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Goldrake, Lupin III, Holly e Benji valgono il 10% del Pil del Sol Levante - Il Sole 24 ORE
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Argomenti: Pil | Guido Tavassi | Giappone | Italia 1 |
Go Nagai | Hayao Miyazaki | Leiji Matsumoto | Eggià |
Yumiko Igarashi
di Francesco Prisco Cronologia articolo 10 gennaio 2012 Commenti (2)
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In principio fu Goldrake. Dietro di lui, tutta la schiera dei
super robot, e qualche mielosa concessione al feuilleton con
«Candy Candy». Poi vennero i colpi gobbi di Lupin III, un po'
noir un po' eroticomici, le improbabili gesta atletiche dei vari
Holly e Benji o Mila e Shiro, gli scenari post atomici di «Ken
il Guerriero».
Quelli che parlano bene li chiamano «anime», per tutti gli
altri sono i cartoni animati giapponesi. Su un assunto
nessuno potrà dissentire: rappresentano parte imprescindibile dell'immaginario
collettivo della generazione dei trenta­quarantenni. Che a quanto parte sta determinando
il successo di «Storia dell'animazione giapponese. Autori, arte, industria, successo dal
1917 a oggi», monumentale saggio che Guido Tavassi ha pubblicato per Tunué (euro 24,
pp. 608): la prima edizione si avvia all'esaurimento, mentre per febbraio si attende l'e­
book. Un'opera scientifica, buona per chi intende compiere il grande salto dalle vaghe
memorie infantili e dalle passioni adolescenziali alla piena consapevolezza del fenomeno.
Che è innanzitutto economico: «Se consideriamo l'intera filiera – spiega Tavassi – che
parte dalla produzione delle serie e arriva al merchandising, in Giappone l'animazione
vale il 10% del Pil. Stiamo di fatto parlando del terzo comparto dell'economia nipponica.
Un fenomeno in larga parte commerciale che nasce comunque dall'arte». Un'arte che,
dall'impero del Sole Levante, ha fatto proseliti in giro per il mondo.
Perché il Giappone? Nessun dubbio sul fatto che lo Stato asiatico stia
Cartoni animati giapponesi
all'animazione come gli Usa stanno al cinema: laggiù ci sono i
primi produttori e consumatori del genere, c'è quello che
potremmo definire uno «star system», c'è un pubblico
competente e ci sono titoli che escono nelle sale
cinematografiche raccogliendo più spettatori dei film con
attori in carne e ossa. Perché proprio laggiù? «La risposta –
spiega Tavassi – va probabilmente ricercata nel profondo
radicamento che il racconto per immagini ha nella cultura
giapponese. Basti considerare gli emakimono, rotoli illustrati del decimo secolo
attraverso i quali si dipanava una storia, e i kamishibai diffusissimi a partire dal
dodicesimo secolo, la cui arte non era molto distante da quella dei cantastorie
occidentali. Senza contare che la stessa scrittura per ideogrammi – continua l'autore – è
parente stretta del disegno».
Perché l'Italia? Ancora meno dubbi a proposito del successo dell'animazione giapponese in Italia: «Negli
anni Settanta – spiega Tavassi – qui da noi era l'epoca delle televisioni private. Si
moltiplicavano gli spazi di trasmissione e vennero in larga parte riempiti da queste
produzioni importate a basso costo dal Giappone». Fu un successo imprevisto e
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di Marzia Corraini
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imprevedibile che inaugurò un filone destinato a durare per tutti gli anni Ottanta. «Il big
bang – racconta lo studioso ­ fu Goldrake che aprì le porte al genere super robot. Sui
banchi di scuola ogni giorno si finiva inevitabilmente per parlare della puntata del
pomeriggio precedente». Di lì a poco avrebbero varcato gli italici confini pure i vari
Mazinga e Jeeg che portavano la firma dello stesso maestro Go Nagai. Con tutte le
polemiche a proposito della presunta «violenza» dei loro plot. «Ma alla base – dice
Tavassi – c'era un equivoco: quelli non erano prodotti destinati a un pubblico per
bambini». Non lo era neanche «Georgie» di Yumiko Igarashi, che addirittura «raccontava
di torbidi amori adolescenziali con risvolti incestuosi». Da noi lo trasmise Italia 1 nell'84,
sforbiciando le scene più piccanti.
Non è roba per ragazzini Eggià: in Giappone l'animazione commerciale serve un pubblico di tutte le età e percorre
tutti i generi, horror ed erotismo compresi. «Qui da noi – continua Tavassi – arrivarono
tra le trecento e le quattrocento serie. Importammo di tutto». Compreso qualche
capolavoro: chi ricorda, per esempio, «Kyashan il ragazzo androide» di Tatsuo Yoshida o
«Capitan Harlock» di Leiji Matsumoto sa a cosa ci si riferisce. Capolavoro era anche la
prima serie di Lupin III, «un personaggio – prosegue lo studioso – dalla vicenda
affascinante: nasce nel '67 come manga di Monkey Punch in perfetto stile Nouvelle Vague.
La prima serie televisiva del '71, cui collabora anche il grande Hayao Miyazaki, ha molto
di quelle suggestioni: incrocia il noir, l'erotismo e qualche concessione comica. Le
successive serie andranno sempre di più verso quest'ultima direzione. Più commerciale
lontana dal Lupin originario». Che non è roba per ragazzini.
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All'appello ne mancano parecchi e aggiungerei anche la generazione dai 20 ai 30, un esempio
Galaxy express. Purtroppo l'Italia ha sempre rovinato questi grandi anime (parte del merito al
MOIGE'), basti pensare ad alcune traduzioni dei titoli del tutto fantasiose (Slayer in un ridicolo
Un incantesimo dischiuso tra i petali del tempo ). Per fortuna oggi ci sono altre emittenti che
preferiscono mandar le serie intagrali e senza censure, oppure tramite internet ci si può godere
le serie in lingua originale con i sottotitoli. Ci sono serie così longeve da far concorrenza a certe
scarse Soap italiane.
zafyr87
11 gennaio 2013 14.19.22
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bei tempi quando i cartoni animati erano intelligenti, innovativi, graffianti... le mitiche partite
interminabili di Holly e Benji allietavano i pomeriggi dei bambini ora trentenni e quarantenni!!!
quanti giocando a calcio non hanno mai provato a fare i tiri alla Holly??? anche se manca
l'Uomo Tigre all'appello però...
folle83
10 gennaio 2013 15.52.50
Mi piace (1)
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