LO SVILUPPO DELLA PICCOLA IMPRENDITORIALITÀ FEMMINILE LOCALE E LA DOMANDA DI SERVIZI DI SUPPORTO O.N.L.U.S. La ricerca “LO SVILUPPO DELLA PICCOLA IMPRENDITORIALITÀ FEMMINILE LOCALE E LA DOMANDA DI SERVIZI DI SUPPORTO” è stata realizzata da O.N.L.U.S. La supervisione dell’attività di ricerca è stata curata da Sisa Biadene. Il gruppo di ricerca e la stesura del presente rapporto è stato curato da Luisa Di Bella. Del gruppo di ricerca hanno fatto parte Stefania Denevi, Raffaella Toniolo e Daria Denevi. 2 Indice Note introduttive e metodologiche Pag. 4 Parte prima Lo scenario: le donne nel mercato del lavoro veneto 1. La presenza delle donne nel mercato del lavoro veneto: Pag. 8 struttura e dinamiche dell’occupazione femminile 2. Le imprese al femminile: elementi quantitativi e qualitativi Pag. 13 3. Il panorama legislativo di riferimento per il lavoro delle Pag. 20 donne: tutela, promozione e impegno verso le imprese e le famiglie 4. La partecipazione delle donne: potenzialità e problematiche Pag. 28 Parte seconda I risultati dell’indagine 1. Le caratteristiche delle imprenditrici intervistate e delle loro imprese Pag. 36 1.1 Le attività svolte: settore e ruoli Pag. 39 1.2 La posizione delle imprese: localizzazione, anzianità, forma giuridica e dimensione Pag. 40 1.3 Il mercato: clienti, andamento del fatturato e concorrenza Pag. 42 2. L’avvio dell’impresa e le prospettive di sviluppo Pag. 44 3. I fattori di successo, le criticità e il rilievo delle differenze di genere Pag. 48 4. La domanda di servizi di supporto alle imprese Pag. 55 Conclusioni Pag. 58 3 Note introduttive e metodologiche La ricerca che qui presentiamo si inserisce nel progetto Ri.Do, promosso dalla Provincia di Venezia nell’ambito dell’iniziativa comunitaria Equal. Con il progetto Ri.Do si intende migliorare la posizione delle donne nel mercato del lavoro locale caratterizzato da una forte crescita economica. In particolare Ri.Do si propone di ridurre il ritardo del sistema territoriale nel comprendere e accompagnare il rapido cambiamento delle potenzialità occupazionali femminili con un corrispondente cambiamento culturale, nelle organizzazioni, nell’assetto dei servizi. Il ruolo della piccola impresa nello sviluppo economico e sociale in Italia e, in particolare, nell'area Nord-Est è generalmente riconosciuto. Rimane invece ancora poco tematizzato il contributo dato dall'imprenditoria femminile, nella creazione e nello sviluppo dell’occupazione. Appare quindi interessante analizzare il fenomeno delle piccole imprese gestite da donne, focalizzando l'attenzione sugli aspetti di innovazione e orientamento alla crescita. Recenti ricerche pur nella diversità degli approcci analitici, mettono in luce la dinamicità e le potenzialità delle imprese gestite da donne e insieme i problemi che si trovano ad affrontare e che possono minare le possibilità di espansione, se non addirittura di sopravvivenza. L’immagine dell’imprenditoria femminile che ne emerge è di una realtà diversificata al suo interno. Accanto ad esperienze ‘forti’, innovative e dinamiche - anche in attività un tempo negate alle donne - gestite da imprenditrici orientate allo sviluppo della propria azienda e della propria professionalità, si ritrovano anche esperienze con caratteristiche ‘deboli’ che si traducono in minori opportunità di espansione/sopravvivenza, come una debole cultura di impresa e la difficoltà ad identificarsi nel ruolo, la resistenza a trovare sinergie con altre imprese e a consorziarsi. Appare quindi fondamentale l’analisi delle esperienze imprenditoriali femminili locali nei diversi settori per cogliere i punti di forza delle imprese esistenti e le potenzialità occupazionali, di sviluppo professionale e di conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi familiari, ma anche per rilevare le necessità di informazione/formazione/orientamento e di servizi di supporto. Il problema dell’orientamento all’impresa delle donne disoccupate assume un ruolo centrale nell’ambito delle politiche del lavoro perché le potenzialità occupazionali offerte dall’attività imprenditoriale si traducano in effettive occasioni di lavoro. Anche in questo caso i risultati di studi e ricerche, ma, soprattutto, le verifiche degli esiti di interventi formativi per l’avvio di imprese offrono importanti elementi di conoscenza. Spesso, una dichiarata disponibilità all’intraprendere nasce dalla necessità/aspettativa 4 di avere un lavoro - qualunque lavoro - ma senza che vi sia un’idea di impresa e/o la consapevolezza dell’importanza della verifica di fattibilità e di che cosa significhi la gestione. La ricerca individuare: che Sinergica ha realizzato è stata finalizzata ad Ø la diffusione e le caratteristiche della piccola imprenditoria femminile del territorio; Ø i fattori di successo e le criticità; Ø la domanda di servizi di support o allo start up e allo sviluppo delle imprese, espressa dalle imprenditrici. La ricerca si è articolata in due fasi: a. Raccolta e analisi secondaria di documentazione, studi e ricerche sul tema, finalizzata a cogliere gli aspetti del fenomeno eventualmente già rilevati, in modo da poter ottenere elementi per la costruzione del campione di imprenditrici da intervistare nella fase successiva e per l’elaborazione della traccia di intervista. b. Indagine qualitativa sul campo, mediante interviste in profondità semistrutturate ad un campione di imprenditrici, che comprenda diversi tipi di impresa in rapporto a: forma giuridica, profit/no profit, settore di attività, periodo di costituzione e localizzazione. Si prevede l’effettuazione di 18/20 interviste, che sono state registrate e deregistrate in protocolli scritti. La prima parte del rapporto di ricerca fornisce una prima descrizione della presenza delle donne nel mercato del lavoro veneto, approfondendo la struttura e le dinamiche dell’occupazione femminile. Vengono inoltre approfonditi elementi quantitativi e qualitativi delle imprese al femminile e le potenzialità e problematicità connesse alla partecipazione delle donne nel mercato del lavoro. In tale ambito di ricerca un ruolo importante è rivestito dal panorama legislativo entro il quale si colloca il lavoro delle donne: il terzo paragrafo affronta questa tematica attraverso un breve excursus legislativo su alcune leggi per la tutela e la promozione del lavoro femminile, oltre che degli aspetti legati alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. La seconda parte del rapporto riferisce dei risultati dell’indagine sul campo. 5 La ricerca sul campo si è sviluppata attraverso la realizzazione di 20 interviste in profondità su traccia semistrutturata (Allegato A) ad imprenditrici della provincia di Venezia. Nella scelta delle intervistate, tutte operanti in piccole imprese, si è cercato di intersecare le variabili relative a settore, attività svolta, forma giuridica, numero di addetti, localizzazione, età dell’imprenditrice. L’individuazione delle titolari di impresa coinvolte nell’indagine è avvenuta con la collaborazione di Legacoop di Venezia, Camera di Commercio di Venezia, Eurosportello, comuni partner del progetto (Scorzè, Musile di Piave, Mirano), Confcommercio (Unione Commercio e Turismo) Sportello Imprenditoria Femminile, che hanno fornito elenchi di imprenditrici presenti nei loro data base o hanno suggerito alcuni nominativi di titolari d’impresa già sensibilizzate alle tematiche dell’imprenditoria femminile. La resistenza incontrata da parte delle stesse imprenditrici a concedere le interviste ha parzialmente limitato lo scopo prefissato di assicurare una rappresentatività del campione selezionato rispetto all’universo oggetto della ricerca. E’ stato infatti necessario contattare un grande numero di donne, titolari di piccole imprese, per raggiungere il numero prefissato di interviste necessarie; la maggior parte delle persone contattate ha infatti rifiutato il colloquio con motivazioni diverse ma riconducibili sostanzialmente alla scarsa disponibilità di tempo e ad un accentuato, talvolta esasperato, riserbo sulla propria attività d’impresa nonché vita privata. Il fenomeno è stato così rilevante, rispetto ad altre indagini, da spingere il team dei ricercatori a considerarlo un’altra caratteristica dell’universo che si è inteso conoscere. Pur affidandosi dunque ad una maggiore casualità del campione, si è comunque raggiunto l’obiettivo principale dell’indagine, ovvero la raccolta degli elementi caratterizzanti la piccola imprenditoria femminile nella provincia di Venezia, le prospettive di sviluppo e il fabbisogno di servizi di supporto. Le interviste hanno toccato le seguenti aree: - la situazione attuale dell’azienda, sia come dati strutturali che come percezioni e valutazione dell’imprenditrice; - l’avvio dell’impresa; - la percezione delle differenze di genere e il ruolo da esse giocato nella creazione e nella gestione dell’impresa stessa; - i supporti e i servizi utilizzati, sia all’interno che all’esterno dell’impresa; - i dati socio-anagrafici e la situazione personale dell’imprenditrice. 6 PARTE PRIMA Lo scenario: le donne nel mercato del lavoro veneto 7 1. La presenza delle donne nel mercato del lavoro veneto: struttura e dinamiche dell’occupazione femminile Prima di delineare le caratteristiche del mondo dell’imprenditoria femminile nella regione Veneto e, in particolare, nella provincia di Venezia, è utile mettere a fuoco il contesto della presenza femminile nel mercato del lavoro veneto. A tal fine, riportiamo alcuni dati sulla dinamica e sulla struttura dell’occupazione estrapolati dall’annuale rapporto sul mercato del lavoro, curato da Veneto Lavoro. I dati sotto riportati si riferiscono all’anno 2000 e gli andamenti al triennio 1998-2000. L’occupazione regionale complessivamente considerata si va estendendo con un ritmo di incremento del 2,8% nel 2000 rispetto all’anno precedente. Il trend di crescita coinvolge in maggior misura l’occupazione femminile (+ 4,6%) rispetto a quella maschile (+ 1,7%). Pertanto il tasso di femminilizzazione è aumentato fino a raggiungere il 38,6%, contro il 36,8% registrato a livello nazionale. Da un punto di vista settoriale, l’agricoltura evidenzia un’occupazione costante, l’industria nel suo insieme mantiene il suo dimensionamento, ed è pertanto il terziario a crescere fortemente. Una valutazione più approfondita di questi andamenti è possibile solo per il periodo immediatamente precedente. Negli anni 1994-1998, l’occupazione nel Veneto ha infatti presentato un’ottima performance con un incremento dell’8,2%, quasi doppio rispetto a quello nazionale. La crescita del numero di imprese è stata dell’1,8%, mentre in Italia risultava negativa, e il maggior contributo alla crescita occupazionale è derivato dalle imprese medio-piccole. Il comparto del terziario è cresciuto del 13,6%, sviluppandosi più che in Italia, mentre il comparto industriale ha sostanzialmente tenuto malgrado l’apporto negativo alla crescita occupazionale. Relativamente ai dati sulle forze lavoro femminili nel Veneto, comparati anche con l’Italia e riferiti al periodo 1998 – 2000, si evidenzia che il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro è cresciuto nel periodo considerato, attestandosi in Veneto nell’anno 2000 al 34,9%, quattro punti percentuali in più rispetto al dato italiano. Altre differenze rappresentative dello stato del mercato del lavoro in Veneto, sempre riferite all’anno 2000, sono un tasso di occupazione femminile totale pari al 32,8% contro il 26,4% italiano e un tasso di disoccupazione femminile pari al 6,1% che si pone di fronte al 14,5% del dato riferito all’Italia. 8 L’andamento nel triennio considerato denota una crescita sia del tasso di attività totale che del tasso di occupazione totale e un decremento del tasso di disoccupazione. La suddivisione dell’occupazione femminile tra settori conferma la forte presenza delle donne nel terziario, 64,8%, e indica il 31,9% di presenza nell’industria e il 3,3% in agricoltura. Tab. 1 - Composizione % dell’occupazione femminile per settori, in anno 2000. Veneto e in Italia, Veneto Italia 3,3% 4,5% Industria 31,9% 21,0% Altre attività 64,8% 74,4% Agricoltura La suddivisione dell’occupazione femminile tra lavoro dipendente e indipendente rispecchia sostanzialmente il dato italiano rivelando tuttavia uno scostamento dell’1,6% a favore dell’occupazione dipendente. Tab. 2 - Composizione % dell’occupazione femminile per posizione professionale, in Veneto e in Italia, anno 2000. Veneto Italia Lavoratrici dipendenti 79,6% 78,0% Lavoratrici indipendenti 20,4% 22,0% Le assunzioni di donne hanno registrato una crescita del 10% (di cui part-time 11,4%). L’incidenza delle donne occupate a tempo parziale è salita dal 15,4% del 1994 al 20,7% del 2000. Sul totale degli occupati il part -time è concentrato (68%) soprattutto tra i lavoratori in età centrale (25-44 anni) ma gli incrementi registrati hanno riguardato particolarmente gli under 20 e gli over 50, segnando un nuovo uso dello strumento, adottato non solo per conciliazione della vita familiare, ma anche per un inserimento progressivo o un ritiro graduale dal mercato del lavoro. L’incidenza del lavoro temporaneo ha interessato particolarmente le donne, passando dall’8,9% del 1994 al 10,4% del 2000. Si tratta comunque di valori inferiori alla media italiana. Parlando di occupazione vanno comunque sottolineate le ridotte dimensioni dell’aggregato “persone in cerca di occupazione” e la consistente dimensione dell’aggregato delle “non forze di lavoro”, che 9 spingono la domanda di lavoro a cercare di mobilitare queste ultime componenti, almeno nella percentuale comunque interessata al mercato del lavoro anche se non in ricerca attiva di occupazione. Si tratta delle persone blandamente in cerca di lavoro, che hanno cioè svolto azioni di ricerca del lavoro ma non di recente, e delle persone che si dichiarano disponibili a collocarsi sul mercato ma a particolari condizioni. In queste fila di non forze lavoro si ritrovano prevalentemente casalinghe di età 3049 anni, oltre a maschi e femmine con più di 50 anni. Per conoscere alcuni aspetti più qualitativi della partecipazione femminile al mercato del lavoro è utile trarre alcune indicazioni dalle indagini svolte dall’Osservatorio del Mercato del Lavoro del Veneto, sempre nel triennio 1998-2000. Queste indagini, richieste dalla Commissione Pari Opportunità, hanno analizzato i cambiamenti della domanda e dell’offerta di lavoro femminile nel Veneto, elaborando per questa finalità dati e informazioni prodotte da alcune significative indagini condotte a livello nazionale. E’ noto come il Veneto in pochi decenni, da una posizione di arretratezza rispetto al resto del nord Italia sia passato ad uno sviluppo industriale trainante per l’intera economia regionale. Questo sviluppo e la conseguente ed eccezionale crescita economica possono essere letti in termini di effetti e cambiamenti sul mercato del lavoro. In questi cambiamenti le donne hanno giocato un ruolo importante, beneficiando in misura maggiore, rispetto agli uomini, dell’impatto della crescita economica. Ciò è avvenuto poiché in passato le donne hanno quasi sempre occupato posizioni marginali nel mercato del lavoro, mansioni di bassa qualifica o tradizionalmente femminili (insegnante, infermiera, segretaria, etc.), uscendo dal mercato nei momenti di crisi. Negli ultimi anni la situazione si è rapidamente modificata. Il livello di scolarizzazione delle donne si è innalzato, raggiungendo prima e superando poi quello maschile, e di pari passo è cambiato l’atteggiamento femminile verso il lavoro. Oggi tra gli occupati si registrano più donne diplomate e laureate che uomini con pari titoli di studio. Ma benché il tasso di occupazione delle donne sia strettamente connesso al livello di istruzione, il loro tasso di disoccupazione continua ad essere quasi doppio di quello maschile. Inoltre il tasso di occupazione femminile è ancora al di sotto sia di quello maschile riferito al Veneto, sia di quello europeo, che costituisce comunque una prioritaria preoccupazione dei responsabili comunitari delle politiche del mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione è un tradizionale indicatore dello stato di salute del mercato del lavoro ma non completamente adeguato a misurare 10 i disagi dello stesso e soprattutto i divari fra le sue componenti di genere. A riprova di ciò, a livello regionale pur in presenza di un tasso di disoccupazione fra i più bassi in Europa, l’opinione comune continua a percepire la disoccupazione come il problema più grave del mercato del lavoro, anche in considerazione del fatto che lo status della disoccupazione non presenta più dei connotati ben distinti come in passato in un contesto di grande flessibilità e mobilità dell’impiego che mimetizza la divisione fra occupazione, disoccupazione e inattività. A tal proposito, va in questa sede ricordato che tra coloro che non dichiarano di far parte delle forze di lavoro si ritrovano per la maggior parte donne. Da quanto sopra descritto risulta quindi una sottoutilizzazione del potenziale di lavoro femminile e quindi il Veneto si presenta come una regione con un tasso di disoccupazione complessivo fra i più bassi in Italia e in Europa, ma con un tasso di occupazione femminile in linea con quello dei paesi meno industrializzati, contraddizione in parte spiegabile come conseguenza della rapidità del passaggio da economia prevalentemente agricola a contesto industriale molto competitivo in cui un incremento della base occupazionale è tuttavia necessario per il suo stesso mantenimento. Si tratta peraltro di un obiettivo condiviso a livello nazionale e europeo nella prospettiva di un aumento del contenuto occupazionale della crescita economica. Le donne venete che si dichiarano alla ricerca attiva di lavoro, disposte cioè ad accettare immediatamente qualsiasi tipo di lavoro, sperimentano quindi alti livelli di disoccupazione che alcune importanti indagini attribuiscono non solo ad un insufficiente livello di domanda ma anche alla difficoltà di incontro fra domanda e offerta. Ad esempio, l’indagine Excelsior del 1997 sulla domanda di lavoro da parte delle imprese, collocava la regione Veneto in prima posizione fra le regioni italiane per difficoltà di reperimento della manodopera. Se dunque il Veneto è una regione in cui le occasioni di lavoro non mancano, qualcosa andrebbe rivisto in merito ai canali di ricerca del lavoro e all’efficienza di tutti i servizi per l’impiego oggi presenti sul territorio. Ma tra le donne che cercano un nuovo lavoro si ritrovano anche una buona percentuale di donne occupate. Un altro degli effetti della maggiore flessibilità nell’impiego del lavoro da parte delle imprese introdotta negli anni recenti, e delle difficoltà di incontro qualitativo fra domanda e offerta, è il forte incremento delle persone già occupate in cerca di un nuovo lavoro. Questa nuova classe composta quasi in uguale misura da uomini e da donne, si pone in competizione con i gruppi di disoccupati e inattivi, con uno scarto poco inferiore al loro numero complessivo. In quest’ottica di valutazione del peso percentuale sul totale delle persone in cerca di lavoro, le donne occupate rappresentano una fetta minore rispetto a quella dei maschi, dato tuttora correlabile al diverso 11 atteggiamento delle donne rispetto al lavoro, frutto della necessità di conciliazione tra la vita lavorativa e la vita familiare. Infatti, le esigenze della famiglia condizionano la mobilità delle donne che spesso è tuttavia connessa alla possibilità di carriera e alla retribuzione. Un’altra scelta frequentemente attuata dalle donne in considerazione degli impegni familiari è il lavoro a tempo parziale. Le donne sono da sempre le destinatarie di rapporti di lavoro part -time; anche oggi, in un contesto di generale flessibilizzazione di tutto il mercato del lavoro, il part time si concentra soprattutto fra le donne, che nel Veneto costituiscono l’80% della quota complessiva di lavoratori con questo tipo di orario. La diversa ripartizione per età tra le donne che scelgono di lavorare con un orario ridotto esprime in modo chiaro il diverso significato che ha questa tipologia di lavoro per i due sessi. Si tratta infatti di una modalità che interessa soprattutto le donne in età matrimoniale con figli, simbolo di scelta obbligata per poter conciliare i ruoli familiari e professionali, mentre fra gli uomini con lavoro part -time si ritrovano quasi esclusivamente i pensionati. Anche sotto il profilo dei ruoli professionali ricoperti dalle donne la situazione non presenta molte novità rispetto al passato, nonostante l’innalzamento generalizzato del livello di istruzione prima ricordato. Le aree di dominio femminile continuano ad essere: le professioni esecutive relative all’amministrazione e gestione aziendale, le professioni relative ai servizi alle famiglie e le professioni relative alle vendite. Le professioni manuali più specializzate rimangono dominio maschile. In relazione invece alla dimensione delle aziende le donne trovano collocazioni diverse: le donne con professioni intellettuali e di elevata specializzazione sono inserite soprattutto nelle medie imprese, nelle grandi imprese le donne svolgono professioni intermedie mentre nelle piccole e piccolissime imprese si concentrano in attività relative alle vendite e ai servizi. Queste indicazioni riconfermano un aspetto spesso evidenziato riguardo all’occupazione femminile, cioè la sua concentrazione in un numero limitato di figure professionali e la forte discriminazione professionale nei confronti delle forze di lavoro femminili. Fattori che permangono quindi nonostante i cambiamenti registrati sul versante dell’offerta, con più elevati titoli di studio e maggior propensione a rimanere sul mercato del lavoro anche in età riproduttiva, e che fanno confluire la domanda di lavoro rivolta alle donne su uno ristretto numero di figure professionali tradizionali da sempre occupate dalla componente femminile. 12 2. Le imprese al femminile: elementi quantitativi e qualitativi Per fotografare la presenza e le caratteristiche dell’imprenditorialità femminile nella provincia di Venezia vengono di seguito presentati alcuni dati elaborati sulla base della ricerca condotta dal Comitato per la promozione dell’imprenditoria femminile della CCIAA di Venezia. Nel paragrafo precedente è già stato rilevato come le lavoratrici indipendenti in Veneto si attestino su una percentuale del 20% sul totale delle lavoratrici. I dati della Camera di Commercio che seguono sono riferiti alle figure di imprenditori, pertanto alle persone che all’interno di un’impresa ricoprono cariche di titolare, socio, amministratore e altre cariche; restano pertanto escluse le libere professioniste in quanto lavoratrici autonome ma senza impresa e senza dipendenti. Da questi dati si deduce che l’imprenditoria femminile nella provincia di Venezia ha un peso inferiore alla media regionale e nazionale e la crescita nel 2001 è stata più ridotta rispetto alla crescita delle imprenditrici venete e italiane. La tabella 3 ci permette di confrontare la presenza di imprenditrici nelle diverse province del Veneto, evidenziando che a Venezia si registra il 16% del totale delle imprenditrici della regione. Tab. 3 - Distribuzione percentuale delle imprenditrici venete per provincia, anno 2001. Imprenditoria femminile Belluno 4% Rovigo 6% Venezia 16% Vicenza 17% Verona 18% Treviso 18% Padova 21% Totale 100% Restringendo il campo alla sola provincia di Venezia, osserviamo una panoramica sulla presenza femminile nel mondo imprenditoriale in valori assoluti e percentuali e un confronto imprenditori e imprenditrici rispetto a cariche sociali ricoperte, settori di attività, natura giuridica delle imprese ed anzianità anagrafica. 13 Tab. 4 - Imprenditori iscritti al Registro Imprese della CCIAA di Venezia, anno 2001; suddivisione maschi/femmine. Maschi 85.213 74,6% Femmine 29.073 25,4% 114.286 100,0% Totale I 114 mila e 286 imprenditori e imprenditrici indicati nella tabella 4 non corrispondono ad una singola impresa, nelle società infatti è possibile ritrovare più soci. E’ nella tabella 5 che ritroviamo la distribuzione percentuale per ciascuna delle cariche sociali sopra indicate. Tab. 5 - Distribuzione percentuale per carica sociale, imprenditori della provincia di Venezia, anno 2001; suddivisione maschi/femmine. Titolare Socio Amministratore Altre cariche Maschi 77% 63% 79% 84% Femmine 23% 37% 21% 16% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0% Totale Le donne, rispetto agli uomini sono più presenti all’interno delle imprese con la carica di socie (37%) ma, se il raffronto tra cariche occupate avviene solo all’interno dell’universo femminile, le ritroviamo prevalentemente con la carica di titolare (38%). Nella carica di amministratore e nelle altre cariche le donne sono comunque in crescita rispetto all’anno precedente. 14 Tab. 6 - Distribuzione percentuale per settore, imprenditori della provincia di Venezia, anno 2001; suddivisione maschi/femmine. Maschi Femmine Agr icoltura 75% 25% Industria 83% 17% Commercio 70% 30% Turismo 63% 37% Trasporti 89% 11% Credito e assicurazioni 79% 21% Servizi alle imprese 72% 28% Servizi pubblici 57% 43% Altri settori 70% 30% In alcuni settori le donne sono più presenti e anche le imprenditrici superano la media provinciale del 25%; sono infatti il 43% degli imprenditori totali nel settore dei servizi pubblici, il 37% nel settore del turismo, il 30% nei settori commercio e altri settori (che comprende il settore dei servizi alla persona), il 28% nel settore dei servizi alle imprese. Tab. 7 - Distribuzione percentuale per natura giuridica dell’impresa, imprenditori della provincia di Venezia, anno 2001; suddivisione maschi/femmine. Maschi Femmine Società di capitale 83% 17% Società di persone 66% 34% Imprese individuali 77% 23% Altre forme 85% 15% La forma giuridica scelta da quasi la metà delle imprenditrici presenti nella provincia di Venezia, in tutti i settori, è la società di persone, anche se nelle società di capitali la presenza delle imprenditrici nell’anno 2001 è cresciuta del 10%. Rispetto alla suddivisione tra uomini e donne sul totale degli imprenditori, la tabella 7 mostra come la percentuale scenda al di sotto della media provinciale sia per le imprese individuali (23%), che per società di capitale (17%) che per le altre forme societarie (15%, al cui interno si collocano anche le società cooperative), mentre nelle società di persone le imprenditrici sono il 34%. Circa la metà degli imprenditori su cui stiamo argomentando si è iscritto al registro delle imprese nell’intervallo temporale che va dall’anno 1990 al 1999 e tra questi le imprenditrici sono più numerose, a 15 testimonianza di un ingresso più recente delle imprese femminili nel mercato. Anche considerando l’età degli imprenditori si nota una presenza femminile più numerosa nelle fasce di età comprese entro i 32 anni, e la percentuale di donne decresce all’innalzarsi dell’età come si evince dalla tabella 8. Tab. 8 - Distribuzione percentuale per età, imprenditori della provincia di Venezia, anno 2001; suddivisione maschi/femmine. Maschi Femmine meno di 22 anni 65% 35% da 23 a 32 anni 71% 29% da 33 a 42 anni 74% 26% da 43 a 52 anni 75% 25% da 53 a 62 anni 76% 24% più di 62 anni 77% 23% La fascia di età più importante rimane comunque quella dai 33 ai 42 anni in cui va a collocarsi quasi il 30% sia degli imprenditori che delle imprenditrici; è importante però evidenziare come rispetto al 2000 la fascia di imprenditrici al di sotto dei 22 anni sia cresciuta del 78%. Grazie alle elaborazioni statistiche effettuate dall’EBAV (ente bilaterale artigianato veneto), possiamo approfondire alcuni dati sulla presenza femminile nel comparto artigiano regionale, riferiti all’anno 2002. In questo comparto il peso della componente femminile tra gli imprenditori e i collaboratori familiari si attesta sul 20,5% del totale dei titolari e collaboratori di impresa. Se consideriamo solo le titolari questa percentuale scende al 17,4%; si tratta inoltre di una componente che nel periodo 1997-2001 ha registrato una contrazione di circa due punti percentuali. L’imprenditoria femminile nell’ambito dell’artigianato ha pertanto un peso minore che nel mondo imprenditoriale complessivamente considerato e un altro dato che differisce da quanto prima evidenziato riguarda l’età delle imprenditrici. Infatti, la classe imprenditoriale artigiana lamenta da tempo una mancanza del ricambio generazionale che porta ad un progressivo invecchiamento del settore e alla chiusura di molte aziende al sopraggiungere dell’età pensionabile del titolare. In particolare sono le donne artigiane in età compresa tra i 55 e i 70 anni che aumentano più degli uomini mentre la fascia di età fino a 34 anni 16 conosce un’accentuata diminuzione, ancora più marcata nella fascia di età compresa nei 24 anni. L’anzianità delle aziende rivela al contrario che il 75% degli imprenditori ha meno di 20 anni di attività, le donne in particolare sono entrate nell’artigianato soprattutto a partire dal 1994. Un altro indicatore della “voglia di fare impresa” delle donne venete può essere rappresentato dalle domande presentate all’ultimo bando delle legge n. 215/92 “Azioni positive per l’imprenditoria femminile. Tab. 9 – Suddivisione delle domande per provincia, provvedimento 2001. Domande presente Domande con esito positivo Domande con esito negativo Domande agevolate Verona 288 229 59 45 Treviso 243 206 37 42 Padova 237 180 57 42 Venezia 229 191 38 58 Vicenza 212 174 38 40 Rovigo 150 129 21 40 Belluno 62 50 12 16 1421 1159 262 283 Totale Il 45% delle domande presentate (tabella 9) si riferisce infatti all’avvio di nuove attività, e anche le domande dichiarate ammissibili cioè il cui esito dell’istruttoria è stato positivo riguardano per il 43% nuove imprese in fase di start -up. Seguono i progetti aziendali innovativi con il 43% delle domande presentate, l’acquisto di attività preesistenti riguarda invece solo il 10% delle domande mentre nel 2% dei casi non è dichiarato il tipo di iniziativa. Il 76% dei progetti, infine, si colloca nel settore commercio, turismo e servizi. Per aggiungere elementi qualitativi di conoscenza delle imprenditrici venete ai dati quantitativi finora presentati, il riferimento va ad un’indagine condotta nella regione tra il 1995 e il 1997 con l’obiettivo di delineare un profilo sia delle imprese condotte da donne che delle stesse imprenditrici. Si tratta di un contributo importante alla conoscenza delle motivazioni che portano le donne ad intraprendere, in un territorio come quello Veneto di imprenditorialità diffusa, e delle difficoltà che incontrano nell’affrontare 17 un lavoro autonomo non tralasciando tuttavia il pesante carico del lavoro di cura che la presenza di una famiglia comporta. Una sintesi dei due apporti alla ricerca, il primo più quantitativo e il secondo più qualitativo, ci fornisce il seguente spaccato d’impresa: titolarità femminile, operante prevalentemente nel settore industriale come società di capitale, con una anzianità media di 20 anni, un fatturato medio compreso tra 1 e 10 miliardi di vecchie lire italiane e un numero di dipendenti inferiore a 6. L’imprenditrice ha un’età media di 42 anni e il diploma di scuola media superiore; è sposata e il marito spesso lavora nella stessa impresa. Il motivo che più frequentemente ha condotto ad avviare l’attività imprenditoriale è la tradizione familiare, unitamente al bisogno di autonomia decisionale e alla voglia di utilizzare al meglio le proprie capacità. Le imprenditrici fondatrici dell’azienda hanno riscontrato problematiche iniziali legate alla complessità delle adempienze, a problemi finanziari e di inserimento nel mercato, e difficoltà a reperire le risorse umane. Diversi invece i problemi incontrati dalle imprenditrici non fondatrici, che lamentano conflitti generazionali con gl i altri soci, ambiente maschilista e difficoltà di rapporti con il personale, oltre ai comuni problemi finanziari. Superati gli impedimenti iniziali, la gestione quotidiana dell’impresa comporta ugualmente problemi connessi alle specificità di genere, in particolare la prevenzione degli uomini nei confronti di imprenditrici donne, gli impegni familiari per la cura dei figli, le difficoltà di gestione dei collaboratori maschi. Mediamente il tempo dedicato alla gestione dell’impresa è di 48 ore settimanali, cui si abbina un tempo medio di 25 ore settimanali dedicato alla gestione della famiglia. A quest’ultima viene comunque attribuito un maggior valore, al di là del tempo ad essa dedicato. Le prospettive di sviluppo godono di una visione generalmente positiva tra le imprenditrici che eppur si muovono in un clima incerto o di prudenza, con una conoscenza poco approfondita delle opportunità offerte dalla legislazione vigente. Muovendo da un primo profilo di imprenditrice veneta motivata e ottimista, che si muove in un sufficiente equilibrio tra ruolo imprenditoriale e ruolo familiare, nel permanere di strutture culturali e istituzionali inadeguate ad un’ulteriore espansione dell’imprenditoria femminile, vengono esplorati alcuni indicatori della qualità della vita di queste donne in termini di aspirazioni e soddisfazioni raggiunte. La maggior parte delle imprenditrici riconosce la flessibilità offerta dal loro ruolo nella scelta dei tempi da dedicare sia all’impresa che alla famiglia ma, di fatto, è meno soddisfatta dell’effettiva ripartizione operata. All’elevato numero di ore dedicato all’azienda, fa seguito un tempo medio di lavoro di cura molto alto, che quindi ricade sulle donne a prescindere dal grado della professione ricoperta. La convivenza con persone destinatarie di bisogni di cura accresce eccessivamente il tempo loro dedicato. Il tempo per sé stesse e il tempo per la cura di sé risulta 18 numericamente più basso. Ciò si riflette in una maggiore intensità del peso della rinuncia ad occuparsi di questi aspetti della vita privata. Avvertita in modo pesante la rinuncia ad occuparsi della famiglia per dare la precedenza al lavoro, malgrado i maggiori riconoscimenti e gratificazioni derivino di fatto dall’ambito lavorativo. In un generale grado di soddisfazione medio alto, il livello di soddisfazione più consistente si riscontra proprio nel ruolo di imprenditrice, cui segue quello di madre. Le opinioni liberamente espresse dalle imprenditrici sull’esistenza di pari opportunità nello svolgimento del loro ruolo, si possono riassumere in alcune categorie. Da una parte, si colloca il gruppo di coloro che si considerano imprenditori a tutti gli effetti e rigettano una legislazione a tutela delle imprenditrici in quanto tendente a sottolineare sostanziali differenze tra uomini e donne. Chi invece dà rilievo alle differenze e mette in risalto le difficoltà che un’imprenditrice incontra nel farsi accettare come leader, difficilmente esprime ipotesi di intervento. Infine, è folto il gruppo di imprenditrici che mette l’accento sui problemi della “doppia presenza” in azienda e in famiglia per lo svolgimento del proprio ruolo imprenditoriale. L’incompatibilità del ruolo familiare con lo svolgimento della professione è infatti fonte di disagio. Proprio alla luce delle problematiche evidenziate, il buon livello di risultati professionali raggiunti viene ritenuto dalle imprenditrici superiore a quello ottenibile dagli imprenditori maschi che non sono chiamati a fronteggiare e neutralizzare le influenze negative derivanti dalla condizione femminile. 19 3. Il panorama legislativo di riferimento per il lavoro delle donne: tutela, promozione e impegno verso le imprese e le famiglie Il sistema di welfare italiano, in modo analogo a molti altri paesi mediterranei, è stato a lungo incentrato su un’idea ormai obsoleta di famiglia: esso ha sempre considerato l’uomo come unico o principale detentore di reddito, ma ancor più restrittivamente ha racchiuso un principio “familista” della cura, in base al quale sono i membri della famiglia i primi responsabili del benessere dei soggetti appartenenti al nucleo. Il presupposto, diffusamente condiviso, è che le responsabilità legate alla cura dei figli in tenera età e all’assistenza di adulti non autonomi (portatori di handicap o anziani) costituiscono un ostacolo alla partecipazione alle forze lavoro ed alla possibilità di crescita professionale, sia per le donne che per gli uomini. Di fatto, a scontrarsi con questa realtà sono state però le donne, per tradizione considerate i soggetti preminentemente dediti al lavoro di cura, dentro e fuori la famiglia. La legislazione, sia nazionale che regionale, viene costantemente analizzata negli studi sulle politiche di genere, cercando di individuare le politiche sociali indirizzate alle donne e le diverse fasi e modalità dell’attivazione dell’intervento pubblico. In un sistema di tutela e sostegno del lavoro sbilanciato verso alcuni gruppi di cittadini che sono stati iper-garantiti - i lavoratori dipendenti del settore pubblico e delle medie e grandi aziende con le relative famiglie - a scapito di altri gruppi – in particolare lavoratori autonomi e piccoli imprenditori, che più di altri sperimentano l’elevata flessibilità e disponibilità di tempo - si è inoltre cercato di capire quali strumenti il nostro welfare system mette a disposizione di tutti questi soggetti per conciliare lavoro di cura familiare e lavoro professionale. In Italia la storia della regolazione giuridica del lavoro femminile è relativamente recente. Inizia nei primi anni del ‘900, un po’ in ritardo rispetto ad altri paesi europei, in particolare anglosassoni, per varie ragioni di ordine politico – le donne acquisirono il diritto di voto nel 1947 – , economico - il risparmio su una manovalanza tanto efficiente quanto sotto pagata e per nulla tutelata quale erano le donne – e sociale, compresa un’inconscia paura della presenza delle donne nel mercato del lavoro da parte del mondo maschile. Tralasciando le prime leggi del 19001, la moderna legislazione sul lavoro femminile affonda le radici nell’art. 37 della Costituzione 1 Nel 1910 fu istituita la Cassa di Maternità, nel 1919 si aprirono alle donne le libere professioni e le carriere pubbliche anche se con ancora molte eccezioni e molto libero arbitrio, nel 1924 si fissò l’astensione obbligatoria per maternità 20 repubblicana. Esso sancisce che: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione famigliare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. L’articolo 37 della Costituzione fissa l’uguaglianza tra uomini e donne nel lavoro, ma nel contempo sostiene che tale diritto ha lo scopo di tutelare “l’essenziale funzione famigliare e materna”, riafferma cioè la priorità femminile nel lavoro di cura all’interno della famiglia. Nasce così una contraddizione costituzionale poiché l’articolo in definitiva sancisce l’uguaglianza nel mercato del lavoro e la disuguaglianza dentro le mura domestiche, contraddizione che influenzerà la legislazione seguente, avente come finalità il miglioramento delle garanzie per le madri lavoratrici in più settori economici, con estensioni temporali del periodo di congedo e con il riconoscimento d’indennizzo per il periodo d’astensione dal lavoro. Garanzie fondamentali, ma spesso limitate dall’interpretazione restrittiva delle norme e rivolte ad una sola categoria di lavoratrici, quelle dipendenti. Un’altra sottolineatura negativa è la continua astensione dello Stato da un intervento effettivo: è mancata un’assunzione diretta di responsabilità che considerasse la maternità ed il lavoro delle donne quale bene pubblico e sociale, e non solo una questione privatistica. Lo Stato non si è proposto come soggetto attivo, fornitore di quei servizi in grado di garantire alle donne la possibilità di conciliare il lavoro e la vita famigliare. La legislazione si è inoltre sviluppata ignorando un’altra figura molto importante, quella del marito-padre, riproponendo un modello famigliare in cui la cura della prole era compito peculiare della madre. Con quest’impianto legislativo le donne hanno dovuto fare i conti fino alle rivoluzioni economico sociali degli anni ’60 e ’70 che hanno proposto una nuova immagine femminile avviando un irreversibile, anche se lento, mutamento del loro ruolo nel mercato del lavoro. La tutela del lavoro femminile uscirà così lentamente dalle mura del luogo di lavoro, per investire il più ampio campo delle relazioni fra individuo e Stato, fino ad arrivare ad un ottica più evoluta: la promozione2. Per parlare di una legislazione moderna è necessario aspettare le grandi riforme economico sociali degli anni ’70: oltre allo Statuto dei Lavoratori, che rimane a tutt’oggi il testo di legge più importante in materia di tutela dei lavoratori, una legge che ha sancito principi tuttora validi, è la legge n. 1204 del 30/12/71. La legge rafforza i principi fondamentali della tutela della madri lavoratrici: 2 Per promozione del lavoro femminile s’intende l’insieme di interventi volti ad aumentare la presenza delle donne nel mondo del lavoro, soprattutto in posizioni decisionali, nelle libere professioni, nell’imprenditoria 21 - mantenimento del posto durante la gravidanza e la maternità; - congedo obbligatorio due mesi prima e tre mesi dopo il parto e relativo indennizzo anche per le lavoratrici apprendiste, domestiche e a domicilio (prima escluse); - diritto d’astensione dal lavoro anche per i sei mesi successivi al congedo obbligatorio con la garanzia di conservazione del posto e un indennità del 30%. Quest’ultimo punto è sicuramente l’innovazione più importante perché è il riconoscimento dell’importanza di tutelare non solo il bisogno fisico di riposo in vicinanza e durante il parto, ma anche, più in generale, il rapporto fra madre e figlio nel periodo appena seguente la nascita. Un’altra legge importante, che marca un cambiamento di prospettiva nella tutela del lavoro di cura ma anche nei rapporti tra uomini e donne, è la n. 903 del 09/12/77 sulla “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, che sancisce l’assoluta uguaglianza tra uomini e donne nel lavoro punendo le discriminazioni di genere. In base a quanto disposto da questa legge, le lavoratrici hanno diritto alla stessa retribuzione dei colleghi uomini a parità di mansioni, all’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e alla progressione di carriera nella stessa misura e con le stesse modalità dei colleghi maschi. A tutela dell’incolumità delle donne è loro vietato il lavoro notturno fatta eccezione per alcune mansioni, o nel caso di diversa contrattazione collettiva. Lo stesso testo di legge prevede un altro importante diritto per le lavoratrici autonome: la possibilità di rappresentare l’impresa in cui esercitano la loro professione negli organi statutari delle cooperative, dei consorzi, e d’ogni altra forma associata. Affinché le tutele assicurate alle madri lavoratrici dipendenti siano garantite anche alle lavoratrici autonome e alle libere professioniste: rispettivamente il riferimento è alla legge 546 del 29/12/87 ed alla legge 379 del 11/12/90, che, oltre a fissare il diritto al congedo, determina anche gli indennizzi corrispondenti. Come in apertura evidenziato, il sistema solo recentemente si è occupato dei lavoratori autonomi, mantenendo comunque un’impronta fortemente “lavorista” al cui centro rimane il rapporto di lavoro stabile fra lavoratore e datore di lavoro. Ancor più recente è stata l’estensione del periodo di congedo facoltativo per maternità allungato a dieci mesi durante i primi tre anni di vita del figlio, ed un’applicazione più estesa degli assegni famigliari. La questione non è tanto e solo l’esistenza di leggi, ma la loro effettiva applicazione: il nostro paese vive ancora una grave situazione di deregolazione in cui, a fronte di una normativa fra le più vantaggiose in Europa, esiste una regolazione informale ancora fortemente a svantaggio 22 delle donne. La percezione reale di tutela che le donne hanno, soprattutto le lavoratrici “indipendenti”, è qualcosa di diverso di quanto possa apparire da un esame della legislazione. La normativa, anche qualora fosse pienamente applicata, non soddisfa a pieno i bisogni di tutela delle donne che, in prospettiva di un mercato del lavoro sempre più flessibile e precario, non godono di un posto stabile, ma sono impiegate come collaboratrici, consulenti, prestatrici d’opera occasionali, o semplicemente lavoratrici autonome, professioniste e imprenditrici. L’intervento legislativo in materia di lavoro non è percepito dalle donne come un sostegno nei loro quotidiani tentativi di conciliare il lavoro con le esigenze familiari. Un passo importante per rispondere alla avvertita necessità di un complesso sistema di riforme nelle politiche per la famiglia, nei servizi, affinché la tutela della maternità diventi la tutela più in generale della famiglia e dei rapporti tra genitori e tra genitori e figli, è stato fatto con la legge n. 53 dell’8 marzo 2000, “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura ed alla formazione, per il coordinamento dei tempi nelle città”. La legge, più nota come normativa sui congedi parentali, promuove un equilibrio tra i tempi di lavoro, di cura, di formazione e di relazione intervenendo in tre direzioni principali: - l’istituzione e l’estensione dei congedi, parentali e per la formazione continua, - il sostegno a forme di flessibilità di orario, - il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città e la promozione dell’uso del tempo per fini di solidarietà sociale. La legge costituisce l’attuazione della direttiva europea n. 96/34 e si presenta come momento complesso di passaggio dalla tutela della madre lavoratrice alla promozione del lavoro di cura sia materno che paterno. I più import anti cambiamenti introdotti sulla gestione dei periodi di assenza per maternità sono la possibilità di modificare la distribuzione temporale dell’astensione obbligatoria, spostando un mese di assenza da prima a dopo la nascita del figlio, e l’articolazione della quota di congedo parentale fino agli otto anni di vita dello stesso. La legge n. 53 del 2000 declina con precisione le regole dei congedi per i genitori (art.3) abrogando alcuni articoli della sopra citata legge n. 1204/71, dei congedi concessi per eventi e cause particolari (art.4) quali la documentata grave infermità del coniuge o del decesso dello stesso, o la presenza di malati gravi o portatori di handicap. Sempre in materia di congedi vengono fissati per i lavoratori con almeno cinque anni d’anzianità presso la stessa azienda, il diritto al 23 “congedo per la formazione”, finalizzato al completamento della scuola dell’obbligo, al conseguimento di un titolo di studio di secondo grado, di un diploma universitario o laurea, o ad iniziative formative diverse da quelle poste in essere o finanziate dal datore di lavoro (art.5). A completare il panorama dei congedi, l’art.6 stabilisce che i lavoratori occupati o non occupati hanno il diritto a proseguire lungo percorsi di formazione continua, cioè per tutto l’arco della vita, al fine di accrescere conoscenze e competenze professionali. Viene quindi affrontato il tema della flessibilità degli orari di lavoro mediante l’accesso a forme alternative di lavoro tra cui il part -time reversibile, il telelavoro, il lavoro a domicilio, gli orari flessibili d’entrata e d’uscita, la banca delle ore, la flessibilità sui turni, l’orario concentrato. La legge interviene prevedendo finanziamenti alle aziende che adottano tali strumenti, che prevedono programmi di formazione per il reinserimento dei lavoratori dopo il periodo di congedo, che realizzino progetti per la sostituzione del titolare d’impresa o del lavoratore autonomo, durante il periodo d’astensione obbligatoria o dei congedi parentali, con altro imprenditore o lavoratore autonomo. Si tenta soprattutto di favorire le imprese di piccole dimensioni. Nell’ultima parte della legge, vengono affrontati i tempi delle città. Al capo VII all’art.22 e seguenti, le regioni ed i comuni vengono indicati come enti deputati a prevedere programmi di coordinamento degli orari degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici e degli uffici periferici delle amministrazioni pubbliche per la promozione dell’uso del tempo per fini di solidarietà sociale. Il lavoro di concertazione tra comune, provincia e regione deve produrre la stesura di un piano territoriale degli orari. Per favorire lo scambio di servizi di vicinato, per facilitare l’utilizzo dei servizi delle città e il rapporto con le pubbliche amministrazioni, per favorire l’estensione della solidarietà nelle comunità locali e per incentivare le iniziative di singoli e di gruppi di cittadini, associazioni, organizzazioni ed enti locali è prevista la promozione e costituzione di associazioni denominate “banche dei tempi”. Il presupposto della legge è che il lavoro di cura si concilia con il lavoro professionale attraverso l’utilizzo dei congedi, la flessibilizzazione dell’orario di lavoro e il coordinamento dei tempi dei servizi presenti sul territorio. La legge n. 53/2000 è attualmente integrata a norma dell’art. 15 del “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”, emanato con decreto legislativo n. 151 del 26/03/01, con lo scopo di conferire organicità e sistematicità alle norme in materia di sostegno e tutela della maternità e della paternità. Nel testo unico sono infatti raccolte tutte le disposizioni vigenti, consentendo un’informazione diretta e senza rinvio a precedenti provvedimenti legislativi. 24 Inoltre, il testo unico riunifica tutte le tipologie di contratto e rapporto di lavoro, da quello dipendente al lavoro autonomo, delle libere professioni e delle collaborazioni coordinate e continuative, fino agli assegni di maternità per le casalinghe e le lavoratrici atipiche e discontinue. Sul fronte della promozione del lavoro e dell’avvio d’impresa, troviamo numerose leggi che contemplano agevolazioni ai neo imprenditori, uomini e donne o solo donne o solo giovani e così via, sia nazionali che regionali. Fra le più significative a livello nazionale che si rivolgono prioritariamente a donne, e che hanno dato origine a numerosi progetti, troviamo la legge n. 125 del 10/04/91, “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”. Le disposizioni contenute nella legge hanno l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione delle pari opportunità nel lavoro, e quindi di favorire la presenza femminile nel mondo del lavoro tramite azioni definite positive. Più precisamente le azioni positive devono eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, sostenendo le donne nella diversificazione delle scelte di carriera mediante orientamento scolastico e professionale, nell’accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale, nel determinare condizioni d’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali attraverso una divisione più equa degli impegni famigliari tra i due sessi. La principale modalità di realizzazione di tali azioni è l’erogazione di finanziamenti ai soggetti, privati o pubblici, che le mettono in atto, mediante realizzazione di progetti tangibili. La legge, inoltre, istituisce il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità (art.5) e ne definisce la composizione ed i compiti (art.6) di promozione, informazione, di approvazione dei progetti e di controllo. La legge estende i poteri dei Consiglieri di parità e li incarica di svolgere tutte le azioni utili affinché la legge stessa possa essere applicata a pieno (art.8). Numerose indagini conoscitive e interventi formativi sono stati finanziati da questa legge ma nell’impianto originario della legge n. 125/91 risultava carente la dotazione strumentale. Il legislatore è pertanto intervenuto e con il decreto legislativo n. 196 del 23/05/2000 ha parzialmente riformato la disciplina sulla parità delle opportunità potenziando nel contempo la rete delle consigliere e dei consiglieri di parità. Ma la legge di maggiore impatto, e anche la più nota, in materia di agevolazioni a favore dell’imprenditoria femminile è la n. 215 del 25/02/92, “Azioni positive per l’imprenditorialità femminile”, rivolta alle piccole imprese gestite prevalentemente da donne: ditte individuali, società di persone e società cooperative costituite in misura non inferiore 25 al 60% da donne, società di capitali ove il capitale sociale sia detenuto almeno i 2/3 da donne e i cui organi amministrativi siano costituiti per almeno i 2/3 da donne. Le agevolazioni previste da questa legge, che hanno natura di un contributo in conto capitale a fondo perduto, si applicano a tutto il territorio nazionale con percentuali di contributo diverse in funzione delle condizioni di sviluppo d’ogni area territoriale. I contributi vengono erogati a programmi di varia natura: avvio di nuove attività in alcuni settori (industriale, artigianale, agricolo, commerciale, turistico e dei servizi), acquisto di attività preesistenti nei medesimi settori, realizzazione di progetti aziendali innovativi, acquisizione di servizi reali. La legge, approvata con non poca fatica viste le resistenze di carattere politico-sociale, nel primo bando prevedeva finanziamenti per un ammontare relativamente contenuto che non consentì di far fronte alla miriade di richieste pervenute. I bandi successivi hanno registrato forti incrementi nelle risorse. Riguardo ai settori di attività, la domanda espressa per i finanziamenti della legge n. 215, ha segnalato una maggiore adeguatezza alle esigenze del manifatturiero, disattendendo in parte, i bisogni degli imprenditori del commercio e dei servizi. Sono state inoltre evidenziate difficoltà d’accesso allo strumento legislativo, derivanti dalla modalità e dal costo di presentazione della domanda nonché dalla richiesta di garanzie personali patrimoniali. Alcune risposte alle problematicità segnalate sono arrivate con il regolamento approvato il 14/07/2000, che ha in parte semplificato i procedimenti, allargato le tipologie di spese ammissibili, coinvolto le regioni nel cofinanziamento. Le criticità di queste leggi di promozione non sono certo esaurite, la scarsa disponibilità finanziaria rimane tra le più rilevanti, ma al di là di queste argomentazioni, non si può dire che tali strumenti legislativi siano stati in grado di rispondere ai bisogni specifici delle donne: la strumentazione in particolare dovrebbe offrire alle donne qualcosa di diverso piuttosto che qualcosa in più, cioè servizi che rispondano alle criticità di genere piuttosto che maggiori disponibilità finanziarie. Anche nelle leggi regionali, ritroviamo l’impegno verso le imprese, più in generale per la promozione e il sostegno delle attività imprenditoriali. Difficilmente tali normative si riferiscono esclusivamente al lavoro delle donne, più spesso occupandosi d’imprenditoria, sviluppo economico e famiglia, coinvolgono anche il lavoro femminile. L’unica legge distintamente in rosa è la n. 1 del 20/01/2000, “Interventi per la promozione di nuove imprese e di innovazione dell’imprenditoria femminile”. A beneficiare dei contributi previsti dal bilancio regionale sono in questo caso le imprese individuali a titolarità femminile e le società cooperative costituite per almeno 2/3 da donne e 26 con il capitale sociale per almeno il 51% di proprietà di donne, in entrambi i casi con sede operativa in Veneto e con permanenza obbligata per i 5 anni successivi alla concessione del contributo. Le iniziative ammesse all’erogazione del contributo sono l’avvio di nuove attività, l’adozione di processi o di prodotti innovativi, la qualificazione dell’impresa attraverso corsi si formazione. Non è consentito il cumulo con altri finanziamenti pubblici. Molte altre leggi regionali, singolarmente rivolte a specifici settori di intervento (artigianato, PMI, commercio, industria), possono poi essere utilizzate per sostenere iniziative imprenditoriali al femminile, sia che ne prevedano o meno questa specifica finalità. Per commentare sinteticamente il panorama legislativo fin qui delineato, va ricordato che le donne sono a tutt’oggi il soggetto più coinvolto nell’attività di cura familiare e pertanto su di esse gravano spesso le conseguenze della mancanza di sostegni pubblici alle famiglie, andando a incidere sul conseguimento della pari opportunità nell’occupazione. Lo sviluppo di politiche che consentano di conciliare le responsabilità familiari e quelle lavorative per le donne, come anche per gli uomini, comporta che sia disponibile una gamma di scelte possibili. La conciliazione del lavoro e della vita personale può essere assicurata mediante i sistemi di congedo, le migliorie nei servizi (trasporti, orari e spazi scolastici, ambiente urbano), gli interventi in materia fiscale. La richiesta rivolta al sistema è, non solo di eliminare le difficoltà per le donne di accedere ai posti di lavoro e rispecchiarne la pienezza delle capacità professionali, ma di rendere possibile e non penalizzante la flessibilità dei tempi di lavoro, nonché il passaggio tra diversi lavori e diversi regimi d’orario. I margini di autodeterminazione, delle donne come degli uomini, sulle diverse forme di flessibilità in relazione alle esigenze della vita personale devono essere incrementati. Alcuni provvedimenti, fra quelli analizzati, vanno nel senso auspicato: non solo verso la tutela del lavoro in quanto rapporto privatistico fra due soggetti, ma verso la tutela più estesa della famiglia mediante lo sviluppo di servizi ancora oggi insufficienti. Permane il dilemma tra tutela e parità malgrado le leggi sulle azioni positive mettano a fuoco il tema dell’uguaglianza sostanziale nella regolamentazione dei rapporti di lavoro tra uomini e donne. Di fatto rimangono la direzione e l’obiettivo fissati dall’Unione Europea: aumentare la partecipazione femminile al mercato del lavoro. 27 4. La partecipazione delle donne: potenzialità e problematiche E’ stato messo in evidenza già nel primo paragrafo come l’offerta di lavoro femminile si sia sviluppata quantitativamente. Tra le potenzialità che non trovano espressione rientra anche l’abbandono precoce del lavoro da parte di tutte quelle donne che, non trovando nella più lenta evoluzione qualitativa della domanda di lavoro, qualifiche e mansioni coerenti con il titolo di studio posseduto e con le proprie aspettative, percepiscono il loro status di occupate come insoddisfacente, preferendo dedicarsi completamente agli impegni familiari. L’inadeguatezza della domanda scoraggia anche le donne che vorrebbero reinserirsi nel mondo del lavoro al termine di un periodo di inattività, dovuto alla cura dei figli o alla ripresa di percorsi di studio, e spesso la rinuncia deriva anche dalle difficoltà della ricerca del lavoro. Sono situazioni di diversa natura ma che nell’insieme rappresentano una sottoutilizzazione delle risorse umane e creano disagio a livello sociale. In questo quadro bisogna considerare oltre alle donne occupate e disoccupate anche il vasto gruppo di donne che non dichiarano di far parte delle forze di lavoro ma che accetterebbero un lavoro adeguato alle loro aspettative. Di fatto la maggioranza delle donne si colloca nei due aggregati delle forze di lavoro potenziali, in cui sono più del doppio degli uomini, e fra gli inattivi disponibili a lavorare, in cui 2,7 volte il numero degli uomini. Agli inattivi, quindi soprattutto alle donne e tra queste alle casalinghe, il mercato del lavoro ricorre come ad una riserva per espandersi nei momenti di maggiore domanda. L’altra causa di bassa partecipazione femminile al lavoro, legata all’inadeguatezza qualitativa della domanda, è per le donne, che sempre più vorrebbero lavorare, l’incompatibi lità tra gli impegni di lavoro e i carichi familiari. Le condizioni imposte alla donna dalla gestione della famiglia sono ancora molto vincolanti, e una donna sposata con figli privilegia aspetti come l’orario del lavoro e la vicinanza del luogo di lavoro all’abitazione, elementi che condizionano completamente la ricerca di un lavoro e che spesso riducono le possibilità di vagliare offerte di lavoro più remunerative o più vantaggiose per la carriera. Riprendendo i dati dell’indagine sulle forze di lavoro, si rileva che le donne alla ricerca attiva di occupazione desiderano nel 36% dei casi lavorare nel comune di residenza e nel 38% con un orario part -time (per gli uomini la percentuale corrispondente è il 12,9%); molte donne con questi vincoli escono dalle forze di lavoro, a dimostrazione del fatto che un lavoro con orari particolari e flessibili e vicino a casa vale per le donne con queste esigenze più di benefici di tipo economico. Inoltre per le donne la precarietà è spesso la condizione che consente l’alternanza del lavoro di 28 cura e del lavoro per il mercato, una condizione che, permanendo nel tempo, in molti casi determina la fuoruscita definitiva dal lavoro retribuito. Alcuni dati a sostegno di quanto detto: per gli uomini non occupati il 72% degli abbandoni dell’ultimo posto di lavoro è avvenuto per pensionamento normale, per le donne solo nel 28% dei casi mentre nel 29% dei casi l’abbandono è determinato da motivi familiari e nel 17% per fine di un lavoro a tempo determinato. In quest’ultimo caso, così come in caso di licenziamento, gli uomini nel 50% dei casi si rimettono immediatamente alla ricerca attiva di un lavoro, contro solo un terzo delle donne mentre il 38% ricade nell’inattività e il 29% si colloca nell’aggregato dei disponibili a lavorare senza fare una ricerca attiva. La caduta del tasso di occupazione per le donne si ha dopo l’età del matrimonio e/o del primo figlio, ed è tanto più rilevante quanto più è basso il livello di scolarizzazione. Proprio l’innalzamento nel livello dei titoli di studio conseguiti dalle donne ha determinato la maggior partecipazione femminile al lavoro e dunque l’elevata scolarità comporta una maggior propensione e continuità lavorativa alle donne e una minor esposizione ai condizionamenti del ciclo familiare. L’armonizzazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro e i tempi dei servizi crea innegabili difficoltà e se la scelta di un lavoro autonomo, da un lato, ha saputo compensare le rigidità del lavoro dipendente (le imprenditrici e le lavoratrici autonome in generale riconoscono al loro tipo di lavoro una maggiore capacità di adattamento, per quanto faticoso, alle loro esigenze di molteplici presenze), dall’altro mostra di cedere posizioni a fronte dell’espansione delle nuove forme di flessibilità, interpretabili, talvolta, come altre forme di lavoro dipendente camuffato. Le indagini che trattano questo tipo di dati fanno inevitabilmente riferimento alla spinosa questione della segregazione settoriale3, intendendo con ciò la prevalente concentrazione di uomini o donne in settori produttivi diversi e differenziati. Oggi si parla di questo fenomeno anche intendendo la segregazione nelle mansioni e nelle professioni, tramite la tipizzazione dei mestieri e delle professioni in senso maschile o femminile; tale segregazione non è di per sé condannabile, ma lo diventa nel momento in cui le diversità di genere determinano una non equa distribuzione del potere e del reddito. Si rileva che le donne propendono più che gli uomini a mettersi in proprio nel medesimo settore in cui hanno maturato esperienze precedenti, perpetuando quella segregazione orizzontale altrettanto conosciuta nel lavoro dipendente. Sebbene le più recenti tendenze occupazionali mostrino come un certo processo di desegregazione sia in atto e anche irreve rsibile, la maggior parte degli studi è concorde nel sostenere che soprattutto le donne che ricoprono ruoli decisionali nelle 3 La ‘segregazione settoriale’ o ‘orizzontale’ si distingue dalla segregazione ‘verticale’ che indica “una distribuzione maschile e femminile disomogenea all’interno della gerarchia organizzativa” 29 imprese piccole e medie tendono a concentrarsi nei settori di tradizionale appannaggio femminile, appunto, come il commercio al minuto, i servizi alla persona o l’abbigliamento, che sono anche i settori che generalmente presentano le minori e più basse barriere all’entrata. Restando sul versante del fenomeno imprenditoriale femminile, si rileva una profonda sottovalutazione dello stesso malgrado su altri fronti sia considerato un fattore di profondo cambiamento sociale (la letteratura più recente, in realtà, concorda nel sostenere come tutto il lavoro extradomestico femminile sia fattore di cambiamento sociale). Le resistenze a cons iderare il fenomeno dell’autoimprenditoria femminile in tutta la sua portata provengono da più ambiti, economici ma più spesso culturali. Senza andare a toccare la questione della costruzione sociale della realtà, delle aspettative e dei ruoli di genere, bisogna tuttavia riferire i pregiudizi e gli stereotipi di genere che informano l’opinione pubblica e gli universi simbolici e culturali italiani secondo i quali il fondamento dell’essere donna consiste ancora nel diventare moglie e madre e tutto quanto una donna fa in più è marginale. Una delle credenze sociali scardinate dal fenomeno del lavoro professionale femminile consiste nell’assioma secondo cui il lavoro è fondamentale per la costruzione della propria identità per gli uomini, mentre per le donne è più importante il proprio destino di madri. Ormai si sottolinea come anche per le donne si sia consumato il passaggio dal lavoro come necessità al lavoro come identità ma che ciò che continua a differenziare uomini e donne, è piuttosto che gli uomini si lasciano assorbire completamente dall’interesse prevalente mentre la costruzione dell’identità femminile segue percorsi più complessi e tortuosi, in cui però ormai il lavoro extra domestico detiene un ruolo privilegiato. Ciò ci riporta ancora una volta al problema della conciliazione tra lavoro professionale e lavoro di cura, tema diventato culturalmente rilevante non tanto nel momento in cui le donne hanno cominciato a lavorare in ambito extra domestico (già nella civiltà contadina piuttosto che nella sostituzione in fabbrica degli uomini impegnati in guerra o alla necessità di un secondo reddito in famiglia), ma proprio nel momento in cui le donne iniziano ad appropriarsi della sfera professionale come di una componente fondante la propria identità, vale a di re all’incirca a partire dagli anni Settanta. Se poi aggiungiamo che il fatto di lavorare su più fronti comporta la volontà di lavorare bene su più fronti, a questa variabile qualità segue il rifiuto, da parte delle donne, della scelta o famiglia o lavoro; la professione non deve comportare una rinuncia alla famiglia e alla maternità che semplicemente cambia, divenendo sempre più una maternità fortemente desiderata e programmata. Se tutto ciò pone chiaramente e in modo nuovo la questione di servizi sul territorio all'altezza della situazione, dall'altro lato pone 30 altrettanto esplicitamente la questione della gestione di tempi diversi, spesso inconciliabili tra loro. Le indagini sulla doppia presenza delle donne lavoratrici hanno solitamente individuato una determinata categoria di lavoratrici, plausibilmente accomunate da una serie di problemi e caratteristiche. Ciò vale anche per la categoria delle imprenditrici che si presuppone gestirà in modo differenziato l’esperienza della maternità o le altre responsabilità di cura in base a diverse variabili, prime tra tutte le motivazioni al lavoro autonomo, il percorso biografico, l’orientamento prioritario ad un determinato tipo di ruolo femminile e i vincoli e le risorse di cui è dotata, variabili queste spesso esogene, come il numero e l’età dei figli, o la presenza di una rete amicale e parentale disponibile. Queste classificazioni spesso si intersecano con l’analisi del modo in cui le donne impersonano il proprio ruolo di responsabilità manageriale, e dunque si sposano con la fatidica domanda del perché uomini e donne fanno gli imprenditori in modo diverso. Così vengono individuate in particolare alcune tipologie di imprenditrici in base al nesso esistente tra percorsi di costruzione dell’identità femminile, personificazione dei ruoli di responsabilità e di cura e diversa organizzazione dei tempi. Le imprenditrici tradizionali, che scelgono il lavoro autonomo per arrotondare il reddito familiare generalmente basso e che si identificano primariamente con i ruoli femminili tradizionali; le imprenditrici casalinghe, che cercano nel lavoro autonomo una qualche forma di gratificazione personale extra-familiare; le innovatrici che invece approdano all’autoimprenditorialità per le scarse possibilità di carriera riscontrate nel lavoro dipendente e che quindi assegnano maggiore centralità al lavoro; e infine le imprenditrici radicali che nella scelta del lavoro autonomo vedono la possibilità di portare avanti istanze di emancipazione femminile. Non sono certo categorie statiche ma piuttosto modelli fluidi di comportamento tra cui i soggetti possono spostarsi più volte durante il proprio percorso biografico e imprenditoriale. In questa sede, una particolare attenzione va prestata, nell’ottica di individuare criticità e potenzialità, alle motivazioni che spingono le donne al lavoro autonomo, distinguibili in fattori positivi di attrazione, che sono generalmente quelli che fanno del lavoro indipendente un’opportunità economica, organizzativa, di possibile gratificazione e autorealizzazione, e fattori negativi, di costrizione, tra i più frequenti si ritrovano la difficoltà a trovare una buona occupazione dipendente, la questione della conciliazione, l’insoddisfazione per un lavoro dipendente, magari con scarse possibilità di carriera e un basso reddito familiare complessivo. A fronte di un mondo imprenditoriale femminile così complesso e variegato, sembra essere patrimonio comune l’idea che il mondo maschile presenti caratteristiche più univoche, sia rappresentato da un tradizionale 31 modello di imprenditore dominante, attento in primo luogo alla massimizzazione del profitto e alla conquista di nuovi mercati, formale, a capo di un’azienda organizzata gerarchicamente, basata sul controllo e su un sistema di incentivazioni quasi esclusivamente economiche. Quasi in contrapposizione a questo modello di imprenditore, numerose ricerche tenderebbero piuttosto a fare emergere un modo tutto femminile di fare impresa, basato a grandi linee su un approccio maggiormente evolutivo, vale a dire non solo strategico ma capace di vedere il successo anche in termini di crescita personale e professionale, su uno stile di leadership più attento alla qualità e ai risultati, che non alla velocità e alle procedure, e su uno stile direttivo a rete che assegna un ruolo dominante alle relazioni e all’integrazione tra dimensione lavorativa e personale. Tuttavia, proprio gli studi sull’identità e la molteplicità femminile hanno dato inizio alla parallela erosione, per quanto lenta e spesso contraddittoria, dei modelli tradizionali maschili. Emerge chiaramente il fatto che, se per uomini e donne le responsabilità connesse alla gestione di un’azienda possono essere simili in termini di dedizione al lavoro elevata, sia come tempi che come carico emotivo, per le donne esiste l’aggravante della doppia presenza, nel senso che, dalle presunte caratteristiche femminili del modo di fare impresa emerge chiaramente come le donne siano sempre intente a contaminare la sfera produttiva con quella riproduttiva e viceversa, nell’impossibilità di operare cesure troppo nette. Se a questo si aggiunge che la doppia presenza, per le donne italiane in modo particolare, è accompagnata da infiniti sensi di colpa, in quanto il presupposto culturale per cui l’autorealizzazione femminile si situa nella famiglia appartiene, e in modo molto profondo, anche alle donne stesse, si comprende la necessità per le donne di trovare un trait d’union, una qualche continuità tra le due dimensioni generalmente considerate antagoniste. Questa introduzione della dimensione di cura nella dimensione lavorativa, spesso interpretata come fattore di debolezza delle imprese femminili, diventerebbe, date tali premesse, un decisivo fattore di cambiamento sociale, che farebbe delle donne impegnate in ruoli decisionali non tanto delle aspiranti, più o meno brave e più o meno esplicite, a ruoli maschili, quanto piuttosto delle esploratrici e delle mediatrici. Concludendo sugli aspetti del fenomeno imprenditoriale femminile, non si può ignorare il dato della scarsa propensione al lavoro indipendente e imprenditoriale da parte delle donne occupate, che lavorano prevalentemente come dipendenti, che ancor di più genera una sottovalutazione complessiva del fenomeno. Quale che sia la tipologia, il lavoro professionale come elemento fondante la propria identità porta, in un contesto familiare che non muta, ad una quota di tempo di lavoro delle donne di gran lunga superiore a 32 quello degli uomini. Il tempo che le donne dedicano al lavoro retribuito è infatti maggiore di quello che gli uomini dedicano al lavoro di cura domestico. Ogni ambito di azione, professionale o familiare, risulta prioritario per le donne lavoratrici generando una eccessiva frammentazione dei tempi quotidiani a cui le donne reagiscono, da un lato, mettendo in atto una serie di aggiustamenti e molteplici strategie, dall’altro, accumulando una quantità notevole di stress. La questione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro si pone pertanto come centrale per l’entrata nel mondo del lavoro delle donne, ancor di più in posizioni di responsabilità. La matrice del problema è la mancata valorizzazione e redistribuzione del lavoro di cura, non remunerato, che le donne svolgono nella quotidianità, la mancata condivisione del lavoro domestico da parte degli uomini. Le misure di supporto e le politiche sociali possono facilitare ma non determinare una completa soluzione del problema che risiede nella divisione sessuata del lavoro non remunerato; divisione che non ha registrato modifiche significative al nuovo assetto del mercato del lavoro, le vecchie disuguaglianze hanno trovato una espressione nel nuovo ordine che solo una valorizzazione culturale ancor più che economica del lavoro di cura può rompere. La questione su cui in fondo si centra la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è la conciliazione ma il problema della conciliazione non è un problema delle donne, appartiene alle organizzazioni stesse, pertanto un ripensamento degli strumenti di organizzazione, gestione e sviluppo del lavoro professionale risulta fondamentale quanto la redistribuzione del lavoro domestico e la valorizzazione del lavoro non remunerato delle donne. Nella combinazione dei cambiamenti in entrambe le sfere, privata e lavorativa, risiede la conciliazione dei tempi che può davvero condurre ad una trasformazione del mercato del lavoro. 33 BIBLIOGRAFIA Bombelli, Maria C. (a cura di) - “Soffitto di vetro e dintorni. Il management al femminile” Etas Libri - 2000 Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura Venezia, IV Dipartimento Ufficio Statistica e Studi – “L’imprenditoria femminile” – Speciale del Bollettino di Statistica n. 1/2002 Campione M. – Penzo Giovanni (a cura di) – “Le imprenditrici venete. Misura e problematiche di sviluppo del nord-est” – Franco Angeli – 1998 Cinque C. - “Una donna per tre. Come conciliare famiglia, casa e lavoro” – Franco Angeli 2002 Cnel, Gruppo di lavoro permanente donne e sviluppo - “Donne, lavoro, impresa: i modelli emergenti” - 1998 Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna – “Relazione al Presidente del Consiglio dei Ministri sull’attività svolta (1997 – 2000)” - Agosto 2000 Commissione Regionale per la realizzazione delle pari opportunità fra uomo e donna – “Come cambia l’offerta e la domanda di lavoro femminile nel Veneto” - Veneto Lavoro – Gennaio 2000 De Angelini A. – Positello L. - “La partecipazione delle donne al lavoro nel Veneto” - Veneto Lavoro, I Tartufi n. 3 – Gennaio 2001 Ente Bilaterale dell’Artigianato Veneto – “Donne, lavoro e maternità nell’impresa artigiana veneta” – Nuova Dimensione – 2003 Ente Bilaterale dell’Artigianato Veneto – “Alcune note sulla femminilizzazione del comparto artigiano e del mercato del lavoro in Veneto” – Quaderni statistici n. 1/2003 Istud - “Donne esploratrici. Percorsi nell’imprenditoria femminile” - Guerini - 2000 Istud - “Oltre la parità. Lo sviluppo delle donne nelle imprese: approcci ed esperienze” Guerini - 2000 Veneto Lavoro (a cura di) - “Il mercato del lavoro nel Veneto. Tendenze e polit iche. Rapporto 2001” – Franco Angeli 34 PARTE SECONDA I Risultati dell’Indagine 35 1. Le caratteristiche delle imprenditrici intervistate e delle loro imprese I profili delle venti donne intervistate si differenziano sotto molteplici aspetti, età, livello di scolarità, tipo di situazione personale o di famiglia. Tutte variabili che possono avere un’influenza sulla preparazione imprenditoriale e sul modo di intendere l’impresa. Nel considerare il dato anagrafico, sono state prese in considerazione quattro fasce d’età, tre delle quali riguardano solo 2 o 3 intervistate per ciascuna fascia, mentre la maggioranza delle donne che hanno preso parte all’indagine ha un’età compresa tra i 31 e i 40 anni. Grafico 1 Età delle intervistate 2 2 3 fino a 30 anni da 31 a 40 anni da 41 a 60 anni oltre i 60 anni 13 (I valori si intendono espressi in termini assoluti) Il livello di scolarizzazione vede prevalere il diploma di scuola media superiore, posseduto da quasi la metà delle intervistate, seguito dal titolo della scuola dell’obbligo (che va letto come scuola media inferiore ma anche come licenza elementare nel caso delle più anziane). Più rari sono il possesso di una qualifica professionale e di un diploma di laurea. In alcuni casi, proprio la scelta imprenditoriale in giovane età ha rappresentato un arresto alla prosecuzione degli studi. 36 Grafico 2 Titolo di studio delle intervistate 3 5 Obbligo Qualifica 3 9 Diploma Laurea (I valori si intendono espressi in termini assoluti) Se da un lato la prevalenza di titoli di studio medio-alti si inserisce perfettamente in un contesto generale di aumento dei livelli di scolarizzazione femminile, dall’altro l’incrocio tra livello di scolarità e tipologia aziendale conferma un altro fenomeno già noto, una preparazione scolastica medio-bassa delle donne che operano nel settore artigiano e nel commercio a fronte di una preparazione alta o medio-alta delle donne che dirigono attività svolte in forma cooperativa. Ma oltrepassando l’esame della relazione tra attività svolta e istruzione che ragionevolmente viene condotto in sede di indagine, va sottolineato che in rari casi le intervistate hanno identificato il grado di istruzione come risorsa con la quale affrontare il percorso imprenditoriale. E’ soprattutto nell’esperienza lavorativa maturata precedentemente all’avvio di impresa che viene ravvisato il bagaglio necessario con cui realizzare il progetto imprenditoriale. In alcuni casi si registra l’intenzione, per le diplomate, di proseguire gli studi, riprendendo un percorso prematuramente abbandonato o programmando una scelta universitaria. Quest’idea si scontra però nettamente con la consapevolezza che la scelta professionale intrapresa, comportando un grande investimento di tempo ed energie, non lascia spazio allo studio. 37 Grafico 3 Situazione personale delle intervistate 2 5 Single Convivente Sposata 2 Separata/divorziata 11 (I valori si intendono espressi in termini assoluti) La situazione personale più diffusa è quella di coniugata con figli, ma nell’altra parte, quasi la metà, delle intervistate troviamo una sezione costituita da single (alcune che vivono ancora nella famiglia di origine, altre da sole), conviventi e separate. Grafico 4 Situazione personale: presenza di figli 9 Con figli 11 Senza figli (I valori si intendono espressi in termini assoluti) Come vedremo successivamente la variabile figli è sempre presa in considerazione da tutte le intervistate, a prescindere dalla loro effettiva presenza, come fattore determinante nelle modalità di gestione dell’impresa. Infatti, tutte percepiscono il problema della doppia presenza 38 delle donne sul mercato del lavoro e sul versante del lavoro di cura e, come verrà descritto successivamente, affrontano consapevolmente le loro scelte professionali e personali in relazione alle criticità che il fenomeno determina. A questi fattori va raffrontato anche il contesto di origine delle donne intervistate, ovvero la motivazione che ha condotto ad intraprendere. E’ infatti la differenziazione dei percorsi, oltre che delle caratteristiche personali, che consente di individuare una diversità di bisogni all’interno di uno stesso universo femminile cui dare attenzione con eventuali supporti e servizi di sostegno all’imprenditorialità femminile. 1.1 Le attività svolte: settore e ruoli Le imprenditrici intervistate operano nella quasi totalità in settori tradizionalmente femminili e così si esprimono sull’argomento: “Essere donna nel nostro ambiente è normale” “Per tradizione è un settore femminile” “Il nostro settore è prettamente femminile” “E’ un lavoro, diciamo tipico, per una donna” “E’ un settore in cui predominano le donne” Le aziende si inseriscono infatti prevalentemente nel settore dei servizi alla persona e alle imprese, nel commercio al minuto e nel turismo. Grafico 5 Suddivisione per settori 1 2 4 Produzione Servizi alla persona 7 3 Servizi alle imprese Commercio 3 Turismo Servizi per l'ambiente (I valori si intendono espressi in termini assoluti) Il dato conferma il fenomeno della segregazione settoriale, intesa come prevalente concentrazione di uomini o donne in settori produttivi diversi e differenziati, che consente anche una interpretazione che va al di 39 là del settore ma abbraccia le attività, le mansioni e le professioni, tipizzate in senso maschile o femminile. La maggior parte degli studi effettuati sul sistema delle PMI concorda nell’evidenziare che le donne che creano impresa tendono a concentrarsi nei settori di tradizionale appannaggio femminile, anche perpetuando la segregazione orizzontale conosciuta nel lavoro dipendente ovvero mettendosi in proprio nello stesso settore in cui hanno maturato esperienze di lavoro dipendente, più di quanto non facciano gli uomini. Il ruolo che le intervistate ricoprono in azienda va considerato al di là delle etichette. Infatti, la maggior parte si definisce titolare, in alcuni casi ricopre il ruolo di direttrice o presidente o amministratrice, in altri solo socia. Di fatto, si tratta di un ruolo di responsabilità a tutto campo e di un’operatività presente su molti ambiti di lavoro che difficilmente possono essere inquadrati in una sola definizione. Quasi tutte le imprenditrici seguono direttamente la produzione dei beni o servizi, l’area commerciale, l’amministrazione e la gestione delle risorse umane, nelle modalità che la dimensione aziendale consente. 1.2 La posizione delle imprese: localizzazione, anzianità, forma giuridica e dimensione Le aziende delle donne intervistate sono tutte localizzate nella provincia di Venezia, come previsto nel progetto. Sede azienda N. Caorle 1 Chioggia 6 Dolo 1 Marcon 1 Marghera 1 Mestre 1 Mirano 2 Noale 1 Mira - Oriago 1 Portogruaro 2 Scorzè 1 Spinea 2 Totale aziende 20 40 La maggior parte delle aziende (15 su 20) è presente sul mercato da almeno cinque anni, una è stata appena avviata e quattro sono in attività da un periodo che va tra i due e i quattro anni. Possiamo pertanto affermare chi si tratta per lo più di imprese che hanno già superato la prima barriera per la permanenza sul mercato, in molti casi la loro anzianità è sinonimo di successo. Grafico 6 Anzianità aziendale 4 9 da 1 a 3 anni da 4 a 7 anni da 7 a 10 anni più di 10 anni 3 4 (I valori si intendono espressi in termini assoluti) Quanto alla forma giuridica, le imprese si distribuiscono equamente tra ditte individuali, società di persone e società cooperative, seguite anche da società di capitali mentre solo in un solo caso si ritrova la formula di associazione onlus. Grafico 7 Forma giuridica delle aziende 1 4 5 Ditta individuale Società di persone Cooperativa Società di capitali 5 5 Onlus (I valori si intendono espressi in termini assoluti) 41 Grafico 8 Dimensione aziendale per numero addetti 2 7 5 da 1 a 5 da 6 a 10 da 11 a 49 oltre 50 6 (I valori si intendono espressi in termini assoluti) La forma giuridica risulta legata sia alla modalità di creazione dell’impresa che al numero degli addetti. Le ditte individuali, ad esempio, corrispondono ad un’unica proprietaria che ha generato da sola l’azienda e con un numero ristrettissimo di addetti la porta avanti. Nel caso delle società di capitale si è partiti in più soci e relativamente più alto è il numero degli addetti. In 13 casi sui 20 considerati il numero delle persone occupate in azienda non supera i dieci addetti e tra questi si ritrova una presenza prevalentemente femminile e, in ben 7 imprese la totalità degli addetti è donna. Poche aziende hanno investito negli ultimi anni nell’ampliamento del personale assecondando una generale crescita delle attività, molte invece le imprese che non sono riuscite a causa delle scarse risorse economiche ad aumentare il numero di addetti, individuando in questa modalità un punto di debolezza aziendale. In alcuni casi alle difficoltà economiche si aggiungono problemi di reperimento di personale adeguato, per qualificazione e per motivazione. 1.3 Il mercato: clienti, andamento del fatturato e concorrenza Il posizionamento delle aziende delle imprenditrici intervistate è al 50% sul mercato locale e per il restante 50% lo sbocco è prevalentemente regionale, in un paio di casi nazionale. Il giro d’affari riflette pienamente questa collocazione, poco meno della metà delle aziende supera infatti i 150 mila euro di fatturato annuo. 42 Grafico 9 Giro d'affari 4 5 fino a 50 mila euro fino a 150 mila euro fino a 300 mila euro oltre i 300 mila euro 5 6 (I valori si intendono espressi in termini assoluti) E’ il 25% delle intervistate ad affermare di non avere problemi di concorrenza. Tutte le altre ravvisano la presenza di imprese concorrenti, sia sul mercato locale che all’esterno di questo, ma sembrano valutare (o sottovalutare?) il fenomeno senza eccessiva (o con scarsa?) preoccupazione. Non tutte infatti hanno individuato o ricercano una soluzione al problema; coloro che lo hanno fatto puntano allo sviluppo di nuova progettualità e all’implementazione dei punti di forza dell’impresa, in primo luogo incremento della qualità della professionalità volto alla fidelizzazione della clientela. 43 2. L’avvio di impresa e le prospettive di sviluppo Gli studi e le ricerche condotte in questi ultimi anni sull’imprenditorialità femminile documentano che la propensione al lavoro autonomo e imprenditoriale richiede sempre più una formazione medio-elevata e una precedente esperienza di lavoro alle dipendenze, soprattutto nel settore terziario in cui contano meno la tradizione familiare e il patrimonio finanziario di partenza. L’altro elemento emergente è che le imprenditrici provengono di norma da situazioni di relativo privilegio, determinato dalla presenza di una famiglia di origine in grado di fornire risorse di ordine relazionale, professionale, culturale ed economico spendibili. In assenza di queste condizioni, infatti, il passaggio dal lavoro dipendente alla realtà imprenditoriale diventa molto difficile. Nel gruppo intervistato nell’indagine di cui in questa sede si riferisce, 15 donne hanno vissuto la prima esperienza imprenditoriale nell’azienda in cui attualmente operano, 2 hanno avuto una precedente esperienza nello stesso settore e 3 hanno avuto ruoli imprenditoriali in aziende di famiglia. Le motivazioni che le hanno condotte alla scelta imprenditoriale sono riassumibili in: 1. una tradizione familiare di imprenditoria; la famiglia trasmette infatti la preparazione ad assumersi rischi e responsabilità, in alcuni casi poi si passa proprio attraverso l’inserimento nell’impresa di famiglia e/o la successione nella titolarità della stessa; “C’è stato un passaggio, la nostra è un‘azienda familiare, la più grande delle sorelle ha avuto due bambine ed è parzialmente uscita di scena e sono subentrata io che sono la seconda.” 2. la passione, ovvero la scelta professionale legata al piacere per l’esecuzione del proprio lavoro; sono 9 le donne intervistate che hanno dichiarato di aver creato la propria azienda mosse da una passione da realizzare e in questo segmento di imprenditrici troviamo le artigiane: “Sono nata con l’idea di fare la parrucchiera. È stata una passione quasi innata” “Per me essere imprenditrice è una cosa naturale. Ho intrapreso questa attività proprio per passione. Magari a volte avrò lasciato da parte la vita familiare, perché è inevitabile però non ho mai avuto dei grandi rimpianti ” 3. la curiosità o l’opportunità di migliorare la propria condizione professionale, per qualche motivo ritenuta insoddisfacente, per la precarietà del lavoro o per mancanza di flessibilità, per la difficoltà di occuparsi o per la perdita del lavoro dipendente: “La spinta motivazionale è stata la curiosità” 44 “La voglia di fare in prima persona, di rispondere a me, ovviamente bene e male che sia, il gusto a cimentarmi in cose nuove che non conosco. Il gusto di misurarmi e la voglia di fare al di là di un tempo stabilito, di un orario” “Abbiamo pensato, sbagliando, di creare un’azienda che potesse permetterci di lavorare e gestire una famiglia e invece poi la cosa ci ha assorbito ed è diventato più faticoso. Non è stato dunque un sogno imprenditoriale, è stato più un crearsi un lavoro, è stata una, chiamiamola soluzione ad una esigenza primaria cioè quella di lavorare” 4. la maturità professionale, ovvero il grande salto tra lavoro dipendente e lavoro in proprio nel settore in cui si è maturata esperienza lavorativa, seppur non sempre indolore: “Se ci ripenso adesso dico che sono stata proprio incosciente. Non farei la stessa cosa alla stessa maniera.” La riflessione sul percorso di preparazione al ruolo di imprenditrice mette in luce come la metà delle imprenditrici incontrate indica gli anni di esperienza lavorativa pregressa come principale risorsa su cui ha basato l’avvio dell’impresa. Molte indicano negli errori commessi una significativa componente di apprendimento: “Abbiamo fatto tanta fatica e abbiamo fatto tanti errori” “Mi sono messa in discussione, ho fatto molti sbagli ed ho imparato da quelli” Se è vero che la scelta imprenditoriale rappresenta uno sbocco occupazionale legato alle esperienze lavorative dirette più che a percorsi di studio teorici, è altrettanto vero che la maggior parte delle intervistate ritiene importante la formazione. In alcuni casi la formazione è ritenuta la fase preparatoria all’attività imprenditoriale, in molti altri si è comunque favorevoli alla formazione continua, sia diretta all’acquisizione di competenze che possono migliorare la qualità del lavoro in azienda e come tale è spesso rivolta o riservata al personale, sia diretta all’approfondimento di tematiche gestionali volte a migliorare il ruolo imprenditoriale. In ogni caso, va sottolineato che l’aspetto formativo compare spesso successivamente al momento di costituzione dell’impresa, quindi come fabbisogno più strettamente collegato ai ruoli e alle funzioni già ricoperti. Bisogna inoltre sottolineare che il ruolo di spicco rivestito dalla famiglia va ben oltre la sopra citata influenza delle tradizioni sulle scelte imprenditoriali. Infatti essa rappresenta uno dei principali dispensatori di consigli e aiuti nella fase di avvio dell’azienda e, come si vedrà più avanti, anche il sostegno più importante nella gestione dell’attività imprenditoriale e del lavoro di cura della famiglia. Un esame della durata del periodo trascorso dalla nascita dell’idea o progetto imprenditoriale al reale avvio dell’impresa per le intervistate, 45 segna ancora una volta l’importanza della famiglia. Infatti, è solo per le imprenditrici “per tradizione” e per le altre che hanno comunque potuto contare su un consistente aiuto da parte della propria famiglia che l’arco temporale considerato non supera i sei mesi. Per tutte le altre si può parlare di un periodo decisamente superiore che si estende prevalentemente a un anno e in alcuni casi arriva a un anno e mezzo o due. La famiglia gioca un ruolo anche nel reperimento del capitale necessario all’avvio e comunque nel campione prevale la prassi dell’autofinanziamento. Solo in 4 casi si è percorsa la strada delle agevolazioni finanziarie derivanti da leggi regionali o nazionali volte a favorire l’imprenditorialità, specificatamente femminile o giovanile. Il reperimento del capitale che ha finanziato l’impresa è comunque spesso citato al primo posto tra le difficoltà incontrate in fase di start up. In alcuni casi, l’aver iniziato l’attività con risorse economiche minime ha condizionato fortemente le scelte di base e non sempre lo sviluppo successivo delle attività è riuscito a colmare questa difficoltà iniziale. Gli altri intoppi fronteggiati in fase di avvio di impresa riguardano la mancanza di esperienza specifica e di preparazione al ruolo di imprenditrice, il reperimento di personale preparato, l’impatto con la burocrazia e i complessi aspetti amministrativi e gestionali. Passando all’analisi delle prospettive di sviluppo delle aziende delle donne intervistate, le loro valutazioni rispetto alla situazione aziendale attuale si possono riassumere nelle tre fasi basilari di sviluppo, stallo e difficoltà. E’ il 50% delle aziende ad avere un’immagine positiva del proprio posizionamento sul mercato; molte di queste aziende affrontano costantemente investimenti, costituiti da aggiornamento degli strumenti di lavoro (attrezzature, macchinari, mobilio, etc), ampliamento del personale, azioni di marketing, formazione interna e reindirizzamento delle attività. Le imprese che conoscono una fase di stallo sono 6, stasi in molti casi imputata al momento di congiuntura sfavorevole, in altri determinata dalla mancanza, voluta o subita, di investimenti nell’ultimo periodo. Infine, 2 le imprese in difficoltà a causa di un calo della domanda, un’impresa si trova ancora nella fase di avvio e una in fase di stallo rispetto al fatturato ma in sviluppo rispetto alle attività svolte nel settore di appartenenza anch’esso in crescita. Il dato trasversale ai diversi stadi di sviluppo è comunque una realtà fatta di progetti futuri e possibili strade e soluzioni percorribili pur in presenza di poche risorse economiche da destinare all’investimento: “Personalmente mi piacerebbe fare tantissime innovazioni però …” 46 “Volevamo fare tante cose … ma un po’ perché abbiamo i bambini, un marito, una casa da gestire, in più economicamente c’è la difficoltà di investire ancora”. La fiducia in una evoluzione positiva e in un cammino dinamico è ben presente nel nostro campione, seppur la percezione della responsabilità e della fatica affrontata sia per l’avvio che per l’attestazione sul mercato della propria azienda è spesso ben marcata: “Se dovessi ripartire forse non lo farei più”. 47 3. I fattori di successo, le criticità e il rilievo delle differenze di genere I fattori di successo rilevati dalle dichiarazioni delle imprenditrici possono essere sintetizzati in alcuni punti di forza: Ø la qualità del servizio offerto “Il nostro punto di forza è l’offerta di un servizio di qualità, che mira soprattutto ad uno sviluppo equilibrato dei bambini, che rispetta le loro esigenze ed i loro ritmi. Il bambino nel nostro centro viene guardato a 360 gradi, non è solamente tenerlo ed accudirlo; il genitore sa che qui non offriamo solo babysitting ma anche e soprattutto una scelta educativa” Ø la professionalità degli operatori, strettamente legata alla qualità “Ormai abbiamo acquisito un’ottima professionalità nel settore” “Secondo me il punto di forza è la capacità delle persone che lavorano; nel nostro settore professionalità significa anche qualità” Ø la disponibilità/flessibilità dell’azienda e degli operatori, ancora una volta legata alla qualità del servizio “Disponibilità e qualità del servizio sono i nostri punti di forza” “La disponibilità totale nell’offrire un servizio completo e di qualità” Ø la motivazione/l’entusiasmo degli operatori “L’entusiasmo dei soci che sono instancabili; siamo l’unica realtà che si è generata nel nostro territorio senza altri supporti, siamo nati e abbiamo creato questo mercato locale con la fiducia pian piano conquistata degli operatori dei Comuni. Questo ha determinato il successo dell’impresa. Sicuramente, siamo molto critici con noi stessi.” “Mi piace quello che faccio, non mi sono ancora stancata” Ø la figura dell’imprenditrice “Io sono il punto di forza della mia azienda”. Queste aziende si caratterizzano quindi per un orientamento al cliente ed un’attenzione alla soddisfazione dei clienti che però travalica l’immagine dell’efficienza aziendale in quest’ambito, legata a strategie di marketing o all’utilizzo di strumenti pianificati di rilevazione della customer satisfaction, visione più appropriata alla classe dimensionale medio-grande delle aziende, ciò senza nulla perdere in termini di garanzia di qualità e obiettivi di fidelizzazione della clientela. Altri elementi che giocano un ruolo positivo sull’andamento aziendale sono riferibili, da un lato a fattori interni quali la coesione e il confronto tra gli operatori, dall’altro a fattori esterni quali il sostegno da parte della famiglia e la formazione continua. Il dato rilevante rimane comunque l’assenza di incertezza in tutte le intervistate che hanno dimostrato di avere una conoscenza nitida tanto 48 degli elementi di forza quanto degli elementi di criticità delle proprie attività aziendali. I punti di debolezza rilevati possono essere ricompresi in alcune categorie: v difficoltà strutturali: il tipo di struttura dell’azienda, gli spazi disponibili, gli elevati costi fissi v difficoltà attinenti alle risorse individuali: eccessiva prudenza, difficoltà a gestire il lavoro di gruppo e a trasmettere il necessario entusiasmo v difficoltà economiche: esigue risorse finanziarie da destinare al miglioramento delle prestazioni aziendali, mancato riconoscimento economico del lavoro imprenditoriale v difficoltà derivanti da stimoli esterni: esigenze sempre maggiori della clientela, concorrenza. L’analisi dei punti di forza e di debolezza fin qui evidenziati può risultare poco completo ad uno sguardo esperto di organizzazione aziendale. Il fatto che altri aspetti, legati ad esempio alla valutazione dell’importanza delle nuove tecnologie o dell’innovazione del prodotto/servizio, alla valorizzazione delle competenze interne e alla promozione sul mercato, siano poco o per nulla presenti nei racconti delle imprenditrici a fronte invece della rilevanza delle difficoltà legate ai problemi di costi e all’accesso ai finanziamento, ci dice molto sulle priorità delle imprese di piccole dimensioni. Non va poi dimenticato il “notevole impegno” profuso dalle imprenditrici. Pur citandoli poco tra i fattori di criticità, la maggioranza delle intervistate ha dichiarato tempi di lavoro molto elevati. Solo 3 su 20 affermano di dedicare all’azienda fino ad un massimo di otto ore giornaliere, le altre lavorano più ore e sono numerose le testimonianze che non esprimono il vero numero di ore lavorate ma si soffermano a considerarle “tante”. Come giocano pertanto queste tante ore di lavoro sull’equilibrio desiderato tra il tempo dedicato all’attività aziendale e quello dedicato alla vita privata e alla famiglia? L’indagine ha cercato di cogliere in particolare la problematicità derivante dalla conciliazione dei tempi di lavoro e di cura delle imprenditrici, nei modi in cui viene percepita dalle dirette interessate. La caratterizzazione di genere induce a mettere in primo piano i problemi legati alla doppia presenza e alla difficile conciliazione tra lavoro e attività di cura della famiglia. La questione della flessibilità viene così da una parte maggiormente enfatizzata e dall’altra emerge come problema quando manca, soprattutto in riferimento a opportunità di lavoro flessibili rispetto agli orari di lavoro. 49 Il tema del doppio ruolo è un argomento ricorrente, espresso quasi sempre come denuncia verso una società penalizzante nei confronti delle mamme e pronta a svalutare la professionalità delle donne in generale, come richiesta di modalità di organizzazione del lavoro che lo liberino dalla presunta incompatibilità con i doveri familiari, come speranza che vengano elaborate delle politiche più attente ai bisogni delle lavoratrici madri. Il fatto che l’economia della famiglia rappresenti un nodo cruciale è ribadito proprio dalle sottolineature delle intervistate con famiglia del loro ruolo prioritario all’interno di essa. Ma come si inquadra la famiglia nel percorso di vita professionale di un’imprenditrice? In alcuni casi la scelta professionale ha escluso o limitato lo sviluppo di una famiglia: “Il fatto di essere donna ha influito nelle scelte di vita decisamente. Devi eliminare tutto il resto dalla tua vita, cioè una famiglia non ci sta, i figli neanche te li sogni. O fai una cosa o fai l’altra” in altri è venuta successivamente alla costruzione di una famiglia o contemporaneamente: “Io ero già sposata quando ho cominciato. Dedico molto tempo all’azienda, moltissimo, tanto che mi viene anche rinfacciato, però è una cosa che comunque mi dà soddisfazione perché pur richiedendo molta fatica è una cosa che abbiamo costruito noi. Se avessi dei figli dedicherei sicuramente meno tempo all’azienda ” “A qualcosa devi rinunciare sempre perché non puoi far tutto, devi saperti organizzare e a qualcosa devi dire di no. Quel giorno e mezzo alla settimana che hai libero dal lavoro dovresti fare cinquemila cose ma è logico che avendo anche dei figli e una famiglia, una parte la devi dare a loro e una parte te la tieni per te, quindi cerchi di organizzare il tempo per quello che è” e infine, in questo campione sono ancora tanti i casi di chi ancora giovane sta investendo tutte le sue risorse nell’impresa e si domanda con preoccupazione cosa succederà quando arriverà il momento di costituire una famiglia: “Quello che mi spaventa è che questa attività adesso mi occupa tantissimo tempo, oltre dodici ore, non so poi in futuro, avendo intenzione comunque di crearmi una famiglia, diventerà molto impegnativo gestire il tutto. In questo senso sicuramente influirà essere donna, forse l’unico svantaggio è questo anche se credo che oggi un uomo non sia comunque esonerato dall’impegno familiare ma penso che una donna lo senta di più ” “Come donna se vuoi una famiglia devi poi un po’ lasciare l’attività perché con dei figli fai un po’ fatica”. In un caso la discontinuità, spesso caratterizzante i percorsi di carriera al femminile, è palese: “Ho smesso di lavorare per un periodo perché mi sono sposata. Ho avuto un bambino, il primo, poi volevo un altro figlio e sono arrivati due gemelli e così ho 50 smesso per 10 anni per fare la mamma a tempo pieno e poi ho ripreso l’attività a 40 anni. A quei tempi non c’erano asili nido, non c’erano scuole materne, così ho deciso di dedicarmi alla famiglia anche perché mio marito lavorava tanto e ci si vedeva talmente poco che abbiamo deciso che uno dei due si fermasse… a malincuore ho smesso, però come vede poi sono anche ritornata.” Per tutte è evidente, sia pure con accentuazioni diverse, il nodo della conciliazione lavoro-famiglia: “Io credo che per una donna sia un po’ più difficile perché ha una famiglia, i figli da seguire e a volte non può andare a un corso perché ha i bambini piccoli da gestire. L’uomo invece è al lavoro, fa i suoi corsi e va a casa trovando tutto pronto, questa è la realtà. Alla donna manca la possibilità di avere uno spazio più libero insomma, magari anche delle strutture dove mettere in tranquillità i bambini. Per l’uomo è diverso, è più libero. Se tu hai un bambino e lavori dieci ore al giorno vai a casa e non ti chiama più mamma… chiama mamma la nonna…” “Diciamo che mi accontento di essere una donna con dei difetti nel senso che la mia casa non è mai in ordine, quando arriva un ospite devo sempre far le corse per sistemare le cose nei cassetti, molte cose non riesco a farle, però una deve anche accettare… Però è una scelta, se uno vuole deve anche sapere che forse non sarà una mamma o forse non sarà un’imprenditrice perfetta perché anche mamma. Quindi in alcuni momenti si devono fare delle scelte.” ma l’equilibrio tra le due sfere di attività è imprenscindibile: “Io quando ho avuto mia figlia, ho avuto mia figlia. Ha influito probabilmente sull’attività ma faccio fatica a discernere perché è un tutt’uno. Per quanto possibile mi organizzo sempre perché se hai un equilibrio in casa c’è anche sul lavoro e viceversa” Il coinvolgimento della rete parentale nella gestione del lavoro di cura, in special modo quello rivolto ai figli, rappresenta una strategia facilitante più di qualsiasi altra più o meno accessibile, quale l’utilizzo di servizi e strutture presenti nel territorio e la collaborazione del marito. Le risorse presenti nella famiglia di origine, ma anche nella famiglia del partner, sono spesso preferite ad altre per affidabilità, sicurezza, flessibilità e anche per l’aspetto economico. “Ho avuto un appoggio essenziale da mia suocera perché è una nonna che gestisce pattinaggio, musica e tutti i trasporti vari e quindi ho anche una certa tranquillità quando sono al lavoro perché so che sono ben appoggiata. Questo mi permette dunque anche di lavorare meglio perché so che mia figlia è in mani sicure. Uno dei problemi che mi ha sconcertata, è sentire parlare mamme di “se fai i figli stai a casa” e invece io sono convinta che la donna sta dove meglio si realizza. Al momento, non so domani o fra dieci anni, però fino ad oggi in famiglia penso di avere una relazione di qualità perché ciò che faccio fuori casa mi soddisfa. Se io non avessi questa soddisfazione probabilmente riverserei anche su mia figlia le mie frustrazioni, le mie angosce eccetera” “In tutte le difficoltà che ho avuto, ho avuto una fortuna, quella di avere la mamma di mio marito che praticamente mi ha allevato i figli” 51 Emerge dalle ultime testimonianze riportate il valore dell’identità professionale delle donne e la consapevolezza dell’esistenza di una distribuzione non equa dei carichi di lavoro familiare all’interno della coppia e della fatica del doppio carico, professionale e familiare che grava sulle donne lavoratrici. Questo stato di cose non conduce tuttavia a forme di rivendicazione bensì a tentativi di giustificare questo stato di cose o comunque ad accettarlo senza metterlo in discussione. Un atteggiamento sufficiente a far ritenere che l’accentramento dei compiti e delle responsabilità operato a livello aziendale venga proiettato anche nella vita familiare. “Ho due bambini, e il terzo è mio marito” “Non è l’attività che ti influenza su sposarsi, perché l’attività è un lavoro normale. Magari con una famiglia avrò meno tempo per me, ma non mi pongo questo problema”. Permane anche per le donne che lavorano ricoprendo ruoli imprenditoriali, caratterizzati dunque dalla necessità di una forte flessibilità soggettiva, una strategia di conciliazione che si avvale principalmente di risorse derivate dalla famiglia. L’obiettivo che si profila in questi racconti è rappresentato dalla compresenza di un vissuto del lavoro gratificante e di una situazione familiare soddisfacente; se si realizza questo disegno, automaticamente si ottiene una completa realizzazione dei propri interessi prioritari. Il sostegno emozionale indispensabile per il conseguimento di questa finalità è ricercato sempre nella famiglia e nel partner: “Anche se non penso sia impossibile per una donna lavorare e avere la propria vita, lo può fare con molta difficoltà. Per una donna c’è la casa, i figli, deve avere sicuramente attorno un ambiente favorevole a questa scelta”. Solo due donne intervistate hanno denunciato di essere state ostacolate dalla famiglia nella loro scelta imprenditoriale, tutte le altre hanno invece potuto godere di un ampio sostegno. La gestione della maternità e l’utilizzo di forme flessibili di orario sono due tematiche strettamente interconnesse. Ma, in generale, la difficoltà di gestire una piccola impresa in presenza di una necessità di astensione dal lavoro per maternità deriva dalla mancanza di una soluzione sia all’interno che all’esterno dell’azienda per la problematicità di una redistribuzione o sostituzione del lavoro svolto dalla futura o neo mamma che dovrebbe nel contempo ricoprire un ruolo di responsabilità. “Allora, cresco e mi sviluppo o cresco la famiglia e restiamo un po’ più piccoli. Nel nostro caso, faremo noi dei part-time, ci inventeremo qualcosa in modo da gestire anche la famiglia, ma questo possiamo farlo perché siamo due socie donne e due sorelle, se ci fosse un altro tipo di società non si potrebbe. So per conoscenza di altre realtà dove c’erano uomini e donne senza vincoli familiari che sono saltate perché le aspettative rispetto al lavoro e alla famiglia non erano uguali, quindi appena è arrivata la famiglia queste società sono saltate. Appena è 52 entrata in campo la famiglia sono saltate, perché ovviamente le aspettative femminili erano diverse dalle aspettative maschili”. La scarsità di soluzioni percorribili è di fatto accentuata anche dalla mancanza di riferimenti a modelli ed esperienze femminili analoghe. Le occasioni di scambio con altre imprenditrici sono rare o inesistenti, eccetto quelle recuperabili ancora una volta nell’ambito familiare. Nel contesto culturale esterno perdura un basso grado di legittimazione sociale della presenza delle donne in ruoli di responsabilità, come raccontano le intervistate: “Perché se all’inizio pensano che sei una dipendente poi si rendono conto che sei la titolare. Cercano sempre il signor …..” “Inizialmente è stato uno svantaggio soprattutto perché eravamo due donne ed eravamo giovani; abbiamo fatto fatica ad essere credibili in questo tipo di lavoro. Poi quando abbiamo ottenuto il rispetto non ha più fatto la differenza essere donne e giovani. Però all’inizio l’essere donna comportava un problema di credibilità” “E’ vero che in certi casi l’uomo può essere più favorito e la donna fatica perché deve dimostrare un po’ di più, però se sa le viene riconosciuto. Quello che ho potuto notare è che sicuramente ci vuole un po’ più di tempo. Meglio andare da chi ha i pantaloni… è una battutaccia retrograda però è il sunto di quello che ho detto prima, cioè bisogna dimostrare un po’ di più a parità di capacità”. Il vantaggio o lo svantaggio che deriva dal fatto di essere donna e responsabile di un’impresa viene comunque percepito in modo molto soggettivo. Le attenzioni ricevute in quanto mercato potenziale vengono in alcuni casi interpretate come lusinghe e omaggi al “carattere deciso” e come riconoscimento di capacità personali e imprenditoriali. E’ ancora abbastanza diffusa l’opinione che l’essere donna o uomo non interferisca con la gestione dell’impresa: “Secondo me non c’è questa differenza, conta il tipo di persona” Indipendentemente dall’età anagrafica delle donne incontrate, alcune di loro hanno sottolineato l’importanza dell’idea da realizzare come elemento condizionante il successo al di là delle differenze di genere. Queste considerazioni vengono più spesso manifestate con l’espressività del viso e dei gesti (le ricercatrici hanno notato alcune facce stranite alla proposta di ragionare sulla eventuale rilevanza delle differenze di genere sull’attività svolta) che non con le parole. Infatti, la tendenza a minimizzare i problemi connessi al genere è stata riscontrata frequentemente in questo tipo di indagini ma nello stesso modo la resistenza ad ammettere l’esistenza di peculiarità maschili e femminili che giocano un ruolo sui punti forti e sulle criticità del lavoro cade nel racconto sulle caratteristiche: “Le donne sono molto più precise, molto più attente, più adatte a questo lavoro però siccome si tratta di un servizio e dobbiamo essere molto flessibili, cioè 53 spesso lavoriamo fino a tardi, da questo punto di vista sono più disponibili gli uomini, perché le donne fanno una scelta di vita verso la famiglia” “Io penso tutto sommato che la donna sia migliore, ha più carattere e più volontà di riuscire, di arrivare dove vuole, anche perché è più penalizzata dell’uomo, con il doppio lavoro, e allora emerge di più la voglia di farcela, il carattere. La donna fa tutto alla fine, se vuole fa tutto, forse perché più caparbia, più capace di fare più cose. Con tanta fatica però… con la costanza nell’impegno in più cose: bisogna essere al lavoro e a casa, sempre” salvo poi “far quadrare i conti”: “Se è più un settore femminile ? Io vedo dalle richieste di lavoro che mi arrivano, che per le donne c’è anche un sogno dietro, la vedono meno come azienda, c’è un’ottica diversa, ma rimane un’azienda, se non quadrano i conti c’è poco da fare”. Qualcuna va oltre e la loro testimonianza si lega al confronto sull’opportunità o meno di valorizzare le peculiarità femminili nell’ottica di produrre modelli di gestione delle imprese non necessariamente omologati a quelli maschili: “Non sono tra quelle che pensano che le donne sono svantaggiate nonostante alcune difficoltà ci siano, ma ci sono, secondo me, a rapportarsi con un modello prettamente maschile … a livello di vertice le donne sono poche e il modello che gli uomini propongono è quello prettamente maschile che cozza non poco con il nostro” “Gli uomini secondo me hanno un modo diverso di lavorare. Perdono molto più tempo a parlarsi addosso, non si ascoltano, d’altro canto hanno molta più voglia di arrivare rispetto a noi, sono molto più ambiziosi. La donna pondera molto di più, bada di più a quello che è l’aspetto umano ed è molto più concreta, cioè la donna fa, l’uomo parla per delle ore, queste riunioni eterne che non finiscono mai e dove tutti ridicono le stesse cose. Lavorare con le donne è molto difficile però se trovi la giusta sintonia, secondo me hai la collaboratrice migliore in assoluto .. c’è un rapporto di fiducia, di intesa di un certo tipo, un poter delegare, demandare con serenità, con tranquillità e un confronto costruttivo, tutte cose molto importanti”. Da un percorso di omologazione iniziale, determinato anche dalla necessità di contrastare un problema di credibilità, si cerca di passare successivamente, quando la sicurezza del proprio ruolo si consolida, ad un percorso di differenziazione. 54 4. La domanda di servizi di supporto alle imprese Dal paragrafo precedente sembra emergere un modo femminile di puntare al risultato; passando alle esigenze emerse su ciò che potrebbe favorire il loro lavoro, questa differenziazione di genere in parte si ritrova e in parte si perde tra i bisogni comuni a tutte le imprese, a prescindere dalla titolarità. Possiamo così riassumere le aspettative imprenditrici sentite in poche macro categorie: e le proposte delle servizi sul territorio di supporto al lavoro di cura “Penso che ci vorrebbero più asili ma non a prezzi così alti che devo scegliere di stare a casa perché mi costa meno che andare a lavorare” “Qui in zona esistono delle strutture anche private che si occupano di infanzia e in questo senso aiutano chi ha una famiglia. Di positivo quando una donna ha un’attività propria è che può portarsi il bambino al lavoro e forse è più facile gestire entrambe le cose anche come orari, anzi soprattutto come orari perché li puoi decidere in prima persona”. La domanda di servizi sul territorio è quasi del tutto incentrata sui servizi all’infanzia. E’ forse inadeguato definire questa domanda molto forte, proprio perché, come precedentemente evidenziato, la disponibilità familiare ha spento in molti casi l’intensità del bisogno, ma d’altra parte emerge al primo posto tra le esigenze. Le strutture esistenti sono numericamente insufficienti a fornire una risposta adeguata ai bisogni e la domanda punta molto alla qualità dei servizi offerti e alla differenziazione delle tipologie e/o degli orari di servizio; agevolazioni economiche Molto sentita è la difficoltà a reperire finanziamenti, e ciò riguarda trasversalmente le imprese in fase di espansione e le imprese in fase di stasi o di difficoltà: “Se ci fossero stati dei finanziamenti più agevolati sicuramente sarebbe stato più facile, ma anche adesso ci sono continui investimenti da fare per rimare concorrenziali. Abbiamo colto l’opportunità in questo senso data dai finanziamenti per l’imprenditoria femminile e senza dubbio ci è servito perché abbiamo fatto molta fatica a trovare chi ci desse credibilità, fiducia e quindi soldi per investimenti” 55 “Mancano delle agevolazioni concrete. Servirebbe un’attenzione maggiore verso le piccole imprese” e non è solo la mancanza di opportunità ad essere sentita (a volte sconosciuta) ma anche l’impatto al loro accesso: “Pensare anche ai finanziamenti per l’imprenditoria non è così fattibile, sono cose lunghe e complicate, vai avanti anni. Si ha bisogno nell’immediato non dopo mesi e mesi” “Vuoi fare degli investimenti e vuoi chiedere dei fondi, c’è una prassi che non finisce più, e poi devi aspettare..” La burocrazie è quindi ritenuta eccessiva e crea intoppi a tutti i livelli. Ma le agevolazioni richieste non riguardano solo la possibilità di ottenere finanziamenti e investono a tutto campo la vita dell’impresa e di chi in essa lavora: “Le donne di oggi, non di 10 anni fa, adesso vorrebbero lavorare e con soddisfazione non solo per lo stipendio a fine mese. Se ci fossero aiuti nel creare questo tipo di lavoro, che dà soddisfazione e consente di portare avanti la famiglia … penso ad esempio al part-time. Un part-time viene a costare molto ad un’azienda. Non ci sono agevolazioni, non ci sono strutture che aiutino la donna a lavorare. Anzi vengono penalizzate e vengono penalizzate anche le imprenditrici perché ricordo che mia sorella l’asilo nido lo pagava uno sproposito anche quando siamo partite da zero e quindi non c’era reddito in azienda, però per principio, siccome non era una dipendente, lei pagava una retta superiore pur non vedendo lo stipendio a fine mese. Non ci sono aiuti e strutture adeguate”; servizi informativi aspiranti tali per imprenditrici, neo imprenditrici e “Io penso che ci dovrebbero essere degli incentivi per i giovani che vogliono avvicinarsi a queste attività commerciali che sono esperienze belle. Manca l’informazione su tutti i tipi di forme di aiuto per una persona che apre un’attività” e nel rapporto con le istituzioni si lamenta una mancanza di cura e di attenzione alle esigenze dell’imprenditoria: “Gli Enti Pubblici sembrano quasi staccati, distanti; non si sa neanche a chi rivolgersi esattamente, sembra quasi un muro. Ci aspettiamo un comportamento al servizio del cittadino”. La disinformazione sulle opportunità derivanti da norme che hanno la finalità di aiutare lo sviluppo delle piccola imprenditorialità e di superare le difficoltà dell’accesso al credito è molto diffusa. La scarsa propensione delle imprenditrici intervistate ad entrare in contatto con organismi e luoghi in cui circolano queste informazioni è in parte confermata da alcuni dati emersi nell’indagine. Nessuna delle intervistate ha mai cercato o fatto ricorso a servizi di orientamento nella fase di preparazione all’avvio dell’impresa. Circa il 50% delle imprese aderisce ad un associazione di settore o datoriale, il restante 56 50% non ha interesse ad associarsi. La figura consulenziale imprescindibile è quella del commercialista che nella maggioranza dei casi ha rivestito un predominante ruolo di supporto nella fase di avvio dell’impresa e continua ad essere una figura di riferimento importante, e talvolta unica, nel reperimento di informazioni sulle norme e sulle novità che riguardano l’attività aziendale. Ma questo stato di cose appartiene solo alla visione delle imprese, non certo all’attribuzione della professione; non deve pertanto stupire né il funzionamento né l’aspettativa: “Abbiamo avuto accesso ai finanziamenti sull’imprenditoria femminile, è stata un’opportunità che abbiamo colto per caso. Noi abbiamo raccolto le informazioni iniziali e le abbiamo passate a dei consulenti e così sono partite le cose. Queste cose secondo me dovrebbero svolgersi al contrario; le opportunità ci sono e noi le sfruttiamo poco” “Però che sia stata l’associazione di propria iniziativa a darmi queste informazioni non è ancora successo. Sarebbe utile che il servizio lavorasse anche in questo senso”. Rimane il bisogno di superare l’isolamento delle donne che fronteggiano le difficoltà derivanti dal loro tipo di attività e la loro richiesta di rendere più accessibili le informazioni. 57 Conclusioni Nella realtà economica veneta, i livelli di partecipazione al mercato del lavoro e i tassi di occupazione femminili sono tra i più elevati d’Italia. Il mercato del lavoro femminile nel Veneto non presenta tanto il problema dell’accesso delle donne al mercato del lavoro, quanto soprattutto la questione della loro permanenza o del loro rientro al suo interno. Per le donne rimane, infatti, più marcata l’esistenza di un’area grigia di lavoro che solitamente gli uomini sperimentano come stadio iniziale di ingresso nel mondo del lavoro, mentre per le donne rischia di rimanere una condizione duratura che finisce per strutturarsi in una permanente divisione tra lavoro di cura e occupazione precaria. La questione della conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di lavoro di cura si pone pertanto con forza e rimanda generalmente all’immagine di una donna divisa tra lavoro, bimbi piccoli, orari di servizi impossibili e partner poco collaborativi. L’indagine realizzata ha però analizzato uno specifico target di donne, le imprenditrici, ha cioè cercato di contestualizzare il fenomeno dell’imprenditorialità femminile nella provincia di Venezia, che si inserisce in un tessuto imprenditoriale come quello italiano notoriamente polverizzato in una miriade di piccole imprese. Secondo dati riferiti all’anno 2001, le imprenditrici veneziane sono il 16% del totale delle imprenditrici presenti nella regione Veneto, dove peraltro le lavoratrici indipendenti rappresentano il 20% del totale delle lavoratrici. Il ruolo di responsabilità sostenuto da queste donne comporta l’utilizzo di modalità e strategie di azione parzialmente distinguibili rispetto ad altre categorie di donne lavoratrici. La maggior parte delle donne intervistate ha avuto precedenti esperienze lavorative prima di avviare l’impresa e dunque l’autoimprenditorialità sembra essere una scelta di vita e le responsabilità che comporta fanno parte di un percorso che non coinvolge solo la sfera lavorativa. L’autoimprenditorialità corrisponde in alcuni casi ad una facilitazione alla conciliazione, episodi svelati da chi ha già sperimentato questa possibilità di mediazione. Viceversa, le donne più giovani del campione non riconoscono una relazione tra autonomia del lavoro imprenditoriale e migliore conciliazione, e spesso il loro immaginario sottolinea il contrario. In generale, emerge con chiarezza che c’è un prezzo da pagare nel momento in cui una donna imprenditrice decide di formare o allargare una famiglia. E il prezzo è espresso, in termini professionali, come freno o 58 ostacolo al possibile investimento aziendale, ma anche in termini personali, di fatica, rinuncia e delusione di alcune aspettative degli altri membri della famiglia. E’ evidente a questo punto il ruolo, e la percezione di esso, delle scelte professionali nelle strategie di vita ma, in parallelo, le donne esprimono una sempre minore disponibilità a lasciare che le esigenze lavorative e di carriera dettino i termini della loro vita privata e affettiva. Emerge così un quadro di insieme costituito da una categoria di donne piuttosto disomogenea, per le differenze di età e di opportunità di ricorso a sostegni nell’ambito della famiglia di origine, riguardo al vissuto personale, ma in ogni caso consapevole della gravosità della doppia presenza nell’impegnativa sfera professionale e nella sfera extraprofessionale in cui il carico di lavoro risulta tuttavia affettivamente importante. Occupare una posizione lavorativa gratificante comporta inoltre uno scontro costante e pressoché invariato negli anni con l’immaginario sociale e con una realtà professionale impregnata di modelli maschili che riconoscono poco spazio e valore alla diversità femminile. Le difficoltà dichiarate dalle donne che hanno creato e che gestiscono una propria impresa, sia nell’ambito di questa indagine che in altri studi esaminati, riguardano la complessità delle adempienze connesse all’avvio dell’impresa, i problemi finanziari, la difficoltà a reperire risorse umane e i problemi legati alla doppia presenza. Considerando i risultati della ricerca realizzata, si può concludere che diverse sono le aree di intervento possibili ma che è opportuno parlare di politiche attive e non solo di servizi di supporto all’imprenditoria femminile. Le seguenti aree riassumono i focus degli interventi auspicabili: 1) L’informazione 2) Le agevolazioni 3) La formazione 4) La conciliazione lavoro-famiglia 5) L’organizzazione del lavoro 6) Le strutture di supporto al lavoro di cura 1) L’informazione è riferita alle norme, alle fonti di finanziamento, alle caratteristiche del mercato in cui si opera, all’offerta formativa esistente, ma, ancora più importante è l’informazione sulle modalità di accesso alle opportunità offerte in questi ambiti. 59 Le imprenditrici sono spesso isolate, non entrano facilmente in contatto tra loro e con organizzazioni in cui è possibile un confronto delle esperienze e delle problematiche fronteggiate. La loro fiducia è riposta spesso solo sui familiari e sul consulente che segue gli aspetti fiscali e del lavoro dell’azienda. I servizi di orientamento sono sconosciuti. I servizi di informazione non devono pertanto essere solamente erogati da appositi sportelli ma “raggiungere” le loro destinatarie. 2) Le agevolazioni finanziarie rientrano tra le attività di supporto alle imprese da un lato più richieste dalle aspiranti imprenditrici e dall’altro più facilmente ritrovabili nelle leggi emanate in materia di sostegno alla creazione di impresa. E’ cioè chiaro per tutti che l’accesso alla disponibilità di risorse finanziarie è determinante per lo sviluppo delle imprese, e lo è in modo particolare per le imprese di piccole e piccolissime dimensioni. Progetti volti a facilitare l’accesso delle imprenditrici alle fonti di finanziamento, creando disponibilità finanziarie a condizioni praticabili, sono pertanto da promuovere. In questa direzione di inserisce il protocollo di intesa per agevolare l’accesso al credito delle imprese femminili, stipulato nell’anno 2002 tra la Camera di Commercio, Industria, Agricoltura e Artigianato della Provincia di Venezia, su proposta del Comitato per la Promozione dell’Imprenditoria Femminile, le principali associazioni di categoria, alcuni consorzi di garanzia collettiva fidi e nove istituti di credito. Va tuttavia rimarcato che questa forma di sostegno non può prescindere dalla simultanea promozione di servizi di informazione e assistenza alle imprenditrici. 3) Gli interventi formativi, ritenuti importanti dal nostro target di riferimento, non sono sempre adeguati e/o accessibili. La domanda potenziale sarebbe rivolta a percorsi di formazione sullo sviluppo dell’impresa, nei diversi aspetti, e sulla valorizzazione del ruolo imprenditoriale ma due sono gli ostacoli principali all’espressione di una reale richiesta di formazione. L’impegno lavorativo che non concede quasi mai il tempo necessario da destinare alla frequenza di un percorso formativo e la resistenza ad investire in formazione in un contesto come quello descritto dall’indagine in cui le risorse per qualsiasi tipo di investimento sono scarse. Offrire un supporto alle aziende femminili in materia di formazione significa quindi ovviare a questi limiti, da una parte con modalità di erogazione della formazione flessibili e tarati sull’effettiva disponibilità di 60 tempo delle potenziali partecipanti ai percorsi, dall’altra con modalità di sostegno all’autofinanziamento dei corsi da parte delle imprese. Infine, la progettazione delle tematiche da trattare non può prescindere dalla considerazione della diversità delle situazioni imprenditoriali e aziendali, fattore determinante nella elaborazione delle esigenze formative. 4) La conciliazione tra lavoro e famiglia è tuttora la ricerca di un difficile equilibrio tra tempi, esigenze e impegni diversi. Le politiche positive per la conciliazione potrebbero: - cercare il superamento del loro limite principale, ovvero l’essere centrate su un sistema di diritti applicabili solo a determinate categorie di lavoratrici; - aiutare a fare emergere e a fare riconoscere la responsabilità nella sfera riproduttiva, intaccando la strategia che spinge le donne italiane a fare meno figli per riuscire a rimanere sul mercato del lavoro; - utilizzare le politiche per la famiglia per ridimensionare la dipendenza dei singoli individui all’interno della stessa. Tale bisogno è attualmente in contrasto con il processo di ripensamento del welfare che chiama sempre più in causa la famiglia come soggetto responsabile di interventi assistenziali verso i suoi membri, perpetuando l’attuale stato delle cose nel quale si delinea una nuova forma di disuguaglianza, tra chi dispone o non dispone di una famiglia in grado di supportarlo; - promuovere il cambiamento culturale indispensabile a scardinare il modello consolidato di distribuzione degli impegni familiari e di cura che continua a gravare sulle donne/madri anziché su entrambi i partner/genitori. 5) Dal punto precedente discende che ritematizzare la questione del doppio ruolo o della doppia presenza può rappresentare anche lo strumento utilizzabile al fine di superare la difficoltà delle organizzazioni, anche quelle istituzionali, di rinnovarsi di fronte alla sempre più massiccia presenza delle donne sul mercato del lavoro. Gli strumenti di organizzazione e di gestione del lavoro vanno ripensati anche sulle diversità di genere. In particolare i modelli organizzativi delle imprese create e gestite da donne, che abbiamo riscontrato corrispondere anche ad imprese con una prevalenza femminile tra gli addetti, possono e dovrebbero sperimentare soluzioni solitamente ignorate nei modelli tradizionalmente maschili per via delle diversità ormai accertate nelle caratteristiche personali e nelle problematiche da fronteggiare che il genere comporta. L’elemento differenziante può diventare vincente solo in nuove soluzioni volte a ridisegnare la gestione e 61 la distribuzione dei tempi e delle responsabilità, sfruttando come opportunità (e non subendo come limite) la piccola dimensione dell’impresa, la capacità di mediazione, l’attenzione alla relazione, la creatività e la flessibilità di chi la dirige. 6) Come ultimo punto, ritorna l’ormai nota e problematica questione delle strutture di supporto al lavoro di cura, in primo luogo asili nido. La questione è intenzionalmente lasciata in coda, sia perché si tratta di un’esigenza trasversale alle diverse tipologie di lavoratrici, sia perché onnipresente nei dibattiti politici degli ultimi anni in materia di pari opportunità. In questa sede è quindi opportuno sottolineare che l’accesso ai servizi per l’infanzia rappresenta generalmente un aspetto problematico per la scarsa disponibilità di questi strutture in rapporto alla domanda, ma l’essere mamma-imprenditrice costituisce un ulteriore elemento di penalizzazione nelle graduatorie basate sul reddito e sulla condizione lavorativa della madre. Inoltre gli orari dei servizi sono tendenzialmente rigidi e pensati per un’utenza di lavoratori con orari standard, di conseguenza poco idonei a soddisfare i bisogni di chi ha un’organizzazione del lavoro più articolata in relazione al carico di responsabilità. In conclusione, puntare sullo sviluppo della piccola imprenditorialità femminile significa: - in primo luogo, accettare che una soluzione vincente per un gruppo di piccole imprese non può essere tale in un altro contesto, poiché molteplici sono le variabili che determinano il bisogno, variabili relative alle caratteristiche socio-culturali dell’imprenditrice, alla tipologia del settore economico di appartenenza e al contesto di mercato, alla fase del ciclo di vita dell’impresa, alle risorse umane che vi lavorano e al clima relazionale interno, nonché al sistema di valori del territorio di riferimento; - in secondo luogo, mirare a coniugare l’efficienza lavorativa con la qualità della vita dell’imprenditrice, principio valido in ogni contesto lavorativo ma ancor più positivo per una tipologia di lavoratrici che, come si è visto, tende ad identificarsi con la propria azienda, unendo inscindibilmente la sfera professionale a quella privata e familiare. 62