LO SVILUPPO DELLA PICCOLA
IMPRENDITORIALITÀ
FEMMINILE LOCALE E LA
DOMANDA DI SERVIZI DI
SUPPORTO
O.N.L.U.S.
La ricerca “LO SVILUPPO DELLA PICCOLA IMPRENDITORIALITÀ FEMMINILE LOCALE E LA DOMANDA
DI SERVIZI DI SUPPORTO” è stata realizzata da
O.N.L.U.S.
La supervisione dell’attività di ricerca è stata curata da Sisa Biadene.
Il gruppo di ricerca e la stesura del presente rapporto è stato curato da Luisa Di Bella.
Del gruppo di ricerca hanno fatto parte Stefania Denevi, Raffaella Toniolo e Daria Denevi.
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Indice
Note introduttive e metodologiche
Pag. 4
Parte prima
Lo scenario: le donne nel mercato del lavoro veneto
1. La presenza delle donne nel mercato del lavoro veneto: Pag. 8
struttura e dinamiche dell’occupazione femminile
2. Le imprese al femminile: elementi quantitativi e qualitativi
Pag. 13
3. Il panorama legislativo di riferimento per il lavoro delle Pag. 20
donne: tutela, promozione e impegno verso le imprese e le
famiglie
4. La partecipazione delle donne: potenzialità e problematiche
Pag. 28
Parte seconda
I risultati dell’indagine
1. Le caratteristiche delle imprenditrici intervistate e delle loro
imprese
Pag. 36
1.1 Le attività svolte: settore e ruoli
Pag. 39
1.2 La posizione delle imprese: localizzazione, anzianità,
forma giuridica e dimensione
Pag. 40
1.3 Il mercato: clienti, andamento del fatturato e concorrenza
Pag. 42
2. L’avvio dell’impresa e le prospettive di sviluppo
Pag. 44
3. I fattori di successo, le criticità e il rilievo delle differenze di
genere
Pag. 48
4. La domanda di servizi di supporto alle imprese
Pag. 55
Conclusioni
Pag. 58
3
Note introduttive e metodologiche
La ricerca che qui presentiamo si inserisce nel progetto Ri.Do,
promosso dalla Provincia di Venezia nell’ambito dell’iniziativa comunitaria
Equal. Con il progetto Ri.Do si intende migliorare la posizione delle donne
nel mercato del lavoro locale caratterizzato da una forte crescita
economica. In particolare Ri.Do si propone di ridurre il ritardo del sistema
territoriale nel comprendere e accompagnare il rapido cambiamento delle
potenzialità occupazionali femminili con un corrispondente cambiamento
culturale, nelle organizzazioni, nell’assetto dei servizi.
Il ruolo della piccola impresa nello sviluppo economico e sociale in
Italia e, in particolare, nell'area Nord-Est è generalmente riconosciuto.
Rimane
invece
ancora
poco
tematizzato
il
contributo
dato
dall'imprenditoria
femminile,
nella
creazione
e
nello
sviluppo
dell’occupazione.
Appare quindi interessante analizzare il fenomeno delle piccole
imprese gestite da donne, focalizzando l'attenzione sugli aspetti di
innovazione e orientamento alla crescita.
Recenti ricerche pur nella diversità degli approcci analitici, mettono in
luce la dinamicità e le potenzialità delle imprese gestite da donne e
insieme i problemi che si trovano ad affrontare e che possono minare le
possibilità di espansione, se non addirittura di sopravvivenza. L’immagine
dell’imprenditoria femminile che ne emerge è di una realtà diversificata al
suo interno. Accanto ad esperienze ‘forti’, innovative e dinamiche - anche
in attività un tempo negate alle donne - gestite da imprenditrici orientate
allo sviluppo della propria azienda e della propria professionalità, si
ritrovano anche esperienze con caratteristiche ‘deboli’ che si traducono in
minori opportunità di espansione/sopravvivenza, come una debole cultura
di impresa e la difficoltà ad identificarsi nel ruolo, la resistenza a trovare
sinergie con altre imprese e a consorziarsi.
Appare quindi fondamentale l’analisi delle esperienze imprenditoriali
femminili locali nei diversi settori per cogliere i punti di forza delle imprese
esistenti e le potenzialità occupazionali, di sviluppo professionale e di
conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi familiari, ma anche per
rilevare le necessità di informazione/formazione/orientamento e di servizi
di supporto.
Il problema dell’orientamento all’impresa delle donne disoccupate
assume un ruolo centrale nell’ambito delle politiche del lavoro perché le
potenzialità occupazionali offerte dall’attività imprenditoriale si traducano
in effettive occasioni di lavoro. Anche in questo caso i risultati di studi e
ricerche, ma, soprattutto, le verifiche degli esiti di interventi formativi per
l’avvio di imprese offrono importanti elementi di conoscenza. Spesso, una
dichiarata disponibilità all’intraprendere nasce dalla necessità/aspettativa
4
di avere un lavoro - qualunque lavoro - ma senza che vi sia un’idea di
impresa e/o la consapevolezza dell’importanza della verifica di fattibilità e
di che cosa significhi la gestione.
La ricerca
individuare:
che
Sinergica
ha
realizzato
è
stata
finalizzata
ad
Ø la diffusione e le caratteristiche della piccola imprenditoria femminile
del territorio;
Ø i fattori di successo e le criticità;
Ø la domanda di servizi di support o allo start up e allo sviluppo delle
imprese, espressa dalle imprenditrici.
La ricerca si è articolata in due fasi:
a. Raccolta e analisi secondaria di documentazione, studi e ricerche sul
tema, finalizzata a cogliere gli aspetti del fenomeno eventualmente già
rilevati, in modo da poter ottenere elementi per la costruzione del
campione di imprenditrici da intervistare nella fase successiva e per
l’elaborazione della traccia di intervista.
b. Indagine qualitativa sul campo, mediante interviste in profondità
semistrutturate ad un campione di imprenditrici, che comprenda diversi
tipi di impresa in rapporto a: forma giuridica, profit/no profit, settore di
attività, periodo di costituzione e localizzazione. Si prevede
l’effettuazione di 18/20 interviste, che sono state registrate e
deregistrate in protocolli scritti.
La prima parte del rapporto di ricerca fornisce una prima descrizione
della presenza delle donne nel mercato del lavoro veneto, approfondendo
la struttura e le dinamiche dell’occupazione femminile. Vengono inoltre
approfonditi elementi quantitativi e qualitativi delle imprese al femminile e
le potenzialità e problematicità connesse alla partecipazione delle donne
nel mercato del lavoro. In tale ambito di ricerca un ruolo importante è
rivestito dal panorama legislativo entro il quale si colloca il lavoro delle
donne: il terzo paragrafo affronta questa tematica attraverso un breve
excursus legislativo su alcune leggi per la tutela e la promozione del
lavoro femminile, oltre che degli aspetti legati alla conciliazione dei tempi
di vita e di lavoro.
La seconda parte del rapporto riferisce dei risultati dell’indagine sul
campo.
5
La ricerca sul campo si è sviluppata attraverso la realizzazione di 20
interviste in profondità su traccia semistrutturata (Allegato A) ad
imprenditrici della provincia di Venezia.
Nella scelta delle intervistate, tutte operanti in piccole imprese, si è
cercato di intersecare le variabili relative a settore, attività svolta, forma
giuridica, numero di addetti, localizzazione, età dell’imprenditrice.
L’individuazione delle titolari di impresa coinvolte nell’indagine è
avvenuta con la collaborazione di Legacoop di Venezia, Camera di
Commercio di Venezia, Eurosportello, comuni partner del progetto
(Scorzè, Musile di Piave, Mirano), Confcommercio (Unione Commercio e
Turismo) Sportello Imprenditoria Femminile, che hanno fornito elenchi di
imprenditrici presenti nei loro data base o hanno suggerito alcuni
nominativi di titolari d’impresa già sensibilizzate alle tematiche
dell’imprenditoria femminile.
La resistenza incontrata da parte delle stesse imprenditrici a
concedere le interviste ha parzialmente limitato lo scopo prefissato di
assicurare una rappresentatività del campione selezionato rispetto
all’universo oggetto della ricerca. E’ stato infatti necessario contattare un
grande numero di donne, titolari di piccole imprese, per raggiungere il
numero prefissato di interviste necessarie; la maggior parte delle persone
contattate ha infatti rifiutato il colloquio con motivazioni diverse ma
riconducibili sostanzialmente alla scarsa disponibilità di tempo e ad un
accentuato, talvolta esasperato, riserbo sulla propria attività d’impresa
nonché vita privata. Il fenomeno è stato così rilevante, rispetto ad altre
indagini, da spingere il team dei ricercatori a considerarlo un’altra
caratteristica dell’universo che si è inteso conoscere.
Pur affidandosi dunque ad una maggiore casualità del campione, si è
comunque raggiunto l’obiettivo principale dell’indagine, ovvero la raccolta
degli elementi caratterizzanti la piccola imprenditoria femminile nella
provincia di Venezia, le prospettive di sviluppo e il fabbisogno di servizi di
supporto.
Le interviste hanno toccato le seguenti aree:
-
la situazione attuale dell’azienda, sia come dati strutturali che come
percezioni e valutazione dell’imprenditrice;
-
l’avvio dell’impresa;
-
la percezione delle differenze di genere e il ruolo da esse giocato nella
creazione e nella gestione dell’impresa stessa;
-
i supporti e i servizi utilizzati, sia all’interno che all’esterno
dell’impresa;
-
i dati socio-anagrafici e la situazione personale dell’imprenditrice.
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PARTE PRIMA
Lo scenario: le donne nel mercato del lavoro veneto
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1. La presenza delle donne nel mercato del lavoro veneto:
struttura e dinamiche dell’occupazione femminile
Prima di delineare le caratteristiche del mondo dell’imprenditoria
femminile nella regione Veneto e, in particolare, nella provincia di Venezia,
è utile mettere a fuoco il contesto della presenza femminile nel mercato
del lavoro veneto.
A tal fine, riportiamo alcuni dati sulla dinamica e sulla struttura
dell’occupazione estrapolati dall’annuale rapporto sul mercato del lavoro,
curato da Veneto Lavoro. I dati sotto riportati si riferiscono all’anno 2000
e gli andamenti al triennio 1998-2000.
L’occupazione regionale complessivamente considerata si va
estendendo con un ritmo di incremento del 2,8% nel 2000 rispetto
all’anno precedente. Il trend di crescita coinvolge in maggior misura
l’occupazione femminile (+ 4,6%) rispetto a quella maschile (+ 1,7%).
Pertanto il tasso di femminilizzazione è aumentato fino a raggiungere il
38,6%, contro il 36,8% registrato a livello nazionale.
Da un punto di vista settoriale, l’agricoltura evidenzia un’occupazione
costante, l’industria nel suo insieme mantiene il suo dimensionamento, ed
è pertanto il terziario a crescere fortemente.
Una valutazione più approfondita di questi andamenti è possibile solo
per il periodo immediatamente precedente. Negli anni 1994-1998,
l’occupazione nel Veneto ha infatti presentato un’ottima performance con
un incremento dell’8,2%, quasi doppio rispetto a quello nazionale. La
crescita del numero di imprese è stata dell’1,8%, mentre in Italia risultava
negativa, e il maggior contributo alla crescita occupazionale è derivato
dalle imprese medio-piccole. Il comparto del terziario è cresciuto del
13,6%, sviluppandosi più che in Italia, mentre il comparto industriale ha
sostanzialmente tenuto malgrado l’apporto negativo alla crescita
occupazionale.
Relativamente ai dati sulle forze lavoro femminili nel Veneto,
comparati anche con l’Italia e riferiti al periodo 1998 – 2000, si evidenzia
che il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è cresciuto
nel periodo considerato, attestandosi in Veneto nell’anno 2000 al 34,9%,
quattro punti percentuali in più rispetto al dato italiano.
Altre differenze rappresentative dello stato del mercato del lavoro in
Veneto, sempre riferite all’anno 2000, sono un tasso di occupazione
femminile totale pari al 32,8% contro il 26,4% italiano e un tasso di
disoccupazione femminile pari al 6,1% che si pone di fronte al 14,5% del
dato riferito all’Italia.
8
L’andamento nel triennio considerato denota una crescita sia del
tasso di attività totale che del tasso di occupazione totale e un decremento
del tasso di disoccupazione.
La suddivisione dell’occupazione femminile tra settori conferma la
forte presenza delle donne nel terziario, 64,8%, e indica il 31,9% di
presenza nell’industria e il 3,3% in agricoltura.
Tab. 1 - Composizione % dell’occupazione femminile per settori, in
anno 2000.
Veneto e in Italia,
Veneto
Italia
3,3%
4,5%
Industria
31,9%
21,0%
Altre attività
64,8%
74,4%
Agricoltura
La suddivisione dell’occupazione femminile tra lavoro dipendente e
indipendente rispecchia sostanzialmente il dato italiano rivelando tuttavia
uno scostamento dell’1,6% a favore dell’occupazione dipendente.
Tab. 2 - Composizione % dell’occupazione femminile per posizione professionale, in
Veneto e in Italia, anno 2000.
Veneto
Italia
Lavoratrici dipendenti
79,6%
78,0%
Lavoratrici indipendenti
20,4%
22,0%
Le assunzioni di donne hanno registrato una crescita del 10% (di cui
part-time 11,4%). L’incidenza delle donne occupate a tempo parziale è
salita dal 15,4% del 1994 al 20,7% del 2000.
Sul totale degli occupati il part -time è concentrato (68%) soprattutto
tra i lavoratori in età centrale (25-44 anni) ma gli incrementi registrati
hanno riguardato particolarmente gli under 20 e gli over 50, segnando un
nuovo uso dello strumento, adottato non solo per conciliazione della vita
familiare, ma anche per un inserimento progressivo o un ritiro graduale
dal mercato del lavoro.
L’incidenza del lavoro temporaneo ha interessato particolarmente le
donne, passando dall’8,9% del 1994 al 10,4% del 2000. Si tratta
comunque di valori inferiori alla media italiana.
Parlando di occupazione vanno comunque sottolineate le ridotte
dimensioni dell’aggregato “persone in cerca di occupazione” e la
consistente dimensione dell’aggregato delle “non forze di lavoro”, che
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spingono la domanda di lavoro a cercare di mobilitare queste ultime
componenti, almeno nella percentuale comunque interessata al mercato
del lavoro anche se non in ricerca attiva di occupazione. Si tratta delle
persone blandamente in cerca di lavoro, che hanno cioè svolto azioni di
ricerca del lavoro ma non di recente, e delle persone che si dichiarano
disponibili a collocarsi sul mercato ma a particolari condizioni. In queste
fila di non forze lavoro si ritrovano prevalentemente casalinghe di età 3049 anni, oltre a maschi e femmine con più di 50 anni.
Per conoscere alcuni aspetti più qualitativi della partecipazione
femminile al mercato del lavoro è utile trarre alcune indicazioni dalle
indagini svolte dall’Osservatorio del Mercato del Lavoro del Veneto,
sempre nel triennio 1998-2000. Queste indagini, richieste dalla
Commissione Pari Opportunità, hanno analizzato i cambiamenti della
domanda e dell’offerta di lavoro femminile nel Veneto, elaborando per
questa finalità dati e informazioni prodotte da alcune significative indagini
condotte a livello nazionale.
E’ noto come il Veneto in pochi decenni, da una posizione di
arretratezza rispetto al resto del nord Italia sia passato ad uno sviluppo
industriale trainante per l’intera economia regionale. Questo sviluppo e la
conseguente ed eccezionale crescita economica possono essere letti in
termini di effetti e cambiamenti sul mercato del lavoro. In questi
cambiamenti le donne hanno giocato un ruolo importante, beneficiando in
misura maggiore, rispetto agli uomini, dell’impatto della crescita
economica.
Ciò è avvenuto poiché in passato le donne hanno quasi sempre
occupato posizioni marginali nel mercato del lavoro, mansioni di bassa
qualifica o tradizionalmente femminili (insegnante, infermiera, segretaria,
etc.), uscendo dal mercato nei momenti di crisi. Negli ultimi anni la
situazione si è rapidamente modificata.
Il livello di scolarizzazione delle donne si è innalzato, raggiungendo
prima e superando poi quello maschile, e di pari passo è cambiato
l’atteggiamento femminile verso il lavoro. Oggi tra gli occupati si
registrano più donne diplomate e laureate che uomini con pari titoli di
studio.
Ma benché il tasso di occupazione delle donne sia strettamente
connesso al livello di istruzione, il loro tasso di disoccupazione continua ad
essere quasi doppio di quello maschile. Inoltre il tasso di occupazione
femminile è ancora al di sotto sia di quello maschile riferito al Veneto, sia
di quello europeo, che costituisce comunque una prioritaria
preoccupazione dei responsabili comunitari delle politiche del mercato del
lavoro.
Il tasso di disoccupazione è un tradizionale indicatore dello stato di
salute del mercato del lavoro ma non completamente adeguato a misurare
10
i disagi dello stesso e soprattutto i divari fra le sue componenti di genere.
A riprova di ciò, a livello regionale pur in presenza di un tasso di
disoccupazione fra i più bassi in Europa, l’opinione comune continua a
percepire la disoccupazione come il problema più grave del mercato del
lavoro, anche in considerazione del fatto che lo status della disoccupazione
non presenta più dei connotati ben distinti come in passato in un contesto
di grande flessibilità e mobilità dell’impiego che mimetizza la divisione fra
occupazione, disoccupazione e inattività. A tal proposito, va in questa sede
ricordato che tra coloro che non dichiarano di far parte delle forze di
lavoro si ritrovano per la maggior parte donne.
Da quanto sopra descritto risulta quindi una sottoutilizzazione del
potenziale di lavoro femminile e quindi il Veneto si presenta come una
regione con un tasso di disoccupazione complessivo fra i più bassi in Italia
e in Europa, ma con un tasso di occupazione femminile in linea con quello
dei paesi meno industrializzati, contraddizione in parte spiegabile come
conseguenza della rapidità del passaggio da economia prevalentemente
agricola a contesto industriale molto competitivo in cui un incremento
della base occupazionale è tuttavia necessario per il suo stesso
mantenimento. Si tratta peraltro di un obiettivo condiviso a livello
nazionale e europeo nella prospettiva di un aumento del contenuto
occupazionale della crescita economica.
Le donne venete che si dichiarano alla ricerca attiva di lavoro,
disposte cioè ad accettare immediatamente qualsiasi tipo di lavoro,
sperimentano quindi alti livelli di disoccupazione che alcune importanti
indagini attribuiscono non solo ad un insufficiente livello di domanda ma
anche alla difficoltà di incontro fra domanda e offerta. Ad esempio,
l’indagine Excelsior del 1997 sulla domanda di lavoro da parte delle
imprese, collocava la regione Veneto in prima posizione fra le regioni
italiane per difficoltà di reperimento della manodopera.
Se dunque il Veneto è una regione in cui le occasioni di lavoro non
mancano, qualcosa andrebbe rivisto in merito ai canali di ricerca del
lavoro e all’efficienza di tutti i servizi per l’impiego oggi presenti sul
territorio.
Ma tra le donne che cercano un nuovo lavoro si ritrovano anche una
buona percentuale di donne occupate. Un altro degli effetti della maggiore
flessibilità nell’impiego del lavoro da parte delle imprese introdotta negli
anni recenti, e delle difficoltà di incontro qualitativo fra domanda e offerta,
è il forte incremento delle persone già occupate in cerca di un nuovo
lavoro. Questa nuova classe composta quasi in uguale misura da uomini e
da donne, si pone in competizione con i gruppi di disoccupati e inattivi,
con uno scarto poco inferiore al loro numero complessivo.
In quest’ottica di valutazione del peso percentuale sul totale delle
persone in cerca di lavoro, le donne occupate rappresentano una fetta
minore rispetto a quella dei maschi, dato tuttora correlabile al diverso
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atteggiamento delle donne rispetto al lavoro, frutto della necessità di
conciliazione tra la vita lavorativa e la vita familiare. Infatti, le esigenze
della famiglia condizionano la mobilità delle donne che spesso è tuttavia
connessa alla possibilità di carriera e alla retribuzione.
Un’altra scelta frequentemente attuata dalle donne in considerazione
degli impegni familiari è il lavoro a tempo parziale. Le donne sono da
sempre le destinatarie di rapporti di lavoro part -time; anche oggi, in un
contesto di generale flessibilizzazione di tutto il mercato del lavoro, il part time si concentra soprattutto fra le donne, che nel Veneto costituiscono
l’80% della quota complessiva di lavoratori con questo tipo di orario.
La diversa ripartizione per età tra le donne che scelgono di lavorare
con un orario ridotto esprime in modo chiaro il diverso significato che ha
questa tipologia di lavoro per i due sessi. Si tratta infatti di una modalità
che interessa soprattutto le donne in età matrimoniale con figli, simbolo di
scelta obbligata per poter conciliare i ruoli familiari e professionali, mentre
fra gli uomini con lavoro part -time si ritrovano quasi esclusivamente i
pensionati.
Anche sotto il profilo dei ruoli professionali ricoperti dalle donne la
situazione non presenta molte novità rispetto al passato, nonostante
l’innalzamento generalizzato del livello di istruzione prima ricordato. Le
aree di dominio femminile continuano ad essere: le professioni esecutive
relative all’amministrazione e gestione aziendale, le professioni relative ai
servizi alle famiglie e le professioni relative alle vendite. Le professioni
manuali più specializzate rimangono dominio maschile. In relazione invece
alla dimensione delle aziende le donne trovano collocazioni diverse: le
donne con professioni intellettuali e di elevata specializzazione sono
inserite soprattutto nelle medie imprese, nelle grandi imprese le donne
svolgono professioni intermedie mentre nelle piccole e piccolissime
imprese si concentrano in attività relative alle vendite e ai servizi.
Queste indicazioni riconfermano un aspetto spesso evidenziato
riguardo all’occupazione femminile, cioè la sua concentrazione in un
numero limitato di figure professionali e la forte discriminazione
professionale nei confronti delle forze di lavoro femminili.
Fattori che permangono quindi nonostante i cambiamenti registrati
sul versante dell’offerta, con più elevati titoli di studio e maggior
propensione a rimanere sul mercato del lavoro anche in età riproduttiva, e
che fanno confluire la domanda di lavoro rivolta alle donne su uno ristretto
numero di figure professionali tradizionali da sempre occupate dalla
componente femminile.
12
2.
Le imprese al femminile: elementi quantitativi e qualitativi
Per fotografare la presenza e le caratteristiche dell’imprenditorialità
femminile nella provincia di Venezia vengono di seguito presentati alcuni
dati elaborati sulla base della ricerca condotta dal Comitato per la
promozione dell’imprenditoria femminile della CCIAA di Venezia.
Nel paragrafo precedente è già stato rilevato come le lavoratrici
indipendenti in Veneto si attestino su una percentuale del 20% sul totale
delle lavoratrici. I dati della Camera di Commercio che seguono sono
riferiti alle figure di imprenditori, pertanto alle persone che all’interno di
un’impresa ricoprono cariche di titolare, socio, amministratore e altre
cariche; restano pertanto escluse le libere professioniste in quanto
lavoratrici autonome ma senza impresa e senza dipendenti.
Da questi dati si deduce che l’imprenditoria femminile nella provincia
di Venezia ha un peso inferiore alla media regionale e nazionale e la
crescita nel 2001 è stata più ridotta rispetto alla crescita delle
imprenditrici venete e italiane.
La tabella 3 ci permette di confrontare la presenza di imprenditrici
nelle diverse province del Veneto, evidenziando che a Venezia si registra il
16% del totale delle imprenditrici della regione.
Tab. 3 - Distribuzione percentuale delle imprenditrici venete per provincia, anno 2001.
Imprenditoria femminile
Belluno
4%
Rovigo
6%
Venezia
16%
Vicenza
17%
Verona
18%
Treviso
18%
Padova
21%
Totale
100%
Restringendo il campo alla sola provincia di Venezia, osserviamo una
panoramica sulla presenza femminile nel mondo imprenditoriale in valori
assoluti e percentuali e un confronto imprenditori e imprenditrici rispetto a
cariche sociali ricoperte, settori di attività, natura giuridica delle imprese
ed anzianità anagrafica.
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Tab. 4 - Imprenditori iscritti al Registro Imprese della CCIAA di Venezia, anno 2001;
suddivisione maschi/femmine.
Maschi
85.213
74,6%
Femmine
29.073
25,4%
114.286
100,0%
Totale
I 114 mila e 286 imprenditori e imprenditrici indicati nella tabella 4
non corrispondono ad una singola impresa, nelle società infatti è possibile
ritrovare più soci. E’ nella tabella 5 che ritroviamo la distribuzione
percentuale per ciascuna delle cariche sociali sopra indicate.
Tab. 5 - Distribuzione percentuale per carica sociale, imprenditori della provincia di
Venezia, anno 2001; suddivisione maschi/femmine.
Titolare
Socio
Amministratore
Altre cariche
Maschi
77%
63%
79%
84%
Femmine
23%
37%
21%
16%
100,0%
100,0%
100,0%
100,0%
Totale
Le donne, rispetto agli uomini sono più presenti all’interno delle
imprese con la carica di socie (37%) ma, se il raffronto tra cariche
occupate avviene solo all’interno dell’universo femminile, le ritroviamo
prevalentemente con la carica di titolare (38%).
Nella carica di amministratore e nelle altre cariche le donne sono
comunque in crescita rispetto all’anno precedente.
14
Tab. 6 - Distribuzione percentuale per settore, imprenditori della provincia di Venezia,
anno 2001; suddivisione maschi/femmine.
Maschi
Femmine
Agr icoltura
75%
25%
Industria
83%
17%
Commercio
70%
30%
Turismo
63%
37%
Trasporti
89%
11%
Credito e assicurazioni
79%
21%
Servizi alle imprese
72%
28%
Servizi pubblici
57%
43%
Altri settori
70%
30%
In alcuni settori le donne sono più presenti e anche le imprenditrici
superano la media provinciale del 25%; sono infatti il 43% degli
imprenditori totali nel settore dei servizi pubblici, il 37% nel settore del
turismo, il 30% nei settori commercio e altri settori (che comprende il
settore dei servizi alla persona), il 28% nel settore dei servizi alle imprese.
Tab. 7 - Distribuzione percentuale per natura giuridica dell’impresa, imprenditori della
provincia di Venezia, anno 2001; suddivisione maschi/femmine.
Maschi
Femmine
Società di capitale
83%
17%
Società di persone
66%
34%
Imprese individuali
77%
23%
Altre forme
85%
15%
La forma giuridica scelta da quasi la metà delle imprenditrici presenti
nella provincia di Venezia, in tutti i settori, è la società di persone, anche
se nelle società di capitali la presenza delle imprenditrici nell’anno 2001 è
cresciuta del 10%. Rispetto alla suddivisione tra uomini e donne sul totale
degli imprenditori, la tabella 7 mostra come la percentuale scenda al di
sotto della media provinciale sia per le imprese individuali (23%), che per
società di capitale (17%) che per le altre forme societarie (15%, al cui
interno si collocano anche le società cooperative), mentre nelle società di
persone le imprenditrici sono il 34%.
Circa la metà degli imprenditori su cui stiamo argomentando si è
iscritto al registro delle imprese nell’intervallo temporale che va dall’anno
1990 al 1999 e tra questi le imprenditrici sono più numerose, a
15
testimonianza di un ingresso più recente delle imprese femminili nel
mercato.
Anche considerando l’età degli imprenditori si nota una presenza
femminile più numerosa nelle fasce di età comprese entro i 32 anni, e la
percentuale di donne decresce all’innalzarsi dell’età come si evince dalla
tabella 8.
Tab. 8 - Distribuzione percentuale per età, imprenditori della provincia di Venezia, anno
2001; suddivisione maschi/femmine.
Maschi
Femmine
meno di 22 anni
65%
35%
da 23 a 32 anni
71%
29%
da 33 a 42 anni
74%
26%
da 43 a 52 anni
75%
25%
da 53 a 62 anni
76%
24%
più di 62 anni
77%
23%
La fascia di età più importante rimane comunque quella dai 33 ai 42
anni in cui va a collocarsi quasi il 30% sia degli imprenditori che delle
imprenditrici; è importante però evidenziare come rispetto al 2000 la
fascia di imprenditrici al di sotto dei 22 anni sia cresciuta del 78%.
Grazie alle elaborazioni statistiche effettuate dall’EBAV (ente
bilaterale artigianato veneto), possiamo approfondire alcuni dati sulla
presenza femminile nel comparto artigiano regionale, riferiti all’anno 2002.
In questo comparto il peso della componente femminile tra gli
imprenditori e i collaboratori familiari si attesta sul 20,5% del totale dei
titolari e collaboratori di impresa. Se consideriamo solo le titolari questa
percentuale scende al 17,4%; si tratta inoltre di una componente che nel
periodo 1997-2001 ha registrato una contrazione di circa due punti
percentuali.
L’imprenditoria femminile nell’ambito dell’artigianato ha pertanto un
peso minore che nel mondo imprenditoriale complessivamente considerato
e un altro dato che differisce da quanto prima evidenziato riguarda l’età
delle imprenditrici.
Infatti, la classe imprenditoriale artigiana lamenta da tempo una
mancanza del ricambio generazionale che porta ad un progressivo
invecchiamento del settore e alla chiusura di molte aziende al
sopraggiungere dell’età pensionabile del titolare.
In particolare sono le donne artigiane in età compresa tra i 55 e i 70
anni che aumentano più degli uomini mentre la fascia di età fino a 34 anni
16
conosce un’accentuata diminuzione, ancora più marcata nella fascia di età
compresa nei 24 anni.
L’anzianità delle aziende rivela al contrario che il 75% degli
imprenditori ha meno di 20 anni di attività, le donne in particolare sono
entrate nell’artigianato soprattutto a partire dal 1994.
Un altro indicatore della “voglia di fare impresa” delle donne venete
può essere rappresentato dalle domande presentate all’ultimo bando delle
legge n. 215/92 “Azioni positive per l’imprenditoria femminile.
Tab. 9 – Suddivisione delle domande per provincia, provvedimento 2001.
Domande
presente
Domande con
esito positivo
Domande con
esito negativo
Domande
agevolate
Verona
288
229
59
45
Treviso
243
206
37
42
Padova
237
180
57
42
Venezia
229
191
38
58
Vicenza
212
174
38
40
Rovigo
150
129
21
40
Belluno
62
50
12
16
1421
1159
262
283
Totale
Il 45% delle domande presentate (tabella 9) si riferisce infatti
all’avvio di nuove attività, e anche le domande dichiarate ammissibili cioè
il cui esito dell’istruttoria è stato positivo riguardano per il 43% nuove
imprese in fase di start -up.
Seguono i progetti aziendali innovativi con il 43% delle domande
presentate, l’acquisto di attività preesistenti riguarda invece solo il 10%
delle domande mentre nel 2% dei casi non è dichiarato il tipo di iniziativa.
Il 76% dei progetti, infine, si colloca nel settore commercio, turismo e
servizi.
Per aggiungere elementi qualitativi di conoscenza delle imprenditrici
venete ai dati quantitativi finora presentati, il riferimento va ad
un’indagine condotta nella regione tra il 1995 e il 1997 con l’obiettivo di
delineare un profilo sia delle imprese condotte da donne che delle stesse
imprenditrici.
Si tratta di un contributo importante alla conoscenza delle motivazioni
che portano le donne ad intraprendere, in un territorio come quello Veneto
di imprenditorialità diffusa, e delle difficoltà che incontrano nell’affrontare
17
un lavoro autonomo non tralasciando tuttavia il pesante carico del lavoro
di cura che la presenza di una famiglia comporta.
Una sintesi dei due apporti alla ricerca, il primo più quantitativo e il
secondo più qualitativo, ci fornisce il seguente spaccato d’impresa:
titolarità femminile, operante prevalentemente nel settore industriale
come società di capitale, con una anzianità media di 20 anni, un fatturato
medio compreso tra 1 e 10 miliardi di vecchie lire italiane e un numero di
dipendenti inferiore a 6. L’imprenditrice ha un’età media di 42 anni e il
diploma di scuola media superiore; è sposata e il marito spesso lavora
nella stessa impresa. Il motivo che più frequentemente ha condotto ad
avviare l’attività imprenditoriale è la tradizione familiare, unitamente al
bisogno di autonomia decisionale e alla voglia di utilizzare al meglio le
proprie capacità. Le imprenditrici fondatrici dell’azienda hanno riscontrato
problematiche iniziali legate alla complessità delle adempienze, a problemi
finanziari e di inserimento nel mercato, e difficoltà a reperire le risorse
umane. Diversi invece i problemi incontrati dalle imprenditrici non
fondatrici, che lamentano conflitti generazionali con gl i altri soci, ambiente
maschilista e difficoltà di rapporti con il personale, oltre ai comuni
problemi finanziari. Superati gli impedimenti iniziali, la gestione quotidiana
dell’impresa comporta ugualmente problemi connessi alle specificità di
genere, in particolare la prevenzione degli uomini nei confronti di
imprenditrici donne, gli impegni familiari per la cura dei figli, le difficoltà di
gestione dei collaboratori maschi. Mediamente il tempo dedicato alla
gestione dell’impresa è di 48 ore settimanali, cui si abbina un tempo
medio di 25 ore settimanali dedicato alla gestione della famiglia. A
quest’ultima viene comunque attribuito un maggior valore, al di là del
tempo ad essa dedicato. Le prospettive di sviluppo godono di una visione
generalmente positiva tra le imprenditrici che eppur si muovono in un
clima incerto o di prudenza, con una conoscenza poco approfondita delle
opportunità offerte dalla legislazione vigente.
Muovendo da un primo profilo di imprenditrice veneta motivata e
ottimista, che si muove in un sufficiente equilibrio tra ruolo imprenditoriale
e ruolo familiare, nel permanere di strutture culturali e istituzionali
inadeguate ad un’ulteriore espansione dell’imprenditoria femminile,
vengono esplorati alcuni indicatori della qualità della vita di queste donne
in termini di aspirazioni e soddisfazioni raggiunte.
La maggior parte delle imprenditrici riconosce la flessibilità offerta dal
loro ruolo nella scelta dei tempi da dedicare sia all’impresa che alla
famiglia ma, di fatto, è meno soddisfatta dell’effettiva ripartizione operata.
All’elevato numero di ore dedicato all’azienda, fa seguito un tempo medio
di lavoro di cura molto alto, che quindi ricade sulle donne a prescindere
dal grado della professione ricoperta. La convivenza con persone
destinatarie di bisogni di cura accresce eccessivamente il tempo loro
dedicato. Il tempo per sé stesse e il tempo per la cura di sé risulta
18
numericamente più basso. Ciò si riflette in una maggiore intensità del
peso della rinuncia ad occuparsi di questi aspetti della vita privata.
Avvertita in modo pesante la rinuncia ad occuparsi della famiglia per dare
la precedenza al lavoro, malgrado i maggiori riconoscimenti e gratificazioni
derivino di fatto dall’ambito lavorativo. In un generale grado di
soddisfazione medio alto, il livello di soddisfazione più consistente si
riscontra proprio nel ruolo di imprenditrice, cui segue quello di madre. Le
opinioni liberamente espresse dalle imprenditrici sull’esistenza di pari
opportunità nello svolgimento del loro ruolo, si possono riassumere in
alcune categorie. Da una parte, si colloca il gruppo di coloro che si
considerano imprenditori a tutti gli effetti e rigettano una legislazione a
tutela delle imprenditrici in quanto tendente a sottolineare sostanziali
differenze tra uomini e donne. Chi invece dà rilievo alle differenze e mette
in risalto le difficoltà che un’imprenditrice incontra nel farsi accettare come
leader, difficilmente esprime ipotesi di intervento. Infine, è folto il gruppo
di imprenditrici che mette l’accento sui problemi della “doppia presenza” in
azienda e in famiglia per lo svolgimento del proprio ruolo imprenditoriale.
L’incompatibilità del ruolo familiare con lo svolgimento della professione è
infatti fonte di disagio. Proprio alla luce delle problematiche evidenziate, il
buon livello di risultati professionali raggiunti viene ritenuto dalle
imprenditrici superiore a quello ottenibile dagli imprenditori maschi che
non sono chiamati a fronteggiare e neutralizzare le influenze negative
derivanti dalla condizione femminile.
19
3. Il panorama legislativo di riferimento per il lavoro delle
donne: tutela, promozione e impegno verso le imprese e le
famiglie
Il sistema di welfare italiano, in modo analogo a molti altri paesi
mediterranei, è stato a lungo incentrato su un’idea ormai obsoleta di
famiglia: esso ha sempre considerato l’uomo come unico o principale
detentore di reddito, ma ancor più restrittivamente ha racchiuso un
principio “familista” della cura, in base al quale sono i membri della
famiglia i primi responsabili del benessere dei soggetti appartenenti al
nucleo.
Il presupposto, diffusamente condiviso, è che le responsabilità legate
alla cura dei figli in tenera età e all’assistenza di adulti non autonomi
(portatori di handicap o anziani) costituiscono un ostacolo alla
partecipazione alle forze lavoro ed alla possibilità di crescita professionale,
sia per le donne che per gli uomini. Di fatto, a scontrarsi con questa realtà
sono state però le donne, per tradizione considerate i soggetti
preminentemente dediti al lavoro di cura, dentro e fuori la famiglia.
La legislazione, sia nazionale che regionale, viene costantemente
analizzata negli studi sulle politiche di genere, cercando di individuare le
politiche sociali indirizzate alle donne e le diverse fasi e modalità
dell’attivazione dell’intervento pubblico.
In un sistema di tutela e sostegno del lavoro sbilanciato verso alcuni
gruppi di cittadini che sono stati iper-garantiti - i lavoratori dipendenti del
settore pubblico e delle medie e grandi aziende con le relative famiglie - a
scapito di altri gruppi – in particolare lavoratori autonomi e piccoli
imprenditori, che più di altri sperimentano l’elevata flessibilità e
disponibilità di tempo - si è inoltre cercato di capire quali strumenti il
nostro welfare system mette a disposizione di tutti questi soggetti per
conciliare lavoro di cura familiare e lavoro professionale.
In Italia la storia della regolazione giuridica del lavoro femminile è
relativamente recente. Inizia nei primi anni del ‘900, un po’ in ritardo
rispetto ad altri paesi europei, in particolare anglosassoni, per varie
ragioni di ordine politico – le donne acquisirono il diritto di voto nel 1947 –
, economico - il risparmio su una manovalanza tanto efficiente quanto
sotto pagata e per nulla tutelata quale erano le donne – e sociale,
compresa un’inconscia paura della presenza delle donne nel mercato del
lavoro da parte del mondo maschile.
Tralasciando le prime leggi del 19001, la moderna legislazione sul
lavoro femminile affonda le radici nell’art. 37 della Costituzione
1
Nel 1910 fu istituita la Cassa di Maternità, nel 1919 si aprirono alle donne le libere professioni e le carriere
pubbliche anche se con ancora molte eccezioni e molto libero arbitrio, nel 1924 si fissò l’astensione obbligatoria
per maternità
20
repubblicana. Esso sancisce che: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti
e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le
condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale
funzione famigliare e assicurare alla madre e al bambino una speciale
adeguata protezione”.
L’articolo 37 della Costituzione fissa l’uguaglianza tra uomini e donne
nel lavoro, ma nel contempo sostiene che tale diritto ha lo scopo di
tutelare “l’essenziale funzione famigliare e materna”, riafferma cioè la
priorità femminile nel lavoro di cura all’interno della famiglia. Nasce così
una contraddizione costituzionale poiché l’articolo in definitiva sancisce
l’uguaglianza nel mercato del lavoro e la disuguaglianza dentro le mura
domestiche, contraddizione che influenzerà la legislazione seguente,
avente come finalità il miglioramento delle garanzie per le madri
lavoratrici in più settori economici, con estensioni temporali del periodo di
congedo e con il riconoscimento d’indennizzo per il periodo d’astensione
dal lavoro. Garanzie fondamentali, ma spesso limitate dall’interpretazione
restrittiva delle norme e rivolte ad una sola categoria di lavoratrici, quelle
dipendenti.
Un’altra sottolineatura negativa è la continua astensione dello Stato
da un intervento effettivo: è mancata un’assunzione diretta di
responsabilità che considerasse la maternità ed il lavoro delle donne quale
bene pubblico e sociale, e non solo una questione privatistica. Lo Stato
non si è proposto come soggetto attivo, fornitore di quei servizi in grado di
garantire alle donne la possibilità di conciliare il lavoro e la vita famigliare.
La legislazione si è inoltre sviluppata ignorando un’altra figura molto
importante, quella del marito-padre, riproponendo un modello famigliare
in cui la cura della prole era compito peculiare della madre.
Con quest’impianto legislativo le donne hanno dovuto fare i conti fino
alle rivoluzioni economico sociali degli anni ’60 e ’70 che hanno proposto
una nuova immagine femminile avviando un irreversibile, anche se lento,
mutamento del loro ruolo nel mercato del lavoro.
La tutela del lavoro femminile uscirà così lentamente dalle mura del
luogo di lavoro, per investire il più ampio campo delle relazioni fra
individuo e Stato, fino ad arrivare ad un ottica più evoluta: la
promozione2.
Per parlare di una legislazione moderna è necessario aspettare le
grandi riforme economico sociali degli anni ’70: oltre allo Statuto dei
Lavoratori, che rimane a tutt’oggi il testo di legge più importante in
materia di tutela dei lavoratori, una legge che ha sancito principi tuttora
validi, è la legge n. 1204 del 30/12/71. La legge rafforza i principi
fondamentali della tutela della madri lavoratrici:
2
Per promozione del lavoro femminile s’intende l’insieme di interventi volti ad aumentare la presenza delle
donne nel mondo del lavoro, soprattutto in posizioni decisionali, nelle libere professioni, nell’imprenditoria
21
-
mantenimento del posto durante la gravidanza e la maternità;
- congedo obbligatorio due mesi prima e tre mesi dopo il parto e
relativo indennizzo anche per le lavoratrici apprendiste, domestiche e a
domicilio (prima escluse);
- diritto d’astensione dal lavoro anche per i sei mesi successivi al
congedo obbligatorio con la garanzia di conservazione del posto e un
indennità del 30%.
Quest’ultimo punto è sicuramente l’innovazione più importante perché
è il riconoscimento dell’importanza di tutelare non solo il bisogno fisico di
riposo in vicinanza e durante il parto, ma anche, più in generale, il
rapporto fra madre e figlio nel periodo appena seguente la nascita.
Un’altra legge importante, che marca un cambiamento di prospettiva
nella tutela del lavoro di cura ma anche nei rapporti tra uomini e donne, è
la n. 903 del 09/12/77 sulla “Parità di trattamento tra uomini e donne in
materia di lavoro”, che sancisce l’assoluta uguaglianza tra uomini e donne
nel lavoro punendo le discriminazioni di genere.
In base a quanto disposto da questa legge, le lavoratrici hanno diritto
alla stessa retribuzione dei colleghi uomini a parità di mansioni,
all’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e alla progressione di
carriera nella stessa misura e con le stesse modalità dei colleghi maschi. A
tutela dell’incolumità delle donne è loro vietato il lavoro notturno fatta
eccezione per alcune mansioni, o nel caso di diversa contrattazione
collettiva.
Lo stesso testo di legge prevede un altro importante diritto per le
lavoratrici autonome: la possibilità di rappresentare l’impresa in cui
esercitano la loro professione negli organi statutari delle cooperative, dei
consorzi, e d’ogni altra forma associata.
Affinché le tutele assicurate alle madri lavoratrici dipendenti siano
garantite anche alle lavoratrici autonome e alle libere professioniste:
rispettivamente il riferimento è alla legge 546 del 29/12/87 ed alla legge
379 del 11/12/90, che, oltre a fissare il diritto al congedo, determina
anche gli indennizzi corrispondenti. Come in apertura evidenziato, il
sistema solo recentemente si è occupato dei lavoratori autonomi,
mantenendo comunque un’impronta fortemente “lavorista” al cui centro
rimane il rapporto di lavoro stabile fra lavoratore e datore di lavoro. Ancor
più recente è stata l’estensione del periodo di congedo facoltativo per
maternità allungato a dieci mesi durante i primi tre anni di vita del figlio,
ed un’applicazione più estesa degli assegni famigliari.
La questione non è tanto e solo l’esistenza di leggi, ma la loro
effettiva applicazione: il nostro paese vive ancora una grave situazione di
deregolazione in cui, a fronte di una normativa fra le più vantaggiose in
Europa, esiste una regolazione informale ancora fortemente a svantaggio
22
delle donne. La percezione reale di tutela che le donne hanno, soprattutto
le lavoratrici “indipendenti”, è qualcosa di diverso di quanto possa apparire
da un esame della legislazione.
La normativa, anche qualora fosse pienamente applicata, non
soddisfa a pieno i bisogni di tutela delle donne che, in prospettiva di un
mercato del lavoro sempre più flessibile e precario, non godono di un
posto stabile, ma sono impiegate come collaboratrici, consulenti,
prestatrici d’opera occasionali, o semplicemente lavoratrici autonome,
professioniste e imprenditrici. L’intervento legislativo in materia di lavoro
non è percepito dalle donne come un sostegno nei loro quotidiani tentativi
di conciliare il lavoro con le esigenze familiari.
Un passo importante per rispondere alla avvertita necessità di un
complesso sistema di riforme nelle politiche per la famiglia, nei servizi,
affinché la tutela della maternità diventi la tutela più in generale della
famiglia e dei rapporti tra genitori e tra genitori e figli, è stato fatto con la
legge n. 53 dell’8 marzo 2000, “Disposizioni per il sostegno della
maternità e della paternità, per il diritto alla cura ed alla formazione, per il
coordinamento dei tempi nelle città”.
La legge, più nota come normativa sui congedi parentali, promuove
un equilibrio tra i tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione
intervenendo in tre direzioni principali:
- l’istituzione e l’estensione dei congedi, parentali e per la formazione
continua,
-
il sostegno a forme di flessibilità di orario,
- il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città e la
promozione dell’uso del tempo per fini di solidarietà sociale.
La legge costituisce l’attuazione della direttiva europea n. 96/34 e si
presenta come momento complesso di passaggio dalla tutela della madre
lavoratrice alla promozione del lavoro di cura sia materno che paterno.
I più import anti cambiamenti introdotti sulla gestione dei periodi di
assenza per maternità sono la possibilità di modificare la distribuzione
temporale dell’astensione obbligatoria, spostando un mese di assenza da
prima a dopo la nascita del figlio, e l’articolazione della quota di congedo
parentale fino agli otto anni di vita dello stesso.
La legge n. 53 del 2000 declina con precisione le regole dei congedi
per i genitori (art.3) abrogando alcuni articoli della sopra citata legge n.
1204/71, dei congedi concessi per eventi e cause particolari (art.4) quali
la documentata grave infermità del coniuge o del decesso dello stesso, o
la presenza di malati gravi o portatori di handicap.
Sempre in materia di congedi vengono fissati per i lavoratori con
almeno cinque anni d’anzianità presso la stessa azienda, il diritto al
23
“congedo per la formazione”, finalizzato al completamento della scuola
dell’obbligo, al conseguimento di un titolo di studio di secondo grado, di
un diploma universitario o laurea, o ad iniziative formative diverse da
quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro (art.5). A
completare il panorama dei congedi, l’art.6 stabilisce che i lavoratori
occupati o non occupati hanno il diritto a proseguire lungo percorsi di
formazione continua, cioè per tutto l’arco della vita, al fine di accrescere
conoscenze e competenze professionali.
Viene quindi affrontato il tema della flessibilità degli orari di lavoro
mediante l’accesso a forme alternative di lavoro tra cui il part -time
reversibile, il telelavoro, il lavoro a domicilio, gli orari flessibili d’entrata e
d’uscita, la banca delle ore, la flessibilità sui turni, l’orario concentrato. La
legge interviene prevedendo finanziamenti alle aziende che adottano tali
strumenti, che prevedono programmi di formazione per il reinserimento
dei lavoratori dopo il periodo di congedo, che realizzino progetti per la
sostituzione del titolare d’impresa o del lavoratore autonomo, durante il
periodo d’astensione obbligatoria o dei congedi parentali, con altro
imprenditore o lavoratore autonomo. Si tenta soprattutto di favorire le
imprese di piccole dimensioni.
Nell’ultima parte della legge, vengono affrontati i tempi delle città. Al
capo VII all’art.22 e seguenti, le regioni ed i comuni vengono indicati
come enti deputati a prevedere programmi di coordinamento degli orari
degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici e degli uffici periferici delle
amministrazioni pubbliche per la promozione dell’uso del tempo per fini di
solidarietà sociale. Il lavoro di concertazione tra comune, provincia e
regione deve produrre la stesura di un piano territoriale degli orari. Per
favorire lo scambio di servizi di vicinato, per facilitare l’utilizzo dei servizi
delle città e il rapporto con le pubbliche amministrazioni, per favorire
l’estensione della solidarietà nelle comunità locali e per incentivare le
iniziative di singoli e di gruppi di cittadini, associazioni, organizzazioni ed
enti locali è prevista la promozione e costituzione di associazioni
denominate “banche dei tempi”.
Il presupposto della legge è che il lavoro di cura si concilia con il
lavoro professionale attraverso l’utilizzo dei congedi, la flessibilizzazione
dell’orario di lavoro e il coordinamento dei tempi dei servizi presenti sul
territorio.
La legge n. 53/2000 è attualmente integrata a norma dell’art. 15 del
“Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno
della maternità e della paternità”, emanato con decreto legislativo n. 151
del 26/03/01, con lo scopo di conferire organicità e sistematicità alle
norme in materia di sostegno e tutela della maternità e della paternità.
Nel testo unico sono infatti raccolte tutte le disposizioni vigenti,
consentendo un’informazione diretta e senza rinvio a precedenti
provvedimenti legislativi.
24
Inoltre, il testo unico riunifica tutte le tipologie di contratto e rapporto
di lavoro, da quello dipendente al lavoro autonomo, delle libere professioni
e delle collaborazioni coordinate e continuative, fino agli assegni di
maternità per le casalinghe e le lavoratrici atipiche e discontinue.
Sul fronte della promozione del lavoro e dell’avvio d’impresa,
troviamo numerose leggi che contemplano agevolazioni ai neo
imprenditori, uomini e donne o solo donne o solo giovani e così via, sia
nazionali che regionali. Fra le più significative a livello nazionale che si
rivolgono prioritariamente a donne, e che hanno dato origine a numerosi
progetti, troviamo la legge n. 125 del 10/04/91, “Azioni positive per la
realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”.
Le disposizioni contenute nella legge hanno l’obiettivo di rimuovere gli
ostacoli che impediscono la realizzazione delle pari opportunità nel lavoro,
e quindi di favorire la presenza femminile nel mondo del lavoro tramite
azioni definite positive. Più precisamente le azioni positive devono
eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale,
nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, sostenendo le donne
nella diversificazione delle scelte di carriera mediante orientamento
scolastico e professionale, nell’accesso al lavoro autonomo e alla
formazione imprenditoriale, nel determinare condizioni d’equilibrio tra
responsabilità familiari e professionali attraverso una divisione più equa
degli impegni famigliari tra i due sessi.
La principale modalità di realizzazione di tali azioni è l’erogazione di
finanziamenti ai soggetti, privati o pubblici, che le mettono in atto,
mediante realizzazione di progetti tangibili.
La legge, inoltre, istituisce il Comitato nazionale per l’attuazione dei
principi di parità (art.5) e ne definisce la composizione ed i compiti (art.6)
di promozione, informazione, di approvazione dei progetti e di controllo.
La legge estende i poteri dei Consiglieri di parità e li incarica di svolgere
tutte le azioni utili affinché la legge stessa possa essere applicata a pieno
(art.8).
Numerose indagini conoscitive e interventi formativi sono stati
finanziati da questa legge ma nell’impianto originario della legge n.
125/91 risultava carente la dotazione strumentale. Il legislatore è pertanto
intervenuto e con il decreto legislativo n. 196 del 23/05/2000 ha
parzialmente riformato la disciplina sulla parità delle opportunità
potenziando nel contempo la rete delle consigliere e dei consiglieri di
parità.
Ma la legge di maggiore impatto, e anche la più nota, in materia di
agevolazioni a favore dell’imprenditoria femminile è la n. 215 del
25/02/92, “Azioni positive per l’imprenditorialità femminile”, rivolta alle
piccole imprese gestite prevalentemente da donne: ditte individuali,
società di persone e società cooperative costituite in misura non inferiore
25
al 60% da donne, società di capitali ove il capitale sociale sia detenuto
almeno i 2/3 da donne e i cui organi amministrativi siano costituiti per
almeno i 2/3 da donne.
Le agevolazioni previste da questa legge, che hanno natura di un
contributo in conto capitale a fondo perduto, si applicano a tutto il
territorio nazionale con percentuali di contributo diverse in funzione delle
condizioni di sviluppo d’ogni area territoriale. I contributi vengono erogati
a programmi di varia natura: avvio di nuove attività in alcuni settori
(industriale, artigianale, agricolo, commerciale, turistico e dei servizi),
acquisto di attività preesistenti nei medesimi settori, realizzazione di
progetti aziendali innovativi, acquisizione di servizi reali.
La legge, approvata con non poca fatica viste le resistenze di
carattere politico-sociale, nel primo bando prevedeva finanziamenti per un
ammontare relativamente contenuto che non consentì di far fronte alla
miriade di richieste pervenute. I bandi successivi hanno registrato forti
incrementi nelle risorse. Riguardo ai settori di attività, la domanda
espressa per i finanziamenti della legge n. 215, ha segnalato una
maggiore adeguatezza alle esigenze del manifatturiero, disattendendo in
parte, i bisogni degli imprenditori del commercio e dei servizi. Sono state
inoltre evidenziate difficoltà d’accesso allo strumento legislativo, derivanti
dalla modalità e dal costo di presentazione della domanda nonché dalla
richiesta di garanzie personali patrimoniali.
Alcune risposte alle problematicità segnalate sono arrivate con il
regolamento approvato il 14/07/2000, che ha in parte semplificato i
procedimenti, allargato le tipologie di spese ammissibili, coinvolto le
regioni nel cofinanziamento.
Le criticità di queste leggi di promozione non sono certo esaurite, la
scarsa disponibilità finanziaria rimane tra le più rilevanti, ma al di là di
queste argomentazioni, non si può dire che tali strumenti legislativi siano
stati in grado di rispondere ai bisogni specifici delle donne: la
strumentazione in particolare dovrebbe offrire alle donne qualcosa di
diverso piuttosto che qualcosa in più, cioè servizi che rispondano alle
criticità di genere piuttosto che maggiori disponibilità finanziarie.
Anche nelle leggi regionali, ritroviamo l’impegno verso le imprese, più
in generale per la promozione e il sostegno delle attività imprenditoriali.
Difficilmente tali normative si riferiscono esclusivamente al lavoro delle
donne, più spesso occupandosi d’imprenditoria, sviluppo economico e
famiglia, coinvolgono anche il lavoro femminile.
L’unica legge distintamente in rosa è la n. 1 del 20/01/2000,
“Interventi per la promozione di nuove imprese e di innovazione
dell’imprenditoria femminile”. A beneficiare dei contributi previsti dal
bilancio regionale sono in questo caso le imprese individuali a titolarità
femminile e le società cooperative costituite per almeno 2/3 da donne e
26
con il capitale sociale per almeno il 51% di proprietà di donne, in entrambi
i casi con sede operativa in Veneto e con permanenza obbligata per i 5
anni successivi alla concessione del contributo.
Le iniziative ammesse all’erogazione del contributo sono l’avvio di
nuove attività, l’adozione di processi o di prodotti innovativi, la
qualificazione dell’impresa attraverso corsi si formazione. Non è consentito
il cumulo con altri finanziamenti pubblici.
Molte altre leggi regionali, singolarmente rivolte a specifici settori di
intervento (artigianato, PMI, commercio, industria), possono poi essere
utilizzate per sostenere iniziative imprenditoriali al femminile, sia che ne
prevedano o meno questa specifica finalità.
Per commentare sinteticamente il panorama legislativo fin qui
delineato, va ricordato che le donne sono a tutt’oggi il soggetto più
coinvolto nell’attività di cura familiare e pertanto su di esse gravano
spesso le conseguenze della mancanza di sostegni pubblici alle famiglie,
andando a incidere sul conseguimento della pari opportunità
nell’occupazione.
Lo sviluppo di politiche che consentano di conciliare le responsabilità
familiari e quelle lavorative per le donne, come anche per gli uomini,
comporta che sia disponibile una gamma di scelte possibili. La
conciliazione del lavoro e della vita personale può essere assicurata
mediante i sistemi di congedo, le migliorie nei servizi (trasporti, orari e
spazi scolastici, ambiente urbano), gli interventi in materia fiscale.
La richiesta rivolta al sistema è, non solo di eliminare le difficoltà per
le donne di accedere ai posti di lavoro e rispecchiarne la pienezza delle
capacità professionali, ma di rendere possibile e non penalizzante la
flessibilità dei tempi di lavoro, nonché il passaggio tra diversi lavori e
diversi regimi d’orario. I margini di autodeterminazione, delle donne come
degli uomini, sulle diverse forme di flessibilità in relazione alle esigenze
della vita personale devono essere incrementati.
Alcuni provvedimenti, fra quelli analizzati, vanno nel senso auspicato:
non solo verso la tutela del lavoro in quanto rapporto privatistico fra due
soggetti, ma verso la tutela più estesa della famiglia mediante lo sviluppo
di servizi ancora oggi insufficienti.
Permane il dilemma tra tutela e parità malgrado le leggi sulle azioni
positive mettano a fuoco il tema dell’uguaglianza sostanziale nella
regolamentazione dei rapporti di lavoro tra uomini e donne. Di fatto
rimangono la direzione e l’obiettivo fissati dall’Unione Europea: aumentare
la partecipazione femminile al mercato del lavoro.
27
4.
La partecipazione delle donne: potenzialità e problematiche
E’ stato messo in evidenza già nel primo paragrafo come l’offerta di
lavoro femminile si sia sviluppata quantitativamente. Tra le potenzialità
che non trovano espressione rientra anche l’abbandono precoce del lavoro
da parte di tutte quelle donne che, non trovando nella più lenta evoluzione
qualitativa della domanda di lavoro, qualifiche e mansioni coerenti con il
titolo di studio posseduto e con le proprie aspettative, percepiscono il loro
status di occupate
come insoddisfacente, preferendo dedicarsi
completamente agli impegni familiari. L’inadeguatezza della domanda
scoraggia anche le donne che vorrebbero reinserirsi nel mondo del lavoro
al termine di un periodo di inattività, dovuto alla cura dei figli o alla
ripresa di percorsi di studio, e spesso la rinuncia deriva anche dalle
difficoltà della ricerca del lavoro.
Sono situazioni di diversa natura ma che nell’insieme rappresentano
una sottoutilizzazione delle risorse umane e creano disagio a livello
sociale. In questo quadro bisogna considerare oltre alle donne occupate e
disoccupate anche il vasto gruppo di donne che non dichiarano di far parte
delle forze di lavoro ma che accetterebbero un lavoro adeguato alle loro
aspettative.
Di fatto la maggioranza delle donne si colloca nei due aggregati delle
forze di lavoro potenziali, in cui sono più del doppio degli uomini, e fra gli
inattivi disponibili a lavorare, in cui 2,7 volte il numero degli uomini. Agli
inattivi, quindi soprattutto alle donne e tra queste alle casalinghe, il
mercato del lavoro ricorre come ad una riserva per espandersi nei
momenti di maggiore domanda.
L’altra causa di bassa partecipazione femminile al lavoro, legata
all’inadeguatezza qualitativa della domanda, è per le donne, che sempre
più vorrebbero lavorare, l’incompatibi lità tra gli impegni di lavoro e i
carichi familiari. Le condizioni imposte alla donna dalla gestione della
famiglia sono ancora molto vincolanti, e una donna sposata con figli
privilegia aspetti come l’orario del lavoro e la vicinanza del luogo di lavoro
all’abitazione, elementi che condizionano completamente la ricerca di un
lavoro e che spesso riducono le possibilità di vagliare offerte di lavoro più
remunerative o più vantaggiose per la carriera.
Riprendendo i dati dell’indagine sulle forze di lavoro, si rileva che le
donne alla ricerca attiva di occupazione desiderano nel 36% dei casi
lavorare nel comune di residenza e nel 38% con un orario part -time (per
gli uomini la percentuale corrispondente è il 12,9%); molte donne con
questi vincoli escono dalle forze di lavoro, a dimostrazione del fatto che un
lavoro con orari particolari e flessibili e vicino a casa vale per le donne con
queste esigenze più di benefici di tipo economico. Inoltre per le donne la
precarietà è spesso la condizione che consente l’alternanza del lavoro di
28
cura e del lavoro per il mercato, una condizione che, permanendo nel
tempo, in molti casi determina la
fuoruscita definitiva dal lavoro
retribuito. Alcuni dati a sostegno di quanto detto: per gli uomini non
occupati il 72% degli abbandoni dell’ultimo posto di lavoro è avvenuto per
pensionamento normale, per le donne solo nel 28% dei casi mentre nel
29% dei casi l’abbandono è determinato da motivi familiari e nel 17% per
fine di un lavoro a tempo determinato. In quest’ultimo caso, così come in
caso di licenziamento, gli uomini nel 50% dei casi si rimettono
immediatamente alla ricerca attiva di un lavoro, contro solo un terzo delle
donne mentre il 38% ricade nell’inattività e il 29% si colloca
nell’aggregato dei disponibili a lavorare senza fare una ricerca attiva.
La caduta del tasso di occupazione per le donne si ha dopo l’età del
matrimonio e/o del primo figlio, ed è tanto più rilevante quanto più è
basso il livello di scolarizzazione. Proprio l’innalzamento nel livello dei titoli
di studio conseguiti dalle donne ha determinato la maggior partecipazione
femminile al lavoro e dunque l’elevata scolarità comporta una maggior
propensione e continuità lavorativa alle donne e una minor esposizione ai
condizionamenti del ciclo familiare.
L’armonizzazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro e i tempi dei
servizi crea innegabili difficoltà e se la scelta di un lavoro autonomo, da un
lato, ha saputo compensare le rigidità del lavoro dipendente (le
imprenditrici e le lavoratrici autonome in generale riconoscono al loro tipo
di lavoro una maggiore capacità di adattamento, per quanto faticoso, alle
loro esigenze di molteplici presenze), dall’altro mostra di cedere posizioni
a fronte dell’espansione delle nuove forme di flessibilità, interpretabili,
talvolta, come altre forme di lavoro dipendente camuffato.
Le indagini che trattano questo tipo di dati fanno inevitabilmente
riferimento alla spinosa questione della segregazione settoriale3,
intendendo con ciò la prevalente concentrazione di uomini o donne in
settori produttivi diversi e differenziati. Oggi si parla di questo fenomeno
anche intendendo la segregazione nelle mansioni e nelle professioni,
tramite la tipizzazione dei mestieri e delle professioni in senso maschile o
femminile; tale segregazione non è di per sé condannabile, ma lo diventa
nel momento in cui le diversità di genere determinano una non equa
distribuzione del potere e del reddito.
Si rileva che le donne propendono più che gli uomini a mettersi in
proprio nel medesimo settore in cui hanno maturato esperienze
precedenti, perpetuando quella segregazione orizzontale altrettanto
conosciuta nel lavoro dipendente. Sebbene le più recenti tendenze
occupazionali mostrino come un certo processo di desegregazione sia in
atto e anche irreve rsibile, la maggior parte degli studi è concorde nel
sostenere che soprattutto le donne che ricoprono ruoli decisionali nelle
3
La ‘segregazione settoriale’ o ‘orizzontale’ si distingue dalla segregazione ‘verticale’ che indica “una
distribuzione maschile e femminile disomogenea all’interno della gerarchia organizzativa”
29
imprese piccole e medie tendono a concentrarsi nei settori di tradizionale
appannaggio femminile, appunto, come il commercio al minuto, i servizi
alla persona o l’abbigliamento, che sono anche i settori che generalmente
presentano le minori e più basse barriere all’entrata.
Restando sul versante del fenomeno imprenditoriale femminile, si
rileva una profonda sottovalutazione dello stesso malgrado su altri fronti
sia considerato un fattore di profondo cambiamento sociale (la letteratura
più recente, in realtà, concorda nel sostenere come tutto il lavoro
extradomestico femminile sia fattore di cambiamento sociale).
Le resistenze a cons iderare il fenomeno dell’autoimprenditoria
femminile in tutta la sua portata provengono da più ambiti, economici ma
più spesso culturali. Senza andare a toccare la questione della costruzione
sociale della realtà, delle aspettative e dei ruoli di genere, bisogna
tuttavia riferire i pregiudizi e gli stereotipi di genere che informano
l’opinione pubblica e gli universi simbolici e culturali italiani secondo i
quali il fondamento dell’essere donna consiste ancora nel diventare
moglie e madre e tutto quanto una donna fa in più è marginale. Una delle
credenze sociali scardinate dal fenomeno del lavoro professionale
femminile consiste nell’assioma secondo cui il lavoro è fondamentale per
la costruzione della propria identità per gli uomini, mentre per le donne è
più importante il proprio destino di madri. Ormai si sottolinea come anche
per le donne si sia consumato il passaggio dal lavoro come necessità al
lavoro come identità ma che ciò che continua a differenziare uomini e
donne, è piuttosto che gli uomini si lasciano assorbire completamente
dall’interesse prevalente mentre la costruzione dell’identità femminile
segue percorsi più complessi e tortuosi, in cui però ormai il lavoro extra
domestico detiene un ruolo privilegiato.
Ciò ci riporta ancora una volta al problema della conciliazione tra
lavoro professionale e lavoro di cura, tema diventato culturalmente
rilevante non tanto nel momento in cui le donne hanno cominciato a
lavorare in ambito extra domestico (già nella civiltà contadina piuttosto
che nella sostituzione in fabbrica degli uomini impegnati in guerra o alla
necessità di un secondo reddito in famiglia), ma proprio nel momento in
cui le donne iniziano ad appropriarsi della sfera professionale come di una
componente fondante la propria identità, vale a di re all’incirca a partire
dagli anni Settanta.
Se poi aggiungiamo che il fatto di lavorare su più fronti comporta la
volontà di lavorare bene su più fronti, a questa variabile qualità segue il
rifiuto, da parte delle donne, della scelta o famiglia o lavoro; la
professione non deve comportare una rinuncia alla famiglia e alla
maternità che semplicemente cambia, divenendo sempre più una
maternità fortemente desiderata e programmata.
Se tutto ciò pone chiaramente e in modo nuovo la questione di
servizi sul territorio all'altezza della situazione, dall'altro lato pone
30
altrettanto esplicitamente la questione della gestione di tempi diversi,
spesso inconciliabili tra loro.
Le indagini sulla doppia presenza delle donne lavoratrici hanno
solitamente individuato una determinata categoria di lavoratrici,
plausibilmente accomunate da una serie di problemi e caratteristiche. Ciò
vale anche per la categoria delle imprenditrici che si presuppone gestirà
in modo differenziato l’esperienza della maternità o le altre responsabilità
di cura in base a diverse variabili, prime tra tutte le motivazioni al lavoro
autonomo, il percorso biografico, l’orientamento prioritario ad un
determinato tipo di ruolo femminile e i vincoli e le risorse di cui è dotata,
variabili queste spesso esogene, come il numero e l’età dei figli, o la
presenza di una rete amicale e parentale disponibile. Queste
classificazioni spesso si intersecano con l’analisi del modo in cui le donne
impersonano il proprio ruolo di responsabilità manageriale, e dunque si
sposano con la fatidica domanda del perché uomini e donne fanno gli
imprenditori in modo diverso.
Così vengono individuate in particolare alcune tipologie di
imprenditrici in base al nesso esistente tra percorsi di costruzione
dell’identità femminile, personificazione dei ruoli di responsabilità e di
cura e diversa organizzazione dei tempi. Le imprenditrici tradizionali, che
scelgono il lavoro autonomo per arrotondare il reddito familiare
generalmente basso e che si identificano primariamente con i ruoli
femminili tradizionali; le imprenditrici casalinghe, che cercano nel lavoro
autonomo una qualche forma di gratificazione personale extra-familiare;
le innovatrici che invece approdano all’autoimprenditorialità per le scarse
possibilità di carriera riscontrate nel lavoro dipendente e che quindi
assegnano maggiore centralità al lavoro; e infine le imprenditrici radicali
che nella scelta del lavoro autonomo vedono la possibilità di portare
avanti istanze di emancipazione femminile. Non sono certo categorie
statiche ma piuttosto modelli fluidi di comportamento tra cui i soggetti
possono spostarsi più volte durante il proprio percorso biografico e
imprenditoriale.
In questa sede, una particolare attenzione va prestata, nell’ottica di
individuare criticità e potenzialità, alle motivazioni che spingono le donne
al lavoro autonomo, distinguibili in fattori positivi di attrazione, che sono
generalmente quelli che fanno del lavoro indipendente un’opportunità
economica, organizzativa, di possibile gratificazione e autorealizzazione, e
fattori negativi, di costrizione, tra i più frequenti si ritrovano la difficoltà a
trovare una buona occupazione dipendente, la questione della
conciliazione, l’insoddisfazione per un lavoro dipendente, magari con
scarse possibilità di carriera e un basso reddito familiare complessivo.
A fronte di un mondo imprenditoriale femminile così complesso e
variegato, sembra essere patrimonio comune l’idea che il mondo maschile
presenti caratteristiche più univoche, sia rappresentato da un tradizionale
31
modello di imprenditore dominante, attento in primo luogo alla
massimizzazione del profitto e alla conquista di nuovi mercati, formale, a
capo di un’azienda organizzata gerarchicamente, basata sul controllo e su
un sistema di incentivazioni quasi esclusivamente economiche.
Quasi in contrapposizione a questo modello di imprenditore,
numerose ricerche tenderebbero piuttosto a fare emergere un modo tutto
femminile di fare impresa, basato a grandi linee su un approccio
maggiormente evolutivo, vale a dire non solo strategico ma capace di
vedere il successo anche in termini di crescita personale e professionale,
su uno stile di leadership più attento alla qualità e ai risultati, che non alla
velocità e alle procedure, e su uno stile direttivo a rete che assegna un
ruolo dominante alle relazioni e all’integrazione tra dimensione lavorativa
e personale. Tuttavia, proprio gli studi sull’identità e la molteplicità
femminile hanno dato inizio alla parallela erosione, per quanto lenta e
spesso contraddittoria, dei modelli tradizionali maschili.
Emerge chiaramente il fatto che, se per uomini e donne le
responsabilità connesse alla gestione di un’azienda possono essere simili
in termini di dedizione al lavoro elevata, sia come tempi che come carico
emotivo, per le donne esiste l’aggravante della doppia presenza, nel
senso che, dalle presunte caratteristiche femminili del modo di fare
impresa emerge chiaramente come le donne siano sempre intente a
contaminare la sfera produttiva con quella riproduttiva e viceversa,
nell’impossibilità di operare cesure troppo nette. Se a questo si aggiunge
che la doppia presenza, per le donne italiane in modo particolare, è
accompagnata da infiniti sensi di colpa, in quanto il presupposto culturale
per cui l’autorealizzazione femminile si situa nella famiglia appartiene, e
in modo molto profondo, anche alle donne stesse, si comprende la
necessità per le donne di trovare un trait d’union, una qualche continuità
tra le due dimensioni generalmente considerate antagoniste.
Questa introduzione della dimensione di cura nella dimensione
lavorativa, spesso interpretata come fattore di debolezza delle imprese
femminili, diventerebbe, date tali premesse, un decisivo fattore di
cambiamento sociale, che farebbe delle donne impegnate in ruoli
decisionali non tanto delle aspiranti, più o meno brave e più o meno
esplicite, a ruoli maschili, quanto piuttosto delle esploratrici e delle
mediatrici.
Concludendo sugli aspetti del fenomeno imprenditoriale femminile,
non si può ignorare il dato della scarsa propensione al lavoro indipendente
e imprenditoriale da parte delle donne occupate, che lavorano
prevalentemente come dipendenti, che ancor di più genera una
sottovalutazione complessiva del fenomeno.
Quale che sia la tipologia, il lavoro professionale come elemento
fondante la propria identità porta, in un contesto familiare che non muta,
ad una quota di tempo di lavoro delle donne di gran lunga superiore a
32
quello degli uomini. Il tempo che le donne dedicano al lavoro retribuito è
infatti maggiore di quello che gli uomini dedicano al lavoro di cura
domestico.
Ogni ambito di azione, professionale o familiare, risulta prioritario per
le donne lavoratrici generando una eccessiva frammentazione dei tempi
quotidiani a cui le donne reagiscono, da un lato, mettendo in atto una
serie di aggiustamenti e molteplici strategie, dall’altro, accumulando una
quantità notevole di stress.
La questione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro si pone
pertanto come centrale per l’entrata nel mondo del lavoro delle donne,
ancor di più in posizioni di responsabilità. La matrice del problema è la
mancata valorizzazione e redistribuzione del lavoro di cura, non
remunerato, che le donne svolgono nella quotidianità, la mancata
condivisione del lavoro domestico da parte degli uomini.
Le misure di supporto e le politiche sociali possono facilitare ma non
determinare una completa soluzione del problema che risiede nella
divisione sessuata del lavoro non remunerato; divisione che non ha
registrato modifiche significative al nuovo assetto del mercato del lavoro,
le vecchie disuguaglianze hanno trovato una espressione nel nuovo ordine
che solo una valorizzazione culturale ancor più che economica del lavoro
di cura può rompere.
La questione su cui in fondo si centra la partecipazione delle donne al
mercato del lavoro è la conciliazione ma il problema della conciliazione
non è un problema delle donne, appartiene alle organizzazioni stesse,
pertanto un ripensamento degli strumenti di organizzazione, gestione e
sviluppo del lavoro professionale risulta fondamentale quanto la
redistribuzione del lavoro domestico e la valorizzazione del lavoro non
remunerato delle donne.
Nella combinazione dei cambiamenti in
entrambe le sfere, privata e lavorativa, risiede la conciliazione dei tempi
che può davvero condurre ad una trasformazione del mercato del lavoro.
33
BIBLIOGRAFIA
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Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura Venezia, IV Dipartimento Ufficio
Statistica e Studi – “L’imprenditoria femminile” – Speciale del Bollettino di Statistica n.
1/2002
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di sviluppo del nord-est” – Franco Angeli – 1998
Cinque C. - “Una donna per tre. Come conciliare famiglia, casa e lavoro” – Franco Angeli 2002
Cnel, Gruppo di lavoro permanente donne e sviluppo - “Donne, lavoro, impresa: i modelli
emergenti” - 1998
Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna – “Relazione al
Presidente del Consiglio dei Ministri sull’attività svolta (1997 – 2000)” - Agosto 2000
Commissione Regionale per la realizzazione delle pari opportunità fra uomo e donna – “Come
cambia l’offerta e la domanda di lavoro femminile nel Veneto” - Veneto Lavoro – Gennaio
2000
De Angelini A. – Positello L. - “La partecipazione delle donne al lavoro nel Veneto” - Veneto
Lavoro, I Tartufi n. 3 – Gennaio 2001
Ente Bilaterale dell’Artigianato Veneto – “Donne, lavoro e maternità nell’impresa artigiana
veneta” – Nuova Dimensione – 2003
Ente Bilaterale dell’Artigianato Veneto – “Alcune note sulla femminilizzazione del comparto
artigiano e del mercato del lavoro in Veneto” – Quaderni statistici n. 1/2003
Istud - “Donne esploratrici. Percorsi nell’imprenditoria femminile” - Guerini - 2000
Istud - “Oltre la parità. Lo sviluppo delle donne nelle imprese: approcci ed esperienze” Guerini - 2000
Veneto Lavoro (a cura di) - “Il mercato del lavoro nel Veneto. Tendenze e polit iche. Rapporto
2001” – Franco Angeli
34
PARTE SECONDA
I Risultati dell’Indagine
35
1. Le caratteristiche delle imprenditrici intervistate e delle loro
imprese
I profili delle venti donne intervistate si differenziano sotto molteplici
aspetti, età, livello di scolarità, tipo di situazione personale o di famiglia.
Tutte variabili che possono avere un’influenza sulla preparazione
imprenditoriale e sul modo di intendere l’impresa.
Nel considerare il dato anagrafico, sono state prese in considerazione
quattro fasce d’età, tre delle quali riguardano solo 2 o 3 intervistate per
ciascuna fascia, mentre la maggioranza delle donne che hanno preso
parte all’indagine ha un’età compresa tra i 31 e i 40 anni.
Grafico 1
Età delle intervistate
2
2
3
fino a 30 anni
da 31 a 40 anni
da 41 a 60 anni
oltre i 60 anni
13
(I valori si intendono espressi in termini assoluti)
Il livello di scolarizzazione vede prevalere il diploma di scuola media
superiore, posseduto da quasi la metà delle intervistate, seguito dal titolo
della scuola dell’obbligo (che va letto come scuola media inferiore ma
anche come licenza elementare nel caso delle più anziane). Più rari sono il
possesso di una qualifica professionale e di un diploma di laurea. In alcuni
casi, proprio la scelta imprenditoriale in giovane età ha rappresentato un
arresto alla prosecuzione degli studi.
36
Grafico 2
Titolo di studio delle intervistate
3
5
Obbligo
Qualifica
3
9
Diploma
Laurea
(I valori si intendono espressi in termini assoluti)
Se da un lato la prevalenza di titoli di studio medio-alti si inserisce
perfettamente in un contesto generale di aumento dei livelli di
scolarizzazione femminile, dall’altro l’incrocio tra livello di scolarità e
tipologia aziendale conferma un altro fenomeno già noto, una
preparazione scolastica medio-bassa delle donne che operano nel settore
artigiano e nel commercio a fronte di una preparazione alta o medio-alta
delle donne che dirigono attività svolte in forma cooperativa.
Ma oltrepassando l’esame della relazione tra attività svolta e
istruzione che ragionevolmente viene condotto in sede di indagine, va
sottolineato che in rari casi le intervistate hanno identificato il grado di
istruzione come risorsa con la quale affrontare il percorso imprenditoriale.
E’ soprattutto nell’esperienza lavorativa maturata precedentemente
all’avvio di impresa che viene ravvisato il bagaglio necessario con cui
realizzare il progetto imprenditoriale.
In alcuni casi si registra l’intenzione, per le diplomate, di proseguire gli
studi, riprendendo un percorso prematuramente abbandonato o
programmando una scelta universitaria. Quest’idea si scontra però
nettamente con la consapevolezza che la scelta professionale intrapresa,
comportando un grande investimento di tempo ed energie, non lascia
spazio allo studio.
37
Grafico 3
Situazione personale delle intervistate
2
5
Single
Convivente
Sposata
2
Separata/divorziata
11
(I valori si intendono espressi in termini assoluti)
La situazione personale più diffusa è quella di coniugata con figli, ma
nell’altra parte, quasi la metà, delle intervistate troviamo una sezione
costituita da single (alcune che vivono ancora nella famiglia di origine,
altre da sole), conviventi e separate.
Grafico 4
Situazione personale: presenza di figli
9
Con figli
11
Senza figli
(I valori si intendono espressi in termini assoluti)
Come vedremo successivamente la variabile figli è sempre presa in
considerazione da tutte le intervistate, a prescindere dalla loro effettiva
presenza, come fattore determinante nelle modalità di gestione
dell’impresa. Infatti, tutte percepiscono il problema della doppia presenza
38
delle donne sul mercato del lavoro e sul versante del lavoro di cura e,
come verrà descritto successivamente, affrontano consapevolmente le
loro scelte professionali e personali in relazione alle criticità che il
fenomeno determina.
A questi fattori va raffrontato anche il contesto di origine delle donne
intervistate, ovvero la motivazione che ha condotto ad intraprendere. E’
infatti la differenziazione dei percorsi, oltre che delle caratteristiche
personali, che consente di individuare una diversità di bisogni all’interno
di uno stesso universo femminile cui dare attenzione con eventuali
supporti e servizi di sostegno all’imprenditorialità femminile.
1.1 Le attività svolte: settore e ruoli
Le imprenditrici intervistate operano nella quasi totalità in settori
tradizionalmente femminili e così si esprimono sull’argomento:
“Essere donna nel nostro ambiente è normale”
“Per tradizione è un settore femminile”
“Il nostro settore è prettamente femminile”
“E’ un lavoro, diciamo tipico, per una donna”
“E’ un settore in cui predominano le donne”
Le aziende si inseriscono infatti prevalentemente nel settore dei
servizi alla persona e alle imprese, nel commercio al minuto e nel
turismo.
Grafico 5
Suddivisione per settori
1
2
4
Produzione
Servizi alla persona
7
3
Servizi alle imprese
Commercio
3
Turismo
Servizi per l'ambiente
(I valori si intendono espressi in termini assoluti)
Il dato conferma il fenomeno della segregazione settoriale, intesa
come prevalente concentrazione di uomini o donne in settori produttivi
diversi e differenziati, che consente anche una interpretazione che va al di
39
là del settore ma abbraccia le attività, le mansioni e le professioni,
tipizzate in senso maschile o femminile. La maggior parte degli studi
effettuati sul sistema delle PMI concorda nell’evidenziare che le donne che
creano impresa tendono a concentrarsi nei settori di tradizionale
appannaggio femminile, anche perpetuando la segregazione orizzontale
conosciuta nel lavoro dipendente ovvero mettendosi in proprio nello stesso
settore in cui hanno maturato esperienze di lavoro dipendente, più di
quanto non facciano gli uomini.
Il ruolo che le intervistate ricoprono in azienda va considerato al di là
delle etichette. Infatti, la maggior parte si definisce titolare, in alcuni casi
ricopre il ruolo di direttrice o presidente o amministratrice, in altri solo
socia. Di fatto, si tratta di un ruolo di responsabilità a tutto campo e di
un’operatività presente su molti ambiti di lavoro che difficilmente possono
essere inquadrati in una sola definizione.
Quasi tutte le imprenditrici seguono direttamente la produzione dei
beni o servizi, l’area commerciale, l’amministrazione e la gestione delle
risorse umane, nelle modalità che la dimensione aziendale consente.
1.2 La posizione delle imprese: localizzazione, anzianità, forma
giuridica e dimensione
Le aziende delle donne intervistate sono tutte localizzate nella
provincia di Venezia, come previsto nel progetto.
Sede azienda
N.
Caorle
1
Chioggia
6
Dolo
1
Marcon
1
Marghera
1
Mestre
1
Mirano
2
Noale
1
Mira - Oriago
1
Portogruaro
2
Scorzè
1
Spinea
2
Totale aziende
20
40
La maggior parte delle aziende (15 su 20) è presente sul mercato da
almeno cinque anni, una è stata appena avviata e quattro sono in attività
da un periodo che va tra i due e i quattro anni.
Possiamo pertanto affermare chi si tratta per lo più di imprese che
hanno già superato la prima barriera per la permanenza sul mercato, in
molti casi la loro anzianità è sinonimo di successo.
Grafico 6
Anzianità aziendale
4
9
da 1 a 3 anni
da 4 a 7 anni
da 7 a 10 anni
più di 10 anni
3
4
(I valori si intendono espressi in termini assoluti)
Quanto alla forma giuridica, le imprese si distribuiscono equamente
tra ditte individuali, società di persone e società cooperative, seguite
anche da società di capitali mentre solo in un solo caso si ritrova la
formula di associazione onlus.
Grafico 7
Forma giuridica delle aziende
1
4
5
Ditta individuale
Società di persone
Cooperativa
Società di capitali
5
5
Onlus
(I valori si intendono espressi in termini assoluti)
41
Grafico 8
Dimensione aziendale per numero addetti
2
7
5
da 1 a 5
da 6 a 10
da 11 a 49
oltre 50
6
(I valori si intendono espressi in termini assoluti)
La forma giuridica risulta legata sia alla modalità di creazione
dell’impresa che al numero degli addetti. Le ditte individuali, ad esempio,
corrispondono ad un’unica proprietaria che ha generato da sola l’azienda e
con un numero ristrettissimo di addetti la porta avanti. Nel caso delle
società di capitale si è partiti in più soci e relativamente più alto è il
numero degli addetti.
In 13 casi sui 20 considerati il numero delle persone occupate in
azienda non supera i dieci addetti e tra questi si ritrova una presenza
prevalentemente femminile e, in ben 7 imprese la totalità degli addetti è
donna. Poche aziende hanno investito negli ultimi anni nell’ampliamento
del personale assecondando una generale crescita delle attività, molte
invece le imprese che non sono riuscite a causa delle scarse risorse
economiche ad aumentare il numero di addetti, individuando in questa
modalità un punto di debolezza aziendale. In alcuni casi alle difficoltà
economiche si aggiungono problemi di reperimento di personale adeguato,
per qualificazione e per motivazione.
1.3 Il mercato: clienti, andamento del fatturato e concorrenza
Il posizionamento delle aziende delle imprenditrici intervistate è al
50% sul mercato locale e per il restante 50% lo sbocco è prevalentemente
regionale, in un paio di casi nazionale.
Il giro d’affari riflette pienamente questa collocazione, poco meno
della metà delle aziende supera infatti i 150 mila euro di fatturato annuo.
42
Grafico 9
Giro d'affari
4
5
fino a 50 mila euro
fino a 150 mila euro
fino a 300 mila euro
oltre i 300 mila euro
5
6
(I valori si intendono espressi in termini assoluti)
E’ il 25% delle intervistate ad affermare di non avere problemi di
concorrenza. Tutte le altre ravvisano la presenza di imprese concorrenti,
sia sul mercato locale che all’esterno di questo, ma sembrano valutare (o
sottovalutare?) il fenomeno senza eccessiva (o con scarsa?)
preoccupazione. Non tutte infatti hanno individuato o ricercano una
soluzione al problema; coloro che lo hanno fatto puntano allo sviluppo di
nuova progettualità e all’implementazione dei punti di forza dell’impresa,
in primo luogo incremento della qualità della professionalità volto alla
fidelizzazione della clientela.
43
2. L’avvio di impresa e le prospettive di sviluppo
Gli studi e le ricerche condotte in questi ultimi anni sull’imprenditorialità
femminile documentano che la propensione al lavoro autonomo e
imprenditoriale richiede sempre più una formazione medio-elevata e una
precedente esperienza di lavoro alle dipendenze, soprattutto nel settore
terziario in cui contano meno la tradizione familiare e il patrimonio
finanziario di partenza.
L’altro elemento emergente è che le imprenditrici provengono di
norma da situazioni di relativo privilegio, determinato dalla presenza di
una famiglia di origine in grado di fornire risorse di ordine relazionale,
professionale, culturale ed economico spendibili. In assenza di queste
condizioni, infatti, il passaggio dal lavoro dipendente alla realtà
imprenditoriale diventa molto difficile.
Nel gruppo intervistato nell’indagine di cui in questa sede
si riferisce, 15 donne hanno vissuto la prima esperienza
imprenditoriale nell’azienda in cui attualmente operano, 2 hanno
avuto una precedente esperienza nello stesso settore e 3 hanno
avuto ruoli imprenditoriali in aziende di famiglia.
Le motivazioni che le hanno condotte alla scelta imprenditoriale sono
riassumibili in:
1. una tradizione familiare di imprenditoria; la famiglia trasmette infatti la
preparazione ad assumersi rischi e responsabilità, in alcuni casi poi si
passa proprio attraverso l’inserimento nell’impresa di famiglia e/o la
successione nella titolarità della stessa;
“C’è stato un passaggio, la nostra è un‘azienda familiare, la più grande delle
sorelle ha avuto due bambine ed è parzialmente uscita di scena e sono
subentrata io che sono la seconda.”
2. la passione, ovvero la scelta professionale legata al piacere per
l’esecuzione del proprio lavoro; sono 9 le donne intervistate che hanno
dichiarato di aver creato la propria azienda mosse da una passione da
realizzare e in questo segmento di imprenditrici troviamo le artigiane:
“Sono nata con l’idea di fare la parrucchiera. È stata una passione quasi
innata”
“Per me essere imprenditrice è una cosa naturale. Ho intrapreso questa
attività proprio per passione. Magari a volte avrò lasciato da parte la vita
familiare, perché è inevitabile però non ho mai avuto dei grandi rimpianti ”
3. la curiosità o l’opportunità di migliorare la propria condizione
professionale, per qualche motivo ritenuta insoddisfacente, per la
precarietà del lavoro o per mancanza di flessibilità, per la difficoltà di
occuparsi o per la perdita del lavoro dipendente:
“La spinta motivazionale è stata la curiosità”
44
“La voglia di fare in prima persona, di rispondere a me, ovviamente bene e
male che sia, il gusto a cimentarmi in cose nuove che non conosco. Il gusto
di misurarmi e la voglia di fare al di là di un tempo stabilito, di un orario”
“Abbiamo pensato, sbagliando, di creare un’azienda che potesse permetterci
di lavorare e gestire una famiglia e invece poi la cosa ci ha assorbito ed è
diventato più faticoso. Non è stato dunque un sogno imprenditoriale, è stato
più un crearsi un lavoro, è stata una, chiamiamola soluzione ad una esigenza
primaria cioè quella di lavorare”
4. la maturità professionale, ovvero il grande salto tra lavoro dipendente e
lavoro in proprio nel settore in cui si è maturata esperienza lavorativa,
seppur non sempre indolore:
“Se ci ripenso adesso dico che sono stata proprio incosciente. Non farei la
stessa cosa alla stessa maniera.”
La riflessione sul percorso di preparazione al ruolo di imprenditrice
mette in luce come la metà delle imprenditrici incontrate indica gli anni di
esperienza lavorativa pregressa come principale risorsa su cui ha basato
l’avvio dell’impresa.
Molte indicano negli errori commessi una significativa componente di
apprendimento:
“Abbiamo fatto tanta fatica e abbiamo fatto tanti errori”
“Mi sono messa in discussione, ho fatto molti sbagli ed ho imparato da quelli”
Se è vero che la scelta imprenditoriale rappresenta uno sbocco
occupazionale legato alle esperienze lavorative dirette più che a percorsi di
studio teorici, è altrettanto vero che la maggior parte delle intervistate
ritiene importante la formazione. In alcuni casi la formazione è ritenuta la
fase preparatoria all’attività imprenditoriale, in molti altri si è comunque
favorevoli alla formazione continua, sia diretta all’acquisizione di
competenze che possono migliorare la qualità del lavoro in azienda e
come tale è spesso rivolta o riservata al personale, sia diretta
all’approfondimento di tematiche gestionali volte a migliorare il ruolo
imprenditoriale. In ogni caso, va sottolineato che l’aspetto formativo
compare spesso successivamente al momento di costituzione dell’impresa,
quindi come fabbisogno più strettamente collegato ai ruoli e alle funzioni
già ricoperti.
Bisogna inoltre sottolineare che il ruolo di spicco rivestito dalla
famiglia va ben oltre la sopra citata influenza delle tradizioni sulle scelte
imprenditoriali. Infatti essa rappresenta uno dei principali dispensatori di
consigli e aiuti nella fase di avvio dell’azienda e, come si vedrà più avanti,
anche il sostegno più importante nella gestione dell’attività imprenditoriale
e del lavoro di cura della famiglia.
Un esame della durata del periodo trascorso dalla nascita dell’idea o
progetto imprenditoriale al reale avvio dell’impresa per le intervistate,
45
segna ancora una volta l’importanza della famiglia. Infatti, è solo per le
imprenditrici “per tradizione” e per le altre che hanno comunque potuto
contare su un consistente aiuto da parte della propria famiglia che l’arco
temporale considerato non supera i sei mesi. Per tutte le altre si può
parlare di un periodo decisamente superiore che si estende
prevalentemente a un anno e in alcuni casi arriva a un anno e mezzo o
due.
La famiglia gioca un ruolo anche nel reperimento del capitale
necessario all’avvio e comunque nel campione prevale la prassi
dell’autofinanziamento. Solo in 4 casi si è percorsa la strada delle
agevolazioni finanziarie derivanti da leggi regionali o nazionali volte a
favorire l’imprenditorialità, specificatamente femminile o giovanile.
Il reperimento del capitale che ha finanziato l’impresa è comunque
spesso citato al primo posto tra le difficoltà incontrate in fase di start up.
In alcuni casi, l’aver iniziato l’attività con risorse economiche minime ha
condizionato fortemente le scelte di base e non sempre lo sviluppo
successivo delle attività è riuscito a colmare questa difficoltà iniziale.
Gli altri intoppi fronteggiati in fase di avvio di impresa riguardano la
mancanza di esperienza specifica e di preparazione al ruolo di
imprenditrice, il reperimento di personale preparato, l’impatto con la
burocrazia e i complessi aspetti amministrativi e gestionali.
Passando all’analisi delle prospettive di sviluppo delle aziende delle
donne intervistate, le loro valutazioni rispetto alla situazione aziendale
attuale si possono riassumere nelle tre fasi basilari di sviluppo, stallo e
difficoltà.
E’ il 50% delle aziende ad avere un’immagine positiva del proprio
posizionamento sul mercato; molte di queste aziende affrontano
costantemente investimenti, costituiti da aggiornamento degli strumenti di
lavoro (attrezzature, macchinari, mobilio, etc), ampliamento del
personale, azioni di marketing, formazione interna e reindirizzamento
delle attività.
Le imprese che conoscono una fase di stallo sono 6, stasi in molti casi
imputata al momento di congiuntura sfavorevole, in altri determinata dalla
mancanza, voluta o subita, di investimenti nell’ultimo periodo.
Infine, 2 le imprese in difficoltà a causa di un calo della domanda,
un’impresa si trova ancora nella fase di avvio e una in fase di stallo
rispetto al fatturato ma in sviluppo rispetto alle attività svolte nel settore
di appartenenza anch’esso in crescita.
Il dato trasversale ai diversi stadi di sviluppo è comunque una realtà
fatta di progetti futuri e possibili strade e soluzioni percorribili pur in
presenza di poche risorse economiche da destinare all’investimento:
“Personalmente mi piacerebbe fare tantissime innovazioni però …”
46
“Volevamo fare tante cose … ma un po’ perché abbiamo i bambini, un marito,
una casa da gestire, in più economicamente c’è la difficoltà di investire ancora”.
La fiducia in una evoluzione positiva e in un cammino dinamico è ben
presente nel nostro campione, seppur la percezione della responsabilità e
della fatica affrontata sia per l’avvio che per l’attestazione sul mercato
della propria azienda è spesso ben marcata:
“Se dovessi ripartire forse non lo farei più”.
47
3. I fattori di successo, le criticità e il rilievo delle differenze di
genere
I fattori di successo rilevati dalle dichiarazioni delle imprenditrici possono
essere sintetizzati in alcuni punti di forza:
Ø la qualità del servizio offerto
“Il nostro punto di forza è l’offerta di un servizio di qualità, che mira
soprattutto ad uno sviluppo equilibrato dei bambini, che rispetta le loro
esigenze ed i loro ritmi. Il bambino nel nostro centro viene guardato a 360
gradi, non è solamente tenerlo ed accudirlo; il genitore sa che qui non
offriamo solo babysitting ma anche e soprattutto una scelta educativa”
Ø la professionalità degli operatori, strettamente legata alla qualità
“Ormai abbiamo acquisito un’ottima professionalità nel settore”
“Secondo me il punto di forza è la capacità delle persone che lavorano; nel
nostro settore professionalità significa anche qualità”
Ø la disponibilità/flessibilità dell’azienda e degli operatori, ancora una
volta legata alla qualità del servizio
“Disponibilità e qualità del servizio sono i nostri punti di forza”
“La disponibilità totale nell’offrire un servizio completo e di qualità”
Ø la motivazione/l’entusiasmo degli operatori
“L’entusiasmo dei soci che sono instancabili; siamo l’unica realtà che si è
generata nel nostro territorio senza altri supporti, siamo nati e abbiamo
creato questo mercato locale con la fiducia pian piano conquistata degli
operatori dei Comuni. Questo ha determinato il successo dell’impresa.
Sicuramente, siamo molto critici con noi stessi.”
“Mi piace quello che faccio, non mi sono ancora stancata”
Ø la figura dell’imprenditrice
“Io sono il punto di forza della mia azienda”.
Queste aziende si caratterizzano quindi per un orientamento al cliente
ed un’attenzione alla soddisfazione dei clienti che però travalica
l’immagine dell’efficienza aziendale in quest’ambito, legata a strategie di
marketing o all’utilizzo di strumenti pianificati di rilevazione della customer
satisfaction, visione più appropriata alla classe dimensionale medio-grande
delle aziende, ciò senza nulla perdere in termini di garanzia di qualità e
obiettivi di fidelizzazione della clientela.
Altri elementi che giocano un ruolo positivo sull’andamento aziendale
sono riferibili, da un lato a fattori interni quali la coesione e il confronto tra
gli operatori, dall’altro a fattori esterni quali il sostegno da parte della
famiglia e la formazione continua.
Il dato rilevante rimane comunque l’assenza di incertezza in tutte le
intervistate che hanno dimostrato di avere una conoscenza nitida tanto
48
degli elementi di forza quanto degli elementi di criticità delle proprie
attività aziendali.
I punti di debolezza rilevati possono essere ricompresi in alcune
categorie:
v difficoltà strutturali: il tipo di struttura dell’azienda, gli spazi disponibili,
gli elevati costi fissi
v difficoltà attinenti alle risorse individuali: eccessiva prudenza, difficoltà
a gestire il lavoro di gruppo e a trasmettere il necessario entusiasmo
v difficoltà economiche: esigue risorse finanziarie da destinare al
miglioramento delle prestazioni aziendali, mancato riconoscimento
economico del lavoro imprenditoriale
v difficoltà derivanti da stimoli esterni: esigenze sempre maggiori della
clientela, concorrenza.
L’analisi dei punti di forza e di debolezza fin qui evidenziati può
risultare poco completo ad uno sguardo esperto di organizzazione
aziendale. Il fatto che altri aspetti, legati ad esempio alla valutazione
dell’importanza
delle
nuove
tecnologie
o
dell’innovazione
del
prodotto/servizio, alla valorizzazione delle competenze interne e alla
promozione sul mercato, siano poco o per nulla presenti nei racconti delle
imprenditrici a fronte invece della rilevanza delle difficoltà legate ai
problemi di costi e all’accesso ai finanziamento, ci dice molto sulle priorità
delle imprese di piccole dimensioni.
Non va poi dimenticato il “notevole impegno” profuso dalle
imprenditrici. Pur citandoli poco tra i fattori di criticità, la maggioranza
delle intervistate ha dichiarato tempi di lavoro molto elevati. Solo 3 su 20
affermano di dedicare all’azienda fino ad un massimo di otto ore
giornaliere, le altre lavorano più ore e sono numerose le testimonianze
che non esprimono il vero numero di ore lavorate ma si soffermano a
considerarle “tante”. Come giocano pertanto queste tante ore di lavoro
sull’equilibrio desiderato tra il tempo dedicato all’attività aziendale e quello
dedicato alla vita privata e alla famiglia?
L’indagine ha cercato di cogliere in particolare la problematicità
derivante dalla conciliazione dei tempi di lavoro e di cura delle
imprenditrici, nei modi in cui viene percepita dalle dirette interessate.
La caratterizzazione di genere induce a mettere in primo piano i
problemi legati alla doppia presenza e alla difficile conciliazione tra lavoro
e attività di cura della famiglia. La questione della flessibilità viene così da
una parte maggiormente enfatizzata e dall’altra emerge come problema
quando manca, soprattutto in riferimento a opportunità di lavoro flessibili
rispetto agli orari di lavoro.
49
Il tema del doppio ruolo è un argomento ricorrente, espresso quasi
sempre come denuncia verso una società penalizzante nei confronti delle
mamme e pronta a svalutare la professionalità delle donne in generale,
come richiesta di modalità di organizzazione del lavoro che lo liberino
dalla presunta incompatibilità con i doveri familiari, come speranza che
vengano elaborate delle politiche più attente ai bisogni delle lavoratrici
madri. Il fatto che l’economia della famiglia rappresenti un nodo cruciale è
ribadito proprio dalle sottolineature delle intervistate con famiglia del loro
ruolo prioritario all’interno di essa.
Ma come si inquadra la famiglia nel percorso di vita professionale di
un’imprenditrice?
In alcuni casi la scelta professionale ha escluso o limitato lo sviluppo
di una famiglia:
“Il fatto di essere donna ha influito nelle scelte di vita decisamente. Devi
eliminare tutto il resto dalla tua vita, cioè una famiglia non ci sta, i figli neanche
te li sogni. O fai una cosa o fai l’altra”
in altri è venuta successivamente alla costruzione di una famiglia o
contemporaneamente:
“Io ero già sposata quando ho cominciato. Dedico molto tempo all’azienda,
moltissimo, tanto che mi viene anche rinfacciato, però è una cosa che comunque
mi dà soddisfazione perché pur richiedendo molta fatica è una cosa che abbiamo
costruito noi. Se avessi dei figli dedicherei sicuramente meno tempo all’azienda ”
“A qualcosa devi rinunciare sempre perché non puoi far tutto, devi saperti
organizzare e a qualcosa devi dire di no. Quel giorno e mezzo alla settimana che
hai libero dal lavoro dovresti fare cinquemila cose ma è logico che avendo anche
dei figli e una famiglia, una parte la devi dare a loro e una parte te la tieni per te,
quindi cerchi di organizzare il tempo per quello che è”
e infine, in questo campione sono ancora tanti i casi di chi ancora giovane
sta investendo tutte le sue risorse nell’impresa e si domanda con
preoccupazione cosa succederà quando arriverà il momento di costituire
una famiglia:
“Quello che mi spaventa è che questa attività adesso mi occupa tantissimo
tempo, oltre dodici ore, non so poi in futuro, avendo intenzione comunque di
crearmi una famiglia, diventerà molto impegnativo gestire il tutto. In questo
senso sicuramente influirà essere donna, forse l’unico svantaggio è questo anche
se credo che oggi un uomo non sia comunque esonerato dall’impegno familiare
ma penso che una donna lo senta di più ”
“Come donna se vuoi una famiglia devi poi un po’ lasciare l’attività perché con
dei figli fai un po’ fatica”.
In un caso la discontinuità, spesso caratterizzante i percorsi di
carriera al femminile, è palese:
“Ho smesso di lavorare per un periodo perché mi sono sposata. Ho avuto un
bambino, il primo, poi volevo un altro figlio e sono arrivati due gemelli e così ho
50
smesso per 10 anni per fare la mamma a tempo pieno e poi ho ripreso l’attività a
40 anni. A quei tempi non c’erano asili nido, non c’erano scuole materne, così ho
deciso di dedicarmi alla famiglia anche perché mio marito lavorava tanto e ci si
vedeva talmente poco che abbiamo deciso che uno dei due si fermasse… a
malincuore ho smesso, però come vede poi sono anche ritornata.”
Per tutte è evidente, sia pure con accentuazioni diverse, il nodo della
conciliazione lavoro-famiglia:
“Io credo che per una donna sia un po’ più difficile perché ha una famiglia, i figli
da seguire e a volte non può andare a un corso perché ha i bambini piccoli da
gestire. L’uomo invece è al lavoro, fa i suoi corsi e va a casa trovando tutto
pronto, questa è la realtà. Alla donna manca la possibilità di avere uno spazio
più libero insomma, magari anche delle strutture dove mettere in tranquillità i
bambini. Per l’uomo è diverso, è più libero. Se tu hai un bambino e lavori dieci
ore al giorno vai a casa e non ti chiama più mamma… chiama mamma la
nonna…”
“Diciamo che mi accontento di essere una donna con dei difetti nel senso che la
mia casa non è mai in ordine, quando arriva un ospite devo sempre far le corse
per sistemare le cose nei cassetti, molte cose non riesco a farle, però una deve
anche accettare… Però è una scelta, se uno vuole deve anche sapere che forse
non sarà una mamma o forse non sarà un’imprenditrice perfetta perché anche
mamma. Quindi in alcuni momenti si devono fare delle scelte.”
ma l’equilibrio tra le due sfere di attività è imprenscindibile:
“Io quando ho avuto mia figlia, ho avuto mia figlia. Ha influito probabilmente
sull’attività ma faccio fatica a discernere perché è un tutt’uno. Per quanto
possibile mi organizzo sempre perché se hai un equilibrio in casa c’è anche sul
lavoro e viceversa”
Il coinvolgimento della rete parentale nella gestione del lavoro di
cura, in special modo quello rivolto ai figli, rappresenta una strategia
facilitante più di qualsiasi altra più o meno accessibile, quale l’utilizzo di
servizi e strutture presenti nel territorio e la collaborazione del marito. Le
risorse presenti nella famiglia di origine, ma anche nella famiglia del
partner, sono spesso preferite ad altre per affidabilità, sicurezza,
flessibilità e anche per l’aspetto economico.
“Ho avuto un appoggio essenziale da mia suocera perché è una nonna che
gestisce pattinaggio, musica e tutti i trasporti vari e quindi ho anche una certa
tranquillità quando sono al lavoro perché so che sono ben appoggiata. Questo mi
permette dunque anche di lavorare meglio perché so che mia figlia è in mani
sicure. Uno dei problemi che mi ha sconcertata, è sentire parlare mamme di “se
fai i figli stai a casa” e invece io sono convinta che la donna sta dove meglio si
realizza. Al momento, non so domani o fra dieci anni, però fino ad oggi in
famiglia penso di avere una relazione di qualità perché ciò che faccio fuori casa
mi soddisfa. Se io non avessi questa soddisfazione probabilmente riverserei
anche su mia figlia le mie frustrazioni, le mie angosce eccetera”
“In tutte le difficoltà che ho avuto, ho avuto una fortuna, quella di avere la
mamma di mio marito che praticamente mi ha allevato i figli”
51
Emerge dalle ultime testimonianze riportate il valore dell’identità
professionale delle donne e la consapevolezza dell’esistenza di una
distribuzione non equa dei carichi di lavoro familiare all’interno della
coppia e della fatica del doppio carico, professionale e familiare che grava
sulle donne lavoratrici. Questo stato di cose non conduce tuttavia a forme
di rivendicazione bensì a tentativi di giustificare questo stato di cose o
comunque ad accettarlo senza metterlo in discussione. Un atteggiamento
sufficiente a far ritenere che l’accentramento dei compiti e delle
responsabilità operato a livello aziendale venga proiettato anche nella vita
familiare.
“Ho due bambini, e il terzo è mio marito”
“Non è l’attività che ti influenza su sposarsi, perché l’attività è un lavoro normale.
Magari con una famiglia avrò meno tempo per me, ma non mi pongo questo
problema”.
Permane anche per le donne che lavorano ricoprendo ruoli
imprenditoriali, caratterizzati dunque dalla necessità di una forte
flessibilità soggettiva, una strategia di conciliazione che si avvale
principalmente di risorse derivate dalla famiglia. L’obiettivo che si profila
in questi racconti è rappresentato dalla compresenza di un vissuto del
lavoro gratificante e di una situazione familiare soddisfacente; se si
realizza questo disegno, automaticamente si ottiene una completa
realizzazione dei propri interessi prioritari. Il sostegno emozionale
indispensabile per il conseguimento di questa finalità è ricercato sempre
nella famiglia e nel partner:
“Anche se non penso sia impossibile per una donna lavorare e avere la propria
vita, lo può fare con molta difficoltà. Per una donna c’è la casa, i figli, deve avere
sicuramente attorno un ambiente favorevole a questa scelta”.
Solo due donne intervistate hanno denunciato di essere state ostacolate
dalla famiglia nella loro scelta imprenditoriale, tutte le altre hanno invece potuto
godere di un ampio sostegno.
La gestione della maternità e l’utilizzo di forme flessibili di orario sono
due tematiche strettamente interconnesse. Ma, in generale, la difficoltà di
gestire una piccola impresa in presenza di una necessità di astensione dal
lavoro per maternità deriva dalla mancanza di una soluzione sia all’interno
che all’esterno dell’azienda per la problematicità di una redistribuzione o
sostituzione del lavoro svolto dalla futura o neo mamma che dovrebbe nel
contempo ricoprire un ruolo di responsabilità.
“Allora, cresco e mi sviluppo o cresco la famiglia e restiamo un po’ più piccoli. Nel
nostro caso, faremo noi dei part-time, ci inventeremo qualcosa in modo da
gestire anche la famiglia, ma questo possiamo farlo perché siamo due socie
donne e due sorelle, se ci fosse un altro tipo di società non si potrebbe. So per
conoscenza di altre realtà dove c’erano uomini e donne senza vincoli familiari che
sono saltate perché le aspettative rispetto al lavoro e alla famiglia non erano
uguali, quindi appena è arrivata la famiglia queste società sono saltate. Appena è
52
entrata in campo la famiglia sono saltate, perché ovviamente le aspettative
femminili erano diverse dalle aspettative maschili”.
La scarsità di soluzioni percorribili è di fatto accentuata anche dalla
mancanza di riferimenti a modelli ed esperienze femminili analoghe. Le
occasioni di scambio con altre imprenditrici sono rare o inesistenti, eccetto
quelle recuperabili ancora una volta nell’ambito familiare. Nel contesto
culturale esterno perdura un basso grado di legittimazione sociale della
presenza delle donne in ruoli di responsabilità, come raccontano le
intervistate:
“Perché se all’inizio pensano che sei una dipendente poi si rendono conto che sei
la titolare. Cercano sempre il signor …..”
“Inizialmente è stato uno svantaggio soprattutto perché eravamo due donne ed
eravamo giovani; abbiamo fatto fatica ad essere credibili in questo tipo di lavoro.
Poi quando abbiamo ottenuto il rispetto non ha più fatto la differenza essere
donne e giovani. Però all’inizio l’essere donna comportava un problema di
credibilità”
“E’ vero che in certi casi l’uomo può essere più favorito e la donna fatica perché
deve dimostrare un po’ di più, però se sa le viene riconosciuto. Quello che ho
potuto notare è che sicuramente ci vuole un po’ più di tempo. Meglio andare da
chi ha i pantaloni… è una battutaccia retrograda però è il sunto di quello che ho
detto prima, cioè bisogna dimostrare un po’ di più a parità di capacità”.
Il vantaggio o lo svantaggio che deriva dal fatto di essere donna e
responsabile di un’impresa viene comunque percepito in modo molto
soggettivo. Le attenzioni ricevute in quanto mercato potenziale vengono in
alcuni casi interpretate come lusinghe e omaggi al “carattere deciso” e
come riconoscimento di capacità personali e imprenditoriali. E’ ancora
abbastanza diffusa l’opinione che l’essere donna o uomo non interferisca
con la gestione dell’impresa:
“Secondo me non c’è questa differenza, conta il tipo di persona”
Indipendentemente dall’età anagrafica delle donne incontrate, alcune
di loro hanno sottolineato l’importanza dell’idea da realizzare come
elemento condizionante il successo al di là delle differenze di genere.
Queste considerazioni vengono più spesso manifestate con l’espressività
del viso e dei gesti (le ricercatrici hanno notato alcune facce stranite alla
proposta di ragionare sulla eventuale rilevanza delle differenze di genere
sull’attività svolta) che non con le parole. Infatti, la tendenza a
minimizzare i problemi connessi al genere è stata riscontrata
frequentemente in questo tipo di indagini ma nello stesso modo la
resistenza ad ammettere l’esistenza di peculiarità maschili e femminili che
giocano un ruolo sui punti forti e sulle criticità del lavoro cade nel racconto
sulle caratteristiche:
“Le donne sono molto più precise, molto più attente, più adatte a questo lavoro
però siccome si tratta di un servizio e dobbiamo essere molto flessibili, cioè
53
spesso lavoriamo fino a tardi, da questo punto di vista sono più disponibili gli
uomini, perché le donne fanno una scelta di vita verso la famiglia”
“Io penso tutto sommato che la donna sia migliore, ha più carattere e più volontà
di riuscire, di arrivare dove vuole, anche perché è più penalizzata dell’uomo, con
il doppio lavoro, e allora emerge di più la voglia di farcela, il carattere. La donna
fa tutto alla fine, se vuole fa tutto, forse perché più caparbia, più capace di fare
più cose. Con tanta fatica però… con la costanza nell’impegno in più cose:
bisogna essere al lavoro e a casa, sempre”
salvo poi “far quadrare i conti”:
“Se è più un settore femminile ? Io vedo dalle richieste di lavoro che mi arrivano,
che per le donne c’è anche un sogno dietro, la vedono meno come azienda, c’è
un’ottica diversa, ma rimane un’azienda, se non quadrano i conti c’è poco da
fare”.
Qualcuna va oltre e la loro testimonianza si lega al confronto
sull’opportunità o meno di valorizzare le peculiarità femminili nell’ottica di
produrre modelli di gestione delle imprese non necessariamente omologati
a quelli maschili:
“Non sono tra quelle che pensano che le donne sono svantaggiate nonostante
alcune difficoltà ci siano, ma ci sono, secondo me, a rapportarsi con un modello
prettamente maschile … a livello di vertice le donne sono poche e il modello che
gli uomini propongono è quello prettamente maschile che cozza non poco con il
nostro”
“Gli uomini secondo me hanno un modo diverso di lavorare. Perdono molto più
tempo a parlarsi addosso, non si ascoltano, d’altro canto hanno molta più voglia
di arrivare rispetto a noi, sono molto più ambiziosi. La donna pondera molto di
più, bada di più a quello che è l’aspetto umano ed è molto più concreta, cioè la
donna fa, l’uomo parla per delle ore, queste riunioni eterne che non finiscono mai
e dove tutti ridicono le stesse cose. Lavorare con le donne è molto difficile però
se trovi la giusta sintonia, secondo me hai la collaboratrice migliore in assoluto ..
c’è un rapporto di fiducia, di intesa di un certo tipo, un poter delegare,
demandare con serenità, con tranquillità e un confronto costruttivo, tutte cose
molto importanti”.
Da un percorso di omologazione iniziale, determinato anche dalla
necessità di contrastare un problema di credibilità, si cerca di passare
successivamente, quando la sicurezza del proprio ruolo si consolida, ad un
percorso di differenziazione.
54
4. La domanda di servizi di supporto alle imprese
Dal paragrafo precedente sembra emergere un modo femminile di
puntare al risultato; passando alle esigenze emerse su ciò che potrebbe
favorire il loro lavoro, questa differenziazione di genere in parte si ritrova
e in parte si perde tra i bisogni comuni a tutte le imprese, a prescindere
dalla titolarità.
Possiamo così riassumere le aspettative
imprenditrici sentite in poche macro categorie:

e
le
proposte
delle
servizi sul territorio di supporto al lavoro di cura
“Penso che ci vorrebbero più asili ma non a prezzi così alti che devo scegliere di
stare a casa perché mi costa meno che andare a lavorare”
“Qui in zona esistono delle strutture anche private che si occupano di infanzia e
in questo senso aiutano chi ha una famiglia. Di positivo quando una donna ha
un’attività propria è che può portarsi il bambino al lavoro e forse è più facile
gestire entrambe le cose anche come orari, anzi soprattutto come orari perché li
puoi decidere in prima persona”.
La domanda di servizi sul territorio è quasi del tutto incentrata sui
servizi all’infanzia. E’ forse inadeguato definire questa domanda molto
forte, proprio perché, come precedentemente evidenziato, la disponibilità
familiare ha spento in molti casi l’intensità del bisogno, ma d’altra parte
emerge al primo posto tra le esigenze. Le strutture esistenti sono
numericamente insufficienti a fornire una risposta adeguata ai bisogni e la
domanda punta molto alla qualità dei servizi offerti e alla differenziazione
delle tipologie e/o degli orari di servizio;

agevolazioni economiche
Molto sentita è la difficoltà a reperire finanziamenti, e ciò riguarda
trasversalmente le imprese in fase di espansione e le imprese in fase di
stasi o di difficoltà:
“Se ci fossero stati dei finanziamenti più agevolati sicuramente sarebbe stato più
facile, ma anche adesso ci sono continui investimenti da fare per rimare
concorrenziali. Abbiamo colto l’opportunità in questo senso data dai finanziamenti
per l’imprenditoria femminile e senza dubbio ci è servito perché abbiamo fatto
molta fatica a trovare chi ci desse credibilità, fiducia e quindi soldi per
investimenti”
55
“Mancano delle agevolazioni concrete. Servirebbe un’attenzione maggiore verso
le piccole imprese”
e non è solo la mancanza di opportunità ad essere sentita (a volte
sconosciuta) ma anche l’impatto al loro accesso:
“Pensare anche ai finanziamenti per l’imprenditoria non è così fattibile, sono cose
lunghe e complicate, vai avanti anni. Si ha bisogno nell’immediato non dopo mesi
e mesi”
“Vuoi fare degli investimenti e vuoi chiedere dei fondi, c’è una prassi che non
finisce più, e poi devi aspettare..”
La burocrazie è quindi ritenuta eccessiva e crea intoppi a tutti i livelli.
Ma le agevolazioni richieste non riguardano solo la possibilità di ottenere
finanziamenti e investono a tutto campo la vita dell’impresa e di chi in
essa lavora:
“Le donne di oggi, non di 10 anni fa, adesso vorrebbero lavorare e con
soddisfazione non solo per lo stipendio a fine mese. Se ci fossero aiuti nel creare
questo tipo di lavoro, che dà soddisfazione e consente di portare avanti la
famiglia … penso ad esempio al part-time. Un part-time viene a costare molto ad
un’azienda. Non ci sono agevolazioni, non ci sono strutture che aiutino la donna a
lavorare. Anzi vengono penalizzate e vengono penalizzate anche le imprenditrici
perché ricordo che mia sorella l’asilo nido lo pagava uno sproposito anche
quando siamo partite da zero e quindi non c’era reddito in azienda, però per
principio, siccome non era una dipendente, lei pagava una retta superiore pur
non vedendo lo stipendio a fine mese. Non ci sono aiuti e strutture adeguate”;

servizi informativi
aspiranti tali
per
imprenditrici,
neo
imprenditrici
e
“Io penso che ci dovrebbero essere degli incentivi per i giovani che vogliono
avvicinarsi a queste attività commerciali che sono esperienze belle. Manca
l’informazione su tutti i tipi di forme di aiuto per una persona che apre
un’attività”
e nel rapporto con le istituzioni si lamenta una mancanza di cura e di
attenzione alle esigenze dell’imprenditoria:
“Gli Enti Pubblici sembrano quasi staccati, distanti; non si sa neanche a chi
rivolgersi esattamente, sembra quasi un muro. Ci aspettiamo un comportamento
al servizio del cittadino”.
La disinformazione sulle opportunità derivanti da norme che hanno la
finalità di aiutare lo sviluppo delle piccola imprenditorialità e di superare le
difficoltà dell’accesso al credito è molto diffusa. La scarsa propensione
delle imprenditrici intervistate ad entrare in contatto con organismi e
luoghi in cui circolano queste informazioni è in parte confermata da alcuni
dati emersi nell’indagine.
Nessuna delle intervistate ha mai cercato o fatto ricorso a servizi di
orientamento nella fase di preparazione all’avvio dell’impresa. Circa il 50%
delle imprese aderisce ad un associazione di settore o datoriale, il restante
56
50% non ha interesse ad associarsi. La figura consulenziale
imprescindibile è quella del commercialista che nella maggioranza dei casi
ha rivestito un predominante ruolo di supporto nella fase di avvio
dell’impresa e continua ad essere una figura di riferimento importante, e
talvolta unica, nel reperimento di informazioni sulle norme e sulle novità
che riguardano l’attività aziendale. Ma questo stato di cose appartiene solo
alla visione delle imprese, non certo all’attribuzione della professione; non
deve pertanto stupire né il funzionamento né l’aspettativa:
“Abbiamo avuto accesso ai finanziamenti sull’imprenditoria femminile, è stata
un’opportunità che abbiamo colto per caso. Noi abbiamo raccolto le informazioni
iniziali e le abbiamo passate a dei consulenti e così sono partite le cose. Queste
cose secondo me dovrebbero svolgersi al contrario; le opportunità ci sono e noi
le sfruttiamo poco”
“Però che sia stata l’associazione di propria iniziativa a darmi queste informazioni
non è ancora successo. Sarebbe utile che il servizio lavorasse anche in questo
senso”.
Rimane il bisogno di superare l’isolamento delle donne che
fronteggiano le difficoltà derivanti dal loro tipo di attività e la loro
richiesta di rendere più accessibili le informazioni.
57
Conclusioni
Nella realtà economica veneta, i livelli di partecipazione al mercato
del lavoro e i tassi di occupazione femminili sono tra i più elevati d’Italia.
Il mercato del lavoro femminile nel Veneto non presenta tanto il problema
dell’accesso delle donne al mercato del lavoro, quanto soprattutto la
questione della loro permanenza o del loro rientro al suo interno. Per le
donne rimane, infatti, più marcata l’esistenza di un’area grigia di lavoro
che solitamente gli uomini sperimentano come stadio iniziale di ingresso
nel mondo del lavoro, mentre per le donne rischia di rimanere una
condizione duratura che finisce per strutturarsi in una permanente
divisione tra lavoro di cura e occupazione precaria.
La questione della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di lavoro
di cura si pone pertanto con forza e rimanda generalmente all’immagine
di una donna divisa tra lavoro, bimbi piccoli, orari di servizi impossibili e
partner poco collaborativi.
L’indagine realizzata ha però analizzato uno specifico target di donne,
le imprenditrici, ha cioè cercato di contestualizzare il fenomeno
dell’imprenditorialità femminile nella provincia di Venezia, che si inserisce
in un tessuto imprenditoriale come quello italiano notoriamente
polverizzato in una miriade di piccole imprese.
Secondo dati riferiti all’anno 2001, le imprenditrici veneziane sono il
16% del totale delle imprenditrici presenti nella regione Veneto, dove
peraltro le lavoratrici indipendenti rappresentano il 20% del totale delle
lavoratrici.
Il ruolo di responsabilità sostenuto da queste donne comporta
l’utilizzo di modalità e strategie di azione parzialmente distinguibili
rispetto ad altre categorie di donne lavoratrici.
La maggior parte delle donne intervistate ha avuto precedenti
esperienze
lavorative
prima
di
avviare
l’impresa
e
dunque
l’autoimprenditorialità sembra essere una scelta di vita e le responsabilità
che comporta fanno parte di un percorso che non coinvolge solo la sfera
lavorativa.
L’autoimprenditorialità corrisponde in alcuni casi ad una facilitazione
alla conciliazione, episodi svelati da chi ha già sperimentato questa
possibilità di mediazione. Viceversa, le donne più giovani del campione
non riconoscono una relazione tra autonomia del lavoro imprenditoriale e
migliore conciliazione, e spesso il loro immaginario sottolinea il contrario.
In generale, emerge con chiarezza che c’è un prezzo da pagare nel
momento in cui una donna imprenditrice decide di formare o allargare
una famiglia. E il prezzo è espresso, in termini professionali, come freno o
58
ostacolo al possibile investimento aziendale, ma anche in termini
personali, di fatica, rinuncia e delusione di alcune aspettative degli altri
membri della famiglia.
E’ evidente a questo punto il ruolo, e la percezione di esso, delle
scelte professionali nelle strategie di vita ma, in parallelo, le donne
esprimono una sempre minore disponibilità a lasciare che le esigenze
lavorative e di carriera dettino i termini della loro vita privata e affettiva.
Emerge così un quadro di insieme costituito da una categoria di
donne piuttosto disomogenea, per le differenze di età e di opportunità di
ricorso a sostegni nell’ambito della famiglia di origine, riguardo al vissuto
personale, ma in ogni caso consapevole della gravosità della doppia
presenza nell’impegnativa sfera professionale e nella sfera extraprofessionale in cui il carico di lavoro risulta tuttavia affettivamente
importante. Occupare una posizione lavorativa gratificante comporta
inoltre uno scontro costante e pressoché invariato negli anni con
l’immaginario sociale e con una realtà professionale impregnata di modelli
maschili che riconoscono poco spazio e valore alla diversità femminile.
Le difficoltà dichiarate dalle donne che hanno creato e che gestiscono
una propria impresa, sia nell’ambito di questa indagine che in altri studi
esaminati, riguardano la complessità delle adempienze connesse all’avvio
dell’impresa, i problemi finanziari, la difficoltà a reperire risorse umane e i
problemi legati alla doppia presenza.
Considerando i risultati della ricerca realizzata, si può concludere che
diverse sono le aree di intervento possibili ma che è opportuno parlare di
politiche attive e non solo di servizi di supporto all’imprenditoria
femminile.
Le seguenti aree riassumono i focus degli interventi auspicabili:
1) L’informazione
2) Le agevolazioni
3) La formazione
4) La conciliazione lavoro-famiglia
5) L’organizzazione del lavoro
6) Le strutture di supporto al lavoro di cura
1) L’informazione è riferita alle norme, alle fonti di finanziamento, alle
caratteristiche del mercato in cui si opera, all’offerta formativa esistente,
ma, ancora più importante è l’informazione sulle modalità di accesso alle
opportunità offerte in questi ambiti.
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Le imprenditrici sono spesso isolate, non entrano facilmente in
contatto tra loro e con organizzazioni in cui è possibile un confronto delle
esperienze e delle problematiche fronteggiate. La loro fiducia è riposta
spesso solo sui familiari e sul consulente che segue gli aspetti fiscali e del
lavoro dell’azienda. I servizi di orientamento sono sconosciuti.
I servizi di informazione non devono pertanto essere solamente
erogati da appositi sportelli ma “raggiungere” le loro destinatarie.
2) Le agevolazioni finanziarie rientrano tra le attività di supporto alle
imprese da un lato più richieste dalle aspiranti imprenditrici e dall’altro più
facilmente ritrovabili nelle leggi emanate in materia di sostegno alla
creazione di impresa.
E’ cioè chiaro per tutti che l’accesso alla disponibilità di risorse
finanziarie è determinante per lo sviluppo delle imprese, e lo è in modo
particolare per le imprese di piccole e piccolissime dimensioni.
Progetti volti a facilitare l’accesso delle imprenditrici alle fonti di
finanziamento, creando disponibilità finanziarie a condizioni praticabili,
sono pertanto da promuovere.
In questa direzione di inserisce il protocollo di intesa per agevolare
l’accesso al credito delle imprese femminili, stipulato nell’anno 2002 tra la
Camera di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato della Provincia
di Venezia, su proposta del Comitato per la Promozione dell’Imprenditoria
Femminile, le principali associazioni di categoria, alcuni consorzi di
garanzia collettiva fidi e nove istituti di credito.
Va tuttavia rimarcato che questa forma di sostegno non può
prescindere dalla simultanea promozione di servizi di informazione e
assistenza alle imprenditrici.
3) Gli interventi formativi, ritenuti importanti dal nostro target di
riferimento, non sono sempre adeguati e/o accessibili. La domanda
potenziale sarebbe rivolta a percorsi di formazione sullo sviluppo
dell’impresa, nei diversi aspetti, e sulla valorizzazione del ruolo
imprenditoriale ma due sono gli ostacoli principali all’espressione di una
reale richiesta di formazione. L’impegno lavorativo che non concede quasi
mai il tempo necessario da destinare alla frequenza di un percorso
formativo e la resistenza ad investire in formazione in un contesto come
quello descritto dall’indagine in cui le risorse per qualsiasi tipo di
investimento sono scarse.
Offrire un supporto alle aziende femminili in materia di formazione
significa quindi ovviare a questi limiti, da una parte con modalità di
erogazione della formazione flessibili e tarati sull’effettiva disponibilità di
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tempo delle potenziali partecipanti ai percorsi, dall’altra con modalità di
sostegno all’autofinanziamento dei corsi da parte delle imprese.
Infine, la progettazione delle tematiche da trattare non può
prescindere dalla considerazione della diversità delle situazioni
imprenditoriali e aziendali, fattore determinante nella elaborazione delle
esigenze formative.
4) La conciliazione tra lavoro e famiglia è tuttora la ricerca di un
difficile equilibrio tra tempi, esigenze e impegni diversi. Le politiche
positive per la conciliazione potrebbero:
-
cercare il superamento del loro limite principale, ovvero l’essere
centrate su un sistema di diritti applicabili solo a determinate categorie
di lavoratrici;
-
aiutare a fare emergere e a fare riconoscere la responsabilità nella
sfera riproduttiva, intaccando la strategia che spinge le donne italiane
a fare meno figli per riuscire a rimanere sul mercato del lavoro;
-
utilizzare le politiche per la famiglia per ridimensionare la dipendenza
dei singoli individui all’interno della stessa. Tale bisogno è attualmente
in contrasto con il processo di ripensamento del welfare che chiama
sempre più in causa la famiglia come soggetto responsabile di
interventi assistenziali verso i suoi membri, perpetuando l’attuale stato
delle cose nel quale si delinea una nuova forma di disuguaglianza, tra
chi dispone o non dispone di una famiglia in grado di supportarlo;
-
promuovere il cambiamento culturale indispensabile a scardinare il
modello consolidato di distribuzione degli impegni familiari e di cura
che continua a gravare sulle donne/madri anziché su entrambi i
partner/genitori.
5) Dal punto precedente discende che ritematizzare la questione del
doppio ruolo o della doppia presenza può rappresentare anche lo
strumento utilizzabile al fine di superare la difficoltà delle organizzazioni,
anche quelle istituzionali, di rinnovarsi di fronte alla sempre più massiccia
presenza delle donne sul mercato del lavoro.
Gli strumenti di organizzazione e di gestione del lavoro vanno
ripensati anche sulle diversità di genere. In particolare i modelli
organizzativi delle imprese create e gestite da donne, che abbiamo
riscontrato corrispondere anche ad imprese con una prevalenza femminile
tra gli addetti, possono e dovrebbero sperimentare soluzioni solitamente
ignorate nei modelli tradizionalmente maschili per via delle diversità
ormai accertate nelle caratteristiche personali e nelle problematiche da
fronteggiare che il genere comporta. L’elemento differenziante può
diventare vincente solo in nuove soluzioni volte a ridisegnare la gestione e
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la distribuzione dei tempi e delle responsabilità, sfruttando come
opportunità (e non subendo come limite) la piccola dimensione
dell’impresa, la capacità di mediazione, l’attenzione alla relazione, la
creatività e la flessibilità di chi la dirige.
6) Come ultimo punto, ritorna l’ormai nota e problematica questione delle
strutture di supporto al lavoro di cura, in primo luogo asili nido. La
questione è intenzionalmente lasciata in coda, sia perché si tratta di
un’esigenza trasversale alle diverse tipologie di lavoratrici, sia perché
onnipresente nei dibattiti politici degli ultimi anni in materia di pari
opportunità.
In questa sede è quindi opportuno sottolineare che l’accesso ai servizi
per l’infanzia rappresenta generalmente un aspetto problematico per la
scarsa disponibilità di questi strutture in rapporto alla domanda, ma
l’essere mamma-imprenditrice costituisce un ulteriore elemento di
penalizzazione nelle graduatorie basate sul reddito e sulla condizione
lavorativa della madre. Inoltre gli orari dei servizi sono tendenzialmente
rigidi e pensati per un’utenza di lavoratori con orari standard, di
conseguenza poco idonei a soddisfare i bisogni di chi ha un’organizzazione
del lavoro più articolata in relazione al carico di responsabilità.
In conclusione, puntare sullo sviluppo della piccola imprenditorialità
femminile significa:
-
in primo luogo, accettare che una soluzione vincente per un
gruppo di piccole imprese non può essere tale in un altro contesto,
poiché molteplici sono le variabili che determinano il bisogno,
variabili
relative
alle
caratteristiche
socio-culturali
dell’imprenditrice, alla tipologia del settore economico di
appartenenza e al contesto di mercato, alla fase del ciclo di vita
dell’impresa, alle risorse umane che vi lavorano e al clima
relazionale interno, nonché al sistema di valori del territorio di
riferimento;
-
in secondo luogo, mirare a coniugare l’efficienza lavorativa con la
qualità della vita dell’imprenditrice, principio valido in ogni
contesto lavorativo ma ancor più positivo per una tipologia di
lavoratrici che, come si è visto, tende ad identificarsi con la propria
azienda, unendo inscindibilmente la sfera professionale a quella
privata e familiare.
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Lo sviluppo della piccola imprenditoria femminile