl. sec∫r- i secur- ∑bus TERZA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI NEUTRI IN -E, -AL, -AR mare, maris, «mare»; an∑mal, anim≠lis, «essere animato», «animale»; ex≤mplar, exempl≠ris, «modello esemplare» sing. pl. nom. mare an∑mal ex≤mplar mar- ∑a animal- ∑a exemplar- ∑a gen. mar- is anim≠l- is exempl≠r- is mar- ∑um animal- ∑um exemplar- ∑um dat. mar- i anim≠l- i exempl≠r- i mar- ∑bus animal- ∑bus exemplar- ∑bus acc. mare an∑mal ex≤mplar mar- ∑a animal- ∑a exemplar- ∑a voc. mare an∑mal ex≤mplar mar- ∑a animal- ∑a exemplar- ∑a abl. mar- i anim≠l- i exempl≠r- i mar- ∑bus animal- ∑bus exemplar- ∑bus 37 Tavole morfologiche TERZA DECLINAZIONE: FALSI IMPARISILLABI mons, montis, m., «monte»; gens, gentis, f., «stirpe», «popolo» masch. sing. femm pl. sing. pl. nom. mons mont- es gens gent- es gen. mont- is mont- ∑um gent- is gent- ∑um dat. mont- i mont- ∑bus gent- i gent- ∑bus acc. mont- em mont- es gent- em gent- es voc. mons mont- es gens gent- es abl. mont- e mont- ∑bus gent- e gent- ∑bus TERZA DECLINAZIONE: FALSI PARISILLABI mater, matris, f., «madre» sing. pl. nom. mater matr- es gen. matr- is matr- um dat. matr- i matr- ∑bus acc. matr- em matr- es voc. mater matr- es abl. matr- e matr- ∑bus QUARTA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI MASCH. / FEMM. fructus, us, f., «frutto» sing. pl. nom. fruct- Ωs fruct- ∫s gen. fruct- ∫s fruct- ΩΩm dat. fruct- Ω∂ fruct- ∑bus acc. fruct- Ωm fruct- ∫s voc. fruct- Ωs fruct- ∫s abl. fruct- ∫ fruct- ∑bus QUARTA DECLINAZIONE: SOSTANTIVI NEUTRI cornu, us, n., «corno» (ala dell’esercito) sing. pl. nom. corn- ∫ corn- Ω¥ gen. corn- ∫s corn- ΩΩm dat. corn- ∫ corn- ∑bus acc. corn- ∫ corn- Ω¥ voc. corn- ∫ corn- Ω¥ abl. corn- ∫ corn- ∑bus 38 Forme dell’aggettivo QUINTA DECLINAZIONE masch. sing. nom. gen. dat. acc. voc. abl. di- es di- ≤i di- ≤i di- em di- es di- ≤ dies, di≤i, m., «giorno»; res, r≥i, f., «cosa» masch. pl. femm. sing. femm. pl. di- es r- es r- es di- ≤rum r- ei r- ≤rum di- ≤bus r- ei r- ≤bus di- es r- em r- es di- es r- es r- es di- ≤bus r- ≤ r- ≤bus NOMI COMPOSTI terrae motus, «terremoto» (“moto della terra”); res-publica, «Stato» (“cosa pubblica”) sing. nom. gen. dat. acc. voc. abl. terrae motus terrae motus terrae motui terrae motum terrae motus terrae motu pl. sing. terrae motus terrae motΩum terrae mot∑bus terrae motus terrae motus terrae mot∑bus pl. res-publ∑ca rei-publ∑cae rei-publ∑cae rem-publ∑cam res-publ∑ca re-publ∑ca res-publ∑cae rerum-public≠rum rebus-publ∑cis res-publ∑cas res-publ∑cae rebus-publ∑cis ◗2◗ Forme dell’aggettivo AGGETTIVI DELLA I CLASSE CON NOMINATIVO -US, -A, -UM bon -us, -a, -um, «buono» nom. gen. dat. acc. voc. abl. masch. bon- us bon- i bon- o bon- um bon- e bon- ∏ sing. femm. bon- ¥ bon- ae bon- ae bon- am bon- ¥ bon- ≠ neutro bon- um bon- i bon- o bon- um bon- um bon- ∏ masch. bon- i bon- ∏rum bon- is bon- os bon- i bon- is pl. femm. bon- ae bon- ≠rum bon- is bon- as bon- ae bon- is neutro bon- ¥ bon- ∏rum bon- is bon- ¥ bon- ¥ bon- is AGGETTIVI DELLA I CLASSE CON NOMINATIVO -ER, -ERA, -ERUM mis -er, -era, -erum, «infelice» nom. gen. dat. acc. voc. abl. masch. mis≥r mis≥r- i mis≥r- o mis≥r- um mis≥r mis≥r- ∏ sing. femm. mis≥r- ¥ mis≥r- ae mis≥r- ae mis≥r- am mis≥r- ¥ mis≥r- ≠ neutro mis≥r- um mis≥r- i mis≥r- o mis≥r- um mis≥r- um mis≥r- ∏ 39 masch. mis≥r- i miser- ∏rum mis≥r- is mis≥r- os mis≥r- i mis≥r- is pl. femm. mis≥r- ae miser- ≠rum mis≥r- is mis≥r- as mis≥r- ae mis≥r- is neutro mis≥r- ¥ miser- ∏rum mis≥r- is mis≥r- ¥ mis≥r- ¥ mis≥r- is Tavole morfologiche AGGETTIVI DELLA I CLASSE CON NOMINATIVO -ER, -RA, -RUM nig -er, -ra, -rum, «nero» nom. gen. dat. acc. voc. abl. masch. niger nigr- i nigr- o nigr- um niger nigr- ∏ sing. femm. nigr- ¥ nigr- ae nigr- ae nigr- am nigr- ¥ nigr- ≠ neutro nigr- um nigr- i nigr- o nigr- um nigr- um nigr- ∏ masch. nigr- i nigr- ∏rum nigr- is nigr- os nigr- i nigr- is pl. femm. nigr- ae nigr- ≠rum nigr- is nigr- as nigr- ae nigr- is neutro nigr- ¥ nigr- ∏rum nigr- is nigr- ¥ nigr- ¥ nigr- is AGGETTIVI PRONOMINALI CON NOMINATIVO -US, -A, -UM tot -us, -a, -um, «tutto quanto» nom. gen. dat. acc. voc. abl. masch. tot- us tot- ∂us tot- ∂ tot- um tot- e tot- ∏ sing. femm. tot- ¥ tot- ∂us tot- ∂ tot- am tot- ¥ tot- ≠ neutro tot- um tot- ∂us tot- ∂ tot- um tot- um tot- ∏ masch. tot- i tot- ∏rum tot- is tot- os tot- i tot- is pl. femm. tot- ae tot- ≠rum tot- is tot- as tot- ae tot- is neutro tot- ¥ tot- ∏rum tot- is tot- ¥ tot- ¥ tot- is AGGETTIVI PRONOMINALI CON NOMINATIVO -ER, -ERA, -ERUM alt -er, -era, -erum, «altro (fra due)» nom. gen. dat. acc. voc. abl. masch. alter alter- ∂us alt≥r- ∂ alt≥r- um alter alt≥r- ∏ sing. femm. alt≥r- ¥ alter- ∂us alt≥r- ∂ alt≥r- am alt≥r- ¥ alt≥r- ≠ neutro alt≥r- um alter- ∂us alt≥r- ∂ alt≥r- um alt≥r- um alt≥r- ∏ masch. alt≥r- i alter- ∏rum alt≥r- is alt≥r- os alt≥r- i alt≥r- is pl. femm. alt≥r- ae alter- ≠rum alt≥r- is alt≥r- as alt≥r- ae alt≥r- is neutro alt≥r- ¥ alter- ∏rum alt≥r- is alt≥r- ¥ alt≥r- ¥ alt≥r- is AGGETTIVI PRONOMINALI CON NOMINATIVO -ER, -RA, -RUM nom. gen. dat. acc. voc. abl. masch. neut- er neutr- ∂us neutr- ∂ neutr- um neut- er neutr- ∏ neut -er, -ra, -rum, «nessuno dei due» sing. pl. femm. neutro masch. femm. neutr- ¥ neutr- um neutr- i neutr- ae neutr- ∂us neutr- ∂us neutr- ∏rum neutr- ≠rum neutr- ∂ neutr- ∂ neutr- is neutr- is neutr- am neutr- um neutr- os neutr- as neutr- ¥ neutr- um neutr- i neutr- ae neutr- ≠ neutr- ∏ neutr- is neutr- is 40 neutro neutr- ¥ neutr- ∏rum neutr- is neutr- ¥ neutr- ¥ neutr- is Forme dell’aggettivo AGGETTIVI DELLA II CLASSE A 3 USCITE, -ER, -RIS, -RE (I GRUPPO) acer, acris, acre, «acuto», «aspro» nom. gen. dat. acc. voc. abl. sing. femm. acr- is acr- is acr- i acr- em acr- is acr- i masch. ac- er acr- is acr- i acr- em ac- er acr- i neutro acr- e acr- is acr- i acr- e acr- e acr- i masch. acr- es acr- ∑um acr- ∑bus acr- es acr- es acr- ∑bus pl. femm. acr- es acr- ∑um acr- ∑bus acr- es acr- es acr- ∑bus neutro acr- ∑¥ acr- ∑um acr- ∑bus acr- ∑¥ acr- ∑¥ acr- ∑bus AGGETTIVI DELLA II CLASSE A 2 USCITE, -IS, -E (II GRUPPO) fac∑lis, fac∑le, «facile» sing. nom. gen. dat. acc. voc. abl. masch. / femm. fac∑l- is fac∑l- is fac∑l- i fac∑l- em fac∑l- is fac∑l- i pl. neutro fac∑l- e fac∑l- is fac∑l- i fac∑l- e fac∑l- e fac∑l- i masch. / femm. fac∑l- es facil- ∑um facil- ∑bus fac∑l- es fac∑l- es facil- ∑bus neutro facil- ∑¥ facil- ∑um facil- ∑bus facil- ∑¥ facil- ∑¥ facil- ∑bus AGGETTIVI DELLA II CLASSE A 1 USCITA, VARIA (III GRUPPO) felix, fel∂cis, «fortunato» (tema in gutturale -c, *felic-) sing. masch. / femm. pl. neutro masch. / femm. neutro nom. felix felix fel∂c- es felic- ∑¥ gen. fel∂c- is fel∂c- is felic- ∑um felic- ∑um dat. fel∂c- i fel∂c- i felic- ∑bus felic- ∑bus acc. fel∂c- em felix fel∂c- es felic- ∑¥ voc. felix felix fel∂c- es felic- ∑¥ abl. fel∂c- i fel∂c- i felic- ∑bus felic- ∑bus 41 Tavole morfologiche COMPARATIVO DI MAGGIORANZA (RELATIVO E ASSOLUTO) clar-∑or, clar-∑us, «più famoso di», «abbastanza / parecchio famoso» sing. masch. / femm. pl. neutro masch. / femm. neutro nom. clar- ∑or clar- ∑us clar- i∏r - es clar- i∏r - ¥ gen. clar- i∏r - is clar- i∏r- is clar- i∏r - um clar- i∏r - um dat. clar- i∏r - i clar- i∏r - i clar- i∏r - ∑bus clar- ior - ∑bus acc. clar- i∏r - em clar- ∑us clar- i∏r - es clar- i∏r - ¥ voc. clar- ∑or clar- ∑us clar- i∏r - es clar- i∏r - ¥ abl. clar- i∏r - e clar- i∏r - e clar- ior- ĭbus clar- ior - ∑bus SUPERLATIVO (RELATIVO E ASSOLUTO) clar-iss∑m-us, -¥, -um, «famosissimo», «il più famoso di» sing. masch. pl. femm. neutro masch. femm. neutro nom. clar-iss∑m-us clar-iss∑m-¥ clar-iss∑m-um clar-iss∑m-i clar-iss∑m-ae clar-iss∑m-¥ gen. clar-iss∑m-i clar-iss∑m-ae clar-iss∑m-i clar-iss∑m-∏rum clar-iss∑m-≠rum clar-iss∑m-∏rum dat. clar-iss∑m-o clar-iss∑m-ae clar-iss∑m-o clar-iss∑m-is clar-iss∑m-is clar-iss∑m-is acc. clar-iss∑m-um clar-iss∑m-am clar-iss∑m-um clar-iss∑m-os clar-iss∑m-as clar-iss∑m-¥ voc. clar-iss∑m-e clar-iss∑m-¥ clar-iss∑m-um clar-iss∑m-i clar-iss∑m-ae clar-iss∑m-¥ abl. clar-iss∑m-∏ clar-iss∑m-≠ clar-iss∑m-∏ clar-iss∑m-is clar-iss∑m-is clar-iss∑m-is 42 arabe duo, duae, duo tres, tria quattuor quinque sex septem octo novem decem und≥cim duod≥cim tred≥cim quattuord≥cim quind≥cim sed≥cim septemd≥cim duodeviginti undeviginti viginti viginti et unus … duo et viginti 2 II 3 III 4 IV (IIII) 5 V 6 VI 7 VII 8 VIII 9 IX (VIIII) 10 X 11 XI 12 XII 13 XIII 14 XIV (XIIII) 15 XV 16 XVI 17 XVII 18 XVIII 19 XIX (XVIIII) 20 XX 21 XXI 22 XXII Cardinali unus, -a, -um romane 1 I Cifre 43 alter et vices∑mus … unus et vices∑mus … vices∑mus… undevices∑mus… duodevices∑mus… sept∑mus dec∑mus… sextus dec∑mus… quintus dec∑mus… quartus dec∑mus… tert∑us dec∑mus, -a, -um duodec∑mus, -a, -um undec∑mus, -a, -um dec∑mus, -a, -um nonus, -a, -um oct≠vus, -a, -um sept∑mus, -a, -um sextus, -a, -um quintus, -a, -um quartus, -a, -um tert∑us, -a, -um secundus, -a, -um primus, -a, -um Ordinali bini et viceni … singΩli et viceni … vic≤ni, -ae, -a undevic≤ni, -ae, -a duodevic≤ni, -ae, -a sept≤ni deni, -ae, -a seni deni, -ae, -a quini deni, -ae, -a quaterni deni, -ae, -a terni deni, -ae, -a duod≤ni, -ae, -a und≤ni, -ae, -a deni, -ae, -a nov≤ni, -ae, -a oct∏ni, -ae, -a sept≤ni, -ae, -a seni, -ae, -a quini, -ae, -a quaterni, -ae, -a terni, -ae, -a bini, -ae, -a singΩli, -ae, -a Distributivi PROSPETTO GENERALE DEI NUMERALI bis et vicies semel et vicies vicies (viciens) novies decies octies decies septies decies sedecies (sexies decies) quindecies (quinquies decies) quater decies ter decies duodecies undecies decies novies octies septies sexies quinqu∑es quater ter bis semel Avverbi Forme dell’aggettivo 44 centies millesimus … decies centies millesimus … centum milia decies cent≤na milia millesimus … decies millesimus … mille 1000 M (o CIƆ) nongentesimus … decem milia nongenti … 900 CM, DCCCC octingentesimus … bis millesimus … octingenti … 800 DCCC septingentesimus … sescentesimus … quingentes∑mus … quadringentes∑mus … trecentes∑mus … ducentes∑mus … centes∑mus … nonages∑mus … octoges∑mus … septuages∑mus … sexages∑mus … quinquages∑mus … quadrages∑mus … trices∑mus (triges∑mus) undetrices∑mus… duodetrices∑mus … Ordinali duo milia septingenti… 700 DCC 2000 MM (o CIƆCIƆ o II– ) – (o CCIƆƆ) 10.000 X – (o CCCIƆƆƆ) 100.000 C — 1.000.000 |X| (o CCCCIƆƆƆ) sescenti … 600 DC centum 100 C quingenti … nonaginta 90 XC (LXXXX) 500 D (o IƆ) octoginta 80 LXXX quadringenti … septuaginta 70 LXX 400 CD, CCCC sexaginta 60 LX trecenti, -ae, -a quinquaginta 50 L 300 CCC quadraginta 40 XL (XXXX) ducenti, -ae, -a triginta 30 XXX 200 CC undetriginta 29 XXIX Cardinali duodetriginta romane 28 XXVIII arabe Cifre decies centena milia cent≤na milia dena milia bina milia singula milia nongeni … octingeni … septingeni … sesceni … quingeni … quadringeni … treceni … duceni … centeni … nonag≤ni … octog≤ni … septuag≤ni … sexag≤ni … quinquag≤ni … quadrag≤ni … tric≤ni … undetric≤ni… duodetric≤ni … Distributivi decies centies milies centies milies decies milies bis milies milies (millies) nongenties octingenties septingenties sescenties quingenties quadringenties trecenties ducenties centies nonagies octogies septuagies sexagies quinquagies quadragies tricies undetricies duodetricies Avverbi Tavole morfologiche Forme del pronome FLESSIONE DI UNUS, UN¬, UNUM, «UNO»; DUO, DUAE, DUO, «DUE» nom. gen. dat. acc. abl. unus, un¥, unum sing. masch. femm. neutro un-us un-¥ un-um un-∂us un-∂us un-∂us un-∂ un-∂ un-∂ un-um un-am un-um un-∏ un-≠ un-∏ masch. du-o du-∏rum du-∏bus du-os du-∏bus duo, duae, duo pl. femm. du-ae du-≠rum du-≠bus du-as du-≠bus neutro du-o du-∏rum du-∏bus du-o du-∏bus FLESSIONE DI TRES, TRI¬, «TRE»; MILIA, «MIGLIAIA» pl. nom. gen. dat. acc. abl. masch./femm. tr-es tr-ium tr-ibus tr-es tr-ibus tres, tria neutro tr-i¥ tr-ium tr-ibus tr-i¥ tr-ibus mili¥ neutro mil-∑¥ mil-∑um mil-∑bus mil-∑¥ mil-∑bus ◗3◗ Forme del pronome I PRONOMI PERSONALI ego, «io»; tu, «tu»; nos, «noi»; vos, «voi»; is, ea, id, «egli/ella/ciò» singolare nom. gen. dat. acc. abl. I PERS. = IO ego io mei di me mihi a me/mi me me/mi me con me tu tui tibi te te II PERS. = TU tu di te a te/ti te/ti con te is e∂us e∂ eum eo III PERS. = EGLI, ESSA, CIÒ egli e¥ essa id di lui e∂us di lei (e∂us a lui/gli e∂ a lei/le (e∂ lui/lo eam lei/la id con lui e≠ con lei (eo ciò di ciò) a ciò) ciò con ciò) plurale nom. gen. dat. acc. abl. I PERS. = NOI nos noi nostri nostrum di noi nobis a noi/ci nos noi/ci nobis con noi II PERS. = VOI vos voi vestri vestrum di voi vobis a voi/vi vos voi/vi vobis con voi III PERS. = ESSI, ESSE, CIÒ (LETT. “ESSE COSE”) i∑ (ei) essi eae esse e¥ ciò e∏rum di loro e≠rum di loro (e∏rum di loro) iis (eis) a loro iis (eis) a loro eos essi/li eas esse/le iis (eis) con loro iis (eis) con loro IL PRONOME RIFLESSIVO gen. sui dat. sibi acc. se abl. se se (acc.), «se stesso» di sé a sé sé / si con sé 45 (iis / eis a loro) e¥ ciò (iis / eis a loro) Tavole morfologiche I PRONOMI DIMOSTRATIVI «questo» nom. gen. dat. acc. abl. m. hic hu∂us hu∂c hunc h∏c f. haec hu∂us hu∂c hanc h≠c n. hoc huius hu∂c hoc h∏c nom. gen. dat. acc. abl. h∂ h∏rum his hos his hae h≠rum his has his haec h∏rum his haec his «codesto» singolare m. f. n. iste ist¥ istud ist∂us ist∂us istius ist∂ ist∂ ist∂ istum istam istud ist∏ ist≠ ist∏ plurale ist∂ istae ist¥ ist∏rum ist≠rum ist∏rum istis istis istis istos istas ist¥ istis istis istis «quello» m. ille ill∂us ill∂ illum ill∏ f. ill¥ ill∂us ill∂ illam ill≠ n. illud ill∂us ill∂ illud ill∏ ill∂ ill∏rum illis illos illis illae ill≠rum illis illas illis ill¥ ill∏rum illis ill¥ illis I PRONOMI DETERMINATIVI «egli / ella / ciò» «il medesimo» «proprio lui, lui stesso» singolare nom. gen. dat. acc. abl. nom. gen. dat. acc. abl. m. is e∂us e∂ eum e∏ i∂ (ei) e∏rum iis (eis) eos iis (eis) f. e¥ e∂us e∂ eam e≠ n. id e∂us e∂ id e∏ eae e≠rum iis (eis) eas iis (eis) e¥ e∏rum iis (eis) e¥ lis (eis) m. idem e∂usdem e∂dem eundem e∏dem f. e¥dem e∂usdem e∂dem eandem e≠dem n. idem e∂usdem e∂dem idem e∏dem m. ipse ips∂us ips∂ ipsum ips∏ f. ips¥ ips∂us ips∂ ipsam ips≠ n. ipsum ips∂us ips∂ ipsum ips∏ i∂dem e∏r∫ndem iisdem eosdem iisdem plurale eaedem e≠r∫ndem iisdem easdem iisdem e¥dem e∏r∫ndem iisdem e¥dem iisdem ipsi ips∏rum ipsis ipsos ipsis ipsae ips≠rum ipsis ipsas ipsis ips¥ ips∏rum ipsis ips¥ ipsis IL PRONOME RELATIVO qui, quae, quod, «il quale» singolare plurale masch. femm. neutro masch. femm. neutro nom. qu-i qu-ae qu-od qu- i qu- ae qu- ae gen. cu- ∂us cu- ∂us cu- ∂us qu- ∏rum qu- ≠rum qu- ∏rum dat. cu- ∂ cu- ∂ cu- ∂ qu- ibus qu- ibus qu- ibus acc. qu- em qu- am qu- od qu- os qu- as qu- ae abl. qu- ∏ qu- ≠ qu- ∏ qu- ibus qu- ibus qu- ibus 46 Forme del pronome IL PRONOME INDEFINITO al∑quis, al∑quid, «qualcuno / qualcosa» sing. masch./femm. pl. neutro masch./femm. neutro nom. al∑quis al∑quid al∑qui al∑quae gen. alicu∂us alicu∂us rei aliqu∏rum aliqu≠rum rerum dat. alicu∂ alicu∂ rei aliqu∑bus aliqu∑bus rebus acc. al∑quem al∑quid al∑quos al∑quae abl. al∑qu∏ al∑qu≠ re aliqu∑bus aliqu∑bus rebus I PRONOMI INDEFINITI NEGATIVI nemo «nessuno» nihil «niente» nom. nemo nihil gen. (null∂us) (null∂us rei) dat. nem∑ni (null∂ rei) acc. nem∑nem nihil abl. (null∏) (null≠ re) 47 Tavole morfologiche ◗4◗ Forme del verbo PRIMA CONIUGAZIONE ATTIVA amo, -as, -≠vi, -≠tum, -≠re amare INDICATIVO am-o io amo am-as am-at am-≠mus am-≠tis am-≠nt am-≠bam am-≠bas am-≠bat am-ab≠mus am-ab≠tis am-≠bant CONGIUNTIVO am-em che io ami am-es am-et am-≤mus am-≤tis am-ent io amavo am-≠rem am-≠res am-≠ret am-ar≤mus am-ar≤tis am-≠rent io amerò am-≠bo am-≠bis am-≠bit am-ab∑mus am-ab∑tis am-≠bunt IMPERATIVO PRES. 2 s. am-≠ ama tu a 2 p. am-≠te amate voi a FUT. 2a s. am-≠to dovrai amare 3a s. am-≠to dovrà amare 2a p. am-at∏te dovrete amare che io amassi, amerei a 3 p. am-≠nto dovranno amare INFINITO PRES. am-≠re amare PERF. amav-∂sse avere amato FUT. amat-∫rum, -am, -um esse amat-∫ros, -as, -¥ io amai, che io abbia amato ho / ebbi amato am≠v-i amav-≥rim amav-∂sti amav-≥ris am≠v-it amav-≥rit amav-∑mus amav-er∑mus amav-∂stis amav-er∑tis amav-≤runt (-≤re) amav-≥rint io avevo amato amav-≥ram amav-≥ras amav-≥rat amav-er≠mus amav-er≠tis amav-≥rant che io avessi amato, avrei amato amav-∂ssem amav-∂sses amav-∂sset amav-iss≤mus amav-iss≤tis amav-∂ssent io avrò amato amav-≥ro amav-≥ris amav-≥rit amav-er∑mus amav-er∑tis amav-≥rint stare per amare PARTICIPIO PRES. am-ans, -≠ntis amante, che ama, amando FUT. amat-∫rus, -¥, -um che è sul punto di amare GERUNDIO gen. am-≠ndi di amare dat. am-≠ndo all’amare acc. (ad) am-≠ndum ad amare abl. am-≠ndo con l’amare SUPINO PRIMO am≠t-um ad amare 48 Forme del verbo INDICATIVO am-or io sono amato am-≠ris (-re) am-≠tur am-≠mur am-am∑ni am-≠ntur CONGIUNTIVO IMPERATIVO (disusato) am-≥r che io sia amato PRES. am-≤ris (-re) am-≤tur am-≤mur am-em∑ni am-≤ntur FUT. (disusato) am-≠bar io ero amato am-≠rer che io fossi amato, 2° p. am-at te dovrete amare sarei amato 3° p. am-≠nto dovranno amare am-ab≠ris (-re) am-ar≤ris (-re) am-ab≠tur am-ar≤tur am-ab≠mur am-ar≤mur am-abam∑ni am-arem∑ni INFINITO am-ab≠ntur am-ar≤ntur PRES. am-≠ri essere amato am-≠bor io sarò amato am-ab≥ris (-re) PERF. am≠t-um, -am, -um am-ab∑tur esse am≠t-os, -as, -¥ am-ab∑mur essere stato amato am-abim∑ni am-ab∫ntur FUT. am≠t-um iri stare per essere amato io fui/sono stato amato che io sia stato amato am≠t-us, -a, -um am≠t-i, -ae, -a sim sis sit simus sitis sint PIUCCHEPERFETTO sum am≠t-us, -a, -um es est sumus am≠t-i, -ae, -a estis sunt io ero stato amato che io fossi stato amato, sarei stato amato eram essem am≠t-us, -a, -um eras am≠t-us, -a, -um esses erat esset er≠mus ess≤mus am≠t-i, -ae, -a er≠tis am≠t-i, -ae, -a ess≤tis erant essent FUTURO ANTERIORE PERFETTO FUTURO SEMP. IMPERFETTO PRESENTE PRIMA CONIUGAZIONE PASSIVA io sarò stato amato ero am≠t-us, -a, -um eris erit er∑mus am≠t-i, -ae, -a er∑tis erunt PARTICIPIO PERF. am≠t-us, -a -um amato, che è stato amato, essendo stato amato GERUNDIVO am-≠ndus, -a, -um da amare SUPINO SECONDO am≠t-u 49 ad amarsi Tavole morfologiche CONGIUNTIVO mon-≥am che io ammonisca mon-≥as mon-≥at mon-e≠mus mon-e≠tis mon-≥ant IMPERATIVO PRES. 2 s. mon-≤ ammonisci tu a 2a p. mon-≤te FUT. 2a s. mon-≤to ammonite voi dovrai ammonire IMPERFETTO FUTURO SEMP. mon-≤bo io ammonirò mon-≤bis mon-≤bit mon-eb∑mus mon-eb∑tis mon-≤bunt PERFETTO dovrà ammonire 3a s. mon-≤to mon-≤rem che io ammonissi, a 2 p. mon-et∏te dovrete amm. ammonirei mon-≤res 3a p. mon-≤nto dovranno amm. mon-≤ret mon-er≤mus INFINITO mon-er≤tis mon-≤rent PRES. mon-≤re ammonire mon-≤bam io ammonivo mon-≤bas mon-≤bat mon-eb≠mus mon-eb≠tis mon-≤bant io ammonii, ho/ebbi ammonito monΩ-i monu-∂sti monΩ-it monu-∑mus monu-∂stis monu-≤runt (-≤re) che io abbia ammonito monu-≥rim monu-≥ris monu-≥rit monu-er∑mus monu-er∑tis monu-≥rint PIUCCHEPERFETTO INDICATIVO mon-≥o io ammonisco mon-es mon-et mon-≤mus mon-≤tis mon-ent io avevo ammonito monu-≥ram monu-≥ras monu-≥rat monu-er≠mus monu-er≠tis monu-≥rant che io avessi ammonito, monu-∂ssem avrei ammonito monu-∂sses monu-∂sset monu-iss≤mus monu-iss≤tis FUTURO ANTERIORE PRESENTE SECONDA CONIUGAZIONE ATTIVA moneo, -es, -ui, -∑tum, -≤re ammonire io avrò ammonito monu-≥ro monu-≥ris monu-≥rit monu-er∑mus monu-er∑tis monu-≥rint PERF. monu-∂sse avere ammonito FUT. monit-∫rum, -am, -um esse monit-∫ros, -as, -¥ stare per ammonire monu-∂ssent PARTICIPIO PRES. mon-ens, -≤ntis (ammonente) che ammonisce, ammonendo FUT. monit-∫rus, -a, -um che è sul punto di ammonire GERUNDIO gen. mon-≤ndi di ammonire dat. mon-≤ndo all’ammonire acc. (ad) mon-≤ndum ad ammonire abl. mon-≤ndo con l’ammonire SUPINO PRIMO mon∑t-um 50 ad ammonire Forme del verbo FUTURO SEMP. mon-≤bor io sarò ammonito mon-eb≥ris (-re) mon-eb∑tur mon-eb∑mur mon-ebim∑ni mon-eb∫ntur PERFETTO CONGIUNTIVO IMPERATIVO mon-≥ar che io sia PRES. (disusato) ammonito mon-e≠ris (-re) mon-e≠tur mon-e≠mur mon-eam∑ni FUT. (disusato) mon-e≠ntur 2° p. am-at te dovrete amare che io fossi mon-≤bar io ero mon-≤rer 3° p. am-≠nto dovranno amare ammonito ammonito, mon-er≤ris (-re) mon-eb≠ris (-re) sarei ammon. mon-er≤tur mon-eb≠tur mon-er≤mur mon-eb≠mur mon-erem∑ni INFINITO mon-ebam∑ni mon-er≤ntur mon-eb≠ntur PRES. mon-≤ri essere ammonito che io sia stato ammonito io fui/sono stato ammonito sim sum PARTICIPIO mon∑t-us, -a, -um sis mon∑t-us, -a, -um es PERF. mon∑t-us, -a -um sit est ammonito, che è stato ammonito, simus sumus essendo stato ammonito mon∑t-i, -ae, -a sitis mon∑t-i, -ae, -a estis sint sunt PIUCCHEPERFETTO INDICATIVO mon-≥or io sono ammonito mon-≤ris (-re) mon-≤tur mon-≤mur mon-em∑ni mon-≤ntur che io fossi ammonito, io ero stato ammonito sarei stato ammonito eram essem mon∑t-us, -a, -um eras mon∑t-us, -a, -um esses erat esset er≠mus ess≤mus mon∑t-i, -ae, -a er≠tis mon∑t-i, -ae, -a ess≤tis erant essent FUTURO ANTERIORE IMPERFETTO PRESENTE SECONDA CONIUGAZIONE PASSIVA io sarò stato ammonito ero mon∑t-us, -a, -um eris erit er∑mus mon∑t-i, -ae, -a er∑tis erunt PERF. mon∑t-um, -am, -um esse mon∑t-os, -as, -¥ essere stato ammonito FUT. mon∑t-um iri stare per essere ammonito GERUNDIVO mon-≤ndus, -a, -um da ammonire SUPINO SECONDO mon∑t-u 51 ad ammonirsi Tavole morfologiche TERZA CONIUGAZIONE ATTIVA lego, -is, i, -ctum, -≥re leggere PRESENTE INDICATIVO CONGIUNTIVO l≥g-o io leggo leg-am che io legga IMPERFETTO FUTURO SEMP. leggete voi leg-as leg-it leg-at leg-∑mus leg-≠mus leg-∑tis leg-≠tis FUT. 2a s. leg-∑to dovrai leggere leg-unt leg-ant 3a s. leg-∑to dovrà leggere io leggevo l≥g-≥rem leg-≤bas leg-≥res leg-≤bat leg-≥ret leg-eb≠mus leg-er≤mus leg-eb≠tis leg-er≤tis leg-≤bant leg-≥rent l≥g-am a che io leggessi, leggerei 2 p. leg-it∏te dovrete leggere 3a p. leg-∫nto dovranno leggere INFINITO io leggerò PRES. leg-≥re leggere PERF. leg-∂sse avere letto FUT. lect-∫rum, -am, -um leg-es esse leg-et lect-∫ros, -as, -¥ leg-≤mus stare per leggere leg-≤tis leg-ent io lessi, ho / l≤g-≥rim ebbi letto leg-≥ris l≤g-i PERFETTO 2a p. leg-∑te leg-is l≥g-≤bam FUTURO ANTERIORE PIUCCHEPERFETTO IMPERATIVO PRES. 2 s. leg-≥ leggi tu a leg-∂sti leg-it leg-≥rit leg-∑mus leg-er∑mus leg-∂stis leg-er∑tis leg-≤runt (-≤re) leg-≥rint l≤g-≥ram leg-≥ras che io abbia letto PARTICIPIO PRES. leg-ens, -≤ntis (leggente) che legge, leggendo FUT. lect-∫rus, -a, -um io avevo letto l≤g-∂ssem che io avessi letto, avrei letto leg-∂sses che è sul punto di leggere GERUNDIO leg-≥rat leg-∂sset gen. leg-≤ndi di leggere leg-er≠mus leg-iss≤mus dat. leg-≤ndo al leggere leg-er≠tis leg-iss≤tis leg-∂ssent acc. (ad) leg-≤ndum a leggere abl. mon-≤ndo col leggere leg-≥rant l≤g-≥ro io avrò letto leg-≥ris SUPINO PRIMO leg-≥rit lect-um leg-er∑mus leg-er∑tis leg-≥rint 52 a leggere Forme del verbo INDICATIVO leg-or io sono letto leg-≥ris (-re) leg-∑tur leg-∑mur leg-im∑ni leg-∫ntur CONGIUNTIVO leg-ar che io sia letto leg-≠ris (-re) leg-≠tur leg-≠mur leg-am∑ni leg-≠ntur leg-≤bar io ero letto leg-eb≠ris (-re) leg-eb≠tur leg-eb≠mur leg-ebam∑ni leg-eb≠ntur leg-er≤tur leg-er≤mur leg-erem∑ni leg-er≤ntur IMPERATIVO (disusato) PRES. FUT. (disusato) 2° p. am-at te dovrete amare leg-≥rer che io fossi letto, 3° p. am-≠nto dovranno amare sarei letto leg-er≤ris (-re) INFINITO FUTURO SEMP. leg-ar leg-≤ris (-re) leg-≤tur leg-≤mur leg-em∑ni leg-≤ntur PERFETTO io fui/sono stato letto che io sia stato letto sum sim lect-us, -a, -um es lect-us, -a, -um sis est sit sumus simus lect-i, -ae, -a estis lect-i, -ae, -a sitis sunt sint PIUCCHEPERFETTO PRES. leg-i io ero stato letto eram lect-us, -a, -um eras erat er≠mus lect-i, -ae, -a er≠tis erant FUTURO ANTERIORE IMPERFETTO PRESENTE TERZA CONIUGAZIONE PASSIVA io sarò letto io sarò stato letto ero lect-us, -a, -um eris erit er∑mus lect-i, -ae, -a er∑tis erunt essere letto PERF. lect-um, -am, -um esse lect-os, -as, -¥ essere stato letto FUT. lect-um iri stare per essere letto che io fossi stato letto, sarei stato letto essem lect-us, -a, -um esses esset ess≤mus lect-i, -ae, -a ess≤tis essent PARTICIPIO PERF. lect-us, -a -um letto, che è stato letto, essendo stato letto GERUNDIVO leg-≤ndus, -a, -um da leggere SUPINO SECONDO lect-u 53 a leggersi Tavole morfologiche CONGIUNTIVO aud-iam che io oda aud-ias aud-iat aud-i≠mus aud-i≠tis aud-iant aud-i≤bam aud-i≤bas aud-i≤bat aud-ieb≠mus aud-ieb≠tis aud-i≤bant io udivo aud-∂rem aud-∂res aud-∂ret aud-ir≤mus aud-ir≤tis aud-∂rent FUTURO SEMP. aud-iam aud-ies aud-iet aud-i≤mus aud-i≤tis aud-ient io udirò io udii, ho/ebbi udito aud∂v-i audiv-∂sti aud∂v-it audiv-∑mus audiv-∂stis audiv-≤runt (-≤re) FUTURO ANTERIORE PIUCCHEPERFETTO IMPERFETTO PRESENTE INDICATIVO aud-io io odo aud-is aud-it aud-∂mus aud-∂tis aud-iunt PERFETTO QUARTA CONIUGAZIONE ATTIVA audio, -is, ∂vi, -∂tum, -∂re udire IMPERATIVO PRES. 2 s. aud-∂ odi tu a 2a p. aud-∂te udite voi FUT. 2a s. aud-∂to dovrai udire 3a s. aud-∂to dovrà udire che io udissi, udirei a 2 p. aud-it∏te dovrete udire 3a p. aud-i∫nto dovranno udire INFINITO PRES. aud-∂re udire PERF. audiv-∂sse avere udito FUT. audit-∫rum, -am, -um esse audit-∫ros, -as, -¥ stare per udire io avevo udito audiv-≥ram audiv-≥ras audiv-≥rat audiv-er≠mus audiv-er≠tis audiv-≥rant che io abbia udito audiv-≥rim audiv-≥ris audiv-≥rit audiv-er∑mus audiv-er∑tis audiv-≥rint PARTICIPIO PRES. aud-iens, -≤ntis (udente) che ode, udendo FUT. audit-∫rus, -a, -um che è sul punto di udire che io avessi udito, avrei udito audiv-∂ssem audiv-∂sses audiv-∂sset audiv-iss≤mus audiv-iss≤tis audiv-∂ssent GERUNDIO gen. aud-i≤ndi di udire dat. aud-i≤ndo all’udire acc. (ad) aud-i≤ndum a udire abl. aud-i≤ndo con l’udire io avrò udito audiv-≥ro audiv-≥ris audiv-≥rit audiv-er∑mus audiv-er∑tis audiv-≥rint SUPINO PRIMO aud∂t-um 54 a udire Forme del verbo FUTURO SEMP. aud-iar io sarò udito aud-i≤ris (-re) aud-i≤tur aud-i≤mur aud-iem∑ni aud-i≤ntur PERFETTO CONGIUNTIVO IMPERATIVO aud-iar che io sia udito PRES. (disusato) aud-i≠ris (-re) aud-i≠tur aud-i≠mur aud-iam∑ni FUT. (disusato) aud-i≠ntur 2° p. am-at te dovrete amare aud-i≤bar io ero udito aud-∂rer che io fossi udito, sarei udito 3° p. am-≠nto dovranno amare aud-ieb≠ris (-re) aud-ir≤ris (-re) aud-ieb≠tur aud-ir≤tur aud-ieb≠mur aud-ir≤mur aud-iebam∑ni aud-irem∑ni INFINITO aud-ieb≠ntur aud-ir≤ntur PRES. aud-∂ri essere udito io fui/sono stato udito che io sia stato udito sum sim aud∂t-us, -a, -um es aud∂t-us, -a, -um sis est sit sumus simus aud∂t-i, -ae, -a estis aud∂t-i, -ae, -a sitis sunt sint PIUCCHEPERFETTO INDICATIVO aud-ior io sono udito aud-∂ris (-re) aud-∂tur aud-∂mur aud-im∑ni aud-i∫ntur io ero stato udito che io fossi stato udito, sarei stato udito eram essem aud∂t-us, -a, -um eras aud∂t-us, -a, -um esses erat esset er≠mus ess≤mus aud∂t-i, -ae, -a er≠tis aud∂t-i, -ae, -a ess≤tis erant essent FUTURO ANTERIORE IMPERFETTO PRESENTE QUARTA CONIUGAZIONE PASSIVA io sarò stato udito ero aud∂t-us, -a, -um eris erit er∑mus aud∂t-i, -ae, -a er∑tis erunt PERF. aud∂t-um, -am, -um esse aud∂t-os, -as, -¥ essere stato udito FUT. aud∂t-um iri stare per essere udito PARTICIPIO PERF. aud∂t-us, -a -um udito, che è stato udito, essendo stato udito GERUNDIVO aud-i≤ndus, -a, -um da udire SUPINO SECONDO aud∂t-u 55 a udirsi Tavole morfologiche IMPERFETTO cap-iam cap-ies cap-iet cap-i≤mus cap-i≤tis cap-ient io presi, ho/ebbi preso cep-i cep-∂sti cep-it cep-∑mus cep-∂stis cep-≤runt (-≤re) FUTURO ANTERIORE PIUCCHEPERFETTO cap-i≤bam io prendevo cap-i≤bas cap-i≤bat cap-ieb≠mus cap-ieb≠tis cap-i≤bant FUTURO SEMP. INDICATIVO cap-io io prendo cap-∑s cap-∑t cap-∑mus cap-∑tis cap-∑unt PERFETTO PRESENTE TERZA CONIUGAZIONE ATTIVA in -∑o capio, capis, c≤pi, captum, cap≥re prendere CONGIUNTIVO cap-iam che io prenda cap-ias cap-iat cap-i≠mus cap-i≠tis cap-iant IMPERATIVO PRES. 2 s. cap-≥ prendi tu a 2 p. cap-∑te prendete voi a FUT. 2a s. cap-∑to dovrai prendere dovrà prendere 3a s. cap-∑to cap-≥rem che io prendessi, a 2 p. cap-it∏te dovrete prendere prenderei cap-≥res 3a p. cap-i∫nto dovranno prend. cap-≥ret cap-er≤mus cap-er≤tis INFINITO cap-≥rent PRES. cap-≥re prendere io prenderò PERF. cep-∂sse avere preso FUT. capt-∫rum, -am, -um esse capt-∫ros, -as, -¥ stare per prendere io avevo preso cep-≥ram cep-≥ras cep-≥rat cep-er≠mus cep-er≠tis cep-≥rant che io abbia preso cep-≥rim cep-≥ris cep-≥rit cep-er∑mus cep-er∑tis cep-≥rint PARTICIPIO PRES. cap-iens, -≤ntis che prende, prendendo FUT. capt-∫rus, -a, -um che è sul punto di prendere che io avessi preso, avrei preso cep-∂ssem cep-∂sses cep-∂sset cep-iss≤mus cep-iss≤tis cep-∂ssent GERUNDIO gen. dat. acc. abl. cap-i≤ndi cap-i≤ndo (ad) cap-i≤ndum cap-i≤ndo di prendere al prendere a prendere col prendere io avrò preso cep-≥ro cep-≥ris cep-≥rit cep-er∑mus cep-er∑tis cep-≥rint SUPINO PRIMO capt-um 56 a prendere Forme del verbo FUTURO SEMP. cap-iar io sarò preso cap-i≤ris (-re) cap-i≤tur cap-i≤mur cap-iem∑ni cap-i≤ntur PERFETTO CONGIUNTIVO IMPERATIVO cap-iar che io sia preso PRES. (disusato) cap-i≠ris (-re) cap-i≠tur cap-i≠mur cap-iam∑ni FUT. (disusato) cap-i≠ntur 2° p. am-at te dovrete amare cap-i≤bar io ero preso cap-≥rer che io fossi preso, 3° p. am-≠nto dovranno amare sarei preso cap-ieb≠ris (-re) cap-er≤ris (-re) cap-ieb≠tur cap-er≤tur cap-ieb≠mur cap-er≤mur INFINITO cap-iebam∑ni cap-erem∑ni cap-ieb≠ntur cap-er≤ntur PRES. cap-i essere preso io fui/sono stato preso che io sia stato preso sum sim capt-us, -a, -um es capt-us, -a, -um sis est sit sumus simus capt-i, -ae, -a estis capt-i, -ae, -a sitis sunt sint PIUCCHEPERFETTO INDICATIVO cap-ior io sono preso cap-≥ris (-re) cap-∑tur cap-∑mur cap-im∑ni cap-i∫ntur io ero stato preso che io fossi stato preso, sarei stato preso eram essem capt-us, -a, -um eras capt-us, -a, -um esses erat esset er≠mus ess≤mus capt-i, -ae, -a er≠tis capt-i, -ae, -a ess≤tis erant essent FUTURO ANTERIORE IMPERFETTO PRESENTE TERZA CONIUGAZIONE PASSIVA in -∑o io sarò stato preso ero capt-us,-a, -um eris erit er∑mus capt-i, -ae, -a er∑tis erunt PERF. capt-um, -am, -um esse capt-os, -as, -¥ essere stato preso FUT. capt-um iri stare per essere preso PARTICIPIO PERF. capt-us, -a -um preso, che è stato preso, essendo stato preso GERUNDIVO cap-i≤ndus, -a, -um da prendere SUPINO SECONDO capt-u 57 a prendersi Tavole morfologiche IMPERFETTO hort-≠bario hort-ab≠ris (-re) hort-ab≠tur hort-ab≠mur hort-abam∑ni hort-ab≠ntur FUTURO SEMP. hort-≠bor io esorterò hort-ab≥ris (-re) hort-ab∑tur hort-ab∑mur hort-abim∑ni hort-ab∫ntur PERFETTO CONGIUNTIVO IMPERATIVO a hort-er che io esorti PRES. 2 s. hort-≠re esorta tu a hort-≤ris (-re) 2 p. hort-am∑ni esortate voi hort-≤tur FUT. 2a e 3a s. hort-≠tor dovrai, dovrà... esortare hort-≤mur (3a p. hort-≠ntor) hort-em∑ni hort-≤ntur INFINITO esortavo hort-≠rer che io esortassi, esortare esorterei PRES. hort-≠ri hort-ar≤ris (-re) hort-ar≤tur PERF. hort≠t-um, -am, -um esse hort-ar≤mur hort≠t-os, -as, -¥ hort-arem∑ni avere esortato hort-ar≤ntur esortai, ho/ebbi esortato che io abbia esortato PRES. hort-ans, ≠ntis esortando, che esorta sum sim PERF. hort≠t-us, -a -um hort≠t-us, -a, -um es hort≠t-us, -a, -um sis che ha esortato, est sit avendo esortato sumus simus FUT. hort-∫rus, -a -um che è sul punto di esortare hort≠t-i, -ae, -a estis hort≠t-i, -ae, -a sitis sunt sint PIUCCHEPERFETTO INDICATIVO hort-or io esorto hort-≠ris (-re) hort-≠tur hort-≠mur hort-am∑ni hort-≠ntur io avevo esortato che io avessi esortato, avrei esortato eram essem hort≠t-us, -a, -um eras hort≠t-us, -a, -um esses erat esset er≠mus ess≤mus hort≠t-i, -ae, -a er≠tis hort≠t-i, -ae, -a ess≤tis erant essent FUTURO ANTERIORE PRESENTE PRIMA CONIUGAZIONE DEPONENTE hortor, hort≠ris, hort≠tus sum, -≠ri esortare io avrò esortato ero hort≠t-us, -a, -um eris erit er∑mus hort≠t-i, -ae, -a er∑tis erunt FUT. hortat-∫rum, -am, -um esse hortat-∫ros, -as, -¥ stare per esortare PARTICIPIO GERUNDIO gen. dat. acc. abl. hort-≠ndi hort-≠ndo (ad) hort-≠ndum hort-≠ndo di esortare all’esortare a esortare con l’esortare GERUNDIVO hort-≠ndus, -a, -um da esortare SUPINO PRIMO hort≠t-um SECONDO hort≠t-u 58 a esortare a esortarsi Forme del verbo IMPERFETTO FUTURO SEMP. ver-≤rer che io temessi, temerei ver-er≤ris (-re) ver-er≤tur ver-er≤mur ver-erem∑ni ver-er≤ntur ver-≤bar io temevo ver-eb≠ris (-re) ver-eb≠tur ver-eb≠mur ver-ebam∑ni ver-eb≠ntur ver-≤bor ver-eb≥ris (-re) ver-eb∑tur ver-eb∑mur ver-ebim∑ni ver-eb∫ntur PERFETTO CONGIUNTIVO ver-≥ar che io tema ver-e≠ris (-re) ver-e≠tur ver-e≠mur ver-eam∑ni ver-e≠ntur io temei, ho/ebbi temuto che io abbia temuto sum sim ver∑t-us, -a, -um es ver∑t-us, -a, -um sis est sit sumus simus ver∑t-i, -ae, -a estis ver∑t-i, -ae, -a sitis sunt sint PIUCCHEPERFETTO INDICATIVO ver-≥or io temo ver-≤ris (-re) ver-≤tur ver-≤mur ver-em∑ni ver-≤ntur io avevo temuto che io avessi temuto, avrei temuto eram essem ver∑t-us, -a, -um eras ver∑t-us, -a, -um esses erat esset er≠mus ess≤mus ver∑t-i, -ae, -a er≠tis ver∑t-i, -ae, -a ess≤tis erant essent FUTURO ANTERIORE PRESENTE SECONDA CONIUGAZIONE DEPONENTE vereor, ver≤ris, ver∑tus sum, ver-≤ri temere io avrò temuto ero ver∑t-us, -a, -um eris erit er∑mus ver∑t-i, -ae, -a er∑tis erunt IMPERATIVO PRES. 2 s. ver-≤re temi tu a 2 p. ver-em∑ni temete voi a FUT. 2a e 3a s. ver-≤tor dovrai, dovrà... temere (3a p. ver-≤ntor) INFINITO PRES. ver-≤ri temere PERF. ver∑t-um, -am, -um esse ver∑t-os, -as, -¥ avere temuto FUT. ver∑t-∫rum, -am, -um io temerò esse ver∑t-∫ros, -as, -¥ stare per temere PARTICIPIO PRES. ver-ens, -≤ntis temendo, che teme PERF. ver∑t-us, -a -um che ha temuto, avendo temuto FUT. ver∑t-∫rus, -a -um che è sul punto di temere gen. dat. acc. abl. GERUNDIO ver-≤ndi ver-≤ndo (ad) ver-≤ndum ver-≤ndo di temere al temere a temere col temere GERUNDIVO ver-≤ndus, -a, -um da temere SUPINO PRIMO SECONDO 59 ver∑t-um ver∑t-u a temere a temersi Tavole morfologiche IMPERFETTO FUTURO SEMP. INFINITO sequ-≥rer che io seguissi, seguire seguirei PRES. sequ-i sequ-er≤ris (-re) sequ-er≤tur PERF. secut-um, -am, -um esse sequ-er≤mur secut-os, -as, -¥ sequ-erem∑ni avere seguito sequ-er≤ntur sequ-≤bar io seguivo sequ-eb≠ris (-re) sequ-eb≠tur sequ-eb≠mur sequ-ebam∑ni sequ-eb≠ntur sequ-ar sequ-≤ris (-re) sequ-≤tur sequ-≤mur sequ-em∑ni sequ-≤ntur PERFETTO CONGIUNTIVO sequ-ar che io segua sequ-≠ris (-re) sequ-≠tur sequ-≠mur sequ-am∑ni sequ-≠ntur che io abbia seguito io seguii, ho/ebbi seguito sim sum sec∫t-us, -a, -um sis sec∫t-us, -a, -um es sit est simus sumus sec∫t-i, -ae, -a sitis sec∫t-i, -ae, -a estis sint sunt PIUCCHEPERFETTO INDICATIVO sequ-or io seguo sequ-≥ris (-re) sequ-∑tur sequ-∑mur sequ-im∑ni sequ-∫ntur che io avessi seguito, io avevo seguito avrei seguito eram essem sec∫t-us, -a, -um eras sec∫t-us, -a, -um esses erat esset er≠mus ess≤mus sec∫t-i, -ae, -a er≠tis sec∫t-i, -ae, -a ess≤tis essent erant FUTURO ANTERIORE PRESENTE TERZA CONIUGAZIONE DEPONENTE sequor, sequ≥ris, sec∫tus sum, sequ-i seguire io avrò seguito ero sec∫t-us, -a, -um eris erit er∑mus sec∫t-i, -ae, -a er∑tis erunt IMPERATIVO PRES. 2 s. sequ-≥re segui tu a 2 p. sequ-im∑ni seguite voi a FUT. 2a e 3a s. sequ-∂tor dovrai, dovrà... seguire (3a p. sequ-∫ntor) FUT. secut-∫rum, -am, -um io seguirò esse secut-∫ros, -as, -¥ stare per seguire PARTICIPIO PRES. sequ-ens, -≤ntis seguendo, che segue PERF. sec∫t-us, -a -um che ha seguito, avendo seguito FUT. sec∫t-∫rus, -a -um che è sul punto di seguire GERUNDIO gen. dat. acc. abl. sequ-≤ndi sequ-≤ndo (ad) sequ-≤ndum sequ-≤ndo GERUNDIVO sequ-≤ndus, -a, -um PRIMO SUPINO sec∫t-um SECONDO sec∫t-u 60 di seguire al seguire a seguire col seguire da seguire a seguire a seguirsi Forme del verbo FUTURO SEMP. larg-iar larg-i≤ris (-re) larg-i≤tur larg-i≤mur larg-iem∑ni larg-i≤ntur PERFETTO CONGIUNTIVO IMPERATIVO a elargisci tu larg-iar che io elargisca PRES. 2 s. larg-∂re a 2 s. larg-im∑ni elargite voi larg-i≠ris (-re) larg-i≠tur FUT. 2a e 3a s. larg-∂tor dovrai, dovrà... elargire larg-i≠mur (3a p. largi-∫ntor) larg-iam∑ni larg-i≠ntur INFINITO larg-i≤bar io elargivo larg-∂rer che io elargissi, elargire elargirei PRES. larg-∂ri larg-ieb≠ris (-re) larg-ir≤ris (-re) larg-ieb≠tur larg-ir≤tur PERF. larg∂t-um, -am, -um larg-ieb≠mur esse larg-ir≤mur larg∂t-os, -as, -¥ larg-iebam∑ni larg-irem∑ni avere elargito larg-ieb≠ntur larg-ir≤ntur io elargii, ho/ebbi elargito sum larg∂t-us, -a, -um es est sumus larg∂t-i, -ae, -a estis sunt PIUCCHEPERFETTO INDICATIVO larg-ior io elargisco larg-∂ris (-re) larg-∂tur larg-∂mur larg-im∑ni larg-i∫ntur io avevo elargito eram larg∂t-us, -a, -um eras erat er≠mus larg∂t-i, -ae, -a er≠tis erant FUTURO ANTERIORE IMPERFETTO PRESENTE QUARTA CONIUGAZIONE DEPONENTE largior, -∂ris, larg∂tus sum, -∂ri elargire io elargirò io avrò elargito ero larg∂t-us, -a, -um eris erit er∑mus larg∂t-i, -ae, -a er∑tis erunt FUT. largit-∫rum, -am, -um esse largit-∫ros, -as, -¥ stare per elargire PARTICIPIO che io abbia elargito sim larg∂t-us, -a, -um sis sit simus larg∂t-i, -ae, -a sitis sint che io avessi elargito, avrei elargito essem larg∂t-us, -a, -um esses esset ess≤mus larg∂t-i, -ae, -a ess≤tis essent PRES. larg-iens, -i≤ntis PERF. larg∂t-us, -a -um elargendo, che elargisce che ha elargito, avendo elargito FUT. larg∂t-∫rus, -a -um che è sul punto di elargire GERUNDIO gen. dat. acc. abl. larg-i≤ndi larg-i≤ndo (ad) larg-i≤ndum larg-i≤ndo di elargire all’elargire ad elargire con l’elargire GERUNDIVO larg-i≤ndus, -a, -um da elargire SUPINO PRIMO SECONDO 61 larg∂t-um larg∂t-u a elargire a elargirsi Tavole morfologiche CONGIUNTIVO s-im che io sia s-is s-it s-imus s-itis s-int IMPERFETTO er-am er-as er-at er-≠mus er-≠tis er-ant io ero esse-m che io fossi, io sarei esse-s esse-t ess≤-mus ess≤-tis esse-nt er-o er-is er-it er-∑mus er-∑tis er-unt io sarò PRESENTE INDICATIVO s-um io sono es es-t s-umus es-tis s-unt FUTURO SEMP. SUM sum, es, fui, esse essere PERFETTO PIUCCHEPERFETTO FUT. 2a s. es-to 3a s. es-to 2a p. es-t∏te 3a p. s-unto dovrai essere dovrà essere dovrete essere dovranno essere INFINITO PRES. es-se essere PERF. fu-∂sse essere stato FUT. fut-∫rum, -am, -um esse fut-∫ros, -as, -¥ oppure fore io fui / io sono stato FUTURO ANTERIORE IMPERATIVO PRES. 2 s. es sii tu a 2 p. es-te siate voi a fu-i fu-∂sti fu-it fu-∑mus fu-∂stis fu-≤runt (-≤re) che io sia stato fu-≥rim fu-≥ris fu-≥rit fu-er∑mus fu-er∑tis fu-≥rint io ero stato fu-≥ram fu-≥ras fu-≥rat fu-er≠mus fu-er≠tis fu-≥rant stare per essere PARTICIPIO PRES. (manca) PERF. (manca) FUT. fut-∫rus, -a, -um che è sul punto di essere che io fossi stato, sarei stato fu-∂ssem fu-∂sses fu-∂sset fu-iss≤mus fu-iss≤tis fu-∂ssent io sarò stato fu-≥ro fu-≥ris fu-≥rit fu-er∑mus fu-er∑tis fu-≥rint 62 GERUNDIO E SUPINO (mancano) Forme del verbo INDICATIVO pos-sum io posso pot-es pot-est pos-sΩmus pot-≤stis pos-sunt CONGIUNTIVO pos-sim che io possa pos-sis pos-sit pos-s∂mus pos-s∂tis pos-sint pot-≥ram pot-≥ras pot-≥rat pot-er≠mus pot-er≠tis pot-≥rant io potevo pos-sem pos-ses pos-set pos-s≤mus pos-s≤tis pos-sent io potrò che io potessi, io potrei FUTURO SEMP. pot-≥ro pot-≥ris pot-≥rit pot-er∑mus pot-er∑tis pot-≥runt PERFETTO io potei / io ho potuto potu-i potu-∂sti potu-it potu-∑mus potu-∂stis potu-≤runt (-≤re) potu-≥rim potu-≥ris potu-≥rit potu-er∑mus potu-er∑tis potu-≥rint io avevo potuto potu-≥ram potu-≥ras potu-≥rat potu-er≠mus potu-er≠tis potu-≥rant che io avessi potuto, avrei potuto potu-∂ssem potu-∂sses potu-∂sset potu-iss≤mus potu-iss≤tis potu-∂ssent FUTURO ANTERIORE IMPERATIVO PRES. (manca) 3° s. es-to dovrà essere 2° p. es-t∏te dovrete essere 3° p. s-unto dovranno essere FUT. (manca) 3° s. es-to dovrà essere 2° p. es-t∏te dovrete essere 3° p. s-unto dovranno essere INFINITO PIUCCHEPERFETTO IMPERFETTO PRESENTE POSSUM possum, potes, potui, posse potere PRES. pos-se potere PERF. potu-∂sse avere potuto FUT. (l’inf. pres. posse ha senso di futuro di per sé) che io abbia potuto PARTICIPIO PRES. pot-ens, -≤ntis potente (agg.), colui che può, potendo io avrò potuto potu-≥ro potu-≥ris potu-≥rit potu-er∑mus potu-er∑tis potu-≥rint 63 GERUNDIO E SUPINO (mancano) Tavole morfologiche FERO fero, fers tuli, latum, ferre portare CONIUGAZIONE ATTIVA sistema del presente, fersistema del perfetto, tulsistema del supino, lat- IMPERFETTO io portavo ferre-m ferre-s ferre-t ferr≤-mus ferr≤-tis ferre-nt fer-am fer-es fer-et fer-≤mus fer-≤tis fer-ent io porterò PARTICIPIO io portai/ che io abbia portato io ho portato tul-i tul-≥rim PRES. fer-ens, -≤ntis portante, tul-∂sti tul-≥ris che porta, portando tul-it tul-≥rit FUT. lat-∫rus, -a, -um che è sul punto tul-∑mus tul-er∑mus di portare tul-∂stis tul-er∑tis tul-≤runt (-≤re) tul-≥rint FUTURO ANTERIORE PIUCCHEPERFETTO fer-≤bam fer-≤bas fer-≤bat fer-eb≠mus fer-eb≠tis fer-≤bant FUTURO SEMP. INDICATIVO CONGIUNTIVO IMPERATIVO a PRES. 2 s. fer porta tu fer-o io porto fer-am che io porti a 2 p. fer-te portate voi fer-s fer-as fer-t fer-at dovrai portare FUT. 2a s. fer-to a fer-∑mus fer-≠mus 3 s. fer-to dovrà portare fer-tis fer-≠tis 2a p. fer-t∏te dovrete portare fer-unt fer-ant 3a p. fer-∫nto dovranno portare PERFETTO PRESENTE La coniugazione è basata su tre diversi temi: che io portassi, porterei PRES. fer-re INFINITO portare PERF. tul-∂sse avere portato FUT. lat-∫rum, -am, -um esse lat-∫ros, -as, -¥ stare per portare io avevo portato tul-≥ram tul-≥ras tul-≥rat tul-er≠mus tul-er≠tis tul-≥rant che io avessi portato, io avrei portato tul-∂ssem tul-∂sses tul-∂sset tul-iss≤mus tul-iss≤tis tul-∂ssent GERUNDIO gen. dat. acc. abl. fer-≤ndi fer-≤ndo (ad) fer-≤ndum fer-≤ndo di portare al portare a portare col portare io avrò portato tul-≥ro tul-≥ris tul-≥rit tul-er∑mus tul-er∑tis tul-≥rint SUPINO PRIMO lat-um 64 a portare Forme del verbo IMPERFETTO CONGIUNTIVO fer-ar che io sia portato fer-≠ris fer-≠tur fer-≠mur fer-am∑ni fer-≠ntur fer-≤bar io ero portato fer-eb≠ris fer-eb≠tur fer-eb≠mur fer-ebam∑ni fer-eb≠ntur FUTURO SEMP. INDICATIVO fer-or io sono portato fer-ris fer-tur fer-∑mur fer-im∑ni fer-∫ntur fer-ar fer-≤ris fer-≤tur fer-≤mur fer-em∑ni fer-≤ntur PERFETTO PRESENTE CONIUGAZIONE PASSIVA io fui / sono stato portato che io sia stato portato sum sim lat-us, -a, -um es lat-us, -a, -um sis est sit sumus simus lat-i, -ae, -a estis lat-i, -ae, -a sitis sunt sint IMPERATIVO PRES. 2 s. (fer-re) 2a p. (fer-im∑ni) a FUT. 2a s. fer-to 3a s. fer-to 2a p. fer-t∏te 3a p. fer-∫nto dovrai portare dovrà portare dovrete portare dovranno portare ferre-r che io fossi portato, io sarei portato ferr≤-ris INFINITO ferr≤-tur PRES. fer-ri essere portato ferr≤-mur ferre-m∑ni PERF. lat-um, -am, -um esse ferr≤-ntur lat-os, -as, -¥ io sarò portato essere stato portato FUT. lat-um iri stare per essere portato PIUCCHEPERFETTO io ero stato portato che io fossi stato portato, sarei stato portato eram essem lat-us, -a, -um eras lat-us, -a, -um esses erat esset er≠mus ess≤mus lat-i, -ae, -a er≠tis lat-i, -ae, -a ess≤tis erant essent FUTURO ANTERIORE PARTICIPIO io sarò stato portato ero lat-us, -a, -um eris erit er∑mus lat-i, -ae, -a er∑tis erunt PERF. lat-us, -a, -um portato, che è stato portato, essendo stato portato GERUNDIVO fer-≤ndus, -a, -um SUPINO SECONDO lat-u 65 da portare a portarsi Tavole morfologiche EO eo, is, i(v)i, itum, ire andare FUTURO SEMP. IMPERFETTO PRESENTE INDICATIVO CONGIUNTIVO ≥-o io vado ≥-am che io vada ∂-s ≥-as ∂-t ≥-at ∂-mus ≥-≠mus ∂-tis ≥-≠tis ≥-unt ≥-ant ∂-bam io andavo ∂re-m ∂-bas ∂re-s ∂-bat ∂re-t ∂-b≠mus ∂r≤-mus ∂-b≠tis ∂r≤-tis ∂-bant ∂re-nt ∂-bo IMPERATIVO a PRES. 2 s. ∂ 2a p. ∂-te FUT. 2a s. ∂-to 3a s. (∂-to) 2a p. ∂-t∏te (3a p. e-∫nto che io andassi, io andrei vai tu andate voi dovrai andare dovrà andare dovrete andare dovranno andare) INFINITO PRES. ∂-re andare PARTICIPIO PRES. iens, e∫ntis andante, colui che va, andando GERUNDIO io andrò gen. dat. acc. abl. ∂-bis ∂-bit ∂-b∑mus ∂-b∑tis e-∫ndi e-∫ndo (ad) e-∫ndum e-∫ndo di andare all’andare ad andare con l’andare SUPINO PRIMO ∂-bunt ∂t-um 66 ad andare Forme del verbo VOLO, NOLO, MALO volo, vis volΩi velle volere nolo, non vis nolΩi nolle non volere malo, mavis malΩi malle preferire, volere piuttosto io voglio nol-o non vis non vult nol-Ωmus non vultis nol-unt io non voglio PRESENTE vol-o vi-s vul-t (vol-t) vol-Ωmus vul-tis (vol-tis) vol-unt mal-o io preferisco ma-vis ma-vult (ma-volt) mal-Ωmus ma-v∫ltis (ma-v∏ltis) mal-unt IMPER. vol-≤bam vol-≤bas ecc. io volevo nol-≤bam nol-≤bas ecc. io non volevo mal-≤bam mal-≤bas ecc. io preferivo FUT. 1° INDICATIVO vol-am vol-es ecc. io vorrò nol-am nol-es ecc. io non vorrò mal-am mal-es ecc. io preferirò PRESENTE vel-im vel-is vel-it vel-∂mus vel-∂tis vel-int nol-im nol-is nol-it nol-∂mus nol-∂tis nol-int mal-im mal-is mal-it mal-∂mus mal-∂tis mal-int IMPER. CONGIUNTIVO vell-em vell-es ecc. noll-em noll-es ecc. mall-em mall-es ecc. PRES. nol-i (tu) nol-∂te (voi) (manca per volo e malo) FUT. IMPERATIVO nol-∂to (tu) nol-it∏te (voi) (manca per volo e malo) INFINITO PARTICIPIO vol-ens nol-ens (manca per malo) vel-le nol-le mal-le 67 Tavole morfologiche INDICATIVO CONGIUNTIVO f∂-o io divento f∂-am che io diventi f∂-s f∂-as f∂-t f∂-at (fi-mus) f∂-≠mus (fi-tis) f∂-≠tis f∂-unt f∂-ant che io diventassi, io diventerei INFINITO PRES. f∑-≥ri diventare PERF. fact-um, -am, -um esse fact-os, -as, -¥ essere divenuto, (essere stato fatto) FUTURO SEMP. io diventerò f∑≥re-m f∑≥re-s f∑≥re-t f∑er≤-mus f∑er≤-tis f∑≥re-nt f∂-am f∂-es f∂-et f∂-≤mus f∂-≤tis f∂-ent io divenni/ che io sia divenuto sono divenuto sim sum fact-us, -a, -um sis fact-us, -a, -um es sit est simus sumus fact-i, -ae, -a sitis fact-i, -ae, -a estis sunt sint PASS. fact-um iri PERFETTO io diventavo FUT. 2a e 3a s. (f∂-to) (diventerai tu) a 2 p. (f∂-t∏te) (diventerete voi) PIUCCHEPERFETTO f∂-≤bam f∂-≤bas f∂-≤bat f∂-eb≠mus f∂-eb≠tis f∂-≤bant IMPERATIVO PRES. 2 s. f∂ diventa tu a 2 p. f∂-te diventate voi a io ero divenuto eram fact-us, -a, -um eras erat er≠mus fact-i, -ae, -a er≠tis erant FUT. fut-∫rus, -a -um che sta per diventare (che sta per essere) FUTURO ANTERIORE IMPERFETTO PRESENTE FIO fio, fis, factus sum, fi≥ri diventare, accadere, essere (essere fatto) io sarò divenuto ero fact-us, -a, -um eris erit er∑mus fact-i, -ae, -a er∑tis erunt FUT. fut-∫rum, -am, -um esse fut-∫ros, -as, -a oppure fore che io fossi divenuto, sarei divenuto essem fact-us, -a, -um esses esset ess≤mus fact-i, -ae, -a ess≤tis essent stare per diventare (stare per essere) (stare per essere fatto) PARTICIPIO PRES. (manca) PERF. fact-us, -a -um divenuto (fatto) GERUNDIO (manca) GERUNDIVO fac-i≤ndus, -a, -um 68 (da fare) Forme del verbo FUTURO SEMP. IMPERFETTO PRESENTE ≥do, is, INDICATIVO ≥d-o io mangio ≥d-is ≤s ≥d-it ≤st ≥d-∑mus ≥d-∑tis ≤stis ≥d-unt ≤di, EDO ≤sum, ≥d≥re mangiare CONGIUNTIVO ≥d-am ≥d-im che io mangi ≥d-as ≥dis ≥d-at ≥dit ≥d-≠mus ≥d∂mus ≥d-≠tis ≥d∂tis ≥d-ant ≥dint ≥d-≤bam ≥d-≤bas ≥d-≤bat ≥d-eb≠mus ≥d-eb≠tis ≥d-≤bant io mangiavo che io mangiassi, io mangerei ≥d-≥rem ≤ssem ≥d-≥res ≤sses ≥d-≥ret ≤sset ≥d-er≤mus ≤ss≤mus ≥d-er≤tis ≤ss≤tis ≥d-≥rent ≤ssent ≥d-am ≥d-es ≥d-et ecc. io mangerò IMPERATIVO PRES. 2 s. ≥d-e ≤s mangia tu a 2 p. ≥d-∑te ≤ste mangiate voi a dovrai, dovrà... mangiare FUT. 2a s. ≥d-∑to (≤sto) a 3 s. ≥d-∑to (≤sto) a 2 p. ≥d-it∏te (≤st∏te) 3a p. ≥d-∫nto INFINITO PRES. ≥d-≥re ≤sse mangiare PERF. ≤d-∂sse avere mangiato FUT. ≤s-∫rum, -am, -um esse ≤s-∫ros, -as, -¥ stare per mangiare FUTURO ANTERIORE PIUCCHEPERFETTO PERFETTO PARTICIPIO ≤d-i ≤d-∂sti ≤d-it ecc. che io abbia mangiato io mangiai/ io ho mangiato ≤d-≥rim ≤d-≥ris ≤d-≥rit ecc. PRES. ≥d-≥ns, -≤ntis colui che mangia, mangiando PERF. ≤s-us, -a, -um mangiato, essendo stato mangiato FUT. ≤s-∫rus, -a, -um che è sul punto di mangiare io avevo mangiato ≤d-≥ram ≤d-≥ras ≤d-≥rat ecc. che io avessi mangiato, avrei mangiato ≤d-∂ssem ≤d-∂sses ≤d-∂sset ecc. GERUNDIO gen. dat. acc. abl. ≥d-≤ndi ≥d-≤ndo (ad) ≥d-≤ndum ≥d-≤ndo di mangiare al mangiare a mangiare col mangiare io avrò mangiato ≤d-≥ro ≤d-≥ris ≤d-≥rit ecc. SUPINO PRIMO ≤s(s)-um SECONDO ≤s(s)-u 69 a mangiare a mangiarsi Tavole morfologiche ◗5◗ Le parti invariabili del discorso A. Forme dell’avverbio Avverbi in -e (per lo più dal tema degli aggettivi della I classe): clare, «chiaramente»; misĕre, «miseramente»; pulchre, «splendidamente». Avverbi in -ter (per lo più dal tema degli aggettivi della II classe o dagli aggettivi pronominali): acrĭter, «aspramente»; suavĭter, «dolcemente»; alĭter, «diversamente». Avverbi in -ĭtus: antiquĭtus, «anticamente»; divinĭtus, «per volere divino»; fundĭtus, «dalle fondamenta». Avverbi che ripetono desinenze dei casi (terminazione -um, -im, -as, -o, -is, -i, -u ecc.): multum, «molto»; partim, «in parte»; alias, «in altro tempo», «in altra direzione»; subĭto, «improvvisamente»; gratis, «gratuitamente»; heri, «ieri»; noctu, «di notte». Avverbi composti: 1) con preposizione: ad + modum → admŏdum, «molto», «assai»; ob + viam → obviam, «incontro»; in + vicem → invĭcem, «a vicenda»; 2) con verbo: scīre + licet → scilĭcet, «naturalmente»; vidēre + licet → videlĭcet, «evidentemente», «cioè»; 3) con caso flesso: magnō opere, «con grande sforzo» → magnōpere, «molto»; quā rē, «per la qual cosa» → quāre, « perciò». Avverbi di luogo derivati da pronomi: dimostrativi (hic, iste, ille), determinativi (is, idem), relativi (qui, quicumque), indefiniti (alius, aliquis): stato in luogo moto a luogo moto da luogo moto per luogo h∂c qui h∫c qui hinc da qui h≠c per di qua ist∑c costì ist∫c costà istinc da costà ist≠c per costà ill∂c lì ill∫c là illinc da lì ill≠c per di là ∑b∑ lì e∏ là inde da là e≠ per di là ib∂dem nel medesimo e∏dem verso il luogo medesimo luogo ind∑dem dal medesimo luogo e≠dem per il medesimo luogo Ωb∑ dove unde qu≠ qu∏ dove da dove per dove ubic∫mque dovunque quoc∫mque verso dovunque undec∫mque da dovunque qu≠c∫mque per dovunque al∑bi altrove al∑∏ verso un altro luogo ali∫nde da un altro luogo al∑≠ alic∫bi in qualche luogo al∑qu∏ verso qualche luogo alic∫nde da qualche luogo al∑qu≠ per qualche luogo 70 per un altro luogo Le parti invariabili del discorso B. Forme della preposizione preposizioni con l’accusativo preposizioni con l’ablativo ad / in verso a(b) adversus contro, di fronte a ante da preposizioni con l’accusativo e l’ablativo in verso / in coram davanti a sub sotto davanti a cum con super sopra apud presso de da circum intorno e(x) da contra contro, di fronte in in extra fuori, oltre prae davanti infra sotto pro a favore di, a vantaggio di (ecc.) inter fra sine senza iuxta accanto a ob / propter a causa di per attraverso, per post dopo, dietro praeter eccetto, oltre prope vicino a supra sopra, oltre trans al di là, oltre ultra oltre, al di là C. Forme dell’interiezione interiezioni primarie significato e valore interiezioni secondarie significato ah «ah» (vario) hercle, mehercle «per Ercole!» st «sss!» (silenzio) ecastor, mecastor «per Castore!» fu «puah!» (schifo) ed≥pol, pol «per Polluce!» hahahae «ah, ah» (risata) medius fidius «in fede mia» ehm «ehm» (imbarazzo) cedo «dai qua!», «dammi» heus, eho «ehi!» (richiamo) age, agedum «suvvia!», «orsù!» heu, eheu «ohi!» (dolore) mane «alt!», «fermo!» euge «bene!» (approvazione) vide «ma guarda un po’!» pro, prah «oh!» «ah!» (vario) ap¥ge «via di qua!», «fuori!» euax «hurrah!» (felicità) malum «dannazione!» io (triumpe) «evviva!» (trionfo) amabo, quaeso, oro «per favore» vae «guai a… » (minaccia) ignosce «perdono», «scusa» sis (= si vis) «se vuoi», «se ti va» si placet «se non ti dispiace» 71 Tavole morfologiche D. Forme della congiunzione coordinante copulative avversative disgiuntive esplicative o dichiarative conclusive et at aut nam ergo atque sed vel namque ig∑tur ac verum -ve enim proinde -que vero sive et≥nim it¥que etiam autem seu quippe quoque tamen / att¥men neque atqui nec immo ne... quidem immo vero quin, quin etiam et... et... aut... aut... non solum... sed etiam non solum... sed etiam vel... vel... cum... tum si non... at -ve... -ve... modo... modo non modo... sed ne... quidem sive... sive... neque... neque seu... seu... nec... nec neu / neve E. Forme della congiunzione subordinante temporali cum, dum, donec, postquam, antequam, priusquam, ut, ubi, ubi primum ecc. causali quod, quia, quoniam, quando, cum concessive etsi, tametsi, quamquam; quamvis, etiamsi, licet, cum finali ut, quo / ne consecutive ut / ut non completive quod, ut / ut non / ne; quin, quom∑nus avversative cum condizionali restrittive dum, dummodo, modo; dum ne, dummodo ne, modo ne comparative ut, sicut, velut, tamquam, ut si, quasi ecc. ipotetiche si / si non, nisi, sin, sin autem 72 Dal Corso ai Percorsi: Temi e Tracce Percorso 1 - Geografia dell’Italia La geografia non è semplicemente “descrizione della terra”, bensì è lo studio degli aspetti fisici e antropici che caratterizzano un dato territorio, è conoscenza della sua storia, delle sue vicende, delle interazioni e integrazioni con gli uomini che l’hanno attraversata, le quali tutte fanno sì che un dato territorio sia in quel certo modo e non in un altro. Geografia è dunque conoscenza spaziale e culturale insieme e se conoscere un territorio è conoscere la storia di chi lo abita, conoscere il proprio territorio è in ultima analisi conoscere se stessi. L’Italia si spinge da nord a sud in una stretta lingua di terra circondata dal mare (T51; T52; T53). Ricco di un’estrema varietà di città e di popoli (T51; T52; T53), il suo territorio è capace di offrire spettacoli di rara bellezza: ad esempio la Sicilia (T54; T55), bella e terribile insieme, con i gorghi di Scilla e Cariddi e la vampa continua dell’Etna; la Campania (T56), dal clima assai mite, coronata dal Vesuvio e da colli ricchi di viti che producono vini famosi, con belle e assai note città che offrono il gradito ristoro dei bagni termali; l’Umbria (T57), con le fresche e limpide fonti del Clitumno, sulle cui rive si trovano numerosi templi consacrati agli dei; la Toscana (T58), ricca di verdi pianure, fiori, piante, alberi, olivi, viti, un vero e proprio anfiteatro naturale protetto da colli e monti e abitato da un numero incredibile di anziani, che lì trovano il clima più adatto per la loro longevità. Un vero spettacolo per gli occhi, disegnato dalle mani della natura. T 51. L’Italia (I) De Italia […] pauca dicentur: nota sunt omnia. Ab Alpibus incipit in altum excedere, atque ut procedit se media perpetuo iugo Appennini montis adtollens, inter Hadriaticum et Tuscum sive, ut aliter eadem adpellantur, inter Superum mare et Inferum excurrit diu solida. Verum ubi longe abiit, in duo cornua finditur, respicitque altero Siculum pelagus, altero Ionium: tota angusta et alicubi multo quam unde coepit angustior. Interiora eius aliae aliaeque gentes, sinistram partem Carni, et Veneti colunt Togatam Galliam; tum Italici 73 populi Picentes, Frentani, Dauni, Apuli, Calabri, Sallentini. Ad dextram sunt sub Alpibus Ligures, sub Appennino Etruria; post Latium, Volsci, Campania et super Lucaniam Bruttii. Urbium quae procul a mari habitantur opulentissimae sunt ad sinistram Patavium Antenoris, Mutina et Bononia, Romanorum coloniae, ad dextram Capua a Tuscis, et Roma quondam a pastoribus condita, nunc si pro materia dicatur alterum opus. At in oris proxima est a Tergeste Concordia. Interfluit Timavus novem capitibus exsurgens, uno ostio emissus; dein Natiso non longe a mari ditem adtingit Aquileiam. Ultra est Altinum. (Pomponio Mela) T 52. L’Italia (II) Superiora late occupat litora Padus. Namque ab imis radicibus Vesuli montis exortus parvis se primum e fontibus colligit, et aliquatenus exilis ac macer, mox aliis amnibus adeo augescit atque alitur, ut se per septem ad postremum ostia effundat. Unum de eis magnum Padum adpellant. Inde tam citus prosilit, ut discussis fluctibus diu qualem emisit undam agat, suumque etiam in mari alveum servet, donec eum ex adverso litore Histriae eodem impetu profluens Hister amnis excipiat. Hac re per ea loca navigantibus, qua utrimque amnes eunt, inter marinas aquas dulcium haustus est. A Pado ad Anconam transitur Ravenna, Ariminum, Pisaurum, Fanestris colonia, flumen Metaurus atque Aesis. Et illa in angusto illorum duorum promunturiorum ex diverso coeuntium inflexi cubiti imagine sedens, et ideo a Grais dicta Ancon, inter Gallicas Italicasque gentes quasi terminus interest. Haec enim praegressos Piceni litora excipiunt: in quibus Numana, Potentia, Cluana, Cupra urbes, castella autem Firmum, Hadria, Truentinum; id et fluvio qui praeterit nomen est. Ab eo Frentani illa maritima habent, Aterni fluminis ostia, urbes Bucam et Histonium; Dauni autem Trifernum amnem, Cliterniam, Larinum, Teanum oppida, montemque Garganum. Sinus est continuo Apulo litore incinctus nomine Urias, modicus spatio pleraque asper accessu, extra Sipontum aut ut Grai dixere Sipuntem, et flumen quod Canusium adtingens Aufidum adpellant, post Barium et Gnatia et Ennio cive nobiles Rudiae, et iam in Calabria Brundisium, Valetium, Lupiae, Hydrus mons, tum Sallentini campi et Sallentina litora et urbs Graia Callipolis. (Pomponio Mela) T 53. L’Italia (III) Hucusque Hadria, hucusque Italiae latus alterum pertinet. Frons eius in duo quidem se cornua, sicut supra diximus, scindit: ceterum mare quod inter utraque admisit tenuibus promunturiis semel iterumque distinguens non uno margine circumit, nec diffusum patensque sed per sinus recipit. Primus Tarentinus dicitur inter promunturia Sallentinum et Lacinium, in eoque sunt Tarentus, Metapontum, Heraclea, Croto, Thurium; secundus Scyllaceus inter promunturia Lacinium et Zephyrium, in quo est Petelia, Carcinus, Scyllaceum, 74 Mystiae; tertius inter Zephyrium et Bruttium Consentiam, Cauloniam, Locrosque circumdat. In Bruttio sunt Columna Rhegia, Rhegium, Scylla, Taurianum et Metaurum. Hinc in Tuscum mare flexus est et eiusdem terrae latus alterum, Maticana, Hipponium Vibove, Temesa, Clampetia, Blanda, Buxentum, Velia, Palinurus olim Phrygii gubernatoris nunc loci nomen, Paestanus sinus, Paestum oppidum, Silerus amnis, Picentia, Petrae quas Sirenes habitarunt, Minervae promunturium, omnia Lucaniae loca; sinus Puteolanus, Syrrentum, Herculaneum, Vesuvii montis adspectus, Pompei, Neapolis, Puteoli, lacus Lucrinus et Avernus, Baiae, Misenum, id nunc loci aliquando Phrygii militis nomen, Cumae, Liternum, Volturnus amnis, Volturnum oppidum, amoena Campaniae litora; Sinoessa, Liris, Minturnae, Formiae, Fundi, Tarracina, Circes domus aliquando Circeia, Antium, Aphrodisium, Ardea, Laurentum, Ostia citra Tiberim in hoc latere sunt. Ultra Pyrgi, Minio, Castrum novum, Graviscae, Cosa, Telamon, Populonia, Caecina, Pisae, Etrusca et loca et flumina; deinde Luna Ligurum et Tigulia et Genua et Sabatia et Albingaunum; tum Paulo et Varum flumina utraque ab Alpibus delapsa, sed Varum quia Italiam finit aliquanto notius. Alpes ipsae ab his litoribus longe lateque diffusae, primo ad septentrionem magno gradu excurrunt, deinde ubi Germaniam adtigerunt, verso impetu in orientem abeunt, diremptisque populis immanibus, usque in Thraciam penetrant. (Pomponio Mela) T 54. La Sicilia (I) Siciliam ferunt angustis quondam faucibus Italiae adhaesisse diremptamque velut a corpore maiore impetu superi maris, quod toto undarum onere illuc vehitur. Est autem terra ipsa tenuis ac fragilis et cavernis quibusdam fistulisque ita penetrabilis, ut ventorum tota ferme flatibus pateat; nec non et ignibus generandis nutriendisque soli ipsius naturalis materia. Quippe intrinsecus stratum sulphure et bitumine traditur, quae res facit, ut spiritu cum igne in terra interiore luctante frequenter et conpluribus locis nunc flammas, nunc vaporem, nunc fumum eructet. Inde denique Aetnae montis per tot saecula durat incendium. Et ubi acrior per spiramenta cavernarum ventus incubuit, heranarum moles egeruntur. Proximum Italiae promuntorium Regium dicitur, ideo quia Graece abrupta hoc nomine pronuntiantur. Nec mirum, si fabulosa est loci huius antiquitas, in quem res tot coiēre mirae. Primum quod nusquam alias torrens fretum, nec solum citato impetu, verum etiam procul visentibus. Undarum porro in se concurrentium tanta pugna est, ut alias veluti terga dantes in imum desidere, alias quasi victrices in sublime ferri videas; nunc hic fremitum ferventis aestus, nunc illic gemitum in voraginem desidentis exaudias. (Giustino) 75 T 55. La Sicilia (II) Accedunt vicini et perpetui Aetnae montis ignes et insularum Aeolidum, velut ipsis undis alatur incendium; neque enim in tam angustis terminis aliter durare tot saeculis tantus ignis potuisset, nisi humoris nutrimentis aleretur. Hinc igitur fabulae Scyllam et Charybdin peperere, hinc latratus auditus, hinc monstri credita simulacra, dum navigantes magnis verticibus pelagi desidentis exterriti latrare putant undas, quas sorbentis aestus vorago conlidit. Eadem causa etiam Aetnae montis perpetuos ignes facit. Nam aquarum ille concursus raptum secum spiritum in imum fundum trahit atque ibi suffocatum tam diu tenet, donec per spiramenta terrae diffusus nutrimenta ignis incendat. Iam ipsa Italiae Siciliaeque vicinitas, iam promuntoriorum altitudo ipsa ita similis est, ut quantum nunc admirationis, tantum antiquis terroris dederit, credentibus, coëuntibus in se promuntoriis ac rursum discedentibus solida intercipi absumique navigia. Neque hoc ab antiquis in dulcedinem fabulae conpositum, sed metu et admiratione transeuntium. Ea est enim procul inspicientibus natura loci, ut sinum maris, non transitum putes, quo cum accesseris, discedere ac seiungi promuntoria, quae ante iuncta fuerant, arbitrere. (Giustino) T 56. La Campania Omnium non modo Italiae, sed toto orbe terrarum pulcherrima Campaniae plaga est. Nihil mollius caelo: denique bis floribus vernat. Nihil uberius solo: ideo Liberi Cererisque certamen dicitur. Nihil hospitalius mari: hic illi nobiles portus Caieta, Misenus, tepentes fontibus Baiae, Lucrinus et Avernus, quaedam maris otia. Hic amicti vitibus montes Gaurus, Falernus, Massicus et pulcherrimus omnium Vesuvius, Aetnaei ignis imitator. Urbes ad mare Formiae Cumae, Puteoli Neapolis, Herculaneum Pompei, et ipsa caput urbium Capua, quondam inter tres maximas Romam Carthaginemque numerata. Pro hac urbe, his regionibus populus Romanus Samnitas invadit, gentem, si opulentiam quaeras, aureis et argenteis armis et discolori veste usque ad ambitum ornatam; si fallaciam, saltibus fere et montium fraude grassantem; si rabiem ac furorem, sacratis legibus humanisque hostiis in exitium urbis agitatam; si pertinaciam, sexies rupto foedere cladibusque ipsis animosiorem. (Floro) T 57. L’Umbria: le fonti del Clitumno C. PLINIUS ROMANO SUO S. Vidistine aliquando Clitumnum fontem? Si nondum (et puto nondum: alioqui narrasses mihi), vide; quem ego (paenitet tarditatis) proxime vidi. Modicus collis adsurgit, antiqua cupressu nemorosus et opacus. Hunc subter exit fons 76 et exprimitur pluribus venis sed imparibus, eluctatusque quem facit gurgitem lato gremio patescit, purus et vitreus, ut numerare iactas stipes et relucentes calculos possis. Inde non loci devexitate, sed ipsa sui copia et quasi pondere impellitur, fons adhuc et iam amplissimum flumen, atque etiam navium patiens; quas obvias quoque et contrario nisu in diversa tendentes transmittit et perfert, adeo validus ut illa qua properat ipse, quamquam per solum planum, remis non adiuvetur, idem aegerrime remis contisque superetur adversus. Iucundum utrumque per iocum ludumque fluitantibus, ut flexerint cursum, laborem otio otium labore variare. Ripae fraxino multa, multa populo vestiuntur, quas perspicuus amnis velut mersas viridi imagine adnumerat. Rigor aquae certaverit nivibus, nec color cedit. Adiacet templum priscum et religiosum. Stat Clitumnus ipse amictus ornatusque praetexta; praesens numen atque etiam fatidicum indicant sortes. Sparsa sunt circa sacella complura, totidemque di. Sua cuique veneratio suum nomen, quibusdam vero etiam fontes. Nam praeter illum quasi parentem ceterorum sunt minores capite discreti; sed flumini miscentur, quod ponte transmittitur. Is terminus sacri profanique: in superiore parte navigare tantum, infra etiam natare concessum. Balineum Hispellates, quibus illum locum divus Augustus dono dedit, publice praebent, praebent et hospitium. Nec desunt villae quae secutae fluminis amoenitatem margini insistunt. In summa nihil erit, ex quo non capias voluptatem. Nam studebis quoque: leges multa multorum omnibus columnis omnibus parietibus inscripta, quibus fons ille deusque celebratur. Plura laudabis, non nulla ridebis; quamquam tu vero, quae tua humanitas, nulla ridebis. Vale. (Plinio il Giovane) T 58. La Toscana C. PLINIUS DOMITIO APOLLINARI SUO S. Amavi curam et sollicitudinem tuam, quod cum audisses me aestate Tuscos meos petiturum, ne facerem suasisti, dum putas insalubres. Est sane gravis et pestilens ora Tuscorum, quae per litus extenditur; sed hi procul a mari recesserunt, quin etiam Appennino saluberrimo montium subiacent. Atque adeo ut omnem pro me metum ponas, accipe temperiem caeli regionis situm villae amoenitatem, quae et tibi auditu et mihi relatu iucunda erunt. Caelum est hieme frigidum et gelidum; myrtos oleas quaeque alia adsiduo tepore laetantur, aspernatur ac respuit; laurum tamen patitur atque etiam nitidissimam profert, interdum sed non saepius quam sub urbe nostra necat. Aestatis mira clementia: semper aër spiritu aliquo movetur, frequentius tamen auras quam ventos habet. Hinc senes multi: videas avos proavosque iam iuvenum, audias fabulas veteres sermonesque maiorum, cumque veneris illo putes alio te saeculo natum. Regionis forma pulcherrima. Imaginare amphitheatrum aliquod immensum, et quale sola rerum natura possit effingere. Lata et diffusa planities montibus cingitur, montes summa sui parte procera nemora et antiqua habent. Frequens ibi et varia venatio. Inde caeduae 77 silvae cum ipso monte descendunt. Has inter pingues terrenique colles (neque enim facile usquam saxum etiam si quaeratur occurrit) planissimis campis fertilitate non cedunt, opimamque messem serius tantum, sed non minus percoquunt. Sub his per latus omne vineae porriguntur, unamque faciem longe lateque contexunt; quarum a fine imoque quasi margine arbusta nascuntur. Prata inde campique, campi quos non nisi ingentes boves et fortissima aratra perfringunt: tantis glaebis tenacissimum solum cum primum prosecatur adsurgit, ut nono demum sulco perdometur. Prata florida et gemmea trifolium aliasque herbas teneras semper et molles et quasi novas alunt. Cuncta enim perennibus rivis nutriuntur; sed ubi aquae plurimum, palus nulla, quia devexa terra, quidquid liquoris accepit nec absorbuit, effundit in Tiberim. Medios ille agros secat navium patiens omnesque fruges devehit in urbem, hieme dumtaxat et vere; aestate summittitur immensique fluminis nomen arenti alveo deserit, autumno resumit. Magnam capies voluptatem, si hunc regionis situm ex monte prospexeris. Neque enim terras tibi sed formam aliquam ad eximiam pulchritudinem pictam videberis cernere: ea varietate, ea descriptione, quocumque inciderint oculi, reficientur. (Plinio il Giovane) 78 Percorso 2 - Terre e popoli d’Europa L’Europa, impegnata ancor oggi nella faticosa costruzione di un’identità culturale e sociale che accomuni tutti i popoli che la abitano, per lungo tempo fu solo “la terra ad ovest dell’Asia”. Narra il mito che il nome di Europa contraddistinse poi tutto il territorio a nord di Creta, in onore della giovane e bellissima Europa, rapita con violenza da Zeus trasformatosi in un bellissimo toro bianco, e portata dalla Fenicia a Creta attraverso i mari. Quel vasto territorio “ad ovest dell’Asia”, dai mari del Nord al Mediterraneo, dal Mar Caspio all’Oceano, ebbe da allora, insieme al nome, la sua configurazione geografica autonoma (T59). Molti i popoli che l’hanno abitata, talvolta insediati in modo stabile in precise aree geografiche, talaltra costretti ad emigrare verso terre migliori: sono, tutti quanti, i nostri antenati. La Gallia (T60), ampia regione dell’Europa centro-occidentale, compresa fra la Manica, il Reno, le Alpi occidentali, il Mar Mediterraneo, i Pirenei, l’Oceano Atlantico, più una parte dell’Italia settentrionale, è abitata da numerose popolazioni e tribù. Alcune di esse a più riprese escono dai loro confini e, superate le Alpi, occupano il territorio del nord Italia (T61; T62), dove, tra l’altro, i Galli Insubri fondano Milano. In un territorio aspro e difficile come quello della Germania (T63) abita il popolo dei Germani (T64), dalla corporatura forte e massiccia, atta allo scontro e alle irruzioni. Essi non amano abitare in città strutturate, ma in case molto semplici separate le une dalle altre (T65), tuttavia per le questioni importanti prendono decisioni in modo assembleare (cfr. T37). Ad “oriente” della Germania la Britannia (T66), circumnavigata per la prima volta dai Romani, che hanno raggiunto anche le Orcadi e la mitica Tule. Non si sa con certezza se i popoli che la abitano (T67) sono autoctoni, oppure discendono dai Germani o dai Galli. Ancora più a nord si trovano isole grandissime (attuali terre baltiche e Scandinavia), dai confini smisurati, abitate dagli “Ippopodi” (T68), popoli con “piedi di cavallo”, e bagnate da un mare quasi immobile (T69), che segna il confine ultimo delle terre. A nord-est la Scizia (T70), abitata da un popolo bellicoso, pur se non del tutto incolto. Poi, al di là dell’Oceano, il nulla, che l’uomo non deve travalicare pena la sua stessa vita (T71). Certo, ci sono molte ingenuità nelle descrizioni geografiche del passato, ma la voglia di conoscere e di sapere dei nostri antenati è la stessa che guida l’uomo ancor oggi. T 59. Geografia dell’Europa Europa terminos habet ab oriente Tanain et Maeotida et Pontum, a meridie reliqua Nostri maris, ab occidente Atlanticum, a septentrione Britannicum oceanum. Ora eius, forma litorum, a Tanai ad Hellespontum, qua (avv.) ripa 79 est dicti amnis, qua flexum paludis ad Ponticum redigit, qua Propontidi et Hellesponto latere adiacet, contrariis litoribus Asiae non opposita modo, verum et similis est. Inde ad fretum, nunc vaste retracta nunc prominens, tres maximos sinus efficit, totidemque se in altum magnis frontibus evehit. Extra fretum ad occidentem inaequalis admodum, praecipue media, procurrit; ad septentrionem, nisi ubi semel iterumque grandi recessu abducitur, paene ut directo limite extenta est. Mare quod primo sinu accipit Aegaeum dicitur; quod sequenti in ore Ionium, Hadriaticum interius; quod ultimo nos Tuscum, Grai Tyrrhenicum perhibent. Gentium prima est Scythia, alia quam dicta est ad Tanain, media ferme Pontici lateris, hinc in Aegaei partem pertinens Thracia, huic Macedonia adiungitur. Tum Graecia prominet, Aegaeumque ab Ionio mari dirimit. Hadriatici latus Illyris occupat. Inter ipsum Hadriaticum et Tuscum Italia procurrit. In Tusco intimo Gallia est, ultra Hispania. Haec in occidentem diuque etiam ad septentrionem diversis frontibus vergit. Deinde rursus Gallia est longe et a nostris litoribus hucusque permissa. Ab ea Germani ad Sarmatas porriguntur, illi ad Asiam. (Pomponio Mela) T 60. Geografia e popoli della Gallia Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garunna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea, quae ad effeminandos animos pertinent, important proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garunna flumine, Oceano, finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum, vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni, spectant in septentrionem et orientem solem. Aquitania a Garunna flumine ad Pyrenaeos montes et eam partem Oceani, quae est ad Hispaniam, pertinet, spectat inter occasum solis et septentriones. (Cesare) T 61. Alcune popolazioni della Gallia scendono in Italia (I) Lo storico Tito Livio narra che all’inizio del IV sec. a.C., sotto la guida di Belloveso, alcune tribù celtiche provenienti dalla Gallia (Biturigi, Arverni, Edui, Ambarri, Carnuti, Aulerci e Senoni) oltrepassarono le Alpi e si stanziarono nel territorio compreso fra il Po e i laghi prealpini (tranne i Senoni, che proseguirono la marcia fino alle porte di Roma). Il territorio prese il nome di 80 Insubria e Galli Insubri si chiamarono i popoli che lo abitarono; a loro si deve la fondazione di Mediolanium, «Milano», che da subito divenne il centro più importante del loro insediamento. De transitu in Italiam Gallorum haec accepimus: Prisco Tarquinio Romae regnante, Celtarum quae pars Galliae tertia est penes Bituriges summa imperii fuit; ii regem Celtico dabant. Ambigatus is fuit, virtute fortunaque cum sua, tum publica praepollens, quod in imperio eius Gallia adeo frugum hominumque fertilis fuit ut abundans multitudo vix regi videretur posse. Hic magno natu ipse iam exonerare praegravante turba regnum cupiens, Bellovesum ac Segovesum sororis filios impigros iuvenes missurum se esse in quas di dedissent auguriis sedes ostendit; quantum ipsi vellent numerum hominum excirent ne qua gens arcere advenientes posset. Tum Segoveso sortibus dati Hercynei saltus; Belloveso haud paulo laetiorem in Italiam viam di dabant. Is quod eius ex populis abundabat, Bituriges, Arvernos, Senones, Haeduos, Ambarros, Carnutes, Aulercos excivit. Profectus ingentibus peditum equitumque copiis in Tricastinos venit. Alpes inde oppositae erant; quas inexsuperabiles visas haud equidem miror, nulladum via, quod quidem continens memoria sit, nisi de Hercule fabulis credere libet, superatas. (Livio) T 62. Alcune popolazioni della Gallia scendono in Italia (II) Ibi cum velut saeptos montium altitudo teneret Gallos, circumspectarentque quanam per iuncta caelo iuga in alium orbem terrarum transirent, religio etiam tenuit quod allatum est advenas quaerentes agrum ab Salvum (= dei Salluvi, gen. pl.) gente oppugnari. Massilienses erant ii, navibus a Phocaea profecti. Id Galli fortunae suae omen rati, adiuvere ut quem primum in terram egressi occupaverant locum patientibus Salvis (= Salluvi, abl. pl.) communirent. Ipsi per Taurinos saltus saltumque Duriae Alpes transcenderunt; fusisque acie Tuscis haud procul Ticino flumine, cum in quo consederant “agrum Insubrium” appellari audissent cognominem Insubribus pago Haeduorum, ibi omen sequentes loci condidere urbem; Mediolanium appellarunt. Alia subinde manus Cenomanorum Etitovio duce vestigia priorum secuta eodem saltu favente Belloveso cum transcendisset Alpes, ubi nunc Brixia ac Verona urbes sunt locos tenuere. Libui considunt post hos Salluviique, prope antiquam gentem Laevos Ligures incolentes circa Ticinum amnem. Poenino deinde Boii Lingonesque transgressi cum iam inter Padum atque Alpes omnia tenerentur, Pado ratibus traiecto non Etruscos modo sed etiam Umbros agro pellunt; intra Appenninum tamen sese tenuere. Tum Senones, recentissimi advenarum, ab Utente flumine usque ad Aesim fines habuere. Hanc gentem Clusium Romamque inde venisse comperio: id parum certum est, solamne an ab omnibus Cisalpinorum Gallorum populis adiutam. (Livio) 81 T 63. Geografia della Germania Germania omnis a Gallis Raetisque et Pannoniis Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo metu aut montibus separatur: cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens, nuper cognitis quibusdam gentibus ac regibus, quos bellum aperuit. Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac praecipiti vertice ortus, modico flexu in occidentem versus septentrionali Oceano miscetur. Danuvius molli et clementer edito montis Abnobae iugo effusus plures populos adit, donec in Ponticum mare sex meatibus erumpat; septimum os paludibus hauritur. Ipsos Germanos indigenas crediderim minimeque aliarum gentium adventibus et hospitiis mixtos, quia nec terra olim sed classibus advehebantur qui mutare sedes quaerebant, et immensus ultra utque sic dixerim adversus Oceanus raris ab orbe nostro navibus aditur. Quis porro, praeter periculum horridi et ignoti maris, Asia aut Africa aut Italia relicta Germaniam peteret, informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque nisi si patria sit? […] Terra etsi aliquanto specie differt, in universum tamen aut silvis horrida aut paludibus foeda, humidior qua Gallias, ventosior qua Noricum ac Pannoniam aspicit; satis ferax, frugiferarum arborum impatiens, pecorum fecunda, sed plerumque improcera. Ne armentis quidem suus honor aut gloria frontis: numero gaudent, eaeque solae et gratissimae opes sunt. (Tacito) T 64. I Germani Ceterum Germaniae vocabulum recens et nuper additum, quoniam qui primi Rhenum transgressi Gallos expulerint ac nunc Tungri, tunc Germani vocati sint: ita nationis nomen, non gentis, evaluisse paulatim, ut omnes primum a victore ob metum, mox et a se ipsis invento nomine Germani vocarentur. […] Ipse eorum opinionibus accedo qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem extitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida. Laboris atque operum non eadem patientia, minimeque sitim aestumque tolerare, frigora atque inediam caelo solove adsueverunt. (Tacito) T 65. Le abitazioni dei Germani Nullas Germanorum populis urbes habitari satis notum est, ne pati quidem inter se iunctas sedes. Colunt discreti ac diversi, ut fons, ut campus, ut nemus placuit. Vicos locant non in nostrum morem conexis et cohaerentibus aedificiis: suam quisque domum spatio circumdat, sive adversus casus ignis remedium sive inscitia aedificandi. Ne caementorum quidem apud illos aut 82 tegularum usus: materia ad omnia utuntur informi et citra speciem aut delectationem. Quaedam loca diligentius inlinunt terra ita pura ac splendente ut picturam ac lineamenta colorum imitetur. Solent et subterraneos specus aperire eosque multo insuper fimo onerant, suffugium hiemis et receptaculum frugibus, quia rigorem frigorum eius modi loci molliunt, et si quando hostis advenit, aperta populatur, abdita autem et defossa aut ignorantur aut eo ipso fallunt quod quaerenda sunt. (Tacito) T 66. La Britannia Britannia, insularum quas Romana notitia complectitur maxima, spatio ac caelo in orientem Germaniae, in occidentem Hispaniae obtenditur, Gallis in meridiem etiam inspicitur; septentrionalia eius, nullis contra terris, vasto atque aperto mari pulsantur. Formam totius Britanniae Livius veterum, Fabius Rusticus recentium eloquentissimi auctores oblongae scutulae vel bipenni adsimulavere. Et est ea facies citra Caledoniam, unde et in universum fama est: transgressis inmensum et enorme spatium procurrentium extremo iam litore terrarum velut in cuneum tenuatur. Hanc oram novissimi maris tunc primum Romana classis circumvecta insulam esse Britanniam adfirmavit, ac simul incognitas ad id tempus insulas, quas Orcadas vocant, invenit domuitque. Dispecta est et Thule, quia hactenus iussum, et hiems adpetebat. Sed mare pigrum et grave remigantibus perhibent ne ventis quidem perinde attolli, credo quod rariores terrae montesque, causa ac materia tempestatum, et profunda moles continui maris tardius impellitur. Naturam Oceani atque aestus neque quaerere huius operis est, ac multi rettulere: unum addiderim, nusquam latius dominari mare, multum fluminum huc atque illuc ferre, nec litore tenus adcrescere aut resorberi, sed influere penitus atque ambire, et iugis etiam ac montibus inseri velut in suo. (Tacito) T 67. I popoli della Britannia Ceterum Britanniam qui mortales initio coluerint, indigenae an advecti, ut inter barbaros, parum compertum. Habitus corporum varii atque ex eo argumenta. Namque rutilae Caledoniam habitantium comae, magni artus Germanicam originem adseverant; Silurum colorati vultus, torti plerumque crines et posita contra Hispania Hiberos veteres traiecisse easque sedes occupasse fidem faciunt; proximi Gallis et similes sunt, seu durante originis vi, seu procurrentibus in diversa terris positio caeli corporibus habitum dedit. In universum tamen aestimanti Gallos vicinam insulam occupasse credibile est. Eorum sacra deprehendas ac superstitionum persuasiones; sermo haud multum diversus, in deposcendis periculis eadem audacia et, ubi advenere, in detrectandis eadem formido. Plus tamen ferociae Britanni praeferunt, ut quos nondum longa pax emollierit. Nam Gallos quoque in bellis floruisse 83 accepimus; mox segnitia cum otio intravit, amissa virtute pariter ac libertate. Quod Britannorum olim victis evenit: ceteri manent quales Galli fuerunt. (Tacito) T 68. Terre e popoli del nord Europa Exeundum deinde est, ut extera Europae dicantur, transgressisque Ripaeos montes litus oceani septentrionalis in laeva, donec perveniatur Gadis, legendum. Insulae complures sine nominibus eo situ traduntur, ex quibus ante Scythiam quae appellatur Baunonia unam abesse diei cursu, in quam veris tempore fluctibus electrum eiciatur, Timaeus prodidit. Reliqua litora incerta. Signata fama septentrionalis oceani. Amalchium eum Hecataeus appellat a Parapaniso amne, qua Scythiam adluit, quod nomen eius gentis lingua significat congelatum. Philemon Morimarusam a Cimbris vocari, hoc est mortuum mare, inde usque ad promunturium Rusbeas, ultra deinde Cronium. Xenophon Lampsacenus a litore Scytharum tridui navigatione insulam esse inmensae magnitudinis Balciam tradit, eandem Pytheas Basiliam nominat. Feruntur et Oeonae, in quibus ovis avium et avenis incolae vivant, aliae, in quibus equinis pedibus homines nascantur, Hippopodes appellati, Phanesiorum aliae, in quibus nuda alioqui corpora praegrandes ipsorum aures tota contegant. Incipit deinde clarior aperiri fama ab gente Inguaeonum, quae est prima in Germania. Mons Saevo ibi, immensus nec Ripaeis iugis minor, immanem ad Cimbrorum usque promunturium efficit sinum, qui Codanus vocatur, refertus insulis, quarum clarissima est Scatinavia, inconpertae magnitudinis, portionem tantum eius, quod notum sit, Hillevionum gente quingentis incolente pagis: quare alterum orbem terrarum eam appellant. (Plinio il Vecchio) T 69. Sul mar Baltico: Svedesi ed Éstoni Suionum (Suiones, «Suioni», oggi «Svedesi») hinc civitates, ipso in Oceano, praeter viros armaque classibus valent. Forma navium eo differt quod utrimque prora paratam semper adpulsui frontem agit. Nec velis ministrant nec remos in ordinem lateribus adiungunt: solutum, ut in quibusdam fluminum, et mutabile, ut res poscit, hinc vel illinc remigium. [...] Trans Suionas aliud mare, pigrum ac prope immotum, quo cingi claudique terrarum orbem hinc fides, quod extremus cadentis iam solis fulgor in ortus edurat adeo clarus ut sidera hebetet; sonum insuper emergentis audiri formasque equorum et radios capitis aspici persuasio adicit. Illuc usque et fama vera tantum natura. Ergo iam dextro Suebici maris litore Aestiorum (Aestii, «Estî», antenati dei Baltici, oggi «Éstoni») gentes adluuntur, quibus ritus habitusque Sueborum, lingua Britannicae propior. Matrem deum venerantur. Insigne superstitionis formas aprorum gestant: id pro armis hominumque tutela securum deae cultorem etiam inter hostes praestat. Rarus ferri, frequens fustium usus. Frumenta 84 ceterosque fructus patientius quam pro solita Germanorum inertia laborant. Sed et mare scrutantur, ac soli omnium sucinum, quod ipsi glesum vocant, inter vada atque in ipso litore legunt. Nec quae natura quaeve ratio gignat, ut barbaris, quaesitum compertumve; diu quin etiam inter cetera eiectamenta maris iacebat, donec luxuria nostra dedit nomen. Ipsis in nullo usu: rude legitur, informe perfertur, pretiumque mirantes accipiunt. (Tacito) T 70. Gli Sciti Bactrianos Tanais ab Scythis, quos Europaeos vocant, dividit; idem Asiam et Europam finis interfluit. Ceterum Scytharum gens haud procul Thracia sita ab oriente ad septentrionem se vertit, Sarmatarumque, ut quidam credidere, non finitima, sed pars est. Recta deinde regione saltum ultra Istrum iacentem colit; ultima Asiae, qua Bactra sunt, stringit. Habitant, quae septentrioni propiora sunt; profundae inde silvae vastaeque solitudines excipiunt. Rursus quae Tanain et Bactra spectant, humano cultu haud disparia sunt primis. […] Scythis autem non ut ceteris barbaris rudis et inconditus sensus est: quidam eorum sapientiam quoque capere dicuntur, quantamcumque gens capit semper armata. (Curzio) T 71. Oltre l’Oceano, il nulla In età tardo-repubblicana ed augustea, nelle scuole di retorica gli alunni si esercitavano a discutere su situazioni del tutto fittizie, nelle quali essi cercavano di “persuadere” qualcuno a compiere o non compiere una determinata azione. Alcune di queste declamazioni, dette Suasoriae, sono state tramandate da Seneca il Vecchio, il Retore. In questo passo si cerca di convincere Alessandro a non oltrepassare i confini del mondo. Deliberat Alexander an Oceanum naviget. […] Cuicumque rei magnitudinem natura dederat, dedit et modum; nihil infinitum est nisi Oceanus. Aiunt fertiles in Oceano iacere terras ultraque Oceanum rursus alia litora, alium nasci orbem, nec usquam rerum naturam desinere, sed semper inde ubi desisse videatur novam exsurgere. Facile ista finguntur, quia Oceanus navigari non potest. Satis sit hactenus Alexandro vicisse qua mundo lucere satis est. Intra has terras caelum Hercules meruit. Stat immotum mare, quasi deficientis in suo fine naturae pigra moles; novae ac terribiles figurae, magna etiam Oceano portenta, quae profunda ista vastitas nutrit, confusa lux alta caligine et interceptus tenebris dies, ipsum vero grave et defixum mare et aut nulla aut ignota sidera. Ea est, Alexander, rerum natura: post omnia Oceanus, post Oceanum nihil. (Seneca il Vecchio) 85 Percorso 3 - L’uomo è un essere sociale Aristotele, il grande filosofo greco del IV sec. a.C., nel trattato sulla «Politica» dichiarò che “l’uomo è per natura un animale (= essere animato) politico“. Ciò significa che l’uomo, a differenza degli animali e degli dei, è spinto per sua stessa natura a vivere insieme ad altri uomini, in una dimensione sociale comunitaria, che l’illustre filosofo identificava nella polis (da qui la qualificazione dell’uomo come essere “politico”). Solo la societas consente all’uomo di tessere una rete di relazioni (famiglia, gruppo, clan, comunità, associazione, club, partito ecc… ), senza le quali egli non potrebbe vivere. L’uomo insomma ha bisogno dell’altro, con il quale confrontarsi e nel quale riconoscersi, e con l’altro (gli altri) fissa regole, leggi, convenzioni che garantiscono la sopravvivenza stessa del gruppo sociale. Il quale si trasforma in una comunità civile proprio quando si fonda su un insieme di conoscenze, tradizioni, linguaggi, norme e valori radicati e condivisi, da rispettare e onorare tutti insieme. Il lungo cammino che ha condotto l’uomo da una condizione di ferinità alla civiltà (T72; T73; T74) passa in particolare attraverso la conquista di un linguaggio articolato e codificato, con cui comunicare all’interno di gruppi uniti dalle stesse esigenze e dagli stessi bisogni. La lingua di un popolo finisce quindi per identificarsi con il popolo che la parla e disprezzare quella lingua vuol dire disprezzare quel popolo (T75). Grazie alla lingua gli uomini si uniscono in un sodalizio sociale fatto di regole, leggi, usi e costumi compartecipati (T76), che li rende forti nell’affrontare i duri colpi della sorte (T77) e che favorisce il pieno sviluppo della loro humanitas (T78). Che non è soltanto generosità e amore verso l’altro, ma è soprattutto espressione di un animo libero da ogni pregiudizio, capace di confrontarsi con altri uomini, altri gruppi, altri popoli. E’ cultura, è civiltà. Perché il mondo è un’unica, grande patria di tutti gli uomini (T79). T 72. Il cammino dell’uomo verso la civiltà (I) Homines vetere more ut ferae in silvis et speluncis et nemoribus nascebantur ciboque agresti vescendo vitam exigebant. Interea quodam in loco ab tempestatibus et ventis densae crebritatibus arbores agitatae et inter se terentes ramos ignem excitaverunt, et eius flamma vehementi perterriti, qui circa eum locum fuerunt, sunt fugati. Postea re quieta propius accedentes cum animadvertissent commoditatem esse magnam corporibus ignis teporem, ligna adicientes et iis conservantes alios adducebant et nutu monstrantes ostendebant, quas haberent ex eo utilitates. In eo hominum congressu cum profundebantur aliter atque aliter e spiritu voces, cotidiana consuetudine 86 vocabula, ut obtigerant, constituerunt, deinde significando res saepius in usu ex eventu fari fortuito coeperunt et ita sermones inter se procreaverunt. (Vitruvio) T 73. Il cammino dell’uomo verso la civiltà (II) Ergo cum propter ignis inventionem conventus initio apud homines et concilium et convictus esset natus, et in unum locum plures convenirent habentes ab natura praemium praeter reliqua animalia, ut non proni sed erecti ambularent mundique et astrorum magnificentiam aspicerent, item manibus et articulis quam vellent rem faciliter tractarent, coeperunt in eo coetu alii de fronde facere tecta, alii speluncas fodere sub montibus, nonnulli hirundinum nidos et aedificationes earum imitantes de luto et virgulis facere loca, quae subirent. Tunc observantes aliena tecta et adicientes suis cogitationibus res novas, efficiebant in dies meliora genera casarum. Cum essent autem homines imitabili docilique natura, cotidie inventionibus gloriantes alius alii ostendebant aedificiorum effectus, et ita exercentes ingenia certationibus in dies melioribus iudiciis efficiebantur. (Vitruvio) T 74. La civiltà nasce grazie alla parola Fuit quoddam tempus, cum in agris homines passim bestiarum modo vagabantur et sibi victu fero vitam propagabant nec ratione animi quicquam, sed pleraque viribus corporis administrabant, nondum divinae religionis, non humani officii ratio colebatur, nemo nuptias viderat legitimas, non certos quisquam aspexerat liberos, non, ius aequabile quid utilitatis haberet, acceperat. Ita propter errorem atque inscientiam caeca ac temeraria dominatrix animi cupiditas ad se explendam viribus corporis abutebatur, perniciosissimis satellitibus. Quo tempore quidam magnus videlicet vir et sapiens cognovit, quae materia esset et quanta ad maximas res opportunitas in animis inesset hominum, si quis eam posset elicere et praecipiendo meliorem reddere; qui dispersos homines in agros et in tectis silvestribus abditos ratione quadam conpulit unum in locum et congregavit et eos in unam quamque rem inducens utilem atque honestam primo propter insolentiam reclamantes, deinde propter rationem atque orationem studiosius audientes ex feris et inmanibus mites reddidit et mansuetos. (Cicerone) T 75. Se disprezzi la lingua di un popolo disprezzi quel popolo Dopo la conquista dell’Asia, l’esercito di Alessandro Magno divenne un corpo misto di Persiani e di Macedoni, ma alcuni nobili ufficiali, avversi a questi cambiamenti, organizzarono un complotto per uccidere il re. In esso parve coinvolto anche Filota, il comandante della cavalleria 87 degli Eteri. Processato dinanzi all’esercito, egli chiese di potersi esprimere in una lingua diversa da quella Macedone e il Re lesse in questa richiesta un’ulteriore prova del suo odio contro i Macedoni. Sottoposto a torture, Filota confessò poi il suo coinvolgimento nella congiura e fu condannato a morte. Tum dicere iussus Philotas, sive conscientia sceleris sive periculi magnitudine amens et attonitus, non attollere oculos, non hiscere audebat. Lacrimis deinde manantibus linquente animo in eum, a quo tenebatur, incubuit abstersisque amiculo eius oculis paulatim recipiens spiritum ac vocem dicturus videbatur. Iamque rex intuens eum "Macedones" inquit "de te iudicaturi sunt: quaero, an patrio sermone sis apud eos usurus." Tum Philotas "Praeter Macedonas" inquit "plerique adsunt, quos facilius, quae dicam, percepturos arbitror, si eadem lingua fuero usus, qua tu egisti non ob aliud, credo, quam ut oratio tua intellegi posset a pluribus." Tum rex: "Ecquid videtis odio etiam sermonis patrii Philotan teneri? Solus quippe fastidit eum discere. Sed dicat sane, utcumque ei cordi est, dum memineritis aeque illum a nostro more quam sermone abhorrere." Atque ita contione excessit. (Curzio) T 76. I fondamenti della società Optime autem societas hominum coniunctioque servabitur, si, ut quisque erit coniunctissimus, ita in eum benignitatis plurimum conferetur. Sed quae naturae principia sint communitatis et societatis humanae, repetendum videtur altius. Est enim primum quod cernitur in universi generis humani societate. Eius autem vinculum est ratio et oratio, quae docendo, discendo, communicando, disceptando, iudicando conciliat inter se homines coniungitque naturali quadam societate, neque ulla re longius absumus a natura ferarum, in quibus inesse fortitudinem saepe dicimus, ut in equis, in leonibus, iustitiam, aequitatem, bonitatem non dicimus; sunt enim rationis et orationis expertes. Ac latissime quidem patens hominibus inter ipsos, omnibus inter omnes societas haec est. In qua omnium rerum, quas ad communem hominum usum natura genuit, est servanda communitas, ut quae descripta sunt legibus et iure civili, haec ita teneantur, ut est constitutum legibus ipsis, cetera sic observentur, ut in Graecorum proverbio est, amicorum esse communia omnia. (Cicerone) T 77. Il consorzio umano Quo alio tuti sumus, quam quod mutuis iuvamur officiis? Hoc uno instructior vita contraque incursiones subitas munitior est, beneficiorum commercio. Fac nos singulos, quid sumus? praeda animalium et victimae ac bellissimus et facillimus sanguis; quoniam ceteris animalibus in tutelam sui satis virium est, quaecumque vaga nascebantur et actura vitam segregem, armata sunt, 88 hominem inbecilla cutis cingit, non unguium vis, non dentium terribilem ceteris fecit, nudum et infirmum societas munit. Duas deus res dedit, quae illum obnoxium validissimum facerent, rationem et societatem; itaque, qui par esse nulli posset, si seduceretur, rerum potitur. Societas illi dominium omnium animalium dedit; societas terris genitum in alienae naturae transmisit imperium et dominari etiam in mari iussit; haec morborum impetus arcuit, senectuti adminicula prospexit, solacia contra dolores dedit; haec fortes nos facit, quod licet contra fortunam advocare. Hanc societatem tolle, et unitatem generis humani, qua vita sustinetur, scindes. (Seneca) T 78. L’humanitas Qui verba Latina fecerunt quique his probe usi sunt, “humanitatem” non id esse voluerunt, quod volgus existimat quodque a Graecis ϕιλαντρωπι′ α (leggi: filantropía, «filantropia», «amore verso l’uomo») dicitur et significat dexteritatem quandam benivolentiamque erga omnīs homines promiscam, sed “humanitatem” appellaverunt id propemodum, quod Graeci παιδει′α (leggi: paidéia, «educazione», «cultura») vocant, nos eruditionem institutionemque in bonas artīs dicimus. Quas qui sinceriter cupiunt adpetuntque, hi sunt vel maxime humanissimi. Huius enim scientiae cura et disciplina ex universis animantibus uni homini datast (= data est) idcircoque “humanitas” appellata est. Sic igitur eo verbo veteres esse usos et cumprimis M. Varronem Marcumque Tullium omnes ferme libri declarant. (Gellio) T 79. Il mondo è un’unica patria Nec ignoro ingrati ac segnis animi existimari posse merito, si obiter atque in transcursu ad hunc modum dicatur terra omnium terrarum alumna eadem et parens, numine deum electa quae caelum ipsum clarius faceret, sparsa congregaret imperia ritusque molliret et tot populorum discordes ferasque linguas sermonis commercio contraheret ad conloquia et humanitatem homini daret breviterque una cunctarum gentium in toto orbe patria fieret. Sed quid agam? Tanta nobilitas omnium locorum, quos quis attigerit, tanta rerum singularum populorumque claritas tenet. (Plinio il Vecchio) 89 Percorso 4 - L’amicizia L’etimologia latina ci dice che la società (soc-ietas) è fondata sulla comunanza di interessi e di relazioni tra individui, che si riconoscono come consimili, alleati, compagni (soc-ii) consociati (soc-iare) tra di loro in un bisogno di condivisione che è connaturato all’uomo stesso. E come non possiamo fare a meno della società, dell’aiuto degli altri (T80), allo stesso modo non possiamo fare a meno degli amici. Il grande Aristotele ha scritto che l'amicizia è un’anima che abita in due corpi, un cuore che abita in due anime. Socius è dunque anche l’amico, colui con il quale condividiamo esperienze, pensieri, emozioni, colui che impreziosisce la nostra vita con la sua sola presenza, colui che spesso amiamo più dei nostri stessi parenti (T81). L’amico è un dono divino, che rende la vita davvero “vitale” (T82). Egli è sempre accanto a noi, pronto a condividere le nostre gioie e le nostre sventure (T82; T83). Nessuna casa, nessuna città sopravvive alla mancanza di amicizia e di concordia (T83), perché la vera amicizia (am-icitia) è amore (am-or) disinteressato (T84), privo di ogni fine utilitaristico (T87), un bene prezioso da proteggere e preservare dalle cattive influenze (T85). Un cuore in grado di provare amicizia è come un tempio sacro pervaso dallo spirito divino (T86), perché il vero amico (amicus) è capace perfino di anteporre la vita dell’amico alla propria (T86; T87). Non possiamo vivere senza amici. Anche se a volte ci illudiamo di poterlo fare. T 80. L’uomo non può vivere da solo Cum enim praesidii causa homines societatem cum hominibus inierint, foedus illud inter homines a principio sui ortus initum aut violare aut non conservare summum nefas putandum est. Nam qui se a praestando auxilio removet, etiam ab accipiendo se removeat necesse est; quia nullius opera indigere se putat qui alteri suam negat. Huic vero qui se ipse dissociat ac secernit a corpore hominum societatis, non ritu hominis, sed ferarum more vivendum est. Quod fieri si non potest, retinendum est igitur omni modo vinculum societatis humanae; quia homo sine homine nullo modo potest vivere. Retentio autem societatis est communitas, id est auxilium praestare ut possimus accipere. Sin vero humanitatis ipsius causa facta est hominum congregatio, homo certe hominem debet agnoscere. (Lattanzio) T 81. La forza dell’amicizia Ego vos hortari tantum possum, ut amicitiam omnibus rebus humanis anteponatis; nihil est enim tam naturae aptum, tam conveniens ad res vel secundas vel adversas. […] Sic enim mihi perspicere videor, ita natos esse nos, ut inter omnes esset societas quaedam, maior autem, ut quisque proxume accederet. Itaque cives potiores quam peregrini, propinqui quam 90 alieni; cum his enim amicitiam natura ipsa peperit; sed ea non satis habet firmitatis. Namque hoc praestat amicitia propinquitati, quod ex propinquitate benivolentia tolli potest, ex amicitia non potest; sublata enim benivolentia amicitiae nomen tollitur, propinquitatis manet. Quanta autem vis amicitiae sit, ex hoc intellegi maxime potest, quod ex infinita societate generis humani, quam conciliavit ipsa natura, ita contracta res est et adducta in angustum, ut omnis caritas aut inter duos aut inter paucos iungeretur. (Cicerone) T 82. Amicizia è… Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benivolentia et caritate consensio; qua quidem haut scio an excepta sapientia nihil melius homini sit a dis inmortalibus datum. Divitias alii praeponunt, bonam alii valitudinem, alii potentiam, alii honores, multi etiam voluptates. Beluarum hoc quidem extremum, illa autem superiora caduca et incerta, posita non tam in consiliis nostris quam in fortunae temeritate. Qui autem in virtute summum bonum ponunt, praeclare illi quidem, sed haec ipsa virtus amicitiam et gignit et continet, nec sine virtute amicitia esse ullo pacto potest. Iam virtutem ex consuetudine vitae sermonisque nostri interpretemur nec eam, ut quidam docti, verborum magnificentia metiamur virosque bonos eos, qui habentur, numeremus, Paulos, Catones, Galos, Scipiones, Philos; his communis vita contenta est; eos autem omittamus, qui omnino nusquam reperiuntur. Talis igitur inter viros amicitia tantas oportunitates habet, quantas vix queo dicere. Principio qui potest esse vita “vitalis”, ut ait Ennius, quae non in amici mutua benivolentia conquiescit? Quid dulcius quam habere, quicum omnia audeas sic loqui ut tecum? Qui esset tantus fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque ac tu ipse gauderet? Adversas vero ferre difficile esset sine eo, qui illas gravius etiam quam tu ferret. (Cicerone) T 83. Il valore dell’amicizia (I) Denique ceterae res, quae expetuntur, oportunae sunt singulae rebus fere singulis, divitiae, ut utare, opes, ut colare, honores, ut laudere, voluptates, ut gaudeas, valitudo, ut dolore careas et muneribus fungare corporis; amicitia res plurimas continet; quoquo te verteris, praesto est, nullo loco excluditur, numquam intempestiva, numquam molesta est; itaque non aqua, non igni, ut aiunt, locis pluribus utimur quam amicitia. Neque ego nunc de vulgari aut de mediocri, quae tamen ipsa et delectat et prodest, sed de vera et perfecta loquor, qualis eorum, qui pauci nominantur, fuit. Nam et secundas res splendidiores facit amicitia et adversas partiens communicansque leviores. Quomque plurimas et maximas commoditates amicitia contineat, tum illa nimirum praestat omnibus, quod bonam spem praelucet in posterum nec 91 debilitari animos aut cadere patitur. Verum enim amicum qui intuetur, tamquam exemplar aliquod intuetur sui. Quocirca et absentes adsunt et egentes abundant et inbecilli valent et, quod difficilius dictu est, mortui vivunt; tantus eos honos, memoria, desiderium prosequitur amicorum. Ex quo illorum beata mors videtur, horum vita laudabilis. Quodsi exemeris ex rerum natura benivolentiae coniunctionem, nec domus ulla nec urbs stare poterit, ne agri quidem cultus permanebit. Id si minus intellegitur, quanta vis amicitiae concordiaeque sit, ex dissensionibus atque ex discordiis perspici potest. Quae enim domus tam stabilis, quae tam firma civitas est, quae non odiis et discidiis funditus possit everti? Ex quo, quantum boni sit in amicitia, iudicari potest. (Cicerone) T 84. Il valore dell’amicizia (II) Saepissime igitur mihi de amicitia cogitanti maxime illud considerandum videri solet, utrum propter inbecillitatem atque inopiam desiderata sit amicitia, ut dandis recipiendisque meritis quod quisque minus per se ipse posset, id acciperet ab alio vicissimque redderet, an esset hoc quidem proprium amicitiae, sed antiquior et pulchrior et magis a natura ipsa profecta alia causa. Amor enim, ex quo amicitia nominata est, princeps est ad benivolentiam coniungendam. Nam utilitates quidem etiam ab iis percipiuntur saepe, qui simulatione amicitiae coluntur et observantur temporis causa, in amicitia autem nihil fictum est, nihil simulatum et, quidquid est, id est verum et voluntarium. Quapropter a natura mihi videtur potius quam ab indigentia orta amicitia, adplicatione magis animi cum quodam sensu amandi quam cogitatione, quantum illa res utilitatis esset habitura. Quod quidem quale sit, etiam in bestiis quibusdam animadverti potest, quae ex se natos ita amant ad quoddam tempus et ab eis ita amantur, ut facile earum sensus appareat. Quod in homine multo est evidentius, primum ex ea caritate, quae est inter natos et parentes, quae dirimi nisi detestabili scelere non potest; deinde cum similis sensus extitit amoris, si aliquem nacti sumus, cuius cum moribus et natura congruamus, quod in eo quasi lumen aliquod probitatis et virtutis perspicere videamur. (Cicerone) T 85. Proteggere l’amicizia da cattive influenze Nihil tamen aeque oblectaverit animum quam amicitia fidelis et dulcis. Quantum bonum est ubi praeparata sunt pectora in quae tuto secretum omne descendat, quorum conscientiam minus quam tuam timeas, quorum sermo sollicitudinem leniat, sententia consilium expediat, hilaritas tristitiam dissipet, conspectus ipse delectet! Quos scilicet vacuos, quantum fieri poterit, a cupiditatibus eligemus; serpunt enim vitia et in proximum quemque transiliunt et contactu nocent. Itaque ut in pestilentia curandum est ne correptis iam corporibus et morbo flagrantibus adsideamus, quia pericula trahemus 92 adflatuque ipso laborabimus, ita in amicorum legendis ingeniis dabimus operam ut quam minime inquinatos adsumamus: initium morbi est aegris sana miscere. (Seneca) T 86. La sacralità dell’amicizia: Damone e Finzia Damon et Phintias Pythagoricae prudentiae sacris initiati tam fidelem inter se amicitiam iunxerant, ut, cum alterum ex his Dionysius Syracusanus interficere vellet, atque is tempus ab eo, quo prius quam periret domum profectus res suas ordinaret, impetravisset, alter vadem se pro reditu eius tyranno dare non dubitaret. Solutus erat periculo mortis qui modo gladio cervices subiectas habuerat: eidem caput suum subiecerat cui securo vivere licebat. Igitur omnes et in primis Dionysius novae atque ancipitis rei exitum speculabantur. Adpropinquante deinde finita die nec illo redeunte unus quisque stultitiae tam temerarium sponsorem damnabat. At is nihil se de amici constantia metuere praedicabat. Eodem autem momento et hora a Dionysio constituta et eam qui acceperat supervenit. Admiratus amborum animum tyrannus supplicium fidei remisit insuperque eos rogavit ut se in societatem amicitiae tertium sodalicii gradum mutua culturum benivolentia reciperent. Hascine vires amicitiae? Mortis contemptum ingenerare, vitae dulcedinem extinguere, crudelitatem mansuefacere, odium in amorem convertere, poenam beneficio pensare potuerunt. Quibus paene tantum venerationis quantum deorum inmortalium caerimoniis debetur: illis enim publica salus, his privata continetur, atque ut illarum aedes sacra domicilia, harum fida hominum pectora quasi quaedam sancto spiritu referta templa sunt. (Valerio Massimo) T 87. L’amicizia non ha fini utilitaristici Damonem et Phintiam Pythagoreos ferunt hoc animo inter se fuisse, ut, cum eorum alteri Dionysius tyrannus diem necis destinavisset et is, qui morti addictus esset, paucos sibi dies commendandorum suorum causa postulavisset, vas factus est alter eius sistendi, ut si ille non revertisset, moriendum esset ipsi. Qui cum ad diem se recepisset, admiratus eorum fidem tyrannus petivit, ut se ad amicitiam tertium adscriberent. Cum igitur id, quod utile videtur in amicitia, cum eo, quod honestum est, comparatur, iaceat utilitatis species, valeat honestas. Cum autem in amicitia, quae honesta non sunt, postulabuntur, religio et fides anteponatur amicitiae. (Cicerone) 93 Percorso 5 - Il vino, fra sacro e profano Dioniso, Bacco, Libero, Lieo: tanti nomi per celebrare il dio del buonumore, della convivialità, dei balli e dei canti, della passione e dell’amore, il dio dell'uva e del vino, dell'ebbrezza, della perdita della ragione, il dio che esalta lo spirito irrazionale che si fa gioia e allegria del vivere. Dioniso è il dio che provoca il furor, l’«estasi sacra» che, consentendo il contatto diretto con la divinità, costituisce un vero ponte tra l'umano e il divino. E le sue officianti, Menadi o Baccanti, sono donne, che nel rito divino liberano la loro istintività e vitalità primordiale. Frutto miracoloso e nettare prelibato, l'uva e il vino sono un dono divino (T88), di cui l’uomo ha imparato a nutrirsi, coltivando e vendemmiando i preziosi frutti (T89). Nella sua purezza e integrità esso è solo bevanda degli dèi e ad essi l’uomo lo offre nelle libagioni sacre, secondo le regole del rito: fas e nefas non devono mescolarsi tra loro (T90; T91; T92), pena la vita stessa di chi ignora i nefasti presagi (T91). Il vino infatti è il "sangue della terra", dono sacro (fas) e salvifico, ma nel contempo anche proibito (nefas) e (simbolicamente) cruento. Il vino è dono sacrificale anche nella ritualità cristiana. Se nel suo primo miracolo Gesù trasforma l’acqua in vino puro alle nozze di Cana (T94), nell’ultima cena egli lascia in eredità ai suoi discepoli e ai suoi seguaci il pane, simbolo del suo corpo, e il vino, simbolo del suo sangue: un mistero sacro che ogni volta si ripete nella celebrazione dell’Eucarestia (T93). Acqua e vino non devono mescolarsi, ripete scherzosamente un canto goliardico del medioevo (T94), perché il vino è per tutti allegria, convivialità, spensieratezza (T95), anzi, possiede virtù addirittura salvifiche: «Qui bene bibit bene dormit, qui bene dormit non peccat, qui non peccat vadit in caelum, ergo qui bene bibit vadit in caelum!» (da un anonimo monaco tedesco del Medioevo). Nell’osteria tutti bevono il vino, ma le donne romane, nei tempi dell’antica repubblica, non potevano farlo (T96). Il vino puro, temetum e merum, può infatti liberare in loro una sfrenatezza e una licenziosità che, secondo le più radicate regole “maschili” del vivere sociale romano, non si addice ai costumi di una buona moglie. Così la legge non solo concede ai parenti maschi lo ius osculi, «il diritto di bacio», per sentire se la donna ha bevuto vino (T97), ma anche le punisce per tale uso come per l’adulterio; il marito può perfino ucciderle senza incorrere in alcuna condanna, con un’evidente, drammatica discriminazione fra uomo e donna (T96; T97; T98). Ma, a ben guardare, nessuno dovrebbe abusare del vino: da ubriachi si compiono azioni che da sobri non faremmo mai, con conseguenze spesso terribili (T99; T100). Meglio stare lontani dal vino (abs + temetum), dunque, ed essere “astemi”. 94 T 88. Il dio Libero dona il vino agli uomini Liber cum ad Oeneum Parthaonis filium in hospitium venisset, Althaeam Thestii filiam uxorem Oenei adamavit, quod Oeneus ut sensit, voluntate sua ex urbe excessit simulatque se sacra facere. At Liber cum Althaea concubuit, ex qua nata est Deianira, Oeneo autem ob hospitium liberale muneri vitem dedit monstravitque quomodo sereret, fructumque eius ex nomine hospitis ὄινον (leggi: óinon, «vino») ut vocaretur instituit. Cum Liber pater ad homines esset profectus ut suorum fructuum suavitatem atque iucunditatem ostenderet, ad Icarium et Erigonam in hospitium liberale devenit. Iis utrem plenum vini muneri dedit, iussitque ut in reliquas terras propagarent. Icarius plaustro onerato cum Erigone filia et cane Maera in terram Atticam ad pastores devenit et genus suavitatis ostendit. Pastores cum immoderatius biberent ebrii facti conciderunt; qui arbitrantes Icarium sibi malum medicamentum dedisse fustibus eum interfecerunt. (Igino) T 89. Regole per una buona vendemmia In vinetis uva cum erit matura, vindemiam ita fieri oportet, ut videas a quo genere uvarum et a quo loco vineti incipias legere. Nam et praecox et miscella, quam vocant nigram, multo ante coquitur, quo (= perciò) prior legenda, et quae pars arbusti ac vineae magis (est) aprica, prius debet descendere de vite. In vindemia diligentius uva non solum legitur sed etiam eligitur: legitur ad bibendum, eligitur ad edendum. Itaque lecta defertur in forum vinarium, unde in dolium inane veniat; electa in secretam corbulam, unde in ollulas addatur et in dolia plena vinaciorum contrudatur, alia quae in piscinam in amphoram picatam descendat, alia quae in aream in carnarium (= uncino, appenditoio) escendat. Quae calcatae uvae erunt, earum scopi (nom. pl., cfr. scopio, -onis) cum folliculis subiciendi sub prelo (= torchio), ut, siquid reliqui habeant musti, exprimatur in eundem lacum. Cum desiit sub prelo fluere, quidam circumcidunt extrema et rursus premunt et, rursus cum expressum, circumcisicium appellant ac seorsum quod expressum est servant, quod resipit ferrum. Expressi acinorum folliculi in dolia coniciuntur, eoque aqua additur: ea vocatur lora, quod lota acina, ac pro vino operariis datur hieme. (Varrone) 95 T 90. Fas e nefas Enea sta officiando gli onori funebri per il padre Anchise, rite libans (Virgilio, Aen., V 75 sgg.), così versa a terra due tazze di vino puro, due di latte e due di sangue sacro. Ma che cosa significa in questo caso l’avverbio rite? E quali caratteristiche deve avere una vite, perché il vino che se ne ricava per le sacre libagioni non sia nefas? a) Rite = secundum ritum sacrificii, quo exigebatur, ut libaret de mero Baccho, id est puro. (Servio) b) Et quoniam religione vita constat, prolibare diis nefastum habetur vina praeter imputatae - vitis fulmine tactae quamque iuxta hominis mors laqueo pependerit aut vulneratis pedibus calcatae, et quod circumcisis vinaceis profluxerit, aut superne deciduo inmundiore lapsu aliquo polluta, item Graeca, quoniam aquam habeant. (Plinio il Vecchio) T 91. La nefasta libagione di Calcante “Grinio” è il nome di un’antica città della Mesia (regione delle attuali Serbia e Bulgaria), ma anche di un bosco, un tempio e un oracolo consacrati ad Apollo. Secondo una leggenda, il profeta Calcante piantò una vite proprio in quel bosco, per ricavarne vino da libare agli dei, nonostante un áugure gli dicesse che ciò era nefas. Fatta la vendemmia, Calcante era intenzionato ad offrire quel vino agli dei, oltre che a berne egli stesso e ad offrirlo ai suoi ospiti. L’áugure sconsigliò di nuovo quella libagione, ma Calcante lo derise, anzi rise così tanto che rimase senza fiato e morì, facendo cadere a terra il bicchiere con il vino nefasto. Grynei nemoris dicatur origo: Gryneum nemus est in finibus Ioniis, Apollini a Gryno filio consecratum; vel a Grynio, Moesiae civitate, ubi est locus arboribus multis iucundus, gramine floribusque variis omni tempore vestitus, abundans etiam fontibus. Quae civitas nomen accepit a Gryno, Eurypyli filio, qui regnavit in Moesia, qui adversus Troianos Graecis auxilium tulit: Eurypylus namque filius Telephi, Herculis et Auges filii, ex Astyoche, Laomedontis filia, fuit, qui Grynum procreavit. Is cum patris occupasset imperium et bello a finitimis temptaretur, Pergamum, Neoptolemi et Andromaches filium, ad auxilium de Epiro provocavit: a quo defensus, victor duas urbes condidit, unam Pergamum de nomine Pergami, alteram Grynium ex responso Apollinis. In hoc nemore Calchantem vites serentem quidam augur vicinus praeteriens dixit errare: non enim fas esse novum vinum inde gustare. At is opere absoluto vindemiaque facta cum ad cenam vicinos eumque ipsum augurem invitasset, protulit vinum, et cum diis libare in focum vellet, dixit se non solum poturum, sed etiam diis daturum et convivis; cui ille eadem, quae ante, respondit. Ob hoc deridens eum Calchas adeo ridere coepit, ut repente intercluso spiritu poculum abiceret. (Servio) 96 T 92. Come fare un banchetto sacro Dapem (= banchetto sacro, acc. f. sing.) quo modo facias. Dapem hoc modo fieri oportet: Iovi dapali culignam vini quantam vis polluceto; eo die feriae bubus et bubulcis et qui dapem facient. Cum pollucere oportebit, sic facies: «Iupiter dapalis, quod tibi fieri oportet in domo familia mea culignam vini dapi, eius rei ergo macte hac illace dape pollucenda esto.» Manus interluito, postea vinum sumito: «Iupiter dapalis, macte istace dape pollucenda esto, macte vino inferio esto.» Vestae, si voles, dato. Daps Iovi: assaria pecunia, urna vini. Iovi caste profanato sua contagione; postea, dape facta, serito milium, panicum, alium, lentim. (Catone) T 93. Il mistero dell’eucarestia Cenantibus autem eis, accepit Iesus panem et benedixit ac fregit deditque discipulis et ait: «Accipite, comedite: hoc est corpus meum». Et accipiens calicem, gratias egit et dedit illis dicens: «Bibite ex hoc omnes: hic est enim sanguis meus novi testamenti, qui pro multis effunditur in remissionem peccatorum. Dico autem vobis: Non bibam amodo de hoc genimine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobiscum novum in regno Patris mei». (Vulgata) T 94. Separare l’acqua dal vino I Carmina Burana, canti goliardici del Medio Evo, spesso rileggono in chiave parodistica e profana alcuni temi sacri della cristianità. Nel carmen che segue, ad esempio, si dice che Teti, dea del mare e delle acque, e Lieo, epiteto di Bacco, il dio che con il vino “libera dagli affanni”, conservano la loro potenza solo se sono pharisea, «separati». Anche Gesù, si ricorda scherzosamente, tenne ben separate le due bevande, quando, nel suo primo miracolo di Cana, trasformò l’acqua in vino puro per escas architriclini, «banchetto di nozze». In cratere meo Thetis est sociata Lyeo; est dea iuncta deo, sed dea maior eo. Nil valet hic vel ea, nisi cum fuerint pharisea haec duo; propterea sit deus absque dea. Res tam diverse, licet utraque sit bona per se, si sibi perverse coëant, perdunt pariter se. Non reminiscimini, quod ad escas architriclini in cyathis Domini non est coniunx aqua vini? (Carmina Burana) 97 T 95. Inno al vino Nel canto forse più celebre dei Carmina Burana (qui passim) è esaltato il potere e il piacere del vino e la vita spensierata e allegra della taberna, «osteria», dove è possibile dimenticare almeno per un po’ il dolore e la precarietà dell’esistenza umana. In taberna quando sumus non curamus quid sit humus sed ad ludum properamus cui semper insudamus. Quid agatur in taberna ubi nummus est pincerna, hoc est opus ut queratur, si quid loquar, audiatur. Bibit hera, bibit herus, bibit miles, bibit clerus, bibit ille, bibit illa, bibit servus cum ancilla, bibit velox, bibit piger, bibit albus, bibit niger, bibit constans, bibit vagus, bibit rudis, bibit magus. Quidam ludunt, quidam bibunt quidam indiscrete vivunt, sed in ludo qui morantur, ex his quidam denudantur; quidam ibi vestiuntur, quidam saccis induuntur. Ibi nullus timet mortem, sed pro Baccho mittunt sortem. Bibit pauper et egrotus, bibit exul et ignotus, bibit puer, bibit canus, bibit presul et decanus, bibit soror, bibit frater, bibit anus, bibit mater, bibit ista, bibit ille, bibunt centum, bibunt mille. (Carmina Burana) T 96. Le donne non possono bere vino Non licebat id (= vinum) feminis Romae bibere. Invenimus inter exempla Egnati Maetenni uxorem, quod vinum bibisset e dolio, interfectam fusti a marito, eumque caedis a Romulo absolutum. Fabius Pictor in annalibus suis scripsit matronam, quod loculos in quibus erant claves cellae vinariae resignavisset, a suis inedia mori coactam; Cato ideo propinquos feminis osculum dare, ut scirent an temetum olerent. Hoc tum nomen vino erat, unde et temulentia appellata. Cn. Domitius iudex pronuntiavit mulierem videri plus vini bibisse quam valitudinis causa, viro insciente, et dote multavit. (Plinio il Vecchio) T 97. Ius osculi Qui de victu atque cultu populi Romani scripserunt, mulieres Romae atque in Latio aetatem abstemias egisse, hoc est vino semper, quod “temetum” prisca lingua appellabatur, abstinuisse dicunt, institutumque ut cognatis osculum ferrent deprehendendi causa, ut odor indicium faceret, si bibissent. Bibere autem solitas ferunt loream, passum, murrinam et quae id genus sapiant potu 98 dulcia. Atque haec quidem in his, quibus dixi, libris pervulgata sunt; sed Marcus Cato non solum existimatas, set et multatas quoque a iudice mulieres refert non minus, si vinum in se, quam si probrum et adulterium admisissent. (Gellio) T 98. La legge non è uguale per tutti Verba Marci Catonis adscripsi ex oratione, quae inscribitur de dote, in qua id quoque scriptum est in adulterio uxores deprehensas ius fuisse maritis necare: «Vir» inquit, «cum divortium fecit, mulieri iudex pro censore est, imperium, quod videtur, habet, si quid perverse taetreque factum est a muliere; multatur, si vinum bibit; si cum alieno viro probri quid fecit, condemnatur.» De iure autem occidendi ita scriptum: «In adulterio uxorem tuam si prehendisses, sine iudicio inpune necares; illa te, si adulterares sive tu adulterarere, digito non auderet contingere, neque ius est.» (Gellio) T 99. Effetti dell’ubriachezza Dic quam turpe sit plus sibi ingerere quam capiat et stomachi sui non nosse mensuram, quam multa ebrii faciant quibus sobrii erubescant, nihil aliud esse ebrietatem quam voluntariam insaniam. Extende in plures dies illum ebrii habitum: numquid de furore dubitabis? Nunc quoque non est minor sed brevior. Refer Alexandri Macedonis exemplum, qui Clitum carissimum sibi ac fidelissimum inter epulas transfodit et intellecto facinore mori voluit, certe debuit. Omne vitium ebrietas et incendit et detegit, obstantem malis conatibus verecundiam removet; plures enim pudore peccandi quam bona voluntate prohibitis abstinent. Ubi possedit animum nimia vis vini, quidquid mali latebat emergit. Non facit ebrietas vitia sed protrahit: tunc libidinosus ne cubiculum quidem expectat, sed cupiditatibus suis quantum petierunt sine dilatione permittit; tunc inpudicus morbum profitetur ac publicat; tunc petulans non linguam, non manum continet. Crescit insolenti superbia, crudelitas saevo, malignitas livido; omne vitium laxatur et prodit. Adice illam ignorationem sui, dubia et parum explanata verba, incertos oculos, gradum errantem, vertiginem capitis, tecta ipsa mobilia velut aliquo turbine circumagente totam domum, stomachi tormenta cum effervescit merum ac viscera ipsa distendit. Tunc tamen utcumque tolerabile est, dum illi vis sua est: quid cum somno vitiatur et quae ebrietas fuit cruditas facta est? Cogita quas clades ediderit publica ebrietas: haec acerrimas gentes bellicosasque hostibus tradidit, haec multorum annorum pertinaci bello defensa moenia patefecit, haec contumacissimos et iugum recusantes in alienum egit arbitrium, haec invictos acie mero domuit. (Seneca) 99 T 100. L’ubriachezza rende feroci gli uomini M. Antonium, magnum virum et ingeni nobilis, quae alia res perdidit et in externos mores ac vitia non Romana traiecit quam ebrietas nec minor vino Cleopatrae amor? Haec illum res hostem rei publicae, haec hostibus suis inparem reddidit; haec crudelem fecit, cum capita principum civitatis cenanti referrentur, cum inter apparatissimas epulas luxusque regales ora ac manus proscriptorum recognosceret, cum vino gravis sitiret tamen sanguinem. Intolerabile erat quod ebrius fiebat cum haec faceret: quanto intolerabilius quod haec in ipsa ebrietate faciebat! Fere vinolentiam crudelitas sequitur; vitiatur enim exasperaturque sanitas mentis. Quemadmodum morosos difficilesque faciunt diutini morbi et ad minimam rabidos offensionem, ita ebrietates continuae efferant animos; nam cum saepe apud se non sint, consuetudo insaniae durat et vitia vino concepta etiam sine illo valent. (Seneca) 100 La Trama e l’Ordito: Lingue a Confronto Percorso 1 - Il diluvio universale Il tema del diluvio universale è presente nei miti e nei racconti di molti popoli antichi. È presente nella cultura dell’antica Babilonia (T101, in traduzione italiana), nella cultura classica greca (T102; T103 in traduzione inglese) e latina (T104; T105), nella Bibbia (T106) e nel Corano, ma anche nella mitografia dei Maya, degli Incas, degli Aztechi, in Asia, nell’antica India, nella cultura dell'antico Egitto. Tutti questi popoli parlano di una catastrofe planetaria che inondò le terre, inabissò i continenti e distrusse la civiltà dell’uomo. Gli studiosi hanno contato più di 500 versioni di questo racconto, tutte accomunate da uno schema sostanzialmente identico: a) il diluvio, scatenato da una volontà divina, è la punizione inflitta a tutto il genere umano, macchiatosi di una qualche colpa non sempre ben precisata; b) la distruzione annunciata non si realizza completamente grazie all’intervento della divinità stessa; c) un uomo e una donna, pii e devoti, si salvano e possono perpetuare il genere umano; d) il mezzo che consente la salvezza è una grande barca o arca. Oggi si ritiene che la storia del diluvio universale non appartenga solo alla mitografia sacro-simbolica dei popoli antichi, è vero piuttosto il contrario: grazie al mito gli antichi hanno trasmesso ai posteri i segni, immaginifici e favolosi, di un terribile e devastante fenomeno naturale, che ha rischiato di cancellare gli uomini dalla faccia della terra. Ma abbiamo imparato la lezione? T 101. Gilgamesh e il diluvio L’ “Epopea di Gilgamesh” (XIII-XII secolo a.C.) è un poema epico babilonese in 12 capitoli, detti “tavole”, scritto su tavolette d’argilla in caratteri cuneiformi. Re crudele e dispotico di Uruk, Gilgamesh affronta mille avventure alla ricerca impossibile dell’immortalità: alla fine del faticoso cammino otterrà però il prezioso premio della conoscenza. Nel suo lungo viaggio egli incontra numerosi personaggi, tra cui l’antenato Utanapishtim, che è diventato immortale per dono degli dei. Egli racconta di essere sopravvissuto al diluvio grazie ad una grande barca nella quale ha fatto entrare la sua famiglia, il suo bestiame e molti animali selvatici e di essere poi approdato sul monte Nisir. Una sorta di antichissimo Noè, insomma. Utanapishtim parlò a lui, a Gilgamesh: «Una cosa nascosta, Gilgamesh, ti voglio rivelare, 101 e il segreto degli dei ti voglio manifestare. Shuruppak - una città che tu conosci, che sorge sulle rive dell’Eufrate questa città era già vecchia e gli dei abitavano in essa. Bramò il cuore dei grandi dei di mandare il diluvio. Prestarono il giuramento il loro padre An, Enlil, l’eroe, che li consiglia, Ninurta, il loro maggiordomo, Ennugi, il loro controllore di canali; Ninshiku-Ea aveva giurato con loro. Le loro intenzioni [quest’ultimo] però le rivelò ad una capanna: "Capanna, capanna! Parete, parete! Capanna ascolta; parete, comprendi! Uomo di Shuruppak, figlio di Ubartutu, abbatti la tua casa, costruisci una nave, abbandona la ricchezza, cerca la vita! Disdegna i possedimenti, salva la vita! Fai salire sulla nave tutte le specie viventi! La nave che tu devi costruire le sue misure prendi attentamente, eguali siano la sua lunghezza e la sua larghezza; tu la devi ricoprire come l’Apsu." Io compresi e così parlai al mio signore Ea: "L'ordine mio Signore, che tu mi hai dato, l'ho preso sul serio e lo voglio eseguire. Che cosa dico però alla città, agli artigiani e agli anziani?" Ea aprì la sua bocca, così parlò a me il suo servo: "Tu, o uomo, devi parlare loro così: “Mi sembra che Enlil sia adirato con me; perciò non posso vivere più nella vostra città, non posso più porre piede sul territorio di Ea. Per questo voglio scendere giù nell'Apsu, e là abitare con il mio signore Ea. Su di voi però Enlil farà piovere abbondanza, abbondanza di uccelli, abbondanza di pesci. Egli vi regalerà ricchezza e raccolto. Al mattino egli farà scendere su di voi focacce, di sera egli vi farà piovere una pioggia di grano". Appena spuntò l'alba, dall'orizzonte salì una nuvola nera. Adad all'interno di essa tuonava continuamente, davanti ad essa andavano Shullat e Canish; 102 i ministri percorrevano monti e pianure. Il mio palo d'ormeggio strappò allora Erragal. Va Ninurta, le chiuse d'acqua abbatte. Gli Anunnaki sollevano fiaccole, con la loro luce terribile infiammano il paese. Il mortale silenzio di Adad avanza nel cielo, in tenebra tramuta ogni cosa splendente. Il paese come un vaso egli ha spezzato. Per un giorno intero la tempesta infuriò, il vento del sud si affrettò per immergere le montagne nell'acqua: come un'arma di battaglia la distruzione si abbatte sugli uomini. A causa del buio il fratello non vede più suo fratello, dal cielo gli uomini non sono più visibili. Gli dei ebbero paura del diluvio, indietreggiarono, si rifugiarono nel cielo di An. Gli dei accucciati come cani si sdraiarono là fuori! Ishtar grida allora come una partoriente, si lamentò Beletil, colei dalla bella voce: “Perché quel giorno non si tramutò in argilla, quando io nell'assemblea degli dei ho deciso il male? Perché nell'assemblea degli dei ho deciso il male, dando, come in guerra, l'ordine di distruggere le mie genti? Io proprio io ho partorito le mie genti ed ora i miei figli riempiono il mare come larve di pesci”. Allora tutti gli dei Anunnaki piansero con lei. Gli dei siedono in pianto. Secche sono le loro labbra; non prendono cibo! Sei giorni e sette notti soffia il vento, infuria il diluvio, l'uragano livella il paese. Quando giunse il settimo giorno, la tempesta, il diluvio cessa la battaglia, dopo aver lottato come una donna in doglie. Si fermò il mare, il vento cattivo cessò e il diluvio si fermò. Io osservo il giorno, vi regna il silenzio. Ma l'intera umanità è ridiventata argilla. Come un tetto è pareggiato il paese. Aprii allora lo sportello e la luce baciò la mia faccia. Mi abbassai, mi inginocchiai e piansi. Sulle mie guance scorrevano due fiumi di lacrime. Scrutai la distesa delle acque alla ricerca di una riva: finché ad una distanza di dodici leghe non scorsi un'isola. La nave si incagliò sul monte Nisir. 103 Il monte Nisir prese la nave e non la fece più muovere; un giorno, due giorni, il monte Nisir prese la nave e non la fece più muovere; tre giorni, quattro giorni, il monte Nisir prese la nave e non la fece più muovere; cinque giorni, sei giorni, il monte Nisir prese la nave e non la fece più muovere. Quando giunse il settimo giorno, feci uscire una colomba, la liberai. La colomba andò e ritornò, un luogo dove stare non era visibile per lei, tornò indietro. Feci uscire una rondine, la liberai; andò la rondine e ritornò, un luogo dove stare non era visibile per lei, tornò indietro. Feci uscire un corvo, lo liberai. Andò il corvo e questo vide che l'acqua ormai rifluiva, egli mangiò, starnazzò, sollevò la coda e non tornò. Feci allora uscire ai quattro venti tutti gli occupanti della nave e feci un sacrificio. Posi l'offerta sulla cima di un monte. Sette e sette vasi vi collocai: in essi versai canna, cedro e mirto. Gli dei odorarono il profumo. Gli dei odorarono il buon profumo. Gli dei si raccolsero come mosche attorno all'offerente. Dopo che Beletil fu arrivata innalzò in alto le sue grandi mosche [= lapislazzuli] che An aveva fatto per la sua gioia: “Voi, o dei (fate sì) che io non dimentichi i lapislazzuli del mio collo! che io ricordi sempre questi giorni e non li dimentichi mai! Gli dei vengano all'offerta, ma Enlil non venga all'offerta, perché egli ha ordinato avventatamente il diluvio, destinando le mie genti alla rovina!” Dopo che Enlil fu arrivato, vide la nave e si infuriò, d'ira si riempì il suo cuore verso gli dei Igigi: “Qualcuno si è salvato? Eppure nessun uomo doveva sopravvivere alla distruzione”. Ninurta aprì la sua bocca e disse, così parlò ad Enlil l'eroe: “Chi può aver escogitato ciò se non Ea? Solo Ea conosce tutti i sotterfugi!” Ea aprì allora la sua bocca e parlò ad Enlil, l'eroe: 104 "O eroe, tu il più saggio fra gli dei, come, come hai potuto agire così sconsideratamente, ordinando il diluvio? Al colpevole imponi la sua pena, a colui che commette un delitto imponi la sua pena, flettilo, ma non venga stroncato; tiralo, ma non sia spezzato! Piuttosto che mandare il diluvio, sarebbe stato meglio che un leone fosse venuto e avesse fatto diminuire le genti! Piuttosto che mandare il diluvio, sarebbe stato meglio che un lupo fosse venuto e avesse fatto diminuire le genti! Piuttosto che mandare il diluvio, sarebbe stato meglio che una carestia si fosse abbattuta sul paese e lo avesse decimato! Piuttosto che mandare il diluvio, sarebbe stato meglio che la peste si fosse abbattuta sulle genti e le avesse decimate! Per quanto mi riguarda, io non ho tradito il segreto dei grandi dei! Ho fatto avere soltanto un sogno ad Atramkhasis, al saggio per eccellenza! Così egli comprese il segreto dei grandi dei! Ora però prendi per lui una decisione”. Enlil salì allora sulla nave, prese la mia mano e mi fece alzare, prese mia moglie e la fece inginocchiare al mio fianco. Toccò la nostra fronte e stando in mezzo a noi ci benedisse: “Prima Utanapishtim era uomo, ora Utanapishtim e sua moglie siano simili a noi dei. Risieda Utanapishtim lontano, alla foce dei fiumi”. Essi allora mi presero e mi fecero abitare lontano, alla foce dei fiumi. […]» (Sinleqiunnini) Un tempo Zeus stabilì di distruggere il genere umano, “la stirpe (dell’età) del bronzo”, scatenando un grande diluvio sulla terra, ma volle risparmiare due sposi virtuosi e devoti: il figlio di Prometeo e di Pandora, Deucalione, re della Tessaglia, e sua moglie Pirra. Costruita un'arca su consiglio di Prometeo, i due navigarono per 9 giorni e 9 notti, poi approdarono sul monte Parnaso e furono salvi. Zeus, per premiare la loro virtù, decise di esaudire un loro desiderio e Deucalione chiese che la terra fosse ripopolata dagli uomini. Zeus ordinò allora ai due sposi di gettare delle pietre al di sopra della loro testa: le pietre gettate da Deucalione divennero uomini, le pietre gettate da Pirra divennero donne e il mondo si ripopolò. 105 (Pseudo Apollodoro) T 103. Deucalion and Pyrrha And Prometheus had a son Deucalion. He reigning in the regions about Phthia, married Pyrrha, the daughter of Epimetheus and Pandora, the first woman fashioned by the gods. And when Zeus woulddestroy the men of the Bronze Age, Deucalion by the advice of Prometheus constructed a chest, and having stored it with provisions he embarked in it with Pyrrha. But Zeus by pouring heavy rain from heaven flooded the greater part of Greece, so that all men were destroyed, except a few who fled to the high mountains in the neighborhood. It was then that the mountains in Thessaly parted, and that all the world outside the Isthmus and Peloponnese was overwhelmed. But Deucalion, floating in the chest over the sea for nine days and as many nights, drifted to Parnassus, and there, when the rain ceased, he landed and sacrificed to Zeus, the god of Escape. And Zeus sent Hermes to him and allowed him to choose what he would, and he chose to get men. And at the bidding of Zeus he took up stones and threw them over his head, and the stones which Deucalion threw became men, and the stones which Pyrrha threw became women. Hence people were called metaphorically people “laos” from laas, “a stone.” (Apollodoro, trad. J. G. Fraser) T 104. Fetonte, Deucalione e Pirra Igino, autore romano del I sec. a.C., narra il mito greco di Deucalione e Pirra introducendovi alcune varianti. Phaethon Solis et Clymenes filius cum clam patris currum conscendisset et altius a terra esset elatus, prae timore decidit in flumen Eridanum. Hunc Iuppiter cum fulmine percussisset, omnia ardere coeperunt. Iovis ut omne genus mortalium cum causa interficeret, simulavit id velle extinguere; amnes undique irrigavit omneque genus mortalium interiit praeter Pyrrham et Deucalionem. At sorores Phaethontis, quod equos iniussu patris iunxerant, in arbores populos commutatae sunt. Cataclysmus, quod nos diluvium vel 106 irrigationem dicimus, cum factum est, omne genus humanum interiit praeter Deucalionem et Pyrrham, qui in montem Aetnam, qui altissimus in Sicilia esse dicitur, fugerunt. Hi propter solitudinem cum vivere non possent, petierunt ab Iove ut aut homines daret aut eos pari calamitate afficeret. Tum Iovis iussit eos lapides post se iactare; quos Deucalion iactavit, viros esse iussit, quos Pyrrha, mulieres. Ob eam rem “laos” dictus, “laas” enim Graece lapis dicitur. (Igino) T 105. La terribile ira di Giove Anche il poeta latino Ovidio (I sec. a.C - I sec. d.C.) racconta la storia del diluvio inserendovi delle varianti (del passo, ampio e articolato, riportiamo alcuni versi che riguardano la disastrosa inondazione). Giove, adirato per il malvagio comportamento degli uomini, decise di annientare il genere umano scatenandogli contro la furia delle acque del cielo e della terra. Solo Deucalione e Pirra poterono salvarsi. Poiché essi chiesero a Giove che il mondo fosse ripopolato, l’oracolo della dea Temi, a Delfi, ordinò loro di velarsi il capo e di lanciare dietro le spalle "le ossa della grande madre" (velate caput… / ossaque post tergum magnae iactate parentis). Quando Deucalione e Pirra capirono che le parole dell'oracolo si riferivano alle pietre (“ossa” simboliche di Gea, la Grande Madre Terra), fecero quanto ordinato dall’oracolo: le pietre gettate da Deucalione presero forma di uomini, mentre quelle gettate da Pirra presero forma di donne. Poena placet diversa, genus mortale sub undis perdere et ex omni nimbos demittere caelo. […] Nec caelo contenta suo est Iovis ira, sed illum caeruleus frater iuvat auxiliaribus undis. Convocat hic amnes: qui postquam tecta tyranni intravere sui, «Non est hortamine longo nunc» ait «utendum; vires effundite vestras: sic opus est! Aperite domos ac mole remota fluminibus vestris totas inmittite habenas!» Iusserat; hi redeunt ac fontibus ora relaxant et defrenato volvuntur in aequora cursu. Ipse tridente suo terram percussit, at illa intremuit motuque vias patefecit aquarum. Exspatiata ruunt per apertos flumina campos cumque satis arbusta simul pecudesque virosque tectaque cumque suis rapiunt penetralia sacris. Si qua domus mansit potuitque resistere tanto indeiecta malo, culmen tamen altior huius unda tegit, pressaeque latent sub gurgite turres. Iamque mare et tellus nullum discrimen habebant: omnia pontus erat, deerant quoque litora ponto. […] Obruerat tumulos inmensa licentia ponti, 107 pulsabantque novi montana cacumina fluctus. Maxima pars unda rapitur; quibus unda pepercit, illos longa domant inopi ieiunia victu. (Ovidio) T 106. Noè e il diluvio Dio, vedendo la malvagità e la corruzione dell’uomo, si pentì di averlo creato e volle cancellarlo dalla faccia della terra, mandando il diluvio sulla terra. Volle però salvare l’integerrimo Noè, perciò gli ordinò di costruire una grande arca di legno, dove egli trovò rifugio insieme a sua moglie, i suoi tre figli Sem, Cam e Iafet con le loro mogli, oltre ad una coppia di ciascuna specie di animali. L’orribile diluvio si scatenò con violenza per 40 giorni e 40 notti, poi, quando le acque cominciarono a ritirarsi, l’arca si arenò sul monte Ararat e Noè uscì alla nuova vita. Era giunto il tempo della nuova alleanza tra Dio e gli uomini: mai più, Egli promise a se stesso, avrebbe cercato di distruggere gli esseri viventi della terra. Videns autem Dominus quod multa malitia hominum esset in terra, et cuncta cogitatio cordis eorum non intenta esset nisi ad malum omni tempore, paenituit Dominum quod hominem fecisset in terra. Et tactus dolore cordis intrinsecus: «Delebo, inquit, hominem, quem creavi, a facie terrae, ab homine usque ad pecus, usque ad reptile et usque ad volucres caeli; paenitet enim me fecisse eos». Noe vero invenit gratiam coram Domino. Hae sunt generationes Noe: Noe vir iustus atque perfectus fuit in generatione sua; cum Deo ambulavit. Et genuit tres filios: Sem, Cham et Iapheth. Corrupta est autem terra coram Deo et repleta est iniquitate. Cumque vidisset Deus terram esse corruptam - omnis quippe caro corruperat viam suam super terram - dixit ad Noe: «Finis universae carnis venit coram me; repleta est enim terra iniquitate a facie eorum, et ecce ego disperdam eos de terra. Fac tibi arcam de lignis cupressinis; mansiunculas in arca facies et bitumine linies eam intrinsecus et extrinsecus. Et sic facies eam: trecentorum cubitorum erit longitudo arcae, quinquaginta cubitorum latitudo et triginta cubitorum altitudo illius. Fenestram in arca facies et cubito consummabis summitatem eius. Ostium autem arcae pones ex latere; tabulatum inferius, medium et superius facies in ea. Ecce ego adducam diluvii aquas super terram, ut interficiam omnem carnem, in qua spiritus vitae est subter caelum: universa, quae in terra sunt, consumentur. Ponamque foedus meum tecum; et ingredieris arcam tu et filii tui, uxor tua et uxores filiorum tuorum tecum. Et ex cunctis animantibus universae carnis bina induces in arcam, ut vivant tecum, masculini sexus et feminini. De volucribus iuxta genus suum et de iumentis in genere suo et ex omni reptili terrae secundum genus suum: bina de omnibus ingredientur ad te, ut possint vivere. Tu autem tolle tecum ex omnibus escis, quae mandi possunt, et comportabis apud te; et erunt tam tibi quam illis in cibum». Fecit ergo Noe omnia, quae praeceperat illi Deus; sic fecit. Dixitque Dominus ad Noe: «Ingredere tu et omnis domus tua arcam; te enim vidi iustum coram me in generatione hac. Ex omnibus pecoribus mundis tolle septena septena, masculum et feminam; de pecoribus vero non mundis duo duo, masculum et feminam. Sed et de volatilibus caeli septena septena, masculum et feminam, ut salvetur semen super faciem universae terrae. Adhuc enim et post dies septem ego 108 pluam super terram quadraginta diebus et quadraginta noctibus et delebo omnem substantiam, quam feci, de superficie terrae». Fecit ergo Noe omnia, quae mandaverat ei Dominus. Eratque Noe sescentorum annorum, quando diluvii aquae inundaverunt super terram. Et ingressus est Noe et filii eius, uxor eius et uxores filiorum eius cum eo in arcam propter aquas diluvii. De pecoribus mundis et immundis et de volucribus et ex omni, quod movetur super terram, duo et duo ingressa sunt ad Noe in arcam, masculus et femina, sicut praeceperat Deus Noe. Cumque transissent septem dies, aquae diluvii inundaverunt super terram. Anno sescentesimo vitae Noe, mense secundo, septimo decimo die mensis rupti sunt omnes fontes abyssi magnae, et cataractae caeli apertae sunt; et facta est pluvia super terram quadraginta diebus et quadraginta noctibus. In articulo diei illius ingressus est Noe et Sem et Cham et Iapheth filii eius, uxor illius et tres uxores filiorum eius cum eis in arcam. Ipsi et omne animal secundum genus suum, universaque iumenta in genere suo, et omne reptile, quod movetur super terram in genere suo, cunctumque volatile secundum genus suum, universae aves omnesque volucres ingressae sunt ad Noe in arcam, bina et bina ex omni carne, in qua erat spiritus vitae. Et quae ingressa sunt, masculus et femina ex omni carne introierunt, sicut praeceperat ei Deus; et inclusit eum Dominus de foris. Factumque est diluvium quadraginta diebus super terram, et multiplicatae sunt aquae et elevaverunt arcam in sublime a terra. Vehementer enim inundaverunt et omnia repleverunt in superficie terrae; porro arca ferebatur super aquas. Et aquae praevaluerunt nimis super terram, opertique sunt omnes montes excelsi sub universo caelo. Quindecim cubitis altior fuit aqua super montes, quos operuerat. Consumptaque est omnis caro, quae movebatur super terram, volucrum, pecorum, bestiarum omniumque reptilium, quae reptant super terram, et universi homines: cuncta, in quibus spiraculum vitae in terra, mortua sunt. Et delevit omnem substantiam, quae erat super terram, ab homine usque ad pecus, usque ad reptile et usque ad volucres caeli; et deleta sunt de terra. Remansit autem solus Noe et qui cum eo erant in arca. Obtinueruntque aquae terram centum quinquaginta diebus. Recordatus autem Deus Noe cunctorumque animantium et omnium iumentorum, quae erant cum eo in arca, adduxit spiritum super terram, et imminutae sunt aquae. Et clausi sunt fontes abyssi et cataractae caeli, et prohibitae sunt pluviae de caelo. Reversaeque sunt aquae de terra euntes et redeuntes et coeperunt minui post centum quinquaginta dies. Requievitque arca mense septimo, decima septima die mensis super montes Ararat. At vero aquae ibant et decrescebant usque ad decimum mensem; decimo enim mense, prima die mensis, apparuerunt cacumina montium. Cumque transissent quadraginta dies, aperiens Noe fenestram arcae, quam fecerat, dimisit corvum; qui egrediebatur exiens et rediens, donec siccarentur aquae super terram. Emisit quoque columbam a se, ut videret si iam cessassent aquae super faciem terrae. Quae, cum non invenisset, ubi requiesceret pes eius, reversa est ad eum in arcam; aquae enim erant super universam terram. Extenditque manum et apprehensam intulit in arcam. Exspectatis autem ultra septem diebus aliis, rursum dimisit columbam ex arca. At illa venit ad eum ad vesperam portans ramum olivae virentibus foliis in ore suo. Intellexit ergo Noe quod cessassent aquae super terram. Exspectavitque nihilominus septem alios dies; et emisit columbam, quae non est reversa ultra ad eum. Igitur sescentesimo primo anno, 109 primo mense, prima die mensis, siccatae sunt aquae super terram; et aperiens Noe tectum arcae, et ecce aspexit viditque quod exsiccata erat superficies terrae. Mense secundo, septima et vicesima die mensis, arefacta est terra. Locutus est autem Deus ad Noe dicens: «Egredere de arca tu et uxor tua, filii tui et uxores filiorum tuorum tecum. Cuncta animantia, quae sunt apud te ex omni carne, tam in volatilibus quam in pecoribus et in universis reptilibus, quae reptant super terram, educ tecum, ut pullulent super terram et crescant et multiplicentur super eam». Egressus est ergo Noe et filii eius, uxor illius et uxores filiorum eius cum eo. Sed et omnia animantia, iumenta, volatilia et reptilia, quae reptant super terram, secundum genus suum egressa sunt de arca. Aedificavit autem Noe altare Domino; et tollens de cunctis pecoribus mundis et volucribus mundis obtulit holocausta super altare. Odoratusque est Dominus odorem suavitatis et locutus est Dominus ad cor suum: «Nequaquam ultra maledicam terrae propter homines, quia cogitatio humani cordis in malum prona est ab adulescentia sua. Non igitur ultra percutiam omnem animam viventem, sicut feci. Cunctis diebus terrae, sementis et messis, frigus et aestus, aestas et hiems, dies et nox non requiescent». (Vulgata) 110 Percorso 2 - Animali parlanti Chi non conosce le favole della volpe e l’uva (T107; T108; T109; T110), del lupo e dell’agnello (T111; T112; T113; T114; T115; T116; T117; T118), od ancora della cicala e della formica (T119; T120; T121; T122)? Redatte in lingue e forme diverse, esse si sono diffuse in molteplici varianti, che nel tempo e nello spazio hanno dato la parola ad animali antropomorfizzati. Ma che cosa sono le “favole”? Dal latino fabula, verbo fari, «dire, raccontare», le favole sono dei brevi “racconti”, in prosa o in versi, i cui protagonisti sono per lo più animali che parlano e agiscono come uomini. In tal modo i vezzi, i vizi, più raramente le virtù dell’uomo assumono contorni “favolosi”, ma non per questo meno realistici. Alla fine della favola (talvolta in apertura) si trova la “morale” del racconto, che svolge una palese funzione educativa e formativa. Genere letterario di grande successo, in esso si sono misurati autori di tutti i tempi: impossibile citarli tutti quanti. Tra i più famosi, Esopo (VI sec. a.C., mondo greco); Fedro (I sec. d.C., mondo latino); Romulus (IX sec., età medioevale; egli traduce in prosa latina le favole di Esopo); Jean de La Fontaine (1621-1695; egli riscrive in versi favole di Esopo, di Fedro e quelle appartenenti alla tradizione medioevale); Giovanni Grisostomo Trombelli (1697-1784; storico e letterato bolognese, canonico e bibliotecario di SS. Salvatore, egli traduce in italiano molte favole di Fedro); Trilussa (pseudonimo di Carlo Alberto Salustri, 1871-1950; poeta dialettale, è autore di numerose favole scritte in romanesco, che si ispirano spesso alla favolistica di Esopo); Gianni Rodari (1920-1980; noto pedagogista specializzato in scrittura per ragazzi, in particolare le favole, è autore di testi che sono stati tradotti in tutto il mondo). Traducono o reinterpretano le favole antiche scrittori moderni come Emilio De Marchi (1851-1901) e Carlo Emilio Gadda (1893-1973), oppure studiosi come il germanista Helmut Arntzen (nato nel 1931, è autore, tra l’altro, di una ricca saggistica sulle favole), ma anche scrittori come George Orwell (1903-1950): emblematica in questo senso la frase con cui si chiude “La fattoria degli animali” (1945): “…le creature di fuori guardavano dal maiale all'uomo, dall'uomo al maiale e ancora dal maiale all'uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due.” Insomma, il cammino della favola non sembra avere fine: cambiano i comportamenti dell’uomo, cambia la sua morale, ma la favola lo segue come un’ombra. 111 T 107. Ἀλώπηξ καὶ βότρυς (Esopo) T 108. De vulpe et uva Fame coacta vulpes alta in vinea uvam appetebat summis saliens viribus; quam tangere ut non potuit, discedens ait: «Nondum matura est; nolo acerbam sumere». Qui facere quae non possunt verbis elevant, ascribere hoc debebunt exemplum sibi. (Fedro) T 109. Le renard et les raisins Certain renard gascon, d'autres disent normand, Mourant presque de faim, vit au haut d'une treille Des raisins mûrs apparemment, Et couverts d'une peau vermeille. Le galand en eût fait volontiers un repas; Mais comme il n'y pouvait atteindre: «Ils sont trop verts, dit-il, et bons pour des goujats.» Fit-il pas mieux que de se plaindre? (Jean de La Fontaine) T 110. Alla volpe Questo è quel pergolato e questa è quell’uva che la volpe della favola giudicò poco matura perché stava troppo in alto. Fate un salto, fatene un altro. 112 Se non ci arrivate riprovate domattina, vedrete che ogni giorno un poco si avvicina il dolce frutto; l’allenamento è tutto. (G. Rodari) T 111. Λύκος καὶ ἀρήν (Esopo) T 112. Lupus et agnus Ad rivum eundem lupus et agnus venerant siti compulsi; superior stabat lupus longeque inferior agnus. Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit. «Cur», inquit, «turbulentam fecisti mihi aquam bibenti?» Laniger contra timens: «Qui possum, quaeso, facere quod quereris, lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor.» Repulsus ille veritatis viribus: «Ante hos sex menses male» ait «dixisti mihi.» Respondit agnus: «Equidem natus non eram.» «Pater hercle tuus» ille inquit, «maledixit mihi.» Atque ita correptum lacerat iniusta nece. Haec popter illos scripta est homines fabula, qui fictis causis innocentes opprimunt. (Fedro) 113 T 113. Il Lupo e l’Agnello A un rio medesimo, da la sete spinti, L'Agnello e 'l Lupo eran venuti. Il Lupo Al fonte più vicin; da lunge assai, Bevea l'Agnello; allor che ingorda fame Punse il ladron a ricercar tal rissa. Perchè l'acqua, a lui dice, osi turbarmi? L'Agnel tremante: intorbidar poss'io L'onda, che dal tuo labbro al mio trascorre? Quegli vinto dal ver: ma tu soggiugne, Fin da sei mesi con acerbi motti M'oltraggiasti: io non era allora nato, L'Agnel risponde: affè, riprende il Lupo, Che villania il padre tuo mi disse. Così l'addenta, e ne fa ingiusto scempio. La favoletta per coloro è scritta, Che con falsi pretesti i buoni opprimono. (Fedro, trad. C. G. Trombelli) T 114. Le loup et l'agneau La raison du plus fort est toujours la meilleure: Nous l'allons montrer tout à l'heure. Un agneau se désaltérait Dans le courant d'une onde pure. Un loup survient à jeun, qui cherchait aventure, Et que la faim en ces lieux attirait. - Qui te rend si hardi de troubler mon breuvage? Dit cet animal plein de rage Tu seras châtié de ta témérité. - Sire, répond l'Agneau, que Votre Majesté Ne se mette pas en colère; Mais plutôt qu'elle considère Que je me vas désaltérant Dans le courant, Plus de vingt pas au-dessous d'Elle; Et que par conséquent, en aucune façon, Je ne puis troubler sa boisson. - Tu la troubles, reprit cette bête cruelle, Et je sais que de moi tu médis l'an passé. - Comment l'aurais-je fait si je n'étais pas né? 114 Reprit l'agneau - je tète encor ma mère. - Si ce n'est toi, c'est donc ton frère. - Je n'en ai point. - C'est donc quelqu'un des tiens; Car vous ne m'épargnez guère, Vous, vos bergers, et vos chiens. On me l'a dit: il faut que je me venge. Là-dessus, au fond des forêts Le loup l'emporte, et puis le mange, Sans autre forme de procès. (Jean de La Fontaine) T 115. Il lupo e l’agnello La favola che segue è una lezione che il forte ha sempre la miglior ragione. Un dì nell'acqua chiara d'un ruscello bevea cheto un agnello, quand'ecco sbuca un lupo maledetto, che non mangiava forse da tre dì, che pien di rabbia grida: «E chi ti ha detto d'intorbidar la fonte mia così? Aspetta, temerario!» «Maestà a lui risponde il povero innocente, s'ella guarda, di subito vedrà ch'io mi bagno più sotto la sorgente d'un tratto, e che non posso l'acque chiare della regal sua fonte intorbidare.» «Io dico che l'intorbidi - arrabbiato risponde il lupo digrignando i denti e già l'anno passato hai sparlato di me.» «Non si può dire, perché non ero nato; ancora io succhio la mammella, o Sire.» «Ebbene sarà stato un tuo fratello.» «E come, Maestà? Non ho fratelli, il giuro in verità.» «Queste son ciarle. È sempre uno di voi che mi fa sfregio, è un pezzo che lo so. Di voi, dei vostri cani e dei pastori vendetta piglierò.» Così dicendo, in mezzo alla foresta portato il meschinello senza processo fecegli la festa. (Jean de La Fontaine, trad. E. De Marchi) 115 T 116. L’Agnello infurbito Un Lupo che beveva in un ruscello vidde, dall'antra parte de la riva, l'immancabbile Agnello. - Perché nun venghi qui? - je chiese er Lupo L'acqua, in quer punto, è torbida e cattiva e un porco ce fa spesso er semicupio. Da me, che nun ce bazzica er bestiame, er ruscelletto è limpido e pulito... L'Agnello disse: - Accetterò l'invito quanno avrò sete e tu nun avrai fame. (Trilussa) T 117. Il lupo e l’agnello Il lupo giunse al ruscello. Allora l’agnello saltò via. «Resta pure, non mi disturbi» gridò il lupo. «Grazie» replicò l’agnello «ho letto Esopo». (H. Arntzen) T 118. L’agnello di Persia L’agnello di Persia incontrò una gentildonna lombarda, che prese a rimirarlo con l’occhialino. «Fedro, Fedro», belava miseramente l’agnello, «prestami il tuo lupo!» (C.E. Gadda) (Esopo) T 120. La cigale et la fourmi La cigale, ayant chanté Tout l'été, Se trouva fort dépourvue Quand la bise fut venue: 116 Pas un seul petit morceau De mouche ou de vermisseau. Elle alla crier famine Chez la fourmi sa voisine, La priant de lui prêter Quelque grain pour subsister Jusqu'à la saison nouvelle. - Je vous paierai, lui dit-elle, Avant l'août, foi d'animal, Intérêt et principal. La Fourmi n'est pas prêteuse: C'est là son moindre défaut. - Que faisiez-vous au temps chaud? Dit-elle à cette emprunteuse. - Nuit et jour à tout venant Je chantais, ne vous déplaise. - Vous chantiez? j'en suis fort aise: Eh bien! dansez maintenant. (Jean de La Fontaine) T 121. Alla formica Chiedo scusa alla favola antica, se non mi piace l’avara formica. Io sto dalla parte della cicala che il più bel canto non vende, regala. (G. Rodari) T 122. Rivoluzione Ho visto una formica, in un giorno freddo e triste, donare alla cicala metà delle sue provviste. Tutto cambia: le nuvole, le favole, le persone… la formica si fa generosa… è una rivoluzione! (G. Rodari) 117 Percorso 3 - La metamorfosi La metamorfosi indica una “mutamento di forma”, che può essere di natura fisica, ma anche morale o caratteriale: riguarda infatti le cose (si pensi al metamorfismo dei minerali), gli animali (la farfalla e la rana, ad esempio, attraversano stadi diversi prima di raggiungere la forma adulta) e, in senso figurato, gli uomini, che nel tempo mutano l’aspetto esteriore, ma anche atteggiamenti, comportamenti, idee, valori. Storie di creature capaci di mutare forma vivono da sempre nel folklore popolare (la figura dell’uomo-lupo o del vampiro, per esempio, sono ideazioni antichissime); ne è ricco anche il mondo della mitologia, a cominciare da Zeus, che non esita a servirsi del suo illimitato repertorio metamorfico per sedurre le fanciulle mortali. Storie di metamorfosi si trovano nella letteratura, dai poemi epici classici ai romanzi più moderni. Nel canto X dell’Odissea Circe trasforma i compagni di Ulisse in porci e nel canto III dell’Eneide Enea, approdato in Tracia, vede stillare gocce di sangue da un rametto spezzato: si tratta di suo cugino Polidoro, trasformato in un arbusto spinoso. Nella “Divina Commedia” di Dante quasi non si contano gli episodi di metamorfosi. Ne “Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde”(1886) R.L. Stevenson disegna per il protagonista due diversi aspetti esteriori per due diverse personalità. Nella “Metamorfosi” (1915) di F. Kafka il protagonista Gregor Samsa una mattina si risveglia trasformato in un mostruoso, enorme scarafaggio. Nella cinematografia il reportorio è vastissimo: citiamo solo un classico di J. Carpenter, “La cosa” (1982), un alieno in continua metamorfosi, capace di assumere qualunque forma. In molti casi, tuttavia, il mondo del meravigioso e del fantastico sotteso all’evento metamorfico non impedisce alle creature “mutate” o “raddoppiate” di restare vincolate al mondo del reale. Così ne “Le Metamorfosi” (ca. 158 d.C.) di Apuleio la mutazione in asino del protagonista Lucio (T123) ha una chiara funzione allegorica: essa marca nel fisico la degradazione morale dell’uomo che, macchiatosi di colpa, deve riscattarsi attraverso un percorso faticoso e sofferto; solo alla fine egli potrà riprendere l’aspetto umano. Così pure ne “Le avventure di Pinocchio” (1881) di Carlo Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini, 1826-1890) il burattino disobbediente si trasforma in asino nel momento di massimo traviamento vissuto nel Paese dei Balocchi (T124; T125; T126; T127): egli dovrà affrontare e superare difficili prove, per poter alla fine trasformarsi in un ragazzino in carne ed ossa. L’insegnamento è palese: riconoscere l’ordine stabilito dagli dei (Lucio) o dalla società (Pinocchio) consente ad ogni creatura di salvarsi. Perfino il lupo di Gubbio (T128; T129; T130; T131) perde i suoi connotati di malvagità quando, accettando l’ordine voluto da Dio, “si trasforma” in un essere buono, pienamente integrato nella comunità degli uomini. 118 T 123. Lucio si trasforma in asino Lucio, recatosi per affari in Tessaglia, regione greca nota per le pratiche magiche, a Ipata viene ospitato da un amico di famiglia, la cui moglie Panfila pratica in segreto le arti della magia. Dopo aver assistito per caso alla trasformazione in uccello di Panfila, Lucio, spinto da una irrefrenabile e nefasta curiosità, chiede a Fotide, l’ancella di Panfila, l’unguento che lo possa trasformare in uccello. Uno scambio casuale di vasetti trasforma invece Lucio in un asino, che pure conserva l’intelligenza umana. Inizia da qui una lunga serie di peripezie, che terminano solo quando Lucio-Asino, macchiatosi di indebita curiositas, si ciberà delle rose della dea Iside, riconquistando aspetto e valori etici degni di un uomo. Colpa, coscienza della colpa, espiazione e redenzione in una nuova realtà religiosa (il culto di Iside) sono le quattro tappe che restituiscono Lucio a se stesso. Haec identidem adseverans summa cum trepidatione inrepit cubiculum et pyxidem depromit arcula. Quam ego amplexus ac deosculatus prius utque mihi prosperis faveret volatibus deprecatus abiectis propere laciniis totis avide manus immersi et haurito plusculo uncto corporis mei membra perfricui. Iamque alternis conatibus libratis brachiis in avem similis gestiebam: nec ullae plumulae nec usquam pinnulae, sed plane pili mei crassantur in setas et cutis tenella duratur in corium et in extimis palmulis perdito numero toti digiti coguntur in singulas ungulas et de spinae meae termino grandis cauda procedit. Iam facies enormis et os prolixum et nares hiantes et labiae pendulae; sic et aures inmodicis horripilant auctibus. (Apuleio) T 124. Pinocchio si trasforma in asino Nel famosissimo romanzo di C. Collodi, tradotto in tutto il mondo, la metamorfosi di Pinocchio (e di Lucignolo) in asino concretizza in modo simbolico il processo di regressione animalesca vissuta dal burattino, che rifiuta di adeguarsi ai valori dell’etica borghese, cioè scuola, famiglia, lavoro e rispetto per le istituzioni. Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una scuola, quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa che lo messe proprio di malumore. E questa sorpresa quale fu? Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse... Indovinate un po' di che cosa si accorse? Si accorse con sua grandissima maraviglia che gli orecchi gli erano cresciuti più d'un palmo. Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi 119 dunque come restò, quando si poté scorgere che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole di padule. Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d'acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini. Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna e la disperazione del povero Pinocchio! Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima. Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che abitava il piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente: - Che cos'hai, mio caro casigliano? - Sono malato, Marmottina mia, molto malato... e malato d'una malattia che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso? - Un pochino. - Senti dunque se per caso avessi la febbre. La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso di Pinocchio gli disse sospirando: - Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!... - Cioè? - Tu hai una gran brutta febbre!... - E che febbre sarebbe? - E' la febbre del somaro. - Non la capisco questa febbre! - rispose il burattino, che l'aveva pur troppo capita. - Allora te la spiegherò io, - soggiunse la Marmottina. - Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più burattino, né un ragazzo... - E che cosa sarò? - Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l'insalata al mercato. - Oh! Povero me! Povero me! - gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt'e due gli orecchi, e tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro. - Caro mio, - replicò la Marmottina per consolarlo, - che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari. - Ma davvero è proprio così? - domandò singhiozzando il burattino. - Purtroppo è cosi! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima! - Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!... - E chi è questo Lucignolo?... 120 - Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore... ma Lucignolo mi disse: "Perché vuoi annoiarti a studiare? Perché vuoi andare alla scuola? Vieni piuttosto con me, nel Paese dei Balocchi: lì non studieremo più: lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri". - E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno? - Perché?... Perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio... e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonato quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!... E a quest'ora non sarei più un burattino... ma sarei invece un ragazzino a modo, come ce n'è tanti! Oh!... ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta! E fece l'atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d'asino, e vergognandosi di mostrarli al pubblico, che cosa inventò?... Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso. (C. Collodi) T 125. A beautiful pair of donkey's ears Five months passed and the boys continued playing and enjoying themselves from morn till night, without ever seeing a book, or a desk, or a school. But, my children, there came a morning when Pinocchio awoke and found a great surprise awaiting him, a surprise which made him feel very unhappy, as you shall see. Pinocchio's ears become like those of a Donkey. In a little while he changes into a real Donkey and begins to bray Everyone, at one time or another, has found some surprise awaiting him. Of the kind which Pinocchio had on that eventful morning of his life, there are but few. What was it? I will tell you, my dear little readers. On awakening, Pinocchio put his hand up to his head and there he found… Guess! He found that, during the night, his ears had grown at least ten full inches! You must know that the Marionette, even from his birth, had very small ears, so small indeed that to the naked eye they could hardly be seen. Fancy how he felt when he noticed that overnight those two dainty organs had become as long as shoe brushes! He went in search of a mirror, but not finding any, he just filled a basin with water and looked at himself. There he saw what he never could have wished to see. His manly figure was adorned and enriched by a beautiful pair of donkey's ears. I leave you to think of the terrible grief, the shame, the despair of the poor Marionette. 121 He began to cry, to scream, to knock his head against the wall, but the more he shrieked, the longer and the more hairy grew his ears. At those piercing shrieks, a Dormouse came into the room, a fat little Dormouse, who lived upstairs. Seeing Pinocchio so grief-stricken, she asked him anxiously: "What is the matter, dear little neighbor?" "I am sick, my little Dormouse, very, very sick… and from an illness which frightens me! Do you understand how to feel the pulse?" "A little." "Feel mine then and tell me if I have a fever." The Dormouse took Pinocchio's wrist between her paws and, after a few minutes, looked up at him sorrowfully and said: "My friend, I am sorry, but I must give you some very sad news." "What is it?" "You have a very bad fever." "But what fever is it?" "The donkey fever." "I don't know anything about that fever," answered the Marionette, beginning to understand even too well what was happening to him. "Then I will tell you all about it," said the Dormouse. "Know then that, within two or three hours, you will no longer be a Marionette, nor a boy." "What shall I be?" "Within two or three hours you will become a real donkey, just like the ones that pull the fruit carts to market." "Oh, what have I done? What have I done?" cried Pinocchio, grasping his two long ears in his hands and pulling and tugging at them angrily, just as if they belonged to another. My dear boy," answered the Dormouse to cheer him up a bit, "why worry now? What is done cannot be undone, you know. Fate has decreed that all lazy boys who come to hate books and schools and teachers and spend all their days with toys and games must sooner or later turn into donkeys." "But is it really so?" asked the Marionette, sobbing bitterly. "I am sorry to say it is. And tears now are useless. You should have thought of all this before." "But the fault is not mine. Believe me, little Dormouse, the fault is all LampWick's." "And who is this Lamp-Wick?" "A classmate of mine. I wanted to return home. I wanted to be obedient. I wanted to study and to succeed in school, but Lamp-Wick said to me, ‘Why do you want to waste your time studying? Why do you want to go to school? Come with me to the Land of Toys. There we'll never study again. There we can enjoy ourselves and be happy from morn till night.' " "And why did you follow the advice of that false friend?" 122 "Why? Because, my dear little Dormouse, I am a heedless Marionette… heedless and heartless. Oh! If I had only had a bit of heart, I should never have abandoned that good Fairy, who loved me so well and who has been so kind to me! And by this time, I should no longer be a Marionette. I should have become a real boy, like all these friends of mine! Oh, if I meet Lamp-Wick I am going to tell him what I think of him… and more, too!" After this long speech, Pinocchio walked to the door of the room. But when he reached it, remembering his donkey ears, he felt ashamed to show them to the public and turned back. He took a large cotton bag from a shelf, put it on his head, and pulled it far down to his very nose. (C. Collodi, trad. Read Books Online) T 126. Triste risveglio Con “La filastrocca di Pinocchio”, Gianni Rodari, insieme all’amico disegnatore Raul Verdini, rese omaggio al testo collodiano, riproducendo in versi ottonari e in immagini le av venture del celebre burattino. I testi, 31 filastrocche in tutto, furono pubblicati a puntate tra il 1954 e il 1955 sul giornale per ragazzi “Pioniere”. Qui continua, aprite l’occhio, l’avventura di Pinocchio che un mattino si ridesta con un certo mal di testa. A specchiarsi nel catino balza inquieto il burattino e si scopre un morbo raro: ha due orecchi da somaro! Le ricopre prontamente per uscire tra la gente e Lucignolo, il compare, va di corsa a visitare. "Come stai, caro Lucignolo?" "Mi fa male il dito mignolo..." "Ah, perciò porti il berretto?" "Il dottore me l’ha detto..." "Decidiamoci, perbacco, a gettar questo colbacco..." Ecco il vero, gente mia, han la stessa malattia. Sopravviene in quel momento un fatal peggioramento giù carponi son cascati i due poveri malati. E marciando, come vedi, non più a due, ma a quattro piedi, 123 si trasformano i monelli in due bigi somarelli. Singhiozzando ora i meschini mandan gemiti asinini: e ragliando a sazietà fanno in coro: "Ih, ah! Ih, ah!" (G. Rodari) T 127. Povero Papà (Peppe) Umberto Eco, noto studioso, saggista e romanziere, ha riassunto la storia di Pinocchio in un celebre tautogramma (composizione realizzata con parole che iniziano tutte con la stessa lettera) in “p”; nelle note sono impiegati tautogrammi in “m”, “g/v”, “f”. Povero Papà (Peppe) palesemente provato penuria, prende prestito polveroso pezzo pino poi, perfettamente preparatolo, pressatolo, pialla pialla, progetta, prefabbricane pagliaccetto. Prodigiosamente procrea, plasmando plasticamente, piccolo pupo pel pelato, pieghevole platano! Perbacco! Pigola, può parlare, passeggiare, percorrere perimetri, pestare pavimento, precoce protagonista (però provvisto pallido pensiero), propenso produrre pasticci. Pronunciando panzane protubera propria proboscide pignosa, prolunga prominente pungiglione, profilo puntuto. Perde persino propri piedi piagati, perusti! Piagnucola. Papà paziente provvede. Pinocchio privo pomodori, panciavuota, pela pere. Poco pasciuto, pilucca picciuolo. Padre, per provvedergli prestazioni professorali, premurosamente porta Pegno palandrana. "Pensaci" punzecchialo peritissimo, prudentissimo parassita parlante, "prudenza, perseveranza! Prevedo pesanti punizioni!" "Piantala petulante pignolo!" Presuntuoso pupattolo percuote pedagogo piccino piccino (plash!) producendone poltiglia. Peccato. Poteva piuttosto porgergli padiglione. Poi parte pimpante, privo pullover. Papà piange preoccupato: "Pinocchio perduto!" Pellegrino, percorre perennemente pianure paludose… Pinocchio pedala pedala, pervicacemente peregrinando per piazze, partecipa pantomima pupazzetti, periclita presso pentola, prende pochi pennies (1). 124 Pervenuto Pub Palinuro Purpureo, per perfidi personaggi poco popolari (pirati, paltronieri perdigiorno) penzola penoso patibolo (2). Puella portentosa (parrucca pervinca) provvede poliambulatorio pennuto, parlagli predicando perfetti principi, promettendo prossima pubertà, persino parvenza piacente persona (3). Pinocchio pare puntiglioso, persistente, predeterminato. Palle. Parole. Parcamente persegue positivi propositi. Preferisce passatempi pestilenziali, percorsi puntellati perigli paurosi, perdendo possibilità parascholastiche. Pianta parecchi pesos per prati, per procacciarsi più palanche; però (poco perspicace) perde personale pecunia. Protestare? Procuratore paese Prendi Pirla provvedegli prigione. Può pappare poco pane perché psicologicamente, patologicamente parlando, preferisce pascolare pigramente. Perciò permane pioppo puerile. Passo passo provoca pandemoni, prende percosse, passa per patimenti plurimi. Pensate: piccione portalo porto, pescatore pensa panarlo padella! Pestifero Pierino perditempo (parimenti propenso pazzie) prefiguragli paese peccaminoso, parco proibito, piaceri paradisiaci, piroette, passatempi pagani, prestidigitazioni… Persuaso, Pinocchio partecipa, prende parte. Postiglione pacioccone (però perverso) portalo posto promesso, pullulante pelandroni poco perbene. Pinocchio potrebbe pur presentir pena perpetua! Parliamone pure: pino partorisce peli! Porca peppa! Paludato pellame, pressoché puzzolente pony! Persone percorso, Pinocchio (puf) penetra pelago procelloso. Per penosissimi peripli perde pelle puteolente, perviene penetrare pancia pulsante pantagruelico pescecane. Perlustrandolo persepisce papà, precedentemente preda prelibata! "Papà! Perdono!" "Perdirindina, Pinocchio, prediletto pasticcioncello, pazzarello!" Padre provvede pasto pesciolini. Pinocchio paladino, prende padre portandolo per ponderoso palato pesce, producesi prodezze, paga personalmente, praticamente perisce (pare). Provvidenziale pulzella poteri paranormali, prodiga Pandora, protegge Pinocchio per pietà, perora purificazione. Passati patemi, pienamente pentito, Pinocchio, prosciolto per piccolissimi peccati, premiato per proba passione, per pia prestazione, permutasi piacevole putto paffuto. Paradossale! Possibile? 125 Pupazzo prima, primate poi? Proteiforme pargoletto, perenne Peter Pan, proverbiale parabola pressoché psicoanalitica! Note: (1) Mai marinare! Mangiafuoco malfamato manovratore marionette mangia montoni, mucche, muffloni (monstruosa merenda) mentre mostra manichini mascherati. Mamma mia! Meritatamente minaccia masticare mariuolo mentitore. Monello mortificato mormora meste melensaggini (”Misero me! Mercé, Maestà!”), minimizza marachelle, menziona malasorte, mendica, muovendo misericordia. Mangiafuoco, mefistofelico ma mite, mostrase miracolosamente munifico, magnanimo, molla manciata monete. Marenghi! (Mascalzoncello mollerà melensamente malloppo mefitici malfattori malandrini… ) (2) Guardali, vedi? Gatto, volpe. Gozzoviglianti, versipelli, guatano vili, giovendosi veloci gonzaggine vagheggini geppetidi vispi. (3) Fida fatina, fulgente figurina frondosa fluttanti fiordalisi! Finte fiere furbacchione frastornavano felloncello ferito, fascendo fantasmagoriche farmacopee (faine favoriva febbre furfantello). Favellasti fervida: “Fiducia! Finora fosti fantoccio, fingevi fanfaluche. Facesti fiasco. Forza! Fruirai futura figura fanciullo!”. Fosti fededegna: fenomenalmente, figlio falegname (fortunato filugello) fiorì: fuoriuscì frugoletto fuoriclasse. Favola? Forse. Filando fievoli fantasie, fiabe fruttificano felicemente fatti. (U. Eco) T 128 S. Francesco e il lupo Del santissimo miracolo che fece santo Francesco, quando convertì il ferocissimo lupo d'Agobbio. Al tempo che santo Francesco dimorava nella città di Agobbio nel contado di Agobbio apparì un lupo grandissimo, terribile e feroce, il quale non solamente divorava gli animali ma eziandio gli uomini, in tanto che tutti i cittadini stavano in gran paura, però che spesse volte s'appressava alla città, e tutti andavano armati quando uscivano della città, come s'eglino andassono a combattere; e con tutto ciò non si poteano difendere da lui, chi in lui si scontrava solo. E per paura di questo lupo e' vennono a tanto, che nessuno era ardito d'uscire fuori della terra. 126 Per la qual cosa avendo compassione santo Francesco agli uomini della terra, sì volle uscire fuori a questo lupo, bene che li cittadini al tutto non gliel consigliavano; e facendosi il segno della santissima croce, uscì fuori della terra egli co' suoi compagni, tutta la sua confidanza ponendo in Dio. E dubitando gli altri di andare più oltre, santo Francesco prese il cammino inverso il luogo dove era il lupo. Ed ecco che, vedendo molti cittadini li quali erano venuti a vedere cotesto miracolo, il detto lupo si fa incontro a santo Francesco, con la bocca aperta; ed appressandosi a lui, santo Francesco gli fa il segno della croce, e chiamollo a sé e disse così: «Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona». Mirabile cosa a dire! Immantanente che santo Francesco ebbe fatta la croce, il lupo terribile chiuse la bocca e ristette di correre: e fatto il comandamento, venne mansuetamente come agnello, e gittossi alli piedi di santo Francesco a giacere. E santo Francesco gli parlò così: «Frate lupo, tu fai molti danni in queste partì, e hai fatti grandi malifici, guastando e uccidendo le creature di Dio sanza sua licenza; e non solamente hai uccise e divorate le bestie, ma hai avuto ardire d'uccidere uomini fatti alla immagine di Dio; per la qual cosa tu se' degno delle forche come ladro e omicida pessimo, e ogni gente grida e mormora di te, e tutta questa terra t'è nemica. Ma io voglio, frate lupo, far la pace fra te e costoro, sicché tu non gli offenda più, ed eglino ti perdonino ogni passata offesa, e né li omini né li canti ti perseguitino più». E dette queste parole, il lupo con atti di corpo e di coda e di orecchi e con inchinare il capo mostrava d'accettare ciò che santo Francesco dicea e di volerlo osservare. Allora santo Francesco disse: «Frate lupo, poiché ti piace di fare e di tenere questa pace, io ti prometto ch'io ti farò dare le spese continuamente, mentre tu viverai, dagli uomini di questa terra, sicché tu non patirai più fame; imperò che io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male. Ma poich'io t'accatto questa grazia, io voglio, frate lupo, che tu mi imprometta che tu non nocerai a nessuna persona umana né ad animale, promettimi tu questo?». E il lupo, con inchinate di capo, fece evidente segnale che 'l prometteva. E santo Francesco sì dice: «Frate lupo, io voglio che tu mi facci fede di questa promessa, acciò ch'io me ne possa bene fidare». E distendendo la mano santo Francesco per ricevere la sua fede, il lupo levò su il piè ritto dinanzi, e dimesticamente lo puose sopra la mano di santo Francesco, dandogli quello segnale ch'egli potea di fede. E allora disse santo Francesco: «Frate lupo, io ti comando nel nome di Gesù Cristo, che tu venga ora meco sanza dubitare di nulla, e andiamo a fermare questa pace al nome di Dio». E il lupo ubbidiente se ne va con lui a modo d'uno agnello mansueto, di che li cittadini, vedendo questo, fortemente si maravigliavano. E subitamente questa novità si seppe per tutta la città, di che ogni gente maschi e femmine, grandi e piccoli, giovani e vecchi, traggono alla piazza a vedere il lupo con santo Francesco. Ed essendo ivi bene raunato tutto 'l popolo, levasi su santo Francesco e predica loro dicendo, tra l'altre cose, come per li peccati Iddio permette cotali cose e pestilenze, e troppo è 127 più pericolosa la fiamma dello inferno la quale ci ha a durare eternalemente alli dannati, che non è la rabbia dello lupo, il quale non può uccidere se non il corpo: «Quanto è dunque da temere la bocca dello inferno, quando tanta moltitudine tiene in paura e in tremore la bocca d'un piccolo animale. Tornate dunque, carissimi, a Dio e fate degna penitenza de' vostri peccati, e Iddio vi libererà del lupo nel presente e nel futuro dal fuoco infernale». E fatta la predica, disse santo Francesco: «Udite, fratelli miei: frate lupo, che è qui dinanzi da voi, sì m'ha promesso, e fattomene fede, di far pace con voi e di non offendervi mai in cosa nessuna, e voi gli promettete di dargli ogni dì le cose necessarie; ed io v'entro mallevadore per lui che 'l patto della pace egli osserverà fermamente». Allora tutto il popolo a una voce promise di nutricarlo continuamente. E santo Francesco, dinanzi a tutti, disse al lupo: «E tu, frate lupo, prometti d'osservare a costoro il patto della pace, che tu non offenda né gli uomini, né gli animali né nessuna creatura?». E il lupo inginocchiasi e inchina il capo e con atti mansueti di corpo e di coda e d'orecchi dimostrava, quanto è possibile, di volere servare loro ogni patto. Dice santo Francesco: «Frate lupo, io voglio che come tu mi desti fede di questa promessa fuori della porta, così dinanzi a tutto il popolo mi dia fede della tua promessa, che tu non mi ingannerai della mia promessa e malleveria ch'io ho fatta per te». Allora il lupo levando il piè ritto, sì 'l puose in mano di santo Francesco. Onde tra questo atto e gli altri detti di sopra fu tanta allegrezza e ammirazione in tutto il popolo, sì per la divozione del Santo e sì per la novità del miracolo e sì per la pace del lupo, che tutti incominciarono a gridare al cielo, laudando e benedicendo Iddio, il quale si avea loro mandato santo Francesco, che per li suoi meriti gli avea liberati dalla bocca della crudele bestia. E poi il detto lupo vivette due anni in Agobbio, ed entravasi dimesticamente per le case a uscio a uscio, sanza fare male a persona e sanza esserne fatto a lui; e fu nutricato cortesemente dalla gente, e andandosi così per la terra e per le case, giammai nessuno cane gli abbaiava drieto. Finalmente dopo due anni frate lupo sì si morì di vecchiaia, di che li cittadini molto si dolsono, imperò che veggendolo andare così mansueto per la città, si raccordavano meglio della virtù e santità di santo Francesco. A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen. (Anonimo) T 129. Factus quasi agnus ex lupo Scrittore di ascetica e teologia pastorale, Tobias Lohner (1619-1697) fu rettore nei collegi di Lucerna e Dillingen e insegnò per molti anni filosofia morale e teologia dogmatica. Compose in latino varie opere su argomenti utili alla vita religiosa e al sacerdozio. La vicenda di San Francesco e il lupo è definita fin dall’incipit un evento mirabile et celebri memoria dignum. Accidit quoddam mirabile, et celebri memoria dignum, apud civitatem Eugubi. Nam cum adhuc viveret Sanctus Pater Franciscus, erat in territorio eiusdem quidam lupus terribilis magnitudine corporis, et ferocissimus rabie famis, qui 128 non solum animalia, sed homines et feminas devorabat: ita quod omnes cives in tanto terrore tenebat, quod omnes ibant muniti, cum egrediebantur terram, ac si deberent ad bella funesta procedere, nec tamen sic armati valebant dicti lupi mordaces dentes ac truculentam rabiem evadere, quin eidem per infortunium obviabant. Unde tantus terror omnes invasit, quod vix aliquis extra portam civitatis audebat securus exire. Voluit autem Deus notificare sanctitatem beati Francisci civibus supra dictis. Cum ipse beatus Pater tunc temporis esset ibidem compatiens illis, disposuit exire obviam dicto lupo: cui cives dicebant: “Cave, Pater Francisce, ne portam exeas: quia lupus, qui iam multos devoravit, penitus te occidet.” Sanctus autem Franciscus sperans in Domino lesu Christo, qui universae carnis spiritibus dominatur, non clypeo protectus, vel galea, sed signo Sanctae Crucis se muniens, exivit portam cum socio, totam fiduciam suam iactans in Domino. Et sic fidelissimus Pater Franciscus intrepidus exivit ad lupum. Et ecce multis cernentibus de locis, in quibus ad spectandum ascenderant, lupus ille terribilis contra Sanctum Franciscum et socium aperto ore cucurrit, contra quem Sanctus Pater opposuit signum crucis, et tam a se, quam a socio, virtute divina, lupum compescuit, et cursum retinuit, et os truculenter apertum conclusit, et demum advocans eum, ait: “Veni ad me, frater lupe, et ex parte Christi tibi praecipio, quod nec mihi, nec alteri noceas.” Mirabile dictu, statim facta cruce conclusit os illud terribile; et, facto mandato, statim se ad pedes sancti, iam factus quasi agnus ex lupo, capite inclinato, prostravit. Sic autem prostrato ante se, dixit Sanctus Franciscus: “Frater lupe, tu facis multa damna in partibus istis, et horrenda maleficia perpetrasti, creaturas Dei sine misericordia destruendo, non solum autem irrationalia animalia destruis, sed, quod detestationis et audaciae est, occidis et devoras homines ad imaginem Dei factos: unde tu es dignus horrenda morte mutilari, tamquarn praedator, et pessimus homicida, propter quod omnes contra te iuste clamant, et murmurant, et tota ista civitas est inimica. Sed, frater lupe, ego volo inter te et istos facere pacem, ita quod a te ipsi non laedantur amplius; et ipsi tibi omnem offensam praeteritam dimittentes, nec homines, nec canes te amplius persequentur.” Et lupus gestibus corporis, et caudae, et aurium ac capitis inclinatione, monstrabat illa, quae Sanctus dicebat, omnimodo acceptare. Et ait iterum Sanctus Franciscus: “Frater lupe, ex quo tibi placet facere pacem istam, ego promitto tibi, quod faciam tibi dare expensas quotidie, donec vixeris, per homines istius civitatis, ita quod numquam famem amplius patieris: quia ego scio, quod, quidquid male facis, propter famis rabiem facis. Sed, frater mi lupe, ex quo adquiram tibi talem gratiam, volo, quod tu promittas mihi, quod numquam aliquod animal, vel hominem laedas: promittis mihi ista?” Et lupus signum evidens inclinato capite fecit: quod promittebat facere illa, quae sibi imponebantur a Sancto. Et Sanctus Franciscus ait: “Frater lupe, ego volo, quod tu des mihi fidem, ut possim evidenter credere, quod promittis.” Et 129 cum extendisset S. Franciscus manum pro recipienda fide, lupus etiam levavit pedem anteriorem dextrum: et blande, et leniter posuit super manum S. Francisci, signo, quo poterat, fidem dando. Tunc Sanctus Franciscus ait: “Frater lupe, praecipio tibi in nomine domini nostri lesu Christi, quod venias amodo mecum nil dubitans in civitatem, ad faciendam pacem istam.” Et lupus oboediens statim coepit iter cum S. Francisco, tamquam mansuetissimus agnus: quod videntes illi de civitate, coeperunt vehementer mirari, et novitas haec statim per civitatem totam insonuit: ita quod omnes, tam viri quam mulieres, magni et parvi, ad plateam simul convenerunt: quia Sanctus Franciscus ibi erat cum lupo. Congregata igitur populi maxima multitudine, surgens Sanctus Franciscus fecit illis mirabilem praedicationem dicens, inter alia, quomodo propter peccata tales pestilentiae permittuntur, et quanto sit periculosior vorax fiamma gehennae («Gehenna», luogo di tormenti e punizione eterna), quae habet in aeternum devorare damnatos, quam rabies lupi, quae non potest occidere nisi corpus, et quam sit pavendum in barathrum infernale demergi, quando tantam multitudinem unum parvum animal in tanto pavore et periculo detinebat. “Revertamini ergo, charissimi, ad Dominum, et facile penitentiam dignam: a lupo liberabit vos Deus in praesenti; et in futuro a barathro devorante”. Et, his dictis, ait: “Audite, charissimi, frater lupus, qui hic coram vobis astat, promisit mihi, et de promissione fidem exhibuit, facere pacem vobiscum, et numquam vos laedere in aliquo, si tamen vos promittitis sibi quotidie expensas dare, et ego pro fratre lupo fideiubebo, quod pactum pacis firmiter observabit.” Tunc omnes ibi congregati cum clamore valido promiserunt lupum nutrire continue. Et Sanctus Franciscus coram omnibus dixit lupo: “Et tu, frater lupe, promittis servare pactum istis, scilicet, quod nec animal aliquod, nec personam alicuius laedas?” Et lupus se ingeniculans, cum inclinatione capitis, et gestibus corporis, et caudae, et aurium blandimentis, se servaturum pacta promissa omnibus evidenter ostendit. Et Sanctus Franciscus ait: “Frater lupe, ego volo, quod, sicut tu de hoc dedisti fidem, cum essemus extra portam, ita, et hic coram toto populo isto des mihi fidem, quod ista observabis, et in fideiussione pro te facta minime delinques.” Tunc lupus levato pede dextero dedit fidem in manu S. Francisci fideiussoris sui, coram cunctis astantibus, et facta est tanta admiratio, et gaudium omnium tam pro devotione Sancti, quam pro novitate miraculi, quam insuper pro pace lupi, et populi, ut omnes clamarent ad sidera, laudantes et benedicentes Dominum lesum Christum, qui eos, meritis illius Sancti, de ore ferae pessimae liberavit, et de tam horrenda peste in pace posuit, et quiete. Ex illo igitur die lupus populo pacta, per Sanctum Franciscum ordinata, servavit, et lupus per duos annos vivens, et per civitatem ostiatim victitans neminem laedens, nec ipse laesus ab aliquo, fuit curialiter nutritus. Et mirum est valde, quod numquam latrabat canis aliquis contra eum. Tandem lupus seniens mortuus est, de cuius morte cives plurimum doluerunt, quia dicti lupi pacifica et 130 benigna patientia, quandocumque per civitatem pergebat, miram S. Francisci virtutem, et sanctitatem mirificam in memoriam revocabat. (T. Lohner) T 130. Come un vero agnello Angiolo Silvio Novaro (1866-1938), autore di poesie spesso ispirate a temi religiosi, dedica all'incontro di S.Francesco e il lupo un componimento in endecasillabi (da "Il cestello", 1910). Viveva un dì, narra un’antica voce intorno a Gubbio un lupo assai feroce che aveva i denti più acuti che i mastini e divorava uomini e bambini. Dentro le mura piccole di Gubbio stavano chiusi i cittadini e in dubbio ciascuno della vita. La paura non li lasciava uscire dalle mura. E San Francesco venne a Gubbio, e intese del lupo, delle stragi, delle offese; ed ebbe un riso luminoso e fresco, e disse: "O frati, incontro al lupo io esco!" Le donne avevano lagrime così grosse, ma il Santo ilare e ardito uscì. E a mezzo al bosco ritrovò il feroce ispido lupo, e con amica voce gli disse: "O lupo, mio fratello lupo, perché mi guardi così ombroso e cupo? Perché mi mostri quegli aguzzi denti? Vieni un po’ qua, siedimi accosto e senti: io so che tu fai molto male a Gubbio e tieni ognuno della vita in dubbio, e so che rubi uccidi e non perdoni nemmeno ai bimbi, e mangi i tristi e i buoni. Orbene ascolta: come è vero il sole, ciò che tu fai è male. Iddio non vuole! Ma tu sei buono; e forse ti ha costretto a ciò la fame. Ebbene, io ti prometto che in Gubbio avrai d’ora in avanti il vitto: ma tu prometti essere onesto e dritto e non dare la minima molestia: essere insomma una tranquilla bestia. Prometti dunque tutto questo, di’?" Il lupo abbassò il capo, e fece: "Sì!" "Davanti a Dio tu lo prometti?" E in fede il lupo alzò molto umilmente un piede. 131 Allora il Santo volse allegro il passo a Gubbio, e il lupo dietro, a corpo basso. In Gubbio fu gran festa, immenso evviva: scoppiò la gioia, e fino al ciel saliva. E domestico il lupo entro rimase le chiuse mura, e andava per le case in mezzo ai bimbi come un vero agnello, e leccava la gota a questo e a quello. E poi morì. E fu da tutti pianto e seppellito presso il campo santo. (A.S. Novaro) T 131. Il lupo di Gubbio Il cantautore italiano Angelo Branduardi ha pubblicato, nel 2000, un album dal titolo "L'infinitamente piccolo" che, tra l'altro, contiene un brano dal titolo "Il lupo di Gubbio". Francesco a quel tempo in Gubbio viveva e sulle vie del contado apparve un lupo feroce che uomini e bestie straziava e di affrontarlo nessuno più ardiva. Di quella gente Francesco ebbe pena, della loro umana paura, prese il cammino cercando il luogo dove il lupo viveva ed arma con sé lui non portava. Quando alla fine il lupo trovò quello incontro si fece, minaccioso; Francesco lo fermò e levando la mano: ”Tu Frate Lupo, sei ladro e assassino, su questa terra portasti paura. Fra te e questa gente io metterò pace, il male sarà perdonato, da loro per sempre avrai cibo e mai più nella vita avrai fame che più del lupo fa l’Inferno paura!”. Raccontano che così Francesco parlò e su quella terra mise pace e negli anni a venire del lupo più nessuno patì. “Tu Frate Lupo, sei ladro e assassino, ma più del lupo fa l’Inferno paura!” (A. Branduardi) 132 Percorso 4 - Anelli magici Il termine “favola”, si è detto, deriva dal latino fabula, radice del verbo fari, «dire, raccontare», quindi “racconto”, “narrazione” di vicende inventate con palese intento moraleggiante ed educativo. Anche il termine “fiaba” rimanda ad un “racconto” d’invenzione (“favola” e “fiaba” hanno infatti la stessa etimologia), ma esso non comprende nessuna “morale” esplicitamente dichiarata e, soprattutto, si muove in un mondo fantastico, popolato da orchi, streghe maligne e dolci fatine, principi azzurri e castelli incantati, folletti, gnomi e oggetti magici. Un mondo affascinante, che non cessa di stupire ed ammaliare: si pensi alla vasta diffusione e successo, ieri, dell’epica cavalleresca, oggi, delle saghe fantasy come “Il Signore degli Anelli” o le avventure del mago Harry Potter. Così anche la fiaba, o comunque la dimensione fiabesca, pur immersa in un’atmosfera di fantasia e di magia, riesce a svolgere implicitamente un prezioso ruolo formativo ed educativo. Oggetto dotato di poteri straordinari per eccellenza è, fin da tempi lontani, l’anello magico, che rende invisibili, oppure scatena passioni incontrollabili. Il filosofo greco Platone ne “La Repubblica” (IV sec. a.C.), riflettendo sul rapporto tra giustizia e ingiustizia, narra la storia del pastore Gige e dell’anello magico che rende invisibili (T133). Egli riprende, modificandola e rivestendola di un alone magico, la storia cupa e assai più realistica del pastore Gige e Candaule (T132), ultimo re di Lidia della dinastia eraclide, narrata dallo storico greco Erodoto (V sec. a.C.). Nel mondo romano la storia torna in Cicerone (I sec. a.C.), che nella vicenda di Gige e il magico anello trova il pretesto narrativo per discutere di ciò che è onesto e ciò che non lo è (T134). Più tardi, in età rinascimentale, l’anello che rende invisibili è un prezioso aiuto per Angelica, eroina dell’ “Orlando furioso” di Ariosto (1474-1533), che, grazie ai suoi poteri, riesce a fuggire da situazioni pericolose o imbarazzanti (T135). Noto poi col nome di “Unico Anello” o “Anello del Potere” o “Anello Sovrano”, l’anello magico che rende invisibili è l’elemento centrale del romanzo fantasy lo “Hobbit” (1937) e soprattutto della trilogia “Il Signore degli Anelli” (1954-1955) di J.R.R. Tolkien (1892-1973): concretizzato fisicamente nell’Anello (T136), torna il tema dello scontro fra bene e male, fra giusto e ingiusto, di platonica memoria. Di un anello magico dotato di proprietà incantatrici parla anche una vecchia leggenda medievale che riguarda Carlo Magno, ripresa da Italo Calvino (1923-1985) in una delle sue “Lezioni americane” (1985). In questa vicenda (T137) il vero protagonista è l’anello magico, perché è l’anello che muove le azioni dei personaggi, determinandone affetti e relazioni: la loro vita stessa, insomma. 133 T 132. Gige e Candaule 134 (Erodoto) T 133. L’anello magico di Gige [Aggiungi: "Si racconta che…"] 135 (Platone) T 134. L’anello di Gige e l’onestà Satis enim nobis, si modo in philosophia aliquid profecimus, persuasum esse debet, si omnes deos hominesque celare possimus, nihil tamen avare, nihil iniuste, nihil libidinose, nihil incontinenter esse faciendum. Hinc ille Gyges inducitur a Platone, qui cum terra discessisset magnis quibusdam imbribus, descendit in illum hiatum aeneumque equum, ut ferunt fabulae, animadvertit, cuius in lateribus fores essent; quibus apertis corpus hominis mortui vidit magnitudine invisitata anulumque aureum in digito; quem ut detraxit, ipse induit - erat autem regius pastor - , tum in concilium se pastorum recepit. Ibi cum palam eius anuli ad palmam converterat, a nullo videbatur, ipse autem omnia videbat; idem rursus videbatur, cum in locum anulum inverterat. Itaque hac oportunitate anuli usus reginae stuprum intulit eaque adiutrice regem dominum interemit, sustulit quos obstare arbitrabatur, nec in his eum facinoribus quisquam potuit videre. Sic repente anuli beneficio rex exortus est Lydiae. Hunc igitur ipsum anulum si habeat sapiens, nihil plus sibi licere putet peccare, quam si non haberet; honesta enim bonis viris, non occulta quaeruntur. (Cicerone) T 135. Angelica diventa invisibile Giovane, bionda e bellissima, Angelica è un’eroina sempre in fuga, inafferrabile oggetto del desiderio di nobili e cavalieri, che cercano inutilmente di raggiungerla. Simbolo della passione incantata che spesso attira gli uomini verso ciò che è vano e sfuggente, ella detiene un anello dai poteri magici: messo in bocca, esso rende invisibili, portato al dito dissolve gli incantesimi 136 che popolano il mondo della narrazione cavalleresca. In questo passo Angelica, resa invisibile dall'anello magico (“sel vede”, “se lo - l’anello - vede”) sottratto a Ruggiero, riesce a sfuggire al giovane guerriero, trovando rifugio presso un pastore. Or che sel vede, come ho detto, in mano, sì di stupore e d'allegrezza è piena, che quasi dubbia di sognarsi invano, agli occhi, alla man sua dà fede a pena. Del dito se lo leva, e a mano a mano sel chiude in bocca: e in men che non balena, così dagli occhi di Ruggier si cela, come fa il sol quando la nube il vela. Ruggier pur d'ogn'intorno riguardava, e s'aggirava a cerco come un matto; ma poi che de l'annel si ricordava, scornato vi rimase e stupefatto: e la sua inavvertenza bestemiava, e la donna accusava di quello atto ingrato e discortese, che renduto in ricompensa gli era del suo aiuto. - Ingrata damigella, è questo quello guiderdone (dicea), che tu mi rendi? che più tosto involar vogli l'annello, ch'averlo in don? Perché da me nol prendi? Non pur quel, ma lo scudo e il destrier snello e me ti dono, e come vuoi mi spendi, sol che 'l bel viso tuo non mi nascondi. Io so, crudel, che m'odi, e non rispondi. Così dicendo, intorno alla fontana brancolando n'andava come cieco. Oh quante volte abbracciò l'aria vana, sperando la donzella abbracciar seco! Quella, che s'era già fatta lontana, mai non cessò d'andar, che giunse a un speco che sotto un monte era capace e grande, dove al bisogno suo trovò vivande. Quivi un vecchio pastor, che di cavalle un grande armento avea, facea soggiorno. Le iumente pascean giù per la valle le tenere erbe ai freschi rivi intorno. Di qua di là da l'antro erano stalle, 137 dove fuggìano il sol del mezzo giorno. Angelica quel dì lunga dimora là dentro fece, e non fu vista ancora. (L. Ariosto) T 136. La poesia dell’Anello Breve componimento in otto versi rimati tra loro, la “poesia dell’Anello” appartiene al romanzo fantasy “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien. Per controllare le tre principali razze della Terra di Mezzo, e quindi il mondo intero, il Nemico creò venti Anelli del Potere, tra cui l'Unico Anello. Di fatto la composizione della poesia precede la stesura del romanzo stesso e forse è da ricondurre allo “Hobbit”, il romanzo nel quale l’Anello magico compare per la prima volta. «Three Rings for the Elven-kings under the sky, Seven for the Dwarf-lords in their halls of stone, Nine for Mortal Men doomed to die, One for the Dark Lord on his dark throne In the Land of Mordor where the Shadows lie. One Ring to rule them all, one Ring to find them, One Ring to bring them all and in the darkness bind them In the Land of Mordor where the Shadows lie.» (J.R.R. Tolkien) T 137. L’anello dell’amore Secondo un’antica leggenda, l’imperatore Carlo Magno si innamorò in tarda età di una giovane ragazza tedesca, dalla quale non volle separarsi neppure da morta. Turpino, l’arcivescovo di Reims e consigliere di Carlo Magno, scoprì che l'amore per la giovane era causato da un anello magico ritrovato sotto la lingua del cadavere, perciò lo tolse al corpo della ragazza e lo tenne con sé; così Carlo Magno si innamorò dell’arcivescovo. Imbarazzato dalla situazione, Turpino gettò l'anello nel lago di Costanza, ma il vecchio imperatore, innamoratosi del lago, non volle più allontanarsi dalle sue rive. La leggenda è narrata da Italo Calvino. «Comincerò raccontandovi una vecchia leggenda. L’imperatore Carlomagno in tarda età s’innamorò d’una ragazza tedesca. I baroni della corte erano molto preoccupati vedendo che il sovrano, tutto preso dalla sua brama amorosa, e dimentico della dignità regale, trascurava gli affari dell’Impero. Quando improvvisamente la ragazza morì, i dignitari trassero un sospiro di sollievo, ma per poco: perché l’amore di Carlomagno non morì con lei. L’imperatore, fatto portare il cadavere imbalsamato nella sua stanza, non voleva staccarsene. L’arcivescovo Turpino, spaventato da questa macabra passione, sospettò un incantesimo e volle esaminare il cadavere. Nascosto sotto la lingua morta, egli trovò un anello con una pietra preziosa. Dal momento in cui l’anello fu nelle mani di Turpino, Carlomagno si affrettò a far seppellire il cadavere e riversò il 138 suo amore sulla persona dell’arcivescovo. Turpino, per sfuggire a quell’imbarazzante situazione, gettò l’anello nel lago di Costanza. Carlomagno s’innamorò del lago e non volle più allontanarsi dalle sue rive. Questa leggenda “tratta da un libro sulla magia” è riportata, ancor più sinteticamente di quanto non l’abbia fatto io, in un quaderno d’appunti inedito dello scrittore romantico francese Barbey d’Aurevilly. Si può leggerla nelle note dell’edizione della Pléiade delle opere di Barbey d’Aurevilly. Da quando l’ho letta, essa ha continuato a ripresentarsi alla mia mente come se l’incantesimo dell’anello continuasse ad agire attraverso il racconto.» (I. Calvino) 139